Dalla parte degli esclusi

A mezzogiorno le strade di Camaçari sono ancora deserte. La gente sta sbadigliando tra le lenzuola, mentre qualche netturbino toglie dal marciapiede i resti dei fuochi accesi davanti alle abitazioni durante la notte di follie. È la festa di São João. A fine giugno tutto il popolo di Bahia perde la testa.
Importata dai portoghesi, originariamente mescolava il culto dei santi cattolici con quello della dea delle coltivazioni Feronia, cara ai Romani. Ma adesso è completamente diventata bahiana: un’occasione per scatenarsi con il ballo del forró e sparare tutta la notte mortaretti e fuochi d’artificio.
Un uomo apre lentamente il suo chiosco di dolciumi, ha ancora la testa stordita da tutta la birra bevuta. Dal negozio di pompe funebri, con le porte spalancate sulla via, esce il canto di una radiolina. Una fuoriserie fiammeggiante supera svogliata un uomo a cavallo e nell’aria, all’ora di pranzo, l’unica cosa che vibra è la voce roboante del predicatore della «chiesa universale», una delle tante congregazioni d’affari spirituali, sorte negli ultimi decenni ad opera di sedicenti vescovi ricchi e potenti, con l’appoggio, si dice, degli americani, per contrastare la forza sociale della chiesa cattolica brasiliana.
Il predicatore per tutta la notte si è sgolato contro il diabolico forró, che trascina i giovani sulla cattiva strada dei mille peccati, consumati nel grande spettacolo musicale, offerto dal sindaco che, per farsi rieleggere, «ha stipulato un patto con il popolo e con la verità», come si legge sul cartellone pubblicitario.

M a la città non è solo festa. Qui funziona un grande polo petrolchimico e la Ford ci ha costruito uno stabilimento. Tra le ciminiere fumanti svetta anche l’insegna della Monsanto, l’azienda americana di prodotti per l’agricoltura, redarguita dal governo italiano per aver importato illegalmente partite di semi di soia geneticamente modificati.
A prima vista, Camaçari si direbbe una cittadina sviluppata, per via delle industrie; invece solo pochi raggiungono un salario minimo e sono i tecnici altamente specializzati; per tutti gli altri, la manovalanza, lo stipendio è misero a fronte, per di più, di un lavoro pericoloso, logorante e non protetto dai sindacati.
Si viene a creare dunque una situazione di estrema disuguaglianza. Le imprese moltiplicano i loro guadagni mentre un terzo della popolazione vive in condizioni precarie, minacciata dalla disoccupazione, e il rischio della perdita di dignità, come persone e come cittadini, perpetua lo sfruttamento che fa del Nord-Est una delle regioni più arretrate del paese.
In questa difficile situazione socio-economica, i più colpiti sono i bambini. Non solo perché più esposti alle malattie respiratorie, provocate dall’inquinamento delle industrie chimiche, ma soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, vivono soli accanto alla madre, talvolta con un padre adottivo, che declina le proprie responsabilità di educatore.
Tale stato permanente di instabilità mina gli stessi rapporti umani, a volte inquinati da violenza e alcol, e spinge sempre più persone verso gli strati più bassi della società.
Q uando don Paolo arrivò a Camaçari si mise subito a lavorare con gli esclusi, come aveva fatto a Saõ Salvador, dove aveva difeso dalla prepotenza di politici e poliziotti il diritto alla casa di tante famiglie costrette a invadere terreni su cui costruire abitazioni fatiscenti.
Nei suoi 30 anni brasiliani, la pastorale di don Paolo è stata sempre rivolta a quelli che non hanno voce, quelli che si devono accontentare delle briciole, che tuttavia incarnano una protesta non-violenta, una innata rivendicazione affinché la storia umana possa voltare pagina.
Oggi il «fischietto», ossia Apito, l’associazione a lui dedicata, è una colorata scuola matea, un ambiente pedagogico creativo e mirato alla formazione dei bambini in sintonia con i loro genitori, ed è inoltre un progetto di accompagnamento di famiglie bisognose, non solo di beni materiali, ma anche di una nuova coscienza.
Le 50 donne volontarie che fanno parte del progetto si riuniscono frequentemente per organizzare visite a domicilio, monitorare i casi d’indigenza e realizzare attività manuali e artistiche che coinvolgono le famiglie nella ricerca di una più forte autostima e di una piena consapevolezza dei propri diritti politici e umani.
Applicarsi nella produzione di medicine alternative o di cibi naturali sfruttando la saggezza popolare diventa un mezzo efficace per far emergere capacità che la miseria e l’ignoranza tendono a oscurare.
La fantasia e la calda solidarietà di queste volontarie sono i veri strumenti civili per far alzare la testa a chi l’ha sempre tenuta tra le ginocchia. Tra di loro si avverte sempre un clima giornioso, perché nessuno giudica l’altro, perché si è allegri con semplicità, si va dritti al centro delle emozioni accettando quello che viene oggi.

Intanto il giorno si è fatto caldo. Mezzogiorno è passato e il fumo dei fuochi ormai si è del tutto diradato, sebbene in lontananza si senta qualche piccola esplosione.
In mezzo al traffico un ragazzo spinge un carretto pieno di cappelli di paglia che nasconde uno stereo e scuote la testa al ritmo della musica distorta che buca le casse.
Sembra che all’improvviso debba accadere qualcosa di sconvolgente. Alcuni dicono che non succederà mai nulla. Altri hanno speranza.

BOX 1

Trenta anni nella Bahia

Paolo Maria Tonucci nacque a Fano il 4 maggio 1939. Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1962. Ottenuto il permesso di partire come missionario, arrivò in Brasile alla fine del 1965 e fu destinato alla parrocchia di Nossa Senhora de Guadalupe, nella città di São Salvador de Bahia. Vi lavorò per 15 anni insieme ad altri sacerdoti, per lo più provenienti dalla diocesi di Firenze.
Nella distribuzione delle responsabilità, don Paolo si dedicò soprattutto al quartiere di Fazenda Grande, dove stabilì la propria residenza, in una stanza dietro la cappella. Qui istituì la scuola professionale Primero de mayo, per la formazione di giovani tecnici e l’alfabetizzazione degli adulti. Fu tra i fondatori e poi il responsabile della Commissione diocesana Giustizia e Pace, per lo studio delle situazioni di ingiustizia e la difesa dei diritti umani.

Nel 1981, don Paolo lasciò la città di Salvador e si trasferì a 40 chilometri di distanza, nella cittadina di Camaçari, divenendone parroco. Con lo scopo di essere più vicino al popolo, per due volte don Paolo chiese la cittadinanza brasiliana, prima durante la dittatura militare (1964-1985), poi in tempo di democrazia. Gli fu sempre negata «per indegnità», in quanto negli archivi della polizia erano segnalati i suoi interventi in difesa dei senzatetto, proditoriamente sloggiati dalle loro baracche proprio dalle forze dell’ordine.
Il 19 ottobre 1992 il comune di Fano gli assegnò il premio «Fortuna d’oro», con la seguente motivazione: «Al missionario Paolo Maria Tonucci, per la sua attività umanitaria e spirituale a favore delle popolazioni povere del lontano Brasile e per aver saputo coraggiosamente lottare contro gli ostacoli e le incomprensioni di una dittatura militare».
Nell’agosto 1993 gli fu diagnosticato un tumore al cervello. A nulla valsero gli immediati ricoveri in Italia. Morì il 9 ottobre 1994 e fu sepolto a Fano.

Esattamente 10 anni dopo, contemporaneamente a Camaçari e a Fano, si sono svolte manifestazioni e incontri per commemorare il suo impegno di testimone del vangelo nel rispetto pieno della dignità umana.
Per l’ardore con cui lottò fino agli ultimi giorni a fianco dei diseredati, don Paolo è rimasto per sempre nei cuori dei brasiliani e di quanti, in Italia, lo hanno conosciuto. Coloro che hanno collaborato e vissuto con lui hanno dato continuità alla sua opera, costituendo due associazioni a lui intitolate in patria e in Brasile.
In Italia, il 5 dicembre 1996, fu costituita l’Associazione «Centro scuola don Paolo Tonucci» Onlus, con lo scopo di sostenere iniziative di promozione cristiana, umana e sociale delle persone più svantaggiate di Camaçari.
A Camaçari è nata l’Associazione Paolo Tonucci «Apito» (in brasiliano significa fischietto), che ha attivato diversi programmi sociali:
Fami-Apito si occupa delle circa 260 famiglie bisognose.
Centro-Apito attua programmi di educazione per l’infanzia, di cui usufruiscono 140 bambini dai 3 ai 6 anni.
Eco-Apito ha programmi di complemento scolastico per 120 ragazzi da 7 a 12 anni.
Arte-Apito è un biennio professionale per circa 80 giovani sopra i 14 anni.


Paolo Brunacci




Convertirsi al Vangelo

Annunciare Cristo in un mondo globalizzato, complesso e in continua evoluzione, costringe la chiesa a interrogarsi sulla natura della propria missione. Soprattutto impegna a un rinnovamento costante, ritornando alla radicalità evangelica.

Assumere l’oggi di Dio come spazio della missione significa accettare il nostro tempo, in tutta la sua ampiezza e profondità, complessità e drammaticità, come il luogo che Dio ci dà per l’annuncio del vangelo e l’edificazione del regno. «La missione oggi» è tutto ciò a cui siamo chiamati come uomini e come cristiani nel mondo.
Il tema è estremamente ampio e dinamico; per cui mi limito a formulare alcune domande, che la situazione e una più profonda riflessione sulla parola di Dio impongono.

ESISTE UN’UNICA MISSIONE?
Se «la chiesa che vive nel tempo è per sua natura tutta missionaria» (Ad gentes 2), è chiaro che ovunque c’è chiesa c’è missione. Ma è la stessa missione ovunque?
Oggi, anche l’Europa è terra di missione, ma essa è del tutto diversa da quella che i missionari svolgono in Asia, in Africa o in alcune parti dell’Oceania.
Guardiamo alle peculiarità della missione, nel suo concreto svolgimento: nei paesi musulmani vediamo una missione nella debolezza, nel silenzio e nel nascondimento, che ha poco in comune con la missione in Africa centrale o in alcuni ambienti tribali dell’Asia.
Se guardiamo alla missione nei paesi cattolici dell’America Latina, vediamo prospettive e problemi del tutto diversi da quelli che la missione affronta in India o in altri grandi paesi a maggioranza indù, buddista, shintornista.
La domanda diventa ancora più necessaria se si passa dal piano spaziale-geografico, a quello storico-temporale: che cosa ha in comune la missione di quegli «inviati apostolici» dei secoli scorsi con i missionari di oggi? I primi avevano come scopo la salvezza delle anime attraverso il battesimo: anime che venivano quasi strappate dal proprio popolo e dalla propria cultura, talora anche dagli affetti familiari, per essere «incorporate» in una nuova entità sovrumana come la chiesa, nella quale sola si riteneva risiedesse la salvezza.
Tanti missionari di oggi vogliono, attraverso il vangelo, difendere la dignità e l’integrità delle persone e dei popoli, delle loro culture e sistemi di vita, sottraendoli all’imperialismo economico, politico, militare e culturale dell’Occidente, e pensano alla chiesa più come segno e strumento di salvezza che come porto universale e obbligato della stessa salvezza.
Si obietterà che la missione è senza dubbio unica, perché nasce dall’unico mandato di Cristo ai dodici, rappresentanti tutto il popolo di Dio: «Andate in tutto il mondo e annunciate il vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15); ma il Concilio Vaticano ii fa risalire la missione alla Trinità, dicendo che la chiesa trae la propria origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo.
La domanda diventa teologicamente molto intrigante, quando, a partire dalla Trinità, ci si chiede se è unica la missione che nasce dal Padre o sono due? Il testo del Vaticano ii dice: «La chiesa che vive nel tempo per sua natura è missionaria, in quanto è dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo che essa, secondo il piano di Dio Padre, deriva la propria origine» (Ad gentes 2). Non si dice dalla missione del Figlio e dello Spirito Santo, ma «dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo (nel testo originale latino: ex missione Filii missioneque Spiritus Sancti).
Senz’altro due sono i protagonisti: il Cristo e lo Spirito (cfr. Lumen gentium 3 e 4; Ad gentes 3 e 4). Nella Redemptoris missio il problema viene affrontato in maniera «difensiva», dicendo che «quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per opera dello Spirito, per operare lui, uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale» (RM 29). E ancora che «l’azione universale dello Spirito non va separata dall’azione peculiare che egli svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa» (RM 29).
Ciò non toglie che la missione, la quale fa capo al mandato di Cristo come proclamazione del vangelo, sia diversa dalla missione che lo Spirito svolge nella storia, servendosi non sempre e non solo della chiesa e dei suoi strumenti, per salvare, in modi misteriosi, ma reali, come dice lo stesso Concilio (LG 16; GS 22; AG 7) e come ripete la Redemptoris missio (10), quanti mai in questa vita potranno passare attraverso la fede esplicita nel vangelo e l’appartenenza alla chiesa visibile.
Questo ci introduce a una seconda domanda, molto impegnativa.

LE ALTRE RELIGIONI HANNO UNA MISSIONE?
Lo Spirito Santo agisce nel mondo, non solo mediante la chiesa e la sua azione, che pure egli suscita e sospinge, ma anche attraverso altre persone e istituzioni che si muovono, sia pure inconsapevolmente, nella prospettiva del regno di Dio. È quindi legittimo chiedersi: anche le altre religioni hanno una missione nei confronti dell’umanità? Se sì, questa loro missione è rivolta anche a noi cristiani, alle nostre chiese?
I francesi, che hanno la tendenza a risolvere in felici espressioni verbali problemi teologici molto complessi, parlano di mission de réciprocité o mission réciproque. Perché il dialogo interreligioso sia un vero dialogo, dicono, e quindi si parta da una condizione di parità iniziale, occorre che ognuno dei partner religiosi riconosca la missione dell’altro; cioè, riconosca che l’altro è deputato a conferirgli qualcosa di sé. Missione è dare e ricevere.
In questa ipotesi, avremmo qualche cosa da ascoltare da buddisti, musulmani, shintornisti, confuciani… e dovremmo riconoscere che questo «qualcosa» è il dono che Dio ha concesso e affidato a loro per noi.
Le chiese cristiane devono continuare ad annunciare Gesù Cristo e il suo vangelo, il mistero pasquale nella sua integrità; ma a loro volta devono accogliere la verità custodita nelle altre religioni.
Questa posizione fa scattare due tipi di attenzione: la prima, contro ogni forma di integralismo di chi dice di possedere l’intera verità. È chiaro che ogni religione si sente depositaria della Verità. Per il cristianesimo la Verità è Gesù Cristo stesso: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6; cfr. Gv 1,17-18; 8,31-32).
Ma dobbiamo fare tre notazioni: la prima è che si tratta di una verità «storicizzata». Dio si manifesta in pienezza nella storia di un uomo, che vive e muore dentro la storia e la cultura di un popolo. Dio, così, viene raccontato e non definito. Noterà l’evangelista Giovanni: «Dio nessuno l’ha visto mai. Proprio l’unigenito che è nel seno del Padre, lui ce lo ha manifestato (exeghésato = lo ha tratto fuori, fatto uscire; ma anche: lo ha narrato, raccontato. La Volgata infatti traduce: ipse enarravit).
La seconda notazione è che questa verità è la verità dell’amore, perché il culmine della narrazione di Dio sta proprio nella croce di Cristo, come supremo atto di amore per l’umanità. Non si potrà mai disgiungere la verità di Dio dall’amore di Dio.
La terza notazione si ferma sul fatto che questa verità di Dio in Cristo è ancora nascosta ai nostri occhi, proprio perché gli occhi non sono capaci: «Molte cose ho da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portae il peso (Gv 16,12). Solo lo Spirito Santo ci condurrà lentamente verso la verità tutta intera (cfr. Gv 16,13). Deve esserci in noi la tensione verso quella Verità che è Dio stesso, ma nessuno può dire di possederla e tanto meno usarla come un bastone contro gli altri!
Siamo rimandati al grande principio di Gregorio Magno: «Scriptura cum legente crescit». Benché la sacra scrittura contenga tutta la rivelazione di Dio, questa si fa strada nella mente umana man mano che l’uomo stesso cresce: intellettualmente, spiritualmente, culturalmente.
Il principio si può estendere alla chiesa, formata da tutti noi: «Scriptura cum legente ecclesia crescit». Anche la chiesa deve crescere, sotto l’azione dello Spirito Santo, per penetrare quel tesoro di verità che ha nelle sacre scritture.
E per crescere, la chiesa ha sì bisogno dei grandi santi e grandi teologi, dell’esperienza di fede di tutti i cristiani e del cammino secolare della sua tradizione; ma ha anche bisogno delle altre culture, altre religioni, altre «storie dell’uomo».
Solo quando tutti i popoli avranno dato il contributo della loro sapienza e religiosità, il vangelo di Cristo sarà meglio capito e la «narrazione di Dio» sarà completata.
Capiamo l’importanza di tutto questo nella natura della missione?
Il secondo tipo di attenzione ci porta sul lato opposto all’integralismo e fondamentalismo: il dialogo interreligioso non deve puntare alla riduzione delle varie religioni al loro minimo comune multiplo, a quella cosiddetta religione universale, che nasce come un vestito ritagliato da tante stoffe, con una scelta tutta umana di «pezze buone» e «pezze da buttare».
Alcuni cosiddetti pluralisti, anche in campo cattolico, tendono a questa formula. Uno di essi sosteneva, in un recente saggio, che tra le «pezze da buttare» ci fossero le categorie teologiche della «elezione» e della «incarnazione».

MISSIONE O EVANGELIZZAZIONE?
Questa terza domanda ha un riferimento storico-dottrinale preciso. Nell’esortazione apostolica di Paolo vi Evangelii nuntiandi (1975) la parola missione e derivati sono usati con molta parsimonia, mentre riprendono piede nella Redemptoris missio (1990) di Giovanni Paolo ii.
Questo cambiamento linguistico nasconde una diversa prospettiva o accentuazione. In Paolo vi prevale l’attenzione «agli uomini del nostro tempo», tutti bisognosi, in diverse situazioni, dell’annuncio evangelico. L’evangelizzazione ha come destinatario la chiesa stessa: «Evangelizzatrice, la chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa… Essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore» (EN 15). Fanno seguito i lontani, il mondo scristianizzato, le culture, le religioni, i non credenti, i non praticanti… L’evangelizzazione è vista come un compito complessivo, globale, che si specifica per la diversità di situazioni e soggetti, ma resta necessario per tutti.
In Giovanni Paolo ii prevale invece il concetto dell’andare, con il richiamo ai suoi viaggi, uno dei simboli più evidenti del suo pontificato. «Già all’inizio del mio pontificato ho scelto di viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitudine missionaria; e proprio il contatto diretto con i popoli che ignorano Cristo mi ha reso ancor più convinto dell’urgenza di tale attività, a cui dedico la presente enciclica» (RM 1).
Rimane quindi più marcata la distinzione fra «quelli che restano» e «quelli che partono». Gli istituti missionari riacquistano tutto il loro risalto, anche nel nuovo contesto ecclesiale post-conciliare. Le chiese locali vengono esortate all’invio di religiosi e religiose, sacerdoti e laici.
Quali le conseguenze di una scelta nell’uno o nell’altro senso?
Nel primo caso (Paolo vi) è favorito il «sentirsi tutti missionari», perché ovunque c’è da evangelizzare; ma con il rischio che questa «evangelizzazione diffusa» rimanga nelle intenzioni, perché mancano metodi, mezzi, strutture appropriate.
Nel secondo caso (Giovanni Paolo ii) vengono favorite le vocazioni missionarie specifiche, la proiezione verso l’esterno, con il rischio, però, di far prevalere la visione geografica della missione, rispetto a quella antropologica, e di conservare il modello illusorio ed etnocentrico di un mondo occidentale cristiano, da cui il vangelo parte per altre regioni del globo.
Appare chiaro che, con l’affermarsi della globalizzazione, la prospettiva della evangelizzazione ovunque e sempre, in diversi contesti umani e con diversi approcci, si vada consolidando. È necessario però che la coscienza missionaria non rimanga solo un fatto verbale, che la corresponsabilità missionaria si affermi davvero e sia verificata da scelte concrete di testimonianza, annuncio, promozione umana, diversificate secondo i differenti ambiti. In questa prospettiva nasce la seguente domanda.

CURA PASTORALE,
NUOVA EVANGELIZZAZIONE
MISSIONE AD GENTES:
DISTINZIONI ANCORA VALIDE?
Sembra che già il papa, nel formulare questa distinzione nella Redemptoris missio, avvertisse una certa sua precarietà: «D’altronde i confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è possibile creare fra di esse barriere o compartimenti stagno» (RM 34).
Nella realtà concreta delle nostre comunità cristiane, poi, si è andati verso una certa polarizzazione tra cura pastorale e attività missionaria specifica. Si è creata una certa dicotomia tra chi si interessa prevalentemente della missione ad extra o del Sud del mondo e chi si interessa dei pochi cristiani rimasti. Quella che è rimasta completamente scoperta è la cosiddetta nuova evangelizzazione.
Nella relazione tenuta al Seminario di studio sul tema «L’ad gentes nella vita della chiesa italiana oggi» (Pesaro, 1-6-2004), mons. Dho, vescovo di Alba, vede questi segni nella crescita di missionarietà delle diocesi nel post-concilio:
– l’invio dei fidei donum in forma organica;
– progetti di aiuti vari con relativi gruppi di appoggio in diocesi;
– il ricupero delle forze missionarie religiose oriunde, ma non conosciute né valorizzate sul piano diocesano;
– prime esperienze di seminaristi nostri in missione temporanea;
– visite dei vescovi in loco;
– ristrutturazione degli Uffici missionari diocesani, fino allora piuttosto burocratici, in Centri missionari di animazione e cornordinamento;
– il coinvolgimento di piccole famiglie religiose non espressamente missionarie in progetti diocesani di invio ad gentes nei vari gemellaggi;
– la preparazione e formazione dei primi laici per le missioni diocesane e altre.
Parlando poi di parrocchie, il vescovo dice che manifestano la loro crescita in missionarietà:
– accogliendo le iniziative del Centro diocesano, dalla veglia di preghiera alle campagne di frateità e impegnandosi con rappresentanze parrocchiali o vicariali nel Centro stesso;
– instaurando molti rapporti con i fidei donum non solo delle proprie comunità, ma pure della diocesi;
– ricuperando contatti con i religiosi e missionari oriundi;
– offrendo forze giovani, specie laici, per i progetti diocesani in missione;
– favorendo molto in loco gruppi di sensibilizzazione sui grandi problemi della pace, globalizzazione, accoglienza e integrazione degli immigrati, con iniziative di commercio equo e solidale, banca etica, ecc.
In questi lunghi elenchi non c’è il minimo accenno a una crescita della missionarietà in loco, né a un «ritorno» dell’ad gentes nella pastorale della chiesa locale. Questo rende evidente la dicotomia di cui si è detto sopra. È possibile un’apertura missionaria verso le genti senza un contemporaneo entusiasmo di evangelizzazione nella propria terra?

QUALE MISSIONE NELL’ERA
DELLA GLOBALIZZAZIONE?
Abbiamo avuto questa fortuna: la chiesa ha presagito, profeticamente, la globalizzazione. Ha scritto Karl Rahner: «In un mondo che ancora cerca a tastoni se stesso, il Concilio Vaticano ii è stato germinalmente la prima autornattuazione ufficiale della chiesa in quanto mondiale».
Fin dagli anni ’60, la chiesa è pronta per la globalizzazione. I documenti conciliari parlano ben 17 volte dell’unità del mondo, e non solo sul piano religioso o filosofico (un Padre solo e tutti gli uomini idealmente fratelli!), ma su quella della concreta attuabilità storica. Del resto in due encicliche uscite nei tempi conciliari, Pacem in terris di Giovanni xxiii e Populorum progressio di Paolo vi, si insiste sul ruolo dell’Onu in vista della pace e della giustizia a livello mondiale.
Ma che cosa ha significato concretamente per la missione questo «presentimento storico» della chiesa? Ha significato un rapido, anche se non sempre omogeneo e ordinato, cambiamento degli atteggiamenti della missione e dei missionari di fronte ai popoli. Una vera e propria conversione.
Sono diventate rapidamente priorità per la missione: l’indipendenza di quei popoli; la necessità di liberazione dei poveri da ogni condizione oppressiva; la pace; i diritti umani; il rispetto delle culture e delle tradizioni popolari; la necessità di inculturare il vangelo e le chiese che nascevano dal suo annuncio; il dialogo interculturale e interreligioso; la difesa dell’ambiente; lo scambio fra le chiese, per il quale ognuna di esse (antica o nuova che fosse) si sentisse debitrice dell’altra; la comunione fra le chiese, non come uniformità, ma come commensalità delle differenze; il pluralismo ecclesiale nell’unità della fede («tanti cristianesimi in una sola Chiesa»).
Queste priorità non sono però ancora entrate nella coscienza di tutti i cristiani. Anzi, gran parte del mondo cristiano (e una parte più piccola di missionari in senso stretto) non ha fatto questa conversione e fa resistenza ad essa.

COME VINCERE LE RESISTENZE
A QUESTI MUTAMENTI?
La percezione errata della missione è una percezione sbagliata del cristianesimo; anzi ne è stravolgimento e strumentalizzazione ideologica.
È errata l’immagine romantica della missione, come antitetica al vero annuncio evangelico; ma lo può diventare anche l’immagine che vede la missione come difesa dei poveri.
Una percezione vera della missione passa attraverso una sua riscoperta nell’ascolto della parola di Dio.
Una immagine vera della missione passa attraverso una necessaria e permanente riforma della chiesa, che sia anche autoriforma di ogni nostra comunità e di ognuno di noi.
La «missione oggi» è prima di tutto un’esigenza di radicalità evangelica, un vivere il vangelo di fronte al mondo e contro lo spirito del mondo. Se questo avverrà anche solo in piccole, povere e disperse comunità sulla faccia della terra, la chiesa riprenderà lo slancio dei primi secoli. A giudicare da tanti segni, che solo chi ha fede può vedere, questo sta avvenendo.

Francesco Grasselli




ARTICOLO Raccontami la storia

Il peggiore nemico della verità non è tanto l’errore quanto la noia. Per far sì che i contenuti dottrinali arrivino al cuore, è necessario tornare al metodo evangelicodel «raccontare» la storia della salvezza.
Un metodo raccomandato sia nel dialogo ecumenico, che nella predicazione e catechesi.

È evidente, almeno così sembra, che anche in campo ecumenico, di dialogo con le altre confessioni cristiane, o in campo religioso e pastorale, nella predicazione e nella catechesi, occorra essere chiari, cioè usare un linguaggio capito da tutti. La qual cosa, oggi come oggi, non avviene. Colpa soprattutto dei teologi e degli autori dei documenti ufficiali che ci piovono sulla testa.
Ripeto ancora una volta ciò che ebbe a dire il noto predicatore padre Raniero Cantalamessa: «Uno dei motivi per cui in molte parti del mondo si sta verificando un esodo dei cattolici verso altre chiese o sette è che la predicazione cattolica è diventata così ricca e complessa, da non attivare direttamente il cuore di una persona».
Purtroppo il problema non è solo quello di parlare in maniera chiara e comprensibile, ma è anche soprattutto di contenuto, di quello che si dice, se è giusto, appropriato e importante.
Il padre Y. Congar in un libro del 1987 dal titolo Conversazioni d’autunno (Entretiens d’Automne), giunto quasi al termine della sua vita, scriveva a riguardo dell’islam e del cristianesimo: «La prima qualità dell’islam è la semplicità. Non c’è che un dogma: Dio è Dio, Maometto è il suo profeta. È un’affermazione forte della pura trascendenza, in confronto alla quale è certo che la fede cristiana, soprattutto la fede cattolica, è qualcosa di abbastanza complicato; quando si aggiunge la Trinità, l’incarnazione, i sacramenti; tutto ciò diventa complesso, lo sappiamo» (pag.116).
Ma lo sappiamo? Pare proprio di no! Il padre Eesto Balducci, a sua volta, in un libro del 1985, in modo più graffiante, com’era nel suo stile, osserva: «Le prediche fanno sbadigliare».
In senso più umoristico, Alessandro Pronzato riporta una lamentela della collaboratrice domestica (mai esistita) di Casa Guareschi, che muove al suo padrone, al quale dà del «lui», un rimprovero che, tutto sommato, è un elogio: «Lui non mi piace come scrive… Intanto lui adopera delle parole che tutti conoscono per dire delle cose che tutti capiscono e allora dove va a finire la cultura?». (G. Guareschi, Vita con Gio’. La gloria di Montassù, Milano 1995).
La predica, sovente, scrive sempre don Pronzato, come è stato da più parti denunciato, rappresenta «un vero tormento dei fedeli. Personalmente resto convinto che il grosso e più temibile nemico della verità non sia tanto l’errore, quanto la noia» (prefazione in Don Camillo. Il Vangelo dei semplici, 2001, p.11). Al punto, e la cosa pare sia sufficientemente documentata, che Giovanni xxiii avrebbe voluto affidare la stesura di un catechismo a uno «scrittore popolare», accettando la proposta che fosse Giovannino Guareschi, magari affiancato da un bravo teologo.
Comunque le presentazioni dottrinali e persino le letture evangeliche sono in genere «esasperatamente intellettualistiche, fredde, aride, in un linguaggio impervio, precluso alla gente comune». Questo lo dice il card. Giacomo Biffi.

L’eresia degli eunomiani

Non c’è forse sotto sotto un rigurgito di un errore antico, già condannato nei primi secoli (eunomiani), che consisteva nell’affermare che Dio lo si può conoscere con la ragione e definire perfettamente. Dio invece è ineffabile. Per cui ogni discorso su Dio non è mai adeguato alla realtà descritta; si tratta sempre di un discorso analogico: Dio è chiamato luce perché ha verso le intelligenze un ruolo analogo, cioè simile, a quello della luce per gli occhi; è chiamato spirito perché conserva la vera vita, come l’alito conserva la vita del corpo. Così la pensava Origene, nato nel 185.
San Tommaso a sua volta scrive: «Poiché di Dio noi possediamo una conoscenza imperfetta, ci è possibile nominarlo solo imperfettamente, quasi balbettando… Imperfecte nominamus, quasi balbutiendo» (I Sent. 22,1,1,1 sol.).
Mentre per secoli su Dio si è pensato di poter dire tutto e con estrema sicurezza, con definizioni su definizioni, i fedeli di oggi forse non sopportano più un atteggiamento del genere.
Nell’Apocalisse (14,6) si legge: «Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunciare agli abitanti della terra». Un vangelo eterno: cosa potrebbe essere? Senza lettere, senza figure, senza immagini, cioè pura buona notizia?

«Sono cristiano
secondo il vangelo,
non secondo i parroci»

Affermazioni del genere esprimono la crisi in cui si trova il cristianesimo e il cattolicesimo ai giorni nostri. È come piangere sul latte versato. Anche se le motivazioni di tali affermazioni non sono del tutto disinteressate o appaiono dettate, a volte, per motivi di comodo.
Ignazio Silone, e con lui moltissimi altri, si definiva «un cristiano senza chiesa». Anche la moglie, Elisabeth Darina, irlandese e cattolica, morta nel luglio 2003, scriveva di sé: «Io, povera cristiana. Resto una credente, ma al di fuori di ogni chiesa. I motivi? Troppa rigidità e anche grettezza nel cattolicesimo irlandese. Dopo la guerra, a Roma, mi trovai seduta a pranzo accanto a Jacques Maritain, allora ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, e colsi l’occasione per chiedergli cosa pensasse del cattolicesimo irlandese. “Le catholicisme irlandais? – rispose senza esitare – C’est du jansénisme obscurantiste”. Pronunciata da Maritain, mi confermava tutto».
Oggi forse il cattolicesimo, specie in Europa, non pecca per oscurantismo, ma per complessità, oscurità, per troppe parole, per troppo raziocinio. Eesto Balducci in L’uomo planetario (1985) riporta una canzone dello Zaire, dove si canta: «Cristiani, come siete infelici! La mattina alla messa, la sera dallo stregone, l’amuleto in tasca, lo scapolare al collo».
Anche il filosofo Norberto Bobbio, deceduto il 9 gennaio dello scorso anno, nel suo testamento spirituale scriveva: «Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla chiesa sì! Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornare di soppiatto all’ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico, come uomo di ragione e non di fede. So di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo, e che le religioni interpretano in vario modo».
Nel 2001 uscì, tradotto dall’inglese, un piccolo best seller di una donna statunitense, Joan Brady, dal titolo: Dio su una Harley. La trama fa sorridere. Si tratta di un’infermiera sulla quarantina, in crisi anche religiosa, quando una sera scorge sulla spiaggia, baciato da un raggio di luna, un uomo a cavalcioni di una potente moto, una Harley Davidson. Incominciano a chiacchierare, ma quando lei gli chiede il suo nome, lui risponde: «Dio».
Dapprima la donna crede che sia scappato da un manicomio, poi, a poco a poco deve arrendersi. Il misterioso motociclista conosce tutto della sua vita, comprese le sue difficoltà religiose: «Una religione che non funziona. Una religione dove tutto è scritto in maiuscolo… e poi dieci comandamenti, non sono forse troppi?».
E questo Dio «in moto» le insegna come ridurre quei dieci comandamenti a sei. Ma anche così sono impegnativi, ma hanno il vantaggio di essere su sua misura. Sono molti coloro che hanno bisogno di comandamenti personali. Per concludere, le dice il Dio della moto, «vorrei che tu la smettessi di pensare a me come Dio… È un termine così antiquato! La tua concezione di Dio è piuttosto imprecisa ed è mia intenzione modificare questa immagine… Voglio essere importante per te, Christine, e non un tizio grande e grosso che dall’alto dei cieli prende nota dei tuoi errori».
Abbiamo un cristianesimo con molte «mediazioni» e molti simboli. Tutti validi o alcuni inflazionati? Oppure è da molto tempo che abbiamo dimenticato qualcosa di molto importante?
Piccoli segnali ci giungono da molte parti, per dirci che c’è bisogno di qualcos’altro, anche senza ridurre i dieci comandamenti a sei.
Quando, nel 1530, Hans Holbein il Giovane (1497-1543) dipinse Le storie della Passione (ora nel Museo di Basilea) e soprattutto lo straziante Cristo morto, in una ricerca esasperata della morte di Gesù, che appare in un abbandono assoluto, con nessuno che l’assiste e il colore livido di un corpo quasi in disfacimento, Dostoevskij mette in bocca al principe Myskim (nell’Idiota) mentre osserva una copia di questo quadro, questa inquietante domanda: «Ma lo sapete che osservando a lungo questo quadro si può perdere la fede?».
Così quando nel 1925 uscì l’enciclica di Pio xi su Cristo Re, Teilhard de Chardin ebbe un moto di ribellione e scrisse: «Lo voglio gridare: il vostro Cristo è troppo piccolo! Lasciatemelo fare più grande; grande come il mondo!».

«Fin dalla mia infanzia,
mio padre mi raccontava»
(Ester 4,17)

Un noto biblista, il gesuita Jean-Noël Aletti, già da qualche anno, si sta chiedendo quale fosse la teologia delle prime comunità cristiane. È del parere che il messaggio cristiano non poteva essere espresso in concetti, ma come racconto. Scrisse infatti L’arte di raccontare di Gesù Cristo. La scrittura narrativa del Vangelo di Luca, Brescia 1991 e anche Il racconto come teologia, Roma 1996.
Per cui i nostri contemporanei, a tutti i livelli, ne dovrebbero tener conto, perché troppo spesso dimenticano la natura propriamente narrativa, non solo del vangelo di Luca, ma di tutta la scrittura. Di fatto se dai vangeli, specie da quello di Luca, si eliminassero i racconti, in mano ci resterebbe ben poco.
Anche se non è sufficiente fermarsi al racconto o alla composizione scenica, perché il racconto e ogni racconto occorre renderlo stimolante, esemplare, compararlo con l’insieme, per rendere evidente il suo insegnamento. Gesù, ad esempio, parla del regno dei cieli solo in parabole; non dice «il regno dei cieli è…», ma «il regno dei cieli è come…».
D’altra parte il Concilio ha dato corpo a tutta la rivelazione cristiana come «storia della salvezza», e la storia è composta in massima parte di fatti e di eventi significativi.
Il noto teologo E. Schillebeeckx nella prima pagina del suo volume dal titolo Gesù, storia di un vivente, del 1973, scrive: «Ho cercato di colmare l’abisso tra la teologia accademica e i bisogni concreti dei fedeli».
E alla fine del volume (p. 714) commenta: «Negli Atti (4,10-12) si racconta che Pietro guarì lo storpio del villaggio quando gli raccontò la “storia di Gesù”».
Per dimostrare l’efficacia della narrazione o della «fede narrativa», riporta quanto scrisse M. Buber, in relazione al racconto dello storpio degli Atti: «Mio nonno era paralitico. Un giorno gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro, il grande Baal Shem. Allora mio nonno raccontò come il santo Baal Shem avesse l’abitudine di saltare e danzare mentre pregava. Mio nonno, dimenticando di essere paralitico, si alzò e raccontò; la storia lo eccitò al punto da mostrare, saltando e ballando, come avesse agito il maestro. Da quel momento egli fu guarito. Questo è il modo di raccontare storie».
E se noi cristiani di oggi fossimo tutti un po’ paralitici?

Igino Tubaldo




PROVOCAZIONI MISSIONARIEAccade a Tunisi

A 45 anni, dopo una lunga esperienza di volontariato, Otello Bisetto è stato ordinato sacerdote della diocesi di Tunisi. Essere prete in Tunisia, dove si registrano profondi mutamenti, costituisce una grande sfida per la chiesa locale.

La lunga strada percorsa da Otello Bisetto, sfociata nell’ordinazione sacerdotale, avvenuta il 22 maggio 2004 nella cattedrale di Tunisi, potrebbe racchiudere, per molti versi, una parabola di questo nostro tempo, sia che cerchiamo di interpretarlo dal punto di vista umano che da quello di Dio.

Otello ha 45 anni.

Negli anni di infanzia è passato attraverso qualche anno di collegio, poi ha frequentato la scuola pubblica fino a diventare geometra.
Parte per tre anni nello Zaire come volontario. Ritorna per continuare a esercitare la sua professione; ma poco dopo… incorre (!) nella Caritas diocesana, che lo impegna nel servizio ai migranti. È il periodo in cui il fenomeno dell’immigrazione assume proporzioni sempre più importanti anche qui da noi.
Diventa così il primo responsabile della Casa di Accoglienza di Giavera (TV), di cui aveva contribuito sia per il disegno, che per la ristrutturazione e per l’impostazione dello stile di convivenza.
Dà inizio insieme con altri alla cornoperativa «Una casa per l’uomo» a Montebelluna.
Viene allontanato dalla Caritas e si lascia assorbire totalmente dalla cornoperativa che, anche per suo impulso, si espande e crea nuovi servizi: dall’offerta di alloggio alla politica regionale per l’alloggio delle fasce sociali a rischio di esclusione, alla mediazione culturale, segretariato sociale, ricerca e formazione, disagio sociale, insegnamento della lingua seconda «L2», ecc…

Abbandonata Giavera,
va a vivere con tre algerini, musulmani praticanti, uno dei quali è presente a Tunisi nel giorno dell’ordinazione sacerdotale.
Si propone ad alcuni responsabili diocesani di Treviso per essere prete nel segno di una doppia fedeltà: ai poveri e alla chiesa locale. Ma il periodo del «discernimento» si conclude con un rifiuto: «Sei bravo ma non sei fatto per noi…».
Si sposta a San Floriano, dove va a vivere con don Olivo Bolzon e Marisa Restello; nel frattempo continua a confrontarsi da un punto di vista vocazionale con don Feando Pavanello. Decide, quindi, di partire per due anni per la Tunisia, dove può continuare la sua ricerca fino alla richiesta, questa volta accolta, di diventare prete a servizio di quella chiesa locale che vive la sua fedeltà a Gesù e la sua testimonianza di fede e di speranza cristiana in contesto musulmano.
Il 22 maggio 2004 diviene prete per l’imposizione delle mani del vescovo Twal, del nunzio dell’Algeria e Tunisia e di tutti i preti della Tunisia, che per l’occasione s’erano riuniti al gran completo. Con tutta evidenza si tratta di una vita che è parabola di questo nostro tempo.
Una esistenza che incrocia alcune fra le molte situazioni di frontiera e di rottura che si sono prodotte e si stanno producendo in questi ultimi decenni della nostra storia.
La sua decisione di essere prete per la chiesa in Tunisia si realizza, d’altra parte, in tempi che sembrano annunciare una mutazione della chiesa locale, non da tutti condivisa e che alla lunga potrebbe risultare non adeguata.
La sua ordinazione
sacerdotale si svolge alla luce di una intuizione luminosa. Era dal 1962 che non accadeva un tale avvenimento in Tunisi, al punto che la stessa stampa locale ne traccia un sia pur breve trafiletto. Dopo 42 anni, un adulto di nazionalità italiana, Otello, e un giovane francese, Nicolas, vengono chiamati all’ordine del presbiterato ringiovanendo per ciò stesso la chiesa locale.
Nella medesima liturgia si celebra il 50° di sacerdozio di due preti: Mario Garau, un italiano nato in Tunisia, figlio di minatori sardi, e Michel Prignot, un francese della Mission de France, che ha fatto l’operaio, ora in pensione.
I due preti giovani ricevono le pianete dai due anziani. Questo gesto ha tutta la dolcezza e il sapore di un passaggio del testimone.
I due anziani hanno realizzato la loro vocazione attraversando il periodo coloniale, poi quello dell’indipendenza, infine il periodo della costruzione, dell’autonomia identitaria, politica ed economica del paese.
Molti dei loro colleghi non se la sono sentita di affrontare cambiamenti talmente rapidi e radicali e sono ritornati alle chiese dei loro paesi d’origine. Ma chi è rimasto ha cercato di leggere con gli occhi dello Spirito e con amore appassionato la storia della Tunisia.
Hanno vissuto una fedeltà dinamica alla chiesa locale. Per guadagnarsi da vivere, uno ha fatto l’infermiere nel modesto ospedale di Gafsa, l’altro l’operaio, scoprendo via via nuove strade di sequela, di testimonianza e servizio all’ambiente e al popolo musulmano che essi non hanno cessato di amare.
Si sono trovati a essere, insieme a tutti gli altri che avevano preso la decisione di rimanere in Tunisia, costruttori e partecipi di una chiesa essenzialmente missionaria, proiettata al di fuori di se stessa, ma non proselistica.

Ora si affaccia
su questa chiesa la tentazione di una mutazione genetica. Essa è tentata di spegnere lo slancio missionario, la sua particolare diaconia al mondo musulmano, paga del fatto che imprenditori, funzionari di banca, personale di ambasciata con le loro famiglie al seguito riempiano le poche chiese rimaste.
Otello e Nicolas dovranno essere in grado di scegliere tra la fedeltà alla missione di diaconia della chiesa o il ripiegamento gratificante su se stessa. Tale decisione dovrà essere presa comunque all’interno di una società e di una chiesa che cambiano.
Solo qualche anno fa era impossibile parlare di cristiani tunisini. Ora ho sentito che alla vigilia della pasqua di quest’anno, su iniziativa di un professore di università, è stata affittata una grande sala in un hotel del centro di Tunisi, dove si sono riunite 550 persone per cantare e proclamare la propria fede in «Gesù, il Vivente».
Si ha l’impressione che il confessare la propria fede in Cristo sia ormai più frequente, anche se non meno difficile, che nel passato.
È successo che, quando alcuni di questi cristiani (senza alcun’altra specificazione: evangelici, ortodossi, cattolici…) furono interrogati su chi era stato all’origine della loro scelta di fede, rispondevano che la televisione, internet o i contatti con il mondo esterno avevano fatto loro conoscere ciò che prima non conoscevano.
Stanno franando
le barriere che pretendono circoscrivere e legare fedi e religioni a un determinato territorio. Non esiste più nei fatti né una «casa dell’islam» né una «casa degli infedeli».
Essere preti in Tunisia, dentro a queste mutazioni profonde, diventa una grande sfida, probabilmente paragonabile a quella che la chiesa dovette affrontare dopo la dichiarazione d’indipendenza di questo paese.
Fatti nuovi stanno domandando a questo e agli altri paesi islamici risposte nuove sul piano culturale, religioso e politico.
Il fatto che la Tunisia, come altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, abbia deciso di far parte della zona di libero scambio con la Ue, inciderà sulla vita economica, ma anche sul costume del paese.
All’interno delle società arabo-musulmane alcune realtà come «democrazia», «promozione della donna», «libertà di coscienza», «pluralismo religioso e culturale» sono concetti in movimento e di cui ancora non si avvertono gli esiti futuri.
C’è un continente in movimento da questa parte del Mediterraneo e Otello ha preso la decisione di viverci dentro da uomo e da prete.

Giuliano Vallotto




ANNIVERSARI”E adesso, su ancora le maniche!”

20 GIUGNO: LA CONSOLATA
due centenari significativi nel santuario di Torino

Narra la tradizione: nell’anno 1104 un cieco parte da Briançon,
raggiunge la chiesa di S. Andrea di Torino, trova sotto le macerie di una cappella
l’immagine della Madonna Consolata e riacquista la vista…
Oggi il santuario della Consolata di Torino celebra il 9° centenario di quell’evento.
Il santuario celebra pure un altro centenario: quello del 1904,
allorché Giuseppe Allamano gli diede spazio, aria, vita. Anche in Africa.

Il centenario 1904 – 2004
Durante il Congresso mariano, svoltosi a Torino nel 1898, maturò in Giuseppe Allamano, già rettore del santuario della Consolata, l’idea di fondare una rivista per aggioare i fedeli su quanto si svolgeva al santuario (ndr: la rivista iniziò nel 1899 e si chiamò La Consolata, per divenire nel 1928 Missioni Consolata).
Un altro motivo suggeriva la nascita della rivista. Si era prossimi alle celebrazioni dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (1104-1904). L’Allamano e il suo collaboratore, Giacomo Camisassa, intendevano giungervi con un santuario completamente rinnovato, ma soprattutto ampliato. La popolazione doveva essere coinvolta in questa grandiosa impresa, anche molto dispendiosa.
I lavori, iniziati nel 1889 e terminati nel 1904, erano necessari: non solo perché l’interno del santuario era in uno stato pietoso (pavimento dissestato, pareti affumicate e sgretolate), ma soprattutto perché risultava troppo piccolo. L’antifona che l’Allamano si sentiva continuamente ripetere era: «Occorre maggior spazio. La gente si pigia all’inverosimile…».
Il rettore fece scrivere che il santuario, così com’era, poteva andare bene nel 600, quando Torino contava una popolazione inferiore di un sesto dell’attuale. Diceva: «Bisogna trovarsi al santuario nei giorni di festa, o anche solo un sabato qualsiasi, per avvertire tutti gli inconvenienti di questa deficienza di spazio e la mancanza d’aria, insufficiente non solo nelle grandi circostanze, ma anche nelle funzioni ordinarie».
A dare prestigio ed interesse alla nuova rivista contribuì non poco la fondazione, nel 1901, dei missionari della Consolata per l’Africa. La gente avvertì subito che, in tal modo, il santuario apriva porte e finestre. In breve tempo gli abbonati a La Consolata raggiunsero il numero di 19 mila.
Anche gli aderenti alla Compagnia della Consolata (nata nel 1522), riformata in senso popolare dall’Allamano, raggiunse in poco tempo centinaia di migliaia di iscritti. Così le comunioni eucaristiche nel santuario: 97.820 nel 1881, salirono nel 1890 a 127.980.
Con queste iniziative avvenne che, attorno al santuario, ancora prima della fondazione dell’Istituto missionario, gravitasse già un «mare di gente», come scrisse nel 1990 don Dario Berruto, rettore del santuario. Anzi, è per l’esistenza di questo «mare di gente» che, accanto al santuario, poté nascere l’Istituto missionario.
Il tutto con calma, senza strafare, senza esorbitare nella richiesta di denaro. Però l’impronta era quella descritta in modo suggestivo da un cugino francescano dell’Allamano, il quale, in una visita al santuario, si sentì dire in piemontese dallo stesso rettore: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti».
Così dicendo, l’Allamano aveva alzato le mani, agitandole, assumendo l’atteggiamento di chi si dà da fare e vuole lavorare. In tale modo il santuario da devoto o contemplativo divenne anche apostolico.
DUE AUREOLE DI DIAMANTI
Il santuario della Consolata, come è noto, è composto da due chiese: quella di S. Andrea, in forma ovale, e il santuario vero e proprio, in forma esagonale e con cupola, che si apre sul fianco interno della prima chiesa e contiene l’altare maggiore con l’icona della Consolata.
Le due chiese, prima dei restauri, comunicavano tra loro solo per una apertura di pochi metri, cosicché la maggioranza dei fedeli si ammassava nella navata di S. Andrea e nulla poteva scorgere. Di più: tra l’una e l’altra chiesa vi era un notevole dislivello, superato da una gradinata, che rendeva poco agevole la circolazione. I lavori d’ingrandimento, iniziati nel 1899, consistettero nel costruire ai due fianchi del santuario quattro nuove cappelle (due per lato e con cupola), capaci ciascuna di 500 persone, così da costituire quasi due nuove navate che, partendo dalla chiesa di S. Andrea, introducevano all’altare maggiore. Il santuario fu così ingrandito di 400 metri quadri, con la capacità di 2.000 persone in più. I finanziamenti giunsero sempre puntuali e sufficienti.
Se avesse potuto, l’Allamano avrebbe voluto incoronare la Vergine e il Bambino del quadro. Ma ciò era impossibile, perché l’immagine era già stata incoronata il 20 giugno 1829. Lanciò, allora, la proposta di porre attorno al capo della Madre e del Figlio due aureole con 12 stelle di brillanti.
Naturalmente i diamanti (in tale quantità!) non si potevano trovare tra i ciottoli del Po. L’invito ad offrire i giornielli fu rivolto a chi poteva. Aderirono le dame di Casa Reale, ma anche persone comuni. Le due aureole raccoglievano 759 brillanti, mentre ne erano stati preventivati solo 384…
Le celebrazioni centenarie dovevano aprirsi l’11 giugno 1904. Molti si attendevano che l’Allamano costituisse una commissione organizzativa. Ma così non fu: l’Allamano e il Camisassa assunsero su di loro tutto il peso del lavoro… Il 18 giugno il rappresentante del Papa, cardinale Vincenzo Vannutelli, procedette all’imposizione delle due aureole.
Le feste si conclusero con la solenne processione del giorno 19 (durata cinque ore), che terminò alle 21. Vi parteciparono 6 cardinali, 23 vescovi, 104 parroci… e una folla immensa. Fu una manifestazione religiosa imponente che non aveva precedenti «nella memoria dei torinesi di mezza età» (La Stampa, 20 giugno 1904).
In appendice, si può aggiungere che, nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1979, le due preziose aureole vennero rubate. Però l’Allamano, già al suo tempo, aveva provveduto a sostituire le due aureole, tanto appetibili ai ladri, con due finte. Quelle vere erano in cassaforte. Pertanto i ladri asportarono pietre false.
Ma che fine fecero i diamanti veri? Con l’autorizzazione della Santa Sede vennero alienati e venduti, dopo la seconda guerra mondiale, per ricostruire il santuario e il convitto ecclesiastico danneggiati dai bombardamenti del 13 agosto del 1943.
ATTIVI, LABORIOSI, INTRAPRENDENTI
Alle celebrazioni del 1904 parteciparono anche i missionari della Consolata, presenti a Torino: un piccolo gruppo, perché la maggior parte era in Kenya. La Consolata, giugno 1904, accenna al nuovo Istituto missionario e riporta una frase del cardinale Richelmy, che lo presenta come un’istituzione indipendente dal santuario, ma nello stesso tempo come un ingrandimento importantissimo del medesimo, nella lettera e nello spirito.
Nella lettera circolare del 6 gennaio 1905 ai suoi missionari in Africa l’Allamano, nell’apertura, accenna alle solenni celebrazioni: «Un sacrificio ben doloroso fu certo per voi l’essere così lontani… e non poter rimirare la santa Effige adoa delle nuove corone… Se i chierici, vostri confratelli, furono giustamente orgogliosi di assumersi in quei giorni la rappresentanza di voi ai piedi della Consolata, io me ne feci un dovere specialissimo. Lasciai in certo modo da parte le altre attribuzioni per non dimenticare la mia qualità di padre di questa nuova famiglia…».
Dopo le celebrazioni così ben riuscite, l’Allamano, che si era preso cura del programma da realizzare, «venne interpellato se non avrebbe accettato qualche distinzione onorifica. A questa proposta… rispose che egli personalmente nulla desiderava, ma che avrebbe volentieri accettato qualcosa che tornasse d’onore per il santuario. Chiese a Pio x che il santuario venisse eretto a basilica pontificia». Fu esaudito il 7 aprile 1906.
Ritorna alla mente la figura del rettore di fronte al cugino francescano, al quale dice: «Noi di Castelnuovo siamo attivi, laboriosi, intraprendenti». L’Allamano invita anche i suoi missionari a tirarsi su le maniche.
la Consolata e la «Consolatina»
Nel gennaio 1902 l’Istituto missionario aveva un anno di vita. Il mensile La Consolata ricorda anche il nuovo Istituto, del quale nel giugno 1901 era stata benedetta la cappella della prima Casa Madre in corso Duca di Genova (oggi corso Stati Uniti), denominata in modo allusivo «La Consolatina», con questo commento: «L’importanza di tale funzione sta a dimostrare come il culto della Consolata non sia solo contemplativo, ma attivo, né si restringa solo a Torino o all’Italia».
Il santuario era stato retto per secoli da monaci (Benedettini, Cistercensi, Minori osservanti) o da religiosi (Oblati di Maria, che contavano pure delle missioni). Certamente l’atmosfera che vi si respirava era monastica: una devozione alquanto centripeta, quasi fine a se stessa, come un focolare in pieno inverno… con la gestione di un pensionato per preti anziani. Dopo secoli, il santuario era invecchiato, senza che qualcuno pensasse a restauri.
Nel 1871 il santuario, per ragioni politiche, divenne diocesano, alle dipendenze del vescovo locale, gestito da sacerdoti. Il passaggio da un regime monastico ad uno diocesano si consolida, nel 1880, con l’Allamano. Questi nel 1883 inizia i restauri estei del santuario, per ricordare nel 1885 il 50° della cessazione del colera. Libera la cupola da un ballatornio esterno, che la cinge con poca eleganza; elimina gli speroni che sporgono dai tetti più bassi; riveste la cupola di piombo; rinforza con uno zoccolo in pietra il perimetro esterno del santuario… Poi, in occasione dell’8° centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata (che cadeva nel 1904), iniziò nel 1889 i grandi restauri interni.
Intanto – come si è detto – intorno al santuario gravitava un mare di gente. Ed è per questo «mare» che poté sorgere l’Istituto missionario, immettendo aria nuova, aprendo porte e finestre, dando la certezza a tutti che il santuario, anche da un punto di vista finanziario, si era trasformato da «conca» a «canale». I fedeli compresero molto bene.
Oggi questa apertura deve, forse, essere in qualche misura ricuperata… sull’esempio di un prete diocesano, quale fu l’Allamano: senza strafare, seppe tirarsi su le maniche, insieme ai sacerdoti del santuario del suo tempo e, soprattutto, dei missionari (che restano pur sempre «i missionari della Consolata»), memori del detto profetico: «Guardate la roccia da cui siete stati tagliati» (Is 51, 1).

NON DI SOLO PANE

«La messa è finita: andate in pace!». Il coro esplode in un canto giornioso, ritmato dal rullio dei tamburi. I bambini guardano estasiati. Le donne conversano. Gli uomini sono già sul sagrato della piccola e pericolante chiesa di paglia e fango. Qualcuno discute animatamente con il missionario.
Io osservo tutto, distaccata. Nel mio pensiero non vedo le donne, né gli uomini, non risento i canti né il rullio del tamburo. Non vedo gli occhioni spalancati dei bambini. Non vedo nemmeno la loro povertà disegnata su abiti scoloriti, su piedi scalzi, su ventri gonfi. Sono assente.
Sono stupita di me stessa, oltre che dell’Africa e dei suoi cristiani.
Mi aspettavo richieste di aiuto: per la scuola senza banchi, per il dispensario senza siringhe, per la strada che non è una strada…
E invece no! Mi hanno chiesto di aiutarli a pregare. A pregare come si deve, in una chiesa decorosa, con finestre dalle quali entri la luce del sole, un pavimento sul quale possano sedersi i bambini accanto alle mamme, un tetto che non rischi di cadere loro in testa, un inginocchiatornio… mi hanno chiesto queste cose per pregare meglio. Perché «non di solo pane vive l’uomo…» (Mt 4,4).

Era l’agosto del 2003. Accompagnavo sette giovani di Torino per un campo di lavoro e conoscenza nella missione di Cuamba nella regione del Niassa, nel nord del Mozambico.
Qui opera e lavora con grande efficienza, ma soprattutto efficacia, padre Carlo Biella, missionario della Consolata, affiancato da padre Alberto De Jesus, diocesano aggregato, venezuelano.
Perché la nostra conoscenza fosse più ampia possibile, padre Alberto aveva organizzato, per le tre settimane del nostro soggiorno, incontri con la gente, che accorreva incuriosita per vedere i mucunha (i bianchi), dei quali però hanno paura. Sovente scappavano e i bambini si mettevano a piangere a pieni polmoni, quando uno di noi si avvicinava. Purtroppo gli sporadici contatti con l’uomo bianco, unica eccezione i missionari, si sono sempre rivelati «trappole»; hanno dovuto imparare a diffidae.
Gli ammalati, fiduciosi, attendevano la nostra visita, come se la nostra presenza potesse allontanare il male e insieme a loro pregavamo, per tutti.
Visitavamo le comunità con capanne sparse, anch’esse rigorosamente di fango e paglia, accompagnati dagli animatori che, durante il cammino, ci parlavano della guerra, ormai, fortunatamente, un lontano ricordo, dell’«esodo» di tanta gente che cercava rifugio altrove per sfuggire alla morte, di «un popolo in cammino». Nei loro racconti e nella semplice conversazione si ispiravano alla parola di Dio.
Rimanevo affascinata e meravigliata per la loro profonda conoscenza delle sacre scritture. Ho visto la loro fede!

L a cappella della comunità di Nakhapa, una delle circa 50 che fanno parte della missione di Cuamba, intitolata alla beata Vergine Consolata, era veramente messa male. I continui visibili rabberci erano ormai del tutto inutili; pezzi di fango si staccavano dalle pareti e il tetto sembrava che volesse crollare da un momento all’altro. La gente se ne vergognava; soprattutto temeva di dover rinunciare a incontrarsi nel giorno di festa, la festa vera, per pregare, vista la propria impossibilità di costruire una chiesa nuova perché troppo poveri.
Fu al termine della celebrazione che un animatore, alzatosi, disse qualcosa in macua, che il padre mi tradusse in portoghese: ora avrebbe avuto luogo l’offertorio ed era per noi.
Iniziò a sfilare una lunga processione di persone e ognuna portava il suo povero dono: un piatto di fagioli, una papaia, due patate di manioca, un po’ di riso, una manciata di fagioli. Probabilmente era il «pane quotidiano» dell’intera famiglia («l’obolo della vedova»).
In cambio mi chiedevano che, tornando in Italia, sensibilizzassimo la gente su questo problema al quale nessuno di noi dà più importanza. I fedeli africani ci chiedono di poter pregare in un ambiente dignitoso. Ci chiedono di aiutarli a ricostruire il loro «tempio», che considerano vitale quanto una casa, un dispensario, una scuola, una strada.

Non sono ancora riuscita a trovare il denaro necessario, sebbene la cifra non sia elevata. Questo mi fa vivere in sospeso, in una costante sensazione di incompiutezza. Ma quello che più mi rattrista è constatare che la generosità che distingue gli italiani si esaurisce… quando si chiede loro di costruire una chiesetta!

Gloriana Babbini

Igino Tubaldo




L’OPINIONE – Incontro con Bartolomeo Sorge

Padre Sorge, lei è un esperto della dottrina sociale della chiesa. Come la valuta oggi?

Esprimo una valutazione di fondo: la dottrina sociale della chiesa cambia con l’evolversi della «questione sociale». Nell’ottocento la dottrina sociale è nata dalla lotta fra la classe operaia e quella capitalista; poi ha risentito dello scontro fra i sistemi del capitalismo e del comunismo.
Con il papa Giovanni XXIII la questione sociale è divenuta mondiale: non dipende più da classi, nazioni e ideologie. Resta la contrapposizione fra nord e sud del mondo, mentre la pace è in pericolo. Allora Paolo vi, nell’enciclica Populorum progressio, afferma che «il nome nuovo della pace è lo sviluppo».

Oggi la questione sociale investe anche l’etica.

Certamente, perché le nuove tecnologie, applicate anche alla biologia, hanno fatto nascere problemi morali inediti. Si pensi alla bioetica. Siamo ad una svolta epocale. Si rischia di creare un mondo senz’anima. Questo, ovviamente, sfida anche l’evangelizzazione.

L’evangelizzazione – affermano i vescovi italiani in Comunicare il vangelo in un mondo che cambia – presuppone «un metterci in ascolto della cultura del nostro mondo, per disceere i segni del Verbo già presenti in essa» (35)

Se lei continua la citazione, trova una bellissima descrizione del missionario, il quale, di fronte agli uomini del suo tempo, deve diventare «servo della loro gioia e speranza». Inoltre non possiamo escludere che i non credenti abbiano qualcosa da insegnarci riguardo la comprensione della vita. Lo richiede anche la globalizzazione.

Il termine «globalizzazione» è sulla bocca di tutti. Padre Sorge, può definire questo fenomeno con parole semplici?

Per spiegare con parole semplici la globalizzazione, direi: oggi tocchiamo con mano come l’umanità stia diventando una sola famiglia. È un fatto stupendo. Questo mondo, non più diviso tra est ed ovest, non più con missili puntati gli uni contro gli altri o con muri di divisione, è un mondo nuovo che ci supera tutti.

Tuttavia in questo «mondo-famiglia» domina la superpotenza degli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti che, di fronte al terrorismo, affermano: «Pensiamo noi a mettere ordine nel mondo!». Di qui la guerra in Afghanistan e Iraq, con atteggiamenti di sufficienza. Però, oggi, fa impressione vedere il presidente americano George Bush che quasi prega in ginocchio le Nazioni Unite: «Datemi una mano, perché dall’Iraq non ne vengo più fuori e, dopo avere vinto la guerra, non riesco a vincere la pace!».
Ebbene, questa è la prova più bella che non esiste al mondo un’unica nazione, per quanto potente, che possa costruire da sola un nuovo mondo. O ci salviamo tutti insieme o moriamo tutti insieme.

Questo significa che dobbiamo tutti pensare e comportarci allo stesso modo?

Noi siamo chiamati a diventare tutti «glocali». È una parola nuova, composta da «glo» (inizio di «globali») e «cali» (fine di «locali»). Il pericolo è che si rompa l’equilibrio tra globale e locale, per chiudersi nel «particolare», così che una diocesi o una provincia vede solo se stessa. C’è pure il pericolo opposto: che si punti all’«universale» attraverso l’economia del libero mercato.
Il libero mercato è anche uno strumento che produce una nuova cultura. Essa impone un modo di pensare e agire, ma rischia di creare un nuovo colonialismo: un colonialismo culturale, molto più grave di quello economico tradizionale. La cultura del libero mercato rischia di generare razzismo, mancanza di solidarietà; allarga il divario fra il nord ricco del mondo e il sud povero; produce sacche di povertà fra le stesse nazioni benestanti.
Pertanto la globalizzazione, come dice il papa, non è né buona né cattiva. È un bisturi che può anche uccidere, se usato male.

Però – si rileva – a uccidere è stato soprattutto il comunismo, non il capitalismo, padre della globalizzazione!

Il comunismo non poteva risolvere i problemi sociali: ecco perché è fallito. Ma questo non significa che, venuto meno il comunismo, siano scomparsi anche i problemi. E sono problemi dovuti al capitalismo.
Nella lettera Novo millennio ineunte il papa scrive: «Il nostro mondo comincia il nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica, culturale e tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità e lascia milioni e milioni di persone non solo ai margini del progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del minimo dovuto alla dignità umana. È possibile che nel nostro tempo ci sia ancora chi muore di fame? chi resta condannato all’analfabetismo? chi manca delle cure mediche più elementari? chi non ha una casa in cui ripararsi?» (50).

Che dire del movimento «no global» o «new global», che contesta il capitalismo?

Più che il capitalismo, si contesta l’Organizzazione mondiale del commercio. Si tratta di una contestazione che nasce anche dai paesi del sud del mondo. Lo si è visto nel vertice di Cancún, in Messico, dove per la prima volta il fronte dei poveri si è unito e ha impedito che la cultura neoliberista facesse pagare ai poveri le scelte utili ai ricchi. Questo è un segno positivo.
E non dice niente che l’anno scorso, in un solo giorno di marzo, circa 110 milioni di persone siano scesi in piazza in tanti paesi del mondo gridando «no alla guerra»? Sapevano che era imminente la guerra in Iraq. Ma questo ha reso ancora più valida la loro protesta, perché hanno dimostrato di resistere contro la rassegnazione dell’inutilità.

Padre Sorge, direbbe pure che non ci si rassegna che qualcuno pensi per tutti?

Anche questo. Non ci si rassegna al «pensiero unico».

In altre parole?

Il pensiero unico è la cultura neoliberista, che ci viene trasmessa anche dalla tivù. Finito il comunismo, sembra che parlare di solidarietà e socialità sia parlare ancora di comunismo. Ecco qual è il virus: ritenere che abbia valore solo ciò che è efficiente, che consente i risultati migliori in termini economici.
Di conseguenza il giudizio etico deriva dal consenso sociale, dovuto al successo. Se piaci alla gente, sei nel giusto. Ma scherziamo? Anche Hitler godeva del consenso sociale e piaceva!
Il papa, all’Accademia delle Scienze, ragiona così: l’etica non può legittimare un sistema sociopolitico; essa richiede che i sistemi si adattino ai problemi dell’uomo, non viceversa.
In Italia, per venire incontro ai problemi dell’uomo – si dice ancora -, tutte le pensioni sono state elevate a un milione di lire.
Ma per fare questo, è stato tolto il sostegno alle regioni, mentre sta per nascere la sanità regionale. Pertanto, se una regione non ha soldi, che medicine dà ai suoi abitanti? Inoltre, mentre un anno fa le famiglie che faticavano ad arrivare a fine mese erano il 38%, oggi sono il 51%.

Qui nasce il problema del «bene comune». La vera etica non può ignorarlo.

Ma è proprio il bene comune che viene stravolto dal pensiero unico. Si ritiene che il bene comune sia la somma dei beni individuali… dove ognuno si arrangia. Questo è individualismo puro.
Esempio: io ho 100 pecore. Quando avrò raggiunto il bene comune del gregge? Quando ogni pecora avrà brucato la sua erba e avrà la pancia piena. Ma il bene comune non è questo! Si è dimenticato che, nel gregge, vi può essere un montone, che incoa la pecora debole e mangia per due. Altro che bene comune!
Il bene comune è rappresentato anche da ospedali pubblici che abbisognano di infermiere, da cantieri che richiedono manodopera… E se mancano le braccia?
La domanda rimanda alla «bomba demografica». Il nord del mondo è abitato da un miliardo di persone, che consuma l’83% delle riserve che Dio ha destinato all’intera umanità. Nel sud del mondo abitano 5 miliardi di individui, che sopravvivono con il restante 17% delle risorse… E tu vuoi che ci sia pace tra i due mondi? Cosa faranno, un giorno, i due terzi di questi 5 miliardi di persone che, oggi, hanno solo 15 anni?

Le Nazioni Unite raccomandano alle nostre famiglie di avere almeno due figli…

Intanto nell’Europa del nord la crescita è zero. Mentre, fra 15 anni, quei due terzi di 5 miliardi di persone avranno 30 anni: con la loro forza e le loro idee! Fra una decina d’anni l’Europa avrà bisogno di manodopera, pari a 150 milioni di stranieri. In Italia, dove ce ne sono 1 milione e mezzo, ne occorreranno 10 milioni.
I problemi non mancano quando si parla di extracomunitari. Si pensi alla Francia: che pasticcio con il chador delle musulmane! In ogni caso le difficoltà si risolvono insieme.

Anche l’Italia è divenuta multiculturale e multireligiosa, dove non ci dovrebbero essere culture e religioni di serie A e serie B. O è una pia illusione?

No, è solo giustizia, oltre che realismo. Le culture e le religioni devono dialogare. Per iniziare il dialogo, partiamo (almeno noi cattolici) da ciò che ha detto il Concilio ecumenico Vaticano ii: ci sono elementi di verità anche fuori della nostra chiesa (Lumen gentium, 8); le religioni non cristiane riflettono raggi di verità che illuminano tutti gli uomini (Nostra aetate, 2); si trovano verità anche presso quei non credenti che coltivano altri valori umani, perché non ne conoscono ancora la sorgente (Gaudium et spes, 92). Il coraggio del Concilio è dire: noi siamo portatori della verità, perché il Signore ci ha fatto conoscere tutto ciò che è necessario alla salvezza; però nella chiesa non ci sono tutte le verità.

Lei, padre Sorge, in una conferenza ai missionari della Consolata, ha dichiarato: «Il vangelo non è stato scritto solo per quelli che hanno la fede».

Sì, perché il vangelo contiene la risposta agli ultimi interrogativi che ogni uomo si porta dentro. Per me, in tanti anni di lavoro culturale, è stata un’esperienza impressionante vedere come la cultura laica rispetti il vangelo; non solo, ma trovi in esso la risposta ad alcuni interrogativi, anche senza la fede. È chiaro che, se uno crede che Gesù è figlio di Dio ed è l’unico salvatore, cambia molto.

Però il vangelo produce anche cultura, e non sempre la cultura è vangelo.

Il rapporto tra fede, cultura e storia è centrale nella nuova evangelizzazione. Se la rivelazione non si serve della cultura, il messaggio rimane muto. La cultura nasce e cambia con la storia e la geografia. La fede no: essa nasce dall’obbedienza a Dio che si rivela; quindi non dipende da eventi umani. Tuttavia fede e cultura, pur essendo diverse (e guai se si identificano), non prescindono l’una dall’altra. Quindi l’inculturazione del messaggio cristiano, di cui tanto si parla, è questione di vita o di morte per l’evangelizzazione. Non si tratta di battezzare le culture, ma di assumerle in ciò che hanno di vero. Una cultura lontana dal cristianesimo può insegnare a capire il vangelo stesso.
Questo è dialogo.

Come dialogare con l’islam?

La domanda è secca, e me l’aspettavo… Se noi crediamo di essere portatori di una Parola non nostra, ma di Dio; se la Parola è luce e dà luce… perché temere di dialogare con ciò che può sembrare oscuro? È mai successo che un raggio di luce, attraversando il buio, si sia spento? O, piuttosto, non è forse la luce che rischiara la tenebra? Un po’ di coraggio apostolico dobbiamo averlo!
Uso un’altra immagine: quella dei raggi della ruota. I raggi non formano un’unità, anzi non si incontrano mai: sono disparati e vanno in direzioni diverse. Questo è evidente alla circonferenza della ruota. Però, se si guarda al centro della ruota, da dove partono tutti i raggi, l’unità è inscindibile… Papa Giovanni ci ha detto: partiamo da ciò che ci unisce.
Sia chiaro che il dialogo non è passatempo, moda, pubblicità. Il dialogo è fatica e diventa efficace specialmente quando si è «sale», «lievito», non «massa».

Nel vero dialogo si può scegliere l’interlocutore?

Direi di no. Il dialogo è come l’evangelizzazione: non deve escludere nessuno. Ci è richiesto di compiere la missione ad gentes anche in Italia fra gli emigrati. Pur con rispetto verso le loro culture e religioni, dobbiamo essere capaci di testimoniare il vangelo anche a loro. E, se piace al Signore ed essi lo desiderano, annunziare loro la benedizione di Dio, promessa ad Abramo e a tutti i popoli. Non dimentichiamo che Gesù è morto e risorto anche per i musulmani. Però c’è un guaio…

Quale guaio?

Noi viviamo «come se il vangelo fosse vero». Invece «è» vero. Si sentono prediche sul messaggio di Gesù Cristo, sull’esistenza di Dio come se «fosse» vero… Dov’è la profezia? Noi parliamo perché abbiamo studiato. Forse non abbiamo ancora raggiunto quella maturità che è «la trasformazione in Gesù». Noi siamo chiamati ad essere Lui.

Chi è? Bartolomeo Sorge

Nato a Rio Marina (LI) nel 1929. Gesuita, docente di Dottrina sociale, direttore di Aggioamenti Sociali e di Popoli.

Direttore de La Civiltà Cattolica dal 1973 al 1985. Dal 1986 al 1997 è direttore dell’Istituto di formazione politica «Pedro Arrupe» di Palermo. Dal 1998 opera quale superiore dei gesuiti nella residenza di San Fedele a Milano.
Conferenziere, giornalista, saggista, scrittore.

Tra le sue pubblicazioni:
Le scelte e le tesi dei cristiani per il socialismo, Torino-Leumann 1974; Capitalismo, scelta di classe e socialismo, Roma 1976;
La ricomposizione dell’area cattolica in Italia, Roma 1979; Il dibattito sulla ricomposizione dell’area cattolica, Roma 1981; Uscire dal tempio, Genova 1989; Cattolici e politica, Roma 1991; L’Italia che verrà, Casale Monferrato 1992 – Bur supersaggi Rizzoli, 1992; I cattolici e l’Italia che verrà, Casale Monferrato 1993 – Oscar bestseller Mondadori 1993; Per una civiltà dell’Amore. La proposta sociale della Chiesa, Brescia 1996 (traduzione in portoghese, spagnolo e polacco).
Per Missioni Consolata, settembre 2002, ha scritto: «Il missionario fa politica. Ma come?».

L’IRAQ COME PALERMO

Il fenomeno della globalizzazione si realizza nel bene e nel male: quindi si globalizzano i rapporti fra ricchi, le comunicazioni tra poveri, la giustizia, il diritto… Si pensi, ad esempio, al diritto internazionale. Nel gennaio 2003 è nata la Corte penale internazionale, che rivoluziona il mondo.
Fino a ieri si diceva: ciò che avviene nei confini nazionali sono affari interni e nessuno ci può mettere le mani. Oggi non più: c’è una coscienza nuova.
Se un criminale ha commesso un delitto contro l’umanità, ne deve rispondere alla comunità internazionale. Se Milosevich ha compiuto dei genocidi nell’ex Jugoslavia, la Corte penale internazionale può intervenire e portarlo davanti al tribunale. Infatti i crimini contro l’umanità non vanno in prescrizione, anche se commessi molto tempo fa. Però alcune importanti nazioni (Russia, Cina, Israele) non hanno accettato la nuova regola. C’è da augurarsi che la coscienza maturi.
Quella donna musulmana, Amina, che doveva essere lapidata viva, perché non è stata uccisa? Perché, grazie alla globalizzazione, da tutte le parti del mondo sono arrivati, via internet, milioni di messaggi come questo: «Non uccidere Amina». Questo è un altro esempio di globalizzazione positiva, che favorisce la vita, che porta la giustizia.

Anche il terrorismo può globalizzarsi. E questa è una grave minaccia che pesa sull’umanità. Noi, prima dell’11 settembre 2001, non l’avevamo capito. Pensando alla violenza nel Medio Oriente, dicevamo: «È solo un terrorismo locale, con palestinesi e israeliani che si combattono». Non avevamo capito che il terrorismo è ormai globalizzato. Ed è un fenomeno senza volto. Non ha volto in Afghanistan, in Iraq.
Ma è una follia pretendere di vincere il terrorismo con la guerra. Esso è un fenomeno anche culturale, con radici disseminate in tutto il mondo: per esempio, nei campi-profughi, dove un povero palestinese (pur essendo la sua terra) nasce, cresce e muore. Allora i kamikaze, che uccidono se stessi per uccidere altri, diventano una forma di sublimazione. «Così mi rendo utile alla causa comune» ragiona il kamikaze suicida e omicida.
Quando ho sentito i rumori di guerra per sconfiggere il terrorismo internazionale, mi è stato spontaneo pensare alla mafia a Palermo, dove ho lavorato 11 anni guardandola in faccia. Mi è venuto istintivo questo paragone: bombardare l’Iraq per vincere il terrorismo internazionale, sarebbe come bombardare Palermo per sconfiggere la mafia… Quando tu avrai bombardato Palermo, la mafia starà meglio di prima, perché il fenomeno non è bellico, ma culturale, pseudoreligioso, fondamentalista…

Oggigiorno, se piglia fuoco la terra in un angolo, tutto il mondo è coinvolto… Giovanni Paolo II, nell’enciclica Sollicitudo rei socialis, già nel 1987 proponeva una soluzione, scrivendo: «Nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti, si fa strada una radicale interdipendenza e, per conseguenza, la necessità di una solidarietà che l’assuma e la traduca sul piano morale» (26). Ecco la nuova questione sociale.
Bartolomeo Sorge
(da una conferenza ai missionari della Consolata, Torino 10 febbraio, 2004) •

Francesco Beardi




Rispetto per la vita

Teologo, pastore evangelico, organista, medico nella foresta africana,
premio Nobel per la Pace, scrittore
di opere di filosofia della religione
e musica… oltre alla sua poliedrica vita, di Albert Schweitzer rimane
sempre attuale il messaggio etico
e l’esempio della sua azione per il «rispetto per la vita».

«L’uomo ha la possibilità di agire in favore della vita o di recarle danno, nei rapporti con il prossimo e nel suo atteggiamento nei confronti della natura, fino a toccare i grandi problemi del nostro tempo: la pace, la crescita sociale, la cultura, la ricerca scientifica, l’ecologia», così Albert Schweitzer scriveva in Civiltà ed etica nel 1923, un’opera in cui propone considerazioni, suggerimenti e moniti su un argomento che è stato il credo di tutta la vita: il «rispetto della vita», applicato a ogni settore dell’attività umana che entri in contatto con esseri viventi.
Lo stesso principio fu da lui ribadito nel discorso tenuto nel 1953, in occasione del conferimento del premio Nobel per la Pace, e nel famoso Appello all’umanità, discorso sul problema della bomba atomica, lanciato da Oslo nel 1957 e trasmesso in varie lingue da molte reti radio.
Il «rispetto per la vita», come legge morale, mantiene il suo valore, oggi più che mai, per il comportamento del singolo e della società.

INCONTRO CON GLI IPPOPOTAMI

Fin dall’infanzia Schweitzer sentiva grande compassione per gli animali: nelle sue preghiere, prima di addormentarsi, non dimenticava di volgere un pensiero a tutti gli esseri viventi, compresi gli animali.
Grazie all’influsso del «Movimento per la protezione degli animali», sorto negli anni della sua giovinezza, tale sentimento diventò sempre più radicato nella sua coscienza, fino a diventare un autentico assillo, nella convinzione che anche la filosofia morale dovesse prendere in considerazione l’obbligo di un atteggiamento favorevole nei confronti degli animali.
Un giorno del 1915, mentre navigava il lungo fiume Ogooué per recarsi al capezzale di un ammalato, stanco per i tre giorni di viaggio, dovette costeggiare un isolotto. Sopra un banco di sabbia, quattro ippopotami si muovevano pacificamente nella sua direzione: ebbe come un lampo che illuminò un problema che da anni lo assillava: si convinse che un’etica limitata al nostro rapporto con altri esseri umani è incompiuta, parziale e priva di energia; gli venne in mente un’espressione che sintetizzava il suo pensiero morale e filosofico nei riguardi del mondo e dell’esistenza umana: «Rispetto per la vita».
Tale espressione era tradotta nella vita pratica: oltre ad essere vegetariano, il dottor Schweitzer era attentissimo a non calpestare i fiori; nella costruzione dell’ospedale di Lambaréné si preoccupava personalmente che, scavando le fondamenta o le buche per i recinti, non venissero uccisi insetti e lombrichi, fino a scavare con le proprie mani.

VIVERE E FAR VIVERE

Cos’è il rispetto per la vita? come nasce in noi? «Per far luce su se stessi e sul rapporto con il mondo – spiega il dott. Schweitzer – bisogna accantonare la congerie di elementi che costituiscono il nostro pensiero e cultura, per rifarsi al primo fatto della propria coscienza, il più immediato, perennemente presente: la volontà di vivere. Solo da qui può giungere a una visione ragionata del mondo… Affermare la vita è l’atto spirituale con cui si cessa di lasciarsi vivere e si comincia a dedicarsi alla propria vita, per elevarla ai suoi massimi valori. Affermare la vita è approfondire, interiorizzare, esaltare la volontà di vivere… Il rispetto per la vita, nato nella volontà di vivere, divenuta consapevole, contiene strettamente congiunte l’affermazione del mondo e l’esigenza morale. Essa cerca di creare valori e realizzare progressi che giovino all’ascesa materiale, spirituale ed etica del singolo e dell’intera umanità».
Fin dai primi anni del secolo scorso, Schweitzer si dedicò a una lunga ricerca sul pensiero etico dei filosofi degli ultimi decenni, per mettere a fuoco il nostro comportamento nei confronti del creato e fondare razionalmente il suo concetto di rispetto per la vita.
Mentre Descartes dice: «Penso, dunque esisto», ma poi si perde nell’astratto; Schweitzer, rimanendo sul concreto, afferma: «Io sono la vita che vuole vivere, in mezzo alla vita che vuole vivere. Bisogna dunque rispettare la vita. L’uomo morale possiede il coraggio di lasciarsi tacciare di sentimentalismo, ma rispetterà la vita universalmente». Ossia, l’essere umano può chiamarsi «essere etico» soltanto se considera sacra la vita in se stessa, sia quella umana che quella di ogni altra creatura.
Il «rispetto per la vita» nel pensiero di Schweitzer non è una semplice, pur nobile, affermazione di principio, ma una chiave di volta per la modea capacità di giudizio del progresso tecnologico e le sfide culturali che ne derivano. Anzi, tale principio diventa una professione di fede incrollabile: il sì alla vita diventa etica collettiva. Il suo compito primario è la realizzazione del progresso e la creazione di quei valori che possano favorire la crescita materiale, spirituale ed etica del singolo individuo e di tutta l’umanità.
Tale concetto è legato a quello di «moralità» come principio fondamentale. «Un uomo è veramente morale – sosteneva – soltanto quando osserva l’obbligo impostogli di aiutare ogni vita che può assistere e quando si fa scrupolo di uscire dalla sua strada per evitare di danneggiare un essere vivente. Non chiede quanta comprensione meriti questa o quella vita a causa del suo intrinseco valore; neppure chiede di quanta sensibilità sia dotata. Per lui la vita, come tale, è sacra».

LA GUERRA È DISUMANITÀ

Ma con il passare degli anni, analizzando i due conflitti mondiali e relative conseguenze, Schweitzer constatava che la mancanza di umanità era aumentata rispetto alle generazioni precedenti; e affermava: «Siamo venuti in possesso di armi nucleari: la possibilità e la tentazione di distruggere la vita superano ogni limite. Oggi, grazie al grandioso progresso della tecnica, il destino dell’umanità è segnato dalla possibilità di un orribile annientamento della vita». E si domandava come presentare a tutti e in modo nuovo, il problema della pace.
Se un tempo si considerava la guerra un male accettabile, se non addirittura utile per il progresso umano, almeno dei popoli più forti, dopo i due conflitti mondiali tale ipotesi era fortemente messa in dubbio. Il dottor Schweitzer non aveva esitazioni: «È evidente che una guerra rappresenta una orribile calamità e non bisogna lasciar nulla di intentato pur di evitarla; e ciò, soprattutto per una ragione etica. Nelle due ultime guerre ci siamo macchiati delle colpe di un’orribile disumanità, e sarebbe ancora peggio in una guerra futura. Questo non deve avvenire».
Un monito caduto nel nulla: nell’ultimo mezzo secolo le guerre si sono susseguite e intensificate in tutto il mondo. «Quello che oggi ci manca – proseguiva il grande pensatore – è riconoscere che siamo tutti colpevoli gli uni verso gli altri di atti disumani. L’orrenda esperienza collettiva, attraverso la quale siamo passati, deve scuoterci, perché la nostra volontà e la nostra speranza siano impegnate verso tutto ciò che può portare a un’epoca in cui non ci siano più guerre. Questa volontà e questa speranza sono possibili solo se, attraverso uno spirito nuovo, raggiungiamo un’intelligenza superiore, che sia in grado di trattenerci da un uso infausto delle energie di cui disponiamo».
Il suo pensiero non è nuovo. Quattro secoli prima, nel 1517, Erasmo da Rotterdam (1469-1539) aveva pubblicato un volume intitolato Querela Pacis (Lamento della Pace), in cui la Pace (retoricamente personificata) espone al tribunale dell’umanità il suo desolato lamento e chiede di essere ascoltata. Il grande umanista olandese, per primo, ha osato opporsi alla guerra con motivazioni puramente etiche, definendola contraria alla natura umana; ma non ebbe seguaci. Il suo appello alla pace, come imperativo etico, fu considerato un’utopia.
Nel 1795, Immanuel Kant (1724-1804) pubblicò un’opera dal titolo significativo: Per la pace perpetua; per realizzarla, suggeriva il filosofo tedesco, c’è bisogno di un’autorità arbitrale internazionale, che abbia l’autorevolezza di dirimere le controversie tra i popoli.

MASSE DA SPIRITUALIZZARE

Constatava che le istituzioni inteazionali (Società delle nazioni e Onu) non sono state in grado di promuovere una situazione di pace, perché hanno dovuto operare in un mondo in cui manca una mentalità orientata alla realizzazione della pace. «Essendo istituzioni giuridiche, non potevano creare tale mentalità: questo è possibile soltanto allo spirito etico. Kant si sbagliava quando pensava di poter ottenere la pace senza questo spirito etico».
Secondo Schweitzer la pace dipende dalla formazione di tale mentalità nei singoli e nei popoli, la quale consiste nel rifiutare la guerra in base a motivi etici, cioè, perché essa ci rende colpevoli di disumanità.
I tempi di Schweitzer e i nostri attuali si equivalgono: i popoli si sentono tuttora minacciati da altri popoli. «È inevitabile – precisava il premio Nobel nel ricevere il premio – riconoscere ancora ai popoli il diritto di usare, per legittima difesa, le terribili armi di cui disponiamo». Convinto di esprimere la speranza di milioni di persone, che in molte parti del mondo temono per la pace, concludeva: «Quelli che tengono in mano il destino dei popoli possano riflettere, per evitare tutto ciò che potrebbe peggiorare la situazione in cui ci troviamo e metterci in ulteriore pericolo, e possano prendere a cuore quella meravigliosa parola dell’apostolo Paolo: “Per quanto sta in voi, siate in pace con tutti”».
La figura di Albert Schweitzer e il suo concetto di «rispetto per la vita», sono più che mai attuali, fonte di ispirazione per chi lotta per conservare la propria umanità: un bene da tutelare a ogni costo. Ma è una lotta che non si combatte unilateralmente, è la spiegazione sottile ma concreta del filosofo alsaziano. «Essa chiama a riflettere sul fatto che molta umanità e molta libertà interiore possono conciliarsi con la realtà della propria vita, ben più di quanto di fatto si realizzi. È una lotta che spinge a conservare, se qualcuno vi avesse rinunciato, la meditazione e il raccoglimento interiore. Bisogna arrivare a una spiritualizzazione delle masse. Ogni singolo deve giungere a riflettere sulla sua vita, su ciò che vuole ottenere per la propria vita mediante la lotta per l’esistenza, sulle difficoltà legate alle circostanze estee e su ciò a cui è disposto spontaneamente a rinunciare».

Non c’è dubbio che, nei decenni passati, il filosofo alsaziano ha contribuito allo sviluppo storico e spirituale del nostro tempo, che ne rispecchia le tendenze, le speranze, le angosce. Il principio del «rispetto per la vita» è ancora un’affermazione che obbliga tutti, in qualunque situazione si trovino, a occuparsi e farsi carico del destino degli esseri umani. Responsabilità che si traduce in vari modi e vari nomi: nonviolenza, pacifismo, neutralità, difesa dei popoli, impegno per la giustizia, salvaguardia del creato.

(*) Gioalista scientifico, addetto stampa
Associazione Italiana Albert Schweitzer

Eesto Bodini




Felice di servire

Dopo vari anni di attività in Kenya e in Italia, dall’ottobre 2003 suor Gina Motta presta servizio infermieristico
ai missionari della Consolata bisognosi di cure, nell’infermeria della casa madre a Torino.
Ecco la sua storia.

«Sono l’ultima di quattro figli: un fratello e tre sorelle. In famiglia ho respirato armonia e gioia, pur nella semplicità.
Come tutti i giovani, nell’età dell’adolescenza mi ponevo la domanda: che cosa vuole Dio da me? Di una cosa ero sicura: desideravo vivere pienamente la mia vita ed essere felice. Ma come? Nel matrimonio? Oppure rimanendo nel mondo e consacrando la mia vita per il bene dei fratelli e sorelle? O come suora?». Così suor Gina comincia a raccontare la sua storia.
A quei tempi si chiamava Franca. Non lo dice, ma è certo che parecchi giovani le ronzavano attorno. L’attrazione di Dio, però, era più forte. Attirata dal silenzio e dalla preghiera, un giorno sentì perfino un forte desiderio della vita claustrale. Volle fare l’esperienza di condivisione con la comunità di un monastero di clausura. Alla fine della settimana, però, comprese che quel tipo di vita non era fatto per lei.
Provò un’altra strada: accettò l’invito a partecipare a un corso di esercizi spirituali presso le missionarie della Consolata, a Grugliasco (Torino). Seguì una breve esperienza di «vieni e vedi» con alcune suore e juniores di quella stessa casa: il loro stile di vita le piaceva, l’ideale di servire Cristo nei più poveri rispecchiava la sua indole. Forse era proprio lì che Dio la voleva.

«A 19 anni feci una drammatica esperienza – continua a raccontare -: Gino, il mio unico fratello, mentre stava assistendo a una corsa automobilistica a Monza, venne falciato insieme ad altri da una Ferrari uscita di pista».
Era il 10 settembre 1961: all’inizio della gara, il pilota Von Trips fu tamponato dalla Lotus, guidata da Jim Clark; la Ferrari schizzò contro le reti di protezione della tribuna della leggendaria curva parabolica, mietendo la vita di 13 spettatori.
L’improvvisa e tragica morte del fratello, accrebbe in Franca l’innato desiderio di aiutare chi soffre e cominciò a prestare servizio in un ospedale. Dopo solo due anni, il ricordo della morte del fratello ravvivò in lei la decisione di una scelta radicale: essere missionaria a vita.

«Il 28 ottobre 1963
salutati i miei amatissimi genitori e le sorelle, lasciata la casa, tante persone amiche e il lavoro, mi presentai alle missionarie della Consolata. Da quel giorno non mi voltai più indietro e ancora oggi, dopo 40 anni, sto vivendo in pienezza e con gioia la mia vita missionaria» continua suor Gina.
Non sono mancate le difficoltà; la principale veniva proprio da suo padre, che amava teneramente e da cui si sentiva profondamente amata. Egli non aveva alcuna obiezione che sua figlia abbracciasse la vita religiosa, ma la scelta di farsi missionaria le sembrava troppo radicale e obiettava: «Perché andare in Africa, così lontano…?». La sentiva perduta per sempre.
Tuttavia, Franca poté trascorrere gli anni della formazione in serenità. Giunto il giorno della professione religiosa cambiò nome, come si usava ancora a quei tempi, e prese quello del fratello.
Arrivò anche il giorno della destinazione: era proprio l’Africa. Suor Gina si recò in famiglia per salutare i genitori, parenti e amici. Il papà toò alla carica: «Perché in Africa? Perché tanto lontano…?».
«Senza minimamente pensare a san Francesco di Assisi – racconta la suora -, feci il gesto di slacciarmi l’abito religioso, dicendo: “È questo che vuoi, papà?”. Da quell’istante cessò ogni perplessità e mio padre approvò in pieno la mia scelta».
Prima di spiccare
il volo per l’Africa, suor Gina fu inviata in Inghilterra, per imparare la lingua inglese e specializzarsi nel campo infermieristico. Vi arrivò nel 1967 e cominciò a frequentare i corsi di infermiera professionale e ostetrica nell’ospedale di Kendal.
Per cinque anni lavorò in un ospedale protestante a Londra, facendosi subito stimare per la sua servizievole attenzione, non solo verso i malati affidati alle sue cure, ma anche a quelli di altri reparti.
La sua popolarità era alle stelle. Un giorno, una paziente ricevette un mazzo di fiori. «Che belli! Sono meravigliosi, stupendi! Ma che pensiero gentile…» diceva la signora con questi e altri convenevoli che solo gli inglesi sanno fare; in fine, rivolgendosi alla suora che la assisteva notte e giorno, concluse: «Grazie, grazie! Portateli a suor Gina, per favore».

Il 2 settembre 1972
suor Gina raggiunse il Kenya e cominciò il suo servizio nel Nazareth Hospital, gestito dalle missionarie della Consolata a Nairobi. Era stato appena avviato il nuovo reparto di mateità, voluto e inaugurato da suor Prisca, poco prima della sua tragica morte. Le fu affidato il compito di attendere alle mamme, che giungevano da varie parti del Kenya per essere assistite nel parto o per problemi connessi con la mateità.
Furono tempi indimenticabili, carichi di ricordi, vissuti intensamente e ripagati dalla gioia di aiutare una media di 2.000 bambini a venire al mondo ogni anno.
Una di quelle mamme, appena giunta all’ospedale, le disse: «Sister, voglio che il mio dodicesimo figlio nasca qui, perché sento che morirò… Sono venuta all’ospedale missionario perché voglio essere battezzata». La battezzò personalmente e le prestò tutte le cure necessarie per salvarla.
Purtroppo, poco dopo aver dato alla luce la sua creatura, Mary, la neo-battezzata, morì a causa di un’inarrestabile emorragia post partum. Era serena, sicura di lasciare il suo piccolo in buone mani. Le sue ultime parole furono: «Sono contenta di riunirmi ai miei antenati».

Nel 1977 si presentava
in Kenya un’urgenza inderogabile: trovare personale capace di formare infermiere locali. A suor Gina fu chiesto di prepararsi a tale compito, frequentando il corso biennale in Community Nursing Training presso il Nairobi Hospital.
Unica suora cattolica presente nell’ospedale statale, a contatto con persone di ogni razza, cultura e religione, suor Gina visse altri tre anni (1978-1980) indimenticabili, ricchi di episodi che lasciano il segno.
Un giorno, un indiano di religione sikh, ricoverato per sottoporsi a una difficile operazione, le disse: «Suora, lei è una donna di Dio: mi metta le mani sulla fronte e mi dia la pace».
La richiesta la colse di sorpresa. Pochi giorni prima, alla fine di un incontro del «Rinnovamento dello spirito», il prete, un americano, le aveva domandato se imponeva le mani sui malati; la suora aveva risposto con un sorriso di diniego; ma il prete, con una fanatica filippica, le aveva ordinato di imporre le mani sui pazienti e operare guarigioni. E lei, per nulla convinta, aveva risposto con serafico sorriso che avrebbe continuato a pregare per i suoi malati, ma le mani non le avrebbe imposte mai.
Passato il flash back, suor Gina rispose all’indiano: «Le mani sulla fronte te le metto volentieri, ma quanto alla pace, questa non viene da me: devi essere tu a riconciliarti con Dio e con i fratelli». Il paziente confessò che aveva litigato con un fratello a causa di un garage. Ma come riconciliarsi?
Si avvicinava il giorno dell’operazione e del compleanno dell’indiano: la suora gli suggerì di invitare tutta la parentela per la duplice occasione. E così avvenne: chiamò tutti familiari e si riconciliò con loro.
Una signora anglicana era in attesa di sottoporsi a una gastroscopia, poiché soffriva di tremendi crampi allo stomaco. Confidandosi con la suora, raccontò di avere litigato con il suo datore di lavoro e le chiese consiglio sul da farsi. «Cosa leggi nel vangelo – rispose suor Gina -? Se hai qualche cosa contro un tuo fratello, vai e riconciliati con lui». La donna chiese qualche ora di permesso; si fece accompagnare dal marito dal suo datore di lavoro e chiarì la faccenda: i crampi scomparvero e la donna non toò più in ospedale.
Più preoccupato della prenotazione cancellata e relativa perdita della parcella che dell’improvvisa guarigione, il responsabile dell’ospedale domandò alla suora che cosa avesse fatto a quella signora. «Niente; le ho solo consigliato di rappacificarsi con il suo datore di lavoro» rispose serafica suor Gina.

Conseguito il diploma
di abilitazione, suor Gina fu inviata all’ospedale missionario di Nkubu, come direttrice e insegnante della scuola per infermieri: aveva a carico la formazione di 140 allievi e allieve.
Furono cinque anni di stressante lavoro e responsabilità, che minarono la salute della suora, tanto da dover lasciare quella missione che, nonostante tutto, le procurava immense soddisfazioni.
Toò in Italia e, poco dopo, a Londra, dove rimase tre anni, dedicandosi alle più svariate attività: animazione missionaria nelle parrocchie, assistenza alle giovani suore venute in Inghilterra per imparare l’inglese, incontri ecumenici di preghiera con pastori protestanti e… lavori casalinghi.
Ritornata in Italia, per sei anni fece parte della piccola comunità di Albisano di Torre del Benaco (Verona). Anche là continuò la sua «missione»: oltre a dedicarsi ai malati, sia in comunità che nelle famiglie, si prestò con entusiasmo come catechista e animatrice liturgica nella parrocchia, senza dimenticare i servizi richiesti dalla comunità, compreso quello di autista.
Quando le fu offerta l’occasione di partecipare a un corso di aggioamento spirituale all’università Urbaniana di Roma, nel 1988 si trasferì nella capitale, prestando il suo servizio infermieristico alle sorelle e alle pensionanti della casa di Via Foscari. Nel 2001 continuò lo stesso lavoro nella casa di spiritualità a Caprie (Val Susa, Torino).

Nell’ottobre del 2003
dovette improvvisamente interrompere la sua attività nella comunità di Caprie, perché richiesta di sostituire la sorella infermiera presso i confratelli missionari della casa madre di Torino.
«Devo umilmente e con gioia ammetterlo – conclude suor Gina -: dal giorno in cui ho lasciato l’Africa, Dio ha continuamente aperto nuovi orizzonti nella mia vita, facendomi sentire sempre di più e in modi differenti la bellezza della mia vocazione missionaria.
Oggi ho la gioia di poter servire Cristo nei suoi figli prediletti, curando i confratelli missionari ammalati. Molti vengono dalla missione, altri sono impegnati in attività in vari centri dell’Istituto; alcuni stanno trascorrendo un periodo post-operatorio e abbisognano di cure specifiche, ma tutti vivono e offrono per la missione che desiderano rivedere al più presto.
Qui mi sento autentica missionaria, indirettamente impegnata nell’evangelizzazione. Con loro mi arricchisco nella conoscenza di altri continenti, di vita missionaria concretizzata nelle più diverse culture. Con loro condivido le ansie e le giornie del regno. Di tutto ciò non posso che ringraziare e lodare il Signore». •

Benedetto Bellesi




Fratelli “costruttori”

Missionari a tutti gli effetti che, nel silenzio,
offrono un esempio di laboriosità,
spirito di servizio e dedizione alla gente

Nella realizzazione dei vari progetti dei missionari della Consolata, i «fratelli», nonostante la loro modestia, diventano artigiani essenziali, veri «costruttori» del regno di Dio di cui bisogna riconoscere i meriti. Ecco ciò che abbiamo potuto constatare nel nostro viaggio in Tanzania.

Fr. Paolino Rota
All’inizio della nostra visita in Tanzania, ci siamo fermati qualche ora alla procura di Dar es Salaam, prima di intraprendere la strada per Morogoro, ultima destinazione del nostro itinerario. Poco prima della partenza, per caso, fratel Paolino ci viene incontro e ne approfitto per chiedergli qualche informazione.
«Da 41 anni mi sposto qui e là nel paese – mi risponde – per dirigere gli operai e i lavori di costruzione nelle missioni, quelle dei padri come quelle delle suore».
Un numero così alto di anni mi impressiona, ma il racconto delle opere realizzate da questo fratello ancora di più. Gioo dopo giorno, anno dopo anno, ha reso immensi servizi alla missione costruendo, con l’aiuto di muratori tanzaniani, una mateità, due dispensari, la residenza dei padri nella parrocchia di Kibiti, la clinica delle suore a Mbagala, l’ospedale di Ikonda (10 anni di intenso lavoro), il centro educativo «Stella del mattino» delle suore a Ilamba, il convento di Mafinga… La lista delle opere non finisce qui: ne ha costruite talmente tante, che certamente qualcuna è stata dimenticata.
È felice, ancora pieno di energia e sempre pronto a iniziare nuovi progetti.

Fr. Liduino Lanzi
Incontro a Dar es Salaam anche fratel Liduino. Mi racconta che, dopo aver lavorato in Italia dal 1948 al 1956, è giunto in Tanzania dove è stato in dieci posti, tra il 1956 e il 1983 come falegname. A Ikonda, aggiunge con fierezza, ha pure partecipato al progetto della costruzione dell’ospedale.
Da 20 anni lavora alla procura di Dar es Salaam, rendendo ancora immensi servizi con una devozione e generosità, senza alcuna ostentazione. Oltre agli incarichi relativi al funzionamento della casa, è prezioso per missionari e visitatori che arrivano in Tanzania oppure che la lasciano: problemi di passaporti, biglietti aerei, permessi di soggiorno, viaggi per l’aeroporto… Liduino è diventato l’indispensabile punto di riferimento per tutti.
Non solo fa onore alla comunità, ma anche al suo paese: l’Italia. Per questo gli è stata attribuita una medaglia al merito del lavoro, piccolo segno di riconoscimento per tutti i servizi resi in questi 48 anni. E non pensa ancora di andare in pensione.

Fr. Nahashon Njuguna
È nel 1986 che fratel Nahashon Njuguna, di origine kenyana, scopre la sua vocazione. Influenzato dai missionari della Consolata della sua parrocchia, in particolare dal lavoro dei fratelli, esprime il desiderio profondo di diventare uno di loro. Termina le scuole superiori e si specializza in carpenteria.
Sempre in Kenya, studia filosofia prima di entrare in noviziato. Arriva, poi, in Italia dove ottiene il diploma di geometra e, con tutte queste conoscenze, pronuncia i voti perpetui nell’ottobre 1994.
Sempre in quell’anno viene inviato in Tanzania, dove comincia a realizzare i vari progetti che gli vengono assegnati. Ha già al suo attivo la costruzione di un salone parrocchiale, due chiese, alcuni locali amministrativi a Dar es Salaam, una scuola, un progetto di installazione d’acqua nella diocesi di Singida, un dispensario a Iringa. Lo abbiamo trovato intento alla costruzione di un dispensario-mateità a Ng’ingula.
Davanti agli immensi bisogni dei più poveri, il fratello sente il bisogno di costruire, e con spirito missionario, lavora con gioia nel suo servizio al popolo tanzaniano. Mi confessa di non aver mai desiderato diventare prete, ma di essere sempre stato felice come fratello. Ascoltandolo mentre parla, quando accoglie chi ha bisogno di lui o mentre lavora, è evidente che non ricerca nessuna gloria, ma compie il suo lavoro per amore di Dio e dei poveri della missione. «Mi piace essere utile alla gente» – è stata la sua conclusione al nostro incontro.
Fr. G. Franco Bonaudo
Arrivando a Ikonda, incontro fratel Gianfranco, anch’egli nella lista dei «costruttori» della missione, in Tanzania. Dopo quattro anni di volontariato in Italia, ha scelto di entrare tra i fratelli della Consolata. Inviato in Tanzania, ha già accumulato 10 anni di esperienza, lavorando a diversi progetti di costruzioni: Dar es Salaam, Kigamboni, Ubungo, Iringa e, ora, Ikonda.
I progetti di approvvigionamento d’acqua e di elettricità sono diventati la sua specialità e ne parla con entusiasmo, pensando soprattutto alla loro utilità nel servizio dei poveri della regione.

Fr. Boniface Mutisya
Tra i fratelli non ci sono soltanto falegnami o costruttori. A Mgongo ho incontrato fratel Boniface Mutisya Kyalo, di origine kenyana, che lavora attualmente come direttore del Centro di formazione professionale: una scuola dove si insegnano i mestieri di falegname, meccanico e calzolaio (non solo per riparare scarpe, ma anche fabbricarle).
Tocca a lui selezionare gli studenti, che devono aver concluso il settimo anno delle scuole elementari; saranno accolti se dimostrano desiderio e interesse per questi mestieri e sono disposti ad accettare il regolamento della scuola. Inoltre, fratel Boniface controlla che la scuola tecnica funzioni bene, occupandosi della disciplina e vegliando sull’impegno degli studenti. Dopo tre anni, gli studenti sono invitati a cercarsi un lavoro e il suo sogno sarebbe di fondare due cornoperative, per impiegare coloro che hanno terminato gli studi al Centro.

Concludendo, vorrei sottolineare il lavoro meraviglioso che i fratelli, troppo spesso dimenticati, compiono con generosità, devozione e impegno nei paesi di missione.
A tutti loro, che mettono i talenti al servizio dei più poveri, noi rendiamo omaggio, esprimendo la nostra gratitudine e ammirazione!

Ghisline Crete




Buona fortuna sister Magdalena

Una nidiata di orfani, circondati
dall’affetto di cinque «missionarie
della carità».
Che continuano
a diffondere
nel mondo
il «dono»
di Madre Teresa.

Ormai sono passati due anni dalla nostra indimenticabile esperienza in Kenya; ma è come se avessimo ancora nelle orecchie le voci e le grida allegre dei bimbi dell’orfanotrofio di Maralal.
Ma facciamo un passo indietro.

Agosto 2001,
Torino-Nairobi, Nairobi-Suguta Marmar, dove c’era il nostro «campo base», coloratissima sede da cui, ogni mattina, partivamo per una «missione» diversa: c’erano giornate in cui andavamo a visitare i villaggi più sperduti, per portare vestiti o medicinali; altre con l’impegno della catechesi alle donne e ai bambini; altre ancora, in cui si correva per celebrare la messa in più posti; e poi, finalmente, il meritato giorno di riposo, in visita al vivacissimo mercato di Maralal! Ci assaliva subito un’euforia strana: gli occhi ci si riempivano di colori e il naso degli odori più diversi: stoffe, spezie, animali, pile di collanine di tutte le forme e dimensioni, e, dulcis in fundo, caratteristici personaggi nostrani.
Ed è proprio durante queste nostre giornate a Maralal, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere sister Magdalena e la sua grande schiera di «tesori». Nella cittadina, infatti, c’è l’unico orfanotrofio del distretto Samburu. Sulla via principale, dietro un muro completamente scrostato e una piccola porticina di ferro, in realtà si apre un grande mondo: panni colorati stesi al sole, giochini sparsi per il cortile e poi loro, le cinque magnifiche padrone di casa, attorniate da una schiera di pulcini, tutti occhioni e sorrisi!
A capo delle cinque suore missionarie della carità (l’ordine di Madre Teresa di Calcutta) c’è suor Magdalena, la superiora, responsabile della struttura, ormai da cinque anni. Dopo le presentazioni e una visita nei locali dell’orfanotrofio, le suore ci hanno gentilmente offerto un thè caldo, mentre suor Magdalena si è seduta con noi, iniziando a raccontarci la sua storia e quella del suo operato a Maralal…

Raccontava,
per esempio, di quando la mattina uscendo in strada, a volte trovavano fagottini lasciati espressamente davanti alla loro porta, con dentro bimbi abbandonati: le famiglie infatti, sapendo di non poterli accudire e mantenere, preferivano privarsene, lasciandoli in un porto sicuro, dove cibo e una sana educazione non sarebbero mai mancati! O quando tutti i bimbi piangevano insieme, perché era l’ora della pappa e le cinque suorine, da sole, non riuscivano a tenere il ritmo!
La cosa che ci ha colpito di più è stata quella di entrare nel dormitorio: tante piccole testoline nere, dentro una trentina di lettini blu, si sono girate al nostro arrivo e, dopo il primo momento iniziale di silenzio e stupore, c’è stato chi si è messo a ridere, chi a piangere e chi si rintanava sotto le copertine per la timidezza. Erano bellissimi, ce li saremmo portati a casa tutti quanti!
Ora siamo ancora in contatto con suor Magdalena. In questi due anni ci siamo scritti lettere e cartoline, noi raccontando il nostro solito tran-tran quotidiano e loro aggioandoci sui piccoli progressi dell’orfanotrofio: ampliamento delle strutture, camerette per i bimbi, rinnovo della sala mensa e nuove divise scolastiche per gli scolaretti.
Per due anni abbiamo anche raccolto e mandato loro vestitini, scarpe e giochi; loro ci ringraziavano, mandandoci disegni e foto. Non avremmo potuto chiedere di meglio!

Con l’ultima lettera
però, abbiamo appreso che suor Magdalena, alla fine di gennaio, è stata trasferita in un’altra città, in un altro continente, per un’altra missione. Il suo operato a Maralal è finito.
Ci ha detto che è triste, che i «suoi bimbi» le mancheranno parecchio, che ha paura di soffrire il cosiddetto «mal d’Africa»… ma anche che «le strade del Signore sono infinite» e che, dunque, è pronta ad affrontare il nuovo incarico con la stessa vitalità e lo stesso entusiasmo. Perché lei ha stretto un patto con il Signore: ha scelto di essere missionaria della carità nel mondo!
Cara suor Magdalena, sai che dovunque andrai, noi ti sosterremo sempre e ti saremo vicini, con il pensiero e la preghiera…
Buona fortuna!

Rosa e Rosetta

«H o conosciuto la famiglia di Madre Teresa, sua mamma Drane e la sorella Aga, quando sono venute a vivere nell’appartamento sopra al mio. Come d’abitudine, mi sono presentata, dando il benvenuto. Sono stata accolta con grande calore e subito tra di noi si è sciolto il ghiaccio». Sono le prime parole della signora Myzejen Mero, vicina di casa della famiglia di Madre Teresa, negli anni trascorsi a Tirana.
«La signora Drane aveva già 82 anni ed io la chiamavo Loke (che significa mamma), come voleva essere chiamata da tutti. Era una donna piccola, molto magra, con grandi occhi e uno sguardo solare. Parlava la lingua kosovara; chiamava Teresa “Gonxhe Jul” (che in turco significa rosetta) e da lei veniva chiamata “Drano File”, rosa. Tutte le lettere che riceveva dalla figlia suora iniziavano con “Cara Drano File”.
È stato quando Teresa aveva terminato il ginnasio che Loke, vedendo la figlia silenziosa e pensierosa, scoprì che stava maturando il desiderio di consacrarsi al Signore, ma glielo impedì. Forse per paura di una nuova perdita, dopo quella del marito (avvelenato) e di vari cugini (morti di tubercolosi). Ma il Signore opera per vie a noi sconosciute e, successivamente, Teresa si ammalò di tifo e cadde in coma per tre giorni. Ormai le avevano già preparato l’abito bianco quando, piano piano, si riprese.
Di fronte ad un tale avvenimento e all’insistenza della figlia, Loke le rispose: “Va bene, mi hai convinta. Se fossi morta, non ti avrei più vista con gli occhi e non avrei più udito la tua voce; ma adesso che sei ancora in vita, anche se sarai lontana, non potrò vederti, ma almeno potrò ancora sentire la tua voce”. E fu così che ebbe inizio la grande avventura di colei che oggi, con affetto, noi chiamiamo Madre Teresa.
Lo stile di Madre Teresa si vedeva nella corrispondenza che teneva con la sorella Aga. Le lettere erano sempre brevi, ma non mancavano mai le foto dei bambini lebbrosi, a cui la Madre stava dedicando la vita. Così, anche quando Loke fu colpita da sclerosi multipla ed Aga le raccontò tutte le cure che le prestava, Madre Teresa le rispose brevemente: “Beata te, che stai curando la mamma e stai diventando per lei come un angelo custode”. Quando morì, scrisse semplicemente: “Beata la mamma, che si è riunita agli angeli del cielo”.
Ancora in vita, Loke ed Aga erano sempre serene e vivevano aiutando i bambini del vicinato. Aga veniva chiamata zia e ogni anno, a settembre, preparava a tutti la divisa per la scuola. Era una ragazza molto onesta, di forte esempio, che entrava nelle case e custodiva i segreti di ognuno. Erano entrambe benvolute da tutti; quando Loke morì, ognuno diede il suo contributo, seppellendola secondo il rito cristiano, in un paese dominato dalla dittatura e dal rancore verso ogni forma di fede.
Abbiamo continuato a stare vicino ad Aga, ma dopo un anno anche lei è stata poco bene; ha avuto un infarto ed è stata ricoverata. Spontaneamente, tutti ci siamo organizzati per darle l’assistenza che meritava! Personalmente, sono riuscita a salutarla proprio il giorno prima della sua morte: era molto triste, ma serena. Hanno vissuto bene ed hanno lasciato un importante messaggio di speranza attorno a loro».
Chiara Minutella
e Ermal Rexhepi

Alessia Magnetto