Missione Europa: dalla memoria all’azione


Due anni fa, come missionari e missionarie della Consolata abbiamo promosso in tutte le nostre comunità sparse per il mondo un anno speciale dedicato al beato Giuseppe Allamano. Lo scopo di quell’iniziativa era di riscoprire e rinnovare il legame affettivo con la persona del nostro fondatore, per scongiurare il rischio di lasciare arrugginire il rapporto vitale con la nostra storia.

Quando uno entra a far parte dei missionari della Consolata,  è chiamato a vivere una relazione speciale con l’Istituto, che l’Allamano ha sempre considerato come una famiglia. In questa maniera non banalizza né narcotizza nella routine quotidiana uno stile di vita per la missione che invece va continuamente rivitalizzato e rinnovato. La missione non si vive per abitudine, ma richiede di essere riscoperta, rivissuta e ripresentata con forza in modo appassionato e coinvolgente.

Se questa riflessione è valida per tutti i missionari sparsi nei vari continenti, in Europa è ancora più urgente, a causa della profonda trasformazione che il continente sta vivendo. Una situazione che offre spunti di enorme interesse alla riflessione sulla missione. Per anni l’Europa è stato lo scrigno della nostra tradizione. Ma ora rischia di essere la nostra tomba. Senza voler essere irriverenti, dobbiamo oggi estrarre il «tesoro» del beato Allamano che abbiamo chiuso nel sepolcro in cui egli è venerato, allo scopo di proiettarlo, senza bisogno di troppe parole ma attraverso la nostra vita e le nostre scelte, nelle periferie geografiche ed esistenziali dell’Italia, del Portogallo, della Spagna e della Polonia, i paesi europei in cui lavoriamo.

Siamo quindi chiamati oggi a coltivare una duplice spiritualità: della memoria e dell’azione. Innanzitutto della memoria: qui siamo nati, qui l’Istituto ha mosso i primi passi, qui si è sviluppato e da qui ha vissuto la propria missione, dedicandosi all’animazione missionaria della Chiesa locale, alla ricerca di aiuti e vocazioni per le missioni. Qui alcuni grandi confratelli e consorelle hanno dedicato con zelo e passione la loro vita per mantenere e far crescere la dimensione missionaria della Chiesa in Europa. Riscoprire la figura dell’Allamano sacerdote in Europa, e quella dei confratelli che ne hanno continuato lo spirito, è il primo compito che ci proponiamo. Saremo forse nani sulle spalle di giganti, come diceva Wittgenstein dei grandi filosofi dell’antichità, ma dall’alto di quelle robuste spalle che ci sostengono, vogliamo guardare lontano.

La memoria da sola non basta, va perciò coniugata con una spiritualità dell’azione per capire come tradurre in atteggiamenti concreti lo spirito del missionario della Consolata in un contesto come quello europeo. Senza abbandonare quella che era «l’animazione missionaria», oggi abbiamo in atto tante nuove esperienze di consolazione e annuncio all’interno delle chiese europee. L’apertura di nuove presenze in quartieri marginali, l’accoglienza di profughi e migranti in alcune delle nostre case, il servizio alle comunità etniche o alle donne sfruttate, le molteplici attività di consolazione dirette a curare l’uomo di oggi ferito dalla solitudine e dal sentirsi uno scarto della società, la vicinanza ai giovani ormai lontani dalla vita ecclesiale, eppure così desiderosi di qualcuno che parli loro di Dio …

Possiamo riscoprire la nostra vocazione di annunciatori della Buona Notizia nei «nostri» paesi diventati un terreno fertile per vivere la nostra vocazione delle origini: il primo annuncio del Vangelo.

Ugo Pozzoli

 




Pillole «Allamano» 7: Canali e conche


Siate conche, non canali, con i beni spirituali
Siate canali, non conche, con i beni materiali

Un medico cinese (ma sarebbe stato d’accordo con lui anche il mio vecchio pediatra) direbbe che la medicina ha bisogno di un approccio «olistico» se vuole essere efficace e portare a un benessere effettivo dell’individuo. Detto in parole povere, essa deve coinvolgere ogni aspetto riguardante l’essere umano, tanto materiale quanto spirituale.

La pillola di questo mese è un medicamento antico che punta a offrire una cura completa, un ritrovato che il nostro «farmacista» Giuseppe Allamano ha ereditato da una tradizione lontana. Antico non significa necessariamente antiquato, superato o, per usare un termine farmaceutico – visto che si parla pur sempre di pillole – scaduto. I rimedi della nonna rivelano, talvolta anche oggi, la loro efficacia, nonostante noi, gente super sofisticata del 21° secolo, facciamo fatica a crederlo.

Lo spunto per riflettere su questo consiglio che l’Allamano ci offre lo troviamo in un passo del Sermone 18 al Cantico dei Cantici di san Beardo da Chiaravalle. In esso il santo, dottore della Chiesa e maestro di spiritualità medievale, mette in guardia coloro che vogliono effondere lo Spirito prima che esso venga in loro infuso. In breve, secondo Beardo, lo Spirito Santo compie in noi una duplice operazione: infusione ed effusione. La prima ci fortifica interiormente, a nostro vantaggio e per la nostra crescita spirituale. Attraverso l’infusione dello Spirito in noi, riceviamo doni come fede, speranza e carità, doni che sono nostri, che servono alla nostra salvezza. Altri doni (per esempio, scienza, sapienza, profezia, guarigione, lingua, ecc.) li riceviamo per il bene spirituale del prossimo, per donarli a chi ne ha bisogno. Di fatto, ricorda Beardo, essi non sono indispensabili per la nostra salvezza, ma ci sono concessi a beneficio altrui, per compiere verso il nostro prossimo un atto di misericordia che serva da aiuto in un cammino di crescita spirituale.

I primi doni, quelli infusi, sono condizione affinché i secondi possano convertirsi in strumenti di salvezza. È necessario essere ripieni dello Spirito prima di poterlo effondere, sostiene Bernardo. A poco servirebbero il dono della parola o quello della scienza se per mancanza di carità non li condividessimo con il nostro prossimo; ugualmente sterile sarebbe però la persona che volesse condividere i suoi talenti senza fondarli su una solida base spirituale. Solo in questo modo i doni condivisi saranno in grado di dissetare, sanare, esortare, far crescere nella fede, dare speranza, riempire di amore. Bernardo teme la superficialità e per questa ragione definisce la persona saggia come colei che è capace di essere conca, vasca, piuttosto che canale. Il canale, infatti, nel momento in cui riceve riversa, mentre la conca raccoglie, aspetta di essere piena e comunica della sua abbondanza. Purtroppo, è l’amara constatazione di san Bernardo, si hanno nella Chiesa molti più canali che conche; molte più persone che vogliono trasmettere ciò che non hanno, insegnare quanto non hanno imparato, parlare prima di ascoltare, indicare ad altri cammini che non si sono mai percorsi, né si saprebbe come iniziare a esplorare. Dai tempi di Beardo, passando per quelli di Giuseppe Allamano fino ad arrivare ai giorni nostri, le cose non sono cambiate più di tanto. Risuonano profetiche ed attuali le parole dell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, scritta ormai quasi 40 anni fa e giustamente riproposta con insistenza in questi ultimi tempi, in cui papa Paolo VI ricordava a tutti come, in materia di evangelizzazione, il mondo fosse molto più interessato all’ascolto dei testimoni piuttosto che dei maestri (EN 41).

Le persone che incontriamo sono completamente disincantate nei confronti di parole pur belle ma vuote. Le parole piene, al contrario, sono quelle che non girano semplicemente nella bocca, ma ricevono la loro forza dal cuore. La conca in cui sono custodite le rende cristalline e pure, permette ai detriti di depositarsi sul fondo lasciando che le mani che si racchiudono per bere attingano all’acqua più pura. A volte anche le buone azioni possono essere piene di detriti e persino l’esercizio della misericordia corre il rischio di essere frainteso, equivocato e abusato se non scaturisce da una fonte profonda e ricca.

Giuseppe Allamano raccoglie le parole di Bernardo e le fa sue. Professore di morale per molti anni, sa per esperienza che il bene è un oggetto fragile e va trattato con dolcezza e delicatezza. Se lo si porge con poco garbo si può rompere facilmente e solo con difficoltà può essere riparato. Lo vediamo anche noi oggi. Ne facciamo esperienza quotidiana entrando in contatto con persone ferite dalla banalità di un cristianesimo di facciata, raccogliendo storie che narrano promesse di grazia tradite, incontri col nulla camuffati da esperienze di fede, bisogni reali affrontati a colpi di bla bla bla e mai soddisfatti. A volte sono le nostre stesse debolezze a fare strage delle speranze altrui, a tradie le aspettative; non lo si può evitare, è lo scotto che si deve pagare al fatto di essere umani e fallibili. Questa fragilità può essere però limitata. L’apertura allo Spirito è la prima attitudine da coltivare se si vuole essere fonti vive. Tuttavia, sappiamo bene che tale apertura non potrà aver luogo se non si ricercano momenti di preghiera, silenzio e incontro con Cristo in grado di permetterci di accogliere il dono del suo Spirito. Occorre trovare spazi che permettano l’echeggiare della Parola nel profondo di noi stessi, anche se ciò potrà essere causa di sofferenza. La Parola, infatti, è spada a doppio taglio, che penetra e purifica, divide, pota, converte (cf. Eb 4,12).

La nuova evangelizzazione, di cui tanto si parla in questi ultimi tempi, altro non è che un modo credibile di presentare la Buona Notizia di sempre. Oggi, in effetti, la gente non ha bisogno di tante parole. Bastano 64 battute per lanciare un tweet nel ciberspazio ed essere letto da centinaia, migliaia, milioni di followers (Papa Francesco ha 14 milioni di persone che lo seguono su Twitter). La differenza la fanno il contenuto e ciò che sta sotto a esso. Le banalità possono risultare interessanti e anche divertenti, ma alla fine stancano. C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la propria missione in modo autentico ed efficace.

 

Trattenere i beni spirituali, arricchirsi di essi è un atto di misericordia e non di egoismo. Chi si fa conca dei doni dello Spirito automaticamente dona con generosità, perché è lo Spirito stesso che, infuso, effonde grazia su grazia, annunciando ciò che deve e non ciò che vuole, senza risparmiare le verità scomode, senza ammiccare al mondo per paura di non piacere.

Giuseppe Allamano prende il consiglio di San Bernardo, lo completa e lo propone ai suoi missionari in una versione riveduta e corretta che ci fa vedere la sua originalità di pensiero: «S. Bernardo dice che noi a riguardo del prossimo dobbiamo essere conche e non solo canali […], ma in questo [beni materiali] dobbiamo essere solamente canali e non conche, e questo lo dico io» (Conferenze IMC, III, pagg. 46-47).

«E questo lo dico io!». Giuseppe Allamano è un sacerdote che desidera fortemente che i suoi siano persone spiritualmente ricche; vuole però anche che la loro spiritualità non si converta in uno spiritualismo eccessivo, avulso dalla realtà. I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare alla corrente del canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». La missione è annuncio di un dono, del regalo che Dio fa al mondo tanto amato: l’unico suo Figlio offerto per la salvezza di tutti (Gv 3, 16). Un mondo scettico, qual è quello di oggi, deve essere aiutato a credere, e per questa ragione deve poter vedere il dono. Non possiamo trattenerlo, nascondendolo alla vista di chi lo cerca, a volte con ansia o con disperazione. Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero sacramentini, che avessero uno spirito eucaristico, che fossero pane spezzato per calmare la fame delle genti. Per decenni i Missionari e le Missionarie della Consolata ne hanno seguito l’invito e si sono fatti essi stessi dono, aiutati dalla generosità di tanti amici e benefattori che, pur senza partire fisicamente per la missione, ne hanno sostenuto lo svolgersi e lo sviluppo, talvolta a prezzo di grandi sacrifici.

Giuseppe Allamano ha parlato al cuore di molti, con il suo spirito semplice e diretto, e oggi continua a parlare anche a noi, invitandoci a essere segni di uno stile di vita alternativo a quello che il mondo propaganda, esortandoci a non stancarci di dare. La crisi che stiamo vivendo suggerirebbe forse di trasformarci in conca anche per quanto riguarda i beni materiali, perché «non si può mai sapere …». In effetti oggi il cristiano è chiamato a fidarsi maggiormente della Provvidenza anche nel nostro Occidente che, fino a poco tempo fa, dispensava i più dal doverlo fare con radicalità. Del resto, la vita stessa di Giuseppe Allamano è stata un canto alla Provvidenza, la storia di un uomo che si è fidato di Dio, investendo tutto quanto aveva nel progetto missionario al quale si sentiva chiamato. «Bisogna fidarsi della Provvidenza e meritare i suoi aiuti», sosteneva. «Mai ho perso il sonno per questioni di denaro», ha detto più volte ai suoi missionari, testimoniando con la sua esperienza che il dare senza risparmio, senza se e senza ma, paga i suoi dividendi nel modo misterioso che solo Dio conosce.

Inutile dire che essere una conca ripiena di spirito aiuta a comprendere la sapienza nascosta dietro alla necessità di essere anche canale in cui scorrono copiosamente e generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 1: Cercate Dio solo e la sua santa volontà

I dieci consigli («pillole») contro il logorio della vita moderna che, a partire da questo mese e per tutto l’anno, MC vi offre, sono anche conosciuti come «I dieci comandamenti» dell’Allamano». Nati dalla creatività di mons. Luis Augusto Castro (missionario della Consolata e arcivescovo di Tunja, Colombia) essi riassumono in poche parole il pensiero del nostro Fondatore. La sintesi che ci propongono non è sicuramente esaustiva. Del resto, come potrebbero dieci frasi esaurire il pensiero di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita all’apostolato diocesano e alla missione? Sono però dieci passwords che colpiscono per la loro brevità e immediatezza, e offrono una chiave di accesso all’umanità e alla spiritualità di un santo prete, come fu senza ombra di dubbio Giuseppe Allamano. Va detto inoltre che lo spirito di questi brevi articoli non è tanto quello di spiegare il pensiero del nostro Fondatore, quanto quello di partire da alcuni suoi spunti per offrire una scintilla di spiritualità missionaria che possa illuminare la nostra quotidianità.

«Contro il logorio della vita moderna» era il motto che reclamizzava anni fa un noto liquore digestivo. La vita contemporanea non ha certamente diminuito il suo impatto devastante sui nostri sistemi gastrici, né ha contribuito a migliorare la qualità delle nostre relazioni. Va da sé che, forse, il nostro logorio esistenziale vada affrontato con qualcosa di diverso di un digestivo, qualcosa che tocchi alla radice il malessere del quotidiano che ci sfida impedendoci di raggiungere la serenità nella quale vorremmo essere immersi. Fermo restando che la perfetta felicità è un obiettivo che raggiungeremo a tempo debito, viene da chiedersi se, in materia spirituale, sconfiggere le amarezze con qualcosa di amaro sia il rimedio più adatto.

 

La cura offerta dai consigli di Giuseppe Allamano vuole essere un rimedio dolce, se non altro perché proprio la dolcezza era una delle qualità principali del nostro Fondatore, come venne del resto raccontato da chi ebbe modo di incontrarlo di persona. Certamente, come tutti i rimedi, anche questa cura potrà lasciarci in bocca il sapore non gradito di una medicina, ma pensiamo che, se davvero potrà farci bene, il gioco varrà la candela. Il beato Allamano, ce l’avrebbe somministrata con uno zuccherino, giusto per darci un incoraggiamento, una spinta a fare bene, meglio o diversamente.

Devo dire che non mi piace definire questi pensieri come dei «comandamenti». Innanzitutto perché estrapolati come sono da un contesto più ampio perdono obbligatoriamente la loro forza coercitiva; non appartengono a nessun codice. In secondo luogo, perché l’insegnamento spirituale di Giuseppe Allamano è caratterizzato da un approccio molto dialogico ed esperienziale in cui il «si deve fare così» o il «non si deve fare così» non nascono tanto dall’esigenza di imporre una dottrina, quanto e soprattutto dalla comunicazione di un’esperienza di vita, la sua o quella dei suoi punti di riferimento: Cristo, la Madonna e i Santi, iniziando da suo zio, San Giuseppe Cafasso.

Questo approccio mi sembra molto moderno e attuale. Forse è per questo che, in un’epoca in cui ogni tipo di autorità viene messa in dubbio, e quella ecclesiale in particolar modo soffre la sindrome dell’abbandono, la figura dell’Allamano continua ad attirare le persone, anche al di fuori della vita religiosa o del sacerdozio. Il suo understatement, tipico del piemontese doc quale lui era, lo rendeva una persona affabile e disponibile ai suoi contemporanei e continua a renderlo tale a noi. A tutti, ieri e oggi, Giuseppe Allamano propone il suo primo Consiglio, la prima e fondamentale medicina per l’uomo contemporaneo: «Cercate Dio solo e la sua santa volontà».

 

Ad maiorem Dei gloriam … per la maggior gloria di Dio. In un periodo in cui la spiritualità è intrisa degli insegnamenti di Sant’Ignazio di Loyola, Giuseppe Allamano fa suo questo motto del fondatore dei gesuiti per tracciare quello che per lui è un vero e proprio programma di vita. Durante le sue conferenze, importanti momenti di insegnamento e condivisione rivolti a missionari e missionarie in formazione, ne ripete varie volte le parole e il senso. In un mondo che ha celebrato nel recente passato «la morte di Dio» e che continua oggi a vivere e operare scelte come se Dio non esistesse, questo prete piemontese ci invita ad andare «in direzione ostinata e contraria» (prendo a prestito questa frase da una canzone di Fabrizio De André), scegliendo Dio come unica ragione del nostro esistere. Solo Dios basta, diceva Teresa d’Avila, altra santa amata e citata da Giuseppe Allamano. Dio è sufficiente: lui soltanto è il termine ultimo del nostro tanto arrabattarci.

Chiaramente il «cercare Dio soltanto» significa relativizzare i nostri bisogni, le nostre necessità e, perché no, almeno ogni tanto, anche i nostri capricci. Un esercizio chiaramente in controtendenza in un’epoca in cui, al contrario, si relativizza Dio in nome di un individualismo sempre più sfrenato.

Mi sembra importante l’accento che Giuseppe Allamano pone sull’azione di «cercare» Dio, condizione necessaria per poterne fare poi la volontà. Dobbiamo imparare a lasciare parlare il Signore, mettendoci, come lui stesso diceva, in un atteggiamento di «santa indifferenza», che non vuol dire farsi gli affari propri, quanto invece «mettere da parte il nostro ingombrante io» per cogliere la presenza di Dio lì dove egli vuole manifestarsi ed essere disponibili a fare ciò che da noi vuole, con determinazione e perseveranza.

Il cammino di fede si genera nell’incontro con Cristo, incontro che deve però essere continuamente alimentato per poter crescere, rafforzarsi, diventare energia vitale capace di muovere montagne (cf. Mt 17,14-20). Ognuno di noi conosce bene i mille terreni accidentati di cui è formata la propria esistenza, in cui il seme della Parola che cade non trova le condizioni per dare frutto. La vita di fede è fatta di un continuo procedere alla ricerca del terreno fertile e, una volta trovata la terra buona questa va curata, coltivata, concimata e difesa da chi potrebbe rovinarla. Il missionario e, più in generale, il cristiano non può permettersi di smettere di cercare Dio e la sua volontà lì dove vive, ogni giorno della sua vita.

Sicuramente Giuseppe Allamano è un uomo di preghiera. Dio lo cerca nel silenzio del Santuario della Consolata, nel «coretto» da cui può contemplare in un’unica occhiata i due amori della sua vita: la Madonna e l’Eucaristia. Tuttavia, la straordinaria capacità che gli viene riconosciuta nel rispondere ai bisogni delle persone o delle situazioni che si trova davanti, dimostra come Dio gli si presenti anche in tanti altri modi: nei drammi personali ascoltati nel confessionale, nelle solitudini e nelle sofferenze delle persone che assiste nel suo apostolato, nelle lettere e nei diari dei suoi missionari e missionarie che, da lontano, gli raccontano le gioie e le difficoltà della vita in missione.

 

Oggi abbiamo bisogno di riscoprire questo approccio che ci impone di cercare Dio «solo», ma ci chiede anche di non cercarlo «da soli». Papa Francesco ci spinge, con la forza di cui è capace il Vangelo quando deve imporre la verità, a percorrere strade affollate, a farci compagni di viaggio di chi cammina, a volte con fatica, i percorsi accidentati della vita. Non possiamo permetterci, come missionari del Vangelo, di annunciare un Dio che non è in sintonia con la vita che viviamo, che non parla il linguaggio dei giovani, che non si interessa di chi sta per perdere il lavoro, che non viaggia sui gommoni di chi fugge dalla fame o dalla guerra, che non dice due paroline giuste nell’orecchio di chi, in nome dei diritti del proprio Ego, è disposto ad abbandonare ai margini della storia chi non riesce a trovar posto nel suo progetto di vita.

Come alcuni anni fa sosteneva giustamente Stephen Bevans, uno dei più importanti teologi contemporanei della missione, la figura del missionario può essere paragonata a quella di un «cacciatore di tesori», che si reca in un posto carico della ricchezza della buona novella e l’annuncia, rendendosi però conto molto presto che le sue parole non evocano assolutamente nulla alle orecchie di chi lo ascolta, proprio perché non sono espresse con la lingua e con le forme culturali appropriate. Scavare nelle culture per estrarre il tesoro nascosto vuol dire essenzialmente incontrare l’essere umano nel suo contesto, agire con una mistica dagli occhi aperti, capace di una spiritualità concreta, atterrata nella vita di tutti i giorni. Vuol dire scavare non da soli, ma con la gente che ci è vicina, con la quale ci si incontra o ci si scontra tutti i giorni in famiglia, per la strada, al lavoro, o nelle nostre comunità ecclesiali. Dio vive nella storia, e la sua ricerca, fenomeno che nasce e matura inizialmente nel cuore dell’essere umano, assume la sua forma più piena e compiuta quando viene condivisa, con chi è di casa e con chi è lontano, con chi la pensa come noi e con chi può insegnarci qualcosa da un’esperienza diversa dalla nostra, con chi ci precede nel cammino della fede o con chi si aspetta da noi una parola di consolazione.

Ancora oggi colpiscono l’immediatezza e la concretezza di Giuseppe Allamano, qualità che sintetizzano molto bene la cultura contadina delle sue origini e la mentalità dell’uomo vissuto quasi sempre in città, capace però di spalancare le finestre della sua casa sugli orizzonti infiniti della missione. Pur con un raggio di azione davvero limitato (l’Allamano ha vissuto 46 anni della sua vita come rettore sempre dello stesso santuario), questo sacerdote della diocesi di Torino ha insegnato alle prime generazioni di missionari della Consolata ad allargare i paletti delle loro tende e spinge noi, figli e figlie del nostro tempo, a essere uomini e donne globali, planetari (per usare la definizione di un altro grande prete a noi più contemporaneo, Ernesto Balducci) desiderosi di cercare Dio, ma anche di non limitare la ricerca solto ai posti dove pensiamo di trovarlo con certezza.

Ugo Pozzoli

Incontro al beato Giuseppe Allamano
tramite le sue foto.


 

L’Allamano è vissuto nel tempo che ha visto nascere la fotografia, uno strumento in cui ha creduto, anche se non ha mai amato farsi fotografare. è lui che ha chiamato Secondo Pia, il fotografo della Sindone, a fare le prime foto del quadro della Vergine Consolata. è lui che ha voluto che i suoi missionari in partenza per l’Africa fossero dotati delle più moderne macchine fotografiche e imparassero «il mestiere» dai professionisti. È lui che per il periodico «La Consolata», madre di questa rivista, ha voluto stampe fotografiche di altissima qualità ottenute con lastre allora prodotte solo a Vienna, in Austria.

La foto che vi presentiamo questo mese è stata fatta nel 1923 in occasione del suo 50° di sacerdozio. È il particolare di una lastra da 13×18 cm, in cui il beato Allamano è ritratto seduto con lo sguardo rivolto a una statuetta della Consolata e con il libro del regolamento di vita dei Missionari della Consolata da lui fondati in mano. Per l’occasione i fotografi crearono un set improvvisato nel cortile di del Convitto Ecclesiastico attaccato al Santuario della Consolata a Torino, utilizzando due tappeti, uno di rovescio (con la fodera rossa x creare lo sfondo nero) e uno in terra, e un tavolino per dare l’illusione di una sala arredata. La foto, pesantemente ritoccata sulla lastra originale per correggere i limiti di stampa del tempo, è ora visibile nella sua bellezza originale che ci restituisce il volto sereno del nostro Beato Padre Fondatore.

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 6. Siate forti, energicie virili nell’apostolato


Poche settimane fa, un mio caro confratello portoghese mi comunicava che la madre superiora di un convento di suore contemplative gli aveva affidato il compito di preparare alcune «palestre» che potessero aiutare spiritualmente le sorelle della comunità. Associare però l’età media delle monache nonché agli acciacchi che non le risparmiano alle «palestre» che le attendevano mi ha fatto pensare che, forse, qualcosa non andava. Premetto che il confratello portoghese parla italiano in maniera pressoché perfetta, ma, pur essendo lui stesso un atleta, qualcosa mi faceva dubitare del fatto che gli fosse stato chiesto di far fare della ginnastica alle suore, e che piuttosto mi trovavo dinnanzi a uno dei tanti «falsi amici» di cui le nostre lingue neolatine sono ricche. Con il termine «palestra» in portoghese si intende infatti una conferenza e, per estensione al nostro gergo religioso, una breve giornata di ritiro e meditazione spirituale.

Ho ripensato a questo piccolo qui pro quo riflettendo sul titolo della «pillola» allamaniana di questo mese: «Siate forti, virili, energici», tutta roba da palestra, verrebbe da dire. Che il culto del fitness, del muscolo scolpito che tanto di moda va in questi giorni, sia proposto dal nostro Fondatore come modello per l’evangelizzatore? Certamente questo non è il caso … o forse sì, almeno in parte.


Oggi mi concedo qualche riga di questo articolo seduto nella cappella della nostra comunità di Yeokgok, una delle tante città satellite dell’hinterland di Seul, capitale della Corea del Sud. Sono le sei e mezza del mattino e attendo che arrivino le prime persone che parteciperanno alla messa delle 7. Già da almeno un quarto d’ora, come ogni giorno, alcune donne hanno iniziato a fare ginnastica aerobica nel giardinetto pubblico antistante. Si tratta di persone che nel giro di poche ore verranno risucchiate e triturate nel ritmo impressionante della macchina produttiva coreana, ma che non disdegnano la possibilità di perdere un po’ di tempo e un po’ di peso in un’attività fisica che permetterà loro di affrontare gli stress di un difficile quotidiano con energia e benessere. Tutte le mattine quelle donne sono lì, a fare palestra.

Quante volte mio fratello ha provato a convincermi della necessità di fare lo stesso, lui che da una vita fa e fa fare sport. La sua specialità è scalare rocce, cercando appigli infinitesimali, appoggiando i piedi sull’inesistente. Per far ciò c’è bisogno di energia, forza, ma soprattutto di grande disciplina, cosa che ti aiuta a contemplare il bello in ciò che altri vedono soltanto come inutile fatica, fino al punto da diventare un testimonial di questo benessere.

Tempo fa avevo l’occasione di passare sovente davanti a una di quelle palestre che mettono i muscoli dei propri clienti in vetrina. La miglior pubblicità la facevano proprio loro, impiegati, studenti e casalinghe, sbuffando come treni su cyclette ancorate saldamente al suolo, ma immaginariamente lanciate verso la volata finale della Parigi – Roubaix. La loro fatica e lo sforzo visibile diventavano un messaggio immediatamente percepibile: anche tu ce la puoi fare, entra, suda e starai bene.

Giuseppe Allamano sapeva che una missione esigente come quella che attendeva i suoi missionari poteva essere portata avanti soltanto grazie a un fisico capace di reggere le difficoltà di una vita spartana e a uno spirito forte, volitivo, intransigente. Soprattutto, era convinto che disporre di queste caratteristiche presupponeva una grande disciplina e tanto allenamento. Prima di lui, lo stesso san Paolo aveva detto qualcosa di simile parlando della sua missione, della volontà che lo animava a fare tutto per il Vangelo, e a farlo per tutti (cfr. 1Cor 9, 22-23). Anche lui prevedeva la necessità di un allenamento spietato: «Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9, 26-27). Chiaramente, qui c’è in gioco ben di più che il semplice benessere fisico.

E noi, non potremmo dire la stessa cosa parlando della missione che ci attende oggi? Che cosa potrebbe voler significare «essere energici, forti e virili nell’apostolato» per noi, cristiani e missionari nell’Europa attuale? Il termine «virili» a noi suona male perché sembra escludere tutte le missionarie che operano per la causa e la diffusione del Vangelo. Useremo perciò il termine nella sua accezione più vasta che comprende varie sfumature, tutte utili a chiarire il concetto che l’Allamano vuole trasmetterci: forza, maturità, risolutezza, coraggio, determinazione. Del resto, l’Allamano voleva che le sue stesse missionarie potessero avere queste caratteristiche ben marcate in modo da poter affrontare il rigore della missione dei suoi tempi con sufficiente disinvoltura.

Un missionario con queste caratteristiche è dunque un missionario capace di compiere un lavoro adesso o di essere potenzialmente in grado di poterlo fare in futuro, consapevole e convinto di ciò in cui crede, perseverante nella sua missione e con la forza fisica e spirituale sufficiente per portarla avanti.

Detto così, assumere la pillola di questo mese parrebbe un lavoro per Superman, ma non lo è. La miglior prova di questo è che ci è prescritta dallo stesso Allamano, un uomo forte ed energico spiritualmente, ma fisicamente limitato al punto da dover rinunciare ai suoi sogni missionari di gioventù per dedicarsi a un’attività che, geograficamente parlando, non si sposterà mai molto dalla sua Torino.

Giuseppe Allamano scopre un modo suo di essere missionario, con un’inventiva e una capacità di visione davvero grandi. Crea e dirige l’avventura evangelizzatrice dei suoi missionari e delle sue missionarie a partire dal Santuario della Consolata. Una volta capito e individuato il fine della sua vocazione, energia, forza, determinazione e perseveranza vengono messi completamente al servizio della missione che si concretizzerà nella fondazione di due Istituti missionari e nell’invio di tanti altri preti, fratelli e suore.

Personalmente si riserva di frequentare altre frontiere, più nascoste e a volte più insidiose, quelle che si snodano nei meandri del cuore dell’uomo. Fisicamente, la missione non lo porta lontano ma spiritualmente arriva dappertutto. L’energia che gli occorre per portare avanti tutto il suo lavoro è sempre molta. Ci vuole allenamento, perseveranza, fatica; anche il lavoro spirituale ha bisogno di ore di palestra.

Una missione così caratterizzata impedisce a coloro che la vivono di presentarsi al mondo come persone accidiose, fiacche, indecise, deboli. L’Allamano rifuggiva le mezze volontà, il non essere né caldi né freddi. La passione riscalda e il Vangelo se servito tiepido e senza sale viene facilmente lasciato nel piatto. Nessuno vuole imporre la propria fede, ma proporla con appassionata e instancabile determinazione, questo sì.

Il missionario in Europa si affaccia a un contesto culturale liquido, e al contatto con esso il rischio di trasformarsi in poltiglia o fango è più che reale. Non è facile annunciare Gesù Cristo con la forza, l’energia e la determinazione di un San Paolo senza correre il rischio di essere banalizzato, cancellato o, ciò che succede in massima parte, totalmente ignorato. In una società come la nostra dove trionfa la legge del «mi piace», dove molti sposano il relativismo pensando che sia l’unica condizione per poter essere veramente liberi, essere Vangelo non è facile: annunciare un messaggio eterno e vedersi rimossi nello spazio di un click è sicuramente un’esperienza che non fa piacere. La rapidità che il mondo d’oggi richiede per competere è sicuramente un elemento da non sottovalutare. Sono rapide e frenetiche le relazioni, lo è la routine di una famiglia, lo è il tempo che porta un giovane dalla pubertà alla noia del déjà-vu, senza più riti di passaggio a segnare una crescita graduale.

È un mondo che non va demonizzato. In fondo è la realtà in cui tutti sguazziamo. È un mondo, anzi, che richiede energie per essere capito e studiato, fortezza per sostenerne l’impatto, determinazione e perseveranza per poter offrire una narrazione differente, un messaggio basato sulla solita storia di Gesù, così vecchia e allo stesso tempo così straordinariamente nuova.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi si dedicassero senza risparmio allo studio dell’ambiente e della cultura. Quanto valga tutto ciò per la cultura Occidentale di oggi, così incredibilmente ricca e altrettanto incredibilmente sfuggente, è sotto gli occhi di tutti. La prima regola per entrare con discrezione e educazione in una cultura è quella di imparare la lingua delle persone che la vivono. Bisogna dedicarsi con energia a imparare i linguaggi della nostra società, quello dei giovani, della comunicazione, il nuovo linguaggio dei poveri.

Come «palestra» ed esercizio per temprarsi all’attività missionaria Giuseppe Allamano suggeriva anche il lavoro manuale, quello che allena alla fatica e alla costanza, insegnando nel contempo a sporcarsi le mani. Credo che questa dimensione del lavoro vada riscoperta e vissuta perché è alla base di quella straordinaria rete di gratuità e di volontariato che è stata capace di costruire solidarietà e chiesa per tanti anni e che si sta purtroppo perdendo.

Francesco, il nostro papa, si pone su questa linea energica e vigorosa. Nel magistero di Francesco si ritrovano con forza molti temi della missione di sempre, ripetuti con insistenza proprio per dare coraggio agli agenti dell’evangelizzazione: uomini e donne di ogni età, invitati a uscire con il sorriso sulle labbra dalle loro case per annunciare Gesù Cristo al mondo, con addosso il fuoco della missione, con la passione per Cristo e il suo Vangelo. Un’immagine, quella del «fuoco della missione» che appartiene al gergo di Giuseppe Allamano, tanto attuale ieri come oggi.

È interessante notare come nella prospettiva di Francesco perdano abbastanza di significato le categorie di prima o seconda evangelizzazione. L’importante è uscire e annunciare; la differenza la fa il soggetto che riceve l’annuncio. Ciò che è veramente importante è la qualità dell’apostolato, che deve essere fedele, pieno di zelo, coerente e convinto; in altre parole «forte, energico e virile», e per questo motivo bisognoso di tanta, tanta «palestra».

Ugo Pozzoli

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Pillole «Allamano» 5: Trasformare l’ambiente, non solo gli uomini


L’unica pretesa, se possiamo definirla tale, di questa serie di «pillole» consiste nel raccogliere alcune suggestioni che provengono dal nostro Fondatore e provare ad applicarle alla vita di oggi. Il tutto nella convinzione che nella profonda spiritualità di Giuseppe Allamano esistano elementi capaci di trascendere il tempo in cui sono stati vissuti in prima persona da lui e di dire qualcosa di illuminante per la missione cui siamo chiamati oggi in Europa.

Il dinamismo di un carisma, ovvero quel dono di Grazia che Dio concede a qualcuno in particolare affinché possa essere messo al servizio della comunità, si manifesta soprattutto attraverso la sua incarnazione nel vissuto quotidiano. Un carisma, infatti, si evolve quando viene assunto e trasmesso attraverso scelte concrete che lo modellano sulla realtà di cui si è protagonisti. Così è stato per i primi missionari, che hanno ricevuto una formazione speciale direttamente dalla bocca di Giuseppe Allamano, e sono stati capaci di tradurla in azione. Così è stato anche per l’Allamano che si è venuto formando lui stesso, gradualmente, con ciò che i suoi missionari gli condividevano attraverso diari, lettere e dialoghi personali. Tutto questo materiale veniva da lui nuovamente offerto, arricchito dalle sue considerazioni. Oggi, questo stile improntato a una narrazione missionaria può essere utile all’impegno diretto di ogni cristiano nell’evangelizzazione dell’Europa, ad esempio per fare distinzioni, chiarificare termini, sintetizzare esperienze passate di evangelizzazione che possono diventare maestre di vita.

«Puntate alla trasformazione dell’ambiente» è una frase che potrebbe oggi apparire ambigua e generare qualche perplessità. Nel corso della storia, in molte occasioni, l’impatto del missionario con l’ambiente in cui è vissuto o ha operato è stato giudicato in modo negativo, poco rispettoso delle culture, delle persone, ecc. In altre parole, il missionario è stato accusato di aver tradito l’ambiente nel tentativo di trasformarlo. Inutile aprire una discussione che ci porterebbe a remare in mari troppo lontani e vasti, senza il tempo e la pretesa di affrontare in poche righe quelli che sono da sempre temi molto complessi di missionologia. È molto più utile narrare storie missionarie, documentando gli innumerevoli esempi di missione «ben fatta», ma anche le esperienze negative, nelle quali l’attenzione verso l’altro, i suoi reali bisogni e la sua cultura sono stati effettivamente calpestati da un’azione inopportuna. Non per niente, una delle pillole che Giuseppe Allamano ci obbligherà ad assumere prossimamente sarà proprio quella che invita a «fare bene» il bene, e a non fidarsi solamente delle buone intenzioni.

Nella teologia cristiana, la cura dell’ambiente non si discosta da quella della persona, piuttosto la comprende. Nella sua condizione di essere creato, l’uomo è chiamato a vivere in spirito «ecologico», dove il termine ecologia va letto nella sua accezione più ampia, ovvero come scienza che regola l’insieme di relazioni tra gli esseri viventi e l’ambiente in cui vivono, nonché la qualità di tali relazioni. Si parla qui di ecologia della vita quotidiana, o di ecologia sociale.

Una casa in ordine (il termine greco οίκος, da cui deriva la parola ecologia, significa appunto casa)1 consente all’essere umano di vivere bene, in armonia con ciò che lo circonda, mentre una casa disordinata genera caos, malessere e frustrazione. Bisogna saper «vestire» il proprio ambiente, sentirlo come una seconda pelle, qualcosa che ci appartiene, ci definisce e ci realizza rendendoci felici.

La pillola di questo mese suggerisce una cosa molto semplice, che non vuole assolutamente penalizzare l’essere umano: trasformare l’ambiente significa renderlo più vicino al modello che l’uomo si propone per essere veramente felice insieme ai suoi simili. Lo sfruttamento dell’ambiente, inteso come ambiente naturale, da parte di pochi crea obbligatoriamente una disarmonia nella vita di molti, e ciò, come direbbe il racconto della creazione nel libro della Genesi, non è «cosa buona». Trasformare l’ambiente significa quindi distruggere quei meccanismi e quelle strutture che impediscono all’uomo di essere ciò che è chiamato a essere. In molti casi queste sono strutture di peccato, costruite per guadagnare e schiavizzare, sfruttare e godere, alla faccia degli altri, soprattutto di coloro che non possono scegliere, non si possono difendere e per questa ragione restano sempre ai margini, esclusi.

Giuseppe Allamano aveva ben chiaro il fatto che l’opera di evangelizzazione è tanto più efficace quanto più è in grado di incidere sull’ambiente in cui le persone sono immerse e vivono. Le Conferenze di Murang’a, organizzate nel 1904 dai primi missionari della Consolata in Kenya per pianificare la vita missionaria e scegliere le linee metodologiche da seguire, sono il frutto del continuo dialogo fra l’Allamano e i suoi missionari, e sottolineano l’intima relazione fra la persona e l’ambiente. Il metodo di evangelizzazione che nasce a Murang’a si radica nel Dna della spiritualità trasmessa dall’Allamano, e diventa la base dello stile missionario della Consolata, esportato da allora in tutto il mondo. Il tratto distintivo è l’attenzione al quotidiano delle persone: la salute, l’educazione, il modo di produrre, gestire, mantenersi grazie a un’economia sostenibile. Questi aspetti, uniti alla valorizzazione di elementi come le relazioni familiari e comunitarie, il ruolo della donna, il rispetto della persona nei suoi diritti e nella sua cultura e religione, puntano a creare comunità armoniche, felici e aperte ad accogliere il messaggio del Vangelo.

Tale metodo fondato sulla promozione umana non solo viene approvato dall’Allamano, ma viene da lui difeso con forza da critiche estee: «In passato, alcuni si permisero di criticare il nostro metodo di evangelizzazione, quasi ci occupassimo troppo del materiale con pregiudizio del bene spirituale; si diceva che bisognava predicare e battezzare e non occuparsi di altro. Ma dopo la pubblicazione del decreto di approvazione e le conferenze di Monsignore e di padre Gabriele (Filippo Perlo e suo fratello Gabriele, ndr.) mutarono parere e molti di buona fede lo confessarono».

Giuseppe Allamano ha certamente in mente le visite ai villaggi che i missionari fanno con costanza e, con esse, le opere sociali che iniziano a svilupparsi come segno di promozione umana. Si tratta di interventi che vengono però fatti con un’attenzione speciale alla cultura, alle vere esigenze della gente. Può la missione della Chiesa in Europa nutrirsi di questa intuizione profonda dell’Allamano? Credo che alcuni aspetti vadano tenuti presenti e possano aiutarci a riflettere sul senso della missione nel vecchio continente.

La missione in Europa deve cambiare perché l’Europa stessa è cambiata. Il contesto missionario di oggi è totalmente differente da quello che l’Allamano conobbe a suo tempo. Aspetti sociali, demografici, culturali, religiosi si intersecano e si aggrovigliano rendendo ogni discernimento più difficile. Ma di fronte a questa complessità occorre fornire a noi stessi una risposta chiara in merito alla nostra identità. Come fecero i primi missionari della Consolata in Kenya, occorre definire chi siamo noi oggi.

Di questi tempi, si parla molto di nuova evangelizzazione per l’Occidente, orientata a incontrare quelle fasce della popolazione ormai scristianizzate per invogliarle a «ritornare». È altrettanto certo, però, che oggi l’Europa si sta sempre più trasformando in un contesto anche di «prima evangelizzazione».

Per poter trasformare l’ambiente dobbiamo conoscerlo, e la miglior forma di conoscenza è l’incontro diretto, il contatto personale che crea empatia, e genera apertura. Giuseppe Allamano era un uomo illuminato, pretendeva dai suoi studio e applicazione perché intuiva molto bene come il contesto andasse innanzitutto capito. Lo studio delle lingue, ad esempio, era conditio sine qua non per poter andare avanti nel cammino di formazione, al punto da diventare per il Fondatore una discriminante vocazionale. L’idea di fondo era chiara: senza il possesso della lingua, strumento principale di comunicazione, come si poteva entrare in un contatto profondo con una cultura? Oggi lo stesso si potrebbe dire dei mille linguaggi che si parlano in Europa, tra cui, non ultimi, quello digitale, della comunicazione, scientifico, ecc.

Trasformare l’ambiente significa proporre un paradigma alternativo, che sia significativo, offra risposte adeguate, rappresenti una sfida al modello dominante.

Infine, trasformare l’ambiente significa dare uno spirito nuovo. Per anni il nostro continente si è attaccato all’illusione che il benessere economico potesse sopperire all’assenza di senso in cui si dibattevano e dibattono tuttora molte esistenze. Oggi, però, quell’illusione si è rivelata per ciò che era, una bolla di sapone che, scoppiando, ha infranto il nostro sogno: siamo senza soldi, ma continuiamo a doverci gestire le nostre solitudini, i nostri piccoli o grandi deserti familiari, gli effetti delle nostre morali deboli, il tutto condito dalla frustrazione di vedere chiudere attività, progetti e speranze. Stiamo mandando in cassa integrazione la nostra idea di futuro: serve uno spirito nuovo, che dia un movimento fresco e originale al continente e motivi una profonda ecologia della vita quotidiana.

La missione può fare la sua parte; del resto, si fonda su una speranza che la trascende e che rappresenta l’oggetto del suo stesso annuncio.

Qualche altra «pillola» dell’Allamano potrà aiutarci a capire e vivere meglio questo momento di trasformazione.

Ugo Pozzoli

 1) È interessante notare che in alcune cosmologie andine, come quella dei Nasa della Colombia, lo spazio dove vivono gli esseri viventi viene definito «casa piccola», in contrapposizione alla «casa grande», abitata dagli spiriti.


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Pillole «Allamano» 4: la mansuetudine come strada di trasformazione


4. Una scelta controcorrente: la mansuetudine come strada di trasformazione


Al termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale con la Formula Uno, Beie Ecclestone, storico deus ex machina del circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua profonda delusione per l’impatto dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron, dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a tutta velocità.

In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina: è come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse parte della sua essenza. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.

Pare una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre tale convinzione con la forza ci porta a essere molto più irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro.

Chi urla forse non crede nella forza delle proprie opinioni e sente di doverle imporre con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la marmitta del loro motorino per farlo rimbombare, nemmeno avessero da dominare con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato a esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che «da cosa nasce cosa» …). «Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento – scrive Sun Tzu, nel suo celebre saggio L’Arte della guerra – ma bensì sottomettere il nemico senza combattere». Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa 2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i giorni.

È certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in particolare attraverso il taoismo (ai cui principi si ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato tutta una serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la possibilità di un’altra via, fondata su concetti completamente diversi: piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo: ciò che è morbido vince ciò che è duro, ciò che è debole trionfa su ciò che è forte. Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste idee, ed è meglio non contraddire al riguardo una cintura nera con un certo numero di Dan all’attivo.

Non dobbiamo però guardare troppo lontano per vedere ribaditi concetti analoghi. Dobbiamo bensì aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione, perché ciò che stiamo cercando non si manifesta nel rumore, nella gazzarra, nella luce accecante del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo in questo modo, lo troveremo impegnato a dare la sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non solo è possibile, ma pure gratificante.

Giuseppe Allamano fu certamente una persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese ha origine nella sua disposizione d’animo, nello stile con cui scelse di vivere la propria vita: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione». Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del Fondatore questo si verifica.

Chi suggerisce una distinzione interessante fra i due concetti è Norberto Bobbio, che alla mitezza ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che la distinzione è problematica e forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella prima una maggior profondità di significato rispetto alla seconda. Il termine mansueto è detto in primis degli animali, e solo in senso derivato è applicato agli uomini, mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti, atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre, «la mansuetudine – scriveva il filosofo torinese – è una disposizione dell’animo dell’individuo che può essere apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione dell’animo umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014, pag. 34). Sembrerebbe di leggere in Bobbio un maggior apprezzamento della mitezza intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano.

Per Giuseppe Allamano questa sottile distinzione non esiste, al punto che usa i due determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario deve essere mansueto, come lo è la pecora con il pastore, ma deve vivere la sua mansuetudine al servizio attivo del prossimo, in particolare di colui che più necessita di essere consolato. L’esempio da seguire non può essere che quello di Cristo, uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare di sé come di una persona mite: «Venite a me voi tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi diventare caratteristica anche per il discepolo di Cristo che in virtù di ciò è chiamato beato e fatto erede della terra.

Nella mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella: il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono le basi anche per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la persona buona per sé, ma la rende buona «per gli altri», esattamente come, da laico, suggeriva Norberto Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto il contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona passiva, succube, indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale», senza niente da dire, senza energie, né risorse. Al contrario, il mite affida al lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di Dio.

 

Attraverso l’immagine della mitezza, la pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare. Non serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a quanto la Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su questa virtù morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il nuovo papato ci obbliga a guardarci dentro, a cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di ascoltare di più e di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere guide illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità, per comprenderne il ritmo di marcia.

Ne «La Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come abbiamo già sottolineato, sicuramente questa affermazione nasce dall’esperienza personale, nel contatto con la gente maturato nei lunghi anni passati al Santuario della Consolata, e diventa insegnamento anche per i missionari che si trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine – sono le sue parole – (…) Quando si tratta di salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a impedirne la conversione, forse per sempre. Esaminiamo dunque noi stessi per vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470).

Scegliendo la mitezza, come Giuseppe Allamano ci insegna attraverso la sua stessa vita, i suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la strada della trasformazione. Se un giorno grazie a questa virtù saremo in grado di ereditare la terra, è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo iniziare a costruirlo poco per volta. Oggi più che mai siamo alla ricerca di una nuova narrativa che racconti storie di pace e benessere, perché è solo e soltanto su queste prerogative che vorremmo costruire la nostra esistenza di domani.

Ugo Pozzoli


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Pillole «Allamano» 3: una religione che rende felici qui  


3. Amate una religione che vi offre le promesse di un’altra vita e vi rende più felici sulla terra. Se una pillola non aiuta a star bene, perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio vale anche per le pillole dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere perlomeno convinti del loro effetto benefico. La bontà di un prodotto va certificata con tanto di risultati. La pillola di questo mese parla di felicità, il fine ultimo del cammino esistenziale di ognuno. Tutti gli uomini desiderano la felicità e si sforzano di raggiungerla, anche se molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso. Esiste davvero una pillola che aiuti a essere felici, visto e considerato che molte persone non si possono, oggi, dichiarare certamente tali?


Colui che crede dovrebbe avere una risposta pronta da offrire, una soluzione in grado di soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e pronta per essere condivisa con tutti: il cammino di fede fa dire al credente che la meta agognata non può essere altri che Dio, che è lui la vera felicità. Il desiderio di Dio, per il cristiano, è scolpito a chiare lettere nel cuore dell’uomo, e Dio, da par suo, non smette un secondo di attirare a sé la sua creatura, proprio perché la vuole felice.

Chiaramente ci si trova di fronte a una difficoltà: se Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che tutti gli uomini siano felici, perché, di fatto, la cosa non si verifica? In effetti, il cristiano è convinto che non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere Dio-felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per ricevere tale regalo, l’uomo deve collaborare attraverso delle scelte che gli permettano di aprirsi alla grazia, dono gratuito di Dio. L’azione umana non è l’unica né la principale causa del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto. Questa, in poche parole, è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa la Chiesa in materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti analizza il fenomeno della «perdita del sacro» che colpisce la cristianità in generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro ai quali si rivolge, una religione dal cielo «vuoto», che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del mondo ha fatto perdere all’uomo la fiducia nella possibilità di un Dio trascendente, totalmente altro. Se Dio è felicità, secondo Galimberti, da questa felicità il mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha rescissa dalla propria storia.

Dire che la felicità risiede in Dio a un interlocutore che da Dio si è separato potrebbe significare iniziare un dialogo tra sordi che non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle catechesi e delle omelie che ascoltiamo, o dei contenuti religiosi che portiamo nelle nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato dall’alto come una verità che è inoppugnabile per chi crede, ma che lascia invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei casi, completamente indifferenti.

La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico, con un approccio pedagogico «dal basso», che tiene conto delle persone e non solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non è propriamente «farina del suo sacco», ma ha bensì un’origine addirittura papale.

La frase contenuta nella pillola di oggi, è stata scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del Kenya, datata 2 ottobre 1910. In quella lettera l’Allamano ricordava che se desideravano conseguire frutti dovevano far sì che il loro lavoro fosse: perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui di grande approfondimento, mentre è proprio a proposito dell’ultima caratteristica che il fondatore ci offre la sua pillola.

L’accento è posto sul metodo missionario: l’Allamano vuole che esso parta da un contatto ravvicinato con la gente, con i suoi bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione con il Decreto di approvazione da parte di Propaganda Fide e con le parole benedicenti di papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera citata. Con le sue parole, lodando e approvando il metodo missionario dell’Istituto, il pontefice esprimeva il seguente concetto: «Bisogna degli indigeni fae tanti uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre le promesse d’altra vita, li rende più felici su questa terra». Più felici su questa terra: prima di fare il cristiano occorre fare l’uomo, un uomo «laborioso», capace di apprezzare i «benefici della civiltà» ed essere quindi anche attratto all’amore della fede.

Un approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è quello della testimonianza. I cristiani sono chiamati a essere testimoni della loro fede come possibilità per vivere una vita felice. Come scrive Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, nel suo saggio Le vie della Felicità. Gesù e le beatitudini (Rizzoli, Milano 2010): «Noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?».

Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice dello stile di vita incarnato da Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela di Cristo è esigente, significa passare per la porta stretta e abbracciare la croce che può assumere, nel concreto, diversi aspetti: servizio, sofferenza, impegno radicale e senza compromessi, persino martirio. Ciononostante, le beatitudini, la Magna Charta del cristiano, sono, in sé, una vera e propria chiamata alla felicità.

In una società come la nostra dove l’indifferenza e il relativismo esprimono una chiara mancanza di senso nei percorsi esistenziali delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza la propria vita, nella ricerca di un perché capace di illuminare di senso il nostro agire, vivere e morire, e, una volta realizzato, portare quindi alla felicità.

Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà a essere felici. È il livello della consolazione, del mettersi, cioè, a fianco e camminare con coloro che sempre rimangono ai margini, attardati a causa del peso di esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità di fronte a qualcuno che vive una «vita di scarto» o si sente in cuor suo di sprecare la propria esistenza? Eppure sono proprio queste le persone che esigono un inizio di felicità già su questa terra. Lo esige il senso di giustizia che sta alla base di una vita serena, pacifica e, di conseguenza, felice. Il povero che non riesce a uscire dal ciclo di miseria in cui è entrato, il malato che si scontra con l’impossibilità di curare la sua infermità o di lenire la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il nodo che gli attanaglia il cuore, non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro, di ripetersi «piove sempre sul bagnato».

La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare l’impegno del cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le persone che soffrono.

La pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come placebo. Papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato molto in sintonia con questo approccio e ha pubblicato la sua prima Esortazione apostolica intitolandola «Il Vangelo della gioia». Il cristiano deve essere un uomo gioioso, felice della sua scelta, della sua vocazione e del sì detto senza ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa vita e testimoniata nel quotidiano, diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi invece aveva ormai perso la speranza di ritrovare una ragione per andare avanti.

Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il «sì» da noi dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di essere felici grazie al benessere, alla possibilità di pagare occasionali momenti di beatitudine sta venendo meno giorno dopo giorno. La crisi che l’Europa (e non solo) sta attraversando mette a dura prova la pretesa di poter eternamente difendere a costo zero l’agio e il benessere costruiti in questi anni.

Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per questo mese ci invita invece a scoprire, con le persone che incontriamo, che la felicità si costruisce insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella cattiva sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio di sole alla volta, fino a ottenere la previsione di una giornata finalmente serena.

Ugo Pozzoli


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Pillole «Allamano» 2: Elevatevi sopra le idee ristrette dell’ambiente


Stacco dalla parete e riprendo in mano, per sfogliarlo con calma, il calendario che quest’anno la rivista MC ha dedicato al beato Allamano. Riguardo le immagini del volto del Fondatore, vecchie fotografie che i moderni strumenti della tecnica hanno saputo ripulire dalle inevitabili tracce del tempo. Vi è ritratto Giuseppe Allamano da giovane, coi chierici, con i primi missionari partenti per l’Africa, poi uomo maturo e, infine, anziano. I dodici mesi dell’anno ripercorrono la storia di una vita sacerdotale. Io la contemplo filtrandola attraverso i suoi sguardi, tentando di mettere a fuoco il volto buono e paterno che tante testimonianze di chi l’ha conosciuto riportano con insistente piacere.

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A ben guardare, però, scorgo nelle immagini anche il piglio risoluto, deciso, di colui che è buono con sincerità, non per debolezza o convenienza. Il volto del Beato Allamano non ha nulla di debole e comunica serenità e determinazione. Non so se altri lettori siano stati attratti, sfogliando il calendario, da questa caratteristica del suo viso. Forse sono io che ci ricamo sopra eccessivamente, lasciandomi guidare dalla mia sensibilità. Può darsi, non lo posso escludere. Mi sembra in ogni caso che lo sguardo del fondatore lasci intravedere qualcosa di lui, del suo modo di essere e di intendere la vita. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, recita un antico adagio.

La pillola di questo mese non fa riferimento a una frase di Giuseppe Allamano, semmai a un atteggiamento da lui tenuto nei confronti della vita e della realtà nelle quali si è trovato a operare. A una certa fragilità fisica, cosa che gli impedì a suo tempo di essere missionario sul campo, e alle difficoltà di ogni tipo incontrate nel suo lungo ministero sacerdotale, l’Allamano opponeva una volontà di ferro, alimentata da una fiducia incrollabile nella provvidenza divina e nella presenza consolatrice e matea della Madonna. I suoi occhi trasmettono tenerezza, ma allo stesso tempo acutezza e determinazione. Se le fotografie che lo ritraggono, nel loro complesso ne collocano la figura in un tempo e in un contesto preciso, lo sguardo sembra bucare le immagini e proiettarsi al di là di esse, verso spazi che trascendono gli ambienti del torinese da cui, salvo per pochi ed eccezionali viaggi, l’Allamano non si è mai mosso. I suoi sono occhi che viaggiano, perché seguono le rotte di un cuore costantemente orientato verso luoghi da consolare, lungo tragitti mai scontati. Giuseppe Allamano ha lo sguardo profondo, vive la sua fede e il suo ministero in un’obbedienza matura e responsabile, rispettando la tradizione e l’autorità in un modo dinamico e creativo, senza mai sottomettersi alla legge del «si è sempre fatto così». Sono tantissimi gli episodi in cui prende posizione e con «delicata fermezza» va avanti per la sua strada, pronto, se lo vede necessario, a dare uno scossone allo status quo. Oggi, questo sguardo si rivolge a noi, chiamati a vivere la missione in Europa. Mi sembra di scorgere la presenza del volto dell’Allamano mentre leggo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, celebrata il 19 gennaio scorso. «La Chiesa, rispondendo al mandato di Cristo “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, è chiamata ad essere il Popolo di Dio che abbraccia tutti i popoli, e porta a tutti i popoli l’Annuncio del Vangelo, poiché nel volto di ogni persona è impresso il volto di Cristo». Che bella immagine ampia e inclusiva della missione. Missione che oggi ci spinge non soltanto ad andare, ma anche a ricevere e a essere accoglienti. Il volto di Giuseppe Allamano riflette il volto di Cristo e il suo sguardo tradisce il desiderio di farlo emergere con forza dal volto di chi incontra, vicino o lontano… anche del migrante o del rifugiato. Mi sembra di poter dire che papa Francesco sarebbe piaciuto al nostro fondatore… e viceversa. Se si fossero incontrati si sarebbero probabilmente scambiati due battute in piemontese, giusto per fare conoscenza, e poi avrebbero cercato di capire come far brillare il volto di Cristo impresso in ogni persona, partendo dalla realtà concreta in cui essa vive, ma senza lasciarsi imbrigliare. I primi mesi del pontificato di Francesco sono una testimonianza viva della bontà della pillola allamaniana di questo mese, prescritta con continuità in quasi tutti i suoi interventi, nel tentativo di plasmare una cristianità matura e responsabile, un popolo di Dio che cammina in uscita. Scrive papa Francesco nella sua recente esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano […]. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Francesco, EG n. 24). Prendere l’iniziativa senza paura può voler dire, a volte, scrollarsi di dosso l’opinione dominante. La notizia, per essere tale, è novità, e la buona notizia non sfugge a questa regola. Ecco perché, rivolgendosi ai giovani universitari la prima domenica di Avvento, papa Francesco ha ricordato loro l’impegno di essere testimoni coraggiosi di una diversa narrativa del mondo: «Se non vi lascerete condizionare dall’opinione dominante, ma rimarrete fedeli ai principi etici e religiosi cristiani, troverete il coraggio di andare anche contro corrente». Concetto chiaro, questo, anche nel pensiero spirituale di Giuseppe Allamano. L’idea dominante diventa un’idea ristretta, anche quando si certifica come figlia della globalizzazione. È il grande paradosso in cui l’umanità si dibatte e che trova i suoi accenti più acuti nella nostra cara Europa. In un mondo in cui sembra valere tutto e il contrario di tutto, in cui a livello di valori si sopravvive bene grazie al più smaccato relativismo, in realtà campa bene solo e soltanto chi si adegua a una cultura che privilegia ciò che è esteriore, facilmente e immediatamente conseguibile, veloce, apparente, provvisorio. Le logiche che, al contrario, propongono narrative differenti, impostate sul locale, sul partecipativo, sul lento ma sicuro procedere, sulla libertà di poter scegliere, sul discernimento comunitario vengono ostacolate, cassate, a volte irrise e perseguitate. La missione è ciò che aiuta il cristiano ad alzare la testa, a elevarsi sopra le mentalità ristrette e a esprimere qualcosa di inedito. La missione nasce dalla novità del Vangelo e lo porta con sé per costruire un mondo nuovo, migliore. La missione non sopporta idee dominanti perché vive sotto il dominio dello Spirito di Dio. La missione offre volti nuovi alla nostra teologia, che cessa di ristagnare quando si concede al confronto con l’altro. La missione rinnova e rafforza la fede, attraverso il dono della propria esperienza di Cristo a chi ancora non ne ha mai sentito parlare o l’ha completamente smarrito dai propri orizzonti. La missione vivifica la nostra spiritualità, perché la mette a confronto con la realtà, per non farla viaggiare a quote siderali mentre la gente cammina a lato delle strade. Quale missione, allora, in questa Europa che cambia? Quale progetto missionario per orientare la nostra azione? Quale pista da percorrere ci attende? Il dove, il come e il quando lo diranno il contesto e il discernimento che ciascuno farà alla luce della Parola di Dio e del proprio carisma. Questo discernimento sfida particolarmente proprio noi missionari, chiamati a trovare un modo significativo e attuale di essere autentici religiosi e testimoni di evangelizzazione. Ci troviamo di fronte a domande scomode che ci obbligano a una riflessione che potrà forse chiederci precise scelte di vita. Quali sono le idee ristrette che oggi condizionano i nostri ambienti e costringono noi, le nostre comunità, le nostre famiglie a vivere «imbrigliati», incapaci di essere persone «in uscita»? Quali sono queste idee ristrette che impediscono di incontrarsi con gli altri con un messaggio vero, che dica qualcosa, che abbia un minimo di senso, che susciti qualche domanda e, magari, apra uno spiraglio verso il futuro e la salvezza promessa? Cosa dobbiamo fare per elevarci al di sopra di esse, per propoe di alternative e liberanti? L’uomo che riuscì a fondare due Istituti missionari, pur restando rettore del Santuario a lui affidato e senza mai mettere piede in missione, avrebbe senz’altro qualcosa da dire. Merita ancora ritornare al calendario e provare a vedere se riusciamo a farci ispirare ancora un po’ dallo sguardo di Giuseppe Allamano. Se riuscissimo poi a vedere dove punta, noteremmo come quegli occhi dimorino a lungo sul quadro della Madonna Consolata e sul tabernacolo. Non ci conviene precorrere i tempi; queste sono altre pillole che Giuseppe Allamano ci consiglierà di prendere e, ben lo sappiamo, ogni cura deve rispettare la giusta posologia.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Angioletto nero

Ricordando un missionario … e il suo estro artistico

Nato a Moncalieri (TO) nel 1927, Giulio Cesare frequenta la scuola di avviamento professionale, si specializza come incisore di metalli e per un decennio si dedica a tale professione. All’età di 25 anni entra nell’Istituto dei missionari della Consolata. Terminato il percorso formativo a Rosignano Monferrato, Certosa di Pesio e Torino, viene ordinato prete nel 1962. Due anni dopo parte per il Kenya e vi lavora fino al 1970, quando è richiamato in Italia, per attendere alla formazione degli studenti del seminario teologico di Torino. Dal 1976 ricopre vari incarichi, come superiore di comunità ad Alpignano e Gambettola, parroco di San Martino (Alpignano) e Regina delle Missioni (TO), animatore di gruppi laicali. Per 30 anni continua a mettere a disposizione dell’Istituto, confratelli e amici le sue doti di artista, fino alla sua scomparsa, avvenuta ad Alpignano il 17 novembre 2006.

Quando il giovanotto Giulio Cesare manifestò al suo datore di lavoro la nuova vocazione a cui si sentiva chiamato, l’orefice torinese esclamò sconsolato: «Chiudo bottega. Mi mancherà la mia mano destra!». Sì, perché il nostro nuovo acquisto alla causa missionaria aveva… l’oro nelle mani. Anche una comunissima scritta sulla copertina di un quaderno diventava un piccolo capolavoro.
Entrato nel seminario per vocazioni adulte a Rosignano Monferrato (AL), lo studente Giulio Cesare imparò a faticare sui libri, destreggiandosi con latino e greco, invece che fondendo oro e modellandolo in spille e anelli. Ma il gusto artistico rimase e si perfezionò.
Ancora prima di diventare sacerdote (1962), durante gli studi di teologia, i pennelli si abbinarono alla penna e tante cupe e monotone stanze del seminario maggiore di Torino acquistarono luce e gioia con i colori alla «Giulio Cesare», così li ribattezzammo.

Vari anni dopo ci ritrovammo insieme in Kenya nella diocesi di Meru. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone aveva un gran bisogno di un segretario tuttofare. In quel concetto di «tuttofare» era compreso anche il compito di preparare nuovi progetti di chiese, asili, scuole, centri sociali, mostre…, che la diocesi, in fase di grande sviluppo, necessitava. Il nostro «artista» era davvero un mago nei suoi disegni e novità.
Mago lo era pure nel modo di eseguire certi progetti. Forse, la sua «magia di esecuzione» era dovuta a una caratteristica del maestro artista: la sua generosità nel dire sempre di sì a tutti e le sue grandi distrazioni.
Tante volte abbiamo visto padre Giulio fare il saltimbanco per completare un’opera, o addirittura incominciae l’esecuzione, il giorno prima dell’inaugurazione. Una di tali «avventure» mi è rimasta stampata nella mente con inchiostro indelebile: si trattava di allestire uno stand  nella fiera agricola locale, alla quale la diocesi di Meru era stata invitata per far conoscere al pubblico le varie opere realizzate o in fase di progettazione in diverse parti del territorio. In modo particolare bisognava illustrare i progetti che riguardavano il problema dell’acqua!
Mancava un giorno all’apertura della fiera. Lo stand offriva in quel momento ai curiosi (i soliti scugnizzi) una lunga tela di sacco e nulla più. Quel mattino, padre Giulio arrivò con un camioncino zeppo di barattoli, scope e pennelli. Scaricò tutto davanti a sé e poi si mise pensieroso ad ammirare il panorama di sacco, grattandosi la barbetta. Poi intinse un pennellone dentro un bidone di colore, lo assicurò a un manico di scopa e via… partì in quarta «sporcando» quella tela lunga più di 30 metri. Dieci minuti di sosta, tanto per dar modo al colore di asciugarsi un poco e… via un’altra cavalcata.
«Cosa sta facendo questo muchenge?» (bianco) si domandavano i curiosi. Il muchenge si allontanò di una quindicina di metri a meditare la prossima manovra. Poi partì deciso senza ripensamenti, dal bel mezzo della lunga tela. Qui un’ombra nera, là un tocco di verde, macchiette sparpagliate di ocra.
Qualcosa di familiare cominciava ad apparire… ma non troppo. Ultimo spazzolone: sì, perché davvero questo era uno spazzolone tanto era grande. Un cielo azzurro prese a coprire quel lungo accavallarsi di colori sottostanti e l’inconfondibile silouette della grande montagna sacra del Kenya prese a far capolinea come da una massa di nubi. Zak e zak! Ed eccoti servito.
Fu uno scroscio di mani e un bornato di approvazione: la giogaia del monte Kenya era ora tutta davanti agli spettatori increduli. E c’era ancor tempo per il sole pomeridiano per asciugare quella distesa di colori.
Inutile dire che il giorno seguente la giuria assegnò il primo premio allo stand diocesano.

Tra padre Giulio e il sottoscritto c’è stato un piccolo segreto, che oggi posso rivelare, dato che il missionario ci ha lasciati. È un segreto che inizia con una storia triste. Era il 7 gennaio 1965, festa di san Luciano.
Appena tornato dalla cava di sabbia, dove ero andato a far rifoimento per i lavori della missione, la suora del dispensario mi chiama e mi fa vedere, in braccio a un uomo, un fagotto di stracci con un bimbo di età indefinita, moribondo.
Si decide di fare almeno un tentativo: portarlo all’ospedale.
Vestito come sono da manovale muratore, carico l’uomo e il bimbo e cerco di accelerare i tempi. Ci son cinque chilometri per giungere all’ospedale, ma su una strada da specialisti in autocross.
Tengo d’occhio il bimbo. Lo vedo aprire gli occhi alla ricerca di un ultimo filo di vita. Non sono neppure a un terzo del tragitto e manca proprio il più difficile. In prima ridotta il Land Rover si arrampica come può.
Decido di fermarmi. Mettiamo il bimbo sull’erba perché possa respirare meglio. Mi faccio coraggio e inizio un dialogo con l’uomo che sostiene il moribondo.
– Ni mekriste? (è cristiano)?
– Are (no).
– Vuoi che lo battezzi?
– È affare tuo! (come per dirmi: fai quello che credi bene).
Afferro la bottiglia dell’acqua che per prudenza ho sempre nella cabina del camioncino. Ohimé! è vuota. Neppure una goccia. Avevo infatti aggiunto poco prima acqua nel radiatore. Ora l’acqua più vicina è a venti minuti di corsa.
Sento però l’acqua del radiatore bollire e uno spiffero di vapore uscire da qualche parte. Afferro il tappo della bottiglia e raccolgo con ansia le poche gocce che si condensano.
«Luciano, vai con gli angeli di Dio. Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Mi è venuto così spontaneo ricordare mio fratello che in Italia celebrava san Luciano.
Meno di un minuto e … quell’angioletto è già in paradiso.
Con fare guardingo l’uomo ha già nascosto tra gli stracci il morticino. Se lo è messo in cabina tra le gambe. E mi dice di tornare alla missione. Giunto a casa, devo tribolare non poco per capire le intenzioni dell’uomo. Mi supplica di portarlo nella foresta. Toccare i morti per lui è tabù. Potrebbe essere costretto a fare un sacrificio agli spiriti.
Lo faccio salire nel cassone posteriore del camioncino e giunto nel bosco appena fuori della missione, faccio marcia indietro per isolarmi il più possibile nel semibuio delle piante. Vedo l’uomo scendere guardingo, armeggiare un pochino con il suo machete per scavare una buca… Poi tutto diventa silenzio. Anche l’uomo è sparito. Sotto dieci centimetri di terra, coperto da poche foglie, giace il corpicino del piccolo Luciano. La iena, nella stessa notte non faticherà a portarselo via!

Quell’angioletto, mandato per direttissima in paradiso con quattro gocce d’acqua rugginosa, continuò a occupare i miei sogni per almeno tre anni, finché un giorno mi venne un’idea. Avevo pregato padre Giulio Cesare di farmi una «vetrata» per la nuova chiesa parrocchiale di Amugenti. Si trattava di una vetrata «all’africana»: carta velina a colori racchiusa tra due vetri, ma dall’effetto strabiliante!
Padre Giulio cominciò a fare un bozzetto. Mentre lo guardavo, mi venne in mente il piccolo Luciano. E cominciai a cantare:
«Pittore ti voglio parlare
mentre dipingi un altare.
Io sono un povero negro
e d’una cosa ti prego.
Pur se la Vergine è bianca…
fra gli arcangeli ti prego
metti un angioletto nero!».
Raccontai la storia dell’angioletto a padre Giulio. Si commosse anche lui e mi fece la sorpresa. Tutte le volte che ammiro nel mio breviario la foto di quella vetrata, penso a quel bimbo che più di 40 anni fa avevo battezzato con quattro gocce d’acqua, portato nella foresta e mai più trovato.
Avevo concordato con padre Giulio di non dire a nessuno come mai in quella vetrata c’è un angelo bianco e un angelo nero. Ora lo sapete anche voi. 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




FRATELLO NELLE PICCOLE COSE

Il messaggio del vangelo, rivolto ai piccoli e agli umili della terra, è stato il centro della vita di padre Joseph Otieno, keniano, uno dei primi missionari della Consolata ad essere inviato in Corea del Sud. È morto durante un evento sportivo, tradito dal suo cuore grande, sempre aperto alle esigenze della gente che il Signore aveva chiamato a servire. Così lo ricordano i suoi compagni di missione.

Una fredda domenica, di quel 18 dicembre. Ma il rigore dell’inverno coreano non aveva impedito a padre Joseph di calzare le scarpette e, approfittando dell’assenza di impegni parrocchiali, di prender parte alla «maratonina» di Seoul, una competizione organizzata per beneficienza. Trentun anni compiuti in maggio, fisico scattante ed asciutto, Joseph, da buon keniano, amava correre al punto che, in estate, si era iscritto al Seoul Synergy Running Club, un’associazione sportiva per patiti della corsa a piedi. Era un atleta ed era allenato.
Per questo motivo la telefonata che ne annunciava la morte (avvenuta sull’ambulanza che lo portava d’urgenza all’ospedale dopo che si era accasciato nel mezzo della gara) è suonata come assurda. Sgomento, incredulità, shock sono stati i sentimenti di tutti. Come poteva esser Joseph quell’atleta che si era accasciato al bordo della strada? Ci siamo precipitati all’ospedale di Sadang, ancora increduli, ma abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza. Era proprio lui, Joseph… e il dolore ha avuto la meglio sull’incredulità. Abbiamo pianto.
Il corpo di Joseph è stato trasportato il lunedì 19 dicembre all’ospedale della Sacra Famiglia di Bucheon, vicino a casa nostra. E nello stesso luogo è stata allestita la camera ardente.
Fin dalle prime ore del pomeriggio, incessante è stato l’afflusso di fedeli, di religiosi e religiose, di persone che avevano conosciuto Joseph. La classica cantilena ritmata delle preghiere per i defunti che si usano nella chiesa cattolica coreana ha fatto da sottofondo continuo per due giorni, fino alla messa di esequie. Tutta la nostra comunità era mobilitata, inclusi gli studenti e le signore del nostro «Gruppo Amici Imc», che sono state ancora una volta meravigliose nel loro impegno e nella loro vicinanza.
Intanto, le cose, per quanto riguardavano il funerale, si stavano complicando. Ci voleva un permesso da parte dell’Ambasciata del Kenya, che forse non sarebbe arrivato presto. Ci siamo visti costretti a fare la messa esequiale, il mercoledì 21 dicembre, sapendo già che avremmo dovuto poi riportare il corpo del nostro Joseph all’ospedale, in attesa della sepoltura.
Alle 10.00 del mattino, la chiesa parrocchiale di Yokkok-2-dong, (la parrocchia alla quale territorialmente apparteniamo) era piena colma di gente (400-500 persone), senza contare i celebranti, che erano una ventina. Abbiamo cercato conforto nella parola di Dio, che ci ha accompagnato attraverso i vari stadi dell’incredulità, del dolore e della rabbia per questa tragedia, fino a portarci alla certezza che niente puo’ mai separarci dall’amore di Dio mostratoci in Gesù.
Abbiamo letto la morte di Joseph come quella del chicco di grano che, caduto in terra, muore come condizione per portare molto frutto. Sì, Signore: la vita di Joseph era già donata alla missione, alla Corea, ai fratelli e sorelle di questo paese, e quindi la sua morte non fà altro che rendere quella donazione definitiva, e fonte di molto frutto.

I l permesso di sepoltura che attendevamo giungesse dall’Ambasciata del Kenya si faceva attendere ed è giunto solo il 4 gennaio. Due giorni dopo ha avuto luogo la messa di funerale, attesa da più di 250 persone e in cui il vescovo di Incheon, mons. Choi Kisan Bonifacio, ha ricordato ai presenti che anche Andrea Kim-Dae Gong, primo sacerdote e martire coreano era morto giovane, per non parlare dello stesso Gesù. Ha anche affermato che attraverso questa morte il Signore ci ammonisce, invitandoci tutti a tendere incessantemente alla santità.
Nel 2002, Joseph Otieno aveva raggiunto la Corea, sua prima destinazione missionaria, insieme ad altri due sacerdoti missionari africani. Dopo i primi anni della formazione e del noviziato, tutti vissuti in Kenya, aveva studiato teologia in Inghilterra, presso il Missionary Institute di Londra.
Chi ha avuto modo di incontrarlo in quegli anni lo ricorda come una persona semplice e umile ma, nello stesso tempo, molto affabile. Attento agli studi e alle sue responsabilità, che sempre assumeva in prospettiva al futuro missionario, Joseph non disdegnava momenti di sana vita sociale che gli permettevano di avvicinare la gente in modo più informale e spontaneo. Davanti a un bel boccale di Guinness, sovente condiviso con il parroco di Whetstone (la comunità dove per 4 anni ha prestato servizio pastorale), Joseph si relazionava con gioia con i giovani che incontrava.
In parrocchia, fino al momento della sua ordinazione diaconale, aveva contribuito non poco a ravvivare le celebrazioni, grazie alla sua abilità nel suonare le percussioni. I giovani gli volevano bene, proprio per quell’approccio semplice e immediato, che gli aveva conquistato la simpatia di tutti, anche all’università.
Joseph era generoso, e metteva sempre gli altri prima di sé. Era anche modesto nel suo stile di vita e rispettoso di tutti, sicuro delle sue idee, ma estremamente aperto a quelle degli altri. Una volta ordinato diacono, a lui e a altri tre compagni fu chiesto se volevano essere i primi missionari africani ad andare in Corea: era sicuramente una grande sfida. Joseph chiese un tempo per riflettere e per prendere una decisione. Era coraggioso e amava cimentarsi con l’avventura. Passato il periodo di riflessione, rispose di sì. Del resto, questa risposta era perfettamente in linea con lo stile della sua persona.
Era molto cosciente delle sue radici culturali, che venivano espresse in modo particolare nella danza e nella musica, come pure nella prontezza a partecipare ad ogni tipo di conferenza e riunione. Ma il suo mondo andava ben oltre, verso quegli spazi infiniti che solo la missione può aprire.

Q uattro vescovi erano intervenuti all’ordinazione di Joseph, il 14 ottobre 2001, a Nairobi (Kenya). Prendeva il via in quel momento il ministero che avrebbe caratterizzato la sua breve esperienza presbiterale, quello di «lavare i piedi agli altri». Sempre diceva che «il sacerdozio è per il servizio».
Questo, unito a una gentilezza del tutto speciale nelle sue relazioni con gli altri; gentilezza che non era debolezza, ma qualcosa di grande e vero, una tenerezza che toccava il cuore della gente in profondità.
Una volta giunto in missione, dopo essersi dedicato allo studio della difficile lingua coreana, Joseph era entrato a far parte della comunità di Kuryong, una baraccopoli nel cuore della capitale, manifestando da subito la decisione a vivere la sua vocazione missionaria tra i poveri.
Anche in questo contesto era emerso il suo cuore semplice e buono, che gli aveva permesso di adattarsi con piacere a fare i piccoli servizi che l’uso ancora limitato dell’idioma gli consentiva di prestare. Insegnava inglese a qualche ragazzotto della zona e aiutava le «nonne» del quartiere, rendendosi utile in qualche piccolo lavoretto.
A più di uno questa sua disponibilità era suonata come una pazzia. Ma come? Uno straniero, sacerdote per di più, adattarsi a incombenze come andare a fare la spesa al supermercato per qualche anziano che non avrebbe avuto la possibilità di muoversi! Quando uno dei parrocchiani espresse ad alta voce questo sentimento, la risposta di Joseph fu evangelicamente disarmante: «Siamo venuti qui per servire e aiutare nelle piccole cose che possiamo fare…».

T re giorni soltanto prima della sua prematura scomparsa, Joseph era stato chiamato ad aiutare in parrocchia nella celebrazione del sacramento della riconciliazione. Una signora si era recata da lui per la confessione ed era stata così toccata dal calore e dalla comprensione di quel sacerdote africano che, il giorno seguente, aveva lei stessa accompagnato due altre persone presso la casa dei missionari della Consolata, affinché potessero ricevere da Joseph la pace e la gioia del perdono.
La tristezza per la sua morte lascerà il segno per lungo tempo, questo è certo. Eppure è viva in noi la profonda sensazione che il Signore, con la sua grazia, ha preparato Joseph a incontrasi con lui. La semplicità della sua vita testimonia con i fatti questo suo essere pronto. Sentiamo con forza che la sua morte è un seme di vangelo, un esempio da ricordare e vivere.
Riposa nella pace del Signore, Joseph, e intercedi per noi dal cielo, affinché sappiamo portare avanti bene la missione alla quale anche tu avevi cominciato a partecipare con entusiasmo. Ricordati che stiamo aspettando i «frutti» che la tua morte non può non portare.
Non resta che esprimere «santo orgoglio» per come tutta la nostra comunità (inclusi gli studenti) ha reagito a questa improvvisa tragedia: con dignità, profonda partecipazione, unità e totale disponibilità da parte di tutti. E constatare ancora una volta come la gente ci voglia bene, e come tutti abbiano fatto davvero del loro meglio per aiutarci.

I missionari IMC in Corea