Aleida Guevara, una degna figlia del Che


Il papà è stato e ancora rimane un’icona globale. Lei, medico pediatra, ha girato il mondo per ricordare la sua figura. Lo scorso marzo Aleida è tornata in Italia. A pochi giorni dall’approvazione definitiva della nuova Costituzione cubana.

Testo di Gianni Minà

Essere figlia di un mito della storia del ventesimo secolo è un impegno che può schiacciarti o, al contrario, esaltarti. Ho conosciuto e frequentato, negli anni, Aleida Guevara March, figlia di Ernesto Che Guevara, e posso dire di ammirarla per la sua capacità di sostenere questo peso nel tempo con assoluta leggerezza umana.

Aleida, che gli amici chiamano Aliucha, è oggi un medico pediatra all’ospedale William Soler di La Habana, ma il destino ha voluto che venisse scelta anche come rappresentante della famiglia e della rivoluzione nel difficile compito di continuare a portare, in giro per il mondo, la parola di suo padre, il Che, in decine di avvenimenti dove si narrano le gesta e spesso anche l’epopea di Ernesto Guevara.

La storia ha voluto così, disegnando per lui un ruolo di esempio indiscutibile a fianco di Fidel Castro e per lei un compito importante all’interno della rivoluzione stessa.

Aliucha è stata ed è la portavoce dell’utopia di suo padre e ancora adesso, a 58 anni, è capace di rinverdire, con le sue conferenze e le interviste, una testimonianza che sfiora la leggenda in Africa come in Australia, nella scettica Europa o nel Sud del mondo e nel cuore dell’America Latina.

«Il fatto è che ho dovuto supplire a volte alla timidezza dei miei fratelli. Di Hilda, figlia del primo matrimonio di mio padre, di Camilo, responsabile del Centro culturale Che Guevara, e di Celia, che è veterinaria all’acquario nazionale di Cuba, e di Ernesto, che lavora nel settore turistico. Il merito è stato di mia madre, un’antica combattente della rivoluzione che pure seppe conciliare i suoi doveri di madre con quelli da militante (è stata per anni deputata e guidava la delegazione della commissione esteri del parlamento cubano, ndr)».

Aleida nel tempo si è preparata con puntiglio, conscia del dovere di essere pronta per questa incombenza e fornendo un esempio tangibile pure alle figlie Celia, anch’essa medico, come tradizione famigliare, specializzata in chirurgia cardiovascolare, ed Estefania, studentessa di economia.

Nel 1996 accompagnai Aleida a un ricevimento che le sorelle Fendi, le signore della moda italiana, offrivano per festeggiare l’uscita italiana della rivista «George», fondata da John John Kennedy, che era ospite dell’evento. Nell’occasione colpiva il contrasto tra lo sguardo affascinante, ma discreto del giovane Kennedy e quello sbarazzino della figlia del Che.

John evitava di guardare negli schermi dove passavano le immagini della presidenza tragica di suo padre, Aleida invece raccontava le sue esperienze fatte in Angola e in Nicaragua nell’impegno di alleviare le difficoltà di quei popoli. I due simpatizzarono. Purtroppo, tre anni dopo il giovane Kennedy sarebbe perito in un incidente accaduto su un aereo che lui stesso pilotava.

Aleida l’ho rivista l’11 marzo scorso in un incontro ad Assisi per una conferenza sulla mediocrità della vita che attualmente viviamo, in una sala della Pro Civitate Christiana che straripava di persone. Nella circostanza la figlia del Che, in due ore, ha chiarito molti degli interrogativi, che la nuova Costituzione, recentemente varata a Cuba, aveva posto, avendo come obiettivo una migliore qualità della vita.

L’iter di questo rinnovamento, dopo la scomparsa di Fidel Castro, era stato avviato dal Parlamento cubano con un progetto costituzionale discusso poi in tutti i Cdr (Comitati di difesa della Rivoluzione). I cittadini cubani avevano presentato a loro volta un milione di modifiche al progetto iniziale e il Parlamento, grazie a queste proposte, aveva rettificato il progetto iniziale del 60%. Il 24 febbraio 2019 si è poi svolto un referendum per rendere ufficiale il cambiamento. L’85% degli aventi diritto al voto si sono recati ai seggi e l’83% di questi ha votato sì.

Cuba ha mantenuto così la prerogativa di nazione latinoamericana più equa e più sicura del continente malgrado un vergognoso embargo degli Stati Uniti che dura da più di mezzo secolo. Credo che questa caratteristica, al di là di qualunque sbaglio, sia il frutto di una nazione ancora unita che si riflette nella serenità del suo popolo.

Non è un caso che quando finalmente, nel 1997, il corpo dell’eroe più splendido di tutta l’America Latina era stato restituito a Cuba dalla Bolivia, Aleida, la figlia che non si arrende, aveva salutato la salma del padre con queste parole:

«Più di trenta anni fa i nostri padri
si congedarono da noi.

Partirono per tenere alti gli ideali di Bolivar, di Martì:
un continente unito e indipendente, ma nemmeno
loro sono riusciti in questo intento
Erano coscienti che i grandi sogni si avverano
solo a costo di immensi sacrifici.

Non li abbiamo più visti.
Allora quasi tutti noi eravamo molto piccoli,
adesso siamo uomini e donne
e abbiamo visto e vissuto,
forse per la prima volta, momenti
di grande dolore, di pena intensa.

Sappiamo come si sono svolti i fatti
e ancora ne soffriamo.

Oggi tornano a noi le loro spoglie,
ma non tornano sconfitti. Tornano da eroi,
eternamente giovani, coraggiosi, forti, audaci.
Nessuno può toglierci questo.
Saranno sempre vivi, insieme ai loro figli,
nel loro popolo».

Gianni Minà

 




L’Odissea di Lula


Lula, il primo presidente di sinistra (e democratico) del gigante sudamericano, confermato per un secondo mandato, è oggi agli arresti. Contro di lui intrighi legati al petrolio, alla Confindustria brasiliana e ai vicini Usa. Lui aveva tentato di rompere la logica di dominazione e aveva varato il piano «Fame zero».

Quale sarà la conclusione della vicenda umana e politica di Luiz Inácio da Silva detto Lula, due volte presidente del Brasile (dal 2003 al 2010), a gennaio 2018 condannato senza prove a 12 anni di prigione (vedi articolo pag. 22) per un presunto affaire con Petrobras, la compagnia petrolifera di stato? Non si può negare che questo intrigo abbia tutte le fattezze del golpe. Una trama orchestrata da pezzi della Confindustria brasiliana, con la collaborazione delle famigerate multinazionali nordamericane e con l’appoggio vitale di Rede Globo, il più poderoso network radiotelevisivo del continente.

Questi potentati economici sempre al limite dell’onestà non avevano gradito il fatto che l’ex presidente brasiliano, dopo che la Petrobras aveva scoperto e messo le mani nella propria costa atlantica, sul più grande giacimento sottomarino del mondo, il Pre-Salt, avesse rifiutato di condividere la scoperta con gli Stati Uniti. Uno spettacolo già visto e messo in atto molte volte specie dal governo di Washington che, quando si tratta di petrolio, mette in cantiere guerre insulse e feroci come quella attuale in Siria, che va avanti, tra stragi, equivoci e menzogne, da più di 7 anni (vedi articolo pag. 58). Lula ha provato a rompere questa logica ed è stato punito.

D’altronde quel mondo che si autodefinisce civile e democratico, il mondo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, aveva un conto da saldare con lui e Dilma Rousseff, che gli era succeduta nella presidenza.

(archio Gianni Minà)

Lula era stato il primo presidente progressista eletto, e anche confermato, dopo gli anni lugubri della dittatura militare, in quello che, con 207 milioni di abitanti, è lo stato più popoloso dell’America Latina.

Agli occhi del governo di Washington, Lula era stato il complice dell’ex presidente venezuelano Hugo Chávez nel ricambio progressista che il continente a Sud del Texas aveva avuto negli ultimi vent’anni. Anni in cui alcune nazioni si erano consociate in scelte libertarie arrivando a fondare, sull’esempio della Comunità europea, perfino una banca e una televisione continentale, la Telesur, per controbattere l’informazione scorretta della Cnn e di altri network privati normalmente proprietà di caciques abituati a dire sempre sì agli yankee.

Ho conosciuto Lula, prima che diventasse presidente, grazie ad Antonio Vermigli, un generoso ex postino di Quarrata (Pistornia) che tiene in mano la Rete Radié Resch (una rete della sinistra cattolica).

Lula veniva in Italia invitato dai vari sindacati e avevo imparato ad apprezzarlo proprio per essere riuscito nel miracolo di fondare il Pt (Partido dos Trabalhadores, partito dei lavoratori) che, insieme ai cattolici progressisti e al movimento dei Sem Terra (senza terra, ndr), lo avrebbe portato al governo del paese, smentendo chi aveva tentato di sostenere «che i comunisti stavano per prendere il potere in Brasile». Questo perché il Pt era diventato l’esempio del più efficiente movimento progressista in quella che all’epoca (dai primi anni 2000) è stata una vera e propria primavera dell’America Latina.

L’entusiasmo e la sincerità di questo ex operaio della Volkswagen, che al suo mestiere di tornitore aveva sacrificato perfino due dita, aveva permesso ai brasiliani di sognare anche per iniziative come il piano «Fame zero», messo in piedi dal teologo della liberazione Frei Betto che, su incarico di Lula, era riuscito nell’impresa di assicurare a 50 milioni di abitanti, i più poveri, tre pasti al giorno.

Era un nuovo mondo che si scrollava di dosso la dittatura militare e incominciava a diventare un esempio politico, mettendo in crisi perfino pezzi di socialismo occidentale.

Non potrò mai dimenticare una sera in cui, per presentare un libro di Rigoberta Menchù sulle stragi in Guatemala, alla festa dell’Unità di Modena, ero riuscito a riunire con Lula, lo scrittore guatemalteco Dante Liano, scampato ai massacri previsti dal Plan Condor benedetto da Nixon e Kissinger (piano Usa di destabilizzazione delle democrazie in America Latina, ndr), insieme a Frei Betto, frate domenicano e teologo della liberazione, carcerato e torturato dalla dittatura brasiliana, ed Eduardo Galeano, il più acuto saggista del continente latinoamericano.

Tutti avevano toccato le corde dell’emozione, ma il più appassionato era stato proprio Lula che, qualche anno dopo, sarebbe diventato per la prima volta presidente del Brasile. Ci avevano invitato i ragazzi della Fgc (Federazione giovani comunisti) felici di ricevere così tante figure profetiche del continente, oltretutto scampate all’estinzione. Non avevano però lo stesso entusiasmo i militanti più avanti nell’età e gli organizzatori della festa.

«Minà questa sera nella sala grande abbiamo il confronto tra Vitali e Guazzaloca, forse sarebbe meglio che con i suoi ospiti andasse in un ambiente più raccolto» (Giorgio Guazzaloca fu il primo sindaco di Bologna non di area centrosinistra nel dopoguerra e succedette a Walter Vitali nel 1999, ndr). Era il dibattito tra il sindaco della tradizione progressista della città e quello conservatore che gli sarebbe succeduto. Ricordo che mi scappò una frase sarcastica: «Non solo rischiate di far vincere ai vostri avversari le elezioni amministrative a Bologna, città rossa, ma gli preparate anche il terreno adatto». Quella sera rimanendo nel nostro spazio concerti, assegnatoci dai ragazzi della Fgc, spaccammo in due la festa. Un migliaio di spettatori per la sfida Vitali-Guazzaloca, e altrettanti per noi. Rigoberta firmò 500 libri in poco più di mezz’ora.

Qualche mese dopo Massimo D’Alema invitò a Firenze quasi tutti i leader socialisti delle nazioni più importanti. A sorpresa, però, per il Brasile, non si ricordò di invitare Lula Da Silva, il leader di 50 milioni di brasiliani che votavano a sinistra. Preferì trasmettere l’invito a Fernando Henrique Cardoso, leader della coalizione di centro destra che governava in quel momento. La giustificazione? Cardoso in gioventù era stato un sociologo progressista che D’Alema probabilmente aveva letto. Lula che con bonomia mi ha raccontato questa gaffe, ha ricordato che, quando era già succeduto a Cardoso, D’Alema era volato a Rio con Piero Fassino per il summit dell’Internazionale socialista e la prima cosa che aveva fatto era stato chiedere una mozione di censura per Cuba. È stato lo stesso Lula, che pure è un moderato, a ricordare alla delegazione italiana che «per la maggior parte dei latinoamericani la Revolución è un esempio indiscutibile».

Ora io non so perché, dopo il successo, il Pt si sia disfatto in un pugno di anni. So però che se Lula potesse, rispettando le regole, presentarsi come candidato per le prossime elezioni del paese (a ottobre, ndr), vincerebbe, secondo i sondaggi, senza discussione. Per equità ricordo anche che, l’ex vice di Dilma Rousseff, il presidente sostituto Michel Temer ha venduto l’anima ed è attualmente uno degli uomini più indagati e discussi della storia moderna del Brasile.

Basta leggere il suo curriculum dal quale, per esempio, apprendiamo che nell’inchiesta Operaçao Castelo de Areia, sulla corruzione all’interno dell’impresa di costruzioni Camargo Correa, il suo nome è citato ventuno volte nella lista desunta dalla contabilità parallela dell’impresa. È dunque grottesco che Dilma sia stata sospesa e invece Temer possa governare in sua vece.

Quello che più intristisce è che, ancora una volta, un qualunque Temer, pronto a qualsiasi intrigo, possa, con un colpo di stato moderno (rappresentato da compagnie subdole d’informazione di dubbia provenienza o da trame di servizi segreti o da logge massoniche) impedire a un popolo di vedere trionfare le proprie idee, le proprie scelte e i propri diritti e che tutto questo avvenga con la benedizione di istituti come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e le sette sorelle multinazionali del petrolio. Golpe che noi, farisei occidentali, spesso definiamo grottescamente come «atti di democrazia».

Gianni Minà

 




Galeano: l’ironia e l’impegno civile

 


Giornalista e scrittore, Galeano è riconosciuto come uno tra i maggiori pensatori latinoamericani dell’ultimo secolo. Alfiere dell’America Latina dei popoli ha spesso denunciato l’imperialismo nordamericano. Ha lasciato molti scritti e alcuni testi fondamentali e sempre attuali per capire il continente.

Quando, come succede in questo caso, mi tocca raccontare di un vecchio amico scomparso che mi ha regalato il piacere della sua parola, come Eduardo Galeano, mi viene difficile trovare la misura e il tono giusti per descriverlo in tutte le sue sfaccettature. Tutto suona banale.
Eduardo è stato per anni il saggista più acuto e onesto nell’illustrare il fascino del continente dove era nato e cresciuto, quello a Sud del Texas, ma anche il narratore più sarcastico sulle esagerazioni che l’attuale mondo isterico ci sbatte ogni mattino in faccia, sia in America Latina sia nel resto del mondo.
Così ora mi commuove pensare all’attualità dei suoi ironici discorsi, specie pensando a quante parole stonate sono state spese dopo l’incontro fra Obama e Raul Castro (17 dicembre 2014) che avrebbe dovuto finalmente chiudere un’assurda «guerra fredda», mai dichiarata e mai terminata, fra l’America Latina e gli Stati Uniti d’America. Una guerra fredda che aveva costretto Obama, il presidente succeduto a Bush jr, a mettere da parte per un po’ la politica di ingerenza nordamericana nella terra scoperta da Cristoforo Colombo.
Galeano, qualche anno fa, polemizzando con Mario Vargas Llosa per la sua accusa alla maggior parte degli scrittori latinoamericani di essere troppo condiscendenti verso la rivoluzione cubana, è stato franco: «Vargas Llosa vede sorprendentemente l’America Latina come se fosse un viaggiatore nato in una contea inglese e non nel Perù del sottosviluppo e degli orrori. Amo molto Mario, uno dei più grandi scrittori viventi, per questo mi dispiace stia facendo una specie di gara con Octavio Paz (Nobel per la Letteratura nel 1990) per vedere chi corre più a destra». E poi, entrando nella contesa: «Io sono stato spesso critico con Cuba, ma lo faccio con amore e rispetto, non con odio e rancore, come sembra succedere a molti che, in altri tempi, si atteggiavano a rivoluzionari, e oggi vogliono cancellare ogni traccia del proprio passato a costo di ignorare che, se in questo continente la metà della gente vive sotto la soglia di povertà, è il libero mercato, quello che ora chiamiamo il neoliberismo, a fallire miseramente ancora prima del socialismo».
Certo Eduardo non le mandava a dire e per questo sono orgoglioso di aver lavorato 10 anni con lui per fare uscire 7 delle sue opere in Italia, dove era stata pubblicata, fino a quel momento, solo la trilogia di «Memorie del fuoco».

Eduardo Galeano  AFP PHOTO/PABLO PORCIUNCULA / AFP PHOTO / AFP FILES / PABLO PORCIUNCULA

Nel 1971 quando apparve il suo libro «Le vene aperte dell’America Latina», fu per molti una vera e propria folgorazione, tanto che Heinrich Boll, scrittore tedesco Premio Nobel per la Letteratura 1972, affermò: «Negli ultimi anni ho letto poche cose che mi abbiano commosso così tanto».
Galeano, in un libro-vangelo di un continente allora di moda, aveva inventato, a trentuno anni, un metodo per raccontare la storia partendo apparentemente dalla piccola quotidianità.
Un reportage, un saggio, una pittura murale, un’opera di artigianato mirabile, terminato di scrivere in esilio, lontano dal suo Uruguay, dopo che aveva dovuto lasciare il suo paese e poi l’Argentina per sfuggire alla ferocia di quelle dittature.
Le vene aperte, proposto per primo da Feltrinelli e poi tradotto in 18 lingue, ha avuto oltre 100 edizioni solo in spagnolo. È un’opera tuttora di straordinaria attualità che denuncia, analizza e spiega attraverso episodi apparentemente senza importanza e riferimenti storici spesso trascurati, il processo di spoliazione del continente latinoamericano, prima da parte dei conquistadores, poi delle potenze coloniali e infine degli Stati Uniti.
Forse è per questa incisività che nel 2009, al summit delle Americhe, a Trinidad e Tobago, l’ex presidente venezuelano Hugo Chávez non poté fare a meno di regalarlo a Barack Obama dicendogli, con la solita ironia: «Presidente, se vuoi capire qualcosa di America Latina, leggiti questo libro».
Abbiamo il dubbio che il presidente Barack Obama non abbia avuto il tempo di consultarlo. I rapporti con Cuba, il Venezuela e l’America Latina in generale non sono migliorati. E ora, con l’avvento di Trump, le speranze di cambiamento sono definitivamente tramontate.

Hugo Chavez offre a Obama il libro di Edoardo galeano «Le vene aperte dell’America Latina». Trinidad,  18/04/2009. AFP PHOTO/Jim WATSON / AFP PHOTO / JIM WATSON

I ricordi di un’amicizia sono tanti. Una volta ci ritrovammo a Buenos Aires per un omaggio alla memoria di Osvaldo Soriano. C’era anche la vedova Catherine Brucher. Tutti eravamo emozionati e per la prima volta anche il severo Eduardo, che aveva un senso dell’amicizia fortissimo, si asciugò gli occhi.
Come tutti i latinoamericani, Galeano adorava il calcio tanto che non obiettò nulla quando io gli dissi che la casa editrice avrebbe fatto uscire Le vene aperte in concomitanza con El fútbol a sol y sombra (tradotto in Italia con il titolo Splendori e miserie del gioco del calcio). «Sarà un successo», aveva detto, e ha avuto ragione.
Una volta si accorse che c’era una finale di Coppa Italia all’Olimpico: Roma – Inter. Mi chiese di andare con lui allo stadio. Ci avevano consigliato di uscire 5 minuti prima per evitare l’ingorgo. La Roma vinse 2 a 1, ma dovetti penare molto per trascinarlo via una manciata di secondi prima della fine.
Aveva anche il culto dell’impegno civile. Tanto che lui, così schivo nella vita, aveva accettato una volta perfino di partecipare con altri intellettuali al controllo delle elezioni in Venezuela, stravinte da Chávez. Si era adirato molto quando aveva letto le invenzioni che illustravano ogni giorno gli articoli dei cronisti del mondo occidentale, pur smentiti nel loro patetico tentativo di svalutare la credibilità delle elezioni stesse. D’altronde non c’è da stupirsi. Quei cronisti, infatti, sono gli stessi che ancora, quattro anni dopo la morte di Chávez, tentano di imporre le strategie informative da golpe mediatico nell’epoca di Nicolás Maduro. Tutto questo malgrado il risultato indiscutibile delle recenti elezioni sulla nuova Costituente, perse in modo clamoroso dall’opposizione, nonostante il sostegno delle varie agenzie dei servizi di intelligence nordamericani.
Eduardo amava la nuova America Latina progressista e nelle sue note non lo nascondeva, come non nascondeva la simpatia per il Subcomandante Marcos e l’Ezln (Esercito zapatista di liberazione nazionale) da cui andò un paio di volte.

Ha scritto di lui Isabel Allende nel prologo all’ennesima edizione di Le vene aperte dell’America Latina (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer): «Galeano ha percorso l’America Latina ascoltando anche la voce dei reietti oltre che quella di leader e intellettuali. Ha vissuto con indios, contadini, guerriglieri, soldati, artisti e fuorilegge; ha parlato a presidenti, tiranni, martiri, preti, eroi, banditi, madri disperate, pazienti e prostitute. Ha patito le febbri tropicali, ha conosciuto la giungla e ha respinto anche un infarto. È stato perseguitato sia da regimi repressivi, sia da terroristi fanatici. Ha combattuto le dittature militari e tutte le forme di brutalità e sfruttamento correndo rischi impensabili in difesa dei diritti umani. Non ho mai incontrato nessuno che abbia avuto una conoscenza di prima mano dell’America Latina pari alla sua, che si adopera per raccontare al mondo i sogni e le disillusioni, le speranze e gli insuccessi della sua gente».
Ci manca molto.

Gianni Minà




Quel diavolo di Maradona


Campione assoluto sui campi di calcio, nella vita privata il giocatore argentino ha sofferto di grandi fragilità, come la sua (passata) dipendenza dalla coca. Amico di Fidel, politicamente si è sempre schierato tra i progressisti. Anche in questo Maradona non è e non è mai stato un uomo comune.

Con Diego Armando Maradona, el Pibe de Oro, ho avuto un rapporto speciale fin dal suo arrivo in Italia. Aveva già un manager e un ufficio stampa personali consci di quello che lui rappresentasse per il calcio mondiale e anche per il costume del nostro tempo. Così fin dalla sua prima stagione in Italia (1984-1985) potei proporre a la Repubblica, con la quale collaboravo, un’intervista che non fosse solo calcistica, ma toccasse argomenti meno banali.

Mi sorprese subito la sua franchezza. Non aveva paura di esporsi. Già allora aveva idee precise anche sulla politica: era un simpatizzante progressista.

La nostra confidenza crebbe rapidamente nei suoi primi due anni a Napoli quando ancora non era palese, per il valore medio della squadra, che la sua sola presenza in campo avrebbe mutato radicalmente gli equilibri non solo del Napoli, ma di tutto il calcio del campionato italiano.

La nostra amicizia si rafforzò ai mondiali di Messico 1986 che – non è un’esagerazione – Diego vinse praticamente da solo con il famoso «gol del secolo» (7 giocatori dell’Inghilterra dribblati in una sola azione) e con i due in semifinale contro il Belgio dove esaltò le sue capacità di equilibrio e di dribbling oltre ogni immaginazione.

Ho una fotografia con lui sui gradoni del centro sportivo del Club America, a Città del Messico, dove l’Argentina passava allora parte del ritiro. Era l’impianto di proprietà di Emilio Azcarraga, magnate di Televisa, la televisione privata messicana partner della Fifa nell’organizzazione di quel mondiale. In quell’occasione, Diego mi confessò l’esigenza ormai impellente per il Napoli e per le sue ambizioni di lottare per lo scudetto nel campionato italiano che frequentava da 2 anni.

Era evidentemente un’esigenza dettata dagli 80mila spettatori che riempivano con continuità lo stadio di Fuorigrotta ed erano pronti per un riscatto della città.

Maradona fu profeta: la stagione successiva, rinforzato da Carnevale e De Napoli, il Napoli, allenato da Bianchi, vinse lo scudetto, il primo della sua storia e la vittoria della squadra di calcio ebbe un dichiarato significato sociale.

Tanto che Rai Uno mi chiese di inventare e condurre quella «notte magica» alla quale parteciparono tutti i rappresentanti della musica popolare e del teatro della città: da Renzo Arbore a Pino Daniele, riuniti all’auditorium della Rai stessa in una festa per lo scudetto presentata insieme a Lina Sastri e rimasta memorabile: «O mamma mamma mamma. Sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona, ho visto Maradona. Eh mammà innamorato son!». Il centro della città rimase ostruito fino a notte inoltrata. Sulle mura del cimitero la mattina dopo comparve una scritta: «Che ve siete perso».

Napoli si scrollava di dosso, per qualche tempo, i suoi dubbi, le sue contraddizioni, le speranze non rispettate. Grazie al dio Maradona la squadra vinse la coppa Italia (1987), una coppa Uefa (1989) e infine un secondo scudetto (1990). Furono gli anni nei quali Maradona sottrasse, a nome del Napoli, il predominio del calcio ai grandi club del Nord, anche politicamente. E fu evidentemente un atto imperdonabile. Purtroppo però quelli furono anche gli anni nei quali Diego si perse e con lui il Napoli e le sue speranze. Fu un concorso di accadimenti negativi. Maradona, eroe in campo, era fragile nella sua vita privata. Conscio di questa situazione avrebbe voluto accettare l’offerta di un calcio più tranquillo, come quello francese propostogli da Tapie, presidente del Marsiglia, ma il rifiuto del presidente napoletano Corrado Ferlaino (nonostante una sua precedente promessa) lo lasciò disorientato. Così una mattina all’alba andò all’aeroporto di Fiumicino con la sua famiglia e letteralmente si sottrasse all’assedio mediatico ed economico di cui era diventato prigioniero.

Ho condiviso di persona la sua fragilità di quegli anni, ma anche le ultime prepotenze subite durante Italia ’90 (come le partite dell’Argentina programmate sotto il solleone o gli arbitraggi discutibili che avevano fatto presagire un trattamento ostile verso la nazionale albiceleste).

Quel 3 luglio 1990, allo stadio napoletano di San Paolo, metà del pubblico tifava per l’Italia e l’altra per lui. Aveva guidato un’Argentina modesta alla semifinale contro l’Italia e mi piace ricordare che ancora una volta fu con me sincero e onesto: «Se ce la facciamo pure oggi giuro che ti vengo ad abbracciare al sottopassaggio degli spogliatorni». Fu di parola, anche perché il penalty risolutivo della lotteria dei rigori toccò a Diego stesso. Mi precipitai con la troupe nel sottopassaggio, ma non ce ne era bisogno. Maradona, ancora in maglietta e scarpini da calcio, era già lì e mi aspettava con un sorriso beffardo. I giornalisti argentini lo videro passare e rifiutare l’offerta del loro microfono. Quelli italiani si sentirono solo dire: «Ho un appuntamento con Minà». Qualcuno protestò. Intanto il telegiornale chiedeva la linea. Mi fermarono e allora io suggerii a Maradona di rispondere a due domande del collega Giampiero Galeazzi. Poi attesi per avere la disponibilità della saletta. «Non c’è problema, aspettiamo», disse Diego. Non sapeva ancora che cinque giorni dopo l’arbitro messicano Codesal – su sollecitazione, nemmeno tanto nascosta, del presidente brasiliano della Fifa Havelange -, gli avrebbe negato la vittoria nella finale, inventandosi un rigore inesistente (tirato da Brehme) e regalando il mondiale alla Germania del commissiario tecnico Beckenbauer.

Per Maradona cominciarono gli anni bui. Qualche contratto frutto della sua fama (come con il Siviglia o il Boca Juniors, il club del suo cuore) lo aveva fatto sopravvivere ai suoi incontri con la cocaina. Da questa dipendenza è uscito con un grande sacrificio curandosi per mesi a Cuba (inizi del 2000), dopo un invito personale del presidente Fidel Castro che aveva spiegato: «Questo ragazzo che ha dato tanto al football e all’allegria dei tifosi di questo sport è venuto a chiedere aiuto per la sua salute. Stupisce che pochi gli abbiano voluto dare una mano. Visto che non ci ha pensato il mondo del mercato, lo facciamo noi».

Maradona rimase a Cuba per molte settimane e riuscì a disintossicarsi. Il Comandante Fidel lo andava a trovare spesso. Chiacchieravano molto e mi piace pensare che il suo impegno politico, vivo da tempo, sia maturato in quella stagione difficile. Diego, unico fra i grandi calciatori e atleti, aveva avuto il coraggio di esprimersi in politica mettendo la faccia in eventi mondiali. Uno di questi era stata la carovana da Buenos Aires a Mar del Plata nel 2005 contro l’«Alca», il modello economico neoliberista che gli Stati Uniti volevano imporre a tutto il continente. In contrapposizione c’era l’«Alba», la neonata associazione dei governi progressisti latinoamericani, ideata dal presidente venezuelano Hugo Chávez assieme a Fidel Castro, ma appoggiata anche da altri leader come il brasiliano Lula, il boliviano Evo Morales e da intellettuali come il premio Nobel per la pace l’argentino Adolfo Pérez Esquivel e il cantautore cubano Silvio Rodríguez. Fu probabilmente quella famosa manifestazione, nata in opposizione al presidente nordamericano Bush, a ribadire l’incomunicabilità fra il campione e gli Stati Uniti.

Dieci anni prima (1994), Diego era stato sospeso, senza possibilità di difesa, dal mondiale americano ufficialmente per aver fatto uso di una pastiglia a base di efedrina, assunta per curare un’influenza. Il vice-presidente latinoamericano della Fifa, Grondona, che era anche il presidente dell’Afa, la Federazione argentina del calcio, non si era affannato nemmeno ad affrontare la sua difesa ritirandolo dalla competizione e togliendo quindi agli Stati Uniti l’imbarazzo di dover giudicare il campione che già volevano eliminare alla vigilia della manifestazione perché pubblico consumatore di cocaina. Un atteggiamento fariseo considerato che gli Stati Uniti hanno più di 10 milioni di consumatori e sono i massimi importatori mondiali di questa droga.

L’odissea di Maradona con la coca finirà nel 2005 con un intervento in Colombia di by-pass gastrico per la riduzione dello stomaco che gli farà perdere più di 40 chili.

È palese che il più grande calciatore mai nato è stato un uomo complesso che spesso non ha saputo levarsi di torno i suoi sfruttatori e il contraddittorio mondo dell’industria del calcio.

Nel 2010, per esempio, dopo i suoi anni burrascosi, fu chiamato a svolgere l’incarico di commissario tecnico della nazionale argentina ai mondiali sudafricani.

Era un risarcimento. Arrivò ai quarti di finale, con la squadra che aveva, buona, ma non eccezionale, malgrado giovani talenti in maturazione come Messi, Di Maria, Mascherano e suo genero Aguero. Così perse contro la Germania, ma invece di elogiarlo i saccenti giornalisti italiani del settore lo riempirono nuovamente di stucchevoli critiche e di insulti. Non solo: per quasi 30 anni Equitalia l’ha perseguitato per frode fiscale chiedendogli una cifra che aumentava ogni anno (per mora, interessi di mora e sanzioni) fino a rasentare i 40 milioni di euro. L’agenzia non accettava l’idea che Diego potesse avere un doppio contratto, uno come calciatore e uno come testimonial pubblicitario, identicamente ai suoi compagni di squadra, i brasiliani Careca e Alemão, e ad altri fuoriclasse come Totti e Del Piero. Perché quello permesso ad altri protagonisti del calcio di casa nostra era, secondo Equitalia, proibito a Maradona? Diego è stato perseguitato in modo sconcertante. Una volta, non tanti anni fa, lo aspettai a fianco di 40 guardie di finanza all’aeroporto di Fiumicino. Forse erano lì perché (finalmente) qualcuno a Equitalia si era accorto di una realtà elementare, cioè che Maradona non aveva mai ricevuto alcuna «comunicazione di reato» (non essendo più residente in Italia), un reato che oltretutto non aveva commesso. C’era probabilmente qualcuno che sul caso Maradona avrebbe voluto far carriera. Ma non ce l’ha fatta. Recentemente – con molti, troppi anni di ritardo – Equitalia ha dovuto riconoscere il suo errore grazie alla testardaggine di Angelo Pisani, avvocato di Scampia e difensore di Maradona. E così quel cocciuto di Diego a breve dovrebbe vedere premiata la sua resistenza.

Quando arrivò per la prima volta in Italia si era limitato a palleggiare davanti a uno stadio zeppo (5 luglio 1984). Molti anni dopo (9 giugno 2005), nella partita di addio al calcio di Ciro Ferrara, dovette trovare scampo nella buca che portava agli spogliatorni per sfuggire al travolgente affetto dei tifosi. Dopo l’omaggio che la città gli ha tributato recentemente (16 gennaio 2017) per iniziativa dell’attore Alessandro Siani che ha affittato il Teatro San Carlo per accoglierlo, è probabile che chi vorrà ancora omaggiarlo dovrà utilizzare lo stadio di Fuorigrotta, terreno compreso.

Intanto ci ha pensato un altro argentino a convocarlo: papa Francesco, per la partita della pace (12 ottobre 2016). Dopo averlo incontrato per una visita assolutamente privata, il papa ha ripetuto una sua massima: «Chi sono io per giudicare qualcuno?». No, Maradona non è mai stato un uomo comune.

Gianni Minà

 




Si chiamava Ilaria Alpi


Dal 20 marzo 1994 si cerca (inutilmente) di capire chi l’abbia uccisa. Lei era una giovane giornalista della Rai che indagava sui traffici di rifiuti tossici e armi tra la Somalia e l’Italia. Il 19 ottobre 2016 l’unico imputato per quell’omicidio è stato assolto, dopo aver trascorso in carcere 16 anni. Questa bruttissima storia di depistaggi e bugie di Stato non riesce a trovare la parola fine.

Domenica 20 marzo 1994. La notizia dell’eccidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin mi arrivò dietro le quinte del «concertone», l’evento organizzato davanti la Basilica di San Giovanni in Laterano dalle forze progressiste che si preparavano alla consultazione elettorale della settimana seguente.

Quella notizia – un assassinio apparentemente senza senso, ma legato alla piaga della mala cooperazione italiana con il continente africano – sembrò un segnale sinistro per il nostro paese.

Non conoscevo personalmente Ilaria e l’operatore Hrovatin. Avevo già apprezzato, però, il lavoro della Alpi che con molta sensibilità raccontava il mondo islamico. Come fanno i giornalisti di razza, aveva impiegato il suo tempo per laurearsi in lingua araba all’Università del Cairo invece di fare subito la cronista embedded su un tank o su un camion di uno dei tanti eserciti di occupazione dell’epoca.

La comunicazione, però, è un magistero complicato. Non ero sicuro che una piazza traboccante di mezzo milione di ragazzi avrebbe saputo adeguare i propri umori alla tristezza improvvisa che l’assassinio di due connazionali impegnati nella ricerca della verità sui traffici di rifiuti tossici e di armi nell’ambito della nostra malefica «cooperazione» con la Somalia, avrebbe imposto. Così presi per mano Piero Pelù, il leader dei Litfiba, e gli chiesi di uscire con me sul palco, non per cantare, ma per commemorare il coraggio di Ilaria e Miran. Pelù capì il momento.

Uscimmo e io detti la notizia tutta d’un fiato. Sulla piazza calò un silenzio assordante. Allora chiesi di ricordare con un gesto qualunque il sacrificio di due giornalisti che non subivano l’informazione acriticamente, ma andavano a cercare la verità anche quando era scabrosa, nei posti dove si poteva trovare e documentare. Per quei due colleghi che non avevano tradito il loro mestiere, come è sempre più di moda in un universo informativo in cui l’apparenza, l’interesse del più forte, è ormai più importante della realtà, piazza San Giovanni rispose all’invito con un applauso lunghissimo e commovente.

Dopo pochi giorni le salme di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin tornarono in Italia, accompagnati subito dalle bugie di Stato, che Luciana e Giorgio, gli intrepidi genitori di Ilaria, dovettero immediatamente imparare a decifrare per dar corpo a quello che sarebbe diventato il loro unico obiettivo nella vita: la verità sulla morte della figlia.

In questi anni, le istituzioni non li hanno molto aiutati. Per chiarire questo vero e proprio scandalo politico hanno lavorato di più alcuni colleghi, come Maurizio Torrealta, e tre giornalisti di Famiglia Cristiana come Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari, un’indomabile parlamentare di quello che allora era il Pds, Mariangela Gritta Grainer, e un avvocato di incrollabile etica, Domenico D’Amati, capace di costringere il mondo politico a istruire una Commissione parlamentare sul caso Alpi (anche se ben presto fallita soprattutto a causa del suo presidente, l’avvocato Carlo Taormina) e di svegliare, più volte, dal suo torpore la Procura di Roma, non a caso soprannominata il «Porto delle nebbie».

In verità un magistrato, Giuseppe Pititto, era inizialmente arrivato vicino a una ricostruzione credibile dei fatti e di alcune responsabilità.

Dal ruolo ambiguo svolto dal faccendiere italiano Giancarlo Marocchino, all’inefficacia degli agenti dei servizi segreti italiani, una dozzina, che lavoravano all’epoca in Somalia e che avevano segnalato al loro capo, il colonnello Luca Raiola Pescarini, il pericolo che correvano i due giornalisti del Tg3 in cerca di prove sui traffici illegali di rifiuti tossici e armi tra la Toscana e la Somalia. Il Pm Pititto fu però subito esautorato dall’indagine con la scusa «di aver creato un clima di mancanza di lealtà e spirito di collaborazione nei rapporti con il procuratore di Roma».

Anni dopo, nel processo svoltosi a Roma contro Omar Hashi Hassan – uno dei presunti componenti del commando da cui sarebbe uscito quel giorno a Mogadiscio il killer che freddò, con un colpo alla nuca, Ilaria e Miran – proprio il colonnello Luca Raiola Pescarini avrebbe rischiato l’incriminazione per falsa testimonianza. Questo per ricordare quale è stato il clima che, fin dall’inizio, ha accompagnato il tentativo di far luce su questa scabrosa vicenda.

Una storiaccia. Perché l’esecuzione di Ilaria e Miran fu richiesta, ormai è più che mai palese, proprio dall’Italia, dove c’era una società che amministrava, come qualcosa di personale, il traffico di cinque navi per la pesca, donate dal governo italiano al tempo di Craxi al dittatore somalo Siad Barre. Questa piccola flotta, invece di frequentare i porti del commercio ittico, toccava sistematicamente quelli in cui veniva praticato, più o meno palesemente, il traffico d’armi. Forse con la copertura dei nostri servizi di intelligence.

Mi resi conto di questo stato delle cose quando, quattro anni dopo, nell’estate del 1998, decisi di imbastire una delle puntate del programma «Storie» della Rai con i genitori di Ilaria, instancabili nella loro richiesta di giustizia.

Un filmato, che mi aveva passato la Tv svizzera e che era stato girato pochi secondi dopo l’eccidio, aveva una volta di più smentito la versione dei fatti sostenuta in una lettera alla famiglia, inviata all’epoca (e senza che fosse stata richiesta) dal comandante del Corpo di spedizione italiano in Somalia Carmine Fiore.

Al contrario di quello che scriveva l’alto ufficiale, le immagini confermavano che: il primo ad arrivare sul luogo dell’eccidio era stato Giancarlo Marocchino, collaboratore dei nostri servizi segreti in quella Somalia disperata e senza legge, e non qualcuno dei militari acquartierati sul cacciatorpediniere Garibaldi. Era stato lo stesso Marocchino a trasferire i corpi di Ilaria e Miran dal van in cui erano stati colpiti a una jeep di sua proprietà, dopo un tesissimo scambio di battute a un radiotelefono con qualcuno che si rifiutava di intervenire e che, alla fine del colloquio – carpito dal microfono della cinepresa dell’operatore svizzero – lo spingeva a commentare: «Quei bastardi non vengono, hanno paura». I bastardi erano evidentemente i militari del corpo di spedizione italiana, a cui lo stesso Marocchino, subito dopo, sarebbe andato a consegnare il suo tragico carico al Porto Vecchio, dove finalmente era in arrivo un elicottero delle nostre forze armate.

Ad Ilaria Alpi, nel momento dell’intervento di Marocchino, come confermano le immagini, colava sangue dal naso. Un dettaglio che segnala come il suo cuore pompasse ancora sangue e quindi, pur con sicuri danni cerebrali, che la giornalista fosse ancora viva.

Sulla Garibaldi sarebbe stato fatto un esame dei corpi, sicuramente fondamentale per stabilire i particolari della morte, ma del quale il generale Fiore non avrebbe fatto nessun cenno nella sua lettera. Di quell’esame i genitori di Ilaria sarebbero venuti a conoscenza solo parecchi anni dopo.

Le scarne notizie della lettera del generale Fiore erano comunque quasi tutte inesatte, tanto che Luciana e Giorgio Alpi non avrebbero partecipato al riconoscimento della salma al suo arrivo in Italia, perché era stato loro preannunciato che la figlia era sfigurata dalle pallottole, mentre invece il colpo mortale era stato uno solo e alla nuca.

L’enormità e la crudeltà di queste bugie sollecita, ancora adesso, una domanda fondamentale: che interesse potevano avere certe istituzioni dello Stato italiano a coprire simili efferatezze? In nome di cosa l’hanno fatto? Quali realtà il cittadino della Repubblica italiana non deve sapere? Nello studio della Rai Luciana e Giorgio Alpi (nella foto in alto) ripercorsero, in quel torrido luglio del ’98, le tappe della loro infinita amarezza finché, alla fine di un filmato sul ritorno a casa delle salme, Luciana si accorse che i bagagli di Ilaria e Miran, nello scalo di Luxor, in Egitto, dove l’aereo di linea era stato sostituito da un velivolo della nostra aeronautica militare, erano legati e saldati con la cera lacca, mentre all’arrivo a Ciampino la corda che li imbrigliava era sparita.

Per caso due operatori diversi avevano diretto i loro obiettivi sul nastro di discesa delle valigie. Solo l’angoscia di una madre poteva cogliere quel dettaglio così importante e inquietante.

Sull’aereo, infatti, oltre ai militari dell’aeronautica c’erano: ufficiali del Corpo di spedizione in Somalia, agenti dei servizi segreti, funzionari del nostro ministero degli Esteri e dirigenti della Rai. Chi aveva avuto l’ardire, durante il volo, di aprire quelle borse, quei pacchi, e perché? Forse per far sparire i taccuini di Ilaria o alcune cassette di Miran? Quale era il segreto di Stato che dovevano coprire?

«Dove sono finiti i 1.400 miliardi della cooperazione italiana con l’Africa?». Aveva scritto Ilaria prima di partire per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio.

Sono passati 23 anni aspettando la verità. Lo scorso 19 ottobre la Corte d’appello di Perugia ha riconosciuto che per 16 anni c’è stato un innocente in carcere, il somalo Hassan Omar Hashi (nella foto a sinistra), condannato per un doppio omicidio che non aveva commesso, e chiaramente usato come capro espiatorio per una testimonianza organizzata anche dall’apparato dei servizi segreti italiani. Un errore giudiziario dovuto all’esigenza politica di trovare a qualunque costo un colpevole di questo crimine che nascondeva gli oscuri traffici tra l’Italia e la Somalia dell’epoca. «Dopo 23 anni di depistaggi e bugie – ha commentato la mamma di Ilaria Alpi – che la Procura di Roma ha elargito alla mia famiglia, mi auguro che alla luce di questa sentenza, i magistrati romani ci diano verità e giustizia. Inoltre, sarei felice se il presidente della Repubblica leggesse le motivazioni della Corte di Perugia».

Anche il «Premio Ilaria Alpi», istituito nel 1995 per ricordare la giornalista, è stato chiuso nel 2014 su sollecitazione di Luciana Alpi, tradita dalle istituzioni italiane che, in 23 lunghissimi anni, non hanno voluto o saputo fare giustizia per la morte della figlia Ilaria.

Gianni Minà

 




Rigoberta Menchu


Rigoberta, il riscatto maya

In America Latina, ci sono figure profetiche che da sole spiegano e rappresentano il riscatto sociale di quel continente ancora oggi saccheggiato, ma non più completamente in balia delle nazioni occidentali. Una di queste è stata ed è Rigoberta Menchú, indigena maya del Quiché guatemalteco, che nel 1992, 500 anni dopo la «conquista» dell’America, la cosiddetta «scoperta» del Nuovo Mondo, fu insignita, per la sua dedizione alla causa dei presunti sconfitti (raccontata anche nella sua autobiografia Me llamo Rigoberta Menchú, ndr), del Nobel per la Pace. Proprio in quel lontano 1992 io avevo seguito Rigoberta Menchú in uno dei suoi tanti viaggi di speranza in aiuto al suo popolo. Con la generosità che la contraddistingue, Rigoberta aveva deciso di accompagnare il viaggio di ritorno di alcune migliaia di esuli della sua bellissima e martoriata terra, rifugiati in Messico o in altre terre del Centro America, nuovamente fiduciosi nella pace. Purtroppo quello non sarebbe stato il viaggio definitivo di ritorno a casa, né la fine di violenze, torture e desaparecidos (oltre 55mila vittime, secondo il rapporto Remhi, ndr) ma avrebbe rappresentato comunque l’inizio di una stagione di accordi di pace (firmata nel dicembre 1996, ndr) tra popolazioni autoctone e militari, pur se spesso violati o non rispettati.  Era una sera di fine anno. Al confine con lo stato di Campeche, uno dei tre dello Yucatan messicano, erano venuti a riceverla i ragazzi degli accampamenti limitrofi cavalcando rudimentali tricicli o risciò a pedali insieme a Blanche Petrich, una giornalista messicana che da tempo aveva sposato la causa degli indios guatemaltechi. L’unica luce per inquadrare questo tenerissimo benvenuto era stata il flash della cinepresa della mia troupe. Rigoberta Menchú, all’epoca 33enne, aveva scelto di trascorrere gli ultimi giorni di quel 1992 nei campi dei rifugiati del suo paese in Messico quasi come un esorcismo, sicura che le sofferenze del suo popolo stessero per finire.

Quella sera c’erano fratelli indigeni di tutte le etnie – Quiche, Kekchi, Kaqchikel, Mam, Tzutuhiles, Ixil, Kanjobal -, ai quali lei non si era stancata di predicare l’unità nella diversità e una vita che non rinnegasse i miti maya, ma fosse capace di conciliarli con una società solidale, laica, multietnica e pluralista. La figlia di Vicente, il catechista bruciato vivo nel 1980 nell’ambasciata di Spagna della capitale guatemalteca dalla repressione di un potere militare feroce, ci aveva insegnato, inoltre, a non disperare mai, come le aveva insegnato a sua volta sua madre Juana, comadrona (levatrice) nella sua terra millenaria, dove era stata torturata e uccisa.

Quella sera aveva aspettato il nuovo anno ballando il son al suono delle marimbe, mentre, attorno all’accampamento di Quetzal, facevano festa, con divertita compostezza, giovani donne che portavano come lei il delantal, un grembiule colorato segno della loro dignità e legame con la loro educazione e poi molte adolescenti, a piedi nudi, con un bambino al seno, e altre, giovanissime, con un fratellino sulla spalla o sul fianco legato con fasce coloratissime. I ragazzi vestivano con meno timidezza e avevano jeans, scarpe da ginnastica e atteggiamenti più vicini ai coetanei messicani. I vecchi, invece, erano meno numerosi, con i loro scavati profili maya e l’abitudine a osservare senza dire una parola. «Non si diventa vecchi in America Latina» ha scritto, non a caso, un poeta di quelle parti.

Per gli spietati militari del Guatemala, il premio Nobel a una indigena era stato un colpo durissimo, una notizia accolta con malcelato disagio. Il presidente dell’epoca, Jorge Serrano, l’aveva ricevuta al suo ritorno, dopo l’esilio messicano, con cortese freddezza, quasi redarguendola perché non creasse polemiche. «Una volta io, cristiana e credente – mi aveva confessato Rigoberta – venivo accusata di essere simpatizzante del comunismo, poi quando il comunismo si è dissolto, l’accusa è diventata quella di essere vicina alla guerriglia. La tecnica dei militari di casa mia, aiutata dagli istruttori israeliani, argentini e nordamericani, ricorda quella della mafia: quando non è possibile eliminare gli ostacoli rispettando le leggi, bisogna tentare di criminalizzare l’avversario. Adesso, per esempio, affermano che io voglio mettermi in politica e diventare presidente della Repubblica». Aveva concluso sorridendo.

Di tutte le battaglie che ha sostenuto negli anni, quella politica è stata la più azzardata. In due occasioni (nel 2007 e nel 2011, sempre ottenendo poco più del 3% dei voti, ndr) la sua candidatura alla Presidenza guatemalteca non ha avuto esito. È sorprendente e un po’ amaro per il prezzo che ha dovuto pagare la sua famiglia sterminata dai militari e per le lotte da lei combattute per i diritti dei fratelli maya e di tanti latinoamericani intrepidi e sognatori. Ma so che un giorno o l’altro la troverò ancora una volta in prima linea per difendere le aspirazioni di tutti, come ha fatto a New York l’11 settembre del 2001 quando l’hanno vista arrivare per prima all’Onu per offrire, se fosse stato necessario, il suo aiuto.

La ricordo in un pulmino zeppo di amici (Lula, Eduardo Galeano, Frei Betto, Dante Liano) che la accompagnavano in un giro culminato in una festa dell’Unità a Modena, dove gli organizzatori, scettici sul successo della presentazione del libro-denuncia Guatemala nunca mas, volevano cambiare il luogo della conferenza credendo che sarebbe andata deserta. Gli spettatori invece gremirono la sala. Tutti felici di premiare la caparbietà di Rigoberta e con lei tutti concordi nel non rinunciare ai propri ideali. Basta aspettare e non farsi ingannare dai bagliori della politica.

Gianni Minà




Mennea freccia bianca libera e testarda


Dopo le polemiche sulle mancate Olimpiadi a Roma, ricordiamo Pietro Mennea, un mito dell’atletica mondiale, ma anche un grande uomo, troppe volte incompreso.

«Non abbiamo nemmeno gli occhi per piangere e vogliamo concorrere per organizzare le prossime Olimpiadi del 2020», mi disse una volta Pietro Mennea (1952-2013) non tanto tempo prima di andarsene da questo mondo. Allora c’era il governo Monti (che, nel febbraio 2012, disse no ai giochi olimpici, ndr) e i businessmen dello sport non ebbero nemmeno il coraggio di «buttarla in politica» come oggi con la sindaca Virginia Raggi, anche se vecchi «attrezzi» del settore come l’ex presidente del Coni e presidente del comitato organizzatore di Roma 2020, Mario Pescante, non seppero trattenersi dal farlo, dimenticandosi che Mennea, dopo la miracolosa e commovente rimonta fatta a Mosca nell’80, le Olimpiadi le amava come nessun altro, perché erano diventate l’esempio della sua capacità di non darsi mai per vinto.

Il fatto è che i giochi, chi li ha disputati e li ha vinti, li rispetta, mentre chi dello sport si è occupato solo a parole li vede esclusivamente come una possibilità di speculazione, spesso spudorata (basti pensare al recente fallimento economico della Grecia di cui l’Olimpiade del 2004 è stata una delle cause scatenanti).

Pietro, quella volta, dopo aver espresso con coraggio la sua opinione, come sempre, lasciò cadere la polemica. Non ne valeva la pena. L’uomo era fatto così.

Era testardo, rigoroso e dalla memoria lunga. Per questo non era simpatico a molti critici e giornalisti, ma certamente è stato uno dei più grandi campioni sportivi di cui l’Italia abbia potuto vantarsi, per la coerenza e per l’esempio di sacrificio che ha scelto di perseguire in tutta la sua carriera.

Mennea era un figlio del Sud, un campione di corsa che spesso non aveva neanche una pista per allenarsi e che, però, ha saputo smentire, nella sua attività di velocista, tutti i luoghi comuni su di lui (antipatia, diffidenza, struttura fisica inadeguata) anche quelli espressi dai più esperti.

Gianni Brera, uno dei più competenti fra noi giornalisti, scrisse di lui: «Un fiore prodigioso sbocciato nella confusa giungla del nostro ethnos depauperato in troppi secoli di stenti e di umiliazioni».

Il tempo si è incaricato di spiegarci che il grande Giuan si sbagliava sui limiti fisici concessi dalla natura a noi italiani, specie quelli del Sud. Ma il primo a smentirlo fu quel ragazzo di Barletta un po’ «stortignaccolo» che puntava tutto sulla sua caparbietà e sulla predisposizione al sacrificio negli allenamenti imposti dal suo mentore, il professor Carlo Vittori. Mennea soffriva per quell’incomprensione dei giornalisti e anche, talvolta, per la sua timidezza dialettica che non gli permetteva, sempre, di rispondere per le rime a tanti presuntuosi. Rimediava comunque sempre con i risultati fin da quando, a vent’anni, nelle tragiche Olimpiadi del ’72 (segnate dal sangue del terrorismo) aveva vinto la medaglia di bronzo dietro il fuoriclasse russo Valery Borzov e al nordamericano Larry Black.

Il suo orgoglio gli avrebbe permesso di prendersi la rivincita sullo zar russo agli Europei di Roma ’74 e successivamente di trionfare a Praga ’78.

Eppure, solo due anni prima, alle Olimpiadi di Montreal, dove Mennea era arrivato «solo quarto», anche il grande Giovanni Arpino su La Stampa, non era riuscito a evitarsi questo commento: «Mennea passeggia scheletrico, le orbite troppo grandi nel verde rasato e fortificato del villaggio».

Per fortuna, si erano poi incaricati definitivamente di dare a Mennea quello che era di Mennea prima il suo record del mondo sui 200 metri (un fantastico 19’ 72”) alle Universiadi di Città del Messico (il 12 settembre del 1979) e poi la prodigiosa rimonta sull’inglese Allan Wells nell’Olimpiade di Mosca ’80 che gli valse la medaglia d’oro.

Basterebbero questi ricordi per rendere indiscutibile il fatto che Pietro Mennea è stato il più prestigioso atleta dello sport italiano. Ma la sua puntigliosa abitudine di non allinearsi con l’apparato, non gli permise mai di godere della gratitudine che aveva ampiamente meritato, né del riconoscimento della sua eccellenza intellettuale. Questo avvocato laureato anche in scienze politiche, lettere e scienze dell’educazione motoria, non fu mai preso in considerazione, per esempio, per un qualunque incarico nell’ambito dello sport italiano. Anzi, una volta fu pure squalificato per tre mesi (anche se in inverno, quando in Occidente non ci sono gare) dalla Fidal, la Federazione italiana di atletica leggera, perché, ormai stanco per un’annata lunga e snervante, si era negato, d’accordo con il professor Vittori, a una touée elettorale voluta a fine stagione dal presidente Primo Nebiolo, il creatore dell’atletica-spettacolo che reputava quel viaggio fondamentale per la sua rielezione a presidente della Federazione mondiale.

L’anno successivo, il prodigioso 1979, dovette intervenire Luca di Montezemolo, presidente della Sisport, società presso la quale Pietro era tesserato, per evitare a Mennea, che aveva già programmato il suo tentativo di record alle Universiadi, di doversi spremere anche per la solita touée. Un uomo cocciuto, conscio dei suoi diritti, dai quali non voleva derogare: «A distanza di tempo, con il senno di poi, posso serenamente dire – mi ha spiegato una volta Pietro – che quel contrasto nasceva da una questione antica: il confine nella vita di un atleta fra appartenenza a una nazionale e l’appartenenza a se stessi. Tema delicato, complesso». Così ora so che quel giorno allo stadio universitario di Città del Messico ho assistito a un evento storico per davvero. Non è un caso che io fossi al seguito di Mennea quel giorno memorabile, quel giorno in cui mia figlia Marianna, che ora è una manager affermata proprio in Messico, si fece scappare i lacrimoni (aveva cinque anni) e non volle salire sul podio con Pietro, come aveva fatto invece nei giorni precedenti alla premiazione delle staffette.

Dopo Muhammad Ali (il suo ritratto su MC di maggio 2016, ndr) seguivo sistematicamente Mennea perché, a suo modo anche lui era fuori dagli schemi, da come i giornalisti vorrebbero che i campioni del nostro tempo fossero, obbedienti, conformisti anche quando si tocca la loro libertà personale e al servizio, sempre, delle esigenze dei mezzi di comunicazione. Muhammad Ali e Mennea furono salvati dai risultati, altrimenti sarebbero stati masticati e sputati via come Maradona, quando non è stato più in grado di vincere e quindi di essere utile al mercato dell’informazione.

Per capire la sua caparbietà, ricorderò un’esperienza personale. Una volta, per un reportage commissionatomi dalla Rai, riunii su una spiaggia della Califoia, Mennea con il leggendario Tommie Smith (quello della protesta, con il pugno nero guantato, alle Olimpiadi di Messico ’68) e Steve Williams, sprinter dotatissimo, ma amante della bella vita. Ad un certo punto, Tommie e Steve, uno per parte, alzarono Pietro da terra per far vedere quanto era più piccolo di loro: la differenza era di una spanna, una spanna più che compensata dalla sua caparbietà. Eppure, molti tentarono più volte di sbiadire il suo valore: «Il record di 19’ e 72” – pontificavano costoro – lo ha stabilito correndo in altura». Non tenevano in conto che lo stesso Smith recordman prima di Pietro (19’ e 83”) aveva corso la distanza nello stesso stadio universitario di Città del Messico. Il record di Pietro fu poi battuto da Johnson ad Atlanta nel ’96. Aveva resistito per 17 anni.

Mennea era un uomo schivo e perbene che scriveva libri di giurisprudenza sportiva e, specie quando fu eletto al Parlamento europeo, lavorò molto per lo sport e il bene comune. Era un uomo curioso e, al contrario di quello che pensano molti, spiritoso e ironico. Una volta mi raggiunse a Las Vegas, dalla Califoia, insieme a Steve Williams, Ray Sugar Robinson e Nino Benvenuti per conoscere Cassius Clay-Muhammad Ali. Un mito vero che quella sera, sulla via del tramonto nel penultimo match della sua vita, aveva perso contro Larry Holmes, il suo ex sparring partner. «Questa è la vita» aveva commentato Pietro ad Ali che si era stupito vedendolo bianco e apparentemente fragile. «Sono bianco, ma nero dentro, nel cuore», aveva ribadito Mennea.

Gianni Minà

 




Macarena la nipote del poeta


I genitori scomparsi durante la dittatura argentina, l’«adozione» in Uruguay, la ricerca e il ritrovamento da parte del nonno, un famoso poeta. È la storia di Macarena Gelman.

Juan Gelman e sua nipote Macarena nel Palazzo Legislativo di Montevideo il 21/3/2012
Juan Gelman e sua nipote Macarena nel Palazzo Legislativo di Montevideo il 21/3/2012

Sul viso traspare lo sguardo un po’ smarrito tipico degli esseri umani che hanno subito mortificazioni crudeli, spesso dolorosissime, ma hanno saputo accettare con coraggio e con orgoglio il destino. Però se tocca loro parlarne, ti accorgi che non è stato facile rimanere dentro a una vita imposta da altri.

Parlo di Macarena Gelman, la nipote del grande poeta argentino Juan Gelman, morto nel gennaio del 2014 e protagonista con lei dell’instancabile tentativo di ritrovarsi, dopo che le feroci dittature dell’epoca in Argentina (dal 1976 al 1983, ndr) e Uruguay (dal 1973 al 1984, ndr) avevano reso, prima che fossero assassinati, i suoi giovani genitori, Marcelo e María Claudia, due «desaparecidos».

Juan Gelman, forse il più prestigioso poeta latinoamericano del Novecento, aveva saputo, per vie traverse, che la nipote, nata in cattività nel 1976, era stata data in «adozione» (il robo y tráfico de bebés era una pratica comune delle dittature latinoamericane, ndr) alla famiglia di un poliziotto di Montevideo e con la cocciutaggine che ha sempre distinto la sua sfida alla vita, aveva cominciato a cercarla, senza requie, avvalendosi anche dell’aiuto di tutto il pantheon della letteratura latinoamericana che si era messo a disposizione al completo, da García Márquez a Eduardo Galeano. Anche tutti noi, innamorati del continente sudamericano, pur senza avere le stigmate dei maestri, avevamo partecipato, malgrado i nostri limiti, all’operazione. Dittatori e politici presunti democratici del continente alla fine avevano aiutato la ricerca. Nel frattempo Macarena Gelman aveva ascoltato dalla madre adottiva la sua storia: la storia di una bambina lasciata, una notte di gennaio del 1977, in una cesta davanti alla porta della casa di un poliziotto, forse massone.

Ritrovata nel 2000, quella bambina è poi diventata deputata al parlamento uruguaiano in un raggruppamento progressista legato al Frente Amplio.

Io l’ho conosciuta in una limpida mattinata romana dell’aprile 2016. Era venuta in Italia per testimoniare al terzo processo su alcune vittime di passaporto italiano, massacrate negli anni ‘70 nel corso di quella tremenda carneficina che fu l’Operación Cóndor, una strategia del terrore voluta da politici nordamericani come Nixon e Kissinger che ha distrutto un’intera generazione argentina e uruguaiana di intellettuali (più di 30mila) dati, in certe occasioni, perfino in pasto ai tiburones (pescecani) della baia di Buenos Aires.

Passando alcune ore con Macarena, ho pensato al rifiuto di Juan Gelman di ritornare a vivere in Argentina dopo essersi rifugiato in Messico, paese discutibile per democrazia intea, ma storicamente generoso con chi cerca asilo per motivi di fede politica.

Macarena mi ha raccontato della testardaggine con cui il nonno l’aveva cercata, aiutato da mons. Pablo Galimberti (attuale vescovo della diocesi di Salto, in Uruguay, ndr) e dell’infinita dolcezza della sua mamma adottiva che l’aveva indirizzata fin dall’inizio a chiarire le proprie radici, suggerendole anche di muoversi con cautela, dato che il padre adottivo era un poliziotto dell’intelligence che, al contrario suo, non si era mai aperto completamente, neppure prima di morire, con Macarena. Durante il racconto, l’innocenza del suo sguardo mi ha autorizzato, a un certo momento, a fare una domanda: «Hai mai visto faccia a faccia gli aguzzini di tuo padre Marcelo? Sai chi sono?». Macarena non ha tergiversato: «So chi sono». E io ho insistito: «Li hai mai incontrati?». «A questo non posso rispondere – mi ha spiegato -. Ho pianto molte volte nella vita, cosa che ho condiviso anche con mio nonno quando ci incontravamo. Ridevamo anche molto. Dopo il 31 marzo del 2000 avevamo cominciato a vederci, quando si poteva, in Uruguay».

È stato inevitabile, a quel punto, per uno come me che il continente americano ha tentato di conoscerlo fino in fondo nelle sue grandezze e nelle sue miserie, ricordare che proprio Juan Gelman in uno dei memorabili saggi, che alternava ai suoi versi, aveva fatto una denuncia sui guasti fisici e morali procurati a molti soldati nordamericani dal propanololo, una sostanza chimica che avrebbe dovuto cancellare i loro rimorsi per guerre inutili e senza leggi, perché di esse non rimanessero tracce nelle pieghe della coscienza.

Non è un caso evidentemente che un poeta come lui, che non amava i mezzi termini, quando nel 2007 fu insignito del Cervantes, il premio letterario più prestigioso dopo il Nobel, avesse scelto di portare la sua famiglia allargata alla cerimonia di Madrid tenendo nella mano, che non sosteneva il trofeo, quella di sua nipote Macarena, la figlia di quella punizione che la presunta democrazia del mondo occidentale aveva riservato a suo figlio Marcelo e alla nuora María Claudia, colpevoli soltanto di non aver nascosto il loro desiderio di libertà.

Gianni Minà




Gabo: realismo magico, un premio nobel


Una delle volte che Gabriel García Márquez, detto Gabo, (1927-2014) stuzzicò la mia ambizione di giornalista fu al Festival di Cannes del 1982. Lui era già lo scrittore di Cent’anni di solitudine, L’autunno del patriarca e di Cronaca di una morte annunciata: il Nobel per la letteratura lo avrebbe vinto pochi mesi dopo.

Lavoravo per Blitz, la diretta Rai della domenica pomeriggio. Registrai l’intervista durante un intermezzo sportivo. García Márquez fu, come sempre, diretto e critico: «Il mondo latinoamericano – mi disse – è un mondo socialmente conflittuale e il cinema occidentale, che da tempo ha lasciato da parte l’impegno politico, vede l’America Latina in modo convenzionale, secondo schemi europei».

Fu disponibile, anche se confessò che non amava essere una figura pubblica mentre, come presidente della giuria del Festival, aveva già in agenda 35-40 interviste. Ma l’amore per il cinema, che aveva appreso in gioventù in Italia – al «Centro Sperimentale di cinematografia» -, come allievo di Cesare Zavattini, e la grande amicizia con l’allora ministro francese della cultura Jack Lang, glielo imponevano.

Anni dopo mi avrebbe rivelato che al cinema non sapeva proprio negarsi perché era stato il neorealismo di Miracolo a Milano (film di De Sica del 1951, ndr) a ispirare il suo modo di far letteratura, di dar vita al realismo magico o fantastico, che avrebbe reso mitico il suo mondo – da Macondo (il paese in cui è ambientato Cent’anni di solitudine, ndr) alla Incredibile e triste storia della candida Eréndira – e caratterizzato la sua scrittura e quella di un’intera generazione.

C’eravamo conosciuti in Messico, paese che, insieme a Cuba, è stato la sua seconda patria, tutte le volte che lui ha dovuto lasciare la nativa Colombia, martoriata dai narcotrafficanti.

La Rai – era il marzo del 1981 – mi aveva mandato a seguire un viaggio di stato in Messico del presidente Sandro Pertini che poi era previsto proseguisse proprio per la Colombia. García Márquez, nuovamente minacciato nel suo paese, si era rifugiato ancora una volta nella rivoluzionaria terra di Zapata.

In molti lo cercavamo. Il mio amico Pedro Armendariz, grande attore, aveva promesso di farmi chiamare e una notte il futuro premio Nobel lo fece: «Sono Gabo, mi ha detto Pedro che mi stai cercando, cosa vuoi?», mi disse con un tono che non prometteva condiscendenze.

Spiegai che, come tanti giornalisti, lo volevo intervistare. Invece di rifiutare subito, mi propose: «Facciamo un affare: io ti concedo l’intervista ma tu mi fai incontrare il tuo presidente, perché io gli possa spiegare tante cose e lui non vada nella mia patria senza conoscere a fondo la situazione».

Per una richiesta così esplicita chiesi aiuto a Enzo Biagi, decano del nostro giornalismo, anche lui, in quell’occasione, inviato al seguito di Pertini. Antonio Maccanico, segretario generale del Quirinale a cui Enzo scelse di sottoporre il problema, per evitare complicazioni diplomatiche, decise di incontrare insieme a noi García Márquez e poi di riferire a Pertini. Il racconto di Gabo fu chiaro e inquietante, tanto che Pertini decise di aggiustare il tono dei discorsi preparati per la visita in Colombia.

Biagi, che avrebbe avuto in esclusiva il reportage, decise di aspettare che il filmato da me montato arrivasse, due giorni dopo, in aereo in Italia e potesse essere mandato in onda in anteprima. Il suo articolo uscì l’indomani. Una correttezza che, nel mondo dell’informazione d’oggi, non usa più.

L’amicizia con Gabo è cresciuta nel tempo e in tanti incontri in Messico e a Cuba. L’autore de L’amore ai tempi del colera o Il generale nel suo labirinto ha nutrito, infatti, sempre una tenerezza verso l’isola della Rivoluzione. Gabo non ha mai fatto dichiarazioni ideologiche, ma non si è tirato indietro quando si è trattato, per esempio, di dar corpo, nel 1986, a San Antonio de Los Baños, alla Escuela Inteacional de Cine y Tv, la scuola di cinema più importante del continente latinoamericano. Il premio Nobel non ha avuto dubbi ad esporsi nemmeno quando, alla fine degli anni ’90, Fidel Castro, preoccupato per la proliferazione degli attentati terroristici organizzati in Florida e messi in atto a Cuba, gli chiese, conoscendo l’ammirazione che il presidente Clinton aveva per lui, di portare un messaggio privato alla Casa Bianca. Il leader cubano cercava di segnalare quanto fosse pericoloso la condiscendenza del governo Usa nei riguardi di molti organizzatori di attentati. Quella volta, però, lo scrittore non riuscì a vedere il presidente e dovette accontentarsi di consegnare il messaggio allo staff della Casa Bianca.

García Márquez amava l’asciuttezza e i toni bassi. Ricordo con vera nostalgia la sera in cui finii a cena a Trastevere con una formazione irripetibile: Gabo, Sergio Leone, Robert De Niro e Cassius Clay-Muhammad Alì (cfr. MC maggio). Pendevamo tutti dalle parole del campione, ma chi apprezzava di più il sussurro del suo racconto, roco e a mezza voce, era proprio Márquez. «Parece un cura» (sembra un prete) commentava ammirato.

Quando accettò di scrivere il prologo al libro tratto dalla mia intervista di sedici ore con Fidel Castro (era il 1987), ci mise qualche mese per farlo e alle mie telefonate una volta sbottò: «Ma ti rendi conto che tutti soppeseranno ogni parola, ogni lettera, che scrivo su Fidel? E tu mi metti fretta?». Dopo tre giorni Mercedes, sua moglie, mi annunciava l’invio del saggio che era caustico ed esplicito, secondo la sua abitudine.

Nel 1992 pubblicò I dodici racconti raminghi. E lui mi propose un altro baratto. In cambio della solita chiacchierata, dovevo realizzargli un’intervista filmata con Maradona per una Tv colombiana nella quale insegnava ad alcuni ragazzi a fare giornalismo d’inchiesta. Quel giorno, alle mie domande, però, rispondeva in modo quasi scocciato: «Ma l’hai letto il libro? Questo c’è nel libro, non c’è bisogno di ripeterlo nell’intervista. Ma l’hai letto?». Chiaramente, giocava. Si infervorò solamente ricordando che in un salotto buono del nuovo cinema romano, quando si era vantato: «Io sono stato allievo di Zavattini», aveva ricevuto per risposta un inquietante: «Zavattini chi?». Quell’intervista faticosa si trasformò in una affascinante pagina per il Corriere della Sera.

Gianni Minà

 




Muhammad Alì la vita su un ring


La prima volta che lo incontrai, dopo la sua trionfale Olimpiade del ’60 (medaglia d’oro nei mediomassimi a Roma), fu a Miami Beach (nel febbraio del ’64) alla vigilia del match con Sonny Liston che poi, nella prima sfida, fra il disappunto generale, si sarebbe ritirato alla settima ripresa per uno strappo muscolare a un braccio e si sarebbe accasciato a terra anche nella seconda (a Lewingston, Maryland) per un «diretto» che pochi avevano visto.

Così non è una cattiveria ricordare che il «brutto orso» Sonny era un pugile vincolato alla mafia, mentre Cassius Clay, classe 1942, era già un fenomeno sportivo per la velocità e la bellezza della sua boxe. Ma anche un fenomeno per il suo impegno civile e per la sua adesione alla fede islamica abbracciata dopo l’incontro con Malcolm X, l’ideologo di molti fratelli neri musulmani, protagonista delle lotte per i diritti delle minoranze che sarebbe poi morto tragicamente, assassinato – il 21 febbraio del 1965 – con sette colpi di arma da fuoco durante un comizio pubblico a Manhattan.

Con un inizio di gioventù così pieno di suggestioni, Cassius Clay che aveva cambiato il suo nome, «impostogli dal padrone bianco», in Muhammad Ali, era inevitabile diventasse… una mia «preda giornalistica» e che quindi io tentassi di intervistarlo, di capire chi fosse o sarebbe stato.

Mi aiutò nell’impresa l’avvocato Chauncey Eskridge, che amava l’Italia perché nella nostra terra aveva vissuto la parte finale della seconda guerra mondiale come aviatore a Tombolo, Pisa. Il mio primo incontro con Muhammad Ali risultò per me un’indimenticabile lezione di vita. Il giovane campione nero per quasi tutto il tempo delle domande, non mi dette granché retta. Detta più chiaramente: mi snobbò. Il nostro rapporto migliorò soltanto un poco nel finale, ma certo non avrei potuto presentarmi dal mio capo Maurizio Barendson, al Tg2, con quel modesto dialogo.

Lo scornop che avevo cercato era diventato, in poco più di mezz’ora, un autogol. Ma quando decisi di chiudere quella sconfitta giornalistica, fu proprio Muhammad Ali a cambiar tono: «Non sei contento vero? – mi disse mettendomi una mano sulla spalla -. Sai io credevo tu fossi uno di quei soliti giornalisti europei che attualmente non perdono mai l’occasione di tentare di insegnarmi a vivere. Shit people (gente di cacca, ndr) che non accetta il mio essere diverso. Ma con me dovrà farlo a forza. Non te la prendere, la prossima volta andrà meglio».

E fu così che imparai ad avere con lui un approccio rispettoso che, col tempo, divenne amicizia vera, anche per merito del suo allenatore, l’italoamericano Angelo Dundee.

Quando arrivavo dall’Italia, non perdevo tempo. Andavo subito al quartiere di allenamento del grande campione che, dopo la squalifica di 3 anni (dall’aprile del 1967 al 1971) per aver rifiutato, come fedele musulmano, di andare a combattere in Vietnam, era tornato sul ring e stava iniziando a percorrere un viaggio di dieci anni nel quale avrebbe scritto le pagine più entusiasmanti della boxe modea, specie nei match con Joe Frazier, Ken «Mandingo» Norton e George Foreman, una sfida leggendaria quest’ultima a Kinshasa, in Zaire (futuro Congo RD). Era il 30 ottobre 1974. Nella capitale congolese, «nel ventre di mamma Africa», Ali sostenne forse l’incontro più significativo della sua carriera, riconquistando un titolo che nessuno gli aveva mai tolto sul ring, se non il potere politico preoccupato dal fascino che un campione così grande poteva accendere nelle nuove generazioni contrarie alle guerre. Ali per 5 round, in quella notte indimenticabile, fu solo attento a come poteva sviare e mandare a vuoto i colpi di Foreman (campione olimpico a Città del Messico), e quando si accorse che i 40 gradi di calore e il quasi 90% di umidità avevano prosciugato l’avversario, gli inflisse, tre round dopo, un drammatico Ko che smentì tutti i pronostici degli esperti. Qualche minuto dopo, nello spogliatornio, dove lo avevamo raggiunto, volle sottolineare: «Questa notte sul ring c’era Allah. Non so se te ne sei accorto, ma c’era Allah». Per noi, più prosaicamente, era stato un capolavoro di tattica. Memorabile anche il terzo match con Joe Frazier, a Manila nelle Filippine, nel quale Smoking Joe, esausto, non trovò la forza di rialzarsi dallo sgabello per l’ultimo round. Se le gambe lo avessero retto, forse il verdetto sarebbe stato a suo favore, senza tirare più alcun pugno.

Anni dopo, per pagare le tasse dell’intransigente fisco nordamericano, toò sul ring e perse contro Larry Holmes, che era stato suo sparring partner. Alla conferenza stampa seguita al match fu capace di stregare ancora tutti. A Holmes, che lo elogiava come uomo, ancor prima che come pugile, con frasi come «Quest’uomo mi ha insegnato non solo la boxe, ma anche a vivere», regalò una battuta fulminante: «Allora perché mi hai menato?». E si aggiustò sul viso, per la prima volta tumefatto, gli occhiali da sole. Ali fu sommerso da una vera ovazione.

La parola per lui è stata una ricchezza quasi più dei pugni. Una metamorfosi che si può spiegare solo con le sue scelte religiose e il suo amore per la sincerità: «Nei primi quaranta anni della mia esistenza, il mio Dio mi ha dato così tanto che se adesso mi toglie qualcosa io sono sempre pari con la vita». Un’affermazione come questa si tenderebbe ad attribuirla a un intellettuale o a un politico e invece è di un uomo che, da 30 anni, resiste al morbo di Parkinson. Così penso non sia un caso che, già preso a pugni dalla malattia, nel novembre 1990, andò dal dittatore Saddam Hussein che teneva sotto sequestro alcuni cittadini degli Stati Uniti e, parlandogli da musulmano a musulmano, lo convinse a liberarli.

Non stupisce, dunque, quanto avvenne allo stadio di Atlanta per le Olimpiadi del ’96. Muhammad fu l’ultimo tedoforo che, con la sua mano tremante, accese il tripode. Tutto il pubblico aveva le lacrime agli occhi. Anche quello bianco.

Gianni Minà