Il gran signore

Cioè fratel Modesto Zeni,missionario della Consolata.
Nato a Cavedago (TN) nel 1921e morto a Torino
il 6 novembre 1999.Ha trascorso oltre 50 anni
in Tanzania.Lo chiamavano anche «il moro».

Un aggiustatutto

Che fratel Modesto Zeni sia stato un veterano d’Africa, con alle spalle oltre 50 anni di Tanzania, è noto probabilmente a tanti addetti ai lavori della missione.
Pochissimi, invece, sanno che tra le sue molteplici attività missionarie (muratore, meccanico, idraulico, elettricista, capomastro di conventi e cattedrali, distributore di viveri e materiale edilizio, benzinaio, fabbro, aggiustatutto…) fratel Modesto sia stato anche un esperto ed appassionato arbitro di calcio, anzi il maestro e capo degli arbitri nella città di Iringa.
Al termine di ogni santo giorno dell’anno, egli dedicava qualche ora di tempo al calcio e all’arbitraggio. Oltre a tenere d’occhio lo svolgimento delle partite e controllare dalla panchina il comportamento degli arbitri e dei giocatori, fratel Modesto doveva pure, come giudice supremo, dirimere tutte le beghe calcistiche, assolvendo o condannando con relative squalifiche, sospensioni e multe.
Ciononostante Modesto era l’uomo più amato nel mondo calcistico di Iringa.
E un suo rientro in l’Italia, per ragioni di salute, aveva lasciato il vuoto. Quasi uno smarrimento generale. Ma il fatto risale ad una decina di anni or sono.

Arrivederci presto

La sera prima che fratel Modesto se ne andasse, i suoi fans e, soprattutto, il collegio arbitrale gli si strinsero attorno per una festicciola di saluto, affettuosa e sincera.
Dopo poche portate, qualche birra e coca-cola… ma tanti e commossi «grazie!», «buon viaggio!» e «arrivederci presto!», la serata si concluse con la seguente e originale preghiera d’ispirazione biblica:
O Dio,
Padre onnipotente ed eterno,
tu che ti sei posto
come una colonna di fuoco
affinché la tua nazione eletta, Israele, non fosse attaccata
dagli egiziani;
tu che, con la mano santissima,
hai diviso il Mar Rosso
per far passare il tuo popolo
sull’asciutto;
tu che, con grande potenza
hai salvato la vita del tuo amato
figlio Gesù, facendolo sfuggire
dalle mani di Erode,
noi ti preghiamo, Padre buono:
assisti il nostro fratello
Modesto Zeni
nel suo lungo viaggio;
mandagli tanti angeli,
affinché gli stiano vicini in questo viaggio di andata e ritorno
senza lasciarlo mai.
E tu, Signore nostro Gesù Cristo, che dopo la risurrezione
ti sei accompagnato con i discepoli nel cammino verso Emmaus
e discutevi con loro
senza che ti conoscessero,
ti preghiamo:
sii accanto al nostro fratello Modesto Zeni lungo la strada
che porta in Italia,
parla con lui e proteggilo sempre,
finché ritoerà ancora fra noi.
Amen!
Così pregarono gli «arbitrini», i calciatori semiscalzi e tanti tifosi di Modesto, sinceramente preoccupati della sua eia ombelicale.

Il moro

Fratel Modesto superò bene l’intervento chirurgico e ritoò a «fischiare» sui campi da foot ball.
Non solo, ma riprese in mano anche la bolla, la saldatrice, la chiave inglese… per riparare Land Rover e Toyota, costruire asili, scuole, ospedali. Ma, nella festa solenne dell’inaugurazione di tutte le «sue» chiese, Modesto non appariva mai. Si eclissava. Il microfono, il palco e l’applauso lo infastidivano un po’. Non lo diceva a parole, bensì con un timido sorriso. Anche in chiesa si inginocchiava all’ultimo posto…
Il 5 novembre scorso lo incontrai a letto, a Torino, e gli mormorai: «Ciao, bwana mkubwa!» (gran signore). Dagli occhi semichiusi sgorgarono poche lacrime. Al che, commosso anch’io, mormorai: «Sei davvero un gran signore!»… Poco dopo moriva di tumore.
Anche senza la salma, in Tanzania iniziò subito il kilio (pianto pubblico). Un kilio con tanta gente, accorato, di affetto e riconoscenza per un missionario, detto anche «il moro». Al di là del colore marcatamente scuro della sua pelle, fratel Modesto Zeni è stato soprattutto uno di «loro».

a cura di un “tifoso”




Certosa missionaria

È un centro di spiritualità missionaria. Numerosi giovani (ma anche adulti) lo frequentano per un rapporto profondo con Dio: e riscoprono anche
la frateità con gli uomini. Da quest’anno ha «una marcia» in più, con l’apertura della prima chiesa abbaziale.

La certosa di Pesio
(Cuneo), oasi del sacro dal medioevo ai giorni nostri, ha scritto nel vespro dell’Assunta del 1999 un’altra pagina luminosa della sua plurisecolare storia…
Immersa nel silenzio e nella maestosa natura, la certosa di Pesio continua ad essere un centro di spiritualità: preghiera e meditazione per chi sente il bisogno di tuffarsi nell’infinito; svolge la funzione di guida illuminante nel disorientamento dell’uomo moderno.
La fecondità spirituale della certosa è oggi affidata ai missionari della Consolata: nel loro caratteristico dinamismo, sono gli artefici di tanta ripresa di spiritualità. Fedeli al motto «prima santi, poi missionari» del loro fondatore, beato Giuseppe Allamano, realizzano il connubio tra contemplazione e azione apostolica e continuano, seguiti da tanti giovani, l’entusiastica diffusione della parola del Signore.

In questo clima
è maturato il progetto di riportare alla luce la prima chiesa abbaziale del 1173, abbandonata dai certosini dagli inizi del 1500, sia per la edificazione della chiesa superiore, sia per le tristi vicende storiche di guerre, saccheggi e decadenza abbattutesi nella valle.
Il lungo lavoro di sgombro di materiali e detriti, accumulatisi nel tempo, è stato condotto con tenacia e ha consentito le opere di restauro essenziale, guidate con oculatezza dal superiore, padre Francesco Peyron, secondo le norme della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici del Piemonte. La certosa, infatti, è anche monumento nazionale.
La chiesa abbaziale è finalmente ritornata idonea alla funzionalità liturgica, nel rigore della sobrietà primitiva: offre il fascino della sua interiore bellezza nella scabra nudità delle mura martoriate, che raccontano, con eloquenza senza fine, la salmodia antica, l’esperienza dei certosini nella giorniosa e totale dedizione dell’uomo a Dio.
La solenne inaugurazione è avvenuta il 15 agosto scorso, con una solenne eucaristia presieduta da padre Gottardo Pasqualetti, superiore dei missionari della Consolata in Italia. Vi hanno partecipato anche i padri responsabili della certosa, i parroci della Valle Pesio, le autorità civili, un gruppo vibrante di giovani e tantissimi fedeli valligiani.
E tutti per esprimere «grazie» alla Vergine Assunta, a cui la certosa è dedicata.

Gli elementi
più significativi del restauro operato sono stati illustrati, con dovizia di particolari tecnici dall’architetto Carlo Faccio, che ha partecipato ai lavori.
Con passione professionale, l’architetto ha sottolineato la non facile ripulitura dei muri, delle finestre, dei portali laterali di accesso; la splendida pavimentazione realizzata con grandi lastre di pietra grigia; l’efficace sistema di illuminazione dal pavimento e per mezzo di lampade a stelo; la solennità dell’altare formato di antiche pietre scolpite, raffiguranti il battesimo del Battista; il geniale coro in pietra lungo tutta la base dell’abside; l’inserimento a parete di un rosone in pietra bianca nella parte centrale dell’abside.
Un tocco di raffinatezza emerge dalle due tavole verticali di materiale trasparente: vi sono incise notizie e date importanti della storia della certosa. Le tavole si collocano nel primo tratto della chiesa. A complemento del disegno iniziale del progetto è sorta una «mini galleria» di reperti archeologici dell’antico complesso abbaziale, allestita sotto il porticato del piccolo chiostro adiacente alla chiesa.
E, dulcis in fundo, dalla nicchia a destra dell’altare, veglia sulla certosa e su coloro che la frequentano la sfavillante icona della Madonna, simbolo e presenza d’infinita tenerezza.

La solennità dell’Assunta
del 1999, davvero memorabile, ha affiancato alla plurisecolare dedizione all’Assoluto dei monaci, la fede, il coraggio e lo zelo dei missionari della Consolata che operano nella certosa e nel composito mosaico del mondo. Lo fanno per il regno di Dio, secondo il mandato del beato Allamano: «et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (annunzieranno la mia gloria ai popoli).

Anna Bagliano




ECUMENISMO – Anche Dio scuote la testa?

L’unità tra cattolici, ortodossi e protestanti
(nonché «con» e «tra»
le altre religioni)
è un rompicapo, anche perché gli uomini
amano complicare
gli «affari di Dio».
Ma basta un ottavario
di preghiera
una volta all’anno?

L’ecumenismo o «movimento ecumenico» può rappresentare per le chiese e religioni ciò che, in un’automobile, è la quinta marcia.
«Ecumène» (in greco oikouméne, da oikéo = abitare e oìkos = casa) indicava la terra abitata, l’orbe terracqueo, l’impero romano: una casa sempre più grande, ma abitabile.
«Ecumène», in senso cristiano, venne ad indicare la «terra abitata dai cristiani»; ma divisioni, guerre di religione e intolleranze la resero e rendono in buona parte inabitabile. Le spaccature tra le chiese e religioni si possono paragonare a sacchetti di plastica non biodegradabili: infestano mari, laghi e fiumi. Le divisioni inquinano, come le pile al mercurio e l’ossido di carbonio.
Il movimento ecumenico è conscio di questi danni; però, oggigiorno, è molto più avanzato dei movimenti ecologici, che stentano a rendere abitabile il pianeta-terra.
È assodato che le chiese cristiane (compresa la cattolica) non possono ritenere le altre fedi una «moneta fuori corso», senza alcun valore salvifico.
D’altro canto, il cristianesimo ha il diritto di considerare le altre religioni una «moneta fuori corso» o (concedendo qualcosa) una «moneta più o meno inflazionata»?
BIDONI TOSSICI E ALTRO
Non è facile per l’ecumenismo reperire immagini eloquenti o simboli adeguati, per farsi capire. Tuttavia…
Esistono «centri di ricerca contro il cancro». Ebbene, anche le divisioni tra i cristiani sono un cancro. Sono bidoni tossici, sono discariche inquinanti. È indispensabile, per la salute dei popoli, trovare mezzi per eliminare tutti i prodotti velenosi. Tra l’aggressività ostile o lo scontro frontale e la fuga o la neutralità indifferente non esistono altre scelte o strategie? Questo è ciò che caratterizza l’ecumenismo moderno tra le chiese e religioni, così bello e promettente, anche se difficile.
La poetessa russa, Marina Cvetaeva, il 9 settembre 1923 scriveva da Praga ad un amico: «Ora vado alla messa russa (molto lunga). La prima mezz’ora sarò rapita in estasi; la seconda penserò alle mie cose e la terza semplicemente bramerò di tornare all’aria aperta… Ma sono convinta che Dio mi sente, e scuote la testa». Il Dio dell’ecumenismo è proprio questo: un Dio che scuote la testa. E dice ai cristiani: «Ma possibile?!».
Tutti gli esponenti delle chiese cristiane, come pure la maggioranza dei fedeli, hanno capito che era ed è assurdo trasportare i nostri «bidoni inquinanti» (ossia tante dispute) nelle missioni.
Gli studenti africani di teologia, di fronte alle nostre polemiche sui concili, su natura, sostanza… e poi su Lutero e Calvino, in genere rimangono seri. Ma, se si riuscisse a leggere nei loro cervelli, ci si accorgerebbe che esiste un turbinio di pensieri; forse concordano sul Dio della poetessa russa, per dirci: «Ma voi siete pazzi!».
La storia dell’ecumenismo cristiano, poiché le divisioni sono malattie gravi, è corredata di «bollettini medici» e anche di «libri neri», con un susseguirsi di avvenimenti, date e personaggi allucinanti.
Nel secolo XII san Beardo, riferendosi al mondo (e non solo alle divisioni tra i cristiani), scrisse: «Habet mundus iste suas noctes et non sunt paucas» (questo mondo – cristiano – ha le sue notti, e non sono poche).
Origene, nel III secolo, scrisse di un dotto ebreo (probabilmente dell’Accademia rabbinica di Cesarea), che aveva paragonato la sacra scrittura ad un palazzo con molte stanze; accanto alla porta di ogni stanza erano appese le singole chiavi, ma erano sbagliate… Compito di chi spiega la bibbia non è di sforzare le porte con chiavi false né, tanto meno, abbatterle con violenza, ma di trovare la chiave giusta per la porta giusta.
Però che pasticcio! Proprio come, secondo il Talmùd, le spiegazioni che il rabbi Aquibà offriva ai suoi discepoli sulla legge di Mosè, ma in modo così astruso che, un bel giorno, Mosè stesso ottenne da Dio il permesso di assistere alle lezioni del maestro. Il risultato fu che Mosè non riusciva più a capire la sua legge… e se ne andò scuotendo la testa.
ACQUA CALDA E FREDDA
Nell’ecumenismo è necessaria una bussola, per non smarrire l’orientamento. Forse occorrerebbe pure qualcosa di simile agli impianti idraulici delle nostre case, dove l’acqua fredda e calda escono dallo stesso rubinetto, ben dosate e temperate: perché l’acqua, se troppo fredda, causa brividi e, se troppo calda, ustioni.
L’ecumenismo possiede impianti del genere? Forse sì.
Prendendo la Sacra Scrittura (in particolare i vangeli) come bussola, è possibile leggere in modo nuovo la complicata storia del passato. E, valorizzando i documenti ecumenici sottoscritti dai rappresentanti ufficiali di varie chiese, frutto di dialoghi serrati, sarebbe possibile miscelare in modo giusto acqua fredda e calda.
Il 13 marzo 1984 apparve un testo («audace» secondo gli stessi firmatari), intitolato «L’unità davanti a noi». Qui sembra di sognare, investiti da un pathos straordinario, che è qualcosa di più della giusta miscela di acqua fredda e calda; rassomiglia all’acqua della piscina di Gerusalemme, dalla quale, dopo essersi immersi, «infermi, ciechi, storpi e paralitici» uscivano guariti (Gv 5, 1-4).
Bussola, pathos, saggia utopia per ridurre in sintesi armoniosa quanto l’ecumenismo sta facendo in tanti modi e in tutto il mondo. Infatti esiste l’ecumenismo del vangelo e quello del pane (giustizia, liberazione…), che non sono la stessa cosa, ma si integrano; l’ecumenismo ecclesiologico, centrato sulle chiese; l’ecumenismo teologico; l’ecumenismo di vertice e di base. Ancora: l’ecumenismo dei giovani, delle religioni, delle culture. L’ecumenismo missionario.
PIÙ GESTI CHE PAROLE
L’ecumenismo deve essere più «televisivo», cioè più visibile, concreto e meno arzigogolato.
Racconta Elio Toaff, rabbino di Roma: un sabato di primavera papa Giovanni XXIII, mentre passava per il Lungotevere con un seguito di macchine, vide alcuni ebrei mentre uscivano dalla sinagoga; fece fermare il corteo che lo accompagnava e benedì gli ebrei; costoro, dopo un istante di comprensibile smarrimento, lo circondarono applaudendo entusiasti. «Era la prima volta nella storia che un papa benediceva gli ebrei, ed era forse quello il primo vero gesto di riconciliazione» (1). Questo era lo stile di Giovanni XXIII.
Avvenne pure, il 26 marzo 1959, che il vescovo anglicano, Marwin Stockwood, fece visita a papa Giovanni. Si vide poi il vescovo uscire dall’udienza tutto raggiante, stringendo un grosso uovo di pasqua, che il papa gli aveva donato. Ai giornalisti il vescovo disse: «Con un papa così non sarà difficile riportare i cristiani all’unità».
Ritornando agli ebrei, il 13 aprile 1986 Giovanni Paolo II visitò la sinagoga di Roma. Rivolgendosi ai convenuti, disse tra l’altro: «Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori». A queste parole scoppiò un applauso (2).
Perché i gesti valgono di più delle parole.
VERITÀ PIÙ ALTE
Tra i vari ecumenismi (sopra ricordati) emerge quello «spirituale», fatto di interiorità, cuore nuovo, riconciliazione, che si concretizza soprattutto nell’«ottavario di preghiera per l’unità delle chiese». Si tratta dell’anima del movimento ecumenico.
Ma è sufficiente? Già da tempo sono state formulate riserve su questo modo di esprimersi e di ridurre l’ecumenismo: perché è tutto il movimento ecumenico, nei suoi vari momenti e forme, che dovrebbe essere «spirituale». Ridurre tutto quasi esclusivamente ad «una settimana di preghiere», una volta l’anno, è troppo poco.
In una parola: l’ecumenismo spirituale, per essere efficace, deve trasformarsi in «spiritualità ecumenica», nel senso che tutta la spiritualità cristiana dev’essere ecumenica. È la spiritualità liturgica, eucaristica, mariana e, soprattutto, quella missionaria che devono essere ecumeniche. Ciò avviene?
Occorre, certo, pregare, ma anche valorizzare i documenti ecumenici esistenti, molto numerosi, servirsene non solo come materiale di lettura e cultura, ma anche strumenti di meditazione negli esercizi spirituali e ritiri, come manuale di metodologia missionaria e pastorale, come momento di pathos.
Quasi tutti noi siamo stati formati nello spirito cartesiano, che ci impedisce di capire (come, invece, l’aveva capito Paolo VI) che ci sono verità più alte, nelle quali ci si può trovare d’accordo. Questo perché Dio non continui a scuotere la testa.

(1) Elio Toaff, Perfidi Giudei – Fratelli maggiori, Brescia 1987, pp. 219-220
(2) Cfr. Ivi, p. 240

BACIAMI I PIEDI

Il fiume dei litigi tra le due «chiese sorelle» (quali sono quella cattolica-latina e quella ortodossa-orientale) si è talmente ingrossato nel corso dei secoli da uscire dagli argini, seppellendo il bene più prezioso lasciato da Cristo alla chiesa: la carità. R. Kipling (1865-1936) diceva: «Tu non riuscirai mai a conciliare l’orgoglio dei latini con l’ostinazione degli orientali».
Questo stato di cordiale antipatia scoppiò definitivamente, come un bubbone, nel 1054. Poi nel 1453 Costantinopoli cadde sotto i turchi. Ma prima, per impedire il disastro dell’invasione islamica, gli orientali capirono che dovevano fare pace con i latini. Venne indetto nel 1438 un concilio, che si riunì prima a Ferrara e poi a Firenze. Gli orientali vi parteciparono numerosi (oltre 700 persone), con a capo l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli, Giuseppe II. Si giunse ad un accordo, che però minacciò di saltare subito, per una faccenda di prestigio, oggi a noi incomprensibile. All’atto del commiato a Venezia, il papa pretese che il patriarca lo salutasse baciandogli i piedi. Questa era la prassi. Cosa che il patriarca rifiutò. Un abbraccio tra fratelli e niente di più! Era l’anno 1439.
Passarono cinque secoli. Nel 1965 Paolo VI e il patriarca Athenagoras nei loro incontri si scambiarono l’abbraccio di pace, come vecchi fratelli che s’incontrano dopo tanti anni… Finché si giunse al 14 dicembre 1975. A Roma, nella cappella sistina, avvenne l’incontro tra il metropolita di Calcedonia, Melitone, delegato del patriarca di Costantinopoli, e Paolo VI. Al termine Paolo VI andò incontro al metropolita per l’ultimo saluto e, inaspettatamente, si inginocchiò e gli baciò i piedi. Il gesto fu accolto da un vibrante applauso. Il papa volle riparare l’incomprensione di Venezia.
Paolo VI aveva fatto suo il programma di Lacordaire: «Non si tratta di convincere l’altro di errore, ma di unirmi a lui in una verità più alta». E questi livelli «più alti» generalmente ci sono sempre, non solo sopra i «piedi», ma anche sopra le teste.

Igino Tublado




Visibile o invisibile?

«M ille volti!». Ma non sono un po’ troppi per «un solo» padre? Anche se noi italiani abbondiamo con il numero «mille» e, sovente, lo poniamo accanto a «grazie».
Ne nasce una delle più belle espressioni che si possa avere ed anche la più libera, perché nessun codice ci obbliga a pronunciarla. Noi la doniamo spontaneamente con… mille grazie.
È così (o quasi) anche in altre lingue. Many thanks dicono gli inglesi o anche thank you very much; i francesi: grand merci; i tedeschi pure, come noi, usano il «mille»: «tausend dank».
«Mille volti», dunque, anche perché ognuno e, soprattutto, le religioni si raffigurano Dio a modo loro.
Un filosofo ha impostato il suo sistema di pensiero sul volto, sul guardarsi in faccia. È uno dei gesti più personali ed espressivi che si possa compiere.
In quante maniere, poi, si può guardare la faccia della persona che ci sta di fronte, prima di accarezzarla, baciarla… o schiaffeggiarla! Gesù fa iniziare l’adulterio dallo «sguardo» (Mt 5, 27). Inoltre c’è un grande insulto in quelle poche parole di cronaca: «Allora sputarono in faccia a Gesù e lo schiaffeggiarono» (Mt 26, 66).
Il volto è la parte più personale di un essere umano e parlare del volto di un individuo è parlare proprio della persona in quanto tale.
«Quale diritto avete… di pestare la faccia ai poveri?» si domanda il profeta Isaia (Is 3, 15). San Paolo, quando scrive che «la gloria di Dio rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6), intende proprio dare una definizione completa, estea ed intea, della persona di Cristo e della sua opera.
Ma parlare del «volto» di Dio è un’altra faccenda.

R ainer M. Rilke (1875-1926), conosciuto anche per quel magnifico libretto «Storie del Buon Dio» (perché i grandi le raccontino ai bambini), narra che Dio volle mostrarsi separatamente a tre pittori per farsi ritrarre; ma nessuno lo dipinse in modo uguale e le tre immagini non si rassomigliavano.
A. Lunn racconta di una bambina che stava disegnando con dei pastelli. La mamma le chiese che cosa stesse facendo.
– Sto disegnando Dio.
– Ma Dio nessuno l’ha mai visto.
– Ebbene, ora lo vedranno.
Mosè sul Monte Sinai (Es 33, 18-23) chiese a Dio di poter vedere la sua faccia (più propriamente: «Mostrami la tua gloria»). Il Signore gli rispose: «Farò passare davanti a te il mio splendore… Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Dio gli ordinò di mettersi in una spelonca della roccia: «e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere». Pressappoco la medesima scena si ripeté con il profeta Elia sullo stesso luogo di Mosè (1 Re 19, 9-13).
L’affermazione fondamentale e radicale che «Dio è invisibile» passa nel Nuovo Testamento: «Dio nessuno l’ha mai visto» (Gv 1, 18; 1 Gv 4, 12). Tuttavia, come Paolo nella Lettera ai Romani abbonda con «però ora…», così, circa l’invisibilità di Dio, occorre aggiungere un «ma ora», che costituisce la grande novità del cristianesimo: Dio è invisibile, ma ora Gesù Cristo «lo ha rivelato», essendo lui «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1, 15). Fino a rispondere al discepolo Filippo che gli chiedeva «Signore, mostraci il Padre»: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14, 9).
A questo punto potremmo trovarci di fronte a varie vie, ma in salita.

N ove teologi si riunirono in congresso per tre giorni, nel giugno del 1990, per disquisire sull’ombra di Dio – L’ineffabile e i suoi nomi. Certamente, più che Dio ad essere nell’ombra, lo furono loro, con discorsi quasi del tutto incomprensibili.
Viene in mente l’oscurità proverbiale di Karl Rahner, grande teologo tedesco, che, conscio del suo parlare difficile, esclamava: «Dio mio, che cosa dovrei fare?». Al punto che il fratello Ugo (teologo pure lui), dopo la morte del parente, esclamò: «Vorrà dire che passerò il restante della mia vita a tradurre in tedesco gli scritti di Karl».
Per parlare di Dio, c’è la via dei mistici, ma anche questa è in salita, anzi qui i sentirneri neppure esistono.
C’è la via maestra della bibbia, una via alberata e splendida, che attraversa giardini in fiore, e fiori sono i «nomi» di Dio, i «luoghi» in cui trovare Dio e, soprattutto, l’esperienza unica che Cristo stesso fece di Dio.
C’è la via percorsa da Giovanni Paolo II, nella sua seconda enciclica Dives in misericordia (1980), a commento della parabola del «figlio prodigo» e delle parole rivolte da Gesù a Filippo: «Chi vede me vede il Padre».
Poiché – scrive Ireneo – «è invisibile il Padre del Figlio. Ma è visibile il Figlio del Padre», che è Gesù.

Igino Tubaldo




Missionario “da poco”

Arrivato, finalmente, ad essere prete,
padre Ugo,
giovane missionario della Consolata,
si confida e spiega
agli amici il perché della sua scelta.

Sono Ugo; ho 36 anni, torinese, missionario della Consolata e, da un paio di mesi, anche sacerdote: un prete «da poco» insomma, come sovente, in tono scherzoso, vengo classificato dagli amici.
Sono una vocazione «adulta», essendo entrato in seminario alla venerabile età di 29 anni. Prima di quel fatidico 28 settembre 1991, (giorno in cui varcai, insieme alla mia grossa valigia, la porta della nostra comunità di Rivoli per iniziare questa avventura) c’è stato un lungo cammino di ricerca, le cui origini si perdono chissà dove nel mio passato di adolescente.

Sono cresciuto,
spiritualmente, con i missionari della Consolata, che gestiscono la parrocchia «Regina delle missioni» di Torino, in cui ho compiuto i primi passi nel cammino di fede. È la parrocchia dove, tra il resto, si trova la Casa madre dei missionari della Consolata, nella cui chiesa riposano le spoglie del beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore.
Sebbene gli anni della giovinezza e adolescenza siano stati marcati in modo indelebile dall’esperienza di gruppo vissuta nella comunità parrocchiale, è stato soltanto in un secondo tempo che ho cominciato ad individuare i sintomi della vocazione religiosa.
Ho dovuto prima conseguire, senza infamia e senza lode particolare, il diploma tecnico che mi ero prefisso, adempiere gli obblighi di leva, frequentare per un po’ le liste di collocamento, lavorare per quasi nove anni come addetto alle vendite in libreria, prima di rendermi conto che quello che facevo, seppur mi desse soddisfazione, mancava di senso di direzione, di qualcosa che garantisse compiutezza e realizzazione al mio vivere.
Amici, affetti, passatempi e occupazioni varie entravano in questo «fritto misto alla piemontese», rappresentante la mia vita, un pot-pourri di facce, eventi e situazioni in cerca di un principio unificatore.
La vocazione religiosa e il sacerdozio sono un evento che si colloca talmente in profondità nell’esperienza umana, che è impossibile spiegarlo in poche battute; ma se dovessi individuae rapidamente l’origine in seno alla mia esperienza, direi che è stata la risposta a quel senso di incompiutezza che continuavo ad avvertire.

Non è stato subito
tutto facile. Genitori ed amici hanno stentato un po’ a capire. Io stesso ho avuto bisogno di tempo affinché potessi sentire che stavo inseguendo una realtà e non una chimera, che non stavo fuggendo da me stesso, ma stavo seguendo… Qualcuno.
È stato il tempo dei pallidi tentativi e delle ritirate a rompicollo, degli slanci coraggiosi e delle paure pazzesche, degli impegni generosi e delle nasate contro il muro. Forse chi mi ha conosciuto in quel periodo sarà rimasto deluso dalla mia incostanza e mancanza di chiarezza su come affrontare la vita, ma ci voleva… Voltandomi indietro, riconosco in quel tempo gli anni più veri della vita, in cui avvertivo che qualcosa o Qualcuno stava facendosi spazio, a scapito di altre realtà che non sempre riuscivo facilmente ad abbandonare.
Poi, la decisione di entrare in seminario: per i primi due anni a Rivoli, per il biennio di studi filosofici; il cammino di formazione mi ha successivamente condotto in Veneto, per l’anno di noviziato; e, poi, quattro anni a Londra, per ultimare i miei studi di teologia. Tanti esami universitari, lavoro ed esperienze pastorali in parrocchia, con i rifugiati, i senzatetto, i disabili, la vita comunitaria e la preghiera hanno scandito il tempo di questi mesi passati, sino alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale.
Oggi sono qui,
prete «da poco», a far «pratica sacerdotale», in attesa di una nuova destinazione e con l’ansia di fare bene. Questo per far sì che, con l’andar del tempo, possa diventare un prete «da molto»; e questa volta non soltanto in senso temporale….

Ugo Pozzoli