SPECIALE 100 ANNI – Città di lotta e di cuore

Dall’ingresso in seminario (nel 1866) alla sua morte (nel 1926), Giuseppe Allamano trascorse a Torino 60 anni.
Per il capoluogo sabaudo quello fu un periodo
ricchissimo di avvenimenti, dalla nascita della Fiat
alla crescita della classe operaia. Ma altrettanto
importanti furono le trasformazioni culturali con il diffondersi del positivismo (Cesare Lombroso e Arturo Graf insegnarono a Torino) e delle idee socialiste
(portate avanti da personaggi come
Antonio Gramsci e Piero Gobetti).
Poi arrivò il fascismo, che travolse tutto e tutti.

Le profonde trasformazioni culturali verificatesi a Torino ai tempi dell’Allamano interessarono soprattutto due periodi: l’ultimo trentennio dell’Ottocento, con l’imporsi della egemonia positivista, e l’immediato dopoguerra, con l’irruzione prepotente della cultura politica marxista-gramsciana e con il proporsi di quella gobettiana, caratterizzata da una forte tensione civile.
Sia quella positivista, sia quella marxista-gramsciana erano culture totalizzanti, in quanto assolutizzavano rispettivamente la scienza e la politica, proponendosi l’emarginazione e la eliminazione della religione.
La cultura gobettiana, nel suo giovane fondatore, il torinese Piero Gobetti, era una cultura attenta al fatto religioso e disposta al dialogo; ma nei suoi discepoli, neoilluministi, prevarrà la chiusura alla dimensione religiosa della vita, se non addirittura l’anticlericalismo e l’anticattolicesimo.
Se si considera che il positivismo conquistò il mondo universitario (ma ebbe pure una forte ricaduta sull’economia e sul ceto borghese), che il pensiero marxista-gramsciano ebbe una notevole presa sul mondo operaio e che la cultura gobettiana esercitò un grande fascino sugli intellettuali, non è difficile rendersi conto dei loro dirompenti effetti sulla mentalità e sulla prassi religiosa, nella breve e nella lunga durata.
POSITIVISMO E LIBERALISMO
Il positivismo fece la sua comparsa nella facoltà di medicina. Nel 1861 il ministro della pubblica istruzione Francesco De Santis chiamò sulla cattedra di fisiologia l’olandese Jacob Moleschott, fautore di una fisiologia materialistica, che poneva la materia alla base della vita e dell’agire umano, in contrapposizione a ogni visione teleologica e teologica.
Su questa linea si orientò non soltanto la scuola medica torinese, ma il mondo scientifico. Infatti l’atteggiamento fideistico verso la scienza caratterizzava fisiologi, anatomisti, patologi e zoologi. C’era però, anche all’università, chi era convinto della conciliabilità tra fede e scienza – evoluzionismo compreso – come il canavesano Pietro Giacosa, allievo e ammiratore del Moleschott, amico ed estimatore del Fogazzaro, nonché in rapporto con esponenti del modeismo italiano e straniero. Tenne la cattedra di farmacologia per circa mezzo secolo. Però visse ai margini della vita ecclesiale torinese.
Alla cultura positivista apparteneva Cesare Lombroso, fondatore dell’antropologia criminale e titolare della cattedra di medicina legale. Questi, a sua volta, fece chiamare alla direzione del manicomio e sulla cattedra di psichiatria l’emiliano Enrico Morselli, instancabile propugnatore e divulgatore delle teorie evoluzionistiche di Haeckel, Spencer e Darwin. Infatti, con Firenze e Pavia, Torino era il centro di diffusione del pensiero di Darwin, le cui opere furono tradotte e divulgate da Michele Lessona, ordinario di zoologia e poi rettore dell’università torinese. Il positivismo si impose anche nella facoltà di lettere con la critica letteraria, grazie al trentennale magistero di Arturo Graf, le cui lezioni erano anche un evento mondano, tanto era l’interesse che suscitavano al di fuori del mondo accademico.
Presso il grande pubblico mietevano successo Emilio Salgari, con le avventure di Sandokan (l’autore porrà fine alla sua vita con il suicidio sulla collina torinese nel 1911), e Edmondo De Amicis che, avvicinatosi al movimento socialista, con il suo libro Cuore proponeva un codice di morale laica.
Santuario del liberalismo era la facoltà di giurisprudenza, il cui insegnamento fondamentale era l’economia politica. Il titolare di questa cattedra, Cognetti, fondò nel 1893 l’importante laboratorio di economia politica, che allevò un gruppo di ricercatori di prim’ordine, tra cui Luigi Einaudi. La cultura che vi era elaborata era essenzialmente una cultura per lo sviluppo industriale, che non a caso fu straordinario nella Torino del periodo giolittiano. La nascita del Politecnico nel 1906 era la prova tangibile del successo del binomio cultura scientifica ed industria.
Ma tra fine Ottocento ed inizio Novecento si verificarono tre novità destinate a incidere profondamente nel costume non solo torinese: il calcio, l’automobile e il cinema. Nel 1898 nacque a Torino la «Federazione italiana del football» e si disputò in una sola giornata il primo campionato di calcio. Il 1899 vide la nascita della FIAT, evento gravido di conseguenze per la città. Nel 1901 partiva il primo giro automobilistico d’Italia e si teneva anche il primo salone dell’automobile. Per quanto concee il cinema, Torino costituiva uno dei principali centri della cinematografia italiana.
Non meno importante, anche se di minore durata, fu l’altra svolta culturale, quella gramsciana-gobettiana, nel primo dopoguerra, con Antonio Gramsci dell’«Ordine Nuovo» e con Pietro Gobetti della «Rivoluzione Liberale»: convinto il primo della funzione messianica della classe operaia, il secondo del ruolo guida degli intellettuali nella trasformazione politica, sociale e civile della società. Entrambi, sia pure con accento e taglio diverso, contribuirono a imprimere a Torino rispettivamente l’immagine di città operaia e laica, ponendo l’ipoteca dell’egemonia di due culture: quella marxista e quella laica.
Le culture protagoniste (la positivista, la marxista e la laica), di ascendenza risorgimentale, erano non soltanto anticlericali, ma anche antireligiose e addirittura atee.
LA FIAT E LA DIFFUSIONE
DELLE FABBRICHE
Non meno profonde furono le trasformazioni politico-economico-sociali dal 1860 al 1920, trasformazioni che interessarono l’Italia e Torino in particolare. La classe dirigente liberale, protagonista del risorgimento e dell’unità italiana, proprio nella capitale subalpina dovette, prima, fare spazio ai movimenti popolari emergenti (quello socialista e quello cattolico), poi fu costretta a cedere il potere al fascismo. Torino, capitale del liberalismo, divenne, più o meno suo malgrado, fascista; sul piano economico la città della Mole divenne capitale dell’industria.
Sul piano sociale, prima di precipitare nel calderone del corporativismo fascista, vide successivamente emergere, dopo i tempi dell’egemonia piccolo borghese e artigiana, la media e alta borghesia industriale e poi la classe operaia.
Negli anni ’70, Torino non era ancora città industriale, ma si avviava a esserlo, soprattutto grazie alla crescita dell’industria meccanica con le officine ferroviarie di Porta Susa e Porta Nuova e dell’industria delle armi con le fabbriche del Regio Arsenale, di Valdocco e di Borgo Dora. Sui mercati finanziari, ancora nelle mani dei Rothscild e dei Pereire, cominciarono a fare la comparsa i finanzieri svizzeri (come Geisser).
Il tenore di vita era generalmente basso e molto basso tra gli operai. Le condizioni di lavoro nelle fabbriche erano assai scadenti e gli orari lunghi e massacranti, anche per donne e bambini. Soltanto una legge del 1898 stabilì (ma venne sovente elusa) che le donne non lavorassero oltre le 12 ore giornaliere e proibì il lavoro in fabbrica ai bambini inferiori a 13 anni. A rendere drammatica la condizione operaia contribuivano l’insicurezza del lavoro e la disoccupazione, in un tempo in cui mancavano garanzie assistenziali e previdenziali.
A causa della costante immigrazione dalle campagne, Torino cresceva demograficamente: i 191.500 abitanti del 1868 diventarono 250.000 nel 1881.
Sotto il profilo economico-sociale, gli anni ’80 e ’90 furono molto difficili, sia per i riflessi della gravissima crisi agraria, sia per il crollo dei principali istituti di credito (coinvolti nella speculazione edilizia di Roma), sia per il peggioramento dei sistemi di scambio provocati dalla crisi serica e dalla guerra doganale con la Francia.
Tali fenomeni provocarono forti tensioni sociali, cui cercarono di dare una risposta soprattutto il movimento cattolico, molto vivace a Torino, e il movimento socialista, che, ormai organizzato in partito (fondato a Genova nel 1892), riuscì a portare a Palazzo Civico 17 consiglieri nel 1897. Il loro organo di stampa era, dal 1893, il Grido del Popolo.
Al socialismo aderirono, più idealmente che politicamente, numerosi intellettuali di cultura positivista, come Cesare Lombroso, Arturo Graf e Giuseppe Giacosa, nonché Edmondo De Amicis, ai quali peraltro era estraneo il marxismo.
L’ESPANSIONE SOCIALISTA
E I CATTOLICI
La crescente forza socialista cominciò a preoccupare sia i liberali, che erano al potere, sia i cattolici, che pure continuavano ad astenersi dalla vita politica.
Per questo anche a Torino cominciò a farsi strada un tendenziale clerico-moderatismo (così fu chiamato) che prevedeva un accordo più o meno tacito tra liberali e cattolici (almeno una parte) in funzione antisocialista. La cosa non spiaceva né a Pio X né all’arcivescovo di Torino, Agostino Richelmy, che anche con tale scopo volle nel 1903 il nuovo quotidiano cattolico Il Momento. La disponibilità in quella direzione fu abilmente sfruttata da Giolitti, per dividere sia il movimento socialista sia quello cattolico, mantenendo l’egemonia liberale.
Convinto e fedele sostegno alla politica giolittiana in generale venne offerto da Alfredo Frassati, dal 1900 direttore del quotidiano La Stampa, che a partire da questa data comincerà a condizionare e a orientare le vicende della città di Torino. La vita politica e amministrativa della città fu dominata dai giolittiani (anche grazie all’appoggio deciso, e a volte critico, del Frassati) fino alla grande guerra. La notevole ripresa economica della congiuntura era dovuta soprattutto ai progressi dell’industria elettrica e allo sviluppo dei trasporti.
Nel 1908 fu approvato un nuovo piano regolatore e nel 1912 fu estesa la cinta daziaria da 16 a 34 chilometri, inglobando nella città una buona parte di popolazione agricola. Nel frattempo la periferia si andava infoltendo di fabbriche e di case operaie.
Per facilitare le comunicazioni con le «barriere» e fra il centro e l’antica periferia, si operò la municipalizzazione dei trasporti tranviari. Contemporaneamente la città registrava un marcato incremento demografico, soprattutto in Borgo San Paolo, alla Crocetta ed alle Molinette, ma anche nei vecchi quartieri operai della Barriera di Milano, del Regio Parco e della Barriera di Lanzo.
Alla vigilia della grande guerra la città aveva raggiunto i 450.000 abitanti, di cui un quarto era costituito da operai. Questi erano in gran parte legati alle organizzazioni socialiste, anche ideologicamente, come dimostra tra l’altro la scelta di alcuni nomi di battesimo per i figli: Marxina, Libera, Libera Idea, Ribello, ecc.
GRAMSCI, STURZO
E I FASCISTI
Da parte sua la borghesia registrava un costante incremento di benessere. «L’esposizione internazionale che si tenne a Torino nel 1911, in occasione del cinquantenario dell’unità italiana, fu la consacrazione tangibile dell’ottimismo positivista e degli ideali evoluzionistici che informavano larga parte della borghesia torinese» (V. Castronovo).
Insomma, mentre alcuni intellettuali (come il poeta Guido Gozzano) già avvertivano e denunciavano la crisi del positivismo, la borghesia, meno attenta alle grandi idealità e guidata dall’interesse concreto, continuava a nutrire una grande fiducia nella scienza, nella tecnica e nell’avvenire.
Nonostante la presenza del partito nazionalista, a Torino di fronte alla prima guerra mondiale prevalsero le forze anti-interventiste, che si riconoscevano nella politica di Giolitti, sia che fossero cattoliche o socialiste.
In piena guerra mondiale, nell’agosto del 1917 la città fu sconvolta da una rivolta popolare, occasionata dalla penuria di generi alimentari e dalla mancanza di pane.
Le commesse pubbliche belliche avevano incrementato il settore meccanico, in particolare la FIAT, che dal 1914 al 1918 passò da 4.000 a 40.000, dipendenti (piazzandosi al terzo posto delle industrie nazionali).
Ma, se l’impetuoso sviluppo industriale bellico aveva creato delle fortune, aveva pure inasprito i conflitti sociali. Una delle cause era il carovita: dal 1913 i prezzi erano cresciuti più di 6 volte.
A Torino, più che altrove, lo scontro fu particolarmente duro, soprattutto nelle fabbriche, che furono occupate durante il cosiddetto biennio rosso, 1919-1920, sotto la regia degli uomini di «Ordine Nuovo», con Gramsci in testa, che guardavano ormai ai modelli dei soviet russi. Così, in una atmosfera molto tesa, si svolsero le elezioni politiche del novembre 1919, che a Torino videro la sconfitta dei liberali, la vittoria dei socialisti ed una buona affermazione del partito popolare di Sturzo, che si presentava per la prima volta. A questo punto passarono all’offensiva i fascisti, che nella notte del 25 aprile 1921 assalirono ed incendiarono la Camera del Lavoro.
Nel capoluogo subalpino gli uomini di Mussolini non trovarono terreno facile neppure dopo la marcia su Roma: c’era una robusta opposizione guidata da Alfredo Frassati sulla Stampa. Il padre del beato Pier Giorgio fu costretto a lasciare il giornale nel settembre 1925, che passò nelle mani di Giovanni Agnelli. La Gazzetta del Popolo fu fascistizzata, mentre da alcuni anni il già glorioso quotidiano cattolico Il Momento era su posizioni filofasciste.
IL REGIME
Nel 1926, quando la chiesa torinese era guidata dall’arcivescovo Giuseppe Gamba, si spegneva il canonico Giuseppe Allamano e tramontava ogni forma di democrazia in Italia con l’affermazione del fascismo come regime.
La Torino risorgimentale del 1866 era davvero, sotto tutti i punti di vista, molto lontana.

LA CHIESA TORINESE AI TEMPI DELL’ALLAMANO

Lorenzo Gastaldi (1871-’83)

Carattere forte ed austero, esigente con se stesso, e con gli altri (a cominciare dai sacerdoti), molto attivo, mons. Gastaldi si propose di scuotere la diocesi di Torino da un torpore ventennale, dovuto all’esilio di mons. Fransoni (dal 1850 al 1862) e alla prolungata vacanza della sede episcopale (dal 1862 al 1867).
La diocesi divenne un cantiere di iniziative. Convinto che alla base di una fiorente vita cristiana stesse lo zelo dei sacerdoti, si propose la riforma della vita sacerdotale e dell’attività pastorale a vari livelli.
Cominciò con i sinodi diocesani. Ne tenne ben cinque: i primi tre nel triennio, 1873-1874-1875, con scadenza annuale, gli altri con scadenza triennale, nel 1878 e nel 1881.
Le costituzioni sinodali severe suscitarono opposizione in una parte del clero, specialmente parroci, con relativi ricorsi a Roma, anche anonimi. Indubbiamente le costituzioni contenevano norme molto rigide sul clero: dall’obbligo della talare a quello della tonsura (6 cm. e mezzo!), all’assoluta proibizione ai parroci di assentarsi dalla parrocchia per più di 3 giorni senza l’autorizzazione del vicario foraneo, dall’obbligo degli esercizi spirituali, almeno ogni 3 anni, a quello della confessione almeno ogni 3 settimane, con l’imposizione di presentare nel mese di gennaio in curia l’attestato di frequenza alla confessione.
Va detto, però, che la severità delle norme era comune ad altri sinodi piemontesi contemporanei. Il sinodo Gastaldi tuttavia eccedeva in sanzioni disciplinari come la sospensione a divinis (dall’attività sacerdotale).
La riforma del clero non poteva non partire dai seminari, a cui l’arcivescovo attribuiva una estrema importanza. Riservò la massima cura al seminario teologico. Nel 1874 ne nominò rettore un suo uomo di fiducia, don Giuseppe Maria Soldati, già direttore spirituale (a ricoprire tale incarico sarà chiamato nel 1876 Giuseppe Allamano, sacerdote da 3 anni); compose un nuovo regolamento, nel quale il seminario era concepito ad instar domus religiosae, e con il quale tutta la vita seminaristica era regolamentata anche nei minimi particolari, animata però da grande serietà e da una forte tensione ascetica verso il sacerdozio.
All’arcivescovo Gastaldi spetta senza dubbio il merito del rilancio dei seminari e della ripresa delle ordinazioni sacerdotali. Infatti, dopo il 1848, c’era stato un vero e proprio crollo di vocazioni e ordinazioni sacerdotali, che aveva portato al ridimensionamento e alla riduzione dei seminari da parte dell’arcivescovo Riccardi di Netro nel 1869. Una inversione di tendenza si registrò, nel numero dei chierici teologi sotto l’episcopato Gastaldi, e nel numero delle ordinazioni sotto l’episcopato Alimonda. A partire dal 1893 il numero delle ordinazioni cominciò a superare quello dei decessi. La tendenza durò fino alla prima guerra mondiale.
Anche il giovane clero preoccupava l’arcivescovo, che non era soddisfatto dell’insegnamento morale e della formazione pastorale che venivano impartiti da Giovanni Battista Bertagna al convitto ecclesiastico, che nel 1871 era passato dalla chiesa di S. Francesco d’Assisi al santuario della Consolata. Le riserve dell’arcivescovo conceevano soprattutto la prassi della confessione, ritenuta troppo indulgente. Dopo richiami personali e un sondaggio presso il clero, risultato in gran parte contrario al Bertagna, il Gastaldi nel settembre 1876 dimissionò il Bertagna dall’insegnamento. Il provvedimento suscitò un putiferio tra il clero e precipitò nella crisi il convitto, dalla quale uscì soltanto con la nomina di Giuseppe Allamano, nel 1880, a rettore della Consolata e del convitto, e direttore della conferenza di morale nel 1882.
La nomina dell’Allamano, nipote del Cafasso, e formatosi alla scuola del Soldati e del Bertagna, rappresentò una soluzione di compromesso, ma saggia, in quanto era forse la migliore possibile, perché sembrava garantire le esigenze delle varie parti.
Maggiore sensibilità si ebbe da parte del mondo cattolico nei confronti della incipiente questione sociale-operaia, sorta dall’avvio della industrializzazione. In questa direzione andava una significativa iniziativa, per certi aspetti pionieristica, pur nei suoi limiti, sorta il 29 giugno 1871, anche per volontà di don Leonardo Murialdo: la «Unione di operai cattolici», che mise in atto tutta una serie di iniziative di carattere formativo, assistenziale e previdenziale per operai ed artigiani. Essa ebbe il pieno appoggio dell’arcivescovo Gastaldi.
Nonostante la diffusione dell’anticlericalismo, persisteva una massiccia pratica religiosa, c’era una grande diffusione delle nuove devozioni e una costante crescita dell’associazionismo cattolico. Segno di vitalità cristiana era la nascita in Torino e diocesi di non poche congregazioni religiose, nonché lo sviluppo di quelle recenti, come la congregazione salesiana, e la ripresa degli antichi ordini religiosi, come i gesuiti, che proprio a due passi dall’arcivescovado rilevavano l’Istituto sociale.
Tuttavia la situazione religiosa era ambigua, nel senso che in profondità le trasformazioni sociali, economiche e culturali, stavano producendo lentamente ma inesorabilmente cambiamenti di mentalità e di costume, con inevitabili cambiamenti anche sulla vita religiosa, a lunga scadenza, e i cui sintomi già venivano avvertiti, sia pure confusamente. Cosa che appare nella relazione sullo stato della diocesi del 1878, nella quale monsignor Gastaldi esprimeva preoccupazione sulla fede degli intellettuali, della borghesia e degli operai. Ottimismo manifestava solo sul conto dei contadini e degli aristocratici.

Gaetano Alimonda (1883-’91)

A succedere al Gastaldi, Leone XIII, d’accordo con re Umberto I, mandò un suo uomo di fiducia, ligure, già vescovo di Albenga, ma da alcuni anni attivo in diverse congregazioni romane: il card. Gaetano Alimonda.
Probabilmente il papa vide in lui, uomo di carattere dolce e remissivo, la persona più adatta per sopire le tensioni esistenti in Torino soprattutto tra il clero.
Nella diocesi torinese la nomina dell’Alimonda fu anche interpretata in funzione antigastaldiana. Così di fatto avvenne. I più vicini collaboratori del predecessore, soprattutto nella formazione del clero, furono rimossi o trascurati: il rettore del seminario di Torino, il canonico Soldati, uomo di fiducia del Gastaldi, fu immediatamente esautorato; il canonico Allamano restò rettore del convitto della Consolata, ma fu privato di fatto, anche se non con atto formale, della cattedra di teologia morale. Su suggerimento di don Bosco e anche di altri antigastaldiani, fu richiamato in diocesi da Asti don G. B. Bertagna.

Davide Riccardi (1892-’97)

Breve ma intenso fu l’episcopato di Davide Riccardi, biellese, vescovo di Ivrea e poi di Novara. La caratteristica di fondo del suo episcopato fu il sostegno incondizionato al movimento cattolico, che si esprimeva soprattutto nell’«Opera dei Congressi», sostenendo e promuovendo una grande quantità di iniziative di carattere sociale.
L’arcivescovo fu anche grande promotore e sostenitore della stampa cattolica. Nel 1892, in seguito al passaggio a Firenze del quotidiano intransigente L’Unità Cattolica, si adoperò per la fondazione di un nuovo quotidiano intransigente L’Italia Reale (anche l’Allamano diede il suo fattivo contributo), che veniva ad affiancarsi all’altro quotidiano cattolico Il Corriere Nazionale, di orientamento moderato. Intanto continuava la sua vita il settimanale La Voce dell’Operaio.
Nel 1896 nasceva il primo circolo «Democrazia cristiana» e don Piovano fondava il settimanale Democrazia Cristiana, per iniziativa di 12 parroci di Torino. Si rivolgeva soprattutto agli operai e polemizzava con liberali e borghesia, sostenendo il diritto di sciopero.
Non mancarono iniziative per il mondo agricolo: nel 1896 nacque la «Unione cattolica agricola torinese» e nell’anno seguente la «Federazione agricola torinese». Quindi tante iniziative, ma anche acque agitate negli ultimi anni dell’Ottocento a Torino.

Agostino Richelmy (1897-1923)

Anche il lungo episcopato di Agostino Richelmy, il vescovo amico del canonico Allamano e suo grande sostenitore nella fondazione dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, fu costretto a misurarsi con gravi problemi: la crisi del movimento cattolico (contrasti tra l’«Opera dei Congressi» e la nascente «Democrazia Cristiana»), intrecciata in parte con la crisi modeista, la tragedia della grande guerra e la crisi politico-sociale post-bellica che portò al fascismo.
In primo luogo la crisi del movimento cattolico. Il 1 gennaio 1898 il settimanale Democrazia Cristiana si trasformò in quotidiano, ma i fatti di Milano (con la repressione del generale Bava Beccaris e con l’arresto di don Davide Albertario e di Filippo Turati), pur non coinvolgendo direttamente i cattolici torinesi, ebbero un contraccolpo, provocando un atteggiamento negativo dell’arcivescovo nei confronti della Democrazia Cristiana, che a Torino era particolarmente viva. Infatti il suo quotidiano, il 15 maggio 1899 pubblicò il Programma di Torino, considerato il primo vero programma politico dei cattolici italiani, che don Sturzo terrà presente non solo nel discorso di Caltagirone nel 1905 ma anche nella stesura del programma del «Partito popolare italiano» del 1919. Tuttavia, anche a Torino divenne prevalente il cosiddetto clerico-moderatismo (accordo tra cattolici conservatori e liberali) caldeggiato su scala nazionale dal nuovo papa Pio X, per contrastare l’avanzata socialista, e fatta proprio a Torino dal card. Richelmy. Per sostenere questa linea l’arcivescovo volle nel 1903 il nuovo quotidiano cattolico Il Momento.
Le questioni politico-sociali nel mondo cattolico italiano si intrecciavano con la crisi modeista, che coinvolse, non il popolo, ma le élites intellettuali del clero e del laicato cattolico.
I cattolici intransigenti vegliavano e colpivano senza riguardo veri e presunti modeisti. L’avanguardia antimodeista a Torino era costituita da gesuiti, che facevano capo allo studentato teologico di Chieri, tra i quali emergeva padre Giuseppe Chiaudano. L’episcopato piemontese e l’arcivescovo di Torino avevano già preso posizione sul modeismo, rispettivamente in una lettera circolare nel 1905 ed in una lettera pastorale nel 1906. Dopo la enciclica Pascendi e la visita apostolica del 1907, furono presi provvedimenti disciplinari da parte del Richelmy, che tuttavia per gli integristi non era abbastanza antimodeista. Fece espellere dal seminario i chierici colpevoli di leggere le opere modeiste e, in quanto responsabile del servizio religioso dell’opera Bonomelli per l’emigrazione, favorì la partenza per l’estero dei sacerdoti ritenuti modeisti o sospettati di modeismo.
Il provvedimento più spettacolare fu imposto da Roma, dopo la visita apostolica ai seminari nel 1911: il dimissionamento del professore di storia ecclesiastica alla facoltà, il canonico Giuseppe Piovano, perché ritenuto non affidabile e irrecuperabile. La crisi modeista resta una pagina drammatica nella storia della chiesa; troppo sovente mancarono discernimento, giustizia e carità.
Non era ancora rientrata la bufera modeistica che ci si trovò inguaiati nella tragedia della prima guerra mondiale.
La crisi post-bellica coinvolse particolarmente Torino, dove la componente operaia era numerosa ed agguerrita, sotto la guida accorta del gruppo dell’«Ordine Nuovo», di Gramsci e Togliatti. Il socialismo faceva paura e si faceva minaccioso anche per il suo aperto ed ostentato anticlericalismo.
I cattolici si organizzarono in campo politico e sociale: la sinistra del partito popolare era particolarmente attiva ed operava attraverso il periodico Il pensiero popolare (diretto da Attilio Piccioni) verso il quale andavano le simpatie di Pier Giorgio Frassati e la disapprovazione dell’arcivescovo che ne proibì la lettura ai chierici, perché propugnava la collaborazione tra cattolici e socialisti in funzione antifascista. Da anni era molto attivo il sindacato cristiano con la «Unione del Lavoro», che aderì alla «Confederazione Italiana del Lavoro», nata a Roma nel 1918, e di cui primo segretario fu G. B. Valente, già esponente della prima Democrazia cristiana torinese.
Negli ultimi mesi di libertà di stampa concessa dal fascismo, cioè nel 1926, Giuseppe Rapelli diresse il battagliero periodico della CIL, Il Lavoratore, apertamente antifascista. Ma ormai anche non pochi cattolici erano saliti sul carro del vincitore. Lo stesso quotidiano cattolico Il Momento era passato su posizioni filo-fasciste, come la destra del partito popolare.

Giuseppe Tuninetti




SPECIALE 100 ANNI – Un parto lungo dieci anni

Era il 29 gennaio 1901 quando Giuseppe Allamano fondò l’Istituto Missioni Consolata.
Vi lavorava da quasi un decennio, affrontando difficoltà di ogni genere. Figura importante e determinante nella chiesa torinese della metà Ottocento
e primo ventennio del Novecento, il fondatore è quasi sconosciuto fuori di Torino e del Piemonte.
In compenso, l’Istituto dei missionari della Consolata
ha messo solide radici in quattro continenti.
Questo è il racconto della sua travagliata nascita.

Mons. G. B. Ressia, compagno di corso ed amico dell’Allamano, afferma di lui: «Questo delle missioni fu il tormento santo della sua giovinezza».
Nominato rettore del santuario della Consolata di Torino, già tra il 1887-88, l’Allamano sembra avere in mente di fondare qualcosa in relazione alle missioni.
Forse la prima idea è semplicemente di dare inizio ad un’opera missionaria simile a quella esistente a Genova (Collegio Brignole-Sale), consistente nel raccogliere giovani sacerdoti, prepararli convenientemente e poi metterli a disposizione di Propaganda Fide per essere inviati nelle missioni.
Di certo l’Allamano, con la collaborazione determinante di don Giacomo Camisassa, dopo mesi di studio, ai primi di aprile del 1891, ha pronto lo statuto o regolamento di un nuovo istituto missionario.
I passi da compiere egli sa che sono in due direzioni: anzitutto a Roma presso Propaganda Fide e a Torino col suo vescovo, che in quegli anni era il card. Gaetano Alimonda. Per vari motivi pensa di dover trattare in modo informale prima con Roma e, in caso di parere positivo, con il proprio vescovo.
A Roma, il card. Simeoni, non soltanto si dichiara favorevole, ma fa sapere all’Allamano che converrebbe addirittura accelerare i tempi. Così stando le cose può presentarsi al suo vescovo. Il card. Alimonda a fine aprile si era recato a Genova per una cura alquanto impegnativa. L’Allamano gli scrive, esponendogli dettagliatamente il piano.
Da Genova non giunge alcuna risposta. Solo dopo due settimane un laconico biglietto del segretario gli comunica che il cardinale per ragioni di salute non è in condizioni di occuparsi del suo affare. Il cardinale è ammalato, ma il vero problema è che le persone che lo attorniano gli hanno presentato il progetto in cattiva luce. Facendo anche i mezz’offesi. Anzitutto perché l’Allamano ha interpellato prima Propaganda Fide e solo dopo il vescovo: vuole forse mettere quest’ultimo di fronte al fatto compiuto? E poi è proprio il caso di pensare ad un Istituto missionario a Torino data la scarsità di clero? Inoltre perché a pensarci deve essere l’Allamano che, come rettore del Convitto ecclesiastico, può sottrarre alla diocesi soggetti preziosi?
Nel frattempo, il 30 maggio 1891 il cardinale Alimonda muore.
POCHI O TANTI?
L’Allamano nel presentare a Roma il suo progetto scrive: «Preposto da molti anni all’educazione del giovane clero nella nostra archidiocesi, incontrai sovente dei seminaristi e dei giovani sacerdoti che mi manifestarono il desiderio di dedicarsi alle missioni…».
La scarsità di clero, continuamente addotta per bloccare l’iniziativa, è un semplice pretesto. Nel secolo 1800-1900 vengono ordinati a Torino 3.759 sacerdoti. Da aggiungere che dal 1880 al 1900 sono ordinati anche 362 religiosi. Nessun dubbio che la scarsità del clero, tanto temuta, è pretestuosa e nei riguardi dell’Allamano anche maligna.
Su questo tipo di difficoltà l’Allamano dirà: «Si fanno tanti lamenti sulla scarsità del clero: il che per altro non è così vero tra noi»; «Io dicevo sempre: “Se in Torino vi fosse un terzo o anche la metà di sacerdoti, si andrebbe avanti lo stesso’’». E il Camisassa: «Il tentativo della fondazione fu visto male e lo si volle bloccare col pretesto che il clero diocesano era già troppo scarso».
Di fronte ad una situazione del genere l’Allamano scrive a Roma: «Devo attendere un vescovo che sappia elevarsi sopra le idee che generalmente predominano». L’aspettativa fu di dieci anni!
IL DIBATTITO
SULLE NUOVE IDEE
Siamo all’epoca della Rerum novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII, con i tentativi dei cattolici di aprirsi ai problemi sociali, particolarmente gravi a Torino, città di lavoratori.
Ci si interroga quale dovesse essere la strategia dei cattolici: cattolicesimo sociale, corporativismo cattolico…, per sfociare nelle accese discussioni sul concetto stesso di democrazia, democrazia cristiana, socialismo cristiano. Problemi grossi che, mentre entusiasmano i giovani sacerdoti, mettono in ansia i più anziani e parecchi vescovi.
L’Allamano in quanto rettore del Convitto ecclesiastico, a contatto con giovani sensibili a questi problemi, non si pone dalla parte dei sacerdoti bloccati su posizioni superate, ma neppure dalla parte dei più agitati. Egli diffidò sempre delle polemiche, sterili e laceranti, di quel discutere confuso su questioni non sufficientemente mature. C’è qualcosa da fare? Bisogna farlo, ma non in un polverone che acceca, operando invece delle sintesi superiori.
È in questo contesto di accesi dibattiti e contrasti che l’Allamano pensa ad un istituto missionario, e lo pensa come qualcosa che sia di più di una semplice valvola di sicurezza per un clero giovane, esuberante e troppo numeroso, che rischia di pestarsi i piedi o di esaurirsi in discussioni inutili sui «massimi sistemi».
IL PIEMONTE TRASCURATO
Nel 1891 i tempi sono maturi anche per altri motivi. Il movimento missionario in Italia è fiorentissimo. È un periodo in cui si riorganizzano gli antichi Ordini e le antiche Congregazioni religiose, ma è soprattutto il periodo in cui sorgono nuove istituzioni con finalità esclusivamente missionarie.
In ordine cronologico il primo istituto missionario italiano è quello delle «Missioni estere» di Milano, sorto per iniziativa dei vescovi lombardi (1850). Seguono il Collegio Brignole Sale Negroni per le Missioni Estere di Genova (1852-1855), le Missioni Africane di Verona o Figli del Sacro Cuore di Gesù (1867), il Pontificio Seminario dei SS. Pietro e Paolo per le Missioni Estere di Roma (1867, 1871), la Pia Società di S. Francesco Saverio per le Missioni Estere di Parma (1895).
E l’Allamano si chiede: «Perché soltanto il Piemonte, dove lo spirito missionario è fiorentissimo, non doveva avere un suo centro, senza dover ricorrere ad istituzioni straniere o a congregazioni religiose con voti»?
Fiorenti erano in Piemonte e anche a Torino l’Opera della Propagazione della Fede (specie dopo il 1822), la Società dell’Apostolato Cattolico dal 1835, l’Opera del Riscatto dal 1838, la Società antischiavista d’Italia dal 1888, l’Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari cattolici italiani all’estero, fondata dal senatore e prof. Eesto Schiaparelli (1928).
Anche sfogliando i giornali e la stampa missionaria è possibile documentare la vivacità del risveglio missionario. Basti ricordare che il primo giornale a lanciare un appello in favore delle Missioni è l’Amico d’Italia, fondato a Torino nel 1822 dal marchese Cesare Taparelli d’Azeglio.
Il movimento missionario è, dunque, molto sviluppato anche in Piemonte e nella diocesi di Torino, ma manca di un’istituzione che convogliasse le vocazioni missionarie locali. Gli elementi positivi per una realizzazione del genere sono molti.
COLONIALISMO,
NAZIONALISMO, EGOISMI
Ci sono però anche delle contro- indicazioni di un episcopato non sufficientemente aperto e sempre timoroso per la mancanza di preti. C’è un alone di romanticismo missionario da epopea e leggenda che poteva entusiasmare per le missioni. Ma per contrapposto c’è un diffuso senso di pessimismo per il modo in cui gli europei consideravano il «mondo pagano», con «selvaggi» abbruttiti in crudeltà e superstizioni, con poco o nulla da valorizzare e conservare.
C’è soprattutto, come conseguenza di questa vantata superiorità europea e allargamento di orizzonti dovuto alle esplorazioni, una buona dose di colonialismo e di nazionalismo.
Inoltre nei territori missionari, soprattutto africani, pesa un’altra specie di gravissimo monopolio, attuato da alcuni ordini religiosi che nelle regioni loro affidate la fanno da «padroni», resistendo in tutti i modi alla sola eventualità che Propaganda Fide pensi di smembrarli affidandone una parte alle nuove forze missionarie che stanno sorgendo.
Le difficoltà maggiori che l’Allamano deve superare all’inizio sono, infatti, di natura politica (nazionalismo francese e anche italiano; meno quello inglese) e religiosa (resistenza di ordini francesi alla divisione dei loro immensi territori).
VIA DALLE BEATITUDINI
DI UNA VITA COMODA
A favorire l’Allamano nella fondazione c’è anzitutto il Camisassa, in perfetta complementarietà di funzioni, senza del quale nulla sarebbe stato possibile.
C’è anche il fatto di essere l’Allamano rettore del santuario della Consolata, luogo d’incontro delle forze più vive della diocesi. Egli era riuscito a intessere attorno a sé una rete fittissima di conoscenze, con persone appartenenti ai vari ceti sociali, e con quasi tutti i sacerdoti della diocesi, con uomini e donne del popolo, della borghesia e anche dell’aristocrazia. Di qui una concezione del tutto nuova di istituto missionario, non sempre evidenziata, costituita da questa ampia base di persone che, in vario modo, avrebbero accompagnato e sostenuto il corpo dei missionari.
Altro elemento positivo è il fatto che l’Allamano, come rettore del Convitto ecclesiastico, è a contatto con numerosi giovani sacerdoti, parecchi dei quali desiderano dedicarsi alle missioni. L’Allamano lo andava ripetendo: «Ho attorno a me gioalmente giovani sacerdoti che mi sollecitano».
Tra tutte le premesse di riuscita ce n’è una alla quale l’Allamano non pensa, ma che è la più importante: lui stesso, la sua personalità e quella del Camisassa. L’Allamano era un uomo dalla salute debole, ma dal carattere e dalla volontà forti; uomo ordinato, metodico, riflessivo, buon piemontese, che come diceva l’Antonelli, non si mettono due mattoni dove ne basta uno, amante delle montagne, che sa come superare le difficoltà, rispettando le stagioni e l’umore del cielo, con vedute larghe, almeno quanto basta per capire se nell’albero i frutti sono maturi e se in una diocesi i sacerdoti si potevano ritenere più che sufficienti o scarsi o male impegnati.
Soprattutto si è fatto sacerdote per lavorare, e non per adagiarsi nella beatitudine di una vita comoda. Egli stesso descrive come avrebbe potuto passarsela da «canonico signore»! In modo piacevole e tranquillo: «Dire il breviario, passeggiare, leggere il giornale, sedersi a tavola senza preoccupazioni, fare il pisolino dopo pranzo; starmene in pace come rettore della Consolata, protetto da un comodo orario, osservato scrupolosamente…». Convinto però che una vita del genere l’avrebbe portato diritto alla… «perdizione».
LIBERTÀ E STABILITÀ
Nel 1891 l’Allamano e il Camisassa scrivono il Regolamento del loro Istituto. Esso è corredato da una prefazione dal titolo Indole, natura e scopo dell’Istituto, che presenta allo stato puro l’idea originaria dell’Istituto in questi termini: «[…] si è venuti nel pensiero [si noti il plurale] di istituire una Società nella quale fossero conciliati per quanto possibile: la libertà di azione dei sacerdoti secolari [quindi non si tratta di una congregazione religiosa] e la stabilità che offrono ai loro individui le corporazioni religiose».
I due elementi fondamentali sono, dunque, la libertà e la stabilità. Quanto alla libertà, essendo l’azione missionaria un apostolato difficile, s’intende che chi, dopo una sufficiente prova non se la sente, può e deve lasciare senza remore di rottura di voti, promesse, giuramenti. I sacerdoti e laici che entrano in questa Società missionaria s’impegnano con una promessa a lavorare in missione per 5 anni, rinnovabili per altri 5 e solo dopo 10 anni possono legarsi definitivamente alla Società.
L’Allamano e il Camisassa non vogliono che ci siano persone legate alle sbarre di un carro per forza, ma solo persone libere, generose e decise: «Se durante il quinquennio – dice il testo del Regolamento – esse vedessero di non poter reggere al nuovo genere di vita, restavano in libertà al termine dei 5 anni di ritornare in Patria, ove la Società li aiuterà con ogni suo mezzo, per ottenere loro un conveniente ufficio nelle loro diocesi». In caso di adesione definitiva, la Società avrebbe assicurato ai suoi membri quella stabilità e sicurezza che le Congregazioni religiose garantivano ai propri membri anche in caso di malattia e vecchiaia.
Altra caratteristica fondamentale è la regionalità: vi possono far parte persone del Piemonte. Si tratta di cosa quasi scontata per gli istituti missionari in Italia, da pochi anni nazione unita, perché ogni regione ha un proprio istituto missionario (Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia, Lazio), ad eccezione, come si è detto, del Piemonte e dell’Italia meridionale. Quanto alla regionalità l’intenzione dell’Allamano è chiarissima: «Lo scopo di questa disposizione – diceva il Regolamento all’art. 13 – è di accrescere fra i missionari quello spirito d’unione e quel vicendevole incoraggiamento che in lontane regioni più si verifica tra coloro che hanno comune la terra».
Inoltre i missionari, membri di questa Società, per gli stessi motivi, non devono essere dispersi, ma operare nelle stesse località, stare insieme ed essere retti da superiori propri.
Tutti coloro che hanno occasione di prendere visione di questo Regolamento, compreso il Prefetto di Propaganda Fide, lo approvano pienamente.
Purtroppo, con la morte del card. Alimonda e le opposizioni esistenti in Curia, il progetto rimane ibeato per 10 anni. Quando nel 1897 ad arcivescovo di Torino viene nominato Agostino Richelmy (1850-1923), compagno di corso e amico dell’Allamano, devotissimo della Consolata e aperto al mondo missionario, il progetto viene ripreso, senza apportarvi nessuna modifica da come era stato concepito nel 1891.
BENEDETTE EREDITÀ!
Il progetto viene ripreso in mano nel 1899, subito con un serio «contrattempo».
Avviene che nel gennaio del 1900 l’Allamano cade gravemente ammalato, tanto da disperare della sua vita. Ne esce in modo inaspettato il 29 gennaio, festa di S. Francesco di Sales.
Dieci anni dopo, l’Allamano stesso, accennando alla sua guarigione, dirà: «Avevo già parlato in precedenza al card. Richelmy dell’Istituto da fondare, e sapevo di dover morire, gli dissi: “Sicché ormai all’Istituto penserà un altro”. E lo dicevo contento, forse per pigrizia di non sobbarcarmi ad un tale peso. Il cardinale però mi rispose: “No, guarirai, e lo fonderai tu” (24 aprile 1910). Aggiunse anche: “Feci, quando ero prossimo a morire, la promessa che, se fossi guarito, avrei fondato questo Istituto. Io intanto per allora non sono morto. Il Signore mi cacciò ancora in terra. Adunque avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale, la fondazione si doveva fare: che fossi guarito non si poteva negare» (24 aprile 1910).
A spingere in questa direzione intervengono altri fattori di una certa importanza. Il 24 ottobre 1898 muore a Torino mons. Angelo Demichelis e nomina l’Allamano erede universale di tutti i suoi beni, che non sono pochi, compresa la sede di un Istituto magistrale in Torino e una villa a Rivoli. Un anno dopo, il 20 novembre 1899, muore l’ing. Edoardo Felizzati, figlio spirituale ed amico dell’Allamano. Avendogli il rettore del santuario della Consolata confidato l’intenzione di dare inizio ad un’opera in favore delle missioni, il Felizzati si era dimostrato pronto a divenire uno dei primi membri. Morendo, non potendo fare altro, lascia l’Allamano erede dei suoi beni!
L’Allamano, oltre al suo patrimonio personale, costituito dall’eredità patea, da quella dello zio, parroco di Passerano, dallo stipendio di rettore e dal beneficio di canonico (nel 1904 verrà in possesso anche dell’eredità dell’abate Luigi di Robilant), con l’eredità di mons. Demichelis e dell’ing. Felizzati, è spinto, quasi per una sorta di legge di gravità che anche i denari possiedono, a fare qualcosa. In più c’era un dovere di riconoscenza per l’ottenuta guarigione e il sentirsi avvolto dalla benevolenza e dalla fiducia di tante persone, dilatato inoltre da quella specie di istinto interiore o di simpatia per le missioni che fin da giovane l’aveva accompagnato.
Convalescente a Rivoli, informa il 24 aprile 1900 il card. Richelmy che intende procedere alla fondazione, sempre che il cardinale sia d’accordo. Più che d’accordo, gli risponde Richelmy.
Sebbene l’Istituto dei missionari della Consolata si potesse ritenere fondato nel 1900, perché i vescovi del Piemonte, riuniti in conferenza presso il santuario della Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900, avevano dato il loro beneplacito e perché il card. Richelmy aveva approvato e benedetto il nuovo Istituto il 12 ottobre 1900, la data ufficiale di fondazione, per volontà espressa dell’arcivescovo di Torino, è il 29 gennaio 1901.
La prima sede dell’Istituto furono i fabbricati lasciati all’Allamano da mons. Demichelis, opportunamente adattati. L’inaugurazione della sede avviene il 18 giugno 1901.
SOGNI AFRICANI
E GELOSIE UMANE
Nel piano originario di fondazione del 1891, rimasto tale e quale nel 1900, c’era che all’atto della fondazione doveva essere definito il campo di apostolato in Africa.
Per prima cosa occorreva riprendere i fili con Roma. Ma dopo dieci anni molte cose erano cambiate. Ora Propaganda Fide, prima di affidare a nuovi istituti un territorio di missione, esigeva un periodo di prova passato alle dipendenze di qualche vicario apostolico.
Il provvedimento è saggio, perché salvaguardava Propaganda Fide da eventuali avventurieri. Di fatto le cose non sono così semplici. Si è detto che una delle «piaghe» dell’attività missionaria di allora (ai giorni nostri inconcepibile) consiste nella «gelosia missionaria» dei grandi Ordini e Istituti missionari, che la fanno da «padroni» nei vastissimi territori loro affidati (quasi con lo stesso stile delle potenze coloniali) e considerano «intrusi» i nuovi istituti, visti come una minaccia alla loro sovranità. Si tratta di un vero e proprio monopolio missionario, aggravato anche da nazionalismo politico.
Questa rappresenta una delle più gravi difficoltà che l’Allamano, il Camisassa e i primi missionari della Consolata devono superare. Una vera «piaga», che solo nel 1926 verrà denunciata da Pio XI nell’enciclica Rerum Ecclesiae. Con tutte le sue indiscusse benemerenze fu, soprattutto, la Francia a cadere in questo pessimo equivoco.
Il 9 settembre 1900 il Camisassa si reca a Roma e ha occasione d’incontrare il nuovo vicario apostolico dei galla (Etiopia), mons. André Jarosseau, anche perché proprio tra quella popolazione, già evangelizzata dal card. Massaia, l’Allamano intende impegnare i suoi primi missionari.
Gli accordi con mons. Jarosseau sono soddisfacenti solo apparentemente. Ben presto i due fondatori devono rendersi conto che nel territorio concesso da mons. Jarosseau la popolazione galla è quasi inesistente per l’aridità del suolo e quella poca dispersa dalle razzie dei somali. Da informazioni prese da varie parti, l’Allamano e il Camisassa devono constatare che mons. Jarosseau, forse condizionato dai superiori francesi del suo Ordine e per non avere intrusi tra i piedi, non è stato del tutto rettilineo, poiché era ben al corrente dell’incertezza dei confini e delle difficoltà per raggiungere e operare in quei luoghi. Ma aveva taciuto.
UNA SOLUZIONE
…DIPLOMATICA
È il console italiano a Zanzibar per il Kenya, Giulio Pestalozza (1850-1930), a dare un contributo essenziale per sbloccare la situazione. Il diplomatico suggerisce di chiedere ai padri dello Spirito Santo, responsabili dell’evangelizzazione del Kenya inglese, di permettere ai nuovi missionari di Torino di stabilirsi nell’alto Kikuyu, per compiervi il rodaggio richiesto da Propaganda Fide e, in seguito, raggiungere le popolazioni galla, procedendo via terra verso nord.
Questa è la strategia seguita, ma ancora una volta tra enormi difficoltà burocratiche: prima la necessità di farsi accettare dai Padri dello Spirito Santo, anch’essi gelosi del loro vastissimo e bellissimo territorio.
Le trattative sono difficilissime. Pur consci di non essere in numero sufficiente e con i protestanti che premono, i padri dello Spirito Santo non vogliono correre il rischio, accettando nel loro territorio un nuovo istituto missionario (per di più italiano) di vedersi sottrarre in seguito una parte di questa proprietà… Alla fine accettano di ricevere in prova i nuovi missionari e di affidare loro una regione ancora inesplorata, tra i kikuyu, ai piedi del monte Kenya. Una zona incantevole.
Però l’Allamano deve pagare un forte pedaggio, che sa di ricatto, impegnandosi per iscritto (e per ben due volte) a non chiedere in seguito alla S. Sede un qualsiasi stralcio di territorio senza un esplicito consenso dei padri dello Spirito Santo.
LA PARTENZA, FINALMENTE
Dopo molte trattative, finalmente l’8 maggio 1902 i primi quattro missionari della Consolata, due sacerdoti (Tommaso Gays e Filippo Perlo) e due fratelli laici (Celeste Lusso e Luigi Falda) partono per il Kenya.
Inizia l’avventura.

ISTRUZIONI PER L’USO

In Kenya la strategia missionaria (messa a punto a Torino dall’Allamano e dal Camisassa) contemplava anzitutto in missione una casa-procura nei pressi della ferrovia, da considerarsi come una specie di «campo base», centro di raccolta di quanto giungeva dall’Italia in personale e mezzi. Venne scelta la località di Limuru, poco oltre Nairobi. Sul luogo dove doveva avere inizio l’apostolato vero e proprio, cioè a Tuthu, un villaggio montano a 2 mila metri (ove dominava il capo Karoli) fu fondata la missione e più a monte, in piena foresta, a lato di uno scosceso torrente, venne impiantato un laboratorio. Più in basso, nella piana, a Nyeri, in un territorio ritenuto fertile, si avviò una fattoria con allevamento di bestiame, per provvedere un vitto adeguato ai missionari.
La strategia missionaria vera e propria venne attuata con una costanza eroica: quasi tutti i giorni i missionari partivano, ovviamente a piedi, in perlustrazione del paese per conoscere la gente, imparare la loro lingua, interessarsi degli ammalati, farsi conoscere e distinguersi dagli agenti del governo… Lo scopo finale di questa strategia era di giungere ad avere in mano il paese, elevarlo anche da un punto di vista materiale, per giungere, non tanto a delle conversioni individuali, ma alla conversione in massa, mirando ai capi e prima che vi giungessero i protestanti, che si sapeva essere alle porte.
Anche a Torino tutto procedeva a gonfie vele. Infatti il 15 dicembre 1902 era già pronta una seconda spedizione; poi nel 1903 altre due. Infine tra il 1904 e il 1911 altre nove. Il 24 aprile 1903 erano partite 8 suore della «Piccola Casa del Cottolengo» e altre 12 partirono il 24 dicembre dello stesso anno.
Nel 1905 l’Allamano acquista in Torino in via Circonvallazione (attuale corso Ferrucci) un terreno di 12.000 mq per la costruzione della casa madre, che è pronta ed inaugurata il 23 ottobre 1909.
Anche in Kenya lo sviluppo dell’attività missionaria è sorprendente, tanto che nel 1905, con decreto di Propaganda Fide, il territorio affidato in prova ai missionari della Consolata è dichiarato «missione indipendente», nonostante l’opposizione dei Padri dello Spirito Santo. Il 6 giugno 1909 la missione indipendente è eretta a vicariato apostolico con padre Filippo Perlo primo vicario apostolico.

1910: ARRIVANO LE MISSIONARIE
Sempre per offrire un maggior appoggio all’attività missionaria dell’Istituto, l’Allamano e il Camisassa fondano nel 1910 l’Istituto parallelo delle Missionarie della Consolata. Le prime missionarie partiranno per il Kenya il 3 novembre 1913 in numero di quindici (dal 1913 al 1922 ne partiranno 56).
Nel 1911 il Camisassa si reca in Kenya (dall’8 febbraio 1911 al 22 marzo 1912), per incontrarsi con i missionari e le missionarie, valutare la consistenza delle opere e la metodologia adottata e constatare se era giunto il momento di attuare il piano primitivo di passare ai galla. A questo scopo, sempre con la presenza del Camisassa in Kenya, viene deciso di estendere le missioni più a nord del monte Kenya, nel Meru (fine giugno-dicembre 1911).
Rientrato in Italia, il Camisassa presenta a Propaganda Fide il piano per il Kaffa (Etiopia). Ma ancora una volta una richiesta del genere suscita le reazioni dei cappuccini francesi e di mons. Jarosseau. Però con decreto del 28 gennaio 1913 Propaganda Fide affida ai missionari della Consolata la regione del Kaffa. Se fu relativamente facile ottenere una missione tra i galla, sarà invece molto più difficile entrarvi, soprattutto per l’opposizione del governo francese ed anche di quello italiano. Solo il 25 dicembre 1916 padre Gaudenzio Barlassina sarà ad Addis Abeba, come prefetto apostolico del Kaffa.

IN TANZANIA, SOMALIA,
MOZAMBICO
Dopo la prima guerra mondiale tutti i missionari tedeschi presenti in Africa vengono espulsi e Propaganda Fide nel 1919 affida ai missionari della Consolata la prefettura apostolica di Iringa nella ex colonia tedesca di Tanganyika (ora Tanzania).
L’Allamano a questo punto della sua vita avverte (il Camisassa muore il 18 agosto 1922) che la troppa carne al fuoco nuoce alle missioni affidate all’Istituto. Ma Propaganda Fide insiste perché l’Istituto accetti altri territori di missione. Nel 1924 (e solo per obbedienza) l’Allamano accetta la difficile missione della Somalia Italiana e nel 1925 (ma pare che l’Allamano non ne fosse al corrente) alcune missioni in Mozambico.
Questo espansionismo, contrario allo spirito dell’Allamano, sbilanciò alquanto l’Istituto sia nel numero dei missionari ed anche per un consistente aggravio finanziario.
L’Allamano muore il 16 febbraio 1926 e ne prende il posto mons. Filippo Perlo, ma con un Istituto affaticato per troppo lavoro. La ripresa fu lenta ma sicura.
I.Tu.

Igino Tubaldo




SPECIALE 100 ANNI – Straordinari nell’ordinario

Giuseppe Allamano nacque 150 anni fa, a Castelnuovo d’Asti, il 21 gennaio 1851. Sua madre Marianna era sorella di s. Giuseppe Cafasso. Dopo le elementari, frequentò gli studi ginnasiali nel collegio di don Bosco a Torino. Questi lo avrebbe voluto salesiano, ma lo studente scappò, lasciando di stucco il grande conoscitore dei giovani.
Nel 1866 entrò nel seminario di Torino e nel 1873 fu ordinato prete. Avrebbe voluto tuffarsi nel lavoro pastorale. «Vuoi fare il parroco? Bene! Ti affido la parrocchia più importante della diocesi» gli disse il vescovo. E don Giuseppe rimase in seminario come assistente e direttore spirituale.
Nel 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata: si mise subito al lavoro per restaurae i fabbricati, ravvivae la devozione e riaprire il convitto ecclesiastico, dove i giovani preti completavano la preparazione al ministero pastorale.
Nel frattempo cominciò a progettare la fondazione di un istituto missionario. Ma nel 1900 una grave malattia sembrava troncare il progetto. Ne uscì miracolosamente. L’Allamano vide in quella guarigione un segno per accelerare i tempi.
Il 29 gennaio 1901 fondò ufficialmente l’Istituto Missioni Consolata per l’evangelizzazione dei popoli. L’anno seguente partirono per il Kenya i primi missionari. Nel 1910 diede vita all’Istituto delle missionarie della Consolata.
Spese tutta la vita nella cura del santuario e formazione delle due famiglie missionarie, fino al giorno della morte: 16 febbraio 1926.

Una vita ordinaria, quindi,
in cui l’Allamano diede tutto se stesso al servizio della chiesa e società. Non ci fu attività a cui non partecipò, lavorando per oltre 50 anni al cuore della diocesi di Torino e sempre in collaborazione con il vescovo. «Nessuna opera di bene – affermerà di lui un contemporaneo – sfuggì all’irradiazione della Consolata», cioè di quel santuario mariano di cui fu rettore per 46 anni. «Tutto per Gesù, niente senza Maria» era uno dei suoi motti.
Dal santuario della Consolata, senza uscire dai confini dell’Italia, abbracciava tutto il mondo. Sarebbe voluto partire missionario, ma la salute glielo impedì; allora fondò i missionari e missionarie della Consolata. Ma guai a chiamarlo «fondatore»: lo proibiva esplicitamente. «La Consolata è la vera fondatrice» ripeteva.
Tuttavia è fondatore. E lo fu senza ricercare forme straordinarie di ispirazione per le due famiglie missionarie. Ciò che stupisce nell’Allamano, infatti, è la semplicità dei principi sui quali ha impostato la vita: «Essere, prima di fare»; «fare bene il bene»; «essere straordinari nell’ordinario». Direttrici di fondo che ne hanno fatto un grande uomo d’azione.
Che egli vivesse così lo confermano le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto: «Aveva l’arte di non farsi avanti»; «rifuggiva in tutti i modi da qualsiasi esibizionismo»; «compiva il bene nascondendosi». «Non volle mai chiasso attorno a sé». «Tutto ciò che ci diceva – attesta padre Sales – lo vedevamo praticato in lui in modo superlativo».

«Fragile come un cristallo,
resistente come un diamante», lo definiscono quanti lo hanno conosciuto. E tracciano altri lineamenti della sua figura umana: un leggero sorriso risplendeva abitualmente dal suo volto; lo sguardo dolce e penetrante degli occhi lampeggianti, che andavano oltre il viso degli interlocutori e leggevano nelle pieghe delle coscienze; intelligenza intuitiva, sintetica, che arriva subito all’essenza delle questioni; innata capacità di rianimare, confortare, guidare al bene.
«Mentre era sempre calmo e misurato in tutte le sue azioni, quando parlava di Dio e del suo amore, s’infiammava talmente da trasfigurarsi. Tanto che molti dei suoi uditori temevano per la sua salute». Parlare dell’amore di Dio era per lui la cosa più spontanea e naturale; anzi, sentiva il bisogno di comunicare agli altri il fuoco che gli ardeva dentro.
L’intensità spirituale si traduceva in straordinaria capacità contemplativa: «Dominus est» (è il Signore) ripeteva di fronte a tutti gli eventi, cose, persone. Una volta scoperta la presenza di Dio e la sua volontà, la perseguiva con serenità e tenacia, anche nelle situazioni più critiche e dolorose, superando ogni ostacolo, confidando totalmente nell’aiuto divino.
La sua capacità contemplativa lo rendeva consigliere. Non solo i seminaristi, quando ne era direttore spirituale, e poi i suoi missionari, ma anche vescovi, sacerdoti, fondatori di istituti e gente comune si rivolgevano a lui per consiglio; e aiutava tutti a scoprire la volontà di Dio, dissipando dubbi, dissolvendo illusioni, infondendo coraggio.
«Avanti nel Signore!». «Coraggio nel Signore». Sono alcune delle espressioni usate frequentemente dall’Allamano, specialmente nelle lettere ai suoi missionari. Tre parole che racchiudono e trasmettono la sua incrollabile fiducia in Dio e nella Consolata. «Non bisogna mai stare fermi, ma andare sempre avanti – diceva -. Non starsene come automi, per paura di sbagliare; non lasciarsi rimorchiare; mai dire non tocca a me».
La forte umanità dell’Allamano, arricchita dalla sua intensità spirituale si esprimeva in un profondo senso di pateità. La figura di padre è quella che ha maggiormente contagiato quanti l’hanno conosciuto. Essi ricordano il primo incontro con lui, le sue parole, i gesti, il sorriso e le attenzioni…
Essere padre era il suo stile di educare e formare. Per lui l’istituto è una famiglia. Si sentiva padre dei suoi missionari e missionarie, non solo perché li amava con tutto se stesso, ma perché sapeva infondere in loro il suo spirito: cioè quel modo di percepire e vivere il vangelo che è tipico dei santi. Uno spirito che l’Allamano è cosciente di possedere e trasmette con intensità nell’insegnamento e contatti personali. Ne è geloso. Non permette interferenze. «Qui lo spirito lo do io – ripeteva con fermezza -. Chi non lo condivide vada pure altrove. Meglio pochi, ma radicati».

N ominato rettore del santuario della Consolata, l’Allamano volle don Giacomo Camisassa come collaboratore: «Faremo d’accordo un po’ di bene», gli aveva scritto. Lavorarono insieme per 42 anni come fratelli e amici.
Nato a Caramagna (CN) il 26 settembre 1854, Camisassa fu anch’egli alunno di don Bosco; poi entrò nel seminario diocesano e fu ordinato sacerdote nel 1878.
Membro aggiunto della facoltà di teologia della diocesi di Torino, professore di morale, diritto civile ed ecclesiastico al convitto dei giovani sacerdoti, rivelò doti superiori al comune; possedeva ed esponeva la materia in modo chiaro e preciso, sintetico. Avrebbe potuto fare una gratificante carriera; fu proposto per l’episcopato; ma preferì restare «sacrestano della Madonna», a fianco dell’Allamano, felice di essere secondo come vice-direttore del santuario e del convitto della Consolata e poi dell’istituto dei missionari e missionarie della Consolata. E lo fu fino alla morte: 18 agosto 1923.
Statura bassa, ma robusto e ben piantato, intelligenza rara e perspicace, volontà ferrea, organizzatore nato, il Camisassa era un uomo pratico, attivo, intraprendente, sempre in moto. «Ha la smania di lavorare: vorrebbe saper tutto, fare tutto; è tutto attività» confessava l’Allamano.
Troncata la carriera di professore, rivelò doti di praticità e abilità nel campo della tecnica e finanza, progettazione ed esecuzione dei lavori, scrivere articoli e redigere relazioni, saldare parcelle e far quadrare i bilanci. Di tutto era pratico e di tutto voleva darsi ragione.
Non badava a nessuno, né a chiacchiere né ad altro. Quando controllava i lavori dei restauri del santuario o saliva sui ponteggi, seminava il terrore: dava ordini, faceva rifare lavori, cambiava progetti, provocando qualche attrito, che toccava all’amico Allamano comporre.
La dedizione al lavoro è la caratteristica principale del Camisassa. Efficienza che l’Allamano completava con i suoi principi altrettanto pratici e ordinari: «Fare bene il bene», salvaguardia del buon nome e dignità, comprensione delle persone e attenzione alla loro crescita umana e spirituale. L’abilità del Camisassa si sposa al cuore dell’Allamano.

È definito «fedele collaboratore»,
«braccio destro» dell’Allamano, «confondatore». Eppure erano molto diversi. Diversità complementari, tanto che l’Allamano poté dire: «Se abbiamo fatto qualcosa di buono, è perché eravamo tanto diversi; ma abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto; se fossimo stati uguali, non avremmo visto i difetti l’uno dell’altro e avremmo fatto molti sbagli in più».
La collaborazione con l’Allamano non si limitava alla parte materiale. Ambedue affermano di aver studiato assieme ogni progetto, lettera, documento, con lunghe riflessioni e anche «notti di preghiera».
Tanta meravigliosa operosità aveva un’anima. In un breve scritto spirituale il Camisassa si propose di «voler essere tutto di Dio». Alla fine della sua vita potrà dire: «Mi consola il pensiero che non ho mai fatto nulla per me stesso, ma solo per la gloria di Dio».
Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




SPECIALE 100ANNI – Tra popoli e problemi

La follia due terribili conflitti mondiali

DOV’ERA L’UOMO?

Due guerre devastano il mondo nella prima metà del 1900:con lo scontro franco-tedesco di Verdun (1916),
la disfatta italiana di Caporetto (1917),i bombardamenti sulla città inglese di Coventry (1940), la sconfitta americana di Pearl Harbor (1941),la bomba atomica su Hiroshima (1945)… Anche i «lager» nazisti, con l’olocausto di 6 milioni di ebrei, sollevano domande inquietanti. Dov’era Dio? E dov’era l’uomo?

Seminaristi all’arma bianca

«Dieci lunghi mesi (benché ancor fuori dell’ambito della guerra) noi siamo vissuti sotto l’incubo della conflagrazione gigantesca, inaudita nella storia delle nazioni, per cui “sulla misera Europa incombe tanta ruina”, va sconvolta ormai ogni regione della terra, e paiono vacillare gli stessi cardini fondamentali del diritto e del consorzio delle genti».
È l’amaro commento dei missionari della Consolata sulla prima guerra mondiale, riportato dalla loro rivista La Consolata, giugno 1915 (1).
«Le quotidiane notizie di combattimenti incessanti – prosegue il mensile -, di terribili stragi sui vari teatri di guerra, di crescente desolazione nei paesi belligeranti… ci son venuti penetrando di dolorosa compassione; mentre la carità di Cristo, che “a prezzo del suo sangue tutti gli uomini rese fratelli”, ci poneva sempre più accorata sul labbro la preghiera per la pace».
Il conflitto scoppia nell’agosto 1914. L’Italia vi entra il 24 maggio 1915. E La Consolata continua:
«Coll’entrar dell’Italia in guerra è iniziata pure per noi la terribile prova. Adoriamo i decreti imperscrutabili di Dio, il quale, se nella sua giustizia permette i flagelli, nella sapientissima sua misericordia sa da essi trarre il maggior vero bene delle sue creature; e quanto più è grande la calamità, tanto più si fa vicino a coloro che in Lui sperano.
La nostra fede di veri cattolici ci faccia forti a compiere il dovere di buoni cittadini… sia quelli che son chiamati alle armi, sia quelli che con inevitabile strazio e sacrificio, spesso più eroici dei soldati stessi, debbono darli alla patria.
Preghiamo con viva fede che il sacrificio sublime dei soldati d’Italia, come delle loro madri, delle spose, degli innocenti loro figlioletti, sia l’ultimo tributo che impetri dalla divina misericordia la cessazione dell’orrendo flagello della guerra, l’avvento della sospiratissima pace»…
Tra i militari si contano pure missionari della Consolata. Non solo: anche «una parte notevole degli alunni del nostro Istituto ci sono stati tolti – precisa La Consolata, agosto 1915 -. Separati d’improvviso dai superiori e compagni, essi ebbero rinnovato lo strazio provato nell’abbandonare i parenti; dalla casa dove, tra l’indefessa attività di studio e lavoro, tutto era serenità e raccoglimento, sono stati sbalestrati nelle caserme e nelle piazze d’armi. L’obiettivo di pacifiche conquiste tra gli infedeli, colla croce, s’è cambiato in quello di contribuire alle vittorie col fucile, col cannone e all’arma bianca».
È un lamento, ma anche una denuncia.
Quell’Ecatombe
di ignari Kikuyu
La prima guerra mondiale sconvolge anche il continente nero. In Africa orientale l’apporto delle colonie inglesi al conflitto è ingente. Per combattere i tedeschi in Tanzania (2), si arruolano persino africani. Più che militari, urgono portatori (carriers), che rifoiscano di vettovaglie e munizioni i soldati inglesi al fronte. In tale compito viene impiegato oltre mezzo milione di persone.
In Kenya, all’inizio, le autorità inglesi invitano i kikuyu ad «offrirsi» per la gloria dell’impero britannico. Ma l’ideale non attecchisce. Allora si ricorre alla coscrizione forzata.
Per sfuggire alla leva, i kikuyu si nascondono nella foresta durante il giorno; ma, al tramonto, rientrano nelle loro case. È questo il momento giusto, per i policemen bianchi, di sparpagliarsi nel villaggio, entrare nelle capanne e, armi in pugno, reclutare nuovi rifornitori di bombe.
Non potendo eludere la chiamata, i kikuyu si affidano ad un rimedio estremo: lo stregone. Costui, alla vigilia di una partenza per la guerra, presiede un drammatico sacrificio, alla presenza persino dei bambini. La vittima sgozzata è un montone nero, con strane chiazze sul pelo. Il tutto indica malaugurio.
Secondo una cronaca dell’epoca, al tempo stabilito, il partente avanza risoluto verso l’assemblea radunata; afferra la testa dell’animale ucciso e, roteandola in ogni direzione, lancia la maledizione: «Io andrò e morirò, ma che i bianchi siano maledetti!». «Maledetti e maledetti!» grida ostile la comunità…
I portatori kikuyu vengono distribuiti in diversi campi di concentramento. Si marcia dalle 6,00 alle 11,30 e dalle 14,00 alle 17,00; e se il passo rallenta, ecco subito l’ufficiale che, munito di scudiscio, ridà lena alla marcia. Dopo pochi giorni di cammino, il portatore si ammala e, sovente, è già cadavere nella fossa.
La causa di tanti decessi non è solo fisica, ma psicosomatica: fatica e malattia, unite alla nostalgia per la terra d’origine lasciata. Secondo V. Harlow, 127 mila kikuyu periscono in quell’infausta esperienza.

Uno Strano bottino
di Guerra
Poiché i carriers muoiono come mosche, già nel 1914 il governo coloniale decide l’allestimento di alcuni ospedali militari in Kenya: a Nairobi, Mombasa, Voi. Nel corso del conflitto gli inglesi ne installano altri anche in Tanzania, colonia tedesca.
Dal Kenya il vescovo Filippo Perlo offre i missionari della Consolata per l’assistenza spirituale e medica negli ospedali, ritenendola un’opera altamente umanitaria. Da Torino l’Allamano, il fondatore, approva, purché i missionari non si schierino con alcuno dei belligeranti, ma servano solo gli africani.
In un triennio 45 missionari, tra padri e suore, sono destinati alla cura dei malati. Ce la mettono tutta nel dedicarsi ai bisognosi. Grande è la carità.
Eroica la testimonianza di suor Irene Stefani, che opera nell’ospedale di Kilwa (Tanzania). Il suo bottino di guerra – scrive Gian Paola Mina – sono 3 mila battesimi conferiti a morenti (cfr. l’inserto «L’estrema pazzia»). Non è la sola a sentirsi missionaria oltre che infermiera. Gli altri credono negli stessi ideali, tanto che il 98% degli africani morti negli ospedali riceve il battesimo.
L’attività assistenziale si rivela efficace e riscuote il pubblico plauso anche delle autorità inglesi.

(1) La Consolata, fondata nel 1899, diventa Missioni Consolata nel 1928.
(2) La Tanzania si chiamò «Tanganyika» fino al 1964.
Kenya: Se L’inglese
ti Controlla
Il 10 giugno 1940 i missionari della Consolata in Kenya diventano nemici degli inglesi e sono allontanati dalle loro sedi. In un diario di missione si legge: «Si sente alla radio la dichiarazione di guerra dell’Italia e poche ore dopo, alle 21, veniamo sottratti alle nostre missioni dalle forze armate. Lasciamo ogni cosa nelle mani di Dio: chiesa e casa, cristiani e catecumeni, scuole e maestri». Analoghe scene si ripetono nell’intero vicariato di Nyeri e nella prefettura di Meru.
I missionari vengono deportati nel campo di Koffiefontein, in Sudafrica, dove condividono la sorte di altri 1.200 italiani. Almeno sono insieme e qualcosa riescono a fare: aiutare tutti, alimentare la speranza, fino a procurare l’insalata zappando un lembo di cortile. I padri Giovanni Casolati e Bartolomeo Favaro compilano anche una grammatica e un vocabolario kimeru e traducono il Nuovo Testamento.
Grande la nostalgia, soprattutto delle missioni sulle quali è sceso il silenzio. Nel Meru, più che nel Nyeri, l’abbandono è totale…
Il 14 agosto 1944 un telegramma annuncia il ritorno dei missionari in Kenya. «Toano – commenta Missioni Consolata, settembre 1944 – a riunire i figli dispersi. Toano a ricominciare e a ricostruire. Salutati dai trilli festosi dei cari aghekoio e bameru, tornano a rivedere le giovani cristianità, a far sorridere i bimbi, a riaprire catecumenati e ambulatori. Toano. E con essi la vita riprenderà il ritmo normale».
Però le autorità inglesi non esultano: esigono che sui missionari italiani sia esercitato il controllo di un britannico, che li tenga lontani da ogni attività illecita. Un’imprudenza diventa motivo per il rimpatrio sia dal Nyeri sia dal Meru.
La tensione è tale da esigere la visita del pro-delegato apostolico, padre MacCarthy, che incontra le autorità politiche britanniche del Meru. Giustizia vuole che si ascolti anche l’altra parte. Pertanto il pro-prefetto raggiunge le missioni per incontrare i padri: molti cadono dalle nuvole dinanzi all’ostilità nei loro confronti. In ogni caso, se errori sono stati commessi (ad esempio, coltivazione non autorizzata di terreni), essi sono pronti a rimediare.
Però sono false le accuse, secondo le quali la gente (anche cattolica) si lamenta dei missionari. Gli africani, invece, recriminano sia contro l’autorità coloniale che quella locale.
Lo conferma lo stesso MacCarthy.

Tanzania: «Ai nemici italiani stranieri»
Un cataclisma? Troppo poco, se non si aggiunge che è mondiale. E non è un disastro da addebitare all’incontrollabilità della natura o al destino, ma voluto da uomini contro uomini.
Il primo contraccolpo dell’entrata italiana in guerra piomba drasticamente sui missionari della Consolata in Tanzania. Essi si vedono stravolta la ragione della loro presenza nel paese. Ogni dispaccio del governo coloniale britannico (1) reca il marchio: «Ai nemici italiani stranieri». Stranieri? Anche gli inglesi lo sono. Nemici? Per nulla!
Il 16 giugno 1940 scatta l’ostracismo. «Tutti i nemici stranieri italiani» debbono radunarsi a Tosamaganga. L’esodo deve compiersi in cinque giorni. Le missioni dell’Iringa, sparse su un vasto territorio, vengono evacuate.
È il momento del primo distacco: i missionari-fratelli, caricati su un camion, vengono trasferiti al boma, il forte che comprende il quartiere della polizia e le prigioni. Fratel Eesto Viscardi, sulla sponda dell’autocarro, dà fiato alla fisarmonica… con qualche lacrima.
Il 18 giugno compare l’arcivescovo Edgar Maranta, vicario apostolico di Dar Es Salaam, cappuccino svizzero. Qual buon vento lo porta? Nella cronaca di Tosamaganga l’apparizione è motivata da «buoni uffici» da assolvere.
Il 20 giugno, come se nulla fosse, si solennizza la festa della Consolata. Ma la cristianità è in ansia. «La Vergine trionfa in una interminabile processione – recita la cronaca -. Alcuni poliziotti inglesi sorvegliano quasi con devozione».
Il giorno seguente, il vescovo Maranta parte per Mbeya, sede del governo provinciale da cui dipende il distretto di Iringa. Al suo ritorno, dopo due giorni di colloqui, a Tosamaganga deflagra la gioia: lo svizzero è accettato dagli inglesi come garante dei «nemici stranieri italiani». I missionari non sanno come ringraziarlo.
Dunque non ci sarà deportazione! «Fra il tripudio della gente le campane suonano fino a sera».
Intanto il vescovo Attilio Beltramino, missionario della Consolata, accetta la «garanzia» dell’arcivescovo Maranta. Essa si fonda sulla «parola d’onore» e impegna i missionari con clausole vincolanti:
– non allontanarsi oltre un miglio dalla missione;
– vietato ogni spostamento di personale missionario;
– controllo della corrispondenza;
– nessuna parola con estranei su politica, movimento di truppe, località strategiche;
– vietato contattare i prigionieri.
Che cosa ha indotto gli inglesi ad una mite decisione? Certamente le ottime relazioni tra i governanti, lo svizzero Maranta e l’italiano Beltramino, nonché l’amicizia tra i due vescovi. È lecito pure supporre un intervento del giovane sultano A. Sapi Mukwawa, musulmano, stimato dagli inglesi e fedele amico dei missionari della Consolata.
Infine non è detto che alcune personalità britanniche non abbiano apprezzato il lavoro dei missionari.

(1) La Tanzania (Tanganyika), colonia tedesca, diventa «mandato britannico» dopo la seconda guerra mondiale.

TRA I CADAVERI ACCATASTATI

Un mattino del 1917, all’ospedale di Kilwa (Tanzania), suor Irene non trovò più Athiambo, che aveva istruito il giorno prima e si riprometteva di battezzare quel giorno stesso. «Athiambo è morto – disse l’infermiere -. Verso mezzanotte è stato buttato sul carro e portato alla spiaggia». «Athiambo morto, e senza battesimo!» ripeteva inconsolabile suor Irene.
Ci volevano 20 minuti per giungere in spiaggia. Irene ne impiegò 10, tanto corse. Eccola di fronte all’Oceano Indiano, al cospetto di cadaveri accatastati alla rinfusa: nudi, enormi, oppure sparsi sulla sabbia ardente; chi con la fronte a terra, chi riverso supino, immobile, pauroso. «Dio, che orrore!». La suora rabbrividì. Aveva sempre avuto un ribrezzo sommo per i morti, ed ora tutti quei cadaveri…
Era sola con il suo rosario, la sua fede. Non aveva chiesto a nessuno di accompagnarla, perché nessuno avrebbe accettato di venire con lei. Meglio così: sarebbe stata sola a compiere l’estrema follia. Guardò l’oceano, le cui onde si facevano sempre più alte e vicine: fra poco avrebbero inghiottito i cadaveri, compreso Athiambo… Perché cercarlo? «E se non fosse morto? Si tratta di un’anima, Signore, un’anima!» si disse suor Irene.
Con gli occhi sbarrati da ansia e paura, si accostò ai morti: cominciò da quelli sparsi qua e là, scrutando i volti di chi giaceva supino e rivoltando gli altri. No, non era Athiambo. Athiambo si trovava nel mucchio. Ma se era lì, in mezzo o sotto gli altri, era di certo morto soffocato. «E se non fosse morto?».

S enza più esitare, suor Irene s’accostò alla catasta e rimosse i cadaveri uno ad uno, in cerca di Athiambo. Pesavano enormemente quei corpi rigidi, anche nella magrezza a cui erano stati ridotti dagli stenti. Pesavano e nauseavano. Erano sozzi di sangue e le imbrattavano di rosso le mani e il vestito bianco.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» ansimava la suora. Aveva già riconosciuto Luigi, Giovanni, Giuseppe, Ugo… tutti quelli battezzati ieri e avant’ieri. Ma Athiambo non c’era. Avanti ancora. Aveva le braccia e la schiena che le si spezzavano, il cuore in gola. Si sentiva svenire, morire come loro, in un incubo. L’oceano rumoreggiava a pochi passi, e avanzava minacciandola. In fretta! O sarà troppo tardi.
«Ave Maria, Santa Maria… O Dio, abbiate pietà!» singhiozzava ora la missionaria. Avanti ancora. Ne aveva contati 46, 47… e Athiambo non compariva. Solo otto cadaveri attendevano di essere passati in rassegna, e lei cominciava a domandarsi se per caso non l’avesse riconosciuto tra quelli già esaminati. Allora avrebbe dovuto ricominciare da capo. Ultimo cadavere: era Athiambo, seppellito sotto tutti, morto anche lui.
Morto? Con sforzo enorme lo trascinò lontano, là dove la marea non poteva raggiungerlo, e gli s’inginocchiò vicino. S’era accorta che il corpo era flessibile. Forse… «Ave Maria, Santa Maria… O Dio, salvatelo!».
Sperando contro ogni speranza, gli praticò la respirazione artificiale, distendendogli le braccia ritmicamente per 10, 20 minuti. Non sentiva più la stanchezza. Eppure era sfinita, il sole e la sabbia scottavano tremendamente. Il tempo passava. Ma lei continuava a massaggiare Athiambo, a sollevargli le braccia, spiandolo amorosamente, pregando con fiducia.

Avvenne l’incredibile: Athiambo sbatté le palpebre, emise un gemito impercettibile. Era ancora vivo… Poi tutti dissero che suor Irene l’aveva risuscitato!
Gian Paola Mina

Francesco Beardi




Noi stiamo con Noè

Disse Dio a Noè: «Questo è un mondo avvelenato da affogare».
E così fu. Poi Noè rigenerò la terra…
Al patriarca biblico hanno pensato alcuni giovani tecnici di Torino
di fronte ad un pianeta nuovamente inquinato,
condannato ad un altro diluvio. A meno che…

Da convegni nazionali e inteazionali emerge sempre di più la necessità di trovare con urgenza energie alternative. Esse sono necessarie per tutti, ma specialmente per i popoli disagiati nel sud del pianeta. È un dovere morale, non rinviabile, aiutare queste genti.
Chi ha trascorso un po’ di tempo in un paese del terzo mondo (ospite magari di qualche missionario) racconta, al suo rientro, come questa esperienza sia stata arricchente. Ma, a tale fine, bisogna lasciarsi catturare dall’atmosfera che si respira in quelle terre e vedere le cose da un punto di vista completamente nuovo, conferendo un valore diverso alla vita, al tempo, al denaro. È necessario liberarsi dai propri numerosi condizionamenti, imparare a giornire del poco che c’è e a condividerlo.
Si rileva, soprattutto, la grave situazione di povertà in cui vive, ad esempio, la grande maggioranza degli africani. Nel contempo, affascinano gli spazi immensi e la bellezza della natura, mentre si prova rabbia nel vedere come le potenziali ricchezze della terra non siano debitamente sfruttate. Spesso ci si ferma, impotenti, di fronte a realtà ritenute immutabili.
L’amicizia con i missionari della Consolata e la collaborazione con dei volontari hanno suscitato, in alcuni giovani amici di Torino, interrogativi profondi; hanno avvertito la necessità di trovare, pur nei loro limiti, delle valide soluzioni a qualche problema del nostro pianeta.
L’inquinamento dell’ambiente, ad esempio.

In molti paesi dell’Africa (e non solo) esiste una massa di persone impoverite anche dal progressivo inquinamento ambientale, dovuto anche allo sfruttamento indiscriminato del territorio. Per gli abitanti, già costretti ad un’esistenza precaria, si aggiungono altre difficoltà, dato il rapporto di forte dipendenza economica con l’ambiente. Allora diventa indispensabile favorie lo sviluppo privilegiando il reperimento di nuove forme d’energia.
A tale scopo, il suddetto gruppo di amici di Torino ha deciso di lavorare con impegno per offrire un aiuto positivo e una speranza concreta. Da qui è nata l’idea di fondare l’Associazione culturale e umanitaria «Noè», che svolge ricerche finalizzate alla valorizzazione dell’habitat nel sud del mondo, grazie a confronti d’idee e sperimentazioni di nuovi progetti.

Tra le iniziative dell’Associazione «Noè», un progetto è particolarmente significativo.
In breve: si tratta di effettuare un tour con mezzi di trasporto sperimentali ad energia alternativa che, partendo dall’università di Tolosa, attraversi l’Africa e raggiunga l’università di Kinshasa, nella repubblica democratica del Congo; da qui, costeggiando l’Africa orientale, rientrare a Torino dopo aver toccato città, villaggi sperduti e missioni tra le più bisognose.
Il viaggio si prefigge, come scopo primario, di fornire informazioni tali da favorire la presa di coscienza di uno dei più grandi mali del terzo millennio: l’inquinamento ambientale, prodotto da emissioni di gas nocivi.
Sovente, però, tale problema viene proposto in maniera non consona alla realtà, provocando disinteresse. Sono ormai numerosi i trattati che, confortati da inoppugnabili dati, mostrano a livello mondiale i disastri ambientali, tra i quali: il surriscaldamento della terra e il recente susseguirsi di sconvolgimenti meternorologici in ogni parte del pianeta, Italia inclusa.
Chiunque consideri l’ambiente la casa dell’uomo e un dono di Dio da salvaguardare anche per i propri figli e nipoti intuisce facilmente gli ideali del progetto di «Noè».
L’intento è quello di sfruttare il sapere e le tecnologie disponibili, al fine di rallentare (almeno) il processo d’inquinamento, destinato altrimenti ad un irreversibile incremento. «Noè», pertanto, intende convogliare subito gli sforzi là dove le condizioni sociopolitiche sono più vulnerabili e minore importanza viene attribuita al problema.
Il «testimone» di questa operazione sarà «una colonna di veicoli sperimentali», spinti da propulsori ad energia alternativa, cioè ad idrogeno.
Durante il viaggio verranno fotografate e documentate le varie situazioni di povertà, le realtà missionarie, le necessità energetiche delle popolazioni. Le informazioni raccolte potranno essere divulgate in tempo reale con un browser web e opportuni programmi televisivi.
Nel frattempo sarà possibile analizzare il territorio e i bisogni energetici più urgenti dei luoghi visitati, studiando così la possibilità di realizzare in loco sistemi alternativi, come centrali eoliche, solari od idriche.

L’Associazione «Noè», in sinergia con studi tecnici italiani, oltre alla campagna di sensibilizzazione, cornordinerà il progetto e ne curerà l’attuazione sino al collaudo finale. Inoltre, in stretta collaborazione con varie facoltà universitarie e alcuni missionari della Consolata, provvederà alla formazione di tecnici locali, al fine di dare «un valore aggiunto» agli sforzi profusi e garantire, soprattutto, che le opere durino nel tempo.
Il 29-30 settembre 2000 l’iniziativa è già stata presentata all’università di Parigi da Luigi Toscano, presidente dell’Associazione «Noè», su invito di Antonio Gioelli, rettore magnifico dell’università.
L’Assemblea universitaria, favorevole al progetto, ha delegato quale cornordinatore tecnico della progettazione l’ingegnere Massimiliano Longo, direttore generale del «Centro per le ricerche ed energie alternative» di Bruxelles.
L’elemento cardine del progetto sarà il motore ad idrogeno, brevettato negli anni ’70 dallo stesso ingegner Longo e riconosciuto come valido dal premio Nobel 1977 Giulio Natta, collaboratore scientifico dell’Università europea del lavoro di Bruxelles (Uet).

L’Associazione «Noè» si rivolge a quanti credono che si possa (anzi si debba) rispettare la terra e le risorse che il Creatore vi ha elargito, usandole non solo per i propri bisogni, ma anche con metodi di conservazione, onde garantire anche ai posteri un mondo più vivibile e «a misura d’uomo».
«Noè» sollecita tutti ad unire al più presto le forze, per ingaggiare una «crociata» contro l’inquinamento. Purtroppo sono brutte le notizie giunte dall’Aja, durante la Conferenza mondiale sui mutamenti climatici (24-26 novembre 2000): Stati Uniti ed Europa hanno penosamente litigato, mancando l’accordo per ridurre i gas che producono l’effetto serra.
D’altro canto, non è più possibile ascoltare le notizie allarmanti dei mass media e pensare: «Sono problemi troppo grandi per noi. Non possiamo farci nulla!». Al contrario, ognuno deve assumersi la sua responsabilità e dire «basta!» per mutare politica.
È risaputo che una fresca, limpida e pura sorgente d’acqua di montagna è costituita da tante piccole gocce.

Luigi Toscano




Nell’occhio dei cicloni

Gioviale e sincero, cuore grande e sensibile, la vita di padre Calandri fu tutta in salita, costellata di difficoltà
e incomprensioni, senza mai arrendersi. Definito pioniere, eroe, artista, antropologo…
fu educatore, difensore e padre di migliaia di africani.

Da grande voleva fare il «bandito», diceva ai compagni delle elementari. Un palmo più alto dei coetanei, il collo oltremodo lungo, nel seminario di Giaveno (TO) lo chiamavano «cammello». Il nomignolo non gli dispiaceva; anzi, aumentava i suoi sogni di avventure per deserti e savane sconfinate. Voleva essere prete; ma non intisichire tra le mura di una canonica. «Come conciliare sogni e vocazione? – racconterà più tardi -. Eccoti saltar fuori la chiamata alla missione».
SOGNANDO LA MISSIONE
A 18 anni (era nato nel 1893 a Moretta, Cuneo), Pietro Calandri ottenne dal vescovo il permesso di entrare tra i missionari della Consolata. Il 3 marzo 1917 fu ordinato prete. Non scordò mai quel giorno, anche per un curioso extra rituale: dubitando di avergli imposto le mani sul capo, alla fine dell’ordinazione il vescovo ripeté tale cerimonia. «Mai avuto dubbi sul mio sacerdozio: sono stato ordinato due volte» raccontava spesso.
Per realizzare i suoi sogni bisognò aspettare il ritorno dei missionari mobilitati come cappellani militari nella guerra mondiale. Padre Pietro doveva dare una mano nei vari servizi della casa madre: formazione degli studenti e insegnamento di materie pratiche: fotografia, pittura, arti e mestieri.
Come ogni artista che si rispetti, era soggetto a madoali distrazioni: iniziare la messa senza paramenti; andare in tram con uova fresche in tasca e conseguente frittata. E rideva volentieri di tali disavventure.
Nel 1920 Calandri raggiunse il Kenya. Si buttò nel lavoro con tutto il suo entusiasmo. Ma ben presto si accorse che le savane e foreste dei sogni giovanili erano popolate da ingiustizie e soprusi da fargli ribollire il sangue, fino a definire la missione di Kanjo (ora Turu) «selvaggia e crudele» (vedi riquadro).
Nel 1925 fu scelto per formare il primo gruppo di missionari della Consolata destinati al Mozambico.
ORDINI E CONTRORDINI
Secondo gli accordi presi con il prelato del Mozambico, dom Rafael Assunção, il drappello era destinato a Miruru, missione ai confini con lo Zimbabwe, fondata dai gesuiti e da vari anni senza preti. Ma a Torino i superiori avevano messo gli occhi sul Niassa, dove si poteva cominciare da zero, poiché nessun missionario cattolico vi aveva ancora messo piede.
Fu così che padre Calandri, con in tasca l’ordine segreto di andare nel Niassa, si staccò dal gruppo di Miruru e, insieme a padre Amiotti, raggiunse Mandimba, ai confini col Nyassaland (oggi Malawi). Nel frattempo i superiori avrebbero richiesto i permessi necessari alle autorità ecclesiastiche e civili . Di fronte al fatto compiuto, pensavano, sarebbe stato più facile ottenerli.
I due missionari cominciarono subito la costruzione di un capannone, una cappellina di canne di bambù e una casetta per accogliere una dozzina di orfanelli, figli di europei, impiegati del governo inglese in Malawi.
Secondo le istruzioni dei superiori, padre Calandri fece una bella relazione sulla situazione e la inviò a dom Rafael, dichiarandosi disponibile all’evangelizzazione del Niassa. La risposta giunse come una mazzata: «Uscire dal territorio entro un mese, dopo il quale scatterà la sospensione a divinis». Il che significa: proibizione di amministrare qualsiasi sacramento.
Da Torino arrivò l’ordine di restare, perché tutto si sarebbe aggiustato. Pure il vicario apostolico del Nyassaland, il monfortano francese mons. Auneau, consigliò di rimanere. I due missionari celebravano la messa di nascosto e ogni settimana passavano la frontiera per confessarsi e assolversi a vicenda nel territorio del vescovo amico. Per non dare nell’occhio degli ispettori della colonia portoghese, vari amici consigliarono loro di tagliarsi la barba e spacciarsi per coltivatori di tabacco.
Padre Pietro si lasciò un paio di baffetti e, oltre a coltivare tabacco, impiegò quel «tempo d’inedia» per esplorare il Niassa, studiare i posti più idonei per le future missioni, incontrare la gente e imparare la lingua ciyao. Scriveva ogni nuova parola su un pezzetto di carta, che infilzava in un ferro e, tornato a casa, ordinava i foglietti in ordine alfabetico. Ne risulteranno 13 volumi, confluiti nel dizionario italiano-ciyao, poi in quello portoghese-ciyao.
Ma per il cuore sensibile del Calandri fu «una situazione così terribile», da farlo piangere giorno e notte.
«TEGOLE» IN TESTA

Dopo due anni di «purgatorio», il 1° maggio 1928 arrivò un telegramma dal Nyassaland: «Concessa giurisdizione. Cominciare i lavori». Calandri era felicissimo, ma a tasche vuote: gli ultimi due scellini li aveva dati al fattorino che aveva recapitato la bella notizia. Un amico, salvato dal padre da una febbre micidiale con un drammatico bagno freddo, gli infilò in tasca 500 scudi portoghesi, con cui organizzò subito una carovana per raggiungere Massangulo, 60 km a nord-est di Mandimba.
Gli orfanelli più grandi a piedi, gli altri in spalle ai portatori, a passo di lumaca, giunsero a destinazione il 20 maggio 1928; furono piantate le tende e si cominciò subito la fabbricazione di tegole e mattoni.
Passò un mese e un’altra «tegola» si abbatté sulla testa di Calandri: il governatore del Niassa ritirava ogni permesso, finché dom Rafael non avesse comunicato anche a lui l’autorizzazione ecclesiastica consegnata ai missionari. Era una ripicca contro il prelato; ma per aggiustare la faccenda il padre dovette correre a Porto Amelia: 1.600 km di andata e ritorno, con mezzi sgangherati, per sentirneri da capre.
Altre minacce pesavano sulla missione: ladri, leoni, ostilità dei capi musulmani. Contro i leoni aveva il fucile e una mira infallibile, tanto da essere chiamato in tutti i villaggi per liberare la gente dalle bestie feroci. Più dura fu con i musulmani: prima cercarono di depredarlo, poi gli ordirono trabocchetti per eliminarlo.
«La lotta è il mio pane quotidiano» diceva spesso. I lavori continuarono frenetici per costruire le case dei padri, bambini e suore prima della stagione delle piogge. Alla fine dello stesso anno, infatti, arrivarono due padri, tre fratelli e otto suore.
Col nuovo personale fu aperta la scuola; si cominciò la visita sistematica ai villaggi, a curare gli ammalati nella missione e a domicilio. In poco tempo la situazione fu rovesciata come un calzino: la gente nutriva grande simpatia per i missionari; perfino i capi musulmani erano affascinati dalla carità delle suore.
Nel giugno 1930 padre Calandri fu chiamato a Beira dal delegato apostolico mons. Hinsley che, nervoso e imbarazzato, gli ordinava di chiudere immediatamente la missione. «Mi sentii cadere dalle nuvole – racconta il missionario -. Fatiche andate in fumo. Orfani ributtati sulla strada. Scoppiai in un pianto dirotto e irrefrenabile».
Per calmarlo il delegato gli chiese di Massangulo; sentendolo parlare di scuole e collegi per bambini e bambine, orfanotrofio per meticci, monsignore tirò un sospiro ed esclamò: «Se è così, è tutt’altra cosa. Vada pure avanti con la costruzione dei collegi; io le manderò i mezzi. Bisogna dare molta importanza a scuole e collegi».
BURRASCA… MAIUSCOLA
Alla fine del 1930 dom Rafael arrivò a Massangulo in visita pastorale. Padre Calandri era a caccia per procurare un po’ di carne per fare festa al visitatore. Il prelato ne approfittò per domandare agli alunni i nomi della capitale d’Italia, del re e primo ministro. I ragazzi cascavano dalle nuvole. Il prelato sospettava che i missionari fossero la «lunga mano» di Mussolini.
A pranzo padre Calandri presentò al vescovo i progetti per aprire altre missioni: una al lago Niassa e un’altra a sud, a Mepanhira, dove un laico convertito in Malawi aveva costruito una bella comunità cristiana e faceva battezzare i catecumeni oltre confine. La risposta fu glaciale: «Nessuno ti incarica delle anime di Mepanhira».
La sera, a quattrocchi, dom Rafael scaricò tutta la bile che aveva in corpo. Rivangò la disobbedienza del 1926 e accusò il padre di non aver creduto alla sua buona fede. Accusò i superiori di Torino di collaborare col fascismo, perché avevano mandato in Mozambico troppo personale; se la prese con vari missionari, rei di averlo denigrato. Padre Pietro pianse tutta la notte. Ricorderà quel fatto come «il giorno di burrasca con la B maiuscola».
Prima di partire, dom Rafael scrisse sul registro dei visitatori una mezza pagina di lodi sperticate per il lavoro dei missionari e missionarie.
In fondo il prelato era d’animo buono e nutrì fino alla morte grande stima per i missionari della Consolata. Ma in quegli anni si trovava tra l’incudine e il martello. Unico vescovo del Mozambico, aveva bisogno di personale per evangelizzare immense regioni che non avevano mai visto un prete cattolico. Pio XI aveva definito il Mozambico «arretrato di 300 anni; macchia nera nella storia delle missioni». Al tempo stesso egli non voleva apparire troppo facilone agli occhi del dittatore portoghese Salazar, sospettoso verso tutti i missionari stranieri, specie se italiani.
Da parte sua, padre Calandri era fatto così: per difendere giustizia e verità non guardava in faccia nessuno; a volte rispondeva senza peli sulla lingua; altre volte reagiva col pianto. Ma non si arrendeva mai, specie quando la gente più indifesa gli chiedeva aiuto contro le prepotenze dei capi e capetti locali: se non riusciva a farli ragionare, egli ricorreva ad autorità sempre più alte, fino a ottenere giustizia. Si procurava qualche nemico; ma la gente lo chiamava bwana cilima (signore forte).
Anche le autorità civili lo ammiravano. Il dottor Oliveira, che visitò più volte Massangulo, descrisse così padre Calandri: «Un misto di eroe e artista, che incarna in sé tutta l’anima di un romano. Lavoratore instancabile, tutto prevede, a tutto arriva. Ha sempre una soluzione per le maggiori difficoltà, che sono enormi in un luogo così lontano dai mezzi civilizzati e con poco denaro».
ESILIO BRASILIANO
Nonostante la diminuzione del personale, padre Calandri riuscì a terminare i lavori programmati: collegi e scuole per oltre 200 alunni delle elementari; avvio dei corsi di arti e mestieri; elettricità in tutta la missione; trapianto di migliaia di piante coltivate nei vivai; frutteto e orto, campi di caffè e grano; scuole-cappelle in molti villaggi, affidate a maestri formati alla missione; nascita dei primi nuclei di famiglie cristiane.
Nell’agosto 1936 da Torino arrivarono nuovi rinforzi con una lettera del superiore generale, mons. Gaudenzio Barlassina, in cui era scritto: «Conveniente a padre Calandri andare a riposarsi in Italia».
La vacanza si trasformò presto in dramma: il superiore generale, senza tanti preamboli, lo destinò al Brasile per pitturare una grande chiesa. Calandri rimase impietrito; non riuscì ad aprire bocca per chiedere spiegazioni. Ma intuiva le ragioni: per risolvere il pasticcio del Mozambico, Roma aveva sostituito dom Rafael con dom Teodosio de Gouveia; Torino mandava padre Calandri in capo al mondo. «È l’obbedienza più costosa richiestami nella mia vita religiosa» racconterà più tardi.
Padre Calandri raggiunse il Brasile nel maggio 1937 e cominciò a pitturare la chiesa di Santa Teresina a São Manuel. Al tempo stesso si dedicava anima e corpo al lavoro pastorale, attirandosi la benevolenza della gente, dei poveri soprattutto. Esteamente era entusiasta e ottimista, ma quando era solo ritornava a galla la domanda: «Cosa ho fatto di male?». Sentiva quella destinazione come un castigo immeritato.
A moltiplicare i crucci contribuiva una certa telepatia; i presentimenti venivano confermati dalle lettere di alcuni orfani: ragazze e ragazzi, ormai cresciuti, erano stati allontanati dalla missione e mandati allo sbaraglio. «Tali notizie sono spine acute che mi fanno tanto male – scriveva. – I superiori non potevano trovare un supplizio più grande per farmi scontare le loro vendette personali».
Quattro anni di lotta interiore lo fiaccarono fisicamente, fino ad ammalarsi e cadere in una depressione spirituale, paragonabile alla notte oscura di cui parlano i mistici: si sentiva abbandonato dal Cuore di Gesù, di cui era devotissimo; cominciò a dubitare della sua vocazione; pensava di ritirarsi in un ordine religioso di aspre penitenze «per dimenticare tutti e tutto il passato burrascoso».
A salvarlo dalla disperazione contribuì l’amicizia dei confratelli, Fiorina e Bisio soprattutto. Questi scrisse ai superiori in Mozambico e a Torino perché intervenissero con un gesto di umanità, una lettera di stima e comprensione, per liberare Calandri dall’«agonia e terribile oppressione» che lo stavano consumando.
RICOMINCIA LA LOTTA
Nel 1940 arrivò il permesso di tornare a Massangulo. Un mese dopo Calandri era a Lourenço Marques. Dom Teodosio lo accolse con affetto: «Questo abbraccio serva, caro padre, a riparare quanto le ha fatto il mio predecessore».
Intanto nel Niassa erano sorte altre missioni: Mepanhira, Maua, Mitucué. Massangulo, però, navigava in cattive acque: orti, piantagioni e campi erano divorati dalle erbacce; gli orfani allontanati gettavano discredito sulla missione. Padre Calandri riprese la direzione della barca, ma la barra non rispondeva ai suoi comandi, ma a quelli del superiore provinciale, Domenico Ferrero. Era costui una tempra di missionario pari a Calandri, ma di mentalità totalmente differente. Ne scaturirono scontri e arrabbiature indescrivibili.
Finalmente il superiore provinciale ebbe la bella idea (o l’ordine) di stabilirsi a Mitucué. Padre Calandri rimase a Massangulo con i suoi collaboratori, lavorando in armonia e frateità. Massangulo cresceva fino ad accogliere oltre 500 alunni.
NUOVO TORNADO
Alla fine di maggio 1948 il vescovo di Nampula, dom Teofilo de Andrade, ricevette da Torino un telegramma firmato dal superiore generale: «Imbarcare padre Calandri sul primo bastimento. Se ricusa, applicare sanzioni canoniche». Il vescovo girò il messaggio all’interessato che, appena lesse la missiva stramazzò a terra come un sacco di patate. In calce, però, il vescovo aveva scritto: «Restare fino a nuovo ordine; inviterò il superiore a visitare le missioni del Niassa; dopo si deciderà».
«Che cosa ho fatto per trattarmi così?» si domandava il padre. A parte il parlare a ruota libera per difendere giustizia e verità, non si sentiva colpevole di nulla. Da tempo, però, circolavano critiche poco benevoli: la scelta del posto in cui era stata costruita la missione era in una zona totalmente musulmana; perdeva tempo con gli orfani meticci, da qualche testa fasciata definiti «figli del peccato»; la sua ospitalità aveva trasformato la missione in un albergo… Critiche che, a distanza e senza vedere la realtà, diventavano macigni.
Altri confratelli, però, lo ammiravano, felici di lavorare con lui. Le autorità civili e religiose lo portavano in palmo di mano. Un giorno dom Teofilo non esitò a dire in faccia al superiore: «Se i missionari della Consolata sono conosciuti e rispettati in Mozambico lo si deve a padre Calandri».
Nei primi di dicembre 1948 arrivò il superiore generale: era la prima visita canonica alle missioni del Mozambico. E fu «una bufera con tuoni e lampi». Chiamato a Mitucué, padre Calandri si sentì definire «testardo, prepotente, dispotico». Per ritornare nella sua missione gli fu chiesto di firmare un documento in cui, tra i vari punti, figurava l’ammissione di aver disubbidito all’ordine di tornare in Italia.
Calandri spiegò che l’ordine era diretto al vescovo: sarebbe toccato a lui spedirlo in Italia. Rifatto il documento e tolta la condizione incriminata, il padre era talmente stufo che firmò la copia originaria. Il giallo diventò disperazione: padre Pietro era deciso a recarsi a Nampula e chiedere al vescovo di accettarlo come prete diocesano. Il suo autista, però, conoscendo il padre e visto come si erano messe le cose, era scappato nella foresta con le chiavi dell’auto.
Il giorno seguente mons. Barlassina raggiunse Massangulo, accolto con addobbi, luci, canti e danze. Rimase sbalordito e non finiva di ripetere: «Che bello! Meraviglioso! Che bei viali! Ma questa è una città…». Passando in rassegna le opere della missione continuava: «Non sapevo che esistesse tutto questo ben di Dio». E quando padre Calandri lo portò a visitare alcune famiglie di mulatti, raccontando la storia di ciascuna, il superiore concluse: «In tutto il tempo passato in Abissinia non ho mai visto famiglie così bene educate». E per il resto della vita continuò a definire Massangulo «una meraviglia».
E FU BONACCIA FINALMENTE
Padre Calandri continuò a lavorare con il solito entusiasmo, determinazione e cuore rappacificato. Finalmente poteva realizzare sogni coltivati da tanti anni: la missione sul lago Niassa, a Cobué, posto strategico e, a quei tempi, quasi inaccessibile; un seminario «catacombale», poiché il nuovo vescovo di Nampula, dom Manuel de Medeiros, non era d’accordo; soprattutto la costruzione di una bella chiesa alla Consolata. «Cobué mi ha tolto dieci anni di vita» dirà più tardi. Nella costruzione della chiesa investì tutto il suo talento di architetto, artista e pittore: fu subito definita «la cattedrale del Niassa».
Intanto continuava a battagliare contro le ingiustizie, prima con i produttori di cotone, che sfruttavano la gente in modo vergognoso; poi con le autorità coloniali che, scoppiata la guerriglia indipendentista, vedeva terroristi dappertutto e molti innocenti venivano uccisi o torturati.
Ma gli acciacchi dell’età si facevano sentire. Diabete e una ferita al piede lo convinsero a tirare i remi in barca: nel 1962 chiese e ottenne di essere sostituito dalla responsabilità di superiore. Cominciò a passare ore e ore in contemplazione sia nella sua bella chiesa, sia di fronte alle meraviglie del Niassa, trasfigurandole nelle sue pitture.
Furono anche gli anni della gloria: il presidente del Portogallo in persona, Amerigo Tomas, volle appuntargli al petto la medaglia dell’Ordine di Cristo; dal governo italiano fu nominato Cavaliere della Repubblica; il Vaticano gli conferì la medaglia Pro Ecclesia et Pontifice. «Brutto segno – commentava -. Ti danno le medaglie quando stai per morire».
Nel 1967 celebrò il 50° anniversario di sacerdozio. Fu l’ultimo trionfo. Tre mesi dopo cadeva ammalato e il 12 agosto moriva nell’ospedale di Nampula. «Voglio che la mia anima scenda dal cielo a prendere il mio corpo a Massangulo» disse prima di morire. Fu sepolto nella sua «cattedrale». E lì riposa ancora, venerato come un padre da tutta la popolazione del Niassa, cristiani e musulmani.

Benedetto Bellesi




Ricordati del grembiule

Un giornocambia mestiere.
Un mestiere che lo «costringe» anche a vivere faticosamentecon africani e latinoamericani.
È la scelta di Pino, di San Vito dei Normanni (BR). Prete da pochi mesi, si appresta a raggiungere il Congo in guerra.

Negli anni ’84-85 infuriava la siccità in Africa, specialmente in Etiopia. I mezzi di comunicazione riportavano scene di morte. Ed io volevo fare qualcosa.
Visitai alcune associazioni di volontariato, offrendo la mia disponibilità per qualche mese d’impegno. Ma tutto era complicato, perché ero del sud, mentre quasi tutti gli organismi di volontariato operavano nel nord. Non potevo partecipare agli incontri di formazione.
Un giorno, a Lourdes, conobbi don Pietro De Punzio, che tutti gli anni andava in Africa per un’esperienza missionaria. «Pino – disse -, perché non vieni con me?». Ci andai: precisamente in Kenya, dai missionari della Consolata a Wamba. Non feci un granché, però vidi la vita tirata della gente e, soprattutto, compresi che non bastava un mese in Africa per essere missionario.
Intanto facevo il cuoco. Però l’esperienza di Wamba mi spinse a ricontattare in Italia i missionari della Consolata. «Posso lavorare con voi due anni?» chiesi a padre Giano. Poi lo raggiunsi a Bedizzole (BS). Qui capii che neppure due anni sono sufficienti per essere missionari. «Bisogna scegliere la missione ad vitam» disse padre Giano.
– Ad vitam! Che significa?
– È latino, ragazzo mio.
– Ma io sono cuoco.
– Un po’ di latino dovrai studiarlo, se vorrai essere prete-missionario.

Lasciai i fornelli
e, a 26 anni, ritornai sui banchi di scuola. Capii presto che il missionario vero offre agli altri tutta la propria vita, per sempre. Ecco cosa vuol dire «ad vitam».
Conseguii la maturità magistrale a Bedizzole, frequentai un biennio di filosofia a Torino e, dopo il noviziato a Vittorio Veneto, feci voto di povertà, castità e obbedienza. Con tale scelta, canonicamente ero missionario della Consolata. Cercai di spiegarlo anche a mamma Grazia, già vedova da 15 anni dopo la morte del papà per malattia.
– Pino, che significa missionario canonicamente?
– Significa che ora sono nella famiglia dei missionari della Consolata.
– E partirai subito per la missione?
– Non subito. Prima devo studiare teologia, per essere prete.
– Figlio mio, hai 32 anni. Chi troppo studia matto diventa.
Era la prima volta che la mamma si opponeva ai miei progetti. Ero l’ultimo di quattro fratelli e la mamma ha sempre avuto un debole per il più «piccolo», senza far torto agli altri figli già sposati. Mi concedeva libertà, che gestivo «facendo le stagioni» come cuoco in Puglia.
Ora, però, le costava perdermi. Il ragionamento della nuova famiglia non la convinceva. Inoltre, abituata a vivere con me e non più giovane, temeva la vecchiaia… Ma, dopo tante lacrime, sospirò: «Sia fatta la volontà di Dio». Lo mormorò in dialetto, che non so scrivere…
Studiai teologia a Roma in un seminario internazionale. Eravamo in 24 di 11 paesi. Nel primo anno ero l’unico italiano. Questo comportò delle difficoltà. Per esempio: accettare gli altri come sono e farsi accettare come si è. La diversità dell’altro, specie se di cultura diversa, fa paura. Ma non si deve accettarlo con idealismo, bensì con realismo, soprattutto negli aspetti discutibili. Discutibili siamo tutti.
Inoltre in seminario è facile farsi il nido. Al mattino si va all’università, poi ognuno studia in camera sua. Sì, c’è la preghiera comunitaria. Però il tempo per vivere insieme non è molto. Questo può favorire l’individualismo, che è pericoloso per un missionario.
Dietro a queste parole, c’è una verità scomoda, di fronte alla quale talora ci si tira indietro… Anch’io mi sono detto: «Lascia perdere, Pino. Ritorna a fare il cuoco».
In quel momento di crisi, il mio formatore mi ha chiesto a bruciapelo: «Com’è la tua preghiera?». Allora ho capito che, prima di riindossare il berretto dello chef, dovevo fare «qualcos’altro».

Divenuto prete
il 7 ottobre 2000, oggi sto studiando francese. Nel mio orizzonte c’è il Congo di Mobutu e Kabila, ma anche degli ugandesi e rwandesi che gli hanno dichiarato guerra. Una guerra che in due anni circa ha mietuto quasi tre milioni di morti. Volevo una missione «forte». Eccomi servito, a 37 anni, dopo 11 di attesa.
Alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, ho ricevuto un regalo significativo: un grembiule. Mi ricorda il mio passato di cuoco e cameriere. Ho trascorso anni a servire nei ristoranti. Oggi inizio un servizio diverso con un nuovo grembiule.

Pino Galeone




Il silenzio è complice del male

Una «nuova colonizzazione» per l’Africa? Nonscherziamo, per favore!
Il problema del continente africano e del mondo intero è un sistema economico dove detta legge una «trinità satanica», formata da «Fondo monetario
internazionale», «Banca mondiale» e «Organizzazione mondiale del commercio». Un mondo unificato sotto le insegne dell’«impero del denaro» (il cui cuore pulsante è la speculazione finanziaria), dove la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa. Parole di fuoco (e, a volte, anche discutibili) quelle di Alex Zanotelli, missionario scomodo.

LA «TRINITÀ SATANICA»

È riduttivo dire che l’Africa è in pasto alle multinazionali. Non si tratta solo di questo. La cosa è molto più sofisticata. Le multinazionali, essendo molto intelligenti, usano le strutture inteazionali per fare la loro politica. In particolare, usano il «Fondo monetario», la «Banca mondiale» e l’«Organizzazione mondiale del commercio» (io li chiamo la «trinità satanica» dell’impero del denaro) per portare avanti i loro interessi.
Ricordate il Mai, l’«accordo multilaterale sugli investimenti», che (per ora) siamo riusciti a bloccare? Esso non è altro che la politica delle multinazionali per entrare negli stati e prendersi i mercati senza colpo ferire.
Il Mai è stato poi tradotto e affinato dagli Stati Uniti nel «Nafta for Africa» («African Growth and Opportunity Act», approvato dal congresso nordamericano lo scorso maggio).
Qual è la filosofia che sottende? In pratica la seguente: diminuire il potere degli stati, perché «meno stato c’è, meglio si va»; abbattere tutte le barriere, affinché i potentati economici siano facilitati ad investire e comperare ovunque. Una multinazionale può comperare quello che vuole.
Guardate quello che sta avvenendo in Mozambico, dove le multinazionali (magari attraverso i boeri del Sudafrica) si spostano là per acquistare migliaia di ettari di terreno. Lo comperano in chiave agricola, con un occhio di riguardo per il sottosuolo.
La politica è quella di favorire una agricoltura da esportazione e non per la sussistenza. Il Kenya produce tè e caffè, ma il caffè buono lo potete bere solo in Italia e il tè buono solo a Londra. I kenyiani o non lo bevono o hanno il peggiore. Questo è il tipo di logica.
Pensate al Congo, con una guerra voluta, ma voluta fino in fondo e andrà avanti così. Perché meno stato c’è in Congo, meglio le multinazionali funzionano. Le multinazionali dell’oro, dei diamanti, del cobalto hanno i loro eserciti.
Pensate al ruolo del Sudafrica (e qui Mandela si è fatto… fregare). Nella guerra del Congo sono coinvolte 11 nazioni, una vera guerra mondiale o continentale almeno. Ho visto le statistiche: si parla di 1 milioni e 700 mila morti in 22 mesi di guerra. Ma sui nostri giornali e le nostre televisioni non se ne parla…
Ora sto a guardare cosa farà la politica nordamericana nel Sudan, perché, da quanto mi dicono, i giacimenti di petrolio sudanesi sono i più grandi del mondo. Si dice che gli Stati Uniti potrebbero fare a meno del petrolio mediorientale se il petrolio del Sud Sudan andasse a Mombasa…
Nel 1998 Clinton fece un lungo viaggio africano proprio per promuovere la filosofia americana del «trade, not aid» (commercio, non aiuto). Chiarissimamente per favorire gli Stati Uniti (utilizzando la potenza amica e subalterna del Sudafrica) nella conquista di un grande mercato potenziale di 700 milioni di consumatori! È questo in fondo quello che sta dietro a tutto. Ormai i mercati sono saturi. Non sappiamo più a chi vendere, continuiamo a produrre, ma alla fine dobbiamo domandarci per chi produrre. L’Africa è un mercato nuovo, perché non aprirlo?, si sono detti gli americani. Sapete che, durante il suo ultimo viaggio in Nigeria, Clinton aveva con sé 1.000 uomini d’affari statunitensi?
Questo è lo scopo essenziale. Questa legislazione permetterà ai presidenti americani di stipulare accordi bilaterali con i presidenti degli stati che risponderanno ai requisiti di «elegibility». È chiaro che le nazioni africane desiderano moltissimo entrare nell’accordo. Perché vedono arrivare i soldi americani. È una maniera per salvarsi dal suicidio collettivo in cui l’Africa sta sprofondando.
E ora che gli Stati Uniti si stanno preparando per un altro grande trattato: quello con la Cina. Quello con l’Africa è soltanto l’antipasto, dopo c’è la Cina. Con il Nafta per l’Africa gli Stati Uniti stanno entrando (ma entrando alla brutta o alla grande) nel continente.
Dal Nafta per l’Africa sta emergendo chiaramente che la politica americana è di un imperialismo incredibile. Mi fa un male boia ammettere questo, perché gli Stati Uniti partirono (solo 200 anni fa) ribellandosi contro il colonialismo britannico. Tredici repubbliche che volevano la loro dignità e che sognavano un mondo alternativo. Guardate in 200 anni come si può cambiare.
PRIVATIZZARE… LA MISERIA
Altrettanto importante è la logica delle privatizzazioni. Osservate l’insistenza sul privatizzare l’educazione, la sanità… Sapete cosa vuol dire questo per l’Africa? Cosa significa per 300 milioni di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno? Significa privatizzare la miseria. Anche in Italia questo tipo di politica la pagano i poveri. Negli Stati Uniti oggi siamo arrivati a 40 milioni di poveri. Mai il paese più potente del mondo era arrivato ad avere un tale numero di poveri…
Io non ho bisogno delle statistiche per capire la sofferenza della gente. Basta che guardi Korogocho e il Kenya. La scuola è un macello: i ragazzini non riescono più ad entrarvi, perché i genitori non hanno soldi per pagarla. E mi riferisco alla scuola pubblica! Fra qualche anno a Nairobi ci sarà il 50 per cento di ragazzi che non potranno entrare in prima elementare. Sapete cosa vuol dire il 50 per cento in una città di 4 milioni di abitanti? È una bomba! Ecco il risultato delle privatizzazioni.
Vedo la sofferenza della gente che non può più andare a curarsi all’ospedale, perché non ci sono soldi. Vedo sempre più gente che abbandona i cadaveri al governo o che cerca di seppellirli di nascosto…
Una volta vidi un uomo disperato, perché gli era morto il bambino. Questo padre era andato al fiume per cercare di seppellire il figlio, ma la gente lo aveva notato. Da tre giorni teneva il bambino morto in casa, perché non aveva i soldi per seppellirlo. Alla fine, l’uomo chiese una cosa soltanto: essere aiutato per tornare al suo villaggio, dove la sepoltura gli sarebbe costata molto meno. Pose il corpicino in un sacco e con esso si mise in viaggio.
Questi sono i drammi quotidiani che viviamo in Africa.
Lo stesso Fondo monetario internazionale dice che 1 su 5 bambini in Africa muore prima dell’età di 5 anni. Il 50 per cento degli africani vive sotto la linea della povertà assoluta e il 40 per cento con meno di un dollaro al giorno. L’interesse sul debito assorbe già oggi l’80 per cento di tutto quello che le nazioni africane ottengono vendendo i loro prodotti sul mercato. Il 40 per cento degli africani soffre di malnutrizione e di fame; oltre 42 milioni di bambini non riescono ad entrare in prima elementare. L’Africa è il solo continente al mondo dove l’immatricolazione nelle scuole è in declino, è l’unico continente dove l’educazione perde di qualità perché non ci sono più soldi per investire.
Quando avete una situazione economica del genere e fate passare una legislazione come quella del Nafta per l’Africa, io non ho dubbi nel dire che si tratta di un genocidio pianificato.
Però, sento gente come Indro Montanelli e Sergio Romano, ma anche padre Piero Gheddo, che invocano una nuova colonizzazione per l’Africa. Fare affermazioni di questo tipo è scandaloso, dopo tutto quello che abbiamo fatto a quel continente.
LA VERGOGNA DELLE ARMI ITALIANE
In Italia, a tutte le manifestazioni cui partecipo, continuo a ripetere: ma voi sapete da dove vengono molte delle armi (soprattutto le cosiddette «armi leggere») delle guerre africane? Dal nostro paese. Però, un silenzio incredibile è calato su questo problema. È scandaloso che si vada avanti a spendere quello che spendiamo in armi, a produrre quello che produciamo in armi.
L’altro giorno ero a Quarrata (Pt) con il capogruppo di rifondazione della Camera, Giordano. Questi mi ha detto: «Alex, hai saputo le ultime novità?» No, dico, vengo da Korogocho e le ultime novità non le so. Cosa c’è? «L’Italia ha appena comperato l’Eurofighter, un aereo da guerra del costo di 120 miliardi. E ne ha ordinati 100».
È possibile che debba venire un imbecille da Korogocho per ricordarvi questo? Questo è un fatto di una gravità estrema. Non so perché Pax Christi non protesti immediatamente. Non si trovano soldi per le scuole, per la sanità e li trovano per 100 aerei militari. Ma per fae che cosa? Domandatevelo.
Voi sapete tutte le armi che si producono in questo paese? Ma è possibile che in Parlamento dorma ancora la norma sulle armi leggere? C’è una proposta per mettere al bando la loro produzione e l’export. Ma la legge non va avanti.
Però quello che più mi preoccupa è il vostro silenzio. Quando sento queste cose io mi sento male e mi domando perché nessuno protesti. Sulle armi vi prego di tornare agli anni Ottanta; allora c’era molta più vivacità in questo paese, c’era molto più senso della lotta.
Ronald Reagan (un presidente che io metto a fianco di Stalin, per tutti i massacri che, coscientemente, ha perpetrato nel Centro America) per primo parlò di guerre stellari. Poi però rinunciò a quel folle progetto. È concepibile che ora se ne torni a parlare? Può darsi che Gore abbia qualche idea più liberale di Bush, ma alla fine chiunque vinca deve fare quello che la logica del mercato richiede. Altrimenti non vanno avanti.
NO AL «DIO» DEL SISTEMA
Davanti a noi non c’è soltanto l’Africa, ma è l’intero mondo che è minacciato, gravissimamente minacciato di morte. Tutti noi siamo minacciati. Questo è un sistema che crea morte a tutti i livelli.
L’Africa è emblematica come continente e su di essa scende sempre il silenzio e il non parlarne accresce ancora di più l’impressione. L’Africa è un paradigma dove impegnarsi.
Io ho come riferimento la tradizione profonda della bibbia e del giubileo. Il quale, per favore, non è roba da pellegrinaggio, soprattutto in questo tipo di società. Sono tutte cose che facciamo, ma il giubileo biblico è un’altra cosa. Non lo possiamo dimenticare. Il giubileo biblico è «il sogno di Dio».
Il problema di oggi non è l’ateismo. Per me l’ateismo è il primo passo verso la fede. Quando abbiamo ridotto Dio al dio del sistema, al dio degli Stati Uniti, al dio di questa società, l’unica maniera per riscoprire la fede è l’ateismo perché devi sbarazzarti di «questo» dio.
Il vero problema è il materialismo quotidiano, l’idolatria. Anche noi come chiesa abbiamo adottato tutti gli idoli di questa società dal massimo profitto: soldi, successo e via di questo passo.
Fare giubileo vuol dire ritornare al «sogno di Dio», legare economia e vangelo. Un gesuita inglese dice: noi leggiamo il vangelo come se non avessimo soldi in tasca e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del vangelo. E questa è la nostra realtà. Ecco perché siamo così integrati, così parte del sistema. Il giubileo è una cosa seria, è ritornare all’ideale che ci può essere una economia di uguaglianza dove i beni di questo pianeta servano a tutta la gente del mondo. Significa ritornare a una politica di giustizia, perché solo questa permetterà una economia di uguaglianza. Significa ritornare ad una esperienza di Dio, dove Dio è sentito come il Dio di schiavi, oppressi, marginalizzati, forestieri, immigrati. Di tutta la gente, insomma.
LA BOMBA DEI POVERI
Io dico a tutti di svegliarsi, perché l’altra bomba atomica è proprio quella dei poveri. Può scoppiare in qualsiasi momento. E, se scoppia, sorrideremo sul macello del Rwanda.

IL CAMMINO DI LILLIPUT

Oltre mille persone si sono ritrovate nel primo incontro nazionale della «Rete di Lilliput». Questa è la dichiarazione finale preparata dal Tavolo intercampagne e letta da Alex Zanotelli.

Marina di Massa, 6-7-8 ottobre 2000.

Nel momento in cui le leggi del profitto pretendono di dominare ogni ambito del vivere umano distruggendo la base naturale su cui si fonda la vita sul Pianeta e la politica è incapace di contrastare lo strapotere dell’economia dominante, noi oltre mille tra semplici cittadini, associazioni e gruppi, riuniti a Marina di Massa per il primo incontro della Rete di Lilliput, rivendichiamo il diritto di riappropriarci della facoltà di decidere sul nostro futuro e ci sentiamo parte integrante di una nuova forma di cittadinanza sociale che sta prendendo corpo nel Pianeta e che ha avuto una sua prima manifestazione a Seattle.
Nel contempo affermiamo che non basta battersi contro le principali storture del sistema, ma che dobbiamo ricercare delle alternative eque e sostenibili a questo assetto economico che genera esclusione, ingiustizie e distruzione del Pianeta.
I tratti fondamentali dell’alternativa che noi ci impegniamo a costruire si basano sulla sobrietà, la riduzione dell’impronta ecologica e sociale, l’esaltazione dell’economia locale ed il riconoscimento che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti gli abitanti del Pianeta. Noi ci impegniamo fin d’oggi a costruire questa prospettiva organizzando gruppi di lavoro e campagne:
– per riaffermare la dignità del lavoro e la democrazia economica, costringendo le multinazionali alla trasparenza e alla responsabilità sociale e ambientale
– per ottenere una radicale riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale che fino ad oggi hanno generato disuguaglianze e oppressione sociale
– per l’annullamento del debito e il riconoscimento del debito ecologico dei paesi del Nord verso quelli del Sud
– per ridurre l’impronta ecologica e sociale dell’Italia proponendo alle famiglie un diverso modo di consumare, e spingendo gli enti locali e le istituzioni nazionali alla costruzione di filiere produttive alternative
– per promuovere la riconversione dell’industria bellica, per spingere le banche a non finanziare i traffici d’armi, per promuovere la tutela e i diritti dei migranti.
Sul piano della vita intea della Rete vogliamo costruire dei rapporti che esaltino la partecipazione, l’identità dei gruppi locali e il loro radicamento sul territorio, la costruzione di campagne comuni proponibili da tutti i punti della Rete, la costruzione di una struttura leggera di riferimento nazionale con compiti di informazione e servizio. Sappiamo che la nostra Rete costituisce una sfida per tutti perché è una novità assoluta che rompe con gli schemi del passato. Per questo ci impegniamo ad avviare un approfondimento interno a tutti i livelli per individuare forme ottimali di aggregazione e dilazione. Un segnale importante che va in questa direzione è la nascita di gruppi tematici emersi durante lo svolgimento dell’assemblea. Il primo passo di questo cammino è la costituzione di un gruppo di lavoro composto dal nodo locale genovese e dal tavolo intercampagne per organizzare la nostra opposizione alle politiche del G8 che si riunirà a Genova nel 2001.

L’IMPERO DEL DENARO

Caro onorevole, jambo! Penso che il viaggio in Africa e la visita a Korogocho sia stato un evento importante per te. Ti sarai accorto che vedere con i tuoi occhi e sentire con il tuo naso è tutt’altra cosa che guardare gli esclusi, in televisione o leggerli nelle statistiche.
Penso che le sofferenze dei poveri hanno cominciato a cambiarti come uomo: in questo ti sento vero e sincero.
Come leader politico ti ringrazio perché stai tentando di mettere l’Africa e la povertà globale al centro del dibattito. Non vorrei però che le sofferenze dei poveri diventassero semplicemente oggetto di manipolazioni, tatticismi e furbizie per ottenere consensi elettorali.
Per questo ho sentito il dovere di scrivere questa lettera aperta in cui esprimo la mia maniera di guardare alla realtà e ciò che da questo sguardo ne consegue.
Io guardo il mondo stando dalla parte degli impoveriti, cioè dalla parte dell’80% dell’umanità. Lo faccio come credente, perché tutta la tradizione biblica, ebraica e cristiana, da cui provengo sta dalla parte degli esclusi, perché il Dio di Mosé non è il Dio dei faraoni o di Clinton, ma il Dio dei crocefissi. Per la prima volta nella storia, il mondo è retto da un unico sistema: l’impero del denaro, il cui cuore è la speculazione finanziaria. Mai nella storia si era visto un impero tanto vittorioso e suadente, grazie alla forza dei mass media, da prenderci tutti nella sua ideologia.
Viviamo in un sistema economico dove il 20% degli uomini si pappa l’82% delle risorse a spese del resto dell’umanità. Il 20% dei più poveri ha a disposizione solo l’1,4% dei beni. Per me questo è un sistema di peccato. E la politica che cosa fa? Oggi la politica è al guinzaglio dell’economia, totalmente asservita ad essa.
Questo sistema di oppressione si regge sullo strapotere delle armi: spendiamo ogni anno 800 miliardi di dollari in armamenti (ma il muro di Berlino non era crollato?). A che cosa ci servono? Per difendere i nostri privilegi dalla minaccia dei poveri.
Non dimentichiamo che chi vive nell’opulenza e la difende a denti stretti pone anche una gravissima ipoteca ambientale. Molteplici studi ci dicono che abbiamo non più di 50 anni per cambiare: è in ballo la vita del pianeta. L’impero del denaro uccide, quindi, con la fame (30 milioni: un «olocausto» ogni anno), con le armi (conflitti africani, regimi repressivi, guerre stellari), con la distruzione dell’ambiente, con l’annientamento delle culture.
È un sistema di morte che ci interpella tutti, credenti e non, perché mina la vita stessa. Se questa analisi è vera e condivisibile, dobbiamo smetterla di raccontarci la storia di uno «sviluppo sostenibile». O cambiamo rotta o cadiamo nel baratro.
Tocca alla politica reinventare la politica e anche lo stato, perché l’economia torni a servire la polis. La politica e il far politica devono rispondere alle esigenze della gente e soprattutto della vita, della vita per tutti.
Alex Zanotelli

(*) Sintesi di una lettera aperta indirizzata da padre Zanotelli a Walter Veltroni. La scorsa estate il segretario dei Ds aveva effettuato un lungo viaggio in Africa, visitando anche Korogocho. Quell’esperienza è stata raccontata nel libro Forse Dio è malato (Rizzoli, 2000).

IL DIVERSO E’ VERAMENTE UNA MINACCIA?

Le affermazioni del card. Biffi sull’immigrazione islamica sono di una gravità estrema. Ne sono rimasto esterrefatto, perché se incominciamo a dividere la gente così, non usciamo più dallo scontro. E potremmo davvero muoverci verso forme di pulizia etnica.
La grande domanda posta da Susan George è semplicissima: il miliardo e mezzo di persone, i poveri, gli inutili per il sistema attuale, hanno diritto sì o no di vivere? Sapete voi quanti episodi di razzismo ci sono in giro? È chiaro che c’è un rifiuto dell’altro. E guardate che qui anche Marx (che pure ha indovinato tante cose) si è preso una bella sventola. La teoria marxista, riprendendo quella di Rousseau, afferma che l’uomo è buono: è la società che lo rende cattivo. Purtroppo altri hanno dimostrato che la violenza non viene dalle istituzioni, ma da ogni uomo. Il rifiuto dell’altro ce lo portiamo dentro. Me lo trovo anch’io, a Korogocho, tra i derelitti.

Un giorno incontrai una ragazza di 23 anni. La salutai, chiedendole come si chiamasse. Lei rispose: «Mi chiamano Omarì». Come – dissi – ti chiamano, ma tu come ti chiami? «Mi chiamano». E io: non prendermi in giro! «Mi chiamano Omarì» insistette. Allora chiesi: a che etnia appartieni? «Non lo so». La guardai stupefatto: sei il primo africano che non sa a che etnia appartiene; l’appartenenza è talmente forte per un africano! «Tu non mi conosci, Alex. Io sono una ragazza che, piccolissima, si è ritrovata sulle strade di Nairobi insieme ad altri ragazzi e loro mi chiamavano Omarì. Non so quale sia il mio vero nome, non so chi sia mio padre, mia madre, non so niente. Sono cresciuta sulle strade. Un giorno, verso i 12-13 anni, un uomo mi violentò ed ecco il mio primo bimbo. Andai avanti così. Poi un secondo uomo mi fece violenza ed ecco il secondo bimbo. A quel punto, vinta dalla città, scappai nella discarica vicino a Korogocho. Qui la gente mi guardava e chiedeva da dove venivo, cosa facevo, perché non ero dei loro. Alla fine mi hanno sbattuta fuori. Fuori dalla discarica».
Le domandai dove era andata a vivere. «Vivo nella parte estrema di Korogocho, raccogliendo frutta marcia per me e i miei bambini e, di notte, dormendo anche sotto le bancarelle che di giorno vendono frutta. Alex aiutami!». La mandai nel gruppo della discarica dove per un po’ fu aiutata. Poi sparì.
Poche settimane fa Omarì è ritornata. Con tre ragazzi… Ho guardato la bambina più grande e le ho chiesto: e questa chi è? La ragazza mi ha risposto: «L’ho incontrata l’altro giorno per strada. Le ho chiesto chi fosse e dove erano i suoi genitori. Lei mi ha detto: non li conosco, non ho nessuno, posso venire con te?». Insomma, oggi Omarì è una donna di 23 anni con tre bambini… Non ho potuto fare altro che dirle: «Vieni, vieni con noi, Dio provvederà!».
Una storia assurda per una logica assurda che esclude, perché «non è una di noi, non è dei nostri».

Oggi in Italia è importante uscire da questa logica dell’altro. Provo una grande sofferenza nel vedere il razzismo crescente, il rifiuto dell’altro, anche in chiave religiosa. Io dico a tutti: perché abbiamo paura dei musulmani? Ho studiato teologia musulmana, corano, arabo classico, storia, e ne sono rimasto profondamente impressionato. Quando, per esempio, leggevo i mistici musulmani, non ci trovavo nessuna differenza con Giovanni della Croce o Teresa d’Avila. Quanto più entriamo nella realtà e le situazioni si rivelano complesse, tanto più i nostri slogan diventano semplicistici. Perché tutto ciò che non è bianco non è nero. Tutto ciò che non ci appartiene non è contro di noi, tutto ciò che non è cristiano non è marxista, tutto ciò che non è musulmano non è imperialista o diabolico, tutto ciò che non ci rassomiglia non è una minaccia. Le generalizzazioni, alimentate dalla propaganda politica e religiosa, sono un pericolo.
Al.Za.

Alex Zanotelli




Trentotto minuti, predica inclusa

Fra le messe africane (che si protraggono anche per due ore)e quelle italiane (che non devono superare i quaranta minuti, omilia compresa)
esiste una via di mezzo?
Ma, più che al tempo, bisogna mirare alla qualità,
specialmente da parte del sacerdote.
Per celebrare e far festa.

Di ritorno dal Kenya,
una domenica celebro la messa nella chiesa di un mio amico parroco. Al termine, il sacerdote mi invita per un caffè. «Bene, bene. Vedo che non hai dimenticato l’italiano e che sei abbastanza sbrigativo» mi dice.
È un complimento. Ma per me è più amaro del caffè in cui ho dimenticato di mettere lo zucchero.
In Italia mi mancano molto le liturgie africane, così piene di vita, dove il tempo non conta. Invece, nel nostro «stivale», prova a superare i 10 minuti di predica e vedrai subito la gente guardare l’orologio con impazienza. Già, in Italia il tempo è denaro! Anche se abbondano le chiacchiere televisive, giornalistiche, salottiere…
Durante la messa si intonano quei tre-quattro canti che tutti conoscono (o quasi), ma si cantano solo poche strofe. Alla fine ci sono gli avvisi del parroco, la benedizione… E, mentre ci si avvia in sacrestia, si controlla l’orologio: 38 minuti e mezzo. Così va bene. Guai a sgarrare!
Un’altra domenica il parroco non c’è. Dopo la comunione, mi permetto un momento, brevissimo, di silenzio. In sacrestia il chierichetto (mio nipote) mi chiede se mi sia addormentato…
Oggi si parla molto di «religioso» come elemento strutturale dell’uomo. Di fronte al disorientamento provocato dalla società dei consumi, si auspica un ritorno al sacro. È vera fede? O un semplice desiderio di tranquillità psicologica, distensione? In tale contesto le sètte mietono numerosi proseliti.
L’africano ha insito il senso sacro della celebrazione e della festa. Per lui celebrare significa festeggiare.

Prima del Concilio
ecumenico Vaticano II, in chiesa esisteva una separazione tra il sacerdote e il popolo. Si celebrava l’eucaristia in una lingua morta (il latino), con la preghiera più significativa (il canone) in silenzio, voltando le spalle alla comunità. Sui banchi si contavano molte donne con la corona del rosario in mano. Oggi, però, tutto questo è solo un ricordo dei cinquantenni.
Ma la presente messa, in Italia, è davvero quella voluta dalla riforma liturgica del Concilio? Ne dubito. E rimpiango le celebrazioni nella mia parrocchia in Kenya.
Nella pasqua Gesù Cristo ha realizzato la nostra salvezza. Celebrare e festeggiare l’eucaristia è attualizzae il mistero. Parola, rito, canto, danza, silenzio: tutto ha valore.

Quando ero bambino,
la domenica era una festa anche esteamente. Per la messa si indossavano le scarpe e i vestiti migliori, non quelli di tutti i giorni. Una volta a casa, bisognava cambiarli subito per non sciuparli. È quanto sta avvenendo oggi in Africa. La domenica è festa e la gente (soprattutto la più povera) viene in chiesa con gli abiti migliori. Non sono «firmati», ma i colori sono sgargianti.
Spesso mi chiedo come riescano i giovani e le ragazze del Kenya a conservare così bene i loro vestiti in abitazioni di fango, senza armadi, e come facciano a salvaguardarli dalle capre, che sono così di casa…
Penso pure ai gruppi neocatecumenali. Dopo numerosi incontri di formazione, ecco finalmente la domenica con la messa. I nuovi membri del gruppo sono invitati a vestirsi bene, quel giorno, per partecipare ad «un avvenimento molto importante». È celebrazione, festa.
Le comunità africane
sono giovani, piene di vita e giorniose, anche se soverchiate da enormi problemi. Amano far festa. I canti, le danze e i tamburi esprimono anche fede.
Le comunità italiane, invece, mi sembrano talora vecchie e stanche; forse hanno perso la gioia di vivere, di celebrare, di cantare.
Ricordo le animate discussioni, in Kenya, con qualche maestro di canto. Era difficile fargli capire che, alla domenica, non era sempre necessario cantare tutto il… cantabile! Qualche volta il «credo» si poteva anche «recitare». Allora il choirmaster mi «boicottava», anticipando con il canto la mia recitazione. E che sforzo far capire al coro che, di una lode di 20 strofe, se ne possono cantare anche soltanto 15! «Niente affatto! Bisogna cantarle tutte» era la risposta.
È con grande nostalgia che risento le preghiere spontanee dei fedeli da ogni angolo della chiesa: implorano aiuto, guarigione, pioggia. Drammatiche queste ultime, quando sui campi il granoturco e i fagioli ingialliscono anzi tempo per la siccità, e il cielo continua ad essere terso. Mi chiedo spesso come Dio non si commuova a tali suppliche. Forse ha problemi di udito anche Lui?

Oggi sono in Italia,
dove l’eucaristia non deve superare i 40 minuti. «La messa è finita» dice il prete. Mi sembra che qualcuno tiri un sospiro di sollievo. Dio è servito. Adesso si può vivere tranquilli per un’altra settimana.
E i giovani dove sono? Se non vanno più in chiesa, è tutta e sempre colpa loro? Come possono accettare liturgie così «pallose», senza il senso della festa? Allora la discoteca diventa la loro chiesa. Forse sono proprio i nostri giovani ad apprezzare le liturgie africane, così «gasate»! Dimenticando l’orologio.
Quanto a me, spero di non abituarmi ai 38 minuti e mezzo di messa. Cercherò di spiegarlo anche al parroco, mio amico. Se mi riesce. E lui capirà?

Adamo Nostalgia




Quando le genti non balbettano più

Qual è per la chiesa l’eredità più ricca del secolo appena trascorso?
Senz’altro il Concilio ecumenico Vaticano II.
Il Concilio è una grazia anche per il 2000.
«Missioni Consolata»
ne ricorda il decreto sull’attività missionaria,
aggiornato da altri significativi documenti.
E sorge spontanea
la domanda:
dopo 35 anni
di «Ad gentes»,
i missionari
sono in crescita?

R icordo ancora il libro di Piero Gheddo Concilio e terzo mondo del 1964. Dal titolo se ne intuiva già il contenuto; ma più espliciti erano la copertina e il suo retro, che riportavano foto di vescovi e cardinali provenienti soprattutto dal sud del mondo. Così pure la «seconda» e la «terza» di copertina. Complessivamente si contavano 30 prelati con tricorno, zucchetto, colbacco, fez o altri copricapo.
Il libro attirò la mia attenzione anche perché, tra le foto, spiccava quella di Carlo Cavallera, missionario della Consolata, vescovo sui verdi altopiani di Nyeri e, poi, nel deserto di Marsabit (Kenya). Con lui trascorsi alcuni mesi a Roma durante il Concilio ecumenico Vaticano II.
«Nell’aula conciliare – confidò un giorno monsignor Cavallera – c’è battaglia tra noi missionari e gli altri vescovi: vogliono liquidare in fretta il problema delle missioni, facendone un’appendice di qualche altro tema. Ma noi insistiamo per un documento a parte, perché il futuro della chiesa si gioca soprattutto nel terzo mondo. Eppoi: la chiesa è o non è missionaria?».
Vinsero la battaglia i padri conciliari missionari, ma sul filo di lana. Ecco perché il decreto su «l’attività missionaria della chiesa» fu approvato «in zona Cesarini», cioè il 7 dicembre 1965, ad un solo giorno dalla chiusura del Concilio.
Barbari, pagani e Genti
Il documento sulle missioni è noto come «Ad gentes», le due parole latine di inizio: un’espressione che si è imposta specialmente fra i missionari. «Ad gentes» significa «alle genti».
E chi sono le «genti»? Il termine ricorre nelle lettere di san Paolo, che si definisce «apostolo delle genti», mentre san Pietro è «apostolo dei giudei» (cfr. Gal 2, 8). Nella concezione di Israele, «popolo eletto», l’umanità è divisa in «ebrei» e «genti».
Esisteva anche un’altra distinzione: «greci» e «barbari». Questa era etnocentrica: esprimeva un giudizio tutt’altro che positivo sui «barbari». Infatti barbaròs, secondo l’etimologia greca, era colui che (parlando una lingua straniera) balbettava; significava pure rozzo, incivile e crudele.
«Genti», invece, era un termine neutro e, forse, più rispettoso sotto il profilo culturale; ma non nella valutazione dell’ebraismo, perché «le genti» praticavano l’idolatria, sinonimo di peccato… Fu un merito di san Paolo, il più grande missionario di tutti i tempi, l’essersi dedicato all’evangelizzazione dei «non ebrei» e avere imposto alla chiesa nascente l’apertura a tutti i popoli.
Accanto a «genti» e «barbari», ricorreva anche «pagani». Era una parola innocua: definiva semplicemente gli abitanti dei villaggi di campagna. Ma, a partire dal quarto secolo, «pagani» assunse un significato negativo, in contrapposizione a «cristiani». Il messale romano, edito dal papa Pio V e riformato da Pio X, conteneva una Missa contra paganos, in cui si invocava Dio «affinché i popoli pagani, che confidano nella loro ferocia, siano schiacciati».
Oggi, caduto l’uso di «pagani», resta quello di «gentes», che designa coloro a cui non è stato annunciato il vangelo. È da sottolineare l’«ad» gentes. La preposizione ad significa «verso»: suggerisce attenzione, disponibilità e comprensione verso i popoli da evangelizzare.
Dunque: non «contra», ma «ad» gentes.
«Sembra strano (però ce lo dobbiamo pur dire) – commentava a Torino il cardinale Anastasio Ballestrero – che qualche volta facciamo i missionari con spirito di conquista, di dominio, per contare le nostre vittorie e i nostri trionfi».
Al contrario, la chiesa non deve mirare ad ambizioni politiche, sociali o religiose; non è mandata per giudicare, ma per salvare e servire.
Non basta un tocco
di vernice
Già prima del Concilio ecumenico Vaticano II, alcuni missionari illuminati avevano parlato di «adattamento» alle culture dei popoli. Poi il decreto Ad gentes ha richiesto che, nei paesi di missione, la vita cristiana fosse «commisurata al genio e all’indole di ogni civiltà» (n. 22). Si è auspicato un cristianesimo più rispettoso delle culture: quindi adattato nello stile delle chiese e nelle celebrazioni liturgiche, con la valorizzazione di canti, ritmi e danze locali. Ma era un modo di evangelizzare ancora superficiale.
Pertanto dall’«adattamento» si è passati all’«inculturazione», cioè all’incarnazione del messaggio evangelico in una cultura non cristiana e non europea. È un problema complesso. Ci si dibatte tutt’oggi.
Il nocciolo della questione è il seguente: l’accoglienza del vangelo deve sfociare nella nascita di nuove espressioni cristiane. Ebbene: sono state composte orazioni eucaristiche particolari e manuali di preghiere che accolgono elementi tradizionali. Ma non basta. Si richiedono elaborazioni teologiche «dal» sud del mondo.
Incombe però un rischio: quello del miscuglio, della confusione, del sincretismo. Ciò crea sconcerto e (fatto assai più negativo) divisione. Ecco perché nell’esortazione apostolica del 1975, Evangelii nuntiandi, Paolo VI insistette sull’evangelizzazione delle culture: «Occorre evangelizzare, non in modo decorativo, a somiglianza di vernice superficiale, la cultura e le culture dell’uomo, partendo dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (n. 20).
Tuttavia i pericoli, insiti talora nelle novità, non devono comportare il riflusso verso posizioni teologiche stantie. Si camminerebbe fuori della storia. Il servizio dell’evangelizzazione deve continuare con coraggio, «anche quando bisogna seminare nelle lacrime». Parole di Paolo VI.
un «Ad gentes» in crescendo
Il decreto sull’attività missionaria della chiesa Ad gentes è da completarsi con altri documenti conciliari: specialmente la costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen gentium, il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis umanae, la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.
Sono testi che sollevano problemi cruciali per il missionario: si pensi alla Nostra aetate nel contesto del Sudan, dove i cristiani sono perseguitati dal regime islamico. Anche il rapporto con il fondamentalismo induista è spigoloso. Giovanni Paolo II l’ha sperimentato nel suo recente viaggio in India.
Traumatico per alcuni missionari (che fino a ieri predicavano che «fuori della chiesa non c’è salvezza») può essere il tema della libertà religiosa. Al che il cardinale Ballestrero rilevava: «Purtroppo i pavidi che rifiutano quel testo ci sono ancora, eppure esso è intriso dell’audacia dello Spirito e va letto in questa prospettiva e con questa sensibilità. La chiesa, proprio perché missionaria, non è mai sulla difensiva e non deve esserlo. Non siamo mandati a difendere una cittadella, ma a servire il mondo con il messaggio della parola che salva».
Il messaggio del Concilio sull’Ad gentes va aggiornato pure con i successivi documenti che ne sviluppano i problemi. Ho già ricordato l’Evangelii nuntiandi.
Nel 1967 appariva l’enciclica Populorum progressio. In essa Paolo VI sottolineava lo sviluppo integrale di tutto l’uomo come un aspetto fondamentale dell’evangelizzazione. Inoltre il documento sensibilizzava i cristiani sui problemi nel sud del mondo e stimolava la solidarietà verso i fratelli impoveriti da poteri nazionali e inteazionali.
L’ultima charta magna sull’evangelizzazione dei popoli è l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio (1990). Ha riaffermato l’urgenza della missione ad gentes, anche di fronte alla penuria di vocazioni sacerdotali in Europa. Però il problema della scarsità di sacerdoti non si supera chiudendo i cancelli delle diocesi, affinché nessun prete «scappi».
«La fede (in crisi) si rafforza donandola» (n. 2).
N el 1976, ritornato in Italia dalla missione in Tanzania, mi capitò tra mano una rivista missionaria, di cui non ricordo la testata. Mi colpì, come nel libro di Gheddo, la copertina: ritraeva un ragazzo che scriveva sulla lavagna: «Anch’io sono missionario».
Da questa affermazione, in perfetta sintonia con l’Ad gentes del Vaticano II, ci si sarebbe aspettati una crescita di vocazioni missionarie. Ma la dichiarazione del ragazzo è stata «una» rondine che… non fa primavera. In compenso, sono cresciuti i laici impegnati. Gli istituti missionari (che lamentano la mancanza di vocazioni) non dovrebbero forse fare i conti con i volontari, ripensando i propri comportamenti e regole? Però i laici, missionari part time, non sostituiscono gli evangelizzatori full time.
Allora «udii la voce del Signore che diceva: “Chi invierò? E chi andrà?…”. Io risposi: “Eccomi, manda me”» (Is 6, 8-9).

Francesco Beardi