Vedere il Padre


«Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). È la preghiera, quasi lo sfogo, di Filippo, uno dei Dodici discepoli, rivolta a Gesù. Dopo aver tanto sentito parlare del Padre, sembra quasi che il discepolo si spazientisca e chieda al suo Signore una risposta chiara e definitiva. Non è una preghiera molto diversa da quella di Mosè: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), ossia il volto di Dio (Es 33,20).

È una richiesta comprensibile: passiamo un’intera vita a cercare di cogliere il senso profondo di ciò che facciamo, viviamo, patiamo. I fedeli hanno creduto alla promessa che quel senso sta in una persona. Una persona che però non vedono, benché sappiano che sta loro di fronte, a fianco, alle spalle, come un sostegno (cfr. Salmo 139). E si può comprendere che, soprattutto in momenti di maggiore tensione (Mosè ha appena punito il popolo reo di essersi costruito un vitello d’oro, Filippo ha appena vissuto l’ultima cena con Gesù), si voglia avere una sentenza definitiva, uno sguardo ultimo, una risposta. La risposta di Dio a Mosè è parzialmente negativa: «Non puoi vedere il mio volto senza essere morto, ma passerò davanti a te e vedrai le mie spalle» (Es 33,20-23). Quella di Gesù a Filippo è apparentemente molto più positiva, benché in forma di domanda: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).

Guardare a Gesù

Anche noi vogliamo vedere il volto di Dio, dobbiamo, allora, lasciarci condurre da Gesù che ci invita a guardare a lui. Senza fretta però. Ci predisponiamo ad accogliere l’invito avendo presente una domanda sempre più viva: in questi tempi confusi, duri, troppo spesso pessimisti, come possiamo vedere il volto di Dio, il senso di ciò che facciamo e subiamo?

Se Gesù ci invita a guardare a lui, noi proveremo a farlo in un percorso non breve, ma probabilmente affascinante, tramite il Vangelo di Giovanni, quello in cui con più costanza si parla del Padre, di cui il Figlio è l’immagine. Attraverso le parole e l’esempio di Gesù, secondo Giovanni, impareremo quindi, a scoprire e amare il vero volto di Dio Padre.

«Dio nessuno lo hai mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).

Il Battista

Sappiamo che gli esseri umani sono capaci di imprese straordinarie, eroiche, se soltanto capiscono che queste sono utili, servono a qualcosa, hanno senso. Abbiamo bisogno di un senso quando guardiamo al nostro futuro, e abbiamo bisogno di sciogliere i nodi irrisolti, se guardiamo al nostro passato. Altrimenti non viviamo più, ma ci limitiamo a sopravvivere comodamente.

Le religioni si concentrano spesso su questo aspetto: sulla risoluzione della disarmonia che l’uomo sente con la propria vita, con le persone, con ciò che lo circonda, con l’orizzonte ultimo della sua vita che fatica a cogliere.

Anche il Battista si concentra su questo. Egli è venuto ad annunciare un battesimo per il perdono dei peccati. La saggezza religiosa ebraica aveva colto un aspetto psicologico profondo esprimendolo in termini rituali e simbolici. Aveva capito che una persona può anche essere pentita dei propri errori, averne chiesto e ottenuto il perdono, ma sentire che questo non basta, che il nodo resta e il peso non svanisce.

Nella tradizione e liturgia ebraica per sciogliere quel nodo, per espiare i peccati, era necessario un sacrificio nel tempio, un rito per dire che non poteva bastare il pentimento, pur indispensabile, ma era necessario un intervento divino.

Un incontro oltre i riti

Giovanni il Battista viene ad annunciare un modo diverso di ottenere quell’espiazione, non con i riti ben codificati e sanciti dalla Parola di Dio e dalle tradizioni rabbiniche, ma con un gesto nuovo, antico nell’aspetto (le abluzioni erano ben note nel mondo ebraico) ma originale nel senso. Un rito che il Battista non può giustificare con testi biblici, ma solo, profeticamente, con la sua intuizione della volontà divina. Le persone che vanno a farsi battezzare, così, incontrano un Dio fuori dagli schemi, dalle sicurezze legali, dai riti consolidati. Un incontro giocato tutto sulla fiducia: in Dio, ma anche nel profeta, e nell’affidabilità dell’intenzione.

Che si tratti di una strada promettente e sensata lo attestano tutti i vangeli: Gesù va a farsi battezzare da lui (Mt 3,1-6), lo dichiara il più grande tra «i nati da donna» (Lc 7,28) e, stando al vangelo di Giovanni, inizia a battezzare anche lui, o almeno i suoi discepoli (Gv 4,1-2). In linea molto generale, l’intuizione del Battista sarà una parte dell’orientamento suggerito da Gesù stesso, che si mostra sempre più attento al rapporto intimo e personale con Dio che alle norme e ai riti.

È un primo tocco di pennello sul ritratto del Padre, che, all’inizio, è dipinto non direttamente da Gesù (che pure lo confermerà) ma dal Battista: il Padre ama farsi trovare fuori dagli schemi, fuori dai percorsi già segnati e delineati, sicuri, garantiti.

Il Battista, però, sa anche con certezza di non essere lui la parola definitiva di Dio. «Io battezzo con acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,26-27). È una tentazione totalmente umana, presente persino in tutti i fondatori di grandi movimenti, quello di richiamare l’attenzione su di sé. Il Battista sa di dover resistere, e lo dice da subito: lui è (solo) un dito che indica il regno, non è il regno.

L’agnello di Dio (Gv 1,29-36)

È passato solo un giorno dal battesimo di Gesù per mano del Battista, ci dice il Vangelo (Gv 1,29), quando Giovanni vede passare Gesù e lo indica: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo».

Il sacrificio di un agnello, animale mite e docile, promessa di lana e di carne per il futuro, era sempre parso, e non solo al mondo ebraico, l’offerta più gradita a Dio, più trasparente e generosa. Non era l’unico animale che si poteva offrire per ottenere l’espiazione dei peccati, ma era quello più utilizzato, più significativo e legato peraltro alla festa di Pasqua.

L’accenno del Battista è simbolico, poetico, ma chiarissimo. L’espiazione piena dei peccati passa non da lui o dal battesimo, ma da Gesù. Giovanni indica il Signore come colui di cui ha detto che è più importante di lui (Gv 1,30-31), rimarca di aver visto lo Spirito Santo posarsi come una colomba su di lui (1,32-33) e addirittura lo definisce, in modo solenne, il «figlio di Dio» (1,34).

Dai figli ai genitori

La nostra cultura sottolinea l’importanza delle scelte e delle esperienze dei singoli e prova a sganciarsi dall’idea che i figli siano i continuatori dell’opera dei padri. Anche nel nostro mondo, però, chi nasce da un re sa già, fin da quando comincia a capire qualcosa, che sarà destinato a succedergli, e continuiamo spontaneamente a pensare che i figli riprendano la sensibilità e le attitudini dei genitori. Di certo, siamo consapevoli che quel legame non può essere sciolto mai, neppure se lo si rinnega.

Il mondo antico legava ancora di più genitori e figli, i quali non potevano immaginarsi su strade diverse da quelle del loro padre senza una grave crisi. Il mondo arcaico, addirittura, pensava che un figlio che non corrispondesse al padre potesse subire la pena di morte (Dt 21,18-21).

Additare Gesù come figlio di Dio, non implica descrivere con precisione che cosa possa fare, ma lo segnala come colui che potrà proseguire l’opera del Padre, anche nell’espiazione dei peccati, come è suggerito dalla vicinanza con la formula di «agnello di Dio».

Gesù, però, è innanzitutto un essere umano. E l’indicazione del Battista, tramite il battesimo di Gesù e le parole dette a suo riguardo, ci fa intuire qualcosa sul Padre: Egli non si lascia incontrare direttamente, in estasi mistiche o in rituali astrusi, ma vuole essere conosciuto e accolto tramite altri.

Il Padre ci invita a coglierlo così, nella nostra vita ordinaria, senza l’eccezionalità di un’esperienza stupefacente e unica. Ci stimola a cogliere lo straordinario nel quotidiano. Proprio perché il volto del Padre potrebbe svelarsi nel volto di chiunque incontriamo, siamo chiamati a mantenerci attenti, aperti, disponibili a farci da lui stupire. Come sono stupiti i primi discepoli di Gesù, così sono già stati discepoli del Battista.

Venite e vedrete (Gv 1,37-39)

Due dei discepoli del Battista, infatti, sono presenti quando Giovanni vede di nuovo passare Gesù e lo indica come «agnello di Dio» (1,37), allora si avvicinano a Gesù e, forse per l’imbarazzo, alla sua richiesta di chiarimenti, rispondono con una delle domande più superficiali e fuori luogo che potevano immaginare: «Dove abiti?» (1,38). Gesù aveva opportunamente chiesto loro che cosa cercassero, e questa non è la risposta corretta. Ma anche di fronte a questa reazione, colui che è stato salutato come «rabbì», ossia come «maestro», sa a che cosa chiamarli: «Venite e vedrete».

Non dà loro indicazioni teoriche, non suggerisce che cosa dovrebbero indagare o meditare. Li invita invece a mettersi in gioco, a entrare in relazione, a giudicare in prima persona.

È un’altra delle prime caratteristiche del Padre che il vangelo di Giovanni ci fa scoprire tramite Gesù e, in questo inizio, anche attraverso il Battista: il Padre si fa incontrare fuori dagli schemi, per mezzo di persone inserite nel mondo e, coerentemente, chiede di entrare in una relazione personale. I nostri rapporti significativi non nascono in un momento né senza fatica. Anche il «colpo di fulmine», se esiste, è soltanto il primo istante di un percorso di crescita, di conoscenza reciproca, di approfondimento, di scoperta, che, nelle cose umane, ha bisogno di un’apertura progressiva, di imparare a capirsi, ad ascoltarsi, ad accogliersi.

Il Padre non si muove fuori dalle dinamiche umane più profonde. Non chiede di fare delle cose, di sapere delle formule, ma di conoscerlo, gradualmente, progressivamente, come facciamo con tutte le persone per noi più significative. Chiede di stare con lui, per imparare come ragiona, come pensa, come ama, come soffre. Ci domanda di lasciarci coinvolgere, di tirare noi le conclusioni, di interpretarne noi il volto.

E quel Figlio, che mostra il Padre anche a noi oggi, non suggerisce di comportarci in un certo modo (con ascesi, esercizi o discipline iniziatiche speciali) o di credere certe verità (conosciute tramite iniziazione), ma di conoscerlo: «Vieni e vedi».

Angelo Fracchia
(Il volto di Dio 01 – continua)


Un cammino di due anni

  • √ marzo 2024, Gv 2, 1-11,
    Il Padre amante della gioia
  • √ aprile 2024, Gv 2, 13-25,
    Il Padre autentico
  • √ maggio 2024, Gv 3,
      Il Padre datore della vita
  • √ giugno 2024, Gv 4,
      Il Padre che disseta
  • √ luglio 2024, Gv 5,
    Il Padre che fa vivere
  • √ ago-sett 2024, Gv 6, 1-59,
    Il Padre che sfama
  • √ ottobre 2024, Gv 6, 60-71,
       Il Padre che dona senso
  • √ novembre 2024, Gv 7,
       Il Padre che è casa
  • √ dicembre 2024, Gv 8, 12-59,
    Il Padre che genera
  • √ gen-feb 2025, Gv 9,
      Il Padre che è libertà
  • √ marzo 2025, Gv 10, 1-21,
    Il Padre signore del gregge
  • √ aprile 2025, Gv 10, 22-42,
      Il Padre che opera il bene
  • √ maggio 2025, Gv 11,
       Il Padre che riporta in vita
  • √ giugno 2025, Gv 12,
      Il Padre che glorifica il Figlio
  • √ luglio 2025, Gv 13,
    Il Padre che dona l’amato
  • √ ago-sett 2025, Gv 14,
      Il Padre ospite
  • √ ottobre 2025, Gv 15,
      Il Padre vignaiolo
  • √ novembre 2025, Gv 16,
       Il Padre che accoglie
  • √ dicembre 2025, Gv 17,
      Il Padre (s)conosciuto



La terra spremuta


Francesco continua il suo impegno per la salvaguardia della casa comune. Dopo la «Laudato si’» del 2015, a ottobre 2023 è uscita la «Laudate Deum». In essa si parla dei mutamenti climatici in atto e di cosa sarebbe indispensabile fare. Senza attendere domani.

«Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti».

Inizia così l’esortazione apostolica di papa Francesco, Laudate Deum, resa pubblica il 4 ottobre 2023, in continuazione con la sua precedente enciclica Laudato si’, pubblicata nel 2015.

Un nuovo appello che scaturisce dalla constatazione di come l’umanità non stia facendo ciò che dovrebbe per arrestare i processi di degrado ambientale di cui è responsabile.

Allarme confermato dai dati sull’accumulo di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera che, assieme alla deforestazione, è alla base dei cambiamenti climatici. Secondo il Noaa, l’ente statunitense che si occupa di oceani e atmosfera, nel 2010 la concentrazione di CO2 era di 388 parti per milione; nel 2020 la troviamo a 412 parti per milione.

Intanto, anche la deforestazione è continuata a ritmi sostenuti. Benché oggi sia meno intensa rispetto al secolo scorso, la Fao ci informa che, fra il 2015 e il 2020, si è continuato a deforestare al ritmo di dieci milioni di ettari l’anno, un’area grande all’incirca come quella del Belgio.

Il paradigma tecnocratico

Rispetto alla Laudato si’, la nuova esortazione apostolica è molto più breve perché si limita a poche sottolineature essenziali. Fondamentalmente vuole richiamarci alla necessità di impegnarci di più per la soluzione dei problemi ambientali e sociali che abbiamo creato e vuole rimarcare alcuni concetti già espressi nell’enciclica di otto anni fa.

Un tema su cui torna con forza è il paradigma tecnocratico che papa Francesco indica come il principale responsabile dei guasti socio-ambientali nei quali ci stiamo dibattendo.

Il punto di partenza dell’analisi condotta da papa Francesco è che alla base degli squilibri ambientali ci sia l’uso distorto della tecnologia. Un passaggio della Laudato si’ precisa che «l’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi».

Presunzione di onnipotenza

Studiando la storia ci si accorge che il punto di rottura è avvenuto nel 1600 quando iniziarono le prime scoperte scientifiche. Constatando che, attraverso l’uso della ragione, l’essere umano poteva capire fenomeni prima avvolti nel mistero e che poteva trovare soluzioni in precedenza inimmaginabili, ci siamo montati la testa fino a sentirci padroni del mondo.

Un concetto che il filosofo Cartesio è giunto a teorizzare quando nel suo libro Discours de la méthode, apparso nel 1637, afferma: «Le nozioni di fisica mi hanno fatto vedere che è possibile giungere a conoscenze molto utili alla vita e che possiamo diventare gestori e padroni della natura».

Un senso di onnipotenza che è diventato catastrofico quando si è sposato con altri miti che hanno cominciato a strutturarsi, anch’essi attorno al 1700, con l’affermarsi della classe imprenditoriale e mercantile. In particolare, il mito della ricchezza e del progresso.

Per dirla con papa Francesco, da questi miti «si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia». Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre.

Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». Per questo nella Laudato si’, papa Francesco sostiene che «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».

Già il predecessore Benedetto XVI diceva che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».

Il cinismo del sistema

Se c’è un aspetto che il capitalismo non è disposto a discutere è la crescita e, lungi dall’idea di dover porre un freno a produzione e consumi, riduce la tematica ambientale a una mera questione di tecnologia.

L’assunto è che basti ottenere energia elettrica da sole e vento invece che da gasolio, alimentare le auto con batterie elettriche invece che tramite combustibili fossili, bruciare i rifiuti in termovalorizzatori invece che accumularli in discarica e la sostenibilità è garantita.

Sull’onda di questa febbre tecnologica c’è – addirittura – chi propone di produrre energia elettrica dal nucleare o di risolvere il problema climatico con tecniche di geoingegneria.

Imprese faraoniche, ancora allo stato sperimentale, come l’idea di seppellire l’anidride carbonica nel sottosuolo o di «sbiancare» le nuvole affinché riflettano parte della radiazione solare fuori dal sistema terrestre. Tecniche costose di cui non si conoscono le conseguenze e che, nel lungo periodo, potrebbero provocare più danni del male che intendono curare. Ma sono comunque perseguite perché rappresentano una grande occasione di guadagno per industrie del comparto chimico, satellitare, minerario, nucleare. Il che confermerebbe il cinismo di un sistema che ha sempre visto di buon occhio le distruzioni belliche e i disastri naturali come occasioni di rilancio degli affari.

Rispetto alla tecnologia, nella Laudate Deum papa Francesco è categorico: «Ritengo essenziale insistere sul fatto che “cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale”. È vero che gli sforzi di adattamento sono necessari di fronte a mali irreversibili a breve termine; anche alcuni interventi e progressi tecnologici per assorbire o catturare i gas emessi sono positivi; ma corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare con il filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto valanga».

Papa Francesco ritiene che la strada maestra per risolvere la crisi climatica sia la riduzione di anidride carbonica a livello planetario, individuando negli accordi multilaterali lo strumento principe per ottenere questo risultato: «Per ottenere un progresso solido e duraturo, mi permetto di insistere sul fatto che vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati».

Ricchi e poveri

Affinché gli accordi possano condurre a risultati tangibili, serve un altro atteggiamento da parte dei paesi ricchi. Di fondo devono convincersi che, avendo contribuito di più alla creazione del problema, debbono dare di più per la sua soluzione. Non a caso papa Francesco scrive: «La realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita oltre la metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?».

Oltre ad accettare di tagliare in maniera considerevole le proprie emissioni, i paesi ricchi dovrebbero acconsentire di sostenere economicamente i paesi più poveri, i quali, di fronte ai cambiamenti climatici, hanno tre tipi di spese: quelle per trasformare il proprio parco energetico, quelle per difendersi dai cambiamenti climatici e quelle per compensare i danni provocati dai cambiamenti stessi.

Somme enormi che, per il solo continente africano e limitatamente ai primi due tipi di spesa, ammontano a 2.800 miliardi di dollari, per il decennio 2020-2030. Un ammontare da utilizzarsi per il 70% per la transizione e il rafforzamento energetico e per il 30% per resistere meglio ai cambiamenti climatici. I governi africani hanno però ammesso di poter coprire appena il 10% del fabbisogno, ossia 264 miliardi di dollari. Tutti gli altri dovranno venire da altri soggetti. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco la solidarietà internazionale, la quale però fa acqua da tutte le parti.

Parole, fondi e danni

Dopo molti anni di negoziazione, i paesi ricchi hanno accettato di costituire un fondo a favore dei paesi del Sud del mondo, affinché possano avviare la transizione energetica e possano costruire le opere utili a proteggersi dai cambiamenti climatici.

In teoria dovrebbero essere 100 miliardi l’anno, ma la raccolta si è fermata a 85. Per di più, la maggior parte delle somme concesse dal fondo è sotto forma di prestito, peggiorando in tal modo il debito del Sud del mondo che già si trova a livelli preoccupanti. Tuttavia, il fondo non copre i danni che il Sud del mondo sta già subendo a causa dei cambiamenti climatici. Come esempi valgano la riduzione dei raccolti agricoli nell’Africa subsahariana, per la scarsità di piogge o, al contrario, i danni da straripamenti dei fiumi, dovuti all’eccesso di piogge, in Asia meridionale. Da un paio di anni i paesi più vulnerabili chiedono la costituzione di un fondo specifico per la copertura dei danni subiti. Tuttavia, alla data di pubblicazione della Laudate Deum, si era ancora al nulla di fatto.

Papa Francesco sostiene che «i negoziati internazionali non avanzano in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune» e indica come rimedio la partecipazione dal basso: «Le istanze che emergono dal basso in tutto il mondo, […] possono riuscire a fare pressione sui fattori di potere. È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che “se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali”».

Parole chiare che ci impongono di convertirci a maggiore partecipazione.

Francesco Gesualdi

 

Nota: lo scorso dicembre, si è tenuta negli Emirati arabi uniti la Conferenza delle parti (Cop28). Su di essa rimandiamo al nostro sito web e al prossimo numero della rivista.




Troppo cibo sprecato


Il cibo perso o sprecato continua a essere troppo mentre guerre  e cambiamento climatico peggiorano la situazione. Ma qualcosa si sta facendo, sia nel Nord che nel Sud del mondo, per contrastare lo spreco. E anche le nostre missioni cercano di ideare soluzioni.

Il 13% del cibo prodotto a livello globale viene perso nella filiera produttiva, nelle fasi intermedie tra raccolto e commercializzazione, mentre un ulteriore 17% viene sprecato da famiglie, servizi di ristorazione e nella vendita al dettaglio: si tratta di una quantità di cibo che sarebbe sufficiente per nutrire oltre un miliardo di esseri umani@.

Secondo le ultime stime, nel mondo le persone affamate sono fra i 691 e i 783 milioni@.

Sono queste le più recenti statistiche fornite dalla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, e l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Nella divisione del lavoro che le agenzie internazionali si sono date per valutare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, la Fao è responsabile di misurare le perdite di cibo, mentre all’Unep spetta la misurazione dello spreco.

Misurare lo spreco

Si tratta infatti di due fenomeni diversi, il cui risultato è comunque quello di rendere non disponibile cibo che poteva esserlo.

La perdita avviene nella fase di produzione e trasformazione, mentre lo spreco si colloca nella fase della vendita e del consumo.

Se nelle pubblicazioni più recenti della Fao non si leggono dati che quantifichino i volumi di cibo perso, l’Unep si sbilancia un po’ di più, fornendo nel «Food and waste index report» del 2021 una stima del cibo sprecato, che sarebbe pari a 931 milioni di tonnellate, di cui 569 milioni a causa del consumo nelle famiglie, 244 nei servizi di ristorazione e 118 nella vendita@.

Se si cede alla tentazione di fare un calcolo piuttosto sbrigativo partendo dal presupposto che 931 milioni di tonnellate di cibo sprecato rappresentano il 17% del totale, allora il 13% – cioè il cibo perso – risulta pari a circa 712 milioni di tonnellate, per un totale di 1,6 miliardi fra cibo perso e sprecato. Un dato che trova conferma nelle rielaborazioni fatte dal Boston consulting group, una società di consulenze statunitense, che aggiunge: continuando ai ritmi attuali, nel 2030 arriveremmo a buttare via 2,1 miliardi di tonnellate, pari a un valore stimato di 1.500 miliardi di dollari, contro i 1.200 miliardi attuali@.

Si tratta di stime, ma negli ultimi dieci anni sono state comunque corrette al rialzo, se nel 2011 il cibo sprecato e perduto era quantificato in 1,3 miliardi di tonnellate totali.

La più aggiornata stima delle emissioni di gas serra imputabili a questo fenomeno non si discosta invece dalle precedenti: fra l’8% e il 10% dei gas serra globali sembrano legati al cibo che viene prodotto, trasformato e trasportato ma non consumato. Inoltre, gli alimenti gettati in una discarica e lasciati a decomporsi producono a loro volta metano che si aggiunge agli altri gas serra.

«Se la perdita e lo spreco di cibo fossero un Paese», scrive la direttrice di Unep, Inger Andersen, nella prefazione del Food and waste index report citato sopra, «sarebbe la terza fonte di emissioni di gas serra» del pianeta, dopo Cina e Stati Uniti, e prima dell’India@.

I disastri che «mangiano» il cibo

A far diminuire la disponibilità di cibo ci sono anche le catastrofi. Sempre la Fao, quest’anno, ha voluto dedicare particolare attenzione a questo aspetto con un rapporto dal titolo «The impact of disasters on agriculture and food security»@.

Le catastrofi sono definite come «gravi interruzioni del funzionamento di una comunità o di una società», e il rapporto si concentra su quelle connesse con cinque macrocategorie di rischi cui l’agricoltura è più esposta: rischi meteorologici e idrologici, fra cui siccità e inondazioni; rischi geologici, dai terremoti agli tsunami; rischi ambientali, come gli incendi, rischi biologici, ad esempio le infestazioni da locuste; e rischi sociali, principalmente i conflitti armati.

Gli eventi catastrofici, si legge nel rapporto, sono passati da circa 100 all’anno negli anni Settanta del secolo scorso ai 400 all’anno nel ventennio dal 2000 al 2021. A causa di questi eventi il mondo ha perso il 5% del Pil agricolo annuo globale per un totale di 3.800 miliardi di dollari. La perdita di Pil agricolo sale fino al 10-15% nei paesi a reddito medio basso e basso e al 7% nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo@, che si trovano principalmente nei Caraibi, nell’Oceano Indiano e nel Pacifico.

Esempi di disastri

Gli esempi recenti di catastrofi non mancano: lo scorso maggio Reliefweb, il servizio informazioni dell’ufficio Onu per gli affari umanitari, riportava@ che il Corno d’Africa ha avuto cinque stagioni consecutive di piogge scarse o assenti, cioè un’ondata di siccità che ha superato negli effetti e nella durata quelle del 2016/2017 e del 2010/2011.

Più di 13,2 milioni di capi di bestiame erano già morti in tutta la regione, causando la perdita di oltre 180 milioni di litri di latte dall’inizio della siccità e privando 1,4 milioni di bambini sotto i 5 anni della possibilità di consumare un bicchiere di latte al giorno, con gravi conseguenze per il loro status nutrizionale.

A novembre 2023, la regione si preparava poi a possibili inondazioni dovute fra l’altro al previsto arrivo di El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che interessa in misure diverse quasi tutto il globo e che nel Corno d’Africa tende a provocare precipitazioni più abbondanti fra marzo e maggio.

Quanto poi alle catastrofi legate ai conflitti, un’infografica sui siti del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione europea@ mostra come la guerra in Ucraina ha ridotto di un terzo la produzione di cereali nel paese e ha duramente colpito quella dell’olio di girasole, di cui l’Ucraina era il primo esportatore mondiale prima dell’invasione russa. «Le esportazioni ucraine, in particolare di frumento», si legge sul sito del Consiglio, «rivestono un’importanza cruciale per alcuni paesi asiatici e africani, che dal 2016 al 2021 hanno ricevuto il 92% del frumento ucraino».

Nairobi, Kenia. Agosto 04/2020. Hogar Familia Ya Ufariji. Huerta en Ngomongo. © Bruno Cerimele

Campagne, app e tecnologia contro lo spreco

Le iniziative per affrontare fame e cambiamento climatico stanno emergendo in tutto il mondo, scriveva nell’ottobre del 2022 Somini Sengupta sul New York Times in articolo dal titolo «Inside the global effort to keep perfectly good food out of the dump»@.

A Seoul, riportava Sengupta, i bidoni della spazzatura pesano automaticamente la quantità di cibo gettato nella spazzatura. A Londra, i negozi di alimentari non mettono più le etichette con la data di scadenza su frutta e verdura per evitare confusione su ciò che è ancora commestibile. La California impone ai supermercati di regalare il cibo invenduto ancora buono da mangiare invece di buttarlo.

E ancora: la Cina aveva lanciato nel 2020 la campagna «Piatto pulito» per ridurre lo spreco di cibo, incoraggiando le persone a evitare di ordinare di più di quello che consumano e invitando i video blogger che si riprendono mentre mangiano grandi quantità di cibo a non farlo più.

Esistono poi diverse applicazioni per cellulari che aiutano a limitare lo spreco: una di queste è Too good to go, azienda fondata in Danimarca nel 2015, che nel suo Impact report del 2022@ sostiene di aver impedito lo spreco di circa 79 milioni di pasti. L’app permette di vedere quali esercizi mettono a disposizione cibo avanzato a un prezzo molto più basso di quello iniziale ed è possibile prenotare il cibo per poi passarlo a ritirare nella fascia oraria indicata. A ottobre 2023, Too good to go ha lanciato la campagna «Salva il pianeta in ogni angolo di Roma» che ha permesso di recuperare nella capitale mezzo milione di pasti, come riferiva ai microfoni di Askanews Mirco Cerisola, il direttore per l’Italia dell’azienda di Copenaghen@.

Nei paesi in via di sviluppo

Anche nei paesi in via di sviluppo ci sono iniziative contro lo spreco e la perdita di cibo: in Kenya, riporta ancora l’articolo di Sengupta, un imprenditore ha costruito frigoriferi a energia solare per aiutare gli agricoltori a conservare i prodotti più a lungo. Si tratta di Dysmus Kisilu, trentunenne keniano che a 27 anni, dopo gli studi all’Università della California, a Davis ha fondato Solar Freeze, l’azienda che ora gestisce insieme a un team composto da una decina di coetanei.

Nel video per Fast Forward, un’organizzazione che promuove aziende startup capaci di combinare tecnologia e sostenibilità, Kisilu racconta che ha capito l’importanza di fornire ai piccoli agricoltori africani un sistema di refrigerazione sostenibile vedendo la nonna, contadina del Kenya orientale, perdere metà del raccolto prima ancora di raggiungere i banchi del mercato a causa della mancanza di un frigo dove conservare i prodotti@.

L’esperienza nelle missioni

Proprio nella capitale del Kenya, Nairobi, su un appezzamento di terreno di 21 acri (circa 8 ettari), i Missionari della Consolata gestiscono una fattoria, la Njathaini farm, che garantisce la sicurezza alimentare alla scuola che si trova sullo stesso terreno, alla casa per ragazzi di strada Familia ya Ufariji e alla comunità della zona.

Le attività agricole, riporta Naomi Nyaki, responsabile dell’ufficio progetti Imc a Nairobi, riguardano la coltivazione di mais, fagioli e diversi tipi di colture orticole come la belladonna africana, o managu in lingua locale, l’amaranto (terere) e una varietà di cavolo che nella lingua locale si chiama sukuma wiki, traducibile, in modo approssimativo, come «spingi settimana» (un cavolo di origine sudafricana che i missionari della Consolata hanno portato in Kenya di ritorno dagli anni di prigionia durante la Seconda guerra mondiale, ndr), cioè il cibo che serve per sopravvivere durante la settimana. Alla fattoria i missionari allevano anche capre, pecore e polli. «Alla Njathaini farm», prosegue Naomi, «le difficoltà principali riguardano lo stoccaggio dei prodotti agricoli dopo la raccolta, in particolare delle verdure deperibili, ma anche le possibili infestazioni da parassiti». A Familia ya Ufariji, invece, l’allevamento di vacche e maiali permette di garantire ai bambini ospitati – che possono arrivare fino a 90 – di avere una dieta adeguata.

Ma, spiega Naomi, stiamo cercando di creare un sistema più razionale per usare i prodotti dell’allevamento, «ad esempio comprando più frigoriferi che ci permettano di tenere separati latte e carne e di conservarli più a lungo. Anche fare lo yoghurt aiuterebbe a sfruttare meglio il latte, ma ancora non abbiamo una macchina a disposizione per produrlo in modo sistematico».

Anche in Tanzania i missionari cercano soluzioni per sfruttare al meglio il cibo. «Il problema qui riguarda più la perdita di cibo che lo spreco», scrive da Iringa Modesta Kagali, la responsabile dell’ufficio progetti dei Missionari della Consolata.

Nelle diverse case dei missionari, soprattutto in quelle che ospitano molte persone, come le case di formazione, si usano diversi modi per proteggere il cibo dal deterioramento: dalla conservazione del pesce sotto sale all’essiccazione, dall’uso del miele per isolare la carne dall’umidità all’utilizzo di celle frigorifere solari. Un metodo interessante è quello del refrigeratore fatto con il carbone (charcoal cooler). «La camera funziona senza bisogno di elettricità, secondo il principio del raffreddamento evaporativo. È costituita da un telaio in legno aperto con i lati riempiti di carbone trattenuto da reti metalliche. Il carbone viene costan- temente inumidito e quando l’aria calda e secca passa attraverso il carbone umido produce un notevole effetto rinfrescante. L’efficacia di conservazione dipende dal tipo di alimento: nel caso della verdura, questo refrigeratore ha mostrato di riuscire ad allungarne la conservazione di circa dieci giorni».

Chiara Giovetti




Inizia il Triennio dedicato al Beato Allamano


All’attenzione di chi è interessato a conoscere di più del Beato Giuseppe Allamano.

Fra pochi giorni inizieremo il Triennio dell’Allamano che le due Direzioni Generali dei Missionari e Missionarie della Consolata hanno proposto come preparazione al Centenario della morte del Fondatore che cadrà nel 2026.

Dalla Casa Natale dell’Allamano vorremmo offrire ai confratelli, consorelle e laici missionari la possibilità di riscoprire, un pezzo alla volta, porzioni della grande mole di riflessioni e studi sul Fondatore e sul nostro carisma. I Missionari e le Missionarie del passato ci hanno lasciato tale grande ricchezza che però non è sempre facile rintracciare nei nostri siti e archivi. Accogliamo anche studi e riflessioni più recenti che ci saranno segnalati…

Apriamo ora un “gruppo mail” chiamato: “Dalla casa natale”. Chi desidera ricevere tale materiale, oppure avere indicazioni per accedere ad esso, ce lo segnali al seguente indirizzo mail: casanatale.allamano@consolata.net
Inizieremo con 2-3 invii settimanali di materiale, poi vedremo se l’iniziativa funziona ed è utile…

I Missionari e le Missionarie della Consolata – Castelnuovo Don Bosco


Qui trovate la lettera che lancia il triennio dell’Allamano: Giuseppe Allamano. Cuore di Padre

Clicca qui per il sito ufficiale del sul Beato  Giuseppe Allamano


Il beato Giuseppe Allamano nella casa di Rivoli, fotografato dagli studenti diel seminario durante una loro visita. – 1920 ca. (AfMC)




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

La freccia della pace

Anche a Dar es Salaam (Tanzania), dove opero, i ragazzi vanno a scuola zaino in spalla. Persino i bambini dell’asilo indossano lo zainetto, decorato con paperette e caprette. Pochi bimbi, però, perché la scuola materna è un lusso da queste parti.

A questi zaini e zainetti ho pensato, cari missionari della Consolata, visitando il vostro «Polo culturale» Cam, Cultures and Mission, di Via Cialdini 4, Torino. Già. Iniziando la visita, sono stato «accolto» proprio da uno zaino e da un paio di sandali. Corredo essenziale per chi affronta un viaggio a piedi.

Un viaggio, quello nel Cam, attraverso reperti culturali di valore assoluto, esperienze di missionari e missionarie, danze e musiche coinvolgenti, che mi hanno avvicinato ai Kikuyu del Kenya, ai Wahehe del Tanzania, ai Pigmei del Congo, agli Amara dell’Etiopia. Senza scordare gli Yanomami del Brasile e altre popolazioni dell’America Latina. Realtà affascinanti, documentate da foto dell’«archivio Missioni Consolata». E l’Asia? L’Asia non manca nel «Polo culturale». Così ho attraversato le steppe gelide e sterminate della Mongolia…

Anno 1241, Cracovia (Polonia). Dal campanile della chiesa di Santa Maria un trombettiere lancia l’allarme: «I Mongoli sono alle porte!». Ma un arciere mongolo colpisce a morte quel trombettiere polacco. Ancora oggi, a Cracovia, ogni ora un trombettiere suona quell’allarme del 1241.

E dalla Mongolia il 10 giugno 2018 Paola Giacomini è partita a cavallo con nello zaino una freccia simile a quella dell’arciere mongolo che trafisse il trombettiere polacco. Paola ha cavalcato per 15 mesi, fino al 16 settembre 2019, allorché entrò nella basilica di Santa Maria, a Cracovia, per deporre la freccia della … pace.

Grazie Mongolia, grazie Polonia. Grazie Paola, ambasciatrice di pace.

Francesco Bernardi,
Dar es Salaam, 13/10/2023

In memoria di padre Paolo Tablino

Don Paolo Tablino, prete della diocesi di Alba, è stato missionario fidei donum e poi missionario della Consolata a Marsabit, nord del Kenya, dalla fine degli anni Cinquanta al 2009.

Per ricordare la sua opera e il suo impegno pastorale che negli anni ha favorito l’istruzione, l’accesso alla sanità, l’inculturazione del Vangelo nella valorizzazione della cultura locale, lo scorso 28 ottobre è stato inaugurato ad Alba un monumento, opera del giovane artista albese Samuel Di Blasi.

L’installazione dal titolo «Marsabit», opera d’arte alta più di quattro metri che rappresenta un albero, è stata posta nell’area verde che l’amministrazione comunale aveva già dedicato al missionario, in prossimità della chiesa Cristo Re, tra via Romita e via san Teobaldo.




Sostituzione etnica o necessità?


Per controllare l’immigrazione clandestina, c’è (anche) «Frontex», l’agenzia europea per le frontiere e le coste. La sua azione è antitetica a quella delle Ong le cui operazioni di salvataggio sono spesso ostacolate. Se non si vuole ragionare in termini di umanità e solidarietà, il dilemma pratico è tra chi vede i migranti come un pericolo e chi li considera una necessità.

Il 10 giugno 2016, sulla frontiera fra Bulgaria e Turchia, si svolse la cerimonia di inaugurazione della «Agenzia di controllo della frontiera europea», meglio nota come Frontex. Istituita nominalmente già nel 2004, inizialmente aveva funzione di consulenza. Con l’intensificarsi del problema migratorio venne trasformata in un corpo operativo dotato di uomini e mezzi per rafforzare le attività di controllo alle frontiere già svolto dalle singole polizie nazionali.

Il controllo dell’immigrazione clandestina e il rimpatrio dei migranti irregolari sono fra le sue funzioni principali. Funzioni che, ad oggi, svolge con la disponibilità di 750 milioni di euro annui, 2.500 uomini, venticinque imbarcazioni, otto velivoli e un’ampia strumentazione di vigilanza elettronica posta lungo i tratti di frontiera più battuti dai migranti. Da qui al 2027, il progetto è di raddoppiare il bilancio di Frontex e portare il numero di addetti a 10mila unità. Con grande gioia soprattutto delle imprese di armi e strumentazione elettronica che, con Frontex, fanno molti affari. Tra esse le multinazionali Airbus (Olanda), Leonardo (Italia), Thales (Francia) che offrono elicotteri, droni, sistemi di sorveglianza, ma anche imprese minori come Glock (Austria) e Mildat (Polonia) per il rifornimento di munizioni e armi leggere. Secondo l’organizzazione Corporate europe observer, tra il 2017 e il 2019, Frontex si è incontrata con 108 imprese per discutere l’acquisto di fucili, munizioni, dispositivi aerei e marittimi di sorveglianza, rilevatori di esseri umani.

Il «curriculum» di Frontex

Fra il 2020 e il 2022, Frontex è stata oggetto di numerose inchieste da parte di organi dell’Unione europea, perché accusata da prestigiose organizzazioni umanitarie e testate giornalistiche di respingimenti illegali e violazione dei diritti umani.

Ad esempio, secondo le ricostruzioni dell’agenzia giornalistica Lighthouse reports, fra il marzo 2020 e il settembre 2021, si sono verificati ventidue casi in cui Frontex ha collaborato con la polizia greca per rimettere gli immigrati in imbarcazioni di fortuna e respingerli in Turchia. Su un altro fronte, quello del Mediterraneo sud, le organizzazioni Human rights watch e Border forensics hanno documentato che, nel 2021, Frontex ha utilizzato la sua capacità di sorveglianza aerea per intercettare le imbarcazioni che trasportavano migranti e segnalare la loro posizione alla Guardia costiera libica affinché le respingessero in Libia.

Secondo l’Oim, l’Organizzazione  internazionale per le migrazioni, nel 2021 ben 32.425 migranti sono stati respinti sulle coste libiche in aperta violazione con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, secondo la quale «Nessuno stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».

Un rapporto del 13 luglio 2023 delle Nazioni Unite conferma che in Libia «si registrano rapimenti, arresti arbitrari e sparizioni di cittadini e personaggi pubblici per mano di vari attori addetti alla sicurezza».

Onde e Ong

Un’altra strategia, ancora più subdola, utilizzata dall’Italia per ridurre gli sbarchi, è quella di lasciare i migranti in balia delle onde, ossia senza un sistema di protezione in caso di naufragio. Nel 2013 tale attività era svolta da Mare nostrum, ma con la sua chiusura non era più chiaro chi l’avrebbe svolta. Perciò il vuoto venne colmato da alcune organizzazioni umanitarie, fra cui Medici senza frontiere, Save the children, Sea eye, che si dotarono di imbarcazioni e velivoli per individuare le barche di migranti in difficoltà e trarli in salvo. Ma la scelta non piacque ai vari governi che si susseguirono, accusando le organizzazioni umanitarie di complicità con i trafficanti di esseri umani, fecero di tutto per sabotare la loro attività di salvataggio.

Il primo giro di vite si ebbe nel 2017 per mano di Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo Gentiloni e proseguì nel 2019 per mano di Matteo Salvini (oggi vicepresidente del consiglio dei ministri, ndr) che fece introdurre multe fino a un milione di euro per quelle navi che fossero entrate nelle acque territoriali italiane senza averne ottenuto il permesso. In seguito, le sanzioni vennero ammorbidite, ma l’attività di salvataggio delle Ong rimane ancora oggi fortemente osteggiata, come mostra il divieto dei salvataggi multipli introdotto dall’attuale governo Meloni, o l’abitudine di assegnare porti di sbarco molto lontani dai luoghi d’intervento.

Clandestini

Mettere piede nel territorio di un paese ricco è la prima sfida di ogni migrante che viaggia come fuggitivo. Ma subito dopo si pone il problema di rimanerci. In Italia, ad esempio, può rimanerci solo chi riceve una qualche forma di risposta positiva alla domanda di asilo (qui sopra una riproduzione del modulo, ndr) avanzata per motivi politici, sociali, razziali, sessuali.

Nel 2022 in Italia si sono registrati 120mila arrivi irregolari per l’88% via mare e il 12% via terra. Nello stesso anno sono state presentate 84mila richieste di asilo, ma quelle accolte sono state meno della metà (48%). In altre parole, due terzi degli arrivati nel 2022 non sono stati autorizzati a rimanere in Italia. E mentre alcuni sono rimpatriati con la forza, i più restano nel nostro paese come irregolari senza alcun tipo di permesso. Senza documenti, senza residenza, senza assistenza sanitaria, senza possibilità di svolgere un lavoro alla luce del sole, sono costretti a vivere come clandestini. Il loro numero in Italia è stimato in mezzo milione e sono una vera manna per caporali, imprese criminali e imprese sommerse, alla ricerca di mano d’opera che, non potendo vantare alcuna tutela legale, può essere sfruttata e tartassata in ogni modo possibile.

Intanto, in Inghilterra, il governo ne aveva studiata un’altra per sbarazzarsi alla radice dei richiedenti asilo. Aveva annunciato di avere stipulato un accordo con il Rwanda che, in cambio di denaro e altri benefici, sarebbe stato disposto a prendersi un certo numero di richiedenti asilo inviati dall’Inghilterra. Ancora una volta i migranti sarebbero stati trattati come pacchi da spedire da una parte all’altra del globo (come vorrebbe fare anche il governo Meloni con i trasferimenti in Albania, ndr). Fortunatamente, nel giugno 2023 la Corte d’appello britannica ha dichiarato il Rwanda un paese non sicuro e ha annullato la decisione del governo. Ma questo ultimo è intenzionato a rivolergersi alla Corte suprema, per cui non è ancora detta l’ultima parola.

Costruire la paura

Nel 2021, mentre in tutta Europa continuava la campagna di terrorismo per convincerci che eravamo sotto la minaccia di un’invasione migratoria che ci avrebbe sommerso, cambiando totalmente narrativa ci veniva chiesto di spalancare le nostre porte a chi fuggiva dall’Ucraina. Una disponibilità che dovevamo avere senza se e senza ma, non importa quanti ne sarebbero arrivati. Allora capimmo che non è una questione di numeri, ma di colore della pelle.

Sensazione confermata anche da altre dichiarazioni successive, come quella del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida il quale, nel corso di una conferenza sulla denatalità, affermò che «non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica».

L’esperienza con gli ucraini dimostra che, se si vuole, l’accoglienza si può fare e anche bene. Al contrario, se non si vuole, l’accoglienza non si fa e quella poca realizzata è fatta male. In Italia, di partiti che hanno incluso l’accoglienza dei migranti nel proprio programma di governo non ce ne sono, mentre ce ne sono di quelli che hanno basato la propria campagna elettorale sulla costruzione della paura verso i migranti della rotta balcanica e mediterranea. E dopo averli dipinti come dei barbari che vogliono prendersi ciò che è nostro, hanno promesso muri, blocchi navali, respingimenti. Oggi quelle forze politiche le abbiamo al governo e non potendo fermare i flussi, cercano di fare la faccia cattiva ostacolando i salvataggi e rendendo più difficile la permanenza di chi arriva (articolo a pagina 27, ndr).

Non garantiscono sufficienti strutture di prima accoglienza e organizzano quelle esistenti sempre più sotto forma di carceri; riducono e depotenziano i centri di accoglienza per richiedenti asilo; demoliscono le esperienze di accoglienza di tipo inclusivo; sguarniscono gli uffici che devono rilasciare i permessi di soggiorno. E dopo avere organizzato la disorganizzazione, gridano al caos emergenziale per alimentare nella popolazione l’avversione verso i migranti.

Anziani e forza lavoro

Una situazione non solo cinica e disumana, ma anche assurda perché il Documento di economia e finanza del 2023, redatto dal governo Meloni, afferma che  di immigrazione l’Italia ne ha bisogno come il pane, addirittura per ridurre il peso del debito pubblico.

Atteso che la popolazione anziana crescerà portandosi dietro un aumento spese, e che le nascite diminuiranno restringendo la forza lavoro, il solo modo per ridurre l’impatto del debito pubblico è tramite il lavoro degli immigrati, i soli capaci di fare aumentare Pil, contributi sociali e gettito fiscale.

Cosa va detto alla gente

Quello che dunque va fatto rispetto alla questione migratoria è un’operazione verità. Alla gente va detto che, senza migranti, la vecchia e infertile Europa è destinata al declino. Va detto che l’unico modo per salvarla è attraverso i migranti che, secondo il citato Documento di economia e finanza 2023, solo per l’Italia, dovrebbe essere nell’ordine di 280mila nuovi arrivi all’anno di qui al 2070.

Chiarito che abbiamo bisogno degli immigrati, dobbiamo fare anche scattare l’umanità che è in noi e il dovere di solidarietà a cui ci richiama la Costituzione. Per cui dovremmo organizzarci per accogliere chi fugge, per favorire una coesistenza sociale e culturale che potrebbe arricchire tutti; dovremmo creare corridoi umanitari che mettano fine alle traversate della morte; dovremmo attivare la collaborazione internazionale per mettere in salvo i migranti che si trovano intrappolati in situazioni violente come succede in Libia.

In una parola, dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza.

Francesco Gesualdi
(seconda parte – fine)

 




Dai gabbiani ai maiali


L’influenza colpisce anche gli animali, in particolare con il virus di tipo «A». Le più diffuse sono l’influenza aviaria e quella suina. In queste pagine, cerchiamo di capire le modalità di trasmissione del virus e le conseguenze sull’uomo.

Da oltre un anno si è avuta in tutto il mondo una recrudescenza dell’influenza aviaria, una malattia degli uccelli causata da un virus dell’influenza di tipo A (vedi sotto: H1N1 versus H5N1). Può essere a bassa (Lpai) o ad alta patogenicità (Hpai).

L’influenza aviaria può contagiare praticamente tutte le specie di uccelli, ma le manife-

stazioni possono essere molto diverse: dalle forme leggere a quelle altamente patogene e contagiose, capaci di causare rapidamente epidemie acute. Se la malattia è causata da una forma virale altamente patogena, può insorgere in modo improvviso e portare rapidamente a morte quasi il 100% degli animali colpiti.

Nel pollame

Tra l’estate e l’autunno 2022 in Italia si è osservato il prolungamento dell’epidemia iniziata nell’autunno 2021, che ha coinvolto diverse colonie di uccelli selvatici marini appartenenti all’ordine dei suliformi (uccelli acquatici). Il 22 settembre 2022, il Centro di referenza nazionale (Crn) per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle ha confermato la prima positività del secondo semestre per virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (Hpai, sottotipo H5N1) nel pollame e questo ha portato a un’aumento delle misure di controllo generali e specifiche.

In tutta Europa sono stati confermati nuovi casi di influenza aviaria ad alta patogenicità tra dicembre 2022 e marzo 2023, per un totale di 522 casi nei domestici e 1.138 nei selvatici.

Particolarmente rilevante è stata l’epidemia di influenza aviaria che ha colpito il gabbiano comune nel Nordest dell’Italia, in Belgio, Francia e Olanda.

Il virus responsabile di questi casi è sempre stato il sottotipo H5N1 e le analisi genetiche virali effettuate in Italia su uccelli selvatici hanno dimostrato che esso sta circolando anche nelle nostre specie stanziali. Da settembre 2022 ad aprile 2023, in Italia sono stati confermati quaranta focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità nei domestici, riguardanti in parte gli allevamenti rurali di piccole dimensioni.

Il virus H5N1, attualmente circolante tra i volatili selvatici e domestici, si è dimostrato capace di attaccare anche i mammiferi.

Tra gennaio e febbraio 2022 si sono verificati numerosi episodi di mortalità nelle colonie di leoni marini in Perù. Un focolaio è stato confermato nell’ottobre 2022 in un allevamento di visoni in Spagna, mentre in Italia, nell’aprile 2023, sono stati confermati due casi nelle volpi, dovuti probabilmente all’ingestione di volatili morti per influenza aviaria e, inoltre, cinque cani e un gatto sono stati contagiati all’interno di un allevamento avicolo rurale.

Sorveglianza aumentata

Per tale motivo, il ministero della Salute quest’anno, oltre il mantenimento della sorveglianza sugli uccelli selvatici, ha disposto la sorveglianza anche sui carnivori selvatici.

Il dispositivo del ministero prevede il rafforzamento della biosicurezza negli allevamenti avicoli nazionali, con rilevamento precoce dei casi sospetti di Hpai, che necessitano approfondimenti rapidi in laboratori ufficiali, per effettuare diagnosi differenziali nei confronti di virus influenzali. Inoltre, in caso di accertata circolazione di virus Hpai nell’avifauna, le regioni devono mettere in atto piani di sorveglianza attiva riguardanti gli uccelli acquatici presenti in aree di particolare rilevanza epidemiologica, come i siti di raduno dei volatili lungo le principali rotte migratorie.

La sorveglianza attiva prevede l’effettuazione di controlli sanitari regolari, mediante tamponi tracheali e cloacali su campioni significativi dell’avifauna acquatica per gli esami virologici o, in alternativa, mediante il prelievo di campioni di feci (dal momento che questo virus si annida nell’intestino dei volatili, ad esempio in quello delle oche).

Zoonosi e mutazioni

Perché l’influenza aviaria, che finora ha colpito prevalentemente gli uccelli e sporadicamente gli umani, è fonte di grande preoccupazione?

Perché un virus influenzale A originatosi in un volatile potrebbe trasformarsi in un agente infettivo capace di passare da una persona all’altra, dopo un eventuale passaggio in una terza specie, il maiale.

I suini, infatti, possono funzionare da serbatoio per una ricombinazione tra i virus propri, quelli aviari e quelli umani, creando dei virus ibridi capaci di passare da persona a persona. Se poi nell’essere umano, tali ibridi dovessero subire ulteriori e casuali modifiche potrebbe sempre originarsi un nuovo ceppo virale, potenzialmente potente e letale.

L’attuale influenza aviaria, data dal virus A H5N1, si è originata nel 2003 nel Sudest asiatico. Successivamente ha invaso tutta l’Asia da cui si è propagata al resto del mondo. Finora ha colpito oltre 150 milioni di volatili e si sono contate decine di vittime umane, per lo più tra gli addetti agli allevamenti e al commercio di pollame. Sebbene attualmente l’influenza aviaria sia diffusa soprattutto tra gli uccelli e solo poche decine di persone ne siano state colpite per passaggio diretto, senza una trasmissione da persona a persona, tuttavia la circolazione continua di alcuni virus dell’influenza A (H5) e A(H7) nel pollame è preoccupante per la sanità pubblica. Questi virus non solo causano forme gravi di malattia, ma hanno il potenziale di mutare e di aumentare la trasmissibilità tra le persone.

Le mutazioni del virus

La capacità di mutare è una caratteristica peculiare di tutti i virus influenzali e in particolare degli A. Essa è strettamente legata alle caratteristiche del loro genoma, costituito da Rna segmentato e suddiviso in otto frammenti. Ciò comporta la possibilità che si verifichi, in due virus che abbiano infettato contemporaneamente la stessa cellula, il fenomeno noto come riassortimento antigenico (antigenic shift), dovuto all’associazione in nuove combinazioni dei segmenti genomici di Rna appartenenti a due ceppi virali geneticamente distinti. Da questi processi di riassorbimento prendono origine i «virioni» che presentano un corredo proteico di superficie significativamente diverso da quello di entrambi i virus parentali.

Anticorpi (sistema immunitario e vaccinazione)

Gli anticorpi sono grandi proteine (a forma di Y) che aiutano a difendere le cellule dell’organismo dall’intromissione di corpi estranei come batteri e virus.

Le proteine di superficie virali sono il principale bersaglio degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario durante un’infezione naturale o a seguito di un’immunizzazione artificiale (cioè di una vaccinazione). Gli anticorpi preesistenti nell’organismo nulla possono contro le nuove forme virali.

Oltre al riassortimento antigenico, i virus dell’influenza sono caratterizzati anche dalla deriva genetica (antigenic drift) dovuta alle frequenti mutazioni nei geni che codificano per emoagglutinina (HA) e neuroaminidasi (NA). Le alterazioni delle proprietà di superficie dei virus influenzali rendono, pertanto, necessaria la produzione di nuovi anticorpi ad hoc. Questo spiega la necessità di produrre nuovi vaccini antinfluenzali ogni anno.

Nel caso dell’influenza aviaria, attualmente non esiste un vaccino specifico per uso umano. La raccomandazione è di effettuare la vaccinazione contro l’influenza stagionale, in modo da non correre il rischio di stressare oltremodo l’organismo a seguito di una coinfezione da parte di entrambi i virus. Inoltre, la riduzione delle coinfezioni riduce la probabilità che i virus possano acquisire la capacità di diffondersi da persona a persona.

Per quanto riguarda i farmaci attualmente a disposizione per il trattamento dell’influenza aviaria, alcuni farmaci antivirali (come gli inibitori della neuroaminidasi) si sono dimostrati efficaci nel ridurre la durata della replicazione virale, con miglioramento delle prospettive di sopravvivenza. Purtroppo è stata segnalata l’insorgenza di resistenza da parte dei virus ad alcuni di essi.

Carne e uova

Nell’Ue, i focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità nel pollame, causati dai sottotipi H5 e H7, prevedono l’attuazione di strette misure di controllo che comportano l’abbattimento e la distruzione dei volatili negli allevamenti colpiti, nonché l’istituzione di zone di controllo intorno ai focolai, dove la movimentazione è consentita solo a seguito di rigidi controlli sanitari che abbiano dato esito favorevole.

Come regola generale, inoltre, i volatili inviati al macello sono sottoposti a visita prima e dopo la macellazione, in modo da assicurare l’eliminazione dalla catena alimentare dei casi sospetti.

Tanti potrebbero chiedersi se è sicuro consumare carne e uova provenienti da aree con focolai di influenza aviaria.

Innanzitutto, va precisato che il virus dell’influenza aviaria viene inattivato dal calore. Quindi, dopo adeguata cottura, i prodotti a base di carne e le uova possono essere consumati. Del resto, il consumo di carne e uova crude o non completamente cotte dovrebbe essere sempre evitato, per potere escludere contaminazioni di qualsiasi genere.

Rosanna Novara Topino


H1N1 versus H5N1:

Le conseguenze sull’uomo

Le malattie causate da virus dell’influenza suina (H1N1) e aviaria (H5N1)  possono essere di lieve entità, con interessamento delle vie respiratorie superiori (febbre, tosse) oppure presentare una rapida progressione fino alla polmonite grave, alla sindrome da distress respiratorio acuto, allo shock e alla morte. Possono essere presenti sindromi intestinali come nausea, vomito e diarrea, soprattutto durante le infezioni da influenza A H5N1, così come congiuntivite. Le caratteristiche della malattia come il periodo d’incubazione, la gravità dei sintomi e il quadro clinico variano a seconda del virus, che ha causato l’infezione, con una netta prevalenza dei sintomi respiratori. Si è visto che i pazienti con virus dell’influenza A (H5) o A (H7N9) presentano un decorso clinico più aggressivo. Inizialmente essi presentano febbre alta (>38°C) e tosse, a cui fa seguito l’interessamento da dispnea delle basse vie respiratorie. Mal di gola o raffreddore, in questi casi sono meno comuni. In alcuni pazienti sono stati riportati anche altri sintomi come quelli intestinali, sanguinamento dal naso o dalle gengive, encefalite e dolore toracico.

RNT


I virus influenzali A, B, C e D

Le quattro tipologie

  • I virus influenzali A – alla cui categoria appartiene quello dell’aviaria – infettano l’uomo e diversi animali. La comparsa di un nuovo virus influenzale di tipo A capace d’infettare le persone e con trasmissione da persona a persona può causare una pandemia influenzale.
  • I virus influenzali B sono suddivisi in due linee, cioè il B/Yamagata e il B/Victoria; essi sono presenti solo nell’uomo, sono meno temibili degli A e sono responsabili delle epidemie stagionali.
  • I virus influenzali C possono infettare sia le persone che i suini e solitamente danno un’infezione asintomatica o una forma lieve di malattia simile a un comune raffreddore.
  • I virus influenzali D sono di recente identificazione e sono stati isolati solo nei bovini e nei suini. Al momento non è chiaro se possano infettare anche l’essere umano.

I virus influenzali di tipo A sono particolarmente importanti per la sanità pubblica per via del loro potenziale zoonosico, cioè la trasmissione dagli animali all’uomo. Data l’elevata trasmissibilità che li caratterizza, se fossero in grado di trasmettersi da uomo a uomo, essi potrebbero scatenare una pandemia influenzale (spillover o salto di specie). Questi virus sono classificati in sottotipi in base alle diverse combinazioni di due glicoproteine di superficie del virus, cioè l’emoagglutinina (HA) e la neuroaminidasi (NA). Allo stato attuale, solo i virus influenzali che presentano in superficie le molecole H1, H2, o H3 e N1 o N2 possono passare da persona a persona. Soltanto alcune combinazioni possono passare da persona a persona. Tutte le altre possono contagiare le persone, ma non trasmettersi da una all’altra.

I virus influenzali responsabili delle grandi pandemie o epidemie del passato sono stati quello della «spagnola», quello dell’«asiatica» e di «Hong Kong». Il primo, l’H1N1, l’agente eziologico della «spagnola», nel 1918-19 causò da 20 a 50 milioni di morti in tutto il mondo, con un’elevata mortalità tra i giovani adulti sani (quasi la metà dei deceduti) e con il decesso che sopraggiungeva nei primi giorni dall’inizio della sintomatologia o per complicanze. Il secondo, l’H2N2, virus responsabile dell’«asiatica», fu inizialmente identificato in Cina nel febbraio 1957 e si diffuse in tutto il mondo tra il 1957-58. In Italia provocò 70mila decessi. Questo ceppo subì una serie di modifiche genetiche a partire dal 1960 che lo portarono a produrre le epidemie periodiche fino alla sua scomparsa dopo una decina di anni. Fu sostituito con l’H3N2, che, nel 1968, diede origine alla pandemia influenzale «Hong Kong», che lì si originò per raggiungere gli Stati Uniti nell’arco di un anno. Quest’ultimo virus è tuttora presente e provoca epidemie stagionali, ma attualmente è possibile prevenirlo con il vaccino antinfluenzale. Peraltro la mortalità sia dell’«asiatica» che della «Hong Kong» è stata inferiore rispetto a quella della «spagnola» non solo grazie alla produzione di vaccini, ma anche grazie all’avvento degli antibiotici (la penicillina fu scoperta da Fleming nel 1928).

Nel 2009 comparve un nuovo sottotipo del virus A H1N1 (quello della «spagnola»), che diede origine, a partire dal Messico e poi in diversi paesi del mondo, all’influenza «suina» che causò tra i 100mila e i 400mila morti solo nel primo anno, soprattutto tra bambini e giovani. Del resto, una caratteristica dei virus pandemici è quella di colpire soprattutto persone giovani, o comunque al di sotto dei 65 anni, risparmiando gli anziani, che sono più facilmente colpiti dai virus stagionali.

RNT

Accortezze in cucina

Anche in cucina vanno adottati alcuni accorgimenti. Innanzitutto bisogna sapere che il congelamento lento intorno a -18/-20°C dei congelatori domestici non è in grado di debellare il virus dell’influenza aviaria eventualmente presente nei prodotti alimentari.

Per evitare contaminazioni, bisogna sempre separare la carne cruda e le uova dai cibi cotti o pronti da consumare.

Non si devono mai utilizzare lo stesso tagliere e lo stesso coltello usati per la carne cruda anche per altri alimenti, e la carne, una volta cotta, non va messa nello stesso piatto dove era stata posta prima della cottura.

È buona norma lavarsi sempre accuratamente le mani con acqua e sapone, sia prima che dopo avere maneggiato la carne cruda.

Lavare accuratamente tutte le superfici e gli utensili che sono stati a contatto con carne cruda.

RNT

 




Biogas, istruzione e salute: il 2023 di Mco


L’anno che sta per concludersi ha visto la realizzazione di diversi progetti, sia nei settori tradizionali per i Missionari della Consolata – cioè la sanità e l’istruzione – sia in settori nuovi, come la promozione di energia pulita. E l’Africa, anche quest’anno, è stata la grande protagonista.

Lo scorso settembre, durante il vertice del G20 a Nuova Dehli, India, diciannove paesi e dodici organizzazioni internazionali hanno lanciato la Global biofuel alliance (alleanza globale per i biocarburanti). L’obiettivo dell’alleanza, di cui fanno parte fra gli altri anche l’Italia, gli Usa, l’India e, fra le organizzazioni, il World economic forum, la Banca mondiale e la Banca asiatica di sviluppo, ha l’obiettivo di promuovere l’uso dei biocarburanti sostenibili@.

I biocarburanti sono un tipo di bioenergia; quest’ultima, si legge nella sintesi del rapporto 2011 sulle fonti energetiche rinnovabili del «Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico», può essere prodotta da una varietà di materie prime di biomassa, cioè materia organica, come i residui forestali, agricoli e zootecnici, alcune colture, la parte organica dei rifiuti urbani, eccetera. Queste materie prime, attraverso vari processi e tecnologie, possono essere utilizzate direttamente per produrre elettricità e calore, oppure per ricavare combustibili gassosi, liquidi o solidi@.

Vecchie delusioni, nuove prospettive

La bioenergia, spiega sul suo sito l’«Agenzia internazionale dell’energia» (Iea, nell’acronimo inglese), rappresenta il 55% dell’energia rinnovabile a livello globale e oltre il 6% della fornitura energetica complessiva.

La moderna bioenergia, riporta ancora la Iea, è un combustibile a emissioni quasi zero, perché – per dirla in modo molto semplificato – l’anidride carbonica che si libera durante la combustione della biomassa si compensa in larga parte con quella che le piante coltivate per creare la biomassa assorbono con la fotosintesi.

All’inizio di questo secolo, i biocarburanti – ad esempio il biodiesel – avevano già ricevuto grandi attenzioni e generato aspettative che si erano però rivelate troppo ottimistiche@.

Le emissioni di anidride carbonica imputabili ai biocarburanti, infatti, non erano poi così basse, considerando la quantità di terra, acqua ed energia necessarie a produrre le piante per formare le biomasse di base. Inoltre, queste piante spesso rimpiazzavano le coltivazioni destinate alla produzione di cibo, provocando aumenti significativi dei prezzi dei prodotti agricoli. Da qui il dibattito, tuttora in corso, sintetizzato dall’espressione food vs. fuel, cibo contro carburante. Si parla oggi quindi di bioenergia moderna e biocarburanti sostenibili proprio in contrapposizione a queste prime esperienze di vent’anni fa e al loro parziale insuccesso.

Biogas e biometano

Anche il biogas rientra fra le bioenergie. Esso, spiega la Iea in un rapporto del 2020, è una miscela di metano, anidride carbonica e piccole quantità di altri gas prodotta dalla digestione anaerobica di materia organica in un ambiente privo di ossigeno.

Una delle tecnologie in grado di produrre biogas utilizza i biodigestori, cioè contenitori o cisterne ermetici nei quali il materiale organico, diluito in acqua, viene scomposto da microrganismi presenti in natura. Altri modi di produzione includono poi la «cattura» del biogas che si forma per la decomposizione dei rifiuti solidi urbani nelle discariche e il recupero dei fanghi di depurazione degli impianti di trattamento delle acque reflue. I fanghi, infatti, possono contenere materia organica e sostanze come azoto e fosforo e, con un ulteriore trattamento, possono essere utilizzati come base per produrre biogas in un digestore anaerobico@.

Il biogas può poi essere trasformato in biometano attraverso un ulteriore processo che rimuove l’anidride carbonica e le impurità. Il 90% del biometano prodotto oggi nel mondo si ottiene con questo metodo, detto upgrading, traducibile con miglioramento, passaggio alla categoria superiore.

Il biogas a Kimbiji

Secondo la Iea, 2,7 miliardi di persone nel mondo non dispongono di energia pulita per cucinare e usano biomassa solida: legna da ardere, carbone, sterco bruciato all’aperto, oppure cherosene. Circa un terzo di queste persone vive nell’Africa subsahariana.

Se fossero raggiunti tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile, nel 2040 il biogas potrebbe fornire energia pulita per cucinare a ulteriori 200 milioni di persone, metà delle quali in Africa, riducendo così l’inquinamento domestico causato da fornelli inefficienti e inquinanti che, secondo i dati del 2018, è direttamente collegato a circa mezzo milione di morti premature annuali nell’Africa subsahariana e a 2,5 milioni a livello globale.

Anche a Kimbiji, villaggio a circa quaranta chilometri a sud di Dar Es Salaam, in Tanzania, i missionari della Consolata registrano questa mancanza di alternative al carbone e alla legna da ardere come combustibili per cucinare. Per questo, padre Domnick Otieno, missionario di origine
keniana che lavora a Kimbiji da quasi tre anni, ha proposto di realizzare un biodigestore da alimentare con gli scarti generati dalla piccola porcilaia realizzata nel 2022 con il contributo della Caritas italiana. Questa ne ha sostenuto la costruzione per permettere a un gruppo di giovani locali di avviare un’attività generatrice di reddito.

«Siamo consapevoli», scriveva padre Domnick lo scorso marzo, «che una parrocchia dovrebbe essere un luogo di trasformazione nella società, un luogo in cui le persone imparano anche a prendersi cura dell’ambiente. L’installazione del biogas nella missione ci permetterà di avere sufficiente gas per l’uso domestico e potremo abbassare la retta per l’asilo, così i genitori dei nostri ottantasei alunni non dovranno più portare legna e carbone per pagare la parte di retta che non possono coprire in denaro. Il sistema a biogas offrirà inoltre a coloro che verranno alla missione la grande opportunità di conoscere l’importanza di questa fonte per ridurre l’inquinamento».

Scuola ad Alaba

Etiopia, istruzione in affanno

L’Etiopia, riporta il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), ha fatto progressi significativi verso l’istruzione primaria universale, con l’88,7% dei bambini iscritti nell’anno 2021/2022@.

Ma alcuni studi del ministero dell’Istruzione etiope e i risultati degli esami per l’accesso all’università di quest’anno costringono a ridimensionare questo dato incoraggiante.

Secondo Africanews, il sito di notizie legato alla rete televisiva Euronews, solo il 3% degli studenti etiopi di scuola secondaria ha passato l’esame di ammissione all’università@, mentre il ministero fa sapere che l’85,9% delle scuole elementari e medie e il 70,9% delle scuole superiori in Etiopia sono «completamente al di sotto degli standard@».

«I risultati peggiori», riferisce padre Marco Marini, missionario della Consolata in Etiopia, «sono spesso nelle scuole private, anche se le scuole cattoliche continuano a mantenere un buon livello e quindi un buon nome».

Ad Alaba, 250 chilometri a sud della capitale Addis Abeba, i missionari della Consolata gestiscono una scuola con 730 alunni, seguiti da quattordici maestri; ci sono poi otto persone che svolgono altri servizi, dalla segreteria alla sicurezza. Le classi vanno dall’asilo alla quinta, ma i missionari intendono attivarne altre, fino all’ottava (equivalente alla nostra terza media, ndr), che è l’ultima del ciclo primario.

L’intervento realizzato ad Alaba ha permesso di fornire alla scuola quarantacinque banchi necessari per avviare la sesta classe e per sostituire quelli danneggiati nelle classi già esistenti. «In Etiopia – spiega padre Marco -, i banchi per la scuola sono pensati per tre studenti e hanno una struttura in ferro su cui sono poggiati i ripiani in legno che servono per scrivere e sedersi. I nuovi banchi possono quindi accomodare un totale di 135 studenti. Li ha realizzati la falegnameria della missione di Shashemane, a sessanta chilometri da Alaba».

Studenti in cortile della nuova scuola di Alaba

Kenya, la sanità fra riforme e vecchi problemi

Secondo i dati dell’Organizzione mondiale della sanità (Oms), il Kenya ha oggi un’aspettativa di vita di 66,1 anni, circa 7 anni sotto la media globale, ma 12,2 anni in più rispetto all’anno 2000@. Tuttavia, si legge nel rapporto 2022 dell’ufficio dell’Unicef in Kenya@, la povertà rimane alta e interessa 16 milioni di persone, cioè un keniano su tre. La metà della popolazione – 23,4 milioni di persone (o addirittura quasi 29 oggi, ndr), di cui 11,7 milioni sono bambini – non ha accesso a servizi di base come assistenza sanitaria, acqua potabile, servizi igienicosanitari, nutrizione e alloggio.

Il Kenya, continua il rapporto, si è impegnato a porre fine alla diffusione dell’Hiv/Aids, che è una minaccia sempre attuale per la salute pubblica, e alle gravidanze delle adolescenti entro il 2030. Se gli sforzi per garantire agli adulti l’accesso alle terapie per il trattamento dell’Hiv sono stati efficaci, tante infezioni nelle persone più giovani non vengono rilevate né trattate. Si stima che quasi 38mila bambini e adolescenti affetti da Hiv non siano in terapia.

Inoltre, secondo il ministero della salute keniano, come riportava lo scorso anno il giornale The Nation, una su cinque adolescenti fra i 15 e i 19 anni è madre o è incinta.

Uno studio pubblicato su Health economic review, rivista del gruppo anglo-tedesco Springer nature, rivela che solo un quinto dei keniani è coperto da una qualche forma di assicurazione sanitaria@ privata o pubblica (il Nhif, National health insurance fund del ministero della Salute, iniziato nel 1966, però collassato a causa della corrotta amministrazione di questi ultimi anni, ndr). Diverse testimonianze dirette da parte di missionari della Consolata, oltre a confermare sul campo questo dato, riportano che, di fatto, soltanto pagando è possibile ottenere cure adeguate.

Recentemente, il governo@ ha lanciato una riforma del fondo che però sembra peggiorare la situazione. Prima della riforma, i keniani pagavano dal loro stipendio o in forma volontaria cifre che andavano da 150 a 1.700 scellini keniani al mese (da poco meno di un euro a circa 11 euro) per il Nhif. Il nuovo fondo prevede un contributo minimo pari al doppio e, per i lavoratori dipendenti, un maggior prelievo percentuale sulla retribuzione.

Troppe persone oggi non hanno un lavoro regolare che dia loro diritto al Nhif o permetta loro di acquisirlo in forma volontaria e, tantomeno, di accedere alle cure sanitarie a pagamento.

Timbwani, la nuova clinica

Una delle zone in cui la povertà è più diffusa è la periferia di Mombasa, grande città portuale sull’Oceano Indiano, dove i missio-
nari della Consolata sono presenti a Likoni e a Timbwani, sulla costa sud oltre lo stretto che separa dalla città antica. Proprio a Timbwani, i missionari hanno di recente completato la costruzione di una nuova struttura sanitaria.

L’aiuto richiesto a Missioni Consolata Onlus dal responsabile, padre Joseph Waithaka, riguarda l’acquisto e installazione di mobilio e attrezzatura per la sala consultazioni, per il triage, per la sala delle cure prenatali e di materiale per le consultazioni pediatriche. La clinica di Timbwani lavorerà di concerto con il dispensario di Likoni, di cui è di fatto un’estensione, e avrà un bacino di utenza di circa 10mila persone. «Chi vive nella zona di Timbwani», scriveva lo scorso marzo padre Waithaka, «deve prendere il traghetto e attraversare lo stretto per raggiungere la struttura sanitaria pubblica più vicina. Questo nuovo centro sanitario ci permetterà di offrire assistenza ai malati e programmi di consulenza ai giovani tossicodipendenti e alcolisti». Mombasa si trova, infatti, su una delle nuove rotte del traffico mondiale di eroina e questo ha reso il Kenya un paese non solo di transito, ma anche di consumo@.

Chiara Giovetti




Il volto svelato


È arrivato il tempo, ed è ora, nel quale il veleno della morte
si tramuta in una bevanda dolce.
Il velo che copriva il volto dell’umanità, di ogni popolo,
di ogni famiglia, di ogni singolo è strappato.
Anch’esso tramutato in fragrante pane saporito.
Il mio volto illuminato dal Tuo.
Il Tuo volto di bambino che porta
a compimento la promessa.
Quella fatta fin dal primo giorno di vita sulla Terra:
«Eliminerà la morte per sempre» (Is 25, 6-10).
È arrivato il tempo in cui le lacrime del lutto
sono accarezzate via dalle dita dell’Amato,
dalla Parola dell’Amante, dal soffio dell’Amore.

Buon Avvento e buon Natale
perché sia il tempo nel quale svelare
il nostro volto autentico
da amico.

Luca Lorusso


Goditi Amico in anteprima attraverso le immagini.
Per gustarlo fino in fondo, accedi al sito amico.rivistamissioniconsolata.it

Questo slideshow richiede JavaScript.




Il profeta senza nome


Il nostro percorso alla scoperta di personaggi biblici la cui fede esemplare e affascinante può insegnare qualcosa anche a noi, è iniziato a gennaio con Abramo, il più noto dei patriarchi benché la sua precisa esistenza storica non sia al di sopra di ogni dubbio. Lo concludiamo con un personaggio che, all’opposto, è sicuramente esistito, ma che ha cercato in tutti i modi di nascondersi, tanto che, in effetti, non ne conosciamo neppure il nome, anche se ci ha lasciato alcune delle pagine più luminose e toccanti di tutta la Bibbia: parliamo dell’autore dei capitoli 40-55 del libro del profeta Isaia.

Lo sfondo letterario

Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Gerusalemme e la Giudea avevano vissuto un momento di crisi e di gloria. Di crisi perché nella regione era arrivata la potenza terribile del nuovo impero assiro che aveva avuto ragione dei ben più agguerriti regni di Damasco e di Samaria. Quest’ultima, il regno di Israele del Nord, era stata conquistata e distrutta nel 721 a.C. con la conseguente deportazione della sua classe dirigente e di tutti coloro che, per abitudine o cultura, avrebbero potuto eventualmente guidare una rivolta.

Un gruppo di sacerdoti, probabilmente, si era rifugiato da Samaria a Gerusalemme portando con sé le proprie tradizioni religiose e profetiche, forse già in parte scritte. Essi, quindi, avevano contribuito alla gloria di quegli anni, perché da loro Gerusalemme era stata come rivitalizzata, prima che arrivasse anche su di lei l’ondata conquistatrice degli Assiri. Questi l’avevano sì assediata ma, distratti forse da disordini in patria o, più probabilmenti, delusi dalla povertà che comunque vedevano nella città (per cui lo scarso bottino non avrebbe giustificato l’enorme sforzo per conquistarla), avevano deciso di abbandonare l’assedio prima di dare l’assalto finale (701 a.C.).

In quegli anni operava a Gerusalemme un profeta dallo stile limpido e bellissimo, sicuro di sé e deciso, che esortava i giudei a confidare non in alleanze umane, ma solo in Dio. E, in effetti, si sarebbe potuto dire che, alla fine, la storia gli aveva dato ragione. Egli continuava a ripetere che «tempio del Signore è questo» e Dio non lo avrebbe lasciato conquistare mai. Questo suo ritornello negli anni si era conservato ed era stato rinfacciato, più di un secolo dopo, a Geremia, il quale invece sosteneva che, nel suo tempo, per fidarsi di Dio occorreva lasciare che i nemici conquistassero la città santa (Ger 7,4): infatti, mantenersi sulle vie del Signore non significava fare sempre le stesse scelte.

Un contesto nuovo

La storia poi darà ragione anche a Geremia.

A metà del vii secolo l’impero assiro va in crisi, e il suo posto viene preso da un altro impero, quello babilonese, che ricomincia a percorrere la strada di conquista e sopraffazione già nota, anche se con uno stile lievemente più mite.

Durante la conquista babilonese, Gerusalemme viene presa e la parte più capace e colta dei suoi abitanti deportata a Babilonia.

In quel periodo, o forse appena dopo, inizia a predicare un profeta nuovo, di cui non conosciamo né il nome, né la vita, né il motivo per il quale decide di fare ciò per cui ancora oggi restiamo ammirati.

Sarebbe infatti bello sapere se quello che noi oggi leggiamo lo abbia anche predicato, ma non possiamo fare altro che immaginare e fantasticare. Ciò che sappiamo è che prende il libro di Isaia, chiuso più di un secolo prima, e decide di proseguirlo.

L’autore del libro di Isaia cambia dal capitolo 40 in poi, perché cambiano lo stile, i temi, lo sfondo (si capisce benissimo che chi scrive è in esilio e scrive a esiliati). Ma lui decide di non iniziare un nuovo rotolo, di non dichiarare chi è. Si «limita» a proseguire uno scritto altrui. Così facendo, inevitabilmente, suggerisce la sua continuità con il «primo» Isaia (in realtà, l’unico di cui abbiamo il nome).

Questi, come abbiamo ricordato, aveva invitato a confidare in Dio, che avrebbe difeso il suo popolo anche politicamente e militarmente. Chi prende quel libro in mano e decide di proseguirlo, vuole invece suggerire che, anche se il popolo è stato sconfitto ed esiliato, Dio continua a essere al suo fianco, a essere affidabile. E già un messaggio del genere è sorprendente.

Avrebbe potuto decidere di nascondere e dimenticare il rotolo di Isaia, o dire che aveva parlato del passato, invece, dal fondo dell’abisso, dice che Dio è sempre lo stesso, continua ad assistere il suo popolo, continua a esserci e a sostenere i suoi.

Le parole nuove

«Consolate, consolate il mio popolo, parlate al cuore di Gerusalemme» (Is 40,1-2).

Le parole dei profeti, almeno in superficie, sono sempre state dure, di giudizio e castigo, anche quando poi, in fondo, parlavano di amore e misericordia. Il «secondo» Isaia, invece, non salva neanche la forma: Dio è un padre innamorato che corre in aiuto di sua figlia, ne giustifica persino gli errori, la abbraccia, la rincuora.

Se parole di giudizio ci sono, sono contro le nazioni intorno, che hanno esagerato nel punire Israele. Ma per il resto si parla di un Dio che vuole far sorridere d’affetto gli esiliati, che li accarezza, che li vuole riconfortare.

Certo, soprattutto a quel tempo, sarebbe stato facile contestare queste affermazioni: come è possibile dire che Dio vuole il bene di Israele che, invece, si ritrova battuto, umiliato e deportato dopo aver visto bruciare il suo tempio, «il luogo scelto da Dio per porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,15, tra i tanti esempi)?

Per il mondo semitico, nel quale nasce anche questo testo, gli dèi difendono un luogo appartenente a loro popolo perché lo considerano proprio: se quel luogo viene conquistato è segno che quegli stessi dèi sono stati sconfitti. Dunque, qui si pone la questione: il Dio d’Israele ha abbandonato il suo popolo, oppure non è stato capace di difenderlo ed è stato sconfitto. Di fronte a questo dilemma verrebbe spontaneo abbandonare un simile Dio.

No, risponde il nostro profeta. E, per la prima volta con chiarezza assoluta, afferma quello che per il popolo ebraico diventerà il cuore della fede: Dio non è stato sconfitto e può decidere di non abbandonare il suo popolo, perché è l’unico Dio di tutta la terra, non uno dio tra i molti dèi. Egli  gestisce tutto come vuole, e ha vissuto la prova del suo popolo con angoscia, e non vuole più che soffra, come un padre che ha lasciato sbagliare suo figlio, ma ha vissuto con più dolore di lui le piaghe conseguenti ai suoi errori.

E siccome Dio è l’unico dio della terra, anche i salvatori che arriveranno per il suo popolo, come il re dei Persiani, Ciro, sono in realtà scelti e voluti e chiamati da lui, anche se loro non lo conoscono (Is 45,1.4). Addirittura, il nostro profeta dice che Ciro è il «suo pastore» (44,28) e il «suo messia» (45,1), con un coraggio che a volte persino le nostre traduzioni moderne faticano a seguire, preferendo renderlo con il «suo eletto» o il «suo unto».

E Dio può serenamente sognare e promettere, a questo punto, non che tutti i popoli saranno vinti e soggiogati, ma anzi che tutti verranno a Gerusalemme per rendere onore al Dio d’Israele (45,22-24). E può invitare il suo popolo amato a violare, apparentemente, la legge dell’Esodo e del Deuteronomio, smettendo di ricordare le imprese del passato: «Ecco, faccio una cosa nuova, proprio adesso germoglia, non ve ne accorgete?» (43,19). Il nostro anonimo profeta, che potrebbe piangere la propria sorte, invita a vedere Dio presente, operante, attivo nella vita degli esiliati.

La sofferenza

Tutto bello? Tutto buono? Come poteva un profeta simile farsi accogliere da gente che soffriva? Non si accorge di che cosa ha intorno, questo ingenuo?

Se ne accorge, sì, ma coglie che c’è altro. Che Dio è presente anche nella sofferenza. Anzi, che se c’è un sofferente che patisce con mitezza per gli altri, non solo Dio approva, ma è lì, con lui, al suo fianco. E se anche nessuno apprezzasse quella sofferenza, Dio non la trascura, ma la vede e valorizza, dicendo che proprio colui che patisce è «il giusto mio servo» (Is 53,11).

È così che nascono alcune tra le pagine più spiazzanti della Bibbia, che i cristiani leggeranno forse con la pelle d’oca, perché non potranno che pensare: «Ma qui parla della passione di Gesù».

Quasi come fossero inserti inutili o fuori tema, compaiono dei «cantici» che lodano un «servo del Signore» che porta pace e risanamento a Israele (42,1-9), procurando peraltro luce e salvezza non solo a quel popolo, ma a tutte le nazioni (49,1-6), benché sembri non vincente, ma oppresso e sconfitto, con la barba strappata, deriso, insultato. E infine, addirittura, mortificato, ucciso, svergognato (52,13-53,12), eppure sicuro di essere dalla parte di Dio (50,4-9).

È l’intuizione che chi è dalla parte del giusto, di Dio, non può essere confuso, anche se agli occhi del mondo sembra esserlo. È la novità di uno sguardo che non punta alle conseguenze, agli esiti, ma al senso, a ciò che c’è a monte. Perché Dio non guarda ai risultati, ma al cuore.

È l’intuizione abissale che un Dio che difende gli umili e gli oppressi, si farà umile e oppresso come loro, con loro.

Il messaggio del profeta sconosciuto

Quale può essere il messaggio interiore, profondo, di un personaggio che neppure possiamo vedere, immaginare, chiamare per nome?

Il «secondo Isaia» (così è passato alla storia per i biblisti) intuisce che un Dio impegnato in un rapporto personale e intimo con l’essere umano non può abandonarlo, soprattutto quando è umiliato, vinto, disperso. Il secondo Isaia intuisce che Dio è presente, c’è, non si ritira soprattutto dove l’umanità ha perso.

Solo uno sguardo amante capisce che, quando la storia sembra dire che sei stato sconfitto e devi arrenderti e rinunciare, chi ama resta sempre presente. E Dio è colui che ama l’umanità a prescindere da ogni altra cosa, come ha lasciato capire in tanti secoli e in tanti personaggi e, per noi, in tanti libri biblici.

Anche quando tutto sembra perduto, anzi, soprattutto in quel momento, Dio è lì, è accanto, sorride, consola, abbraccia, rialza.

Questo profeta ci mostra uno sguardo che prova a penetrare nel pensiero di Dio, e scopre qualcosa di inaudito, di impensabile. Scopre che Dio è tanto interiore all’umanità da non poter fare a meno di farsi debole anche lui, fragile, oppresso e ucciso. Senza che questo gli tolga la capacità di salvare. Ma donandogli la possibilità di «saper prendere parte alle nostre debolezze, perché è stato messo alla prova in ogni cosa come noi» (Eb 4,15).

Il «secondo Isaia» non trova questo volto di Dio descritto da nessuna parte, ma lo intuisce guardando a ciò che il suo Signore ha fatto nella storia, cogliendone la logica, le modalità di comportamento. Il suo è lo sguardo fiducioso che non si aggrappa ai testi o alle argomentazioni (che forse non gli darebbero ragione), ma si affida a una relazione personale che (il profeta lo sa, lo intuisce, se ne fida) non verrà meno, mai.

Angelo Fracchia
(Camminatori 10 – fine)