CHE IL VINO NON DIVENTI ACQUA!


Riflessioni proposte ai missionari nel Convegno di Ariccia/Roma
(4-8 febbraio), utili anche a chi ha a cuore una chiesa diversa, più
missionaria.

L’invito
proposto al Convegno di Bellaria (1998) fu di «aprire il libro della
missione». E fin qui, niente di speciale: possiamo aprirlo e lasciarlo
sulle nostre scrivanie. Occorre, invece, leggere e lasciarci mettere in
discussione. Aprire il libro richiede movimento, gesti dinamici per
passare dal «fare» all’«essere» missione.

Come tutti
i libri, anche quello della missione ha una premessa, dei capitoli e un
epilogo. Ma non ci deve essere la parola «fine».



 Una premessa:

è la
chiamata dei dodici da parte di Gesù, che li scelse per averli con sé e
mandarli poi a predicare due a due. Leggeri nell’«equipaggio», non
avrebbero dovuto essere maestri di retorica, ma persone dal linguaggio
schietto, astuti e docili; insomma, non semplicioni e neppure saccenti,
capaci invece di coniugare amore e giustizia.

Li avvertì
che non sempre avrebbero trovato dove posare il capo; anzi, sarebbero
stati odiati a causa sua. E, compiuta la missione, niente gloria, ma solo
e semplicemente essere considerati «servi inutili».

Unico
segno di potenza: la croce!

All’origine

di ogni
vocazione, c’è sempre l’iniziativa di Cristo e la risposta della persona
chiamata. Lo scopo della scelta è duplice: condividere la sua vita e
continuae la missione di incarnazione, annuncio e testimonianza. Questo
aspetto della chiamata è essenziale, per non dimenticare le nostre origini
e correre il rischio di invertire i ruoli, sentendoci datori di lavoro,
importanti, onnipresenti, indispensabili!

Vogliamo
costruire il Regno… e non abbiamo tempo di stare con Lui, dimenticandoci
di un piccolo particolare: che il Regno è già iniziato! A noi tocca
annunciarlo, scoprirlo e farlo conoscere. Il Regno c’è; non siamo noi che
lo inventiamo; ma spesso assumiamo atteggiamenti da «architetti».

Si
annuncia quello che si ha dentro, l’esperienza personale. Questo  ci
insegna la missione, ed è quanto le nostre chiese madri si attendono da
noi. La chiesa italiana chiede ai missionari spirito apostolico,
entusiasmo evangelico, tenacia e testimonianza (martirio), per
rivitalizzare il cammino delle comunità cristiane dell’Occidente.

La
presenza di istituti missionari in una chiesa locale non può né deve
passare inosservata. Anche perché (forse non lo sappiamo), siamo
considerati gli esperti dell’annuncio e siamo chiamati ad animare la
comunità cristiana. Lo abbiamo fatto e lo facciamo con disinvoltura in
terre geograficamente di missione, ma con la nostra gente ci ritroviamo
timidi, paurosi e ritrosi.

Ci
sentiamo inadeguati e stranieri in casa nostra? Non sappiamo più metterci
in sintonia con il popolo?… Perché in missione ti senti grande, capace e
qui, dove sei nato, ti senti balbuziente?… Animare la propria chiesa è
certamente meno gratificante, ma è altrettanto urgente e indispensabile.
La nostra presenza deve essere viva, quasi un pungolo che stimola, porta
al confronto e obbliga all’azione.

Però
essere missionari non significa fare i supplenti. Oggi in Italia si stanno
creando situazioni di missione, di rievangelizzazione. La tentazione è di
affidare «agli addetti del mestiere» zone o situazioni considerate di
frontiera. Da parte nostra è doveroso privilegiare questi servizi, ma è
compito della chiesa locale fronteggiare tali realtà e trovare risposte
adeguate. Come, per esempio, la cosiddetta missione che «viene a noi»,
cioè il fenomeno migratorio.

Dobbiamo
privilegiare i campi di animazione missionaria, avere una presenza nei
seminari diocesani (e non solo con missionari, ma anche missionarie),
intervenire nei mezzi di comunicazione per far passare un nuovo modo di
percepire gli altri.



 La natura stessa

della
vocazione missionaria è dialogica. L’incontro con l’altro, il diverso, il
nuovo è pane di ogni giorno: un esercizio giornaliero che dovrebbe
allenarci ad essere persone capaci di empatia, di «compassione». Chi apre
e legge il libro della missione trova questo capitolo di estrema
attualità.

Oggi in
Italia assistiamo preoccupati ad un ritorno di ideologie xenofobe, con
posizioni intransigenti a tolleranza zero; assistiamo ad un regresso
culturale. È caduto il muro di Berlino, ma se ne stanno erigendo altri,
invisibili, ma forse più massicci. E sembra che questo non incida sul
nostro «quieto vivere»!

I casi
sono due: o la vita missionaria ci è passata sopra, senza forgiare
minimamente il nostro essere, o non siamo informati: gravissimo peccato
pure questo. L’informazione critica, l’approfondimento serio, la ricerca e
lo studio devono essere una delle nostre principali attività.

Dialogo
esige conoscenza, ascolto, competenza. Sono finiti i tempi in cui bastava
raccontare la storia del «moretto». Oggi la gente vuole conoscere i perché
delle tragedie che assillano il Sud del mondo; vuole sapere quali e di chi
sono le responsabilità dei disastri umanitari. Qui e in missione dobbiamo
essere responsabilmente preparati.

Dialogo è
anche collaborazione: tra missionari e con i laici. Ma non lasciamoli
entrare solo dalla porta di retro, ossia in qualità di subaltei, senza
diritto di parola. Sono invece persone che possono aiutarci a leggere
criticamente la realtà nella quale viviamo.



 I poveri, ragione prima

e ultima
della nostra vita. Però mai una parola come «poveri» è stata tanto usata e
abusata. I poveri sono diventati oggetto di estenuanti riflessioni,
documenti…

Eppure,
chissà perché, mai come adesso sono così lontani da noi. Ci siamo talmente
adeguati a mettere «a norma» le nostre case, che non c’è quasi più posto
per chi «a norma non è». Abbiamo paura di infrangere le leggi dello stato
e perdiamo la forza di «contraddizione» (come Gesù, segno di
contraddizione!).

Non
possiamo avere due regole di vita: in missione e in Italia. Se sei
disposto al martirio là, devi essere disposto a infrangere le leggi anche
qua, che diminuiscono la testimonianza evangelica.

Davvero ci
siamo incarnati, fino a far causa comune con gli emarginati? Il nostro
stare con i poveri è nel ruolo di «compagni di viaggio» verso un mondo più
giusto? Oppure, facciamo sentire il peso del nostro vantaggio economico,
culturale, spirituale?

Partire

è la
nostra parola d’ordine, anche se a volte non sappiamo bene verso dove.
Talvolta non si capisce bene se è «fuga» o un partire verso qualcuno,
uscendo da noi stessi. Non basta divorare chilometri per sentirsi
missionari: la partenza che ci viene richiesta è più radicale e meno
avventurosa.

Ripartire,
ogni giorno e ogni momento, per andare incontro all’altro… Nel libro
della missione ci sono parole essenziali, che dobbiamo ricuperare:
passione, gioia, fermezza; devono sostituire… negatività, stanchezza,
istituzionalizzazione del carisma.

La
missione ci richiede di essere, più che assertori di certezze, umili
ricercatori di verità… profeti in cammino verso il Regno. Se scordiamo
la chiamata, l’essere noi stessi «terra da evangelizzare», la nostra
attività sarà come il muoversi «di un mare agitato che non può calmarsi, e
le cui acque portano su melma e fango» (Is 57, 20).

Non
conformiamoci alle regole della società, per non fare l’antimiracolo:
trasformare il vino in acqua!

(*) Elisa
Kidanè, missionaria comboniana eritrea, ha operato in Ecuador. Oggi è
redattrice di Raggio.

Elisa Kidanè




Ecco i «punti neri»

Caro direttore,
Missioni Consolata è bella,
ma ha dei «punti neri».
Sono anziano, però, nel
leggere PAOLO MOIOLA,
ritorno giovane, quando
leggevo L’Unità dei comunisti
e dei catto-comunisti,
quando (anche allora) tutti
i mali erano imputati agli
americani.
Moiola è giovane; non
ha visto la seconda guerra
mondiale, né può sapere
di tutte le concessioni, fatte
dalle nazioni democratiche,
a Hitler per non entrare
in guerra; quindi
può «gridare che un’altra
strada esiste per non farla» (Missioni Consolata,
ottobre-novembre 2001).
Monsignor Joseph Fiorenza,
presidente dei vescovi
Usa, afferma: «L’azione
militare è sempre da
deplorare, ma può essere
necessaria per proteggere
gli innocenti o per difendere
il bene comune»
(Corriere della Sera, 10 ottobre
2001).
In «Colloqui col Padre»
Famiglia Cristiana ricorda
che il Concilio Vaticano II
nella Gaudium et Spes afferma:
«Fintantoché esisterà
il pericolo della
guerra e non ci sarà un’autorità
internazionale…
non si potrà negare ai governi
il diritto di una legittima
difesa».
La maggior parte degli
articoli di Moiola sono un
attacco feroce all’America:
cita un grande scrittore
messicano, che definisce
George Bush «un energumeno
ignorante» (Missioni
Consolata, ottobre/novembre
2001). È grande
chi usa tale linguaggio?
Moiola intervista SUSAN
GEORGE (Missioni Consolata,
dicembre 2001), «nota
studiosa franco-statunitense», che dichiara: «Ho
paura che Bush vorrà fare
il cow-boy e farà cadere il
mondo nella trappola del
Far West». Ma che studia
costei? Insulti?
Preciso: sono poche le
cose del sistema sociale americano
che mi piacciono;
in politica estera non
sempre l’America si comporta
coerentemente. Ma
non si può dimenticare
che ha salvato l’Europa e
(direi) il mondo più volte
(nella prima e seconda
guerra mondiale); ci ha
scampati dalla fame con il
piano Marshall (1948-
1952), dal comunismo e
oggi dal terrorismo(temuto
da tutte le nazioni del
mondo), che è la forma
più odiosa per reclamare i
propri diritti. L’America è
la più grande nazione
multietnica al mondo.
Mi permetto di sussurrare
a Paolo Moiola: «Un
po’ di umiltà non guasta».

Certissimamente un
po’ di umiltà fa bene.
A tutti…

Rinaldo Banti




IL BUON SAMARITANO… COMUNISTA

Su Missioni Consolata di gennaio
2002 leggo «la parabola di Luca
» attualizzata. Ed ecco che un comunista
viene a darci la lezione del
«buon samaritano», votando contro
la guerra in Afghanistan. Beh, proprio
un comunista? Quando l’Unione
Sovietica invase l’Afghanistan (e
lo fece per conquistare il paese ed
instaurarvi il regime comunista), da
che parte stava quel comunista? Le
bombe sovietiche erano di cartapesta?
Nel regime sovietico non c’era posto
per la pietà, sopraffatta da ben
altri sentimenti; e a chi la pensava
diversamente e non si sottometteva
era riservato un trattamento speciale:
gulag, gulag, e ancora gulag! Ce
ne siamo scordati? Si legga «Arcipelago
Gulag» di Aleksandr Solzenicyn.
Nell’ottobre scorso l’America ha
intrapreso l’azione bellica in Afghanistan,
perché terribilmente provocata
e con ben altri propositi da
quelli dell’Urss: primo fra tutti quello
di combattere il terrorismo. Per
questo ha avuto quasi un universale
sostegno. L’intento, poi, di convertire
alla democrazia un paese musulmano
è impresa ardua. Ora, dopo
tre mesi di bombardamenti, la prosecuzione
del metodo di lotta al terrorismo
va certo ripensata.
Non sono uno scrittore; reagisco
istintivamente quando vengo
tirato per la barba, ormai
bianca. Mi definisco un cristiano
credente, non indifferente
al senso di pietà unito
al timor di Dio. Rammento
al comunista
della «parabola»
che la maggior parte
delle organizzazioni
umanitarie
nel mondo ha
un’impronta cristiano-
cattolica…
Anch’io ho una storiella
da raccontare.
Eccola: «Ricordo un natale,
trascorso in India
con le suore di Madre
Teresa. Eravamo a cena
e suonarono alla porta.
Una suora andò ad aprire e ritoò
con un cestino, che mise sul tavolo
senza scoprirlo. Tutti pensarono che
contenesse dei doni. Poi guardammo
dentro e scoprimmo che c’era un
bambino che dormiva. Tutte le suore,
piene di gioia, esclamarono: “Gesù
bambino! Gesù bambino è venuto
tra noi!”. E dire che avevano 500
bambini nell’orfanotrofio…». Il racconto
è del vescovo Paolo M. Hnilica.

Grazie della testimonianza squisitamente
missionaria e grazie anche dell’invito
alla coerenza.
Durante l’invasione dell’Afghanistan
da parte dell’Unione Sovietica (1979-
89), gli Stati Uniti sostennero la resistenza
dei locali mujaheddin musulmani
e gradivano che un certo Osama
Bin Laden combattesse contro l’impero
sovietico, ritenuto «il regno del male
» (cfr. Gilles Kepel, Jihad, ascesa e
declino, Carocci, Roma 2001). Oggi invece,
per il governo di George Bush, la
Russia di Vladimir Putin è un’alleata
importante contro il terrorismo di Bin
Laden, divenuto il nemico numero uno.
Alleata politica degli Stati Uniti è
pure la Cina, che ha messo da parte le
proprie divergenze.
Quale sarà il prezzo che gli Usa dovranno
pagare ai due alleati? Non vorremmo
che il conto preveda concessioni
anche in materia di
diritti umani: per esempio,
negli «scontri armati in Cecenia
» e nella «assimilazione
delle 55 minoranze cinesi alla
maggioranza degli han» (cfr.
Le Monde diplomatique,
febbraio 2002).
Su che cosa si fonda la
coerenza politica e
quanto dura?

A. DE ANGELI




Bravo padre Enzo!

Carissimi missionari,
devo aiutare la mia gente
a passare dal solo dare al
saper ricevere i doni di altre
culture e chiese. Sto
cercando del materiale
con un linguaggio adatto.
Sapreste indicarmi qualcosa?
Cari amici, niente paura
delle critiche! Potete contare
anche su moltissimi
estimatori.

L’enciclica di Giovanni
Paolo II Redemptoris
missio; l’opuscolo Parrocchia,
comunità missionaria
di D. Pecile (Elledicì,
Torino 1989); il libro di
A. Nanni Educare alla
convivialità (Emi, Bologna
1994). Fondamentale,
per i «nuovi stili di vita
», è il volume Guida al
consumo critico (Emi, Bologna
2000). Eccetera.

Enzo Balasso




LE SPADE NEL FODERO

Ho letto con sgomento su Avvenire 8/2/2002 che
la televisione Abc ha diffuso un reportage da Cuba
(base USA di Guantanamo), dove si vedono i detenuti
talebani ribellarsi agli agenti americani che
rovesciano loro addosso feci e urine. È vero?
Esistono testimonianze sufficienti per odiare la
guerra (non i soldati, vittime essi stessi del vortice
distruttivo, mai totalmente estinguibile dall’uomo).
Qualcuno ha gridato: «Mai più la guerra!». Altri
l’hanno bollata come «avventura senza ritorno». Si
è pure detto: «Con la guerra tutto è perduto». Cosa
ci serve ancora per accantonarla per sempre?
La guerra è stata pure abolita da alcune costituzioni
come mezzo risolutivo dei conflitti. E perché ritorna
sotto altri nomi? Ingerenza umanitaria, azione
di polizia internazionale, legittima difesa…
È necessario un salto di qualità nella riflessione e
nelle scelte quotidiane di ognuno di noi. Il Dalai Lama,
buddista, ha saputo dire «no» alla guerra e a
qualsiasi violenza. E noi cristiani?
Ad Assisi altri leaders religiosi (tra cui Giovanni
Paolo II) hanno dichiarato di impegnarsi perché la
religione non sia mai usata per uccidere, ma per instaurare
tra i popoli relazioni di giustizia e pace.
Le intenzioni sembrano buone; ma, come cristiani,
dobbiamo maturare le motivazioni per tale impegno.
Come «cattolici» noi abbiamo il Concilio ecumenico
e il Catechismo degli adulti: ci consentono
ancora di scegliere «con dolore» l’extrema ratio, cioè
la guerra, quando si è mostrata fallimentare ogni altra
via (dialogo, diplomazia…). Nessuno è disposto
a sopportare una «pace ingiusta», che può significare
sfruttamento, morte. Volendo essere «ragionevoli
», non si dovrebbe scartare questa ipotesi.
Gesù ci ha proposto un’altra via? Sì. Ci ha chiesto
di credere nella forza dell’amore. È la proposta della
croce nella prospettiva della risurrezione: dell’abbraccio
eterno del Padre, il quale non lascia che nessuno
dei suoi figli si perda. La testimonianza dell’amore,
che ci fa essere dono per tutti, porta a soluzione
i conflitti nei tempi che solo Dio conosce e che
non sempre ci consentono di vedere «qui ed ora» i risultati.
Vorrei sapere da specialisti del Nuovo Testamento
se le mie opinioni sono pure fantasie. È vero che l’amore
per i nemici, predicato da Gesù, dovrebbe disarmare
qualsiasi soldato cristiano?
Forse ci vorrà un nuovo Concilio ecumenico…

Caro Filippo, in attesa degli specialisti, «accontentati
» di Gesù che comanda a Pietro: «Rimetti la spada nel
fodero» (Mt 26, 52). Tuttavia è un Gesù che non subisce
passivamente la violenza. A chi lo schiaffeggia replica:
«Se ho parlato male, dimostralo; ma, se ho detto
la verità, perché mi percuoti?» (Gv 1, 23).

FILIPPO GERVASI




GRANDI AMORI


«Cuore grande e fede incrollabile, uniti a uno spirito
ribelle e un po’ goliardico, hanno fatto di questo piccolo grande
missionario uno strumento formidabile dell’amore cristiano». Così gli
amici ricordano padre Antonio Giannelli, scomparso all’inizio di quest’anno,
dopo aver speso quasi 50 anni in Africa, privilegiando poveri, anziani e
bambini.
Invece,
dopo circa due ore, eccoci a Gaturi, la missione di padre Antonio, dove
sarò ospite per un mese insieme a Ugo e Luca. Non fatichiamo molto a
capire che la nostra vacanza in Kenya sarà caratterizzata dal lavoro sodo,
per dipingere la chiesa parrocchiale: siamo qui per questo e ce ne
rallegriamo.

Padre
Antonio non ci fa mancare nulla: pennelli, vernice, cappelli di carta,
scale, ponteggi e latte caldo a volontà. Eh, sì! Sull’altopiano collinoso,
200 chilometri a nord di Nairobi, agosto è fresco e piovoso.

Le
giornate sono faticose, ma serene. Antonio, aiutato da padre Aldo Cremasco,
è sempre in movimento: scuola, famiglie da visitare, dispensario, bambini
da accudire ed educare. E poi le funzioni sacre con i canti così
coinvolgenti, la preghiera comunitaria ed altre attività religiose… La
sera arriva improvvisa e ci coglie indaffarati nelle ultime fatiche della
giornata.

Padre
Antonio arriva spesso per ultimo al desco serale, ma è il primo ad alzarsi
per riordinare la cucina e accendere il gruppo elettrogeno, che fornisce
per un’ora o poco più l’energia elettrica. Appena il tempo di una partita
a carte prima del meritato riposo: il vincitore, manco a dirlo, è quasi
sempre padre Antonio.

Il
ricovero per anziani è una delle realizzazioni di cui il missionario va
più orgoglioso. Anche se nella tradizione familiare africana la figura
dell’anziano riveste un ruolo importante, la realtà è spesso differente:
l’emarginazione di persone, avanti negli anni e non più totalmente
autosufficienti, è sempre più frequente nella società locale.

Tutti i
giorni Antonio passa molto tempo con i suoi «vecchietti», come li chiama
con affetto. Per ognuno ha una parola di conforto; ma non solo: si informa
delle loro necessità e li mette al corrente di ciò che sta accadendo nel
villaggio.

Quattro
settimane sono passate in fretta e ci troviamo di nuovo all’aeroporto di
Nairobi in attesa del volo per l’Italia. Rimpianto e malinconia sono i
sentimenti dominanti, mitigati, però, dalla consapevolezza di avere
imparato tante cose dalla compagnia del missionario.

Dopo
questa esperienza, non sono più lo stesso: le parole del vangelo sono
sentite come invito obbligatorio a fare qualcosa per gli altri e la
condivisione con i più deboli è diventata più naturale. E questo grazie
all’esempio di padre Antonio, che proprio nel messaggio di Cristo trova la
forza per affrontare ogni giorno grandi sfide e fatiche, anche nei momenti
in cui la salute incomincia a dargli qualche grattacapo.

Ritoo in
Kenya nel 1992 e trovo in padre Antonio il solito spirito giovanile, come
se il tempo lo avesse appena sfiorato.

Nel
frattempo egli ha cambiato parrocchia: nel 1987 è stato incaricato di
fondare una nuova missione nella zona di Wamagana, a nord di Nyeri. Detto
fatto: si è messo subito al lavoro e in pochi anni ha compiuto
un’autentica meraviglia. Egli stesso mi fa da cicerone, mostrandomi le
opere realizzate: chiesa, casa dei padri, scuola secondaria, laboratorio
di cucito per le ragazze, casa per le suore e, vero fiore all’occhiello,
la casa di accoglienza per bambini con gravi deficit mentali e motori. Una
vera rarità nel panorama assistenziale africano.

Maestosa è
la chiesa parrocchiale, dedicata alla Madonna della coltura, venerata nel
santuario di Parabita (Lecce), luogo natale del missionario della
Consolata. La costruzione è stata laboriosa e lo ha occupato a lungo; ma
ne è risultato un edificio con l’ardito tetto in cemento armato, simile a
quello della cattedrale di Nyeri, e le pareti arricchite da bei dipinti,
tele e vetrate multicolori.


Nell’illustrare le varie opere della missione i suoi occhi brillano di
luce particolare: senza l’aiuto della Madonna, fa intendere che non
sarebbe riuscito a costruire tutto ciò che sto ammirando.

Una simile
impresa implica un’organizzazione complessa e articolata. Il missionario
vi ha coinvolto i cristiani della parrocchia in modo ampio e concreto,
stimolandoli a crescere nel senso di responsabilità verso tutti i loro
simili.

Una delle
caratteristiche più affascinanti di padre Antonio è l’entusiasmo con cui
si prodiga per il bene degli altri, senza badare a sacrifici né alla
propria salute. Ed è un entusiasmo contagioso, che suscita solidarietà in
numerose persone, familiari e amici sparsi in Italia,  a cui confida
progetti, fatiche e speranze.

 

 

Torino
1999. Padre Antonio ritorna in Italia per controlli sanitari urgenti. La
salute lo sta abbandonando piano piano, ma non si scoraggia: accetta la
malattia con grande serenità e dignità.

Nonostante
le precarie condizioni fisiche, vorrebbe salire su un aereo e volare tra i
«suoi bambini» di Wamagana. «La mia casa e i miei figli sono laggiù – mi
confida -. È là che devo tornare. Qui procuro solo guai!».

Il
pomeriggio del 23 gennaio 2001 padre Antonio si sente male; avvisa i suoi
dell’imminente fine; affida le ultime volontà a padre Daniele Armanni e
vola in paradiso.

La sua
scomparsa mi lascia sbigottito, insieme a tutti coloro che gli sono stati
vicini. Ci rimangono una profonda ammirazione per la fede e forza d’animo
con cui è vissuto fino all’ultimo respiro e la certezza che, dal cielo,
potrà fare ancora tanto per i suoi bambini e per quanti lo hanno
conosciuto. Ci mancherà moltissimo. Ma saremo ugualmente suoi testimoni,
concreti e puntuali, per continuare a fare vivere a Wamagana un pezzetto
di paradiso.

 


MISSIONARIO
«MAIUSCOLO»

Quando per
strada incontro un bambino mi ritorna alla mente ciò che padre Antonio
Giannelli ripeteva negli ultimi mesi di vita come un testamento. Adesso
che non c’è più, mi rendo conto di quanto amore avesse in cuore per i suoi
bambini e con quanta sofferenza avesse dovuto lasciare, nel maggio 1999,
la sua missione di Wamagana.

Da quel 23
gennaio, quando padre Antonio ci ha lasciati, per me e per tanti altri è
come se una parte della nostra vita se ne sia andata con lui; ma la sua
presenza continua a scandie i momenti sereni e tristi. Ricordo ogni suo
gesto e parola. Anche quando, scherzando, mi diceva «vattine», era per me
un momento di affetto, che rimarrà per sempre scolpito nella mente e nel
cuore.

Ho davanti
agli occhi alcune fotografie che rievocano i momenti sereni. Anche se
ormai la malattia aveva scalfito il suo fisico e ancor più il suo cuore,
riusciva a dimenticare la sofferenza per farci sentire tutta la sua
umanità, come nelle interminabili partite a carte, in cui boicottava il
gioco (perché non accettava di perdere) o davanti a un piatto fumante di
polenta e funghi, quando ringraziava il Signore per ciò che gli era
concesso, soprattutto per essere ancora con noi e poter dare ancora
qualcosa.

Da padre
Antonio abbiamo ricevuto molto. Col carattere spensierato e ribelle, a
volte incosciente, ci ha regalato momenti di gioia; col suo coraggio,
dignità e voglia di lottare, specie contro il male che lo stava
distruggendo, ha fortificato il nostro carattere. Con i suoi silenzi, la
riservatezza e (perché no?) la testardaggine, a volte sfrontata, ci ha
insegnato che l’amore per gli altri è più importante dell’amore per se
stessi.

Ricordo
anche la sofferenza e rabbia che provava quando si sentiva accusato di
gestire missione e progetti con criteri troppo personali. Per me e per chi
l’ha conosciuto a fondo, padre Antonio è stato e resterà sempre un
missionario con la «M» maiuscola, per tutto quello che ha fatto per la
gente delle missioni in cui ha lavorato per tanti anni; specialmente per i
«suoi bambini», che considerava tutti figli suoi, e per la comunità di
Wamagana, che riteneva la sua grande famiglia.

Il modo
migliore per ricordarlo e ringraziarlo di tutto quello che ha saputo e
voluto darci in tanti anni di amicizia, sincera e disinteressata,
consisterà nel continuare la sua opera, specialmente a favore dei «suoi
bambini». Glielo abbiamo promesso.

Federico Casarani




PUNTI INTERROGATIVI


Ripensando ai lunghi anni trascorsi in Kenya, un missionario si confessa.
È cambiato il modo di stare con la gente, di spiegare la salvezza dei non
cristiani di aiutare gli altri…
Ma,
anche se ci si può lamentare con Dio di fronte alle sofferenze dei
poveri,la cosa migliore da fare è ancora… fidarsi di Lui.

Siamo agli inizi

degli anni
’50. Sono le mie prime settimane di scuola e sto cercando di mettere
insieme le lettere dell’alfabeto, di leggere le prime parole. Però mi
sembra tutto tempo sprecato: niente entra in zucca! Un giorno la maestra
ci chiede di portare qualcosa per la «giornata missionaria mondiale». E
che cos’è?

Rumino la
parola «missione» lungo la strada… niente! Forse che la maestra non
lavora per noi? Ha bisogno anche lei di uno stipendio. Forse è proprio
questo che ci ha chiesto. Lo dico subito a papà e, immaginate la mia
delusione, quando mi risponde che è già pagata dal governo.

Missione.
«Sì, – mi spiegano – sono i neretti». Poverini! Devono avere ben freddo,
perché sono mezzi nudi. Mia sorellina ha una bambola moretta: la guardo,
la rigiro tra le mani… Sono anch’essi come noi. Cambia solo il colore
della pelle. Ma – continuo a chiedermi – come mai sono così? Forse che si
sono dati il lucido da scarpe?…

Erano
altri tempi. L’Italia era ancora «bianca e pulita», come sostengono alcuni
oggi. Per le nostre strade non si vedeva «gente di colore». Oggi tutto è
cambiato. Italia ed Europa stanno diventando sempre più color caffellatte
e nessuno si chiede più come sono i negretti. Gli anni sono passati e
anch’io, ormai, ho trascorso metà della mia vita in Africa. Sono
missionario. Ma perché?

Ci
dicevano e ripetevano che coloro che morivano senza battesimo andavano
all’inferno. Bisognava, allora, andare, battezzare, predicare. Questo,
però, mi ha sempre lasciato con molti punti interrogativi… In Kenya le
conversioni sono molte, i catecumenati pieni e tanti chiedono di conoscere
la fede cristiana. Lo Spirito lavora, anche se è tutta gente che viene
dalle religioni tradizionali.

Ma i
musulmani, gli hindu… non si convertono. Parlare loro di Gesù Cristo?
Sarebbe inutile. Penso al commerciante indiano che, ogni settimana,
provvede il pane all’orfanotrofio. Penso alla donna musulmana che ho
incontrato un giorno nel suo negozio, durante il ramadan, mese del
digiuno: stava ascoltando alla radio un programma musulmano, con il volume
assordante. Non capivo la lingua, ma sentivo che ripeteva sempre la stessa
litania e la ripeteva mentre mi serviva. Mi sono azzardato a chiedere che
cosa fosse. Un po’ sorpresa, mi ha risposto che si trattava della loro
preghiera, senz’altro strana, molto strana per noi.

Che gente
come questa dovesse andare all’inferno non l’ho mai pensato. Per fortuna
oggi la teologia è cambiata e in paradiso ci vanno molti di più. Il mio
compito è soprattutto quello di «testimoniare», condividere, essere
presente.

Ammiro tantissimo

i primi
missionari arrivati qui, nel centro del Kenya, all’inizio del secolo. Soli
e sperduti in un paese senza strade, tra gente indifferente e a volte
ostile, impossibilitati a comunicare non conoscendo la lingua del posto,
tagliati fuori dal loro mondo di origine… Quanta povertà!

Eppure ce
l’hanno fatta… Oggi alzo la cornetta e chiamo l’Italia, senza neppure
passare dal centralino. Ci sono strade, macchine. In città troviamo cibi
di ogni tipo e viviamo in case di pietra.

Ricordo un
mio compagno missionario che voleva vivere come loro, gli africani: cibo,
casa, mezzi di trasporto… Dopo qualche tempo si è ritrovato
all’ospedale: una degenza che l’ha fatto riflettere e gli ha fatto
cambiare qualche idea. Ho un’educazione, una formazione, una cultura, un
passaporto, una cittadinanza italiana. Quanti in Kenya vorrebbero averla.
Scapperebbero subito, per cercare fortuna in Italia. Sì! Sono ricco. Ma mi
sento anche tanto povero.

Povero,
perché vivo in un paese straniero, di cui non potrò mai conoscere appieno
la lingua e la cultura. La mentalità della gente è sempre un mistero,
anche dopo tanti anni. Povero, perché in certi uffici o parlando con certe
persone, sento chiaro il messaggio o l’invito (anche se non detto a
parole): è meglio che me ne torni nel mio paese.

Sì, sono
un povero ricco o un ricco povero! Senz’altro un segno di contraddizione:
amato, stimato, rispettato da molti… rigettato da altri. Testimonianza,
quindi, di un povero ricco. Ed è con la mentalità del ricco che sono
venuto. Avevo molto da dare. Ed era anche vero. Oggi, quando qualcuno mi
chiede un aiuto materiale, non posso dire che non ho niente. In fondo alle
tasche qualche monetina la trovo sempre.

Ma, dopo
tanti anni, mi accorgo che ho ricevuto molto dagli africani. Hanno valori
che noi non abbiamo o abbiamo perso: amore alla vita, solidarietà,
comunità, il gusto per la celebrazione… Quando sono in Italia, quelle
messe domenicali di 35 minuti, così slavate, proprio non mi dicono niente
o quasi. E non c’è modo di farle più lunghe, perché ti accorgi che la
gente comincia a guardare l’orologio o il parroco, dopo gli avvisi, ha già
detto ai fedeli: «In piedi per la preghiera finale».

E quella
volta che mi sono permesso di lasciare un minuto di silenzio dopo la
comunione, l’inserviente in sacrestia mi ha subito domandato se mi fossi
addormentato. Poteva permetterselo, perché… era mio nipote! Le
celebrazioni liturgiche in Africa, sempre così animate e piene di vita,
sono un’altra cosa.


Missione è presenza

dare e
ricevere, in un interscambio che arricchisce entrambe le parti. Sono
venuto giovane, entusiasta, pieno di vita, pensando di cambiare il mondo.
Mi accorgo ora, dopo tanti anni, che l’Africa ha cambiato me.

È appena
venuta una donna a chiedere aiuto: non ha di che sfamare la famiglia. So
che è sincera. È la seconda siccità di fila; sono mancate le piogge anche
quest’anno. Andando in giro, mi si stringe il cuore, quando vedo quel
granoturco così accartocciato. Ho trovato ancora qualcosa per lei nel
portafoglio. Ma domani avrà di nuovo fame. È nuvoloso, ma non cade una
goccia di pioggia per salvare in extremis questo granoturco e questi
fagioli. Niente. Chiedo a Dio, nella preghiera, che cosa stia facendo. Il
suo silenzio è terribile. Certo, se avessi creato io il mondo, l’avrei
fatto diverso. Non avrei permesso che tanta gente soffra la fame.

Ma forse è
meglio che lasci a Dio il suo mestiere. E io mi accontenti di essere un
povero testimone, che ha tanto da imparare. Un testimone che prega con
questa gente: «Dacci oggi, il nostro pane quotidiano». E quanto al mondo,
visto che non l’ho creato io, non sarò io a cambiarlo. Ma voglio offrire
il mio piccolissimo contributo per renderlo più umano, più abitabile.

È tutto
ciò che posso fare e che Dio mi consente… qui in Kenya. Gliene sono
grato. Molto grato.

Un missionario sereno




GIUSEPPE ALLAMANO – Dalla Consolata al mondo

Chi passa per la casa madre dei missionari della Consolata a Torino si trova davanti a striscioni che ricordano i loro 100 anni di vita: «I missionari della Consolata compiono cento anni!».
Un anniversario ricco di stimoli. Ripercorrere la propria storia è motivo per vedervi la presenza di Dio. Ai missionari partenti, il fondatore, beato Giuseppe Allamano, spesso ripeteva la incoraggiante promessa di Gesù, quando affida ai discepoli di continuare la sua opera di evangelizzazione nel mondo intero: «Io sono con voi tutti i giorni». E commenta: «Egli parte con voi, sarà il vostro sostegno… Questo pensiero deve essere la vostra consolazione: il Signore parte con voi e sarà sempre con voi, non in modo generico, ma tutto particolare» (Conf. III, 470). È lui che opera attraverso i suoi messaggeri.
Ma, prima ancora, egli ha agito nel beato Giuseppe Allamano, a cui si deve la fondazione dell’Istituto. Egli ebbe sempre viva la coscienza di essere soltanto uno strumento nelle mani di Dio per la realizzazione di tante vocazioni alla missione: «Non avendo potuto essere missionario io – diceva – mi sono proposto di aiutare altri a esserlo». Ma si è preoccupato, anzitutto, che fosse il Signore a volerlo, secondo la direttiva fondamentale su cui ha regolato la sua esistenza: fare in tutto e sempre la volontà di Dio.
Alla fondazione di un istituto esclusivamente dedicato all’evangelizzazione dei popoli a cui non è giunto il messaggio del vangelo, l’Allamano pensò in modo abbastanza concreto fin dal 1891, ma non si mosse finché non ebbe la garanzia che ciò rientrava nei disegni di Dio.
La prova da lui ritenuta definitiva la ebbe nel gennaio 1900 quando, assistendo una anziana signora in una gelida soffitta, ne uscì con i brividi della febbre, sviluppatasi poi in broncopolmonite, che lo portò, debole di polmoni fin dagli anni del seminario, in fin di vita. Le suppliche alla Consolata ottennero la guarigione, ritenuta da tutti e dall’Allamano stesso, miracolosa. Erano le prime ore del 29 gennaio. Lui stesso davanti al quadretto della Consolata che stava ai piedi del suo letto promise che, se fosse guarito, avrebbe dato inizio all’Istituto. E mantenne la promessa. Diceva: «Avendo ottenuta la guarigione dalla malattia mortale la fondazione si doveva fare: che io fossi guarito non si poteva negare».
Convalescente nella villa di Rivoli, il 24 aprile spedì al cardinale Richelmy la lettera in cui prospettava tutta la questione relativa alla fondazione dell’Istituto. La mise sull’altare dove celebrò la messa, chiedendo che il Signore manifestasse ancora la sua volontà, come aveva scritto al cardinale nella conclusione: «Rifletti alla cosa presso il Signore, e ritornando fra non molto a Torino, mi dirai il da farsi». Il cardinale gli disse che si doveva fare. E l’Allamano, con le parole di Pietro a Gesù, rispose: «Sulla tua parola getterò le reti». Secondo il suo stile, cominciò subito.
Dopo aver consultato il Dicastero romano di Propaganda Fide, interpellò i vescovi del Piemonte, riuniti alla Consolata nei giorni 12-13 settembre 1900 per la loro assemblea annuale, sul progetto di fondazione dell’Istituto missionario. Il cronista del tempo riferisce che «vivamente caldeggiata dal cardinale Richelmy, l’opera venne discussa, lodata e approvata da tutti i presuli subalpini» (La Consolata, 1,1900, p. 163; cf. L’Italia Reale – Corriere Nazionale, 14-15 ottobre 1900).
Il cardinale manifestò pubblicamente la sua cordiale approvazione con un messaggio pubblicato sulla rivista La Consolata:
«Benediciamo con tutta l’effusione dell’animo al nuovo Istituto, che prendendo il nome della Consolata, ha per scopo di consolare il cuore stesso dell’amatissimo nostro Signor Gesù Cristo col far paghi i desideri del suo amore.
A codesti figli novelli di Maria Consolatrice auguriamo collo spirito di zelo e di sacrificio i doni più eletti dell’apostolato cattolico; e affrettiamo coi voti più ardenti la conversione di quegli infelici, che nelle terre lontane ancor giacciono fra le tenebre e l’ombra di morte.
E mentre sull’opera novella imploriamo i favori del cielo, raccomandiamo la stessa a tutti i nostri figlioli, e specialmente alle anime devote della cara nostra Madre delle Consolazioni. Torino 12 ottobre 1900. Agostino card. Richelmy».
La data «ufficiale» di fondazione dell’Istituto venne stabilita dal card. Richelmy e dal beato Allamano al 29 gennaio 1901, anniversario della guarigione.
Alla culla della Madre
L’ispirazione della fondazione dell’Istituto è venuta dall’intenso dialogo di amore dell’Allamano di fronte alla icona della Consolata. Lì capì che lei è Madre di tutta l’umanità e a tutti desidera che sia fatto conoscere il suo Divin Figlio. Da lei è venuto il segno che doveva partire.
Lei è all’origine dell’Istituto. Il beato Allamano ne è fermamente convinto: «È lei che ideò il nostro Istituto, lo sostenne materialmente e spiritualmente, ed è sempre pronta alle nostre necessità. È lei la fondatrice. Non c’è dubbio che tutto quello che è stato fatto è opera sua».
Era logico che al suo santuario avvenisse la celebrazione principale a cento anni dalla fondazione dell’Istituto, il 29 gennaio 2001, con la presidenza dell’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, successore del Richelmy, del rettore del santuario, mons. Franco Peradotto, dei missionari e delle missionarie della Consolata con i loro superiori, e di tanta gente.
Il beato Giuseppe Allamano che ha sempre tenacemente rivendicato la sua funzione unica di trasmettere un carisma e uno spirito, ha anche avuto viva coscienza di non poterlo fare se non insieme a tante persone, dal Camisassa, ai sacerdoti della diocesi, alle tante persone che frequentavano il santuario della Consolata e hanno imparato a esprimere il loro amore alla Madonna contribuendo al cammino della missione e all’aiuto dei fratelli più bisognosi. Questo centenario è di tutta la gente, tante persone che hanno accompagnato, aiutato, incoraggiato e sostenuto l’Istituto e ne hanno reso possibile l’impegno missionario. Tutti insieme hanno espresso il grazie per i 100 anni dell’Istituto, che ha percorso le strade del mondo per portare ai popoli il vangelo, consolazione e vita.
Insieme alla riconoscenza, la celebrazione centenaria è occasione per rinnovare l’affidamento alla Consolata. «Portiamo il suo nome», ricordava l’Allamano; «siamo suoi figli»; da lei prende ispirazione la consacrazione alla missione. Per questo, il superiore generale ha offerto una lampada, che arda davanti a lei durante tutto l’anno, segno di adesione, di rinnovato impegno e fiducia. La Consolata, che «nei momenti difficili è intervenuta in modo straordinario», ha protetto i suoi missionari e le sue missionarie, ha fatto per loro «miracoli quotidiani», continui a prenderli sotto il suo manto e, insieme a loro, quanti ne accompagnano e sostengono il cammino di annuncio del vangelo.
A nome di tutti i missionari della Consolata, il padre generale ha affidato tutto l’Istituto alla loro Madre. Questo gesto ha voluto ricordare e fare proprio l’atteggiamento di fede del beato Allamano. Davanti all’icona della Consolata si inginocchiava affidando a lei i missionari lontani, in viaggio, tra i pericoli, ammalati, presi da sconforto o nostalgia. Nelle difficoltà più grosse, la sicurezza è venuta dal dire con fiducia alla Consolata: «L’Istituto è tuo, pensaci tu!». E ha percepito pure la risposta della Madonna: «Stai tranquillo, ci sono io!». Con questo stesso spirito, il padre generale ha pregato:

«Santa Vergine degli inizi, fidenti ti invochiamo
in quest’alba del secondo centenario di vita dell’Istituto.
Da te, Consolata, è venuta a noi la vita;
per te il Signore ci ha elargito doni
con munificenza regale.

Specchio della nostra identità,
ispiratrice della nostra vita
rendici fedeli collaboratori del regno che viene.
Vincolo della nostra comunione,
ravviva nelle nostre comunità lo spirito di famiglia,
la capacità di lavorare in unità di intenti,
la sollecitudine per i fratelli che ci vivono accanto.

Non si spenga in noi la lampada della speranza,
nella certezza che nulla è impossibile a Dio;
arda in noi il fuoco della missione per illuminare
quanti non conoscono la luce da te generata;
brilli in noi la gioia della consolazione,
perché si diffonda nelle case dei poveri,
degli oppressi e smarriti di cuore.

L’Istituto è opera tua, o Consolata;
alla tua protettrice assistenza ci affidiamo.
Imprimi nel nostro cuore
le parole del beato padre fondatore:
“Coraggio! Avanti!”,
per muovere i nostri passi verso le frontiere dell’umanità,
portando la vera consolazione, Gesù Cristo,
e il lieto annunzio del suo vangelo. Amen».
Tante vite donate
All’inizio della celebrazione è stato espresso il senso di profonda comunione con quanti hanno contribuito alla nascita e alla crescita dell’Istituto; con i missionari e le missionarie e le loro comunità in ogni parte del mondo; con coloro che in cento anni hanno speso la vita per la missione.
Tra questi un posto singolare hanno avuto i missionari, le missionarie, i laici uccisi a causa dell’annuncio del vangelo. Con il dovuto risalto è stata portata all’altare della Madonna una ampolla intrisa del sangue di catechisti martiri del Mozambico. In essi erano presenti tanti altri, molte vite sacrificate per il regno di Dio. Sono il fiore e frutto più valido della missione, la più potente intercessione. L’arcivescovo l’ha invocata a conclusione della preghiera universale, tenendo tra le mani questa ampolla, chiedendo:
«Sia preziosa davanti a te, Signore, questa terra intrisa del sangue di missionari e catechisti martiri; renda a te accetta la nostra preghiera, efficace la nostra intercessione. La loro testimonianza sia seme da cui germoglia la vita, fioriscono nuove vocazioni alla missione, coraggio nell’impegno di oggi fiducia nel futuro».
Dal grembo della diocesi
Nell’omelia, dopo aver fatto memoria dell’evento storico che sta alla base della celebrazione, l’arcivescovo di Torino ha proseguito:
«Da dove è nato l’Istituto dei missionari della Consolata? La risposta ovvia, anche da quello che abbiamo già sentito, è che è nato qui, nella casa della Madonna Consolata. Ha preso il nome da questo nostro carissimo e importante santuario. Potremmo anche dire che è nato dal cuore della SS. Trinità, perché ogni opera, ogni iniziativa di bene viene da Dio: “Ogni dono perfetto viene dal Padre della luce”, ci ricorderebbe S. Paolo. Credo che sia molto importante, volgere questo sguardo verso le vere origini, che sono la SS. Trinità e l’ispirazione della Madonna, accanto a cui l’Allamano è vissuto per ben 46 anni. Lo sguardo però alla realtà storica ci conduce a dire che l’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. Un sacerdote della diocesi di Torino, nato a Castelnuovo Don Bosco, terra di santi, nipote del Cafasso, patria di s. Giovanni Bosco, paese dove è morto, in una frazioncina, anche s. Domenico Savio. Un comune che annovera già al suo interno ben quattro santi, già proclamati tali dalla chiesa.
Il giovane Giuseppe Allamano ha attinto la sua formazione dalla famiglia, indubbiamente profondamente cristiana, ha coltivato la sua preparazione con gli studi filosofici e teologici, fino a raggiungere la laurea in teologia, e ha costruito in questo santuario, accanto alla Vergine e attraverso la devozione alla Consolata, la storia del convitto ecclesiastico, il suo cammino di santità cristiana, lo slancio per attuare l’ispirazione di fondare l’Istituto dei missionari della Consolata, e poi delle missionarie della Consolata.
L’Istituto è nato dal cuore del beato Giuseppe Allamano. E non perché sono arcivescovo di Torino, ma per aderenza alla realtà storica, dico anche che è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino. L’Allamano, con il consiglio e l’approvazione dell’arcivescovo del tempo, card. Richelmy, e, come abbiamo sentito, di tutti i vescovi del Piemonte, si poneva il problema dell’annuncio del vangelo a immense popolazioni del mondo, ancora distanti dalla conoscenza di Cristo. La situazione, tanto diversa da oggi, era di grande abbondanza di clero locale, da arrivare al punto che l’arcivescovo non sapeva dove mandare i sacerdoti appena ordinati. Ecco allora che all’interno del presbiterio diocesano, l’Allamano intuisce di poter chiamare un gruppo di sacerdoti, che diventeranno il primo nucleo dell’Istituto.
Ci tengo a ripetere che l’Istituto è nato dal grembo del presbiterio diocesano di Torino e, in senso più largo, da questa santa chiesa di Torino. La grande tradizione di santità e di spirito apostolico dei secoli XIX e XX è diventata il giardino in cui sono germogliati tanti fiori, tanti istituti religiosi, tanti esempi di santità e di missionarietà. Questo è il ricordo storico che desideravo fare a cento anni dalla nascita dell’Istituto della Consolata, sottolineando il legame di parentela tra l’arcidiocesi di Torino e il vostro Istituto. Il vostro fondatore è sempre rimasto prete diocesano e per 46 anni, fino alla sua morte, rettore di questo santuario della Consolata; questo mi ha impressionato».
Motivi per dire grazie
«Dalle piccole esperienze dirette che anch’io ho avuto dell’azione dei missionari della Consolata – ha continuato l’arcivescovo – posso dire che il loro stile è quello tipico di coloro che partono per la missione ad gentes. Andare in un luogo dove non si conosce Gesù Cristo, annunciare il vangelo, far sorgere la comunità cristiana, attendere pazientemente che essa si esprima in sacerdoti, laici impegnati, catechisti, per poi spostarsi da un’altra parte, e lasciare che questa comunità cammini con le proprie gambe. Questa caratteristica del missionario non solo della Consolata, ma di tutti gli Istituti missionari, di essere sempre sulla frontiera dell’annuncio, ha caratterizzato i cento anni di storia dei missionari della Consolata.
La vostra storia, nel profondo, ha avuto quello spirito che l’Allamano aveva sempre raccomandato: una grande preparazione culturale, soprattutto teologica, grande santità e fervore di vita, e soprattutto una carità tale da essere disposti a morire anche martiri per l’annuncio del vangelo. Credo che davvero questi cento anni sono stati un camminare su questa traccia indicata dal Fondatore: formazione umana, teologica, spirituale, santità di vita, eroismo fino all’effusione del sangue.
La terra intrisa del sangue dei martiri del Mozambico, come è già stato ricordato nell’introduzione, dà pieno significato al rendimento di grazie che oggi innalziamo al Signore e alla Vergine Consolata.
Vanno pure ricordate le chiese locali nate dall’apostolato dei missionari. Io ne ricordo diverse in Kenya e in Tanzania, dove sono stato, per vostra benevolenza, a predicare un corso di esercizi spirituali ai padri. Dove non c’era niente, ora ci sono parrocchie, fiorenti comunità cristiane. Anche per questo rendiamo grazie».
Riprendere slancio
«Siamo qui anche per un rilancio. Il santo padre nella lettera apostolica che ha voluto donarci a conclusione del grande giubileo del 2000, prende lo spunto dal testo di Luca, dove Gesù dice a Pietro “prendi il largo”, e getta le reti per la pesca. Non bisogna fermarsi al passato, ma guardare il futuro e rilanciare il fervore della prima ora, l’entusiasmo e lo slancio dei primi missionari. Questo ci propone la parola di Dio che abbiamo ascoltato. S. Paolo nel bellissimo inno della lettera agli Efesini (1,3-14) ricorda che siamo dentro il grande progetto di Dio. Un Dio che “ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo”, non per realizzazioni umane “ma per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità”. Un Dio che ci chiama ad entrare nella grande avventura del suo mysterium, “il progetto di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra”.
Cari missionari della Consolata, questo è uno slancio che dovete riprendere nel cuore, nella mente e nelle azioni. Entrare dentro al progetto che il Padre ha di ricapitolare, riassumere, riconciliare nel Signore Gesù Cristo tutta l’umanità. E questo è possibile se noi, come diceva il vangelo (Gv 15,4-15), siamo uniti a Cristo come il tralcio alla vite. Uniti a lui portiamo frutti, e abbondanti, come quelli che avete raccolto in questi cento anni.
Se siamo uniti a Cristo dobbiamo anche accettare di essere potati, provati, nelle difficoltà e nella sofferenza. Anche i missionari della Consolata, come i seminari diocesani, stanno tribolando per la scarsità di vocazioni. Sono tutte prove che il Signore ci dà per purificare la nostra vita, la testimonianza, lo spirito. Il Signore ha i suoi disegni, per cui se un tralcio porta frutto, il Padre lo pota perché porti più frutto. Questa unione con Cristo è certezza della sua amicizia, “vi ho chiamati amici, perché vi ho comunicato tutto ciò che il Padre mi ha detto”. “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi. E vi ho detto queste cose, vi comunico la mia amicizia, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
Lo slancio lo prendiamo qui, ai piedi della Vergine Consolata, il modello, la protettrice, colei che ci sostiene e dà forza nelle difficoltà. Qui l’Allamano ha trovato ispirazione e forza per seguire la sua vocazione e dare al vostro Istituto le caratteristiche che lui ha ricevuto dalla Madonna Consolata. Qui è il riferimento irrinunciabile».
Per sempre
«Ho incontrato alcune missionarie della Consolata a Nairobi nella loro casa per le suore anziane. Dicevano: “Noi siamo partite per l’Africa 50 anni fa, quando eravamo giovani, e non siamo mai più tornate in Italia”. Ho chiesto: “Come mai? Adesso vanno e vengono con i voli aerei, adesso c’è facilità di viaggiare”. “E no – risposero -. Quando siamo partite, il nostro santo fondatore ci diceva che si parte per sempre. E anche se i superiori ci concedono di ritornare, vogliamo rimanere qui fedeli al nostro impegno”. Questo mi ha scioccato, mi ha impressionato: “Siamo partite e non siamo mai ritornate in Italia, vogliamo morire qui ed essere sepolte qui”.
Il “per sempre”, fratelli e sorelle carissimi, oggi non è così ovvio. Tuttavia, anche se oggi non è tanto di moda, è una caratteristica fondamentale dell’amore. Uno che ama Dio, ama Gesù Cristo, e sente il bisogno di portare il vangelo agli altri, dice sì come ha detto Maria, per tutta la vita, per sempre. Così ha fatto il beato Giuseppe Allamano, che si è consegnato a Dio nella fedeltà alla sua vocazione. Così ha fatto la serva di Dio Irene Stefani (speriamo che anche voi suore abbiate poi la vostra santa proclamata tale dalla chiesa). Siamo qui nel santuario della Vergine Consolata, per rinnovare nel ringraziamento, nel ricordo storico, il nostro proposito di perseveranza e di fedeltà alla missione che il Signore ci ha affidato. Questa fedeltà deve durare per sempre».

L’ inizio del centenario, al santuario della Consolata è stato veramente una festa «di famiglia» per la missione: nella «casa della Madre», nel ricordo del padre che ha dato avvio all’Istituto, con la rappresentanza di tutta la diocesi, che ha condiviso attivamente l’intento dell’Allamano e ne ha reso possibile la realizzazione.
Circondati da un gran numero di testimoni fedeli a questo progetto, suscitato da Dio per attuare l’opera di salvezza di Cristo, si è rafforzata la volontà di proseguire per la strada intrapresa.
È cresciuta la fiducia che il beato Giuseppe Allamano aveva per il futuro: «La nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata. Passeranno gli uomini, cadranno pure alcune foglie, ma l’albero prospererà e verrà un albero gigantesco: io ne ho prove prodigiose in mano».

Redazione




Quasi come sul ring

Il dossier «L’alta teologia
e il buon senso» (Missioni Consolata,
gennaio 2001), scritto da un teologo
missionario, ha suscitato disappunto
in un vescovo.
Trattandosi di temi della massima
importanza, abbiamo trasformato in articolo
la «botta» e «risposta» dei due personaggi.

Non sono sfumature

Non posso nascondere il disappunto nel leggere le pagine 30-31, firmate da Igino Tubaldo, della benemerita rivista Missioni Consolata, gennaio 2001.
L’espressione «fuori della Chiesa non c’è salvezza» va, certamente, compresa alla luce della Rivelazione, dove si afferma che Dio vuole tutti salvi e non fa eccezione di persone (cfr. Rom 2, 11).
Numerosi fratelli dell’Ortodossia, della Riforma protestante e fra gli stessi pagani vivono più santamente di me, vescovo della Chiesa cattolica. Dio guarda nel cuore e in un modo che solo Lui conosce, fa giungere a tutti la grazia della salvezza, frutto del sacrificio redentore dell’unico salvatore Gesù Cristo (cfr. Lumen gentium, 16).
È pure vero che, per essere fedele discepolo di Gesù, devo amare, stimare, rispettare e, quando possibile, aiutare chiunque così com’è, senza pretendere che diventi cattolico, lasciando alla misericordia di Dio che gli conceda o no in terra la pienezza della luce, che è Cristo.
E vengo al punto sul quale non mi trovo d’accordo: è il tema della salvezza nella vera Chiesa. Al riguardo, ricordo che il catechismo della Chiesa cattolica riporta, al numero 181, una parte della frase di san Cipriano: «Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre».
L’interpretazione di Missioni Consolata del «subsistit» (Lumen gentium, 8) contrasta con quanto scritto in «Chiesa: carisma e potere», dove si legge: «Il Concilio (ecumenico) aveva scelto la parola subsistit proprio per chiarire che esiste una sola sussistenza della vera Chiesa, mentre fuori della sua compagine visibile esistono solo elementa Ecclesiae, che, essendo elementi della stessa Chiesa, tendono e conducono verso la Chiesa cattolica».
Infine l’esempio dei vari ordini francescani (per vedere dove «sussiste» la genuina forma del francescanesimo) mi sembra molto inopportuno, perché qui si tratta solo della regola di san Francesco, vissuta nella sostanza, ma con sfumature diverse dai vari ordini. Invece che nell’Eucaristia ci sia la presenza reale o no, che la Messa sia un vero sacrificio o no, che ci sia il Ministero petrino o no, che ci sia un Magistero autorevole e, in certi casi, infallibile o no, che ci sia il Sacerdozio ministeriale o no, che la Chiesa abbia il potere di rimettere i peccati o no… non sono sfumature!
Si dimentica la fondamentale distinzione fra la sincerità della coscienza retta, onesta ed aperta allo Spirito Santo (che opera ovunque e su ciascuno e che è la norma dell’agire umano – cfr. Dignitatis humanae, 3) e la verità, realtà oggettiva, alla quale l’uomo retto e sincero si adegua allorché ne viene a conoscenza (cfr. Veritatis splendor).
Riconosco e apprezzo il vostro lavoro di missionari, ma ho timore che presentare in questo modo problemi così seri per la fede sia fuorviante, specialmente per le famiglie cui la rivista è diretta e che sono spinte a cadere in quel relativismo e sincretismo deprecati dal dossier.
Antonio Santucci
vescovo di Trivento (CB)

Carità e lacrime

Talora a teologi e direttori di riviste «missionarie» tocca la sorte del pugile sul ring che, colpito da un gancio, cade al tappeto e poi si sente contare: «tradisci la fede…», «produci scompiglio nei fedeli…», «sei eretico…».
Quando nel 1942 (prima del Concilio ecumenico) A.J. Cronin (1896-1981) pubblicò il romanzo Le chiavi del regno, nella Chiesa parecchi storsero il naso. Padre Chisholm era un missionario sui generis: in Cina dialogava con un pastore protestante e, soprattutto, con un medico ateo, che lo raggiunse per curare gli ammalati. A costui, sul letto di morte, il missionario disse: «Nessuno che sia in buona fede può essere perduto. Nessuno!». Perché a Dio non farebbe piacere vedersi davanti un agnostico rispettabile, giudicarlo con una luce amichevole negli occhi e dirgli: «Come vedi sono qui, nonostante quanto ti hanno fatto credere. Entra nel Regno che hai onestamente negato!»?
Ogni docente di teologia lo insegna: la misericordia di Dio può andare al di là dei sacramenti e il regno di Dio ha confini più ampi di quelli della Chiesa.

Se fuori della Chiesa cattolica e nelle religioni non cristiane esistono valori autentici, l’espressione «la Chiesa di Dio è quella cattolica» o «la Chiesa di Dio sussiste in quella cattolica» può essere accettata solo in senso positivo, cioè: la Chiesa di Cristo è quella apostolica e si manifesta nella Chiesa cattolica. Il verbo «è» o «sussiste» non è accettabile nel significato negativo, cioè: i gruppi cristiani, al di fuori del cattolicesimo, non hanno nulla di ecclesiale. Il Concilio ha riconosciuto l’ecclesialità (anche se non perfetta) delle comunità cristiane, non cattoliche. Queste possono essere come pianeti gravitanti attorno allo stesso sole, che è Cristo.
Altro è il problema dei non cristiani. Qui entra il detto «fuori della Chiesa non c’è salvezza» o, in modo più edulcorato, «nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre». Sono assiomi che si possono accettare se, ancora una volta, vengono intesi in senso positivo, cioè: nella Chiesa cattolica c’è salvezza, senza però escludere che, fuori di essa o del cristianesimo, chi è in buona fede o fa quanto è in suo potere possa salvarsi.
Il Concilio riconosce (e con insistenza) che anche nelle religioni non cristiane possono esistere «cose vere e buone», «preziose, religiose e umane», «germi del verbo», «raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (cfr. rispettivamente Lumen gentium, 16; Gaudium et spes, 92; Ad gentes, 11 e 15; Nostra aetate, 2).
Nel 1984 il Segretariato per i non cristiani ha commentato: «Poiché nelle grandi tradizioni religiose dell’umanità esistono questi valori, le stesse tradizioni meritano l’attenzione e la stima dei cristiani».
Le religioni non cristiane sono o non sono salvifiche per se stesse, anche se l’individuo che le pratica in buona fede può salvarsi? Il Concilio non ha risposto alla domanda.
Al quesito (poiché la via è aperta) cercano di rispondere i teologi. Oggi quasi tutti proseguono sulla strada del dialogo: Gesù Cristo è l’unica via della salvezza, ma non si possono porre limiti all’azione salvifica di Dio; si chiedono se nel «pluralismo religioso» ci sia un disegno di Dio. Seguendo la linea ascendente «Chiesa – Gesù Cristo – Dio Padre – Regno di Dio – Spirito Santo», affermano che la Chiesa in terra non è il Regno di Dio, poiché ne è solo il «germe e inizio» (Lumen gentium, 5); germi e inizi del Regno si possono riscontrare pure altrove. Sviluppano teorie sulla «presenza inclusiva»; ricordano che lo Spirito soffia dove vuole…
I teologi concludono: alla Chiesa, per spirito ecumenico e missionario, spetta «condurre a compimento» quanto di positivo esiste nelle tradizioni religiose, non solo perché nulla vada perduto, ma sia «purificato, elevato e perfezionato» (Lumen gentium, 17).
Il papa, nell’enciclica missionaria Redemptoris missio, afferma che «la presenza e l’attività dello Spirito sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo»; tale presenza e attività «non toccano solo gli individui, ma la società, la storia, i popoli, le culture, le religioni» (28).
Allora i teologi si chiedono se, nelle altre religioni, ci siano raggi di verità non presenti nella Chiesa e se, di conseguenza, essa debba dimostrarsi incline a ricevere qualcosa. Perché, quale dialogo si può instaurare se una parte è sicura di non aver bisogno di nulla e di nessuno?
Vittorio Morero, sacerdote giornalista e corrispondente di Avvenire, nel suo libro Il catechismo dei non credenti, scrive: «Penso che ci sia anche una delega di Dio alle religioni non cristiane, agli umanesimi laici, alla saggezza del pensiero dell’uomo nella sua evoluzione storica, nella sua creatività artistica e al genio di ogni uomo» (p. 194).
Una rivista «missionaria» deve amare la propria Chiesa, senza cadere nella «melassa religiosa», senza negare il Ministero petrino o la Presenza reale… e sa che queste non sono sfumature. Se ricorre al paragone del francescanesimo, è per farsi capire. Trattandosi poi di una rivista «missionaria», è comprensibile la sua preferenza per una Chiesa «aperta» ai non cristiani.
Nella Chiesa non esistono solo sette sacramenti; prima o accanto a questi, ci sono i «sacramenti naturali» o «pre-sacramenti». Secondo il biblista Stanislas Lyonnet (1902 1981), essi sono la carità, le lacrime, la debolezza («quando sono debole è allora che sono forte» – 2 Co 12, 9). Sono alla portata di tutti.
Come valutiamo le folle di indiani che s’immergono nel Gange? E più ancora: perché non rivolgere al Padre di tutti una preghiera, affinché abbia pietà delle migliaia di persone, vittime di terremoti, anche se non hanno mai sentito parlare di Cristo o della sua Chiesa?

Igino Tubaldo
missionario e teologo

Antonio Santucci e Igino Tubaldo




SPECIALE 100 ANNI – L’Etiopia è italiana

Per il «trionfo» dell’Italia in Etiopia del 1936, nelle sedi del fascio si raccolgono fedi di mogli, medagliette
di senatori, croci pettorali di vescovi e si fondono campane: l’evento catalizza il consenso della maggioranza del popolo e, persino, di molti antifascisti.
I cattolici si allineano con «ingenuoentusiasmo»; c’è qualche eccezione.
Compromessi con il fascismo anche i missionari. Pochi i «distinguo».

«È scoccata l’ora di Dio!»

«Anche il sangue, anche le lacrime degli araldi di Roma in terra etiopica ottengono oggi il loro esaudimento. La giustizia, invocata dalle sacre ossa di tanti eroi di verità ed amore, finalmente trionfa. Il glorioso compimento dello sforzo immane, la trionfale riuscita della più grande spedizione coloniale che la storia ricordi, viene ad incastonare la più fulgida gemma nella corona di Roma imperiale».
È sempre la rivista Missioni Consolata (giugno 1936) a manifestare gli ideali politici degli omonimi missionari. E sono ideali fascisti.
«Il tricolore d’Italia, che si alza nel cielo d’Etiopia a sventolare sulle rovine d’una barbarie finalmente disfatta, intona una peana immortale alla gloria dell’urbe eterna, faro di fede e civiltà – incalza il periodico missionario -. L’Etiopia è italiana! E alla irrevocabile parola del duce, un fremito di fierezza scosse tutta la fiorita penisola; un delirio di commozione pervase tutti i cuori.
Inchiniamoci riconoscenti all’uomo provvidenziale, al duce del fascismo, a questo acuto conoscitore delle nostre necessità e forze, a questa adamantina tempra di lottatore e dominatore, che questa impresa ispirò, volle e condusse alla mèta».
«L’Etiopia è italiana! Quale smagliante visione di gloria latina si profila davanti allo sguardo del mondo attonito!… Chi, più dei campioni del Vangelo e della civiltà, ha diritto di vivere questo trionfo, l’alba di un’era di libertà e di pace, di luce e di amore?
No! Non più un apostolato di catacomba, una vita randagia tra continui rischi (1)! Ma, nella chiarità del torrido sole equatoriale, parta la parola eterna ad annunziare ai mansueti la Buona Novella, a curare i contriti di cuore, a bandire franchigia agli schiavi e liberazione ai prigionieri.
No! Non più in un sudicio tukul, ma nelle ampie chiese, dalle eccelse cuspidi, che il genio latino innalzerà a dentellare quell’azzurro fatto nostro, potran le anime redente pregare e cantare al Dio, Padre di tutti i popoli!
A Lui e alla nostra soave Patrona, regina di pace e consolazione, il nostro umile, inesprimibile ringraziamento per la sovrabbondanza di benedizione con cui premiano i sacrifici dei nostri missionari d’Etiopia.
Appena il successo delle armi italiane ci fu annunciato, sentimmo il bisogno di gridare forte la nostra gioia, riuniti nella cappella pubblica coi nostri amici e benefattori. E, la sera del 7 maggio 1936, partecipammo all’imponente cerimonia di ringraziamento tenuta nel santuario della Consolata, coll’intervento di tutte le autorità cittadine…
“L’angelo di Dio vi condurrà” aveva detto il Papa Pio X a padre Barlassina, affidandogli la prefettura del Kaffa. E l’angelo del Signore ha veramente ricondotto, dopo pochi mesi d’esilio, gli ardenti paladini della fede nelle terre delle loro fatiche.
Già i nostri missionari, cappellani militari dei combattenti, avevano fatto il loro ingresso ad Addis Abeba coll’esercito glorioso. E al più presto anche gli altri illustri proscritti raggiungeranno i loro posti d’avanguardia religiosa e italiana, per riprendere, con nuovo ardore di forze e nuova volontà d’amore, la loro sublime missione, sotto l’egida d’un nuovo impero d’umanità e di civiltà, “immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro”».

Il missionario
in Colonia. Che fare?
Tra i missionari «fascisti» che operano nell’«Etiopia italiana», sono interessanti le linee d’azione suggerite da padre Giovanni Gaudissard. Questi, pur allineato alla politica del tempo, sa compiere importanti distinzioni.
«Il missionario – ragiona padre Gaudissard – ha a cuore di mantenere presso gli indigeni il prestigio della sua patria e dei suoi compatrioti. Però il tacere davanti alle ingiustizie rischierebbe, di fronte agli indigeni, di fare causa comune coi loro oppressori. Ma il missionario, se si decide a parlare e difendere i diritti degli indigeni, si espone il più delle volte ad alienarsi la simpatia dell’autorità e a privarsi dei suoi appoggi ufficiali. Che fare?».
Padre Gaudissard suggerisce alcuni comportamenti.
1) Il paese dove il missionario opera è per lui una seconda patria. Tuttavia deve essere prudente, astenendosi da interventi personali su questioni spinose… «Le questioni politiche non ci riguardano, noi dobbiamo predicare il Vangelo. È però dovere del missionario, in territorio soggetto a colonia, aiutare l’élite indigena ad elevarsi fino alla concezione cristiana di un governo a base di giustizia per tutti».
2) «Il missionario è il pioniere di Dio. Non è suo compito far l’avanguardista agli eserciti conquistatori. Tuttavia la patria ha qualcosa da aspettarsi da lui? Sì, ma per altra via e con mezzi più sublimi. Stima, rispetto, simpatia e confidenza: ecco ciò che il missionario con la sua condotta guadagna alla patria. Ed ottiene tutto questo senza ricercarlo, per il fatto stesso che egli appartiene alla tal nazione e che come tale è conosciuto. Essendo suo dovere far del bene alle anime e ai corpi con la dedizione, il buon esempio, i buoni consigli, le opere di misericordia e l’insegnamento, fa conoscere il suo paese in quello che esso ha di meglio…».

L’autocritica
di padre Vladimiro
Con la sconfitta dell’Italia in Etiopia nel 1941, i missionari della Consolata devono lasciare il paese. Il loro fine ultimo è stata l’evangelizzazione, «elemento indispensabile per la vera trasformazione degli indigeni», che hanno amato e per i quali hanno dato la vita in maniera silenziosa e, talora, cruenta. «Senza la mediazione dei missionari – scrive Alberto Trevisiol -, molti etiopi sarebbero periti nella conquista coloniale italiana».
D’altro canto, hanno accompagnato la penetrazione militare italiana ritenendola «morale e civile».
Eloquente, al riguardo, è l’autocritica postuma di padre Vladimiro Bazzacco (1992). «L’onore? – si chiede il missionario – L’avevamo perso con l’illusione di avere portato civiltà e benessere. Doveva essere un posto al sole. Doveva essere la liberazione degli schiavi, che in realtà furono liberati. Si fece del nostro meglio per seguire le vie del Vangelo e portarlo alle genti».
«Con quali mezzi? Con i militari, al servizio di un esercito conquistatore: ecco l’accusa. Anche noi eravamo patrioti e sovente autoritari, nella convinzione di essere persone superiori. Eravamo dotati di cultura e tecnica. Insieme ai militari, eravamo, agli occhi di molti, degli invasori. Avevamo due volti: missionari sì, ma anche figli dell’Italia che conquistò l’Etiopia. Dovevamo andarcene. Però, a prescindere dalla conquista, in genere i vecchi etiopici hanno un buon ricordo degli italiani, specialmente dei missionari».
Il «sogno dell’Etiopia», iniziato con l’Allamano stesso, ha sempre riscaldato il cuore dei missionari della Consolata… a tal punto che nel 1970 ritornano nel paese. Si stabiliscono temporaneamente in alcune missioni del vicariato di Harar, per assumere nel 1980 la prefettura apostolica di Meki.

(1) Allusione alla presenza clandestina dei missionari della Consolata in Etiopia dal 1916 al 1924. Durante questo periodo era vietata ogni conversione al cattolicesimo di cristiani ortodossi.

Francesco Beardi