Panorama Missionario

AFRICA
L’evangelizzazione deve far fronte a varie sfide. Come annunciare il messaggio di salvezza in un contesto di povertà, miseria, con lo sfondo di una storia fatta di umiliazioni, violenza e schiavitù, alle prese con il problema della fame, della guerra, con tensioni sociali e tribali, nell’instabilità politica vissuta come situazione di normalità, con quotidiana esperienza di violazione dei diritti umani?
L’Africa è un continente emarginato (un’appendice senza alcuna importanza), maltrattato, dimenticato e abbandonato.

Parlando dell’Oceania che ha nell’inculturazione la principale sfida missionaria, mons. Sarah, segretario di Propaganda fide, osserva: «L’inculturazione non è né una canonizzazione, né una incoronazione della cultura con il rischio di assolutizzarla, ma l’epifania e l’irruzione del Signore nel cuore di un popolo e di una cultura. Attraverso di essa, Dio si muove dal di dentro la cultura e la purifica. In tal modo il vangelo trasforma le tradizioni di un popolo e di una cultura, offrendo nuovi punti di riferimento. Quando il vangelo entra nella vita, la smuove; le offre un orientamento nuovo, dei nuovi riferimenti morali ed etici».

ASIA
Il continente ospita i due terzi dell’umanità, di cui solo il 3% cristiani. Eppure ci riserva belle pagine di storia di martirio, di contributi sociali, culturali offerti dai missionari… La chiesa è quasi nella totalità indigenizzata e ben stabilita. La Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche è bene organizzata, con diverse commissioni che curano l’evangelizzazione, la ricerca teologica, l’educazione, la formazione, le comunicazioni sociali, l’inculturazione, la giustizia e la pace; il programma di comunità di base ecclesiali è in piena fioritura.

AMERICA
– Le circoscrizioni che dipendono da Propaganda fide in America rappresentano in molte nazioni le zone più difficili, sia dal punto di vista geografico (vastità di territorio, mancanza di vie di comunicazioni), sociale (povertà, narcotraffico, guerriglia), che pastorale (scarsità di personale e di mezzi).
Si registra una crescita di coscienza missionaria con l’invio di sacerdoti fidei donum e missionari laici; la nascita di diversi seminari missionari; la celebrazione dei Congressi missionari americani (il prossimo sarà in Guatemala, nel novembre 2003).
Difficoltà e problemi:
a) Le motivazioni politiche nella difesa delle culture indigene provocano spesso un’erronea concezione della rivelazione divina e dell’inculturazione del vangelo. In alcuni casi viene promosso un ritorno alle antiche tradizioni religiose.
b) Le sètte, che diventano una vera sfida. Da qui la necessità di offrire una liturgia viva, un’esperienza di comunità e fratellanza, un’attiva partecipazione alla missione e all’annuncio diretto del vangelo.
c) Le sfide della cultura post modea, urbana, globale, pluralista, secolarizzata, che si manifesta in una perdita del senso religioso, nella disuguaglianza sociale, nella mancanza di rispetto per la vita e nella violenza.

aa.vv.




Ma ci crediamo o no?

Osservando il comportamento «missionario» di tanti fedeli musulmani, potrebbe nascere un dubbio legittimo: ma noi cristiani, siamo così convinti della nostra fede,da non poter fare a meno di «comunicarla»
agli altri?

Appena sbarcata nell’aeroporto di Malpensa, al rientro dall’Iran, la prima immagine che mi accoglie è un poster gigantesco, sul quale sono ritratti un ragazzo e una ragazza seminudi, in atteggiamenti che non lasciano dubbi sulle loro intenzioni. La solita pubblicità di una casa di moda. Ormai sono tutte uguali, con gli stessi giovani perfetti e immusoniti, le stesse poco velate allusioni. Mi è venuta voglia di tornare subito indietro.

Mashhad è chiamata
dagli iraniani «la santa» perché ospita il santuario dell’imam Rezà, il maggior luogo di pellegrinaggio in tutto il paese. Nella dottrina sciita, gli imam sono i diretti successori di Maometto (di cui hanno ereditato le doti straordinarie) e le guide spirituali della comunità. Gli sciiti riconoscono dodici santi imam. Il dodicesimo scomparve misteriosamente nell’anno 873: si crede che non sia mai morto e che ritoerà tra gli uomini alla fine dei tempi.
Rezà è l’ottavo della serie. Sul posto dove fu ucciso, nell’817, sorse in seguito il suo mausoleo, intorno al quale si sviluppò la città di Mashhad, che significa «luogo del martirio». Tutt’oggi, la città vive attorno al santuario che, nel frattempo, è cresciuto e continua a crescere sempre più.
Qui giungono ogni anno milioni di pellegrini. Sia quando entrano, come quando escono dal recinto che ospita il mausoleo, i fedeli salutano l’imam, perché credono che egli sia una presenza viva e gli si debba rivolgere come a una persona in carne e ossa.
Una sera, avevo deciso di assistere alla preghiera. Dopo un po’ di ricerche, mi ero infilata in un angolino, dove non davo troppo disturbo alle persone che continuavano a entrare. Avevo proprio davanti a me la metà del cortile riservata agli uomini e, non potendo seguire il senso delle parole recitate, tutta la mia attenzione si era concentrata sui movimenti degli oranti. Le loro espressioni erano raccolte, miti, quasi melanconiche. Quando i corpi si piegavano fino a terra nelle flessioni rituali e l’assemblea si trasformava in un tappeto di schiene, spuntavano improvvisamente qua e là i bambini, rimasti in piedi accanto ai padri: per niente compresi del momento solenne, cominciavano a guardarsi l’un l’altro, divertiti di essere diventati, per pochi secondi, più alti di tutti. Un marmocchio aveva trovato un’occupazione ancor più divertente: tentava di arrampicarsi sulla schiena del padre tutte le volte che questi si piegava fino a terra.

Anche chi
non si reca al santuario, prega: le donne solitamente nelle loro case, gli uomini in moschea, dove giungono seguendo il richiamo del muezzin. E non soltanto la sera. La giornata è scandita dal ritmo della preghiera e non sono pochi quelli che si alzano prima dell’alba per le orazioni del mattino. Durante un viaggio notturno da Mashhad verso il Mar Caspio, all’ora della preghiera mattutina, il nostro autobus fece sosta accanto a una moschea per dare, a chi lo desiderasse, la possibilità di assolvere il precetto. Era la prima volta che mi capitava una cosa del genere. Mi era, invece, successo più volte che all’inizio o alla fine, di un viaggio i passeggeri recitassero insieme una breve invocazione. A qualsiasi azione, grande o piccola che sia, – un discorso, un libro da leggere, anche solo una lettera privata – il musulmano dà solitamente inizio «nel nome di Dio, grande e misericordioso».
Ovunque in Iran, nei luoghi pubblici e nelle case, sono presenti segni che richiamano il pensiero di Dio o dell’islam: possono essere le parole della professione di fede, o frasi del Corano; o la mano stesa, le cui cinque dita simbolizzano i cinque pilastri dell’islam; o i ritratti barbuti di Ali e Hussein, genero e nipote di Maometto, particolarmente venerati dagli sciiti.
Se in Iran tutto aiuta a ricordare che l’uomo è creatura di Dio, da noi, invece, tutto concorre a farlo dimenticare. E non mi riferisco solo al fatto che gesti e simboli della nostra tradizione cristiana stiano scomparendo dalla vita pubblica; ma anche alla proposta di valori, di segno opposto a quelli del vangelo. I programmi televisivi, la pubblicità, le riviste ci fanno credere che la bellezza, la forza, il benessere fisico ed economico, la soddisfazione dei nostri impulsi siano gli unici obiettivi da perseguire e gli unici valori che contino. Uno degli attacchi più massicci, cui quotidianamente assistiamo, è quello dell’«esaltazione sessuale»: si agita la bandiera della lotta contro antiche inibizioni e poi ci si serve dei nostri istinti, opportunamente stimolati, per indurci a comprare un prodotto, una rivista, a guardare un film e così via.

Alloggiavo in un ostello di Mashhad e, alla sera, era facile attaccare discorso con qualcuno degli ospiti, mentre si sorseggiava il tè sui tappeti della grande sala comune. La mia presenza suscitava parecchia curiosità anche perché, a quanto pare, ero la prima turista occidentale ad aver messo piede in quel luogo. Spesso il discorso cadeva sulla religione. Nonostante dichiarassi subito di essere cristiana, più di una volta mi sono sentita proporre: «Perché non diventa musulmana? Non sa com’è bello!». L’argomento principale era: l’islam è l’ultima delle tre grandi religioni: quindi, la più vera. Rispondevo, cercando di tagliar corto, che mi stava bene restare com’ero. Mi guardavano con compassione: «Inshallah, diventerà anche lei musulmana, è una brava persona». La cosa m’irritava parecchio. Dovevo trattenermi dal rispondere male, ma poi ho cominciato a riflettere.

Se sei veramente convinto che l’islam sia la salvezza, non puoi non comunicare questa tua certezza alle persone che incontri, a maggior ragione se le stimi. Non è strano che i musulmani esprimano il desiderio di vedere tutti convertiti all’islam; è strano che i cristiani non facciano altrettanto con la loro fede. Non si tratta, ovviamente, di esercitare pressioni indebite, ma soltanto di rendere manifesta quella speranza che dà significato alla vita. Tutto ciò si chiama, molto semplicemente, «missione»!
Quanto diversa, rispetto a tanto buonismo dei nostri giorni, la posizione di san Paolo che, in carcere a Cesarea, parlando in propria difesa davanti al re Agrippa, proclamava senza mezzi termini il proprio desiderio che tutti si convertissero alla fede in Cristo: «Vorrei supplicare Dio che non soltanto tu, ma quanti oggi mi ascoltano diventassero così come sono io, eccetto queste catene» (At 26, 29). Oggi, Paolo non potrebbe più parlare così, senza essere tacciato, magari dagli stessi cristiani, di intolleranza o irriverenza verso le opinioni altrui. Invece, quelle parole esprimono un amore infinito verso tutti gli uomini, che si vogliono partecipi dello stesso banchetto di felicità.
Se i cristiani hanno perso l’abitudine di testimoniare pubblicamente la propria fede, non sarà, forse, perché non ci credono più di tanto?

Biancamaria Balestra




CARE, FRESCHE, DOLCI ACQUE. MA FINO A QUANDO? (Prima parte)

La disponibilità di acqua dolce è in costante diminuzione a causa dello sfruttamento eccessivo e dell’inquinamento. Miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, altrettanti non ne hanno a sufficienza. Invece di assicurare
a tutti questo diritto, l’«Organizzazione mondiale del commercio» sta tentando di trasformare l’acqua in una merce, soggetta alle regole del mercato.
Ma anche noi, singoli cittadini, dobbiamo mutare i nostri (cattivi) comportamenti quotidiani. Basterebbe che…

«Liquido incolore, insapore
e inodore, la cui
molecola è formata da
due atomi di idrogeno e uno di ossigeno
(H2O), presente sulla terra
in tutti e tre gli stati di aggregazione
della materia: solido, liquido
e gassoso».
Nonostante una definizione così
poco entusiasmante, tutti sappiamo
come l’acqua rappresenti
l’elemento essenziale per la vita,
non solo da un punto di vista chimico-
fisico e biologico, ma anche
sanitario, sociale, economico,
nonché aggregativo, estetico, emozionale.
Il corpo umano ne è costituito
per circa i 2/3 del peso corporeo e
gli effetti della mancanza d’acqua
provocano disidratazione e, in casi
estremi, la morte. Al contrario,
la presenza dell’acqua porta benessere
fisico, contentezza, vivacità
e piacere. La si può trovare
sotto le spoglie di nuvole, pioggia,
neve, ghiacciai, fiumi, torrenti, laghi,
mari ed oceani. Essa ci accompagna
anche nel dolore personale:
le lacrime sono costituite
quasi totalmente da acqua. La
presenza e l’abbondanza di acqua
è fonte di benessere e migliore
qualità della vita per ogni persona,
ma anche per gli individui come
popoli, mentre la sua scarsezza
o assenza comporta sofferenze,
malattie e impossibilità di una vita
migliore.
In qualsiasi momento della giornata,
per qualsiasi esigenza più o
meno necessaria, aprendo il rubinetto dei nostri bagni, della cucina,
del giardino o del garage, possiamo
usufruire di tutta l’acqua che desideriamo:
pochi, semplici e ripetitivi
gesti quotidiani ci impediscono
di porci alcune domande fondamentali.
Da dove proviene quest’acqua?
Da vicino o da lontano? Che cosa
ha comportato portare l’acqua fin
qui? Usae troppa significa provocare
qualche tipo di conseguenza
a qualcuno o qualcosa? Non ci
poniamo queste domande perché,
come per le altre risorse naturali, il
luogo comune è che l’acqua sia rinnovabile
e quindi illimitata.
A scuola abbiamo studiato il «ciclo
dell’acqua», espressione che definisce
i movimenti dell’acqua nell’ambiente:
negli organismi viventi,
in atmosfera, sulla terra. L’acqua si
sposta direttamente da laghi, torrenti,
fiumi, stagni verso l’atmosfera,
tramite l’evaporazione, tramite
la traspirazione delle piante e la respirazione
degli animali, per poi
tornare sulla terra sottoforma di
pioggia, neve, grandine…, ritorno
che viene salutato con imprecazioni,
indifferenza o gioia a seconda
del luogo, della quantità e del modo
in cui cade.
Questo ciclo chiuso e ripetitivo si
verifica da centinaia di milioni di
anni: da circa 4 miliardi di anni, la
quantità totale di acqua sul pianeta
nelle sue diverse forme, in effetti, è
rimasta invariata. È la sua disponibilità
per gli organismi e per l’uomo
in particolare che è mutata.

SEMPRE PIÙ SCARSA
L’acqua è sempre stata al centro
del benessere materiale e culturale
delle società di tutto il mondo. Oggi
questa risorsa è in pericolo: nonostante
il pianeta sia costituito da
2/3 di acqua, siamo di fronte ad
un’acuta scarsità idrica.
Benché la superficie terrestre sia
coperta per il 71% di acqua, questa
è costituita per il 97% circa da acqua
salata. L’acqua dolce (il restante
3% circa) è in gran parte intrappolata
nei ghiacci e nelle calotte polari;
il 29% di acqua dolce si trova
sottoforma di acque sotterranee, e
solo uno 0,3% si trova in fiumi e laghi.
Di conseguenza, solo lo 0,8%
circa di acqua presente sul pianeta
è disponibile per i nostri usi, ed in
gran parte si trova nel sottosuolo.
Secondo le stime dell’Organizzazione
mondiale della sanità, nell’anno
2000 un miliardo e 100 milioni
di persone non disponevano di
sufficiente acqua potabile. Se un
quinto dell’umanità non dispone di
acqua potabile, due quinti vivono in
condizioni igieniche precarie a causa
della sua scarsità. Si prevede che
nel 2025 il numero di persone che
vivranno in situazioni a rischio raggiungerà
i 3 miliardi e 400 milioni,
mentre 2 miliardi e 400 milioni soffriranno
la terribile condizione della
mancanza d’acqua.
In quest’articolo e nel prossimo
cercheremo di capire come e perché
le riserve d’acqua potabile siano
in drastica diminuzione e allo
stesso tempo ci chiederemo dove e
per chi c’è, o ci sarà, la più drammatica
scarsità di questo bene indispensabile.

DAL FIUME GIALLO
AL LAGO D’ARAL

Gli ambienti d’acqua dolce (fiumi,
laghi, zone umide…) coprono
meno dell’1% della superficie terrestre,
ma offrono un’enorme quantità
di servizi all’uomo: ambiente
per la crescita di pesci e fauna acquatica,
mitigazione delle inondazioni,
assimilazione e diluizione di
scarti e rifiuti, ricarica delle falde
sotterranee, nonché foitura dell’acqua
per i nostri usi quotidiani.
Dal 1950 al 1995, la quantità d’acqua
dolce disponibile pro capite è
però diminuita da 17.000 metri cubi
a 7.500 metri cubi (Unesco Sources,
1996). Sfruttamento eccessivo
delle risorse idriche ed inquinamento
delle acque sono le due cause
principali di tale situazione.
Il Fiume Giallo in Cina si è prosciugato
prima di raggiungere l’oceano;
il lago Ciad, in Africa, nell’arco
di 30 anni si è ristretto da 10
mila kmq ad appena 800; in un periodo
analogo il lago d’Aral ha perso
il 40% della sua superficie ed il
60% del suo volume di acqua potabile.
Quando l’acqua superficiale
non è più sufficiente, si utilizzano le
acque sotterranee, alle quali ricorre
per bere più di un quarto della popolazione
mondiale. Tuttavia, anche
le falde acquifere si stanno esaurendo
a causa dell’eccessivo prelievo
rispetto al naturale tempo di
rigenerazione.
Il prelievo totale di acqua ammonta
a 3.800 Km3, dei quali tuttavia solo 2.300 vengono realmente
consumati, mentre il rimanente viene
letteralmente «perso per strada».
Ben l’80% dei consumi totali di acqua
è opera dei consumatori agricoli;
durante l’irrigazione, però, circa il
60% filtra dai canali di distribuzione
e viene perso per evaporazione,
aumentando la salinità dei terreni e
comportando la riduzione del raccolto.
Tra i consumatori industriali,
i principali sono le industrie farmaceutiche,
chimiche e metallurgiche,
le centrali termiche ed atomiche, le
cartiere.
Tra i consumatori domestici solo
una piccola percentuale di acqua
viene impiegata per bere e cucinare:
la maggior parte è utilizzata per
lavarsi, per lo sciacquone del W.C.(!), per lavare la casa, annaffiare
giardini e orti, pulire strade e città.
Negli ultimi 40 anni, infine, sono
state costruite enormi dighe per la
raccolta di acqua, che a causa della
loro vasta superficie perdono il
7,5% del consumo totale di acqua
per evaporazione, causando anche
cambiamenti importanti del clima a
livello locale, oltre allo spostamento
forzoso di migliaia e migliaia di
uomini.

L’INQUINAMENTO
Dove l’acqua è sufficiente, spesso
è di qualità inadeguata, contaminata
da agenti inquinanti o dal sale. A
livello mondiale, appena il 10% dei
rifiuti (scarichi industriali, residui di
produzioni agricole, rifiuti umani)
viene trattato prima di essere scaricato
nei fiumi; gli stessi fiumi dai
quali si preleva l’acqua a fini potabili,
per l’irrigazione e per l’industria.
Anche le acque sotterranee sono
a rischio di contaminazione da
parte di nitrati, pesticidi, residui radioattivi,
composti clorurati, residui
dell’industria petrolchimica e mineraria…
Le fonti di inquinamento sono
essenzialmente quattro:
1) gli scarichi civili
2) gli scarichi industriali
3) i fertilizzanti e pesticidi usati in agricoltura
4) le piogge acide (vedi glossario).
Le nazioni con la migliore qualità
delle risorse idriche sono Finlandia,
Canada e Nuova Zelanda. Fanalino
di coda il Belgio, a causa delle pessime
acque sotterranee e dell’inquinamento
industriale. Ma 9 paesi su
10 con peggiore qualità idrica appartengono
al Sud del mondo (Marocco,
India, Giordania e Sudan…).
In Egitto, l’estrazione di acqua
dal Nilo ha distrutto 30 delle 47
specie ittiche, mentre altre 25 sono
rare o a rischio di estinzione; in Colombia
il volume della pesca nel fiume
Magdalena è sceso da 72.000 a
23.000 tonnellate in 15 anni; un fenomeno
analogo si verifica nel
Mekong del Sud-est asiatico.
La risorsa acqua è quindi sempre
meno disponibile quantitativamente
e sempre più inquinata.
(FINE 1.A PARTE – CONTINUA)

GLOSSARIO
ACQUA DOLCE: non molto ricca di sali, è rappresentata dalle acque presenti
nei ghiacci e nelle calotte polari, dalle acque sotterranee, fiumi,
laghi. Il 90% delle riserve mondiali è contenuta nell’Antartide, dove è
presente allo stato solido come ghiaccio.
ACQUA SALATA: contiene, come ad esempio quella marina, svariati tipi
di sali, come il cloruro di sodio (NaCl, il comune sale da cucina), il cloruro
di calcio, ecc..
ACQUA POTABILE: ha tutte le caratteristiche fisiche, organolettiche (odore,
sapore…), chimiche e biologiche per essere usata per l’alimentazione.
I requisiti richiesti ed i limiti sono indicati dall’OMS, l’Organizzazione
Mondiale della Sanità. Può essere piovana, superficiale, di
falda sotterranea. Spesso per rendere l’acqua potabile bisogna ricorrere
a processi di depurazione.
ACQUE SOTTERRANEE: risorse idriche che si trovano al di sotto della superficie
del terreno, costituite da acqua penetrata nel sottosuolo attraverso
le piogge, o filtrata nel terreno lungo fessure naturali per la
vicina presenza di fiumi o laghi.
ACQUE SUPERFICIALI: acque presenti sulla superficie terrestre, circolanti
(es. fiumi) o ferme (es. laghi).
FALDA ACQUIFERA: acqua sotterranea, che scorre o stagna, in strati permeabili
del terreno, fra strati non permeabili.
PIOGGE ACIDE: l’anidride solforosa, inquinante gassoso emesso dai processi
di combustione (industrie e traffico), a contatto con la pioggia si
trasforma in acido solforico, che si scioglie nelle gocce dell’acqua piovana
stessa. I danni delle piogge acide sono particolarmente gravi per
le piante e la fauna, ma i suoi effetti colpiscono anche la salute umana.
Senza dimenticare i danni prodotti a edifici e monumenti che dalle
piogge acide vengono «corrosi».

Piccoli gesti quotidiani
Dal rubinetto al water, dalla lavatrice
al lavaggio dell’automobile, ogni giorno
ciascuno di noi spreca varie decine di litri di acqua.
Per questo la nostra responsabilità è grande.

IGIENE PERSONALE: SÌ, MA CON INTELLIGENZA
• Quando ci laviamo i denti o ci radiamo la barba, teniamo
aperto il rubinetto solo per il tempo necessario.
• Preferiamo la doccia al bagno (per immergerci in
vasca sono necessari 150 litri di acqua, per una
doccia circa un terzo).
• Il frangigetto è un miscelatore di acqua che vi consigliamo
di applicare ai rubinetti di casa: sfruttando
il principio della turbolenza, miscela aria al flusso di
acqua, e crea un getto più leggero, ma efficace. Un
frangigetto richiede «solo» 9 litri al minuto per la
doccia. L’operazione è semplice e costa poco, in più
vi farà risparmiare diverse migliaia di litri di acqua
ogni anno.
LAVARE: BIANCHERIA E STOVIGLIE
• Scegliete il ciclo economico ed evitate i mezzi carichi:
azionando la macchina al massimo carico
si possono risparmiare acqua ed energia.
• Un carico completo di stoviglie lavato a macchina
richiede un minor consumo d’acqua rispetto allo
stesso lavaggio fatto a mano. Per lavare i piatti a
mano conviene raccogliere la giusta quantità d’acqua
nel lavello e lavare con quella. In questo modo
si risparmiano alcune migliaia di litri all’anno.
• Fra i diversi modelli di elettrodomestici in commercio
possono esserci differenze notevoli nel consumo
di acqua: da 16 a 23 litri a lavaggio per le lavastoviglie
e da 50 ad oltre 100 litri a lavaggio per le lavabiancheria.
UN GIARDINO BELLO E SENZA SPRECHI
• Il momento migliore per innaffiare le piante non è
il pomeriggio, quando la terra è ancora calda e fa evaporare
l’acqua, bensì la sera, quando il sole è calato.
• Per terrazzi e giardini scegliete i modei sistemi di
irrigazione a micropioggia programmabili, che possono
funzionare anche durante la notte, quando i
consumi sono più bassi. Esistono anche gli irrigatori
goccia a goccia, che rilasciano l’acqua lentamente
senza dispersioni e con un utilizzo ottimale.
• Per le piccole innaffiature (le piante d’appartamento,
per esempio) potete sfruttare l’acqua che avete
già usato per lavare, ad esempio, frutta e verdura.
UNA MANUTENZIONE CHE NON FA ACQUA
Un rubinetto che gocciola o un water che perde acqua
non vanno trascurati; possono sprecare anche
100 litri d’acqua al giorno. Una corretta manutenzione
o, se necessario, una piccola riparazione contribuiranno
a farvi risparmiare tanta acqua potabile
altrimenti dispersa senza essere utilizzata.
NON SCARICATE LA RESPONSABILITÀ… NEL GABINETTO
Il 20% dei consumi domestici d’acqua finisce nello
scarico del bagno. Ogni volta che lo azioniamo se ne
vanno almeno 10 litri d’acqua. Non utilizziamo il
WC come un cestino della spazzatura: adottiamo
scarichi ”intelligenti”, quelli a pulsante il cui flusso
si può interrompere o, meglio ancora, quelli a manovella.
UN’AUTO SULLA STRADA DEL RISPARMIO
Troppo spesso ci curiamo di una carrozzeria splendente
trascurando il seppur minimo rispetto per
l’acqua potabile. Bisognerebbe ricordarsi di utilizzare
sempre un secchio pieno (vale lo stesso esempio
fatto per lavare i piatti). Si potranno risparmiare così
circa 130 litri di acqua potabile a ogni lavaggio e
si eviteranno sprechi inutili.
CONSUMARE CRITICAMENTE E CON PARSIMONIA
Dato che anche i processi produttivi consumano acqua,
è bene evitare gli sprechi (ad es. di carta), preferire
i materiali riciclati, evitare di mangiare frutta
e verdura non di stagione che necessitano una maggiore
irrigazione. Limitare inoltre il consumo di detersivi,
non gettare solventi e sostanze chimiche nello
scarico…
(rielaborato da: www.altroconsumo.it)

Un’altra politica
è possibile

L’acqua è un bene comune e limitato.
Nessun profitto può essere fatto con esso.

L’obiettivo del «Contratto
mondiale per l’acqua» è garantire
il diritto all’acqua
a tutti gli 8 miliardi di persone
che abiteranno il pianeta nel
2020, a tutte le specie viventi
ed alle generazioni future, garantendo
la «sostenibilità» degli
ecosistemi.
Quali sono i principi fondatori?
1. L’accesso all’acqua nella quantità
(40 litri al giorno per usi domestici)
e qualità sufficiente alla vita deve
essere riconosciuto come un diritto
costituzionale umano e sociale, universale,
indivisibile ed imprescrittibile.
2. L’acqua deve essere trattata come un bene comune
appartenente a tutti gli esseri umani ed a tutte
le specie viventi del pianeta. Gli ecosistemi devono
essere considerati come beni comuni. L’acqua è
un bene disponibile in quantità limitate a livello locale
e globale. Nessun profitto può giustificare un uso
illimitato del bene.
3. Le collettività pubbliche (dal comune
allo stato, dalle Unioni continentali
alla Comunità mondiale)
devono assicurare il finanziamento
degli investimenti
necessari per concretizzare il
diritto all’acqua potabile per
tutti ed un uso «sostenibile» del
bene acqua.
4. I cittadini devono partecipare
su basi rappresentative e dirette alla
definizione ed alla realizzazione
della politica dell’acqua, dal livello locale
al livello mondiale. La democrazia necessita
la promozione di un «pubblico» nuovo, democratico,
partecipato e solidale, e dell’attivazione
di luoghi di partecipazione diretta dei cittadini.
Dichiarazione conclusiva del
1° Forum alternativo mondiale dell’acqua,
Firenze 21-22 marzo 2003

Silvia Battaglia




UN SEME CHIAMATO… AMICIZIA

mons. Giovanni Battista Pinardi,
ausiliare di Torino ai tempi
del beato Giuseppe Allamano,
stretto amico di mons. Filippo Perlo
e di altri missionari della Consolata,
è in corso il processo di beatificazione.

«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche,
dolori e illimitata fiducia in
Dio, fruttificherà il cento per uno».
Così si esprimeva il cuore di un vescovo,
mons. Giovanni Battista Pinardi,
che si apriva alla confidenza di
un altro vescovo, mons. Filippo Perlo,
primo successore del beato Giuseppe
Allamano alla guida dell’Istituto
dei missionari della Consolata.
L’indizio di un sincero legame tra
i due grandi pastori del secolo scorso
ci viene offerto dalla lettera di felicitazioni
che mons. Pinardi scrisse
al Perlo nell’agosto 1945, in occasione
del giubileo sacerdotale di
quest’ultimo.
Parroco e ausiliare di Torino il primo
(1880-1962), missionario e vicario
apostolico del Kenya il secondo
(1873-1948), che cosa alimentava
l’amicizia di questi due vescovi, così
differenti tra loro per stile ed esperienza
pastorale concretamente vissuta?

La loro amicizia
cominciò ai tempi degli studi nel seminario
di Torino. Nato a Castagnole
Piemonte (TO) il 15 agosto
1880, Giovanni Battista Pinardi era
di sette anni più giovane del Perlo,
nato nel 1873 e ordinato prete nel
1895.
Il loro legame continuò anche
quando il Perlo, dopo un breve periodo
di attività pastorale e servizio
come economo al santuario della
Consolata, entrò tra i primi nell’Istituto
missionario fondato dall’Allamano.
In occasione del suo invio in
Kenya, nella prima spedizione missionaria,
l’allora giovane chierico Pinardi
partecipò come cantore alla
celebrazione della partenza.
Ordinato sacerdote nel 1903 e
consacrato vescovo nel 1916, mons.
Pinardi seguì sempre con commozione
e interesse l’opera del Perlo,
attraverso due testimoni di eccezionale
importanza: il canonico Giacomo
Camisassa, zio di Filippo, e, soprattutto,
il beato Giuseppe Allamano,
del quale mons. Pinardi si
disse, visitandolo nel 1926, «uno dei
suoi più affezionati discepoli».
Mons. Pinardi stimò grandemente
l’attività missionaria di mons. Perlo,
ritenuto l’anima e l’artefice delle
fondazioni missionarie in Kenya, poi
consacrato vescovo nel 1909 nel santuario
della Consolata. «Pochi come
il sottoscritto – confidava mons. Pinardi
a mons. Perlo – hanno seguito
la tua vita, i tuoi sacrifici, i tuoi dolori,
le tue aspirazioni di vero missionario
del Signore; perciò doverosamente
e sentitamente mi sento accanto
ai tuoi confratelli…».
Ecco ciò che ha accomunato e alimentato
l’amicizia tra queste due figure
luminose di pastori: il sacrificio
della propria vita per il vangelo.

Mons. Pinardi conobbe
l’intelligenza brillante e concreta dell’attività
di mons. Perlo nella nuova
missione in Kenya, parlandone come
di un terreno completamente da
dissodare e che costò all’intrepido
vescovo missionario «sacrifici senza
nome», al punto da affermare che il
Perlo «…molto ha fatto, quanta
umana azione da Dio benedetta poteva
compiere».
Il sacrificio richiesto a mons. Perlo
toccò sul vivo la tempra della sua
fede, quando il mondo intero fu
sconvolto dalla seconda guerra mondiale,
le cui conseguenze si fecero pesantemente
sentire anche in terra
d’Africa: «L’immane guerra d’Africa
e mondiale si è abbattuta sul terreno
sì bene coltivato – scriveva ancora
mons. Pinardi, riferendosi alla
giovane missione africana -; penso
quanto ha sofferto il suo cuore, nel
vedere il frutto di tante fatiche sue e
dei suoi cari confratelli, ritardato e,
in apparenza, compromesso. Dico,
in apparenza, compromesso».
Ma l’uomo di fede è capace di una
diversa e ben più profonda visione
del mondo, scorgendo la crescita del
regno di Dio anche nelle sue apparenti
smentite e contraddizioni.
Il cuore di mons. Pinardi fu capace
di un sentimento di tanta e tale
compartecipazione alle fatiche del
Perlo per una sorta di connaturalità:
lo stesso mons. Pinardi era provato
nelle stesse sofferenze a motivo del
vangelo, seppure in contesto differente,
custodendo nel suo animo gli
stessi sentimenti che furono già dell’apostolo
Paolo: «È giusto, del resto,
che io pensi questo di tutti voi,
perché vi porto nel cuore, voi che
siete tutti partecipi della grazia che
mi è stata concessa sia nelle catene,
sia nella difesa e nel consolidamento
del vangelo» (Fil 1,7).

Per vocazione
e temperamento, mons. Pinardi non
fu missionario alla maniera del Perlo.
Il «terreno» dove egli si spese come
parroco e vescovo non richiedeva
il primo annunzio, ma una sempre
nuova incarnazione nei diversi
contesti storici: in questo fu davvero
missionario e pioniere, impegnato su
tanti fronti, tra cui spicca quello per
la stampa cattolica. In una congiuntura
storica che sfavoriva ogni iniziativa
di questo genere, nell’ottobre
1917 fondò l’Opera della buona
stampa e sostenne, pagando di persona,
la diffusione della stampa cattolica.
Quando nel 1930 Pio XI chiamò
da Sassari a Torino mons. Maurilio
Fossati, il papa disse al nuovo arcivescovo:
«A Torino avete un vescovo
santo, ma bisogna lasciarlo nell’ombra,
per non avere problemi con
il regime».
Mons. Pinardi non fu più confermato
né vescovo ausiliare, né provicario
generale e se ne stette, apparentemente,
nell’ombra nascosta del
suo servizio di parroco presso la parrocchia
di San Secondo. Ma il chicco
di frumento non teme l’ombra
della terra; anzi, l’accoglie come la
vera possibilità di portare frutto, che
non tardò a maturare. Esso ha il volto
di migliaia di poveri, malati e sofferenti,
che furono quotidianamente
accolti e aiutati da mons. Pinardi.
A San Secondo e in tutta la diocesi
di Torino è ancora vivissimo il suo ricordo
come di un vero padre dei poveri.
«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche, da tanti dolori, da
illimitata fiducia in Dio, fruttificherà
il cento per uno»: quanto mons. Pinardi
scriveva del Perlo delinea bene
il suo stesso ministero pastorale.
È proprio il progressivo approfondimento
dei suoi frutti spirituali che
ha portato la diocesi di Torino ad avviare
il processo di canonizzazione,
che si trova ora depositato presso la
Congregazione romana per le Cause
dei Santi, dove è iniziata la seconda e
più impegnativa fase del processo,
nella speranza di poterlo un giorno
onorare come santo, venerando in lui
un pastore da imitare e un intercessore
da pregare.
Qui tornano a intrecciarsi le storie
dei santi torinesi, perché proprio un
figlio del beato Allamano, un altro
missionario della Consolata come
mons. Perlo, sarà il postulatore della
causa di mons. Pinardi, padre
Gottardo Pasqualetti, al quale vanno
il ringraziamento e l’augurio per
il suo impegno.
«Il buon seme è gettato; fecondato
da tante fatiche, da tanti dolori, da
illimitata fiducia in Dio, fruttificherà
il cento per uno»: la lunga amicizia
tra mons. Pinardi e le missioni della
Consolata è sicuramente uno di questi
frutti. E che la storia continui.

Luca Ramello




GUARDANDO «LA CROCE DEL SUD»


È un bisogno del cuore quello di ricordare un grande vescovo e un amico indimenticabile. Sì, don Tonino Bello, il profeta dei piccoli grandi gesti, cantore degli umili, innamorato della pace.

Don Tonino Bello, scomparso dieci anni fa è ancora presente in me: quanti ricordi e rimpianti! L’ho sempre considerato uno strumento nelle mani di Dio, per cantare e «portare ai popoli l’annuncio della salvezza», come dice un testo a lui molto caro. Non ho paura di dire che mi è stato maestro e padre, soprattutto nei momenti di discernimento del mio cammino di vita, della vocazione missionaria.

Credo avesse sempre desiderato essere missionario e lo faceva intuire in certe occasioni; come quando una volta, al visitatore della Pontificia unione del clero faceva domande proprio come uno di noi; o le sue lacrime durante la proiezione del film «Molokai»; e ancora il suo entusiasmo travolgente e partecipe nel conferire il mandato missionario a padre Vincenzo Mura (suo alunno e, poi, missionario della Consolata). Ma quanti gesti di pace e missionarietà lo hanno reso… famoso! Basti pensare ai tanti messaggi scritti per la «prima» guerra del Golfo, dove difese a spada tratta la scelta della non-violenza; il suo incarico di presidente di «Pax Christi», succedendo all’amico mons. Luigi Bettazzi; i suoi viaggi all’estero (in Australia, Argentina, Venezuela, U.S.A. per visitare i molfettesi emigrati in quelle terre; o in Etiopia, per un ritiro ai missionari; o a San Salvador, nel luogo del martirio del vescovo Romero); la marcia per la pace a Sarajevo, durante i suoi ultimi giorni, con la malattia che l’aveva già consumato.

Quando decisi di farmi missionario e averne parlato in famiglia, i miei genitori avevano invitato a pranzo don Tonino, non solo perché era nostro grande amico, ma soprattutto con la segreta speranza che mi convincesse a rimanere in diocesi. Quella volta «fallì» nel suo intento (almeno apparentemente), perché le sue parole non mi fecero cambiare idea. Vistomi agitato e piuttosto contrariato, mi confidò l’apprezzamento che aveva per i miei genitori; mi chiese soltanto di non dimenticarmi mai di loro. Il motto del suo episcopato: «Ascoltino gli umili e si rallegrino» (Sal 33,3), non sono state vuote parole, ma espressione concreta del suo cuore ardente e aperto a tutti, cominciando dagli ultimi e dai poveri.

Una sera dell’autunno 1984 ero andato a salutarlo a Molfetta, perché ero in partenza per la Colombia, dove avrei studiato teologia. Lo trovai impegnato a presiedere un incontro: con l’entusiasmo di sempre, raccoglieva consigli e dava suggerimenti per incrementare una pastorale d’insieme. Rimasti finalmente soli, mi offrì una «frisa» (pane tipico della gente del Salento), con olio e sale; poi, in casa e lungo il porto di Molfetta, parlammo a lungo. Mi accennò, tra l’altro, all’idea di prendersi un appartamento, lasciando il palazzo episcopale come dimora per i più poveri e centro culturale e teologico, a servizio della nuova evangelizzazione. Fu la più lunga chiacchierata con lui della mia vita (siamo arrivati alle ore piccole) e sembrava non sentisse la stanchezza della lunga e pesante giornata. Mi regalò anche il suo libro «Sotto la Croce del sud», frutto della sua visita pastorale agli emigrati in Australia, scrivendomi la dedica: «A Rocco, chiamato a essere testimone del Risorto».

Quella sera la ricordo come la celebrazione del mio primo mandato missionario, in un’atmosfera evangelica, presso le barche ormeggiate nel porto. Nel 1993, alla fine di luglio, ormai dopo la sua dipartita, arrivato in Sudafrica, riassaporai la gioia del porto di Molfetta, vedendo la costellazione della Croce del Sud: me lo sentii vicino, mentre mi incoraggiava a non aver paura e a saper «osare» nel mio nuovo lavoro apostolico.

A don Tonino piaceva ricordare i missionari con il versetto «Beati i piedi del messaggero che annuncia la pace», cioè che annuncia Gesù, la sua pasqua, il suo progetto, il suo amore, espressi in azione nella carità quotidiana. La sua parola era sostanziosa pregna di cultura umanistica, saggezza popolare e, soprattutto, imbevuta dello stesso Cristo, sapienza del Padre. Tutti comprendevano la sua parola; i dotti l’apprezzavano, riconoscendone lo spessore culturale; gli illetterati si affezionavano a lui, perché veniva loro offerto un messaggio evangelico di liberazione, capace di incoraggiarli e spingerli ad essere protagonisti nella storia. Soltanto in Colombia, studiando la teologia della liberazione, mi sono accorto di essere già stato introdotto a quel tipo di riflessione (che è anche metodologia missionaria), proprio da don Tonino.

L’unica volta che mi sono trovato a pranzo da lui, insieme a un missionario, ci aveva mostrato la sua piccola cappella; ricordo l’inginocchiatornio di fronte al tabernacolo, e un tavolo, su cui c’era la bibbia aperta, altri libri, la sua penna e manoscritti qua e là. Mi era sembrato di vedere simbolicamente la sapienza umana attenta ad attingere dalla sapienza divina. Don Tonino spendeva ore di adorazione durante le notti, pregando e scrivendo. In lui, la contemplazione diveniva azione e il suo dialogo col Signore era prototipo di nuove relazioni nella chiesa e nella società.

Dopo la visita in cappella, ci fece vedere gli oggetti esposti su un tavolo, parlandoci delle persone di diverse razze, culture e religioni a cui appartenevano. Ogni «pezzo» ricordava qualcuno, con nome e cognome, che lui aveva incontrato nel suo girovagare in diocesi, ma anche per l’Italia e all’estero. In quei segni c’erano persone che aveva aiutato e da cui era stato aiutato. Fu un animatore, un architetto, un poeta e cantore dell’annuncio ai lontani e credo di non esagerare venerandolo come uno dei padri della nuova evangelizzazione.

La scelta dei poveri non fu, per lui, solo una pia formula, ma uno stile di vita. Per questo ebbe a soffrire e, come Gesù, anch’egli non fu capito, ma invidiato e combattuto; eppure non ebbe mai sentimenti di rancore con nessuno. Neanche quando, in televisione, cercò di esprimere un’alternativa di pace alla guerra del Golfo, in una trasmissione condotta da Santoro. In quell’occasione, venne interrotto moltissime volte da interventi in diretta, tanto che non gli fu possibile presentare la sua posizione pacifista e non violenta.

Considerando queste difficoltà, così accentuate in certi momenti, è molto probabile che, se fosse stato missionario in America Latina, o in qualche paese dell’Africa, avrebbe senz’altro pagato con la vita la sua fedeltà al vangelo e la coerenza delle sue scelte, fondate su una fede semplice e filiale. Poche ore prima della sua dipartita, chiedeva di collocare sulle pareti della sua stanza quadri della Madonna (chissà se non c’era anche quello della Consolata), per essere sicuro di morire, fissando lo sguardo su uno di essi. Don Tonino discepolo fedele ha celebrato le nozze dell’Agnello entrando nel suo regno di giustizia e di pace attraverso Maria, sospirando le parole di tanta gente sofferente del Salento: «Mamma mia, Madonna mia!». E fidandosi fino in fondo di quel Dio a cui aveva dedicato, con amore appassionato, tutta la sua vita.

Rocco Marra




CATASTROFI INNATURALI?

Esistono le catastrofi naturali?
La risposta è ovviamente sì.
Moltissime potrebbero però essere
evitate grazie ad un migliore,
e minore, utilizzo
delle risorse e ad una
pianificazione
territoriale coerente
con il creato.
In poche parole
con il buon senso.

Da gennaio a settembre
2002, si sono verificati
526 disastri naturali significativi:
195 in Asia, 149 nelle
Americhe, 99 in Europa, 45 in
Australia, 38 in Africa; a causa di
questi eventi sono morte 9.400
persone, delle quali 8.000 solo in
Asia, centinaia di migliaia sono i
senzatetto e milioni i feriti. Le
maggiori perdite economiche
sono state subite dall’Europa:
circa 33 miliardi di euro. Un terzo
dei 526 eventi è legato alle
piogge: inondazioni in Cile, Giamaica,
Nepal, Spagna, Francia e
anche Germania, dove le medie
delle precipitazioni annuali sono
state raggiunte in uno o due giorni.
L’intensità delle piogge ha
raggiunto livelli unici, facendo
segnare record mai registrati nelle
statistiche dei meternorologi.
Queste sono solo alcune delle
conclusioni di uno studio della
compagnia assicurativa Munich
Re, membro dell’Unep (Programma
ambientale delle Nazioni
Unite), presentato a Nuova
Delhi in concomitanza dei negoziati Onu sui cambiamenti climatici.
Il numero delle calamità naturali e
l’intensità di molti eventi estremi sono
in continuo aumento, con conseguenze
che possono essere rilevanti
sull’ambiente e ecosistemi, agricoltura,
benessere delle popolazioni, salute
e incolumità delle persone.
Cosa si intende per «disastro naturale
» o «emergenza ambientale»?
Esiste una differenza tra «catastrofe
naturale» e «catastrofe ecologica»?

UNA DEFINIZIONE
I termini «catastrofe» e «disastro
naturale» fanno immediatamente
balzare alla mente immagini di terremoti,
eruzioni vulcaniche, maremoti,
uragani, cicloni, conseguenti perdite
umane, edifici crollati e allagati,
colate di fango che permeano gli abitati,
paesaggi urbani e agricoli devastati
dalla furia della natura.
In realtà, definire cosa si intenda
per catastrofe naturale non è semplice.
Un terremoto che si verifica in
pieno deserto, per esempio, può provocare
nessun effetto sugli uomini né
su altri esseri viventi di quel determinato
habitat; eventi che, invece, provocano
la morte di molte vite umane
possono non influire sugli ecosistemi
interessati; mentre calamità che, al
contrario, non danneggiano direttamente
le popolazioni possono causare
gravi alterazioni all’ambiente naturale.

LE CATASTROFI GEOFISICHE
I disastri naturali che più colpiscono
l’immaginario collettivo sono
sicuramente i terremoti. Le cause di
questi fenomeni sono puramente
geofisiche, legate cioè ai fenomeni fisici
che avvengono sulla superficie e
all’interno della terra. Anche se possono
sembrare fenomeni improvvisi,
sporadici e casuali, i sismi sono un
evento naturale diffuso come pochi
altri: in un anno, sulla terra, gli strumenti
registrano circa un milione di
terremoti: 1 ogni 30 secondi. Solo
qualche migliaio di essi è abbastanza
forte da essere percepito dall’uomo,
e solo qualche decina causa gravi
danni a persone e cose.
Se nel tempo questi fenomeni si
verificano in continuazione, nello
spazio essi si manifestano all’interno
delle cosiddette «zone sismiche»;
nelle «zone asismiche», invece, non
si generano i terremoti, ma se ne possono
sentire gli effetti, dovuti al propagarsi
delle vibrazioni provenienti
dalle zone sismiche vicine.
La conseguenza fondamentale dei
terremoti sulla superficie è l’oscillazione
del suolo, che si trasmette agli
oggetti sovrastanti: case, ponti e altre
costruzioni possono vibrare fino
al crollo totale. Le cause di questi fenomeni
sono puramente naturali,
ma le conseguenze sono difficili da
classificare.
Gli effetti dipendono, da una parte,
dall’intensità e durata complessiva
delle oscillazioni e dalla natura del
suolo (i danni sono maggiori se il terreno
è incoerente, cioè costituito da
sabbie e ghiaia); dall’altra, dall’inosservanza
delle indicazioni dell’edilizia
antisismica nella costruzione di edifici
in zone note come particolarmente
sismiche, come è accaduto a
San Giuliano di Puglia.
Anziché promettere di impiegare
milioni di euro in grandi opere (probabilmente
non necessarie), è forse
più opportuno utilizzare gli stessi
soldi per la previsione di tali fenomeni,
per un’oculata politica di gestione
del territorio e, soprattutto,
per la prevenzione del rischio, sia elaborando
piani di soccorso, sia applicando
l’ingegneria antisismica; e
ciò non solo nelle nuove costruzioni,
ma anche nella ristrutturazione dell’esistente
e nella costruzione di dighe,
vie di comunicazione, grandi
complessi industriali.
Molte vittime e danni possono essere
inoltre causati dalla rottura di linee
elettriche e condutture del gas,
con conseguenti incendi difficilmente
domabili per la contemporanea
interruzione delle condutture
dell’acqua.
Bisogna inoltre ricordare la formazione
di fratture nel terreno, il sollevamento
o abbassamento del suolo,
in grado di provocare dislivelli lungo
strade e ferrovie e addirittura capaci
di deviare il corso dei fiumi. A questo
punto la gravità delle conseguenze
si dirama: la situazione può tornare
alla «quasi-normalità» in breve e
medio termine, oppure trasformarsi
in catastrofi a lungo termine, quali carestie
ed epidemie, a seconda delle
condizioni iniziali della popolazione
colpita (situazione di benessere, ristrettezza
o estrema povertà).
Queste considerazioni sulle cause
e conseguenze dei terremoti possono
essere estese, a grandi linee, anche
ad altri fenomeni di natura geofisica,
come maremoti ed eruzioni
vulcaniche, uno dei segni più evidenti
dell’irrequietezza del pianeta.
Più di 500 sono i vulcani attivi, fonti
di lava e gas ad alta temperatura,
di materiale fuso lungo gli oltre 60
mila km delle dorsali oceaniche.
Le eruzioni vulcaniche sono forse
l’emblema più spettacolare di un affascinante
paradosso: se da un lato i
vulcani possono rappresentare veri e
propri disastri naturali, d’altro canto
rappresentano uno dei processi fondamentali
attraverso cui si è svolta, e
continua a svolgersi, l’evoluzione della
terra. Basti pensare all’imponente
trasferimento di materiali dall’interno
all’esterno del pianeta, in grado di
accrescere la stessa crosta della superficie
terrestre, formare e mantenere
gli equilibri dell’atmosfera e degli
oceani, rendere fertili i suoli derivanti dalle ceneri vulcaniche.
Anche l’Italia non è risparmiata da
questi tipi di fenomeni: pensiamo al
maremoto dovuto all’eruzione dello
Stromboli (anche se non paragonabile
agli tsunami dell’Oceano Pacifico),
o all’attività dell’Etna. Proprio
quest’ultimo evento può porci di
fronte a un interrogativo ignorato
dai media: è «colpa» dell’Etna se il
Rifugio Sapienza e gli impianti sciistici
sono abbattuti dalla forza devastatrice
della lava?

CATASTROFI AMBIENTALI
E TECNOLOGICHE

Se i disastri geofisici derivano esclusivamente
da fenomeni naturali,
esiste al contrario una classe di eventi
catastrofici che hanno come unica
causa l’azione dell’uomo.
Quali sono? L’opinione pubblica
risponderebbe immediatamente: «I
grandi disastri industriali». Molte,
troppe, infatti, sono state le situazioni
più o meno recenti nelle quali, da
attività finalizzate a scopi utili, sono
scaturiti danni gravissimi per la collettività
e l’ambiente circostante. Alcune
catastrofi ecologiche, dovute a
incidenti industriali, sono state causate
da un utilizzo affrettato e approssimativo
della tecnologia; altri da
eventi accidentali, che hanno evidenziato
l’inadeguatezza delle misure
di sicurezza e l’entità sproporzionata
dei rischi ai quali si era sottoposti;
altri ancora da una scoperta più o
meno improvvisa di problemi, le cui
cause operavano da molto tempo.
Basti pensare ad alcuni disastri del
secolo appena terminato: tragedia
della diga del Vayont (1963), emissione
di diossina a Seveso (1976),
Acna di Cengio (1988) ed emissione
di anidride solforosa al confine tra
Piemonte e Liguria; mercurio fuoriuscito
a Bhopal, in India (1984),
per un livello di 6 milioni di volte oltre
la soglia di tolleranza, tuttora causa
di contaminazione del territorio
circostante; disastro di Cheobyl
(1986), definito «la peggiore catastrofe
tecnologica della storia umana
», il cui rilascio di radioattività è
200 volte superiore alle esplosioni di
Hiroshima e Nagasaki insieme e nei
cui territori vigono ancora restrizioni
all’uso del cibo locale, a conferma
dell’alterazione profonda dell’ecosistema
interessato.
Exxon Valdez (1989, Golfo dell’Alaska),
Haven (1991, Mar Ligure),
Erika (1999, Bretagna-Francia),
sono solo alcuni dei nomi che rievocano
un’altra tipologia di disastri ecologici
provocati esclusivamente
dall’uomo: la fuoriuscita di petrolio
dalle ormai troppo tristemente famose
«carrette del mare».
Anche in questo ambito, uno degli
ultimi disastri petroliferi è dovuto
a controlli e sanzioni insufficienti
e a normative assolutamente inadeguate,
che permettono la circolazione
a flotte di petroliere che non dovrebbero
viaggiare: si tratta in questo
caso della Prestige, petroliera
vecchia e a scafo unico, affondata
nelle acque della Galizia. Le conseguenze
sono sempre le stesse: danni
incalcolabili alle acque e coste, spesso
di grande bellezza e valore naturalistico,
migliaia di tonnellate di olio
combustibile pesante giacenti a
migliaia di metri di profondità, migliaia
di uccelli marini destinati a
morire, insieme a pesci, cetacei, fino
ad alghe e molluschi, primi anelli
della rete di relazioni fra le specie viventi.
Se il disastro ecologico non commuove gli animi, è bene sottolineare
che i danni sono enormi anche a livello
economico e occupazionale:
come nel caso della Prestige, se la popolazione
vive sulla pesca e maricoltura,
l’economia locale può cadere in
ginocchio; lo stesso vale ovviamente
per il turismo.
L’entità del rischio appare immensa
se si leggono le cifre legate al petrolio:
60 milioni sono i barili di petrolio
trasportati in mare ogni anno,
3.400 circa le petroliere; il trasporto
di greggio rappresenta il 40% del
traffico marittimo mondiale di materie
prime e quasi il 73% delle importazioni
di petrolio dell’Unione
Europea avviene proprio via mare;
dal 1955 sono stati più di 1.300 gli incidenti,
dei quali più di 20 gravissimi;
l’età media della flotta petrolifera
mondiale è di 15 anni, mentre per
il 25% delle carrette, di età superiore
ai 20 anni, non esiste più un margine
di sicurezza.
C’è ancora un tipo di disastro ecologico
causato dall’uomo e mai considerato:
le conseguenze ecologiche
e sanitarie delle guerre.
In senso lato, la guerra non provoca
solo l’annientamento di vite umane
e beni materiali, ma anche un enorme
degrado dell’ambiente, con
indubbie conseguenze sulla salute.
Sostanze tossiche e radioattive utilizzate
nei bombardamenti espongono
l’ambiente a una contaminazione
che si protrae nel tempo: inquinamento
atmosferico a breve e
medio termine, inquinamento del
sottosuolo a lungo termine, specialmente
delle falde acquifere.
La conseguenza inevitabile è l’esposizione
della popolazione a rischio
sanitario per molti anni: la non
disponibilità di acqua pulita, l’entrata
nel ciclo alimentare di molte sostanze
nocive, con la caratteristica di
concentrarsi in piante e animali, costituisce
infatti un grande rischio per
la salute, compreso l’aumento della
frequenza di tutti i tipi di cancri e
malformazioni congenite.
Tutto questo senza considerare il
flagello delle mine, nemico invisibile
che, se non uccide, condanna a una
vita minorata.
Incidenti industriali, petroliere,
guerre e mine. Anche se l’emozione
sollevata nell’opinione pubblica è indiscussa,
questi eventi rappresentano
nel lungo periodo una minaccia
forse meno pericolosa dell’azione
degli inquinanti di natura antropica
immessi nell’aria, acqua e suolo.
È vero che l’inquinamento dell’ambiente
da parte dell’uomo non è
un fatto recente; tuttavia, dalla rivoluzione
industriale, la velocità delle
conoscenze scientifiche e dello sviluppo
tecnologico, la crescita incessante
del consumo di energia e materiali,
la produzione di un numero
sempre maggiore di composti sintetici,
hanno conferito al problema una
dimensione planetaria: inquinamento
atmosferico e dell’acqua,
piogge acide, buco dell’ozono, effetto
serra, sono solo alcuni dei fenomeni
antropici che minacciano gli ecosistemi
e la stessa salute degli uomini.
Solo in Italia, l’inquinamento
da traffico, non riconosciuto, causa
6 mila morti all’anno.

DISASTRI NATURALI
LEGATI ALLA METEOROLOGIA

Tra le due classi di catastrofi esaminate,
da una parte quelle con cause
esclusivamente naturali e dall’altra
totalmente antropiche, esiste una
serie di fenomeni che possono avere
effetti devastanti e le cui cause non
sono facilmente definibili. Si tratta di
due tipologie di fenomeni di natura
meternorologica: da un lato eventi che
si manifestano in maniera improvvisa
e che, negli ultimi anni, hanno fatto
registrare un consistente aumento
di frequenza e potenza: alluvioni
e cicloni in particolare; dall’altro fenomeni
che derivano da fattori di degrado
a lungo termine: siccità, desertificazione,
deforestazione, erosione
del suolo, mancanza d’acqua, carestie,
epidemie.
Mentre i fenomeni geofisici si sono
manifestati negli ultimi anni con
lo stesso numero di eventi, quelli di
origine climatica sono stati invece
più frequenti. Se si classificano gli eventi
catastrofici in base al numero
di vittime per morte violenta, inondazioni
e cicloni superano terremoti,
eruzioni vulcaniche e inquinamento
accidentale. Se questa classifica
si basasse, invece, sulla mortalità
dovuta agli effetti a lungo termine, la
siccità deterrebbe il triste primato e
l’inquinamento dell’ambiente supererebbe le eruzioni vulcaniche.
Proprio inondazioni, cicloni e siccità
sono fenomeni che subiscono le
conseguenze dell’ormai accertato, in
ambito scientifico, cambiamento climatico,
dovuto all’aumento della
concentrazione atmosferica di anidride
carbonica (CO2) emessa dalle
attività umane (riscaldamento, trasporti,
industria). La crescita dei livelli
di CO2 è il risultato del massiccio
utilizzo di combustibili fossili
(carbone, petrolio, gas naturale…) e
rappresenta il principale fattore dell’incremento
dell’effetto serra, ossia
dell’aumento della temperatura media
sul pianeta.
I dati del Goddard Institute per gli
Studi spaziali della Nasa indicano
che i 15 anni più caldi mai registrati,
dal 1867, hanno avuto luogo dopo il
1980. Escludendo una drammatica
caduta delle temperature nel mese di
dicembre 2002, si può affermare che
i tre anni più caldi sono stati registrati
negli ultimi cinque.
Oltre alla lettura dei termometri,
molti altri segnali indicano una crescita
della temperatura media: ondate
mortali di calore, disseccamento
di raccolti, scioglimento dei ghiacci.
Se da un lato una temperatura
media maggiore comporta siccità
più forte e scioglimento dei ghiacci,
dall’altro causa tempeste più violente,
inondazioni più distruttive e aumento
del livello del mare. La conseguenza
principale dell’effetto serra,
infatti, consiste nell’evaporazione
di grandi masse di acqua che determinano
cambiamenti climatici, spesso
imprevedibili, e aumento degli eventi
estremi.
In particolare, Alberto Di Fazio,
del Global Dynamics Institute di Roma,
ha trovato una perfetta correlazione
tra la serie storica dei cicloni
negli ultimi cento anni e l’aumento
di CO2 nell’atmosfera. Tali cambiamenti
a loro volta influenzano sia la
sicurezza alimentare e abitabilità di
aree situate a livello del mare (ne è
un esempio il Bangladesh), e quindi
il possibile propagarsi di carestie ed
epidemie, sia la composizione delle
specie degli ecosistemi locali.

IN CONCLUSIONE
Alla luce di quanto analizzato, è evidente
che studiare in maniera
scientifica i fenomeni catastrofici significa,
innanzitutto, cercare di distinguerli
in base a due criteri: cause
e conseguenze. Le cause possono essere
rappresentate da fenomeni naturali
(geofisici, climatici…), di origine
umana, oppure da fenomeni naturali,
aggravati da componenti
umani; le conseguenze possono risultare
calamitose per la popolazione,
per l’ambiente o per entrambi.
Un evento può essere definito disastroso
a seconda delle conseguenze
provocate. Per quanto riguarda gli
effetti sulla popolazione, generalmente
una catastrofe naturale di una
determinata intensità provoca molte
più vittime nei paesi poveri che in
quelli ricchi, e questo per varie ragioni:
l’aumento demografico e la
concentrazione altissima della popolazione
in zone fertili o a ridosso delle
grandi città, a causa degli esodi dovuti
allo sconsiderato sfruttamento
delle risorse naturali (generalmente
da parte del Nord), e quindi alla
deforestazione e perdita del territorio
coltivabile; il degrado dell’ambiente,
appunto; la vulnerabilità delle
popolazioni stesse, ossia la capacità
di reagire agli eventi disastrosi, strettamente
connessa alla miseria.
Per quanto riguarda invece gli effetti
sull’ambiente, esiste una linea
sottile e difficilmente definibile, che
delimita gli eventi catastrofici da
quelli che non lo sono. A un occhio
attento, rientrano sicuramente fra gli
eventi catastrofici anche fenomeni
non improvvisi e straordinari, ma subdoli
e insidiosi, che evolvono lentamente
nel tempo e magari in modo irreversibile,
come la desertificazione,
cambiamento climatico, scomparsa
di specie vegetali o animali, rischiando
di alterare gli equilibri degli ecosistemi
e quindi la stessa salute e sopravvivenza
umana.
Certe azioni umane incontrollate,
sottoforma di cambiamento climatico,
di uso smodato delle risorse, cause
essenziali della deforestazione, erosione
del suolo, desertificazione e
scomparsa di specie viventi, hanno
quindi il potere di amplificare alcuni
fenomeni naturali, conferendo loro
una dimensione catastrofica.
Il «potere del consumatore» può
allora agire anche in questa direzione.
Diminuire la nostra impronta ecologica
(MC, giugno 2002) può significare
contribuire alla diminuzione
della dimensione catastrofica di
alcuni fenomeni naturali.

Silvia Battaglia




IMPARARE… PER SERVIRE

Il missionario novello atterra,
per esempio, a Maputo
(Mozambico). E che fa?
Certamente impara la lingua.
E poi? Prima di annunciare
il vangelo,deve capire.
Meglio «intelligere».

Sono un missionario fidei donum
di Brescia. Ho partecipato
con piacere al «Corso di inserimento
» in Mozambico, organizzato
presso il Centro pastorale di
Guiua, nella diocesi di Inhambane.
Eravamo in 36: religiose e religiosi,
sacerdoti e laici. Varia la provenienza:
Italia, Spagna, Portogallo,
Brasile, Angola, India, Argentina.
Tutti uniti nella fedeltà a Cristo e in
ascolto delle chiese locali, che vogliamo
servire ogni giorno.
Guidati da amici ed esperti, abbiamo
focalizzato i contenuti dell’azione
missionaria di Gesù Cristo. In
lui «il volto della missione» è chiaro,
come pure lo stile: è quello dell’incarnazione,
che non ha niente a che
vedere con le violenze estee, che
stravolgono tutto. L’incarnazione richiede
rispetto e pazienza, se si vuole
che il «seme» cresca e maturi.
Infine abbiamo condiviso le motivazioni
del nostro annuncio, già tutte
contenute nella vita del Maestro:
bellezza, verità, amore.

Quando si partecipa
a un evento bello, lo si racconta;
quando si conosce un fatto vero, lo si
annuncia; quando si gusta l’ebbrezza
dell’amore puro, lo si condivide.
Il lavoro di analisi e sintesi è stato
alimentato da un’intensa preghiera
liturgica. La preghiera è il respiro
della missione. L’evangelizzatore è
un contemplativo in azione e un attivo
in contemplazione. Questo ci ricorda
la vocazione alla santità. La
santità poi va fatta risplendere nella
multicolore sapienza di Dio (cfr. Ef
3, 10). Solo se vivremo plasmati dal
magistero e dalla logica della preghiera,
potremo invitare a credere in
Gesù Cristo.

Oltre ad essere
«un dimorare con il Signore», la
missione è pure un andare verso i
fratelli e sorelle che vivono in terre
lontane.
Però l’annuncio del vangelo non
può essere improvvisato. È vero che
la parola annunciata ha in sé tutta la
sua efficacia; ma è altrettanto vero
che, per essere buoni missionari, è
necessario amare, conoscere e valorizzare
la persona che s’incontra e il
contesto culturale nel quale l’annuncio
risuona, soprattutto quando
recano il sigillo della differenza. In
tutto questo il corso ci è stato di valido
aiuto.
Parlare dell’Africa e degli africani
non è facile. Sono realtà complesse,
che presentano stratificazioni di
tempi e, pertanto, differenti culture.
Sono realtà instabili, perché animate
e attraversate da fatti molteplici e
a volte contraddittori. La tradizione
africana, pur affondando le radici in
un humus vitale comune, si presenta
con varietà di forme: visione della
vita, simboli sacri, proibizioni morali e religiose, costumi che cambiano
da gruppo a gruppo e da villaggio
a villaggio. Così è delle persone.
L’Africa è molto interculturale a livello
nazionale e locale. Ogni nazione
e luogo influenza i comportamenti
personali. Sulle persone ci sono
state date indicazioni precise e
dettagliate circa la nascita, crescita,
riti di iniziazione, maturità, matrimonio,
scelta di consacrazione, malattia
e morte. La questione femminile
è particolare.
Una speciale
attenzione è stata riservata alle religioni
tradizionali. Il mondo religioso
africano è complesso. Tale complessità
deriva dall’esperienza in sé
stessa, dai tentativi teorici messi in atto
per spiegarlo, dal vasto ambiente
sociale in cui si esplica, dagli interessi
culturali che suscita. Ciò che più ci
ha fatto riflettere è il valore e l’influsso
della tradizione, che non deve
essere minimizzata.
La religione africana è di natura
esperienziale, non teorica. Si esprime
con un vocabolario teologico
preso dalla vita vissuta in un preciso
contesto geografico. Si tratta di esperienze
senza «autori», prive di strutture
cultuali chiare, prive di libri sacri:
perciò è difficile evidenziae gli
aspetti dottrinali e determinare i
contenuti.
Per qualificare il fenomeno religioso,
si raccomanda di respingere i
termini feticismo, animismo, paganesimo,
antenatismo, totemismo.
L’africano crede in due mondi, uno
visibile e l’altro invisibile, e nella loro
interazione. Crede nella comunità
gerarchizzata e, soprattutto, in un
Essere supremo, creatore e padre di
tutto ciò che esiste.
Con questa ricchezza il cristianesimo
deve dialogare. Nel dialogo ciascuno
dovrà donare non tanto idee
e dottrine, ma storie vissute. Il dialogo
richiede di esprimersi con parole
e gesti autentici, che sappiano porre
a confronto tutta la propria storia di
fede. Il passato emerge con grandezza
e forza. Chi oggi non ricorda
ciò che lo ha preceduto ieri (antenati,
eventi…) vive senza meta.

Sono state illustrate
le dinamiche e problematiche della
vitalità ecclesiale odiea.
La chiesa in Africa è chiamata ad
essere «chiesa-famiglia», ambiente
dove Dio riunisce i suoi figli dispersi
nel mondo (Gv 11,52), luogo dove
coloro che invocano Gesù Cristo
(2 Cor 1,2) si accolgono reciprocamente
come dono di Dio (Gv 17,6-
24) per vivere l’amore del Padre e
del Figlio; luogo di vita caratterizzato
dalla premura verso l’altro, solidarietà,
calore delle relazioni, accoglienza
e fiducia.
Per rendere incisiva l’evangelizzazione,
i vescovi mozambicani sollecitano
la creazione di «piccole comunità
cristiane»: cellule di base ecclesiale,
progetto per un’autonomia
delle giovani chiese e punto di riferimento
per una pastorale a dimensione
d’uomo.
In tali comunità tutti sono chiamati
ad essere responsabili; esse sono
luoghi di convivenza quotidiana
e aiutano a vincere i tribalismi; stimolano
a cogliere i segni dei tempi
nel contesto sociopolitico del paese.
Il laico, con la grazia di Cristo, è una
pietra angolare della nuova costruzione.

Ringrazio il Signore
per il Corso di inserimento in
Mozambico. Esprimo gratitudine,
soprattutto perché si è svolto a
Guiua, una località dove alcuni cristiani
sono stati martirizzati per la fede
(*). Pregando sulle loro tombe
pensavo: la missione avanza lentamente
all’insegna della croce e da essa
si caratterizza.
Essere missionari significa credere
che la chiesa cresce con la testimonianza
del martirio.
Anche del mio martirio.
(*) Ai 24 catechisti, martirizzati
in Mozambico il 22 marzo 1992,
Missioni Consolata di Marzo 2002
ha dedicato un dossier.

Adriano Dabellani




FARE… NON BASTA PIÙ!

Domande e inquietudini
di un missionario, di fronte
al suo lavoro e al modo
di annunciare il vangelo.
Per evitare di lavorare
invano! Con un punto fisso:
la solidarietà non si discute.
Ma non è patealismo.

La missione rende presente il
regno di Dio, conducendo
persone e comunità a fare
esperienza di Gesù, unico salvatore e
redentore. L’unum necessarium della
missione è quello di portare i frutti
della redenzione a tutti. «Legge suprema
è la salvezza delle anime» si diceva
un tempo.
Noi siamo i responsabili del cammino
della chiesa in questa porzione
del regno che è il Distretto samburu
(Kenya), in cui la missione di Baragoi
ha compiuto 50 anni (1952-2002).

Dopo 50 anni
di generoso lavoro, fino allo spargimento
del sangue, non possiamo
chiudere gli occhi sulla realtà: circa
l’80% dei samburu e un po’ meno
per i turkana e gli altri immigrati
(kikuyu, kalinjin, rendille, meru…)
non è stato raggiunto dal vangelo. Le
nostre comunità samburu sono com-
poste da bambini e da alcune donne.
Sono assenti anziani e giovani.
Inoltre, forse a causa dell’eccessiva
tutela dei missionari, la chiesa locale
appare rachitica, malata di perenne
adolescenza, incapace di responsabilità
e progresso. La gioventù, dentro
e fuori la scuola, sta perdendo
ogni senso etico e religioso; gli anziani
sono irraggiungibili…
Molte le attività: spesso siamo immersi,
senza risparmio, dentro a un
vero e proprio dinamismo pastorale.
Ma ciò che stiamo facendo è davvero
secondo il vangelo? Non corriamo,
forse, il rischio di trascurare ciò
che è essenziale? Il nostro ministero
è il modo migliore per condurre la
gente (tutta!) a conoscere, amare e
servire Dio, vivere in grazia per la sua
gloria?
Se guardiamo i nostri consigli parrocchiali
e pastorali, le varie associazioni
di giovani e studenti, i diversi
incaricati della catechesi, possiamo
domandarci: che cosa fa tutta questa
gente che collabora e si sacrifica per
la vita della chiesa? Come collabora?
Che cosa ha in mente e cosa si propone?
Qual è l’anima di tutto il lavoro?
È l’amore di Dio, la comunicazione
del Verbo della vita? È aiutare
gli altri a vivere nella
quotidianità, immersi nella giorniosa
volontà di Dio? È questo che noi e
loro stiamo facendo?
Non ci lasciamo, forse, ingannare
da routine, pigrizia, ricerca di realizzare
noi stessi, dall’amore ai nostri
progetti, dallo spirito mondano, dal
populismo e patealismo?
Sono interrogativi che nascono da
una dolorosa realtà e, se non fosse
per la fiducia nel Dio misericordioso,
principale artefice della missione,
ne saremmo quasi schiacciati.

Guardando
alle nostre missioni, mi viene da
pensare che, forse, siamo su un’altra
strada e che tante delle nostre realizzazioni,
che tuttavia hanno un volto
religioso e apostolico, non rispondono
all’esigenza e al fine del nostro
mandato missionario: la salvezza delle
anime.
Penso che, al principio del nostro
cammino pastorale, vada messa la
prospettiva della santità a tutti i livelli.
Abbiamo bisogno di gente, uomini
e donne, con il dono di una
giorniosa tensione alla santità, che annuncino
e anticipino l’avvento del
regno.
È richiesta la santificazione del
missionario e dei preti locali, dei religiosi
e laici, di tutto il popolo di
Dio: senza la volontà di santificazione,
tutto diventa spreco di energie e,
ancor più, illusione. È la santificazione
che la chiesa deve portare dentro
le culture e la società. Se lo fa, risponde
alla sua vocazione. «Siate
perfetti come il Padre».
La «storia della missione» e delle
sue opere (scuole, ospedali, chiese,
pozzi) sovente non è la «storia della
salvezza». La nostra organizzazione,
spesso così materialistica da non avere
neppure più il ritegno di dire che
senza denaro non si può far missione,
impedisce o ritarda la nascita di
un’autentica chiesa locale. Il nostro
lavoro è quello di spianare la via al
vangelo, affinché, per quanto dipende
da noi, entri senza troppi ostacoli
nelle anime e diventi una realtà loro
propria.
Il termine di ogni attività missionaria
è la creazione di un cristianesimo
locale, che realizzi il triplice self
support (ecclesiastico, culturale e finanziario)
e in cui i cristiani diventino
evangelizzatori. La gente ha bisogno
di sentire con entusiasmo e gioia
il vangelo, mentre l’attuale missione
si preoccupa (troppo spesso) di
strutture, a scapito del vero annuncio.
È, forse, perché abbiamo smesso
di tendere alla santità, di collaborare
nell’intimità con il Cristo risorto,
che le nostre comunità sono interiormente
così povere? Abbiamo dimenticato
che, «se Dio non costruisce
la casa, invano vi faticano i costruttori
»? Fondare la chiesa è un
ministero che esige santità. Il beato
Giuseppe Allamano ce lo ricorda:
«Prima di convertire gli altri, voi dovete
essere santi, altrimenti non sarete
utili né a voi stessi né agli altri».
Se manca questo, ogni darsi da fare
porta soltanto delusione.

La forza
di penetrazione del vangelo si basa
sulla potenza della croce, più che
su quella delle opere: siamo dei consacrati
a Dio per la missione. Tutto il
resto viene dopo. Da qui, la necessità
di un’osmosi tra vita apostolica e
ascetica. Come condizione per pascolare
il gregge, Cristo non chiede
a Pietro che un assoluto e definitivo
amore per Lui. E fu dalla croce, assai
più che dalla predicazione o dalle
opere (miracoli), che Gesù acquistò
lo Spirito per noi.
Si è missionari per «salire» sulla
croce: è qui che il Cristo compie definitivamente
il «mandato missionario
» ricevuto dal Padre. L’apostolo
Paolo lo comprese bene e lo fece valere
come il suo unico titolo di gloria:
«Quanto a me, non ci sia altro
vanto che nella croce del Signore nostro
Gesù Cristo» (Col 6, 14). E il nostro
vanto, qual è?
Preoccupati delle strutture, siamo
in ritardo nell’annuncio del vangelo
fra i non-cristiani. Questi, in generale,
non vedono subito Gesù Cristo
nel lavoro apostolico della missione.
Vedono la scuola, il dispensario e le
altre belle opere. Nei missionari vedono
stranieri colti, ricchi e influenti;
nei convertiti vedono individui
soggetti agli stranieri per i benefici
che ne ricevono o che sperano di ricavare.
Se vedono una religione, è
quella degli stranieri.
Penso che sia giunto il tempo di
non affannarci più per le opere, ma
di impegnarci nell’indigenizzazione
della chiesa.

Per una chiesa,
indigena, at home, sono indispensabili:
autofinanziamento (se continua
il finanziamento estero, continua
la servitù) e autoevangelizzazione
attraverso il clero locale, capace
di vivere con mezzi e ritmi propri.
Una missione, senza sussidi esteri,
potrebbe significare una grande purificazione
e un decisivo passo verso
la nascita e costituzione di una autentica
chiesa locale.
Dobbiamo convincerci che il denaro
non è la conditio sine qua non
per l’attività missionaria: al contrario,
esso contiene una logica infeale,
che nasconde la croce di Gesù
Cristo. È la prima delle schiavitù e
rende artificiale la presenza della
chiesa. Se alla chiesa locale manca
l’indipendenza economica, la sua indigenizzazione
resta un’utopia. Ma
la continua dipendenza dall’estero e
l’incapacità dei ministri locali di guidare
le strutture e i meccanismi «europei
», sia parrocchiali sia diocesani,
bloccano sul nascere ogni genuina
iniziativa diversa.
Anche triplicando il numero di
missionari, se non si cambia metodo,
non si rimedierà alla «piaga» della
missione. Infatti, dove più forti sono
uomini e mezzi, più debole è la chiesa
locale. La missione è per sua natura
transitoria, «provvisoria» ed è
necessario che i missionari lavorino
per rendersi «superflui». È tempo di
passare dalla fase protettivo-assistenziale
a quella di una piena responsabilità
diretta.
Bisogna cambiare metodo e perseguire
con maggiore energia l’ideale
di una chiesa locale, sulla scia delle
prime comunità apostoliche. C’è
bisogno di un’élite di laici, accanto
ai sacerdoti, che siano responsabilmente
presenti nelle strutture della
vita non solo parrocchiale, ma anche
sociale e politica.
Il cristianesimo non è soltanto liturgia
e culto, ma anche impegno
umano e sociale. Ma sono i cristiani
che lo devono realizzare, in forza del
loro battesimo e della loro carica interiore.
La chiesa primitiva ha creato
il diaconato per questo: perché gli
apostoli dovevano impegnarsi al ministero
della parola e della preghiera.

Achille Da Ros




I RIFIUTI? FUORI DAL MIO GIARDINO!

Ogni persona produce, in media, 491 chilogrammi di rifiuti all’anno,
che generalmente finiscono nel cassonetto dell’immondizia o, spesso,
ai margini delle strade, nei boschi, nei fiumi.
Nessuno vuole tenere la spazzatura in casa, nessuno vuole la discarica
o l’inceneritore nella propria zona, ma quanti praticano la raccolta
differenziata e soprattutto quanti si preoccupano di produrre
meno rifiuti? Una percentuale ridicola. Insomma, viviamo in una società
dove la cultura ambientale è inesistente, da vergogna, da zero in pagella.
E le conseguenze sono pesantissime. Per tutti.

«Verrebbe da ridere, ma bisognerebbe piangere».
Questo potrebbe essere la morale di ciò
che non è una favola ma, purtroppo,
il risultato di una ricerca
del CNA, il Consorzio Nazionale
per il riciclo degli imballaggi
in Acciaio.
L’inchiesta, condotta su 1.000
persone tra i 18 ed i 65 anni, ha
fatto emergere la profonda ignoranza
degli italiani in campo
ambientale. Qualche esempio.
Il 28% degli intervistati sostiene
che l’ecosistema sia un
nuovo e rinfrescante sistema di
condizionamento dell’aria,
mentre per il 24% si tratta di uno
speciale ed utile apparecchio
acustico; il benzene sarebbe addirittura
un carburante di nuova
generazione ed evoluzione ecologica
della benzina (63%)!
Limitatamente al tema dei rifiuti
la situazione non è certo
più rosea. La raccolta differenziata
viene definita come un sistema
di lavorazione del settore
agricolo (33%) o come un sistema
di classificazione per appassionati
di collezionismo
(11%): ciò significa che il 44%
non sa cosa sia la raccolta differenziata.
Per biodegradabilità il
29% degli intervistati intende lo
stato di degrado in cui versano molti
parchi e giardini ed un altro 29%
i tempi di scadenza di un prodotto
biologico. Il 35% considera il riciclaggio
dei rifiuti un irregolare
smaltimento dei rifiuti volto all’elusione
della relativa tassa, mentre il
18% pensa che si tratti di un sistema
truffaldino di vendita perpetrato
ai danni dei consumatori. Per un
buon 28%, inoltre, il compostaggio
sarebbe un metodo educativo che
prevede una postura ordinata e corretta!
Questi risultati rappresentano solo
uno dei tanti elementi che confermano
la profonda mancanza di
conoscenze ambientali fra la popolazione,
in particolare per quanto
concee l’argomento rifiuti. Eppure,
tra le infinite interconnessioni
esistenti fra l’uomo e la natura, il
legame fra noi ed i rifiuti che produciamo
dovrebbe essere tra i più
evidenti. Se non è immediato immaginare
lo zaino ecologico di un anello
d’oro o di un computer (MC,
giugno 2002), o i cambiamenti climatici
indotti dall’emissione di
CO2 relativa ai nostri consumi, la
quota di rifiuti prodotta direttamente
dal nostro stile di vita ci accompagna
invece costantemente.
In quale famiglia non si discute
per andare a buttare l’«immondizia
»? Allora, se gli «immondi» sacchi
neri prodotti da noi stessi sono
così sgraditi nelle nostre case, perché
non chiedersi che fine faranno
dal momento in cui li poniamo nel
cassonetto? Perché non sentirne in
qualche modo la responsabilità? Al
contrario, il problema non è solo relativo
all’ignoranza in questo campo
ma, fatto ben più grave, all’indifferenza
nei confronti dei nostri
rifiuti e delle conseguenze che la loro
produzione ed il loro smaltimento
comportano.
COSA SONO I RIFIUTI
Se nelle puntate precedenti si è analizzata
l’origine di un prodotto
(dal punto di vista dello sfruttamento
delle risorse naturali e dei
flussi di materia associati al prodotto
stesso), vediamo ora il percorso
che compie il prodotto morto (buttato),
ossia il rifiuto.
Secondo il D.P.R. 915/82, per rifiuto
si intende «qualsiasi sostanza
od oggetto derivante da attività umane
o da cicli naturali, abbandonato
o destinato all’abbandono».
Essere rifiuto non è quindi una caratteristica
intrinseca di un oggetto.
Un prodotto può essere ancora funzionante,
utile o riparabile, ma essere
abbandonato ad esempio perché
fuori moda o perché non soddisfa
più le richieste originarie.
È fondamentale distinguere con
chiarezza le differenti fasi del ciclo
di vita del rifiuto:
1) la produzione
2) la raccolta
3) lo smaltimento.
LA PRODUZIONE
Quello dei rifiuti è diventato un
problema ambientale molto grave,
sotto diversi punti di vista. In questo
secolo, infatti, si è avuto:
– un aumento vertiginoso della produzione
di rifiuti, dovuto in particolare
alle abitudini legate alla società
consumistica;
– un aumento della tossicità per
l’ambiente, dovuto al passaggio dalla
società agricola a quella industriale;
– una diminuzione delle possibili aree
per il tradizionale smaltimento
(la discarica).
I rifiuti prodotti sono definiti urbani,
se provengono dal settore civile,
oppure speciali, se di natura industriale,
artigianale o commerciale.
I rifiuti solidi urbani (RSU)
comprendono circa il 29% di sostanze
organiche (alimenti), il 28%
di carta e cartone, il 16% di plastica,
il 4% di legno e tessuti, il 4% di
metalli, l’8% di vetro e un 11% di
altri materiali.
Nel 1999 sono stati prodotti in Italia
più di 28 miliardi di tonnellate
di rifiuti urbani, per una media pro
capite di circa 491 kg di rifiuti all’anno!
Le quantità variano da regione
a regione ed anche in base al
periodo dell’anno. Nella provincia
di Torino, ad esempio, la produzione
di RSU è in costante ascesa dal
1969, con un tasso medio annuale
d’incremento di circa il 3%. Nel
1969 ogni torinese produceva circa
183 kg di rifiuti, 317 kg nel 1985, fino
ad arrivare a 540 kg nel 2000.
Interessante è inoltre il rapporto tra
l’andamento del prodotto interno
lordo (Pil) e la produzione di rifiuti:
all’aumentare del Pil pro-capite,
aumenta anche la quota di rifiuti
urbani pro-capite prodotta. La
quantità di rifiuti prodotta, infatti,
dipende strettamente dalla quantità
di beni fabbricati e consumati.
LA RACCOLTA
La raccolta del rifiuto può essere
di due tipi:
1) raccolta indifferenziata ossia tutti
i tipi di rifiuti vengono raccolti insieme;
2) raccolta differenziata ossia i rifiuti
vengono raccolti in base alla tipologia.
Per molti anni, in Italia la raccolta
differenziata (r.d.) è consistita
nella raccolta del vetro nelle campane.
Solo alla fine degli anni ’80 è
stata introdotta la raccolta della carta,
delle lattine in alluminio e della
plastica. Dal 1996 sta inoltre aumentando
la raccolta del verde e
della frazione organica. Si sono, infine,
aggiunte la raccolta delle pile e
dei farmaci.
Vale la pena di ricordare che la
r.d. (praticata da una percentuale
ancora molto bassa di cittadini) non
è volontaria, bensì obbligatoria. Il
Decreto legislativo del 5 febbraio
1997, n. 22, più noto come «Decreto
Ronchi», ha infatti fissato precisi
obiettivi da raggiungere nell’arco
di 6 anni dall’entrata in vigore: 15%
di rifiuti raccolti in modo differenziato
entro il 1999, 25% entro il
2001, 35% entro il 2003. La media
italiana, invece, è di circa il 13%,
con notevoli differenze fra le diverse
regioni.
LO SMALTIMENTO
Dopo essere stato raccolto, il rifiuto
è destinato ad una qualche forma
di smaltimento: la messa in discarica
(oggi avviene per il 74,4%
della quantità di rifiuti), l’incenerimento
(7,2%), il recupero dei materiali
o riciclaggio (7,4%) il compostaggio
(11%).
L’INCENERITORE
L’inceneritore si sta affermando
come metodo di smaltimento in
quanto dà la sensazione di eliminare
il problema rifiuti in modo rapido
ed efficace: il rifiuto, bruciando,
«sparisce»…
In realtà, è noto che «nulla si crea,
nulla si distrugge» e ciò vale anche
per un inceneritore, che altro non è
che un impianto di combustione ad
alta temperatura, nel quale il combustibile
è rappresentato dal rifiuto
stesso. Nell’impianto entrano appunto
i rifiuti, del combustibile che
sostenga il processo di combustione,
aria (cioè ossigeno per la combustione),
acqua (per le operazioni
di filtraggio dei fumi e di raffreddamento
delle ceneri).
Dopo la combustione, dall’impianto
fuoriesce la stessa quantità di
materiali, ma trasformata in: ceneri,
fumi di combustione (contenenti
anidride carbonica, vapore acqueo
ed altri gas), polveri, acqua inquinata
(che, dopo essere stata depurata,
darà vita ai fanghi).
Da 1 tonnellata di RSU, quindi, si
ottengono circa 6000 Nm3 («normalmetricubi
»: unità di misura dei
gas) di fumi, 6,7 kg di polveri e 300
kg di ceneri e scorie. Da un lato,
quindi, l’incenerimento causa un
problema di inquinamento atmosferico
(fumi e sostanze inquinanti
in essi contenute), dall’altro crea un
problema di smaltimento delle ceneri
e dei fanghi. Le ceneri, i carboni
attivi usati nei filtri dei fumi ed
i fanghi, infatti, contengono cloro,
fluoro, zolfo, metalli tossici, inquinanti
non presenti nei rifiuti in entrata
(diossine, furani, fenoli…): si
tratta in molti casi di sostanze persistenti
che si accumulano nel terreno
e che possono tornare all’uomo
attraverso l’alimentazione. Ecco
perché questi rifiuti in uscita
sono classificati come rifiuti speciali
e necessitano di discariche speciali,
la cui gestione e localizzazione
presenta generalmente maggiori
difficoltà rispetto ad una discarica
per rifiuti urbani.
Gli inceneritori, quindi, anche se
riducono il volume dei rifiuti, pongono
problemi di inquinamento atmosferico
e di salute pubblica e necessitano
comunque di una discarica.
Se fra i vantaggi principali
dell’incenerimento compare la riduzione
del volume iniziale dei rifiuti,
in realtà molti sostengono che
tale risultato può essere raggiunto
anche con un moderno processo di
pressatura.
Spesso gli inceneritori vengono
definiti anche «termovalorizzatori»:
ossia è possibile utilizzare il calore
prodotto dalla combustione dei rifiuti
per produrre energia elettrica.
Tuttavia, perché tale operazione sia
conveniente, è necessario che gli
impianti siano di grosse dimensioni
e siano localizzati in prossimità di utenze
civili ed industriali alle quali
inviare il vapore o l’energia elettrica
prodotti.
LA DISCARICA
La discarica «controllata» (aggettivo
che vuole sottolineare la distinzione
rispetto alla discarica selvaggia,
fuorilegge) è un impianto nel
quale vengono «stoccati» i rifiuti.
Esistono varie tipologie di discarica
in base ai rifiuti ospitati (urbani,
speciali). Secondo il Decreto Ronchi,
in discarica potranno essere
confinati soltanto i rifiuti inerti (non
in grado di reagire con altre sostanze)
e i rifiuti derivanti da operazioni
di riciclo, recupero e smaltimento
(come ad esempio l’incenerimento).
La discarica deve soddisfare alcuni
requisiti generali: deve essere
localizzata in luoghi stabili per tempi
anche molto lunghi; deve possedere
barriere naturali (ad es. spessi
strati argillosi) o artificiali (ad es. fogli
di polietilene di diverse tipologie)
che isolino i rifiuti dall’ambiente
esterno, in particolare dall’aria
e dalle acque sotterranee; deve
essere controllata con differenti sistemi
di monitoraggio. Nonostante
la discarica sia spesso associata ad
una «buca» in cui si possa gettare di
tutto senza creare problemi, due sono
i possibili impatti sull’ambiente:
1) sulle acque sotterranee: il contenuto
acquoso dei rifiuti, veicolato
dalle acque piovane, può infiltrarsi
nel sottosuolo e raggiungere eventualmente
la falda sottostante la discarica;
2) sull’aria: i processi di degradazione
naturale della parte organica
del rifiuto provocano la formazione
del biogas, un gas composto essenzialmente
da metano ed anidride
carbonica; esso può dare problemi
di incendi e soprattutto di cattivo odore,
e quindi dovrebbe essere bruciato
oppure recuperato ed utilizzato per produrre piccole quantità
di energia elettrica.
IL RECUPERO DEI MATERIALI
Per recupero o riciclaggio si intende
la valorizzazione e l’utilizzo
delle risorse naturali presenti nel rifiuto,
in modo da poterle reintrodurre
nei cicli di produzione e consumo,
con due vantaggi principali:
1) risparmio di materie prime (recuperando
il vetro si risparmia la
sabbia estratta dalle cave e tutte le
sostanze aggiuntive necessarie alla
produzione del vetro);
2) risparmio di energia (l’energia
impiegata per estrarre la sabbia e le
altre sostanze, per i trasporti, per ottenere
la temperatura a cui fonde la
sabbia…).
Gli esempi più noti sono il recupero
della carta, del vetro, della plastica
e dell’alluminio. Anche il compostaggio
è una forma di recupero:
tramite un’operazione naturale di
biodegradazione, la sostanza organica
(il verde e gli alimenti) si trasforma
in ammendante per l’agricoltura.
Essendo dei veri e propri impianti
industriali, anche gli impianti di
recupero presentano vantaggi e
svantaggi dal punto di vista ambientale
ed economico. Ad esempio,
è noto che, nel recupero della
carta, la fase di disinchiostrazione
abbia un pesante impatto sull’ambiente.
La plastica non può essere
recuperata molte volte perché perde
le proprietà iniziali: una bottiglia
di plastica non può tornare ad essere
una bottiglia ma può diventare
materiale per oggetti vari (ad esempio
panchine, maglioni in pile, materiale
espanso per le automobili…).
Il vetro, invece, può essere fuso infinite
volte senza perdere le sue caratteristiche.
Ecco perché il recupero
del vetro è forse quello che
comporta meno problemi a livello
di mercato: la qualità di una bottiglia
di vetro proveniente da vetro riciclato
(quello che noi mettiamo
nelle campane della raccolta differenziata)
è la stessa di una bottiglia
fabbricata a partire dalle materie
prime (sabbia, carbonati di calcio e
sodio, ossidi di ferro…).
Al contrario, il mercato della carta
non è ancora abbastanza sviluppato,
in quanto la qualità della carta
riciclata non soddisfa le richieste
di tutti gli acquirenti (anche se nella
maggior parte dei casi non è necessario
scrivere una lettera o una
relazione su carta bianchissima…).
Gli impianti di recupero sono molto
complessi e costosi e quindi giustificabili
per quantità elevate di rifiuti.
Essi inoltre necessitano che il
materiale da riciclare (vetro, carta,
plastica…) sia il più possibile privo
di altri elementi estranei. Ad esempio,
se nelle campane del vetro sono
presenti anche piccole quantità
di ceramica (come la tazzina di
caffè), la probabilità che le bottiglie
ottenute dalla fusione del vetro si
rompano è molto elevata.
A questo punto risultano evidenti
alcune considerazioni:
– qualsiasi tipologia di smaltimento
(inceneritore, discarica, recupero)
presenta vantaggi e svantaggi;
– la raccolta differenziata non è una
forma di smaltimento alternativa alla
discarica o all’inceneritore, come
molti pensano; essa rappresenta invece
il passaggio dalla produzione
dei rifiuti al recupero (della carta,
del vetro, della plastica, ecc….) e,
quindi, costituisce una prima fase di
separazione dei materiali, alla quale
seguiranno trattamenti più accurati;
– affinché il recupero possa essere
efficiente, la r.d. deve essere fatta
nel migliore dei modi, sia da parte
del cittadino, sia dell’amministrazione
comunale.
LOCALISMO E
SOSTENIBILITÀ

Finora l’analisi del problema rifiuti
è stata affrontata da un punto
di vista locale, ossia limitatamente
al territorio in cui un certo impianto
(discarica, inceneritore…) è costruito.
Se, in questo contesto, ci ponessimo
la domanda «perché la questione
rifiuti è grave?», sicuramente la
risposta sarebbe «perché non sappiamo
più dove metterli!». Questo
effettivamente corrisponde al vero,
e di conseguenza l’intero dibattito
verte su quale sia la migliore tipologia
di smaltimento.
Se però si cambia il punto di vista,
possono emergere alcune considerazioni
inaspettate e sorprendenti.
Tale nuovo punto di vista è quello
dello sviluppo sostenibile (MC, giugno
2002). La sostenibilità ambientale,
infatti, analizza i problemi nel
lungo periodo (e quindi non nel
breve) e in uno spazio più ampio rispetto
al locale: essa si chiede le
conseguenze di una certa azione
antropica sia a livello planetario sia
a distanza di tempo.
In quest’ottica il problema rifiuti
rivela le due facce di una stessa medaglia:
da un lato il problema dello
smaltimento, dall’altro il sovrasfruttamento
delle risorse naturali.
Ricordando infatti che il rifiuto è un
prodotto morto e che un prodotto
è un insieme di risorse naturali, è evidente
che la maggior produzione
di rifiuti significa un sempre maggiore
sfruttamento delle risorse del
pianeta. Maggiori rifiuti significa
anche maggiori impronte ecologiche
e, quindi, disequilibri ambientali
e sociali crescenti (MC, giugno
2002).
Ecco che il problema dello smaltimento
diventa secondario. La parola
d’ordine dovrebbe essere «ridurre
i rifiuti», come lo stesso Decreto
Ronchi invita a fare. Della
quota di rifiuti prodotta bisognerebbe
poi fare una raccolta differenziata
(r.d.) accurata, tale da incentivare
il recupero dei materiali e
limitare al massimo la costruzione di
inceneritori e discariche. Tuttavia
questo non avviene, anzi, viene attribuita
un’importanza primaria alla
r.d.: è certamente vero che essa sia
una pratica fondamentale, ma il fatto
che aumenti non significa automaticamente
che diminuisca la produzione
dei rifiuti. Allora, perché
premiare solo i comuni che aumentano
la r.d. e non quelli che diminuiscono
la produzione dei rifiuti?
Anche l’analisi relativa all’inceneritore
cambia aspetto sotto il punto
di vista della sostenibilità. Essendo
una sorta di «macchina» che funziona
«a rifiuto» anziché a benzina,
l’inceneritore necessita di rifiuti, favorendone
paradossalmente l’aumento
anziché la diminuzione.
Altri aspetti interessanti emergono
dallo studio degli impianti di recupero.
Prendiamo come esempio
un impianto di recupero del vetro.
In provincia di Torino non esiste un
impianto di riciclaggio del vetro: i
vetri provenienti dalle campane della
raccolta differenziata sono quindi
trasferiti ad Asti, a Dego (Savona)
o a Milano, con un notevole impatto
ambientale dovuto ai
trasporti. Questi impianti, inoltre,
generalmente esportano il vetro riciclato
(sottoforma di contenitori e
bottiglie dalle numerose forme) anche
sui mercati esteri, in Europa ed
oltreoceano. L’impatto dovuto ai
trasporti (estrazione di petrolio ed
emissioni di gas che alterano il clima)
non rischia così di annullare
quel risparmio di materie prime ed
energia che il recupero consentirebbe
di offrire?
Ci si può chiedere allora se grossi
impianti localizzati potrebbero essere
sostituiti da piccoli impianti
diffusi sul territorio, in grado sia di
rivitalizzare l’economia e l’occupazione
locali, sia di minimizzare i trasporti.
Purtroppo, però, questi impianti
sono molto costosi e gli investimenti
iniziali sono facilmente
ammortizzabili solo se l’impianto è
di grandi dimensioni.
Non è possibile allora ripensare il
funzionamento del sistema? Ad esempio,
si potrebbe potenziare la
pratica del vetro a rendere, affiancandola
al recupero? Bisogna inoltre
ricordare che, generalmente, un
impianto di recupero vetri utilizza
due terzi di vetro proveniente dalle
campane della r.d. ed un terzo di
materie prime. Ogni bottiglia prodotta,
quindi, è costituita per un terzo
da sabbia vergine! Se la richiesta
di contenitori in vetro aumenta
sempre di più, come sta succedendo,
aumenterà comunque la frazione
di materie prime estratte, anche
se il vetro viene recuperato. Risulta
di primaria importanza, quindi, la
riduzione della richiesta di contenitori.
E qui si apre un altro capitolo
interessante: gli imballaggi.
L’aumento smisurato degli imballaggi
rappresenta l’emblema dello
spreco di materie prime. Ha senso
utilizzare un materiale prezioso come
l’alluminio per contenere semplici
bevande? Non è un paradosso
che il contenitore sia più prezioso
del contenuto? Perché consumare
la plastica (derivante da una risorsa
scarsa ed inquinante come il petrolio)
non solo per le sue caratteristiche
chimico-fisiche, ma soprattutto
per fabbricare sacchetti ed imballaggi
vari, destinati ad una vita brevissima?
(Fine 4.a puntata – continua)

Consigli per RIDURRE i rifiuti:
scegliere i prodotti con minor zaino
ecologico;
scegliere i prodotti con meno imballaggio
possibile;
preferire prodotti duraturi, riparabili,
smontabili;
preferire materiali riciclabili;
provare a riutilizzare i prodotti per
scopi differenti dall’originario;
evitare i prodotti usa e getta;
diminuire l’uso di prodotti chimici
pericolosi;
evitare i cibi confezionati con involucri
inutili;
non fare incartare dai commessi prodotti
che hanno già una propria confezione;
preferire i liquidi (alimentari e non)
alla spina o in contenitori a rendere;
evitare i contenitori di plastica mono
uso;
preferire i contenitori di vetro a quelli
in plastica o alluminio;
evitare gli imballaggi in tetrapak,
costituiti da cartone ed alluminio (ad
esempio per il latte, i succhi di frutta…);
evitare i prodotti con «omaggi» che si
rivelano spesso come oggetti inutili,
destinati a diventare subito rifiuti;
preferire borse di juta e cotone alle
borse di plastica;
preferire le pile ricaricabili;
utilizzare i fogli con una facciata bianca
per la brutta copia;
fotocopiare fronte e retro;
non prendere volantini o fogli pubblicitari
se non interessano;
usa il più possibile la carta riciclata.

Silvia Battaglia




QUANDO LO SVILUPPO NON È PROGRESSO

Secondo la cultura oggi dominante una società è tanto più sviluppata quanto
più consuma. Il benessere degli individui è misurato in termini di consumo
e di accumulo di merci. Gli stili di vita dei paesi industrializzati sono
incompatibili sia con i limiti fisici del pianeta (risorse e capacità
di assorbimento dei rifiuti limitate) sia con gli ideali di equità. L’attuale
modello di sviluppo non solo produce ingiustizia per l’80% della popolazione
mondiale, ma mette a rischio il benessere delle generazioni future.
«Il mondo – diceva il Mahatma Gandhi – è abbastanza ricco per soddisfare
i bisogni di tutti, ma non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno».

Nelle puntate precedenti (1) si è accennato in
termini qualitativi al legame esistente tra ambiente
e società, tra emergenze ambientali ed
emergenze sociali, tra sistema economico e risorse
naturali, tra crescita economica e limiti fisici alla crescita
stessa. Ci si è avvalsi di principi fisici, di nozioni
storico-filosofico-etiche, ma anche di semplici analisi
del funzionamento del sistema economico, nonché
di considerazioni di buon senso.
Esistono tuttavia ulteriori strumenti, basati su leggi
della fisica, della matematica e della statistica, in
grado di evidenziare perché sia necessario ridurre
considerevolmente le quantità di materiali e di energia
prelevate dall’ambiente e destinate all’attuale
sistema economico. Esistono cioè degli strumenti
utili per capire se ci stiamo orientando verso uno
«sviluppo sostenibile».

I DOGMI DEL MODELLO
Sviluppo è certamente un concetto ambiguo e
soggetto ad interpretazioni anche molto diverse tra
loro.
In biologia, il termine descrive il processo attraverso
il quale un organismo raggiunge la sua forma
completa: nel linguaggio comune esso indica la crescita
degli animali o delle piante. Nella seconda metà
del Settecento, con la rivoluzione industriale e l’emergere
del capitalismo, il termine viene trasferito
anche alle scienze sociali, identificandosi sempre
più con il concetto di progresso. Mentre nelle civiltà
greche e romane la crescita era considerata come un
processo ciclico e in quelle medievali come degenerazione
e decadenza, nel pensiero occidentale moderno
«il progresso implica che una civiltà sia progredita, stia progredendo e progredisca
nella direzione desiderata».
L’influenza darwiniana fa sì che sviluppo
e progresso diventino sinonimo
di evoluzione, ossia processo
verso forme sempre più perfette. Lo
sviluppo, quindi, da processo nascita-
morte, viene ora concepito come
qualcosa di «direzionale, cumulativo,
irreversibile e volto ad uno scopo».
La cultura dominante, che
confonde tra loro i termini sviluppo,
crescita, progresso ed evoluzione,
impone che «i diversi paesi si sviluppino
secondo stadi successivi,
dalla società tradizionale a quella dei
consumi di massa, lungo una direzione
lineare verso la modeizzazione».
Tre sono i dogmi su cui si basa tale
pensiero:
1) esiste un unico modello di sviluppo,
che ha come fine la società
capitalista avanzata dei consumi;
2) l’unico fine è quello della crescita
economica;
3) il benessere deve essere inteso come
consumo e accumulo di merci
(Cuhna, 1988).
Secondo questo approccio, quindi,
lo sviluppo economico, inteso
come sviluppo industriale e tecnologico,
assicura da solo il progresso
sociale e il benessere dell’uomo.

ECONOMIA
CONTRO ECOLOGIA?

Nei primi anni Sessanta iniziano
ad emergere, in molteplici ambiti,
danni ecologici irreversibili dovuti
alla grande crescita economica ed
industriale. La percezione dei problemi
ambientali è limitata ai fenomeni
di inquinamento locale e le soluzioni
proposte consistono nella
definizione di livelli di emissione relativi
a determinate sostanze, nella
dispersione degli inquinanti, nella
protezione di spazi circoscritti. È
l’approccio della «protezione e riparazione
ambientale».
Nel corso degli anni Settanta, grazie
al miglioramento delle conoscenze
scientifiche e alla crescente
sensibilizzazione dell’opinione pubblica,
le preoccupazioni ambientali
iniziano ad estendersi su scala internazionale.
Si passa ad un approccio diverso,
quello della «gestione delle risorse»:
nel 1972, infatti, il rapporto del Club
di Roma «I limiti dello sviluppo»,
pubblicato dal Mit (Massachusetts
Institute of Technology), affianca al
problema dell’inquinamento quello
del depauperamento delle risorse
del pianeta, la cui gravità viene amplificata
dalla crisi petrolifera del
1973. È anche l’approccio della «gestione
del rischio»: dopo alcuni eventi
catastrofici di origine industriale
(Seveso, Bhopal…), nasce l’esigenza
di saper affrontare situazioni
nelle quali il rischio non è completamente
eliminabile a priori e le conseguenze
sono spesso irreparabili.
Nonostante numerose critiche, il
rapporto del Club di Roma ha avuto
il merito di sollevare il dibattito
internazionale sulle questioni ambientali
e di avanzare il concetto di
limiti fisici alla crescita. Le due posizioni
estreme, all’interno delle
quali si è sviluppata la discussione,
sono l’economia di frontiera e l’ecologia
profonda, analoghe rispettivamente
all’approccio tecnocentrico
ed ecocentrico:
1) l’economia di frontiera assegna
alla natura un valore strumentale, in
virtù dei numerosi servizi che essa
offre all’uomo; la considera, inoltre,
come fonte inesauribile di risorse
(materie prime, energia, acqua, suolo,
aria) e come deposito illimitato
dei sottoprodotti derivanti dall’attività
di produzione e consumo (rifiuti,
inquinamento e degrado ecologico);
ritiene quindi l’economia
completamente separata dall’ambiente
e conserva un’assoluta fiducia
nella tecnologia e nel mercato; lo
sviluppo è inteso esclusivamente in
termini quantitativi, ossia come crescita
economica;
2) l’ecologia profonda riconosce alla
natura un valore intrinseco, al di
là dei suoi servizi, per il quale va tutelata
e rispettata; evidenzia aspetti,
completamente ignorati dalla precedente
posizione, quali elementi etici,
sociali, culturali, basati sul concetto
di sviluppo in armonia con la
natura.
A questa corrente di pensiero appartiene
l’ipotesi Gaia, formulata
da J. Lovelock, secondo la quale il
pianeta costituisce un grande organismo
vivente in grado di autorganizzarsi
ed autorinnovarsi, non però
necessariamente in materia ottimale
per la specie umana…

LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Nel 1987, con il rapporto Brundtland
(3) inizia ad imporsi il concetto
di sviluppo sostenibile, affermatosi
a livello internazionale con la
«Conferenza mondiale su ambiente
e sviluppo», svoltasi a Rio de Janeiro
nel giugno 1992.
Secondo la definizione originale,
è sostenibile uno «sviluppo che soddisfi
i bisogni del presente senza
compromettere la capacità delle generazioni
future di soddisfare i propri
». Nonostante il proliferare di interpretazioni
anche molto lontane
tra loro, vi sono alcuni concetti peculiari
alla base di questo nuovo approccio.
1) Il capitale naturale. Si possono
distinguere tre forme di capitale:
quello prodotto dall’uomo (infrastrutture,
macchinari…), quello umano
e quello naturale (atmosfera,
ecosistemi, flora…). Ogni tipologia
di capitale, da sola o insieme alle altre,
genera dei servizi, necessari all’uomo
per aumentare il proprio livello
di benessere: il capitale umano
rappresenta la forza lavoro; i macchinari
permettono, ad esempio, le
trasformazioni delle materie prime
in beni di consumo.
L’uomo utilizza i materiali, l’energia
e l’informazione contenuti nel
capitale naturale combinandoli con
le altre due forme. Ne consegue che
il capitale naturale è essenziale per il
benessere umano, nonché per la sussistenza
stessa del capitale prodotto
dall’uomo (i macchinari e le infrastrutture
sono costituiti da risorse
prelevate dalla natura…) e del capitale
umano (alcuni servizi offerti
gratuitamente dalla natura e indispensabili
alla sopravvivenza sono,
ad esempio, la purificazione naturale
di aria e acque, la protezione dai
raggi ultravioletti, la stabilizzazione
del clima, la rigenerazione del suolo,
la preservazione della fertilità, il
mantenimento della biodiversità, la
decomposizione dei rifiuti, ecc.).
Di conseguenza, non è più sufficiente
diminuire o rimuovere l’inquinamento
diretto verso l’ambiente
naturale, ma è necessario soprattutto
impedire trasformazioni
irreversibili degli ecosistemi a causa
dell’azione dell’uomo, cioè è necessario
conservare il capitale naturale.
2) L’equità sociale. Uno sviluppo sostenibile
richiede sia l’equità intragenerazionale,
cioè all’interno di una
stessa generazione, sia l’equità intergenerazionale,
cioè rispetto alle
generazioni future.
3) Distinguere tra sviluppo e crescita.
Mentre la «crescita» è un concetto
di tipo quantitativo, il termine
«sviluppo» vuole indicare una trasformazione
soprattutto qualitativa:
non solo economica, quindi, ma
comprendente tutti gli aspetti della
sfera sociale.
4) La sostenibilità. È un concetto
che comprende contemporaneamente
e allo stesso modo tre dimensioni:
economica, ambientale e sociale.
Lo sviluppo economico non è ritenuto
prioritario rispetto a quello
sociale, ma il raggiungimento dell’uno
non può prescindere dall’altro.
Lo sviluppo sostenibile ha quindi
il merito di aver contribuito al
passaggio da una visione settoriale
dei problemi (sviluppo economico
visto indipendentemente dall’aspet-
to sociale ed ambientale) ad una visione
integrata, multidisciplinare e
complessa. In questo contesto l’ambiente
non è più considerato un vincolo
o un aspetto marginale, ma diventa
parte integrante e strategica
dello sviluppo.
In un intreccio così complesso di
componenti (economiche, ambientali
e sociali), uno sviluppo sostenibile
dovrebbe riconoscere l’importanza
di concetti come l’incertezza,
il limite, e quindi la prudenza nel valutare
le conseguenze sull’ambiente
delle azioni umane, specialmente se
numerose e concomitanti; dovrebbe
ottimizzare l’uso delle risorse
scarse del pianeta e ridurre inquinamento
e rifiuti prodotti, per garantire
l’esistenza di tutti gli esseri viventi;
dovrebbe mirare non solo al
benessere economico ma anche e
soprattutto al miglioramento della
qualità della vita.
Dato che ogni paese possiede peculiari
caratteri sociali, ambientali
ed economici, si dovrebbe abbandonare
la «psicosi spaziale», ossia la
presunzione, propria delle culture
dominanti, di poter applicare ovunque
lo stesso modello di sviluppo.
A livello pratico, però, lo «sviluppo
sostenibile» rischia di essere solo una
formula pubblicitaria; nel momento
in cui la definizione teorica
deve essere tradotta a livello operativo,
interpretazioni molto diverse
tra loro ne ostacolano la concreta
realizzazione.

L’IMPRONTA ECOLOGICA
Come si accennava all’inizio, esistono
strumenti, detti «indicatori»,
basati su principi fisici, biologici,
matematici, statistici ecc…, in grado
di misurare il livello di sostenibilità
dello sviluppo. Gli indicatori rivelano
se stiamo migliorando le condizioni
ambientali, sociali ed economiche
del pianeta (o di una nazione,
di una comunità…) o, al contrario,
se le stiamo peggiorando. Uno strumento
di calcolo potente dal punto
di vista didattico (perché relativamente
semplice e molto intuitivo) è
quello dell’«impronta ecologica».
L’impronta ecologica stima, in ettari,
la superficie terrestre ed acquatica
necessaria, da un lato, alla produzione
delle risorse naturali richieste
dall’economia per la produzione
di beni e, dall’altro, all’assorbimento
dei rifiuti prodotti.
È quindi possibile calcolare l’impronta
ecologica di qualsiasi nazione
(popolazione, comunità o individuo):
essa rappresenterà l’area di
terra produttiva e di acqua richiesta
per produrre le risorse consumate
da quella stessa nazione e per assorbire
i rifiuti generati. Tale superficie
viene stimata attraverso varie
metodologie.
Il metodo dell’impronta ecologica
si basa sulle seguenti considerazioni:
1) ogni prodotto o servizio ha bisogno
di materiali ed energia provenienti
dalla natura;
2) ogni bene genera scarti (nella produzione,
nell’uso, nello smaltimento
finale), e sono necessari
sistemi ecologici che li
assorbano;
3) tutti gli insediamenti abitativi
e le infrastrutture
occupano spazio, sottraendo
suolo agli ecosistemi
naturali e alle loro
funzioni.
Per calcolare l’impronta
ecologica, si valutano le risorse
naturali consumate
per l’alimentazione,
l’abitazione,
i trasporti, i
beni di consumo
e i servizi. I sistemi
ecologici produttivi,
dai quali
provengono le risorse,
sono il suolo coltivabile, le zone
di pascolo, le foreste gestite, le foreste
naturali, il suolo necessario alla
produzione di energia, gli ambienti
marini. L’impronta ecologica
individuale, locale o nazionale dipende
da fattori come il reddito, i
valori e i comportamenti personali,
i modelli di consumo, le tecnologie
usate.
Dividendo le terre emerse e il mare
biologicamente produttivo (12,6
miliardi di ettari, al 1996) per il numero
degli esseri umani (5,7 miliardi,
al 1996), si ottiene che ogni individuo
ha a disposizione circa 2,2 ettari
di territorio produttivo all’anno.
Considerando che il 10-12% di spazio
naturale dovrebbe rimanere intatto
per conservare la biodiversità
e i processi ecologici (i biologi
suggeriscono il 25%!),
l’impronta ecologica pro capite
diventa di 2 ettari (4). Ogni
individuo, quindi, ha a disposizione
circa 0,2 ettari di
terreno agricolo, 0,8 ettari
di terreno da pascolo, 0,6
ettari di foreste, 0,5 et-
tari di aree oceaniche.
Le stime relative al 1996, invece,
dimostrano che l’impronta media
mondiale effettiva era pari a 2,85 ettari
di superficie pro capite. Dal
punto di vista ambientale ciò significa
che stiamo sfruttando un’area
superiore di almeno il 30% rispetto
all’area disponibile. Tale eccedenza
provoca l’impoverimento del capitale
naturale del pianeta. Per fare
un’analogia con il capitale monetario,
è come se, anziché utilizzare solamente
gli interessi maturati, noi
spendessimo anche parte del capitale
investito, cosa che porterebbe
ad un’inesorabile progressiva diminuzione
dello stesso e, di conseguenza,
alla sempre minor disponibilità
di interessi.
La crescita dei consumi e la crescita
della popolazione (7 miliardi di
persone nel 2012, 8 miliardi nel
2026 e 9 miliardi nel 2043) porteranno
inevitabilmente ad una sempre
maggior erosione del capitale
naturale, con conseguenze non facilmente
prevedibili sugli equilibri
naturali e, di conseguenza, sulla nostra
stessa sopravvivenza. Già oggi
si parla di cambiamenti climatici, di
aumento della frequenza dei fenomeni
estremi (siccità, alluvioni), di
desertificazione, emergenza acqua,
piogge acide, diminuzione della biodiversità…

SE TUTTI
CONSUMASSERO COME…

I più recenti calcoli informano che
uno statunitense medio ha un’impronta
ecologica di 12,22 ettari pro
capite, un canadese 7,66, un tedesco
6,31, un italiano 5,51, un colombiano
1,90, un indiano 1,06, un cambogiano
0,83, un afghano 0,58, un
abitante della Namibia 0,66, un eritreo
0,35. Gli individui non hanno
quindi lo stesso «peso» sulla Terra.
Ci sono popolazioni che superano
di gran lunga la loro legittima «fetta
» di terra a disposizione (i 2 ettari
di superficie), altri che ne utilizzano
una piccolissima parte.
Due considerazioni: innanzitutto,
se tutti gli abitanti del pianeta consumassero
come uno statunitense
medio, avremmo bisogno di almeno
3 pianeti come la terra! Lo stile di
vita dei paesi industrializzati non
può quindi essere esteso a tutti gli abitanti
del mondo, semplicemente
perché le risorse del pianeta e la capacità
di assorbimento dei rifiuti sono
limitate e non infinite come si
pensava in passato. Secondo aspetto:
il 20% della popolazione mondiale
sfrutta l’80% delle risorse del
pianeta. Questi dati mostrano quindi
una forte ingiustizia sociale, non
solo rispetto alle generazioni future,
ma anche nei confronti delle generazioni
presenti.
Prendiamo l’Italia come esempio:
in base al territorio produttivo, noi
avremmo a disposizione solo 1,92
ettari per i nostri consumi; tuttavia
la nostra impronta pro capite risulta
essere di 5,51 ettari. È evidente che
i restanti 3,59 ettari vengono compensati
dal commercio internazionale:
si parla di deficit ecologico locale
(o debito ecologico, per analogia
con il debito sociale). Questo
però significa che gli stessi 3,59 ettari
sono sottratti a qualche altra popolazione.
Essendo l’economia basata
sulle risorse naturali, è quindi evidente
che la ricchezza materiale
dei paesi del Nord del mondo dipende
dalle ricchezze naturali prelevate
dal Sud del mondo.
È noto che una parte dei problemi
dei paesi poveri siano di origine intea
(corruzione, nepotismo, cattiva
gestione dell’economia, violazione
dei diritti umani…); altrettanto evidente
dev’essere però il fatto che i
paesi industrializzati devono diminuire
in modo considerevole il loro
consumo di materie prime, energia e
natura, non solo tramite l’innovazione
tecnica, ma anche e soprattutto
tramite una rivoluzione culturale basata
su nuovi stili di vita.
Uscendo dalla logica della solidarietà
intesa come beneficenza, è necessario
entrare in una logica di
«giustizia»: non «dare» in misura
maggiore, ma piuttosto «prendere»
in misura minore (5).
Queste considerazioni ci obbligano
quindi a rivedere l’attuale concetto
di «benessere»: un benessere
oggi esclusivamente materiale, basato
su un consumo di risorse che
danneggia gli ecosistemi, la giustizia
mondiale e le generazioni future.
(Fine 3.a puntata – continua)

BIBLIOGRAFIA
NOTE:
(1) Vedi Missioni Consolata di gennaio
2002 e marzo 2002.
(2) Anna Segre-Egidio Dansero, Politiche
per l’ambiente, Utet, 1996.
(3) Il rapporto Our Common Future,
presentato nel 1987 dalla «World Commission
on Environment and Development
» (Wced), commissione promossa
nel 1983 dalle Nazioni Unite, è noto come
«rapporto Brundtland», dal nome
del premier norvegese che al tempo
presiedeva la commissione stessa.
(4) Centre for Sustainable Studies,
Rapporto Living Planet 2000, Redefining
Progress.
(5) Wuppertal Institut, Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999.
Anna Segre – Egidio Dansero,
Politiche per l’ambiente,
Utet, Torino 1996
Wolfgang Sachs (a cura di),
Dizionario dello sviluppo,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
Gruppo di Ricerca
in Didattica delle Scienze Naturali,
I volti della sostenibilità,
Università di Torino, 2002
Mathis Wackeagel
e William E. Rees,
L’impronta ecologica.
Come ridurre l’impatto dell’uomo
sulla terra,
Ed. Ambiente, Milano 2000
WWF Inteational,
Rapporto Living Planet 2000,
Gland, Svizzera, ottobre 2000
Wuppertal Institut,
Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999
Gianfranco Bologna (a cura di),
Italia capace di futuro,
EMI, Bologna 2000
Centro Nuovo Modello di Sviluppo,
Ai figli del pianeta,
EMI, Bologna 1998
Giovanni Salio,
Elementi di economia
nonviolenta. Relazioni
tra economia, ecologia ed etica,
Edizioni del Movimento nonviolento,
Verona 2001
Christoph Baker,
Ozio, lentezza e nostalgia,
EMI, Bologna 2001
E. U. von Weizsäcker, A. B. Lovins,
L. H. Lovins,
Fattore 4,
Edizioni Ambiente, Milano 1998.
Enea,
Atti della Conferenza
nazionale energia e ambiente
(Roma, novembre 1998),
Fabiano Editore,
Canelli (Asti) 1999

Sviluppo
Nel linguaggio comune, accettato da economisti, decisori pubblici ed opinione
pubblica, per «sviluppo» si intende la crescita quantitativa dell’economia,
misurata attraverso vari indicatori economici, primi fra tutti il Pil (prodotto
interno lordo). Lo sviluppo sostenibile, invece, distingue tra «crescita»
quantitativa e «sviluppo», inteso come miglioramento qualitativo, che integri
fra loro gli aspetti economici, sociali ed ambientali.

Indicatori di sostenibilità
Sono strumenti che monitorano il progresso verso uno sviluppo sostenibile.
Tentando di ricomprendere tutte le dimensioni della sostenibilità, essi mirano
a sostituire gli attuali strumenti di misura della crescita economica, in particolare
il Pil. Questo non solo considera esclusivamente le attività valutabili in
termini monetari, ma omette aspetti rilevanti e ne comprende altri di paradossali.
Dal punto di vista sociale, infatti, non considera la produzione di beni
e servizi derivanti dal lavoro domestico o dal volontariato, mentre calcola
le spese sanitarie necessarie per affrontare gli effetti negativi della produzione
e del consumo; dal punto di vista ambientale, il Pil aumenta anche grazie
alle spese per la protezione ambientale (alluvioni, terremoti…!) e per il disinquinamento.

Impronta ecologica
Rappresenta la superficie di territorio ecologicamente produttivo (terra ed acqua)
necessaria per fornire le risorse di energia e materia consumate da una
certa popolazione e per assorbire i rifiuti prodotti dalla popolazione stessa.
Mentre il classico concetto di «capacità di carico» indica quante persone può
sopportare la terra, l’impronta ecologica indica quanta terra ogni persona richiede
per condurre il proprio stile di vita.

Zaino ecologico
Detto anche «flusso nascosto», o «fardello ecologico», rappresenta la quantità
di materiali prelevati dalla natura durante le fasi di produzione, utilizzo e smaltimento
relative ad un prodotto (o servizio). Si tratta di materiali abiotici (sabbia,
ghiaia, minerali, combustibili fossili), materiali biotici (biomassa vegetale
ed animale), terreno fertile, acqua, aria.

L’IMBROGLIO DEI… PANNOLINI SINTETICI
L’abitudine di acquistare pannolini «usa e getta» per i propri bimbi è ormai
consolidata, ma è una tendenza dispendiosa e altamente inquinante che
andrebbe corretta.
Le nostre mamme utilizzavano i ciripà o triangolini, che richiedevano un lavoro
notevole di «manutenzione». Oggi il mercato mette a disposizione del consumatore
consapevole pannolini in tessuti modei, che si mettono e tolgono
come un «usa e getta», ma che non sono destinati alla discarica, in quanto lavabili.
Le motivazioni per una scelta di questo tipo sono di natura ambientale, ma
anche legate a convenienza economica.
Analizzando il ciclo di vita di un pannolino sintetico, vediamo che i pannolini
«usa e getta» sono costituiti in gran parte da plastica ed inquinano pesantemente
l’ambiente già dalla loro produzione: in un anno si utilizzano svariati
galloni di olio, tonnellate di plastica e milioni di tonnellate di polpa di legno,
alla fine del ciclo di uso il pannolino finisce nelle discariche con un periodo di
decomposizione pari a 500 anni.
Se pensiamo all’aspetto economico, vediamo che ogni confezione di pannolini
«usa e getta» ne contiene mediamente 40, per una spesa di circa 10 Euro.
Considerando di consumae almeno un pacco a settimana (in realtà se ne utilizzano
molti di più), si spendono circa 40 euro mensili, il che vuol dire quasi
480 Euro l’anno; una spesa alquanto incisiva per il bilancio familiare. I pannolini
in tessuto esistono per tutte le tasche e anche con i più costosi è possibile
risparmiare quasi 240 Euro l’anno.
Il comune di TORRE BOLDONE nel bergamasco, nella figura dell’assessore
Ronzoni, ha attivato nel ’98 un’attività di sensibilizzazione all’uso dei pannolini
in tessuto, inviando ai neogenitori un pannolino di tessuto. Negli anni successivi
l’attività d’informazione è continuata, inviando una brochure informativa.
Attualmente le famiglie con bimbi che hanno optato per questa soluzione
sono il 20%, con una riduzione notevole alla fonte dei rifiuti.
CINZIA VACCANEO
PER MAGGIORI INFORMAZIONI:
– pannolini «Lotties»:
Berg Eveline Maria, via Lanciano 15 – 47838 Riccione RN,
tel. 054-1691087
– pannolini «Belli come il sole»: Ilaria Proverbio via Solferino 2/c – 37132
Verona, tel 045-8920213 bellicomeilsole@tin.it
– pannolini Disana (Germania) www.disana.com
Possono essere acquistati tramite il catalogo «I PICCOLISSIMI»
via di Eschignano 39 54100 Massa
tel. 0585-488.209; fax 0585-488.378
www.ipiccolissimi.it

UN DECALOGO DI COMPORTAMENTO PER CIASCUNO DI NOI
CONSIGLI PER CONSUMI… SOSTENIBILI
1) COMPRA DI MENO. Non esistono prodotti ecologici, ma solo meno dannosi di
altri. Ogni prodotto (anche un bicchier d’acqua) comporta un invisibile «zaino
ecologico» fatto di consumo di natura, energia e tempo di lavoro.
2) COMPRA LEGGERO. Spesso conviene scegliere i prodotti a minore intensità di
materiali e con meno imballaggi, tenendo conto del loro peso diretto, ma
anche di quello indiretto, cioè dello «zaino ecologico».
3) COMPRA DUREVOLE. Buona parte dei cosiddetti beni durevoli si cambia troppo
spesso. Cambiando auto ogni 15 anni, invece che ogni 7, ad esempio, si
dimezza il suo zaino ecologico (25 tonnellate di natura consumate per ogni
tonnellata di auto). Lo stesso vale per mobili e vestiti.
4) COMPRA SEMPLICE. Evita l’eccesso di complicazione, le pile e l’elettricità
quando non siano indispensabili. In genere oggetti più sofisticati sono più fragili,
meno riparabili, meno duraturi. Sobrietà e semplicità sono qualità di bellezza.
5) COMPRA VICINO. Spesso l’ingrediente più nocivo di un prodotto sono i chilometri
che contiene. Comprare prodotti della propria regione riduce i danni
ambientali dovuti ai trasporti e rafforza l’economia locale.
6) COMPRA SANO. Compra alimenti freschi, di stagione, nostrani, prodotti con
metodi biologici, senza conservanti né coloranti. In Italia non è sempre facile
trovarli e spesso costano di più. Ricorda però che è difficile dare un prezzo
alla salute delle persone e dell’ambiente.
7) COMPRA PIÙ GIUSTO. Molte merci di altri continenti vengono prodotte in condizioni
sociali, sindacali, sanitarie e ambientali inaccettabili. In Europa sta
però crescendo la quota di mercato del commercio equo e solidale
(TRANSFAIR). Preferire questi prodotti vuol dire per noi pagare poco di più, ma
per i piccoli produttori dei paesi poveri significa spesso raddoppiare il reddito.
8) COMPRA PRUDENTE. In certi casi conviene evitare alcuni tipi di prodotti o
materiali sintetici fabbricati da grandi complessi industriali. Diversi casi
hanno dimostrato che spesso la legislazione è stata modellata sui desideri
delle lobby economiche, nascondendo i danni alla salute e all’ambiente.
9) COMPRA SINCERO. Evita i prodotti troppo reclamizzati. La pubblicità la paghi
tu: quasi mezzo milione all’anno per famiglia. La pubblicità potrebbe dare un
contributo a consumi più responsabili, invece spinge spesso nella direzione
opposta.
10) INVESTI IN GIUSTIZIA. Ecco due esempi: finanza etica e impianti che consumano
meno energia. In Italia puoi investire nelle MAG (MUTUA AUTO GESTIONE)
e nella Banca Etica. Investendo poi nell’efficienza energetica puoi dimezzare
i consumi e i danni delle energie fossili come carbone e petrolio.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI:
«CAMPAGNA BILANCI DI GIUSTIZIA», Segreteria Nazionale Venezia
Tel. 041.538.14.79
www.unimondo.org/bilancidigiustizia, bilanci@libero.it

LO ZAINO ECOLOGICO E SOCIALE
Quando acquistiamo un prodotto è come se ci portassimo
a casa solo la punta di un iceberg. In realtà,
per produrre quel bene è stata movimentata una
massa di materiali, accumulatisi nelle varie fasi della produzione
del bene stesso e depositati come rifiuto in qualche
luogo (in tanti luoghi diversi…). Questi materiali
(ghiaia, sabbia, minerali, petrolio, carbone, gas naturale,
biomassa vegetale ed animale, terreno fertile, acqua,
aria…), che non entrano nel ciclo produttivo e che noi consumatori
non vediamo, costituiscono lo «zaino ecologico»
del prodotto. Siamo abituati a considerare i «nanogrammi»
di inquinanti emessi dai camini, dalle auto…, ma non le
«megatonnellate» di materiali utilizzati a monte del prodotto
consumato e causa di un fortissimo impatto sull’ambiente.
L’indicatore «zaino ecologico» rappresenta, quindi, il carico
di natura che ogni prodotto o servizio si porta sulle spalle
in un invisibile zaino.
Questo argomento sta diventando un importante oggetto
di ricerca. In particolare, si sta studiando per inserire nell’etichetta
di ogni prodotto anche il relativo zaino ecologico,
per dare la possibilità al consumatore di rendersi
responsabile verso le proprie scelte.

Esempio 1
DALLA CIOTOLA ALL’AUTOMOBILE
Una ciotola di legno di tiglio del peso di circa 500 g ha uno
zaino ecologico di 2 kg, mentre una ciotola di rame dello
stesso tipo ha uno zaino di 500 kg. Lo zaino ecologico di
una marmitta catalitica (se il platino in essa presente non
è riciclato) pesa più di 2,5 tonnellate; 1 litro di aranciata,
in base al paese da cui proviene, può avere fino a 100 kg
di materiali nascosti; un giornale quotidiano, del peso di
soli 500 g, ha uno zaino di 10 kg; la costruzione di un’automobile
produce 15 tonnellate di detriti solidi, senza contare
l’acqua utilizzata.
Generalmente, più un prodotto è prezioso o elaborato,
maggiore è il suo zaino ecologico. Ad esempio, il «simbolo
dell’amore», un anello d’oro di circa 10 grammi, necessita
di 3,5 tonnellate di materiale minerale che vengono estratte
dalla miniera e raffinate.
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)

Esempio 2
DIETRO UNA LATTINA
Una lattina di alluminio pesa solo 15 grammi, un peso
apparentemente insignificante. Moltiplicato per il numero
di lattine consumate in un giorno nel mondo (circa 1 milione)
si ottiene una massa di 15 tonnellate di alluminio.
Poiché l’Al si ricava dalla bauxite, per ottenere alluminio
puro bisogna estrarre una massa di materiale che pesa 4
volte tanto, ossia 60 tonnellate. La bauxite si trova ad
esempio nella foresta amazzonica, e per arrivare ai giacimenti
è necessario deforestare una zona per la costruzione
di strade ed infrastrutture. Probabilmente migliaia di abitanti
della foresta sono stati costretti a lasciare le loro terre
e a spostarsi. Intoo alle fonderie si accumulano montagne
di detriti e di altri rifiuti industriali. Inoltre, per la trasformazione
della bauxite in alluminio, è necessaria una
grande quantità di energia elettrica, che ad esempio richiede
gasolio. Anche il gasolio, però, ha la sua storia…
(rielaborato da «Ai figli del pianeta», EMI, Bologna 1998)

Esempio 3
DIETRO L’ESTRAZIONE DELL’ORO
Per la gente di Wasse Fiase, nel Ghana occidentale, non c’è
avvenire. Il loro futuro è stato avvelenato, violentato e
annientato dalle società minerarie. Già oggi la povertà si
legge sulle facce dei senza terra e si palpa nella natura violentata.
«Siamo stati spogliati di tutto, perfino della nostra
vita – si lamenta un giovanotto sulla trentina. – Si sono
presi tutte le nostre terre per far posto alle miniere. Noi le
possedevamo dai tempi dei nostri nonni». Poi, nel 1990, il
governo cominciò ad ordinare l’estrazione di oro, giunsero
le prime società minerarie e la gente venne costretta a
sgomberare. Cominciarono così le deportazioni di massa.
Sia chi è partito, sia chi è rimasto è ridotto alla carità. «La
terra non ci appartiene più e, se ti provi a coltivare qualcosa
su un pezzo di terra abbandonato, c’è sempre il
rischio che arrivi una ruspa e ti distrugga tutto. Siamo
costretti a chiedere il permesso per qualsiasi cosa. Ma perché
dobbiamo chiedere il permesso alle imprese minerarie
per vivere nella nostra terra?» (The New Inteationalist,
marzo 1998).
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)

Silvia Battaglia