Felice di servire

Dopo vari anni di attività in Kenya e in Italia, dall’ottobre 2003 suor Gina Motta presta servizio infermieristico
ai missionari della Consolata bisognosi di cure, nell’infermeria della casa madre a Torino.
Ecco la sua storia.

«Sono l’ultima di quattro figli: un fratello e tre sorelle. In famiglia ho respirato armonia e gioia, pur nella semplicità.
Come tutti i giovani, nell’età dell’adolescenza mi ponevo la domanda: che cosa vuole Dio da me? Di una cosa ero sicura: desideravo vivere pienamente la mia vita ed essere felice. Ma come? Nel matrimonio? Oppure rimanendo nel mondo e consacrando la mia vita per il bene dei fratelli e sorelle? O come suora?». Così suor Gina comincia a raccontare la sua storia.
A quei tempi si chiamava Franca. Non lo dice, ma è certo che parecchi giovani le ronzavano attorno. L’attrazione di Dio, però, era più forte. Attirata dal silenzio e dalla preghiera, un giorno sentì perfino un forte desiderio della vita claustrale. Volle fare l’esperienza di condivisione con la comunità di un monastero di clausura. Alla fine della settimana, però, comprese che quel tipo di vita non era fatto per lei.
Provò un’altra strada: accettò l’invito a partecipare a un corso di esercizi spirituali presso le missionarie della Consolata, a Grugliasco (Torino). Seguì una breve esperienza di «vieni e vedi» con alcune suore e juniores di quella stessa casa: il loro stile di vita le piaceva, l’ideale di servire Cristo nei più poveri rispecchiava la sua indole. Forse era proprio lì che Dio la voleva.

«A 19 anni feci una drammatica esperienza – continua a raccontare -: Gino, il mio unico fratello, mentre stava assistendo a una corsa automobilistica a Monza, venne falciato insieme ad altri da una Ferrari uscita di pista».
Era il 10 settembre 1961: all’inizio della gara, il pilota Von Trips fu tamponato dalla Lotus, guidata da Jim Clark; la Ferrari schizzò contro le reti di protezione della tribuna della leggendaria curva parabolica, mietendo la vita di 13 spettatori.
L’improvvisa e tragica morte del fratello, accrebbe in Franca l’innato desiderio di aiutare chi soffre e cominciò a prestare servizio in un ospedale. Dopo solo due anni, il ricordo della morte del fratello ravvivò in lei la decisione di una scelta radicale: essere missionaria a vita.

«Il 28 ottobre 1963
salutati i miei amatissimi genitori e le sorelle, lasciata la casa, tante persone amiche e il lavoro, mi presentai alle missionarie della Consolata. Da quel giorno non mi voltai più indietro e ancora oggi, dopo 40 anni, sto vivendo in pienezza e con gioia la mia vita missionaria» continua suor Gina.
Non sono mancate le difficoltà; la principale veniva proprio da suo padre, che amava teneramente e da cui si sentiva profondamente amata. Egli non aveva alcuna obiezione che sua figlia abbracciasse la vita religiosa, ma la scelta di farsi missionaria le sembrava troppo radicale e obiettava: «Perché andare in Africa, così lontano…?». La sentiva perduta per sempre.
Tuttavia, Franca poté trascorrere gli anni della formazione in serenità. Giunto il giorno della professione religiosa cambiò nome, come si usava ancora a quei tempi, e prese quello del fratello.
Arrivò anche il giorno della destinazione: era proprio l’Africa. Suor Gina si recò in famiglia per salutare i genitori, parenti e amici. Il papà toò alla carica: «Perché in Africa? Perché tanto lontano…?».
«Senza minimamente pensare a san Francesco di Assisi – racconta la suora -, feci il gesto di slacciarmi l’abito religioso, dicendo: “È questo che vuoi, papà?”. Da quell’istante cessò ogni perplessità e mio padre approvò in pieno la mia scelta».
Prima di spiccare
il volo per l’Africa, suor Gina fu inviata in Inghilterra, per imparare la lingua inglese e specializzarsi nel campo infermieristico. Vi arrivò nel 1967 e cominciò a frequentare i corsi di infermiera professionale e ostetrica nell’ospedale di Kendal.
Per cinque anni lavorò in un ospedale protestante a Londra, facendosi subito stimare per la sua servizievole attenzione, non solo verso i malati affidati alle sue cure, ma anche a quelli di altri reparti.
La sua popolarità era alle stelle. Un giorno, una paziente ricevette un mazzo di fiori. «Che belli! Sono meravigliosi, stupendi! Ma che pensiero gentile…» diceva la signora con questi e altri convenevoli che solo gli inglesi sanno fare; in fine, rivolgendosi alla suora che la assisteva notte e giorno, concluse: «Grazie, grazie! Portateli a suor Gina, per favore».

Il 2 settembre 1972
suor Gina raggiunse il Kenya e cominciò il suo servizio nel Nazareth Hospital, gestito dalle missionarie della Consolata a Nairobi. Era stato appena avviato il nuovo reparto di mateità, voluto e inaugurato da suor Prisca, poco prima della sua tragica morte. Le fu affidato il compito di attendere alle mamme, che giungevano da varie parti del Kenya per essere assistite nel parto o per problemi connessi con la mateità.
Furono tempi indimenticabili, carichi di ricordi, vissuti intensamente e ripagati dalla gioia di aiutare una media di 2.000 bambini a venire al mondo ogni anno.
Una di quelle mamme, appena giunta all’ospedale, le disse: «Sister, voglio che il mio dodicesimo figlio nasca qui, perché sento che morirò… Sono venuta all’ospedale missionario perché voglio essere battezzata». La battezzò personalmente e le prestò tutte le cure necessarie per salvarla.
Purtroppo, poco dopo aver dato alla luce la sua creatura, Mary, la neo-battezzata, morì a causa di un’inarrestabile emorragia post partum. Era serena, sicura di lasciare il suo piccolo in buone mani. Le sue ultime parole furono: «Sono contenta di riunirmi ai miei antenati».

Nel 1977 si presentava
in Kenya un’urgenza inderogabile: trovare personale capace di formare infermiere locali. A suor Gina fu chiesto di prepararsi a tale compito, frequentando il corso biennale in Community Nursing Training presso il Nairobi Hospital.
Unica suora cattolica presente nell’ospedale statale, a contatto con persone di ogni razza, cultura e religione, suor Gina visse altri tre anni (1978-1980) indimenticabili, ricchi di episodi che lasciano il segno.
Un giorno, un indiano di religione sikh, ricoverato per sottoporsi a una difficile operazione, le disse: «Suora, lei è una donna di Dio: mi metta le mani sulla fronte e mi dia la pace».
La richiesta la colse di sorpresa. Pochi giorni prima, alla fine di un incontro del «Rinnovamento dello spirito», il prete, un americano, le aveva domandato se imponeva le mani sui malati; la suora aveva risposto con un sorriso di diniego; ma il prete, con una fanatica filippica, le aveva ordinato di imporre le mani sui pazienti e operare guarigioni. E lei, per nulla convinta, aveva risposto con serafico sorriso che avrebbe continuato a pregare per i suoi malati, ma le mani non le avrebbe imposte mai.
Passato il flash back, suor Gina rispose all’indiano: «Le mani sulla fronte te le metto volentieri, ma quanto alla pace, questa non viene da me: devi essere tu a riconciliarti con Dio e con i fratelli». Il paziente confessò che aveva litigato con un fratello a causa di un garage. Ma come riconciliarsi?
Si avvicinava il giorno dell’operazione e del compleanno dell’indiano: la suora gli suggerì di invitare tutta la parentela per la duplice occasione. E così avvenne: chiamò tutti familiari e si riconciliò con loro.
Una signora anglicana era in attesa di sottoporsi a una gastroscopia, poiché soffriva di tremendi crampi allo stomaco. Confidandosi con la suora, raccontò di avere litigato con il suo datore di lavoro e le chiese consiglio sul da farsi. «Cosa leggi nel vangelo – rispose suor Gina -? Se hai qualche cosa contro un tuo fratello, vai e riconciliati con lui». La donna chiese qualche ora di permesso; si fece accompagnare dal marito dal suo datore di lavoro e chiarì la faccenda: i crampi scomparvero e la donna non toò più in ospedale.
Più preoccupato della prenotazione cancellata e relativa perdita della parcella che dell’improvvisa guarigione, il responsabile dell’ospedale domandò alla suora che cosa avesse fatto a quella signora. «Niente; le ho solo consigliato di rappacificarsi con il suo datore di lavoro» rispose serafica suor Gina.

Conseguito il diploma
di abilitazione, suor Gina fu inviata all’ospedale missionario di Nkubu, come direttrice e insegnante della scuola per infermieri: aveva a carico la formazione di 140 allievi e allieve.
Furono cinque anni di stressante lavoro e responsabilità, che minarono la salute della suora, tanto da dover lasciare quella missione che, nonostante tutto, le procurava immense soddisfazioni.
Toò in Italia e, poco dopo, a Londra, dove rimase tre anni, dedicandosi alle più svariate attività: animazione missionaria nelle parrocchie, assistenza alle giovani suore venute in Inghilterra per imparare l’inglese, incontri ecumenici di preghiera con pastori protestanti e… lavori casalinghi.
Ritornata in Italia, per sei anni fece parte della piccola comunità di Albisano di Torre del Benaco (Verona). Anche là continuò la sua «missione»: oltre a dedicarsi ai malati, sia in comunità che nelle famiglie, si prestò con entusiasmo come catechista e animatrice liturgica nella parrocchia, senza dimenticare i servizi richiesti dalla comunità, compreso quello di autista.
Quando le fu offerta l’occasione di partecipare a un corso di aggioamento spirituale all’università Urbaniana di Roma, nel 1988 si trasferì nella capitale, prestando il suo servizio infermieristico alle sorelle e alle pensionanti della casa di Via Foscari. Nel 2001 continuò lo stesso lavoro nella casa di spiritualità a Caprie (Val Susa, Torino).

Nell’ottobre del 2003
dovette improvvisamente interrompere la sua attività nella comunità di Caprie, perché richiesta di sostituire la sorella infermiera presso i confratelli missionari della casa madre di Torino.
«Devo umilmente e con gioia ammetterlo – conclude suor Gina -: dal giorno in cui ho lasciato l’Africa, Dio ha continuamente aperto nuovi orizzonti nella mia vita, facendomi sentire sempre di più e in modi differenti la bellezza della mia vocazione missionaria.
Oggi ho la gioia di poter servire Cristo nei suoi figli prediletti, curando i confratelli missionari ammalati. Molti vengono dalla missione, altri sono impegnati in attività in vari centri dell’Istituto; alcuni stanno trascorrendo un periodo post-operatorio e abbisognano di cure specifiche, ma tutti vivono e offrono per la missione che desiderano rivedere al più presto.
Qui mi sento autentica missionaria, indirettamente impegnata nell’evangelizzazione. Con loro mi arricchisco nella conoscenza di altri continenti, di vita missionaria concretizzata nelle più diverse culture. Con loro condivido le ansie e le giornie del regno. Di tutto ciò non posso che ringraziare e lodare il Signore». •

Benedetto Bellesi




Fratelli “costruttori”

Missionari a tutti gli effetti che, nel silenzio,
offrono un esempio di laboriosità,
spirito di servizio e dedizione alla gente

Nella realizzazione dei vari progetti dei missionari della Consolata, i «fratelli», nonostante la loro modestia, diventano artigiani essenziali, veri «costruttori» del regno di Dio di cui bisogna riconoscere i meriti. Ecco ciò che abbiamo potuto constatare nel nostro viaggio in Tanzania.

Fr. Paolino Rota
All’inizio della nostra visita in Tanzania, ci siamo fermati qualche ora alla procura di Dar es Salaam, prima di intraprendere la strada per Morogoro, ultima destinazione del nostro itinerario. Poco prima della partenza, per caso, fratel Paolino ci viene incontro e ne approfitto per chiedergli qualche informazione.
«Da 41 anni mi sposto qui e là nel paese – mi risponde – per dirigere gli operai e i lavori di costruzione nelle missioni, quelle dei padri come quelle delle suore».
Un numero così alto di anni mi impressiona, ma il racconto delle opere realizzate da questo fratello ancora di più. Gioo dopo giorno, anno dopo anno, ha reso immensi servizi alla missione costruendo, con l’aiuto di muratori tanzaniani, una mateità, due dispensari, la residenza dei padri nella parrocchia di Kibiti, la clinica delle suore a Mbagala, l’ospedale di Ikonda (10 anni di intenso lavoro), il centro educativo «Stella del mattino» delle suore a Ilamba, il convento di Mafinga… La lista delle opere non finisce qui: ne ha costruite talmente tante, che certamente qualcuna è stata dimenticata.
È felice, ancora pieno di energia e sempre pronto a iniziare nuovi progetti.

Fr. Liduino Lanzi
Incontro a Dar es Salaam anche fratel Liduino. Mi racconta che, dopo aver lavorato in Italia dal 1948 al 1956, è giunto in Tanzania dove è stato in dieci posti, tra il 1956 e il 1983 come falegname. A Ikonda, aggiunge con fierezza, ha pure partecipato al progetto della costruzione dell’ospedale.
Da 20 anni lavora alla procura di Dar es Salaam, rendendo ancora immensi servizi con una devozione e generosità, senza alcuna ostentazione. Oltre agli incarichi relativi al funzionamento della casa, è prezioso per missionari e visitatori che arrivano in Tanzania oppure che la lasciano: problemi di passaporti, biglietti aerei, permessi di soggiorno, viaggi per l’aeroporto… Liduino è diventato l’indispensabile punto di riferimento per tutti.
Non solo fa onore alla comunità, ma anche al suo paese: l’Italia. Per questo gli è stata attribuita una medaglia al merito del lavoro, piccolo segno di riconoscimento per tutti i servizi resi in questi 48 anni. E non pensa ancora di andare in pensione.

Fr. Nahashon Njuguna
È nel 1986 che fratel Nahashon Njuguna, di origine kenyana, scopre la sua vocazione. Influenzato dai missionari della Consolata della sua parrocchia, in particolare dal lavoro dei fratelli, esprime il desiderio profondo di diventare uno di loro. Termina le scuole superiori e si specializza in carpenteria.
Sempre in Kenya, studia filosofia prima di entrare in noviziato. Arriva, poi, in Italia dove ottiene il diploma di geometra e, con tutte queste conoscenze, pronuncia i voti perpetui nell’ottobre 1994.
Sempre in quell’anno viene inviato in Tanzania, dove comincia a realizzare i vari progetti che gli vengono assegnati. Ha già al suo attivo la costruzione di un salone parrocchiale, due chiese, alcuni locali amministrativi a Dar es Salaam, una scuola, un progetto di installazione d’acqua nella diocesi di Singida, un dispensario a Iringa. Lo abbiamo trovato intento alla costruzione di un dispensario-mateità a Ng’ingula.
Davanti agli immensi bisogni dei più poveri, il fratello sente il bisogno di costruire, e con spirito missionario, lavora con gioia nel suo servizio al popolo tanzaniano. Mi confessa di non aver mai desiderato diventare prete, ma di essere sempre stato felice come fratello. Ascoltandolo mentre parla, quando accoglie chi ha bisogno di lui o mentre lavora, è evidente che non ricerca nessuna gloria, ma compie il suo lavoro per amore di Dio e dei poveri della missione. «Mi piace essere utile alla gente» – è stata la sua conclusione al nostro incontro.
Fr. G. Franco Bonaudo
Arrivando a Ikonda, incontro fratel Gianfranco, anch’egli nella lista dei «costruttori» della missione, in Tanzania. Dopo quattro anni di volontariato in Italia, ha scelto di entrare tra i fratelli della Consolata. Inviato in Tanzania, ha già accumulato 10 anni di esperienza, lavorando a diversi progetti di costruzioni: Dar es Salaam, Kigamboni, Ubungo, Iringa e, ora, Ikonda.
I progetti di approvvigionamento d’acqua e di elettricità sono diventati la sua specialità e ne parla con entusiasmo, pensando soprattutto alla loro utilità nel servizio dei poveri della regione.

Fr. Boniface Mutisya
Tra i fratelli non ci sono soltanto falegnami o costruttori. A Mgongo ho incontrato fratel Boniface Mutisya Kyalo, di origine kenyana, che lavora attualmente come direttore del Centro di formazione professionale: una scuola dove si insegnano i mestieri di falegname, meccanico e calzolaio (non solo per riparare scarpe, ma anche fabbricarle).
Tocca a lui selezionare gli studenti, che devono aver concluso il settimo anno delle scuole elementari; saranno accolti se dimostrano desiderio e interesse per questi mestieri e sono disposti ad accettare il regolamento della scuola. Inoltre, fratel Boniface controlla che la scuola tecnica funzioni bene, occupandosi della disciplina e vegliando sull’impegno degli studenti. Dopo tre anni, gli studenti sono invitati a cercarsi un lavoro e il suo sogno sarebbe di fondare due cornoperative, per impiegare coloro che hanno terminato gli studi al Centro.

Concludendo, vorrei sottolineare il lavoro meraviglioso che i fratelli, troppo spesso dimenticati, compiono con generosità, devozione e impegno nei paesi di missione.
A tutti loro, che mettono i talenti al servizio dei più poveri, noi rendiamo omaggio, esprimendo la nostra gratitudine e ammirazione!

Ghisline Crete




L’energia e un modello senza futuro

Che accadrebbe se domani le nazioni del Sud volessero consumare come quelle del Nord? Come mai le guerre «giuste» riguardano sempre paesi importanti dal punto di vista delle risorse energetiche? L’attuale modello di sviluppo non ha futuro: le risorse sono in via di esaurimento, i danni ambientali sono sempre più consistenti (inquinamento, effetto serra, ecc.). Ma non basta passare alle energie rinnovabili. Occorre cambiare i nostri stili di vita. Quotidianamente. (Seconda parte)

«La Danimarca esporta migliaia di tonnellate di biscotti per gli Stati Uniti, gli Stati Uniti esportano migliaia di tonnellate di biscotti in Danimarca. E uno dice: “ma saranno diversi”. Sì, e allora? Perché non si scambiano la ricetta?! E allora, un po’ di buonsenso, questo, questo vorrei vedere…».
Sono le esilaranti parole di Beppe Grillo durante uno dei suoi spettacoli (1), quando con ironia, anche feroce, riesce a comunicare dure verità. Una di queste è che la richiesta mondiale di energia (per usi industriali, domestici e per i trasporti) è in costante aumento e, di conseguenza, è sempre maggiore l’utilizzo di risorse per la sua produzione. Se le nazioni industrializzate continueranno a prelevare e consumare i combustibili fossili al ritmo attuale e se le nazioni in via di sviluppo le imiteranno, nel breve e medio periodo il pericolo maggiore non sarà tanto quello dell’esaurimento delle risorse (che rimane comunque un fattore importante), quanto quello dei danni irreversibili all’ambiente e, di conseguenza, alla salute umana.
Secondo i dati dell’Inteational energy agency (Iea), in 27 anni, dal 1971 al 1997, l’aumento di produzione è stato del 40% per il petrolio, del 60% per il carbone, del 140% per il gas naturale ed è quasi triplicato per l’energia elettrica in generale. In Italia i consumi finali di energia sono in crescita significativa (2).

GLI IMPATTI AMBIENTALI
DEI COMBUSTIBILI FOSSILI
L’analisi degli impatti ambientali della produzione e del consumo dell’energia va affrontata considerando tutto il ciclo della fonte energetica: dalla sua estrazione, all’energia prodotta negli utilizzi intermedi e finali, fino allo smaltimento dell’energia degradata e delle scorie.
Per quanto riguarda i combustibili fossili per la produzione di energia (carbone, petrolio, gas naturale) si possono individuare 2 grandi categorie di impatto: impatti a livello locale (nell’acqua, nell’aria, nel suolo) e impatti su scala planetaria. L’estrazione di combustibile (fossile, ma anche nucleare) causa infatti varie forme di inquinamento idrico, dovute ad esempio a perdite di petrolio, al raffreddamento degli impianti termoelettrici, alla fuoriuscita di inquinanti radioattivi del ciclo nucleare; in generale, qualsiasi processo energetico richiede quantità d’acqua anche notevoli, che vengono prelevate a scapito di altri usi (es. uso potabile o agricolo).
In atmosfera, invece, vengono immessi i prodotti gassosi della combustione (anidride carbonica, ossidi di azoto, ossidi di zolfo), idrocarburi aromatici, metalli pesanti, polveri, elementi radioattivi. Infine, oltre ai rifiuti prodotti, per i quali va cercata una qualche destinazione, qualsiasi fase del ciclo del combustibile implica un’occupazione di territorio sottratto ad altri utilizzi (es. all’uso agricolo, forestale, ecc.). Nel caso di miniere a cielo aperto (carbone e uranio), le scorie prodotte possono rendere inutilizzabile il suolo anche per decenni. Spesso, inoltre, i giacimenti si trovano all’interno di foreste o aree selvagge: l’esigenza di costruire strade di accesso e impianti può quindi trasformarsi in causa di deforestazione.
L’impatto ambientale non è mai slegato da quello sociale: spesso i siti di estrazione sono all’interno di foreste abitate da popoli indigeni e diventano causa di inquinamento e distruzione del territorio su cui essi vivono, se non di vero e proprio sfollamento di intere popolazioni.
A livello planetario, invece, desta preoccupazione l’immissione nell’atmosfera di anidride solforosa, derivante essenzialmente dalla combustione di prodotti petroliferi e di carbone, da cui deriva il fenomeno delle piogge acide: esse hanno effetti negativi sulla salute umana, corrodono la vegetazione, edifici e monumenti, ed inquinano le acque di laghi e fiumi.
Il problema più urgente e preoccupante è però rappresentato dal potenziale cambiamento del clima a livello mondiale, fenomeno dovuto all’effetto serra e la cui causa principale risiede nell’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera.

L’EFFETTO SERRA
E IL CAMBIAMENTO CLIMATICO
La Commissione scientifica intergovernativa sui cambiamenti climatici (Ipcc), costituita da alcune centinaia di scienziati, è stata istituita nel 1988 proprio per valutare le informazioni scientifiche disponibili sui mutamenti del clima. L’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera, causato soprattutto dagli impianti di produzione di energia, concorre al graduale aumento dell’effetto serra.
Come è noto, questo fenomeno comporta il riscaldamento del pianeta e possibili cambiamenti del clima, con effetti differenti: riduzione delle risorse idriche e desertificazione in alcune regioni; crescita delle piogge, degli uragani e delle inondazioni in altre; scioglimento dei ghiacciai, aumento del livello del mare, rischio di diffusione di malattie infettive tipiche delle zone tropicali anche nelle regioni temperate, ecc.; tutti rischi dai quali l’Italia non è certo esente.
Secondo Lester Brown, presidente del Worldwatch Institute di Washington, la stabilità climatica va ripristinata tramite il passaggio da un sistema economico basato sull’energia derivata dallo sfruttamento dei combustibili fossili ad una basata sulle fonti energetiche rinnovabili e sull’idrogeno.
Tuttavia, anche le fonti rinnovabili presentano un impatto ambientale, variabile in modo significativo a seconda della fonte e della tecnologia, anche se nettamente inferiore agli impatti dei combustibili fossili.
ESISTONO FONTI «PULITE»?
Qualche esempio: occupazione del territorio (ad esempio da parte di pannelli solari) a scapito di altri usi (es. agricoli); impatto visivo e inquinamento acustico della produzione di energia eolica, che tra l’altro può essere prodotta soltanto in zone dove soffiano venti con una determinata velocità; deforestazione, desertificazione e possibile produzione di emissioni inquinanti legate alla produzione di biomassa a scopi energetici; modifiche del territorio, dell’assetto idrogeologico, della stabilità dei territori montani e del clima locale, nel caso di sfruttamento dell’energia idrica, specie dove ciò comporti la costruzione di grandi laghi artificiali. Senza contare che scarseggiano i luoghi dove costruire nuove dighe, mentre cresce l’opposizione delle popolazioni che vivono nei pressi.
Per quanto riguarda il nucleare, i rischi sono legati all’impatto radiologico, alla sicurezza di alcune fasi del processo (in particolare la sicurezza del reattore nucleare), al trattamento e messa in sicurezza delle scorie radioattive.
Ogni tecnologia va quindi analizzata non solo dal punto di vista delle emissioni, ma in base agli impatti che possono derivare da qualsiasi fase, dalla progettazione allo smaltimento. Ad esempio, le cosiddette «celle a combustibile» non producono praticamente emissioni, ma la produzione dell’idrogeno necessario al loro funzionamento avviene tramite metano, che dà origine a sottoprodotti da reimpiegare in qualche modo.
A conti fatti, non esiste un sistema di produzione di energia privo di conseguenze sull’ambiente e sulla popolazione. Il termine energie «rinnovabili» non coincide con «pulite», come invece spesso viene fatto credere. L’imperativo dovrebbe consistere nel ridurre innanzitutto lo sfruttamento e l’utilizzo delle fonti energetiche, rinnovabili e non: l’energia più pulita è quella non prodotta. Pertanto, «il futuro è nelle energie pulite», frase tanto amata da media, politici e cittadini, va intesa diversamente dall’usuale.

LA SOLUZIONE È DAVVERO
NELLE FONTI RINNOVABILI?
Dopo aver ridotto gli sprechi ed i consumi energetici, lo sforzo maggiore dovrebbe essere rivolto alla produzione di energia tramite le fonti rinnovabili: il sole, il vento, la biomassa, ecc. (vedi MC, febbraio 2004). Oltre ad avere un impatto ambientale inferiore, tali fonti sono distribuite, anche se con densità diverse, su tutto il globo.
Tuttavia, in Italia, nel 2002 l’offerta complessiva di fonti rinnovabili si è ridotta di oltre il 10%, a causa della diminuzione della produzione idroelettrica, che rappresenta la principale fonte rinnovabile del paese. Questa minore produzione è conseguente alle scarse precipitazioni registrate da gennaio a ottobre 2002, fatto che conferma tra l’altro come tutti gli aspetti ambientali siano tra loro strettamente connessi.
Le fonti rinnovabili possono quindi fornire un importante contributo allo sviluppo di un sistema energetico più sostenibile e alla tutela dell’ambiente, ma anche ad incrementare il livello di consapevolezza e partecipazione dei cittadini, nonché a fornire opportunità economiche. Tuttavia, è fondamentale considerare che la nostra civiltà è oggi basata sul petrolio, perché esso rappresenta una fonte energetica versatile, applicabile agli usi più diversi. I combustibili fossili, ad esempio, permettono il funzionamento di tutta una serie di oggetti che non potrebbero lavorare ad elettricità, basti pensare al settore dei trasporti. Inoltre, consentono potenze (la potenza è l’energia nell’unità di tempo) relativamente alte e concentrate in uno spazio sufficientemente piccolo. Tutto il sistema energetico si basa sulle grandi potenze, adatte ad alimentare grandissimi insediamenti urbani ed enormi impianti di produzione industriale concentrati in determinati luoghi.
Le energie rinnovabili, invece, basti pensare al solare e all’eolico, foiscono potenze basse e diffuse sul territorio, permettendo di produrre energia su piccola scala, con impianti di produzione e di utilizzo di piccola taglia, a bassa potenza. Quindi, in realtà, l’energia rinnovabile non può sostituire immediatamente i combustibili fossili, ma solo quando cambierà il nostro modello di sviluppo e quindi il nostro stile di vita (3).
Come sarebbe il nostro stile di vita se potessimo disporre di una quantità di energia pari alla decima parte di quella attuale? Il 70% della popolazione mondiale, che vive nei paesi in via di sviluppo, usa solo il 30% dei consumi globali di energia. Esistono tuttavia forti differenze anche tra i paesi ricchi: ad esempio, per produrre un’unità di prodotto interno lordo, Usa e Canada utilizzano il doppio dell’energia consumata da Francia, Giappone, Italia.

GUERRE «GIUSTE»?
SÌ, SE C’È L’ENERGIA…
La caratteristica delle fonti rinnovabili di essere distribuite su tutto il pianeta e di essere quindi disponibili direttamente dalla popolazione che deve utilizzare l’energia, scongiurerebbe i rischi derivanti dai combustibili fossili, localizzati in particolari zone geografiche del pianeta: secondo molti addetti ai lavori, tale rischio si manifesta con l’attuale concetto di «guerra giusta».
La distribuzione mondiale delle riserve accertate di petrolio indica infatti una forte concentrazione nel Medio Oriente (oltre il 66,5% delle riserve), in Asia, Africa, Comunità di stati indipendenti (Csi, comprende parte dell’ex Unione Sovietica, ndr) mentre quelle europee ed americane sono più modeste. Le riserve accertate di gas naturale sono localizzate per il 30,4% nei paesi mediorientali, per il 38,3% nella Csi e per il 7% nel Nord America. Il fatto che i 2/3 delle riserve conosciute di petrolio siano concentrate nel sottosuolo di Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Iran, fa sì che la regione rappresenti una zona strategica prioritaria per l’Occidente, e in particolare per gli Stati Uniti. Come riporta Ritt Goldstein, la paura di non poter effettivamente disporre di tanta energia quanta ne serve per mantenere inalterato il proprio stile di vita sembra innescare la necessità di accedere al petrolio, prospettando anche «la necessità di interventi militari», esigenza evidenziata in un rapporto americano dell’inizio del 2001 (5).
Secondo Luigi Sertorio, poiché l’energia fossile non è perenne, né equamente distribuita, si crea un nuovo concetto di «guerra giusta»: «La guerra non è per il sopruso locale territoriale, ma per il diritto al benessere di chi ha la capacità tecnologica di accedere alla sorgente del denaro, cioè l’energia» (6).
È impressionante notare quante guerre siano state combattute nel Novecento in aree ricche di fonti energetiche: dalle grandi battaglie dell’Africa settentrionale a quelle rumene, all’infinità dei conflitti in Medio Oriente, passando per i Balcani e culminando con il terrorismo in Cecenia e le guerre contro l’Iraq (7). Anche se le ragioni ufficiali sono differenti, è evidente che le aree interessate a questi conflitti coincidono perfettamente con le zone ricche di petrolio. Come ricorda anche Michele Paolini nel suo ultimo libro (8), il petrolio non è infatti solo estrazione: strategico è anche il controllo degli oleodotti e dei corridoi petroliferi.
Poiché il nostro stile di vita è assolutamente dipendente dalla disponibilità di energia, si potrebbe pensare che qualsiasi forma di energia potrebbe rappresentare motivo di scontro. Tuttavia, il fatto che il petrolio si trovi concentrato in particolari aree geografiche e che sia destinato all’esaurimento accresce enormemente questi rischi (9).
DALLA THAILANDIA
A SCANZANO IONICO
Per 8 anni la popolazione della provincia di Prachuap Khiri Kan, in Thailandia, si è battuta contro il progetto di costruire nella regione due grandi centrali elettriche a carbone, per timore dei loro possibili impatti sull’ambiente e sulla salute dell’uomo. Quando il premier thailandese visitò uno dei possibili siti nel gennaio 2002, fu accolto da 20.000 dimostranti. Con l’aiuto dell’organizzazione ambientalista Greenpeace, gli abitanti della provincia hanno cominciato a installare ciò che realmente desiderano: impianti per la produzione di energia solare ed eolica (10).
Possono essere molti gli esempi di situazioni nelle quali la popolazione locale si oppone a scelte di governo ritenute non sostenibili. Come dimenticare la folla umana che a Scanzano Ionico, nel novembre 2003, ha dimostrato contro la costruzione dell’impianto di stoccaggio delle scorie radioattive?
Tuttavia, se esprimere il proprio dissenso, tramite un referendum o azioni dimostrative nonviolente, è lecito ed opportuno, altrettanto importante è anche agire coerentemente nella propria quotidianità.

LA RESPONSABILITÀ
DELLE SINGOLE FAMIGLIE
Le famiglie italiane sono responsabili annualmente di più del 30% dei consumi energetici totali. Le famiglie producono il 27% (e precisamente: il 18% per usi negli edifici e il 9% per usi di trasporto) delle emissioni nazionali di gas serra. Nel settore domestico il consumo riguarda il riscaldamento delle abitazioni e degli ambienti di lavoro, l’illuminazione, l’uso degli elettrodomestici. Secondo recenti studi, una famiglia media italiana potrebbe risparmiare, senza fare rinunce, ma semplicemente usando meno l’energia, il 40% delle spese per il riscaldamento e il 10% per gli elettrodomestici (vedi box).
Nel settore trasporti il risparmio energetico si basa, ad esempio, sulla riduzione dei consumi dei singoli mezzi su strada e sul potenziamento del trasporto collettivo, senza dimenticare che una riduzione della velocità, sia per il trasporto terrestre sia aereo, comporta risparmi consistenti. Il settore agricolo può vantare consumi energetici inferiori a causa del modesto sviluppo tecnologico del settore.
Per il settore industriale, invece, ridurre i consumi energetici potrebbe anche voler dire ridurre i costi; tuttavia, ancora oggi i costi di produzione sono tagliati sostituendo il lavoro umano con nuove tecnologie, che spesso richiedono più energia delle precedenti.
Da non dimenticare che i consumi energetici nel settore industriale comprendono anche gli utilizzi per l’attività bellica (costruzione degli armamenti, funzionamento e logistica della «macchina» bellica). In un interessante articolo Luca Mercalli (11) riprende i calcoli di Luigi Sertorio sui consumi energetici del conflitto iracheno: in ogni giorno di guerra si consuma tanto carburante da fare il pieno a 1.125.000 autovetture, quantità che provoca un’emissione annua di anidride carbonica equivalente a quella di circa 11.500 persone, quantità che «vanifica in pochi giorni gli sforzi di intere nazioni per ridurre i consumi e risparmiare energia, alla faccia del Protocollo di Kyoto».

SE IL «FRESCO» PRIVATO
È PAGATO DAL PUBBLICO
Andrea Fasullo, responsabile del settore clima ed energia del Wwf Italia, ha dichiarato che «un’economia matura è quella che a parità di benefici usa la minor quantità possibile di energia; al contrario, l’ossessione di soddisfare sempre e comunque la crescita dei consumi crea inevitabilmente circoli viziosi del tipo “fa caldo, aumentano i condizionatori, serve più elettricità”, producendo esattamente le condizioni perché i blackout avvengano».
A proposito dei condizionatori, causa di grandi consumi elettrici e conseguenti emissioni di gas serra, Adriano Paolella (12) offre un’importante riflessione, estendibile anche ad innumerevoli altre situazioni: «Il condizionatore è un sistema individuale per avere fresco, ma è anche la soluzione più asociale e di maggior impatto ambientale che si possa mettere in atto. Esso permette di ottenere un fresco privato determinando condizioni di caldo pubblico».
Non servono quindi nuovi impianti, ma la razionalizzazione della rete attuale e un serio programma per le fonti alternative. E, soprattutto, un nuovo modello di sviluppo con minori consumi e un diverso stile di vita da parte di noi tutti.
(seconda parte – fine)
Note:
(1) Le parole sono riprese da quelle dell’economista statunitense Herman Daly, che ribadisce come «Più di metà del commercio mondiale scambia beni identici, che ognuno avrebbe a disposizione anche sul posto».
(2) Fino al livello raggiunto nel 2000 di circa 185,2 Mtep rispetto al 1990 (+14,1%).
(3) Nanni Salio, Politiche globali dell’energia, in corso di stampa
(4) Fonte: Grtn (Gestore Rete Trasmissione Nazionale), www.grtn.it/ita/statistiche/datistatistici.asp.
(5) Si tratta del “Strategic Energy Policy Challanges for the 21st Century”; fonte: Ritt Goldstein, in Azione nonviolenta, aprile 2003.
(6) Luigi Sertorio, Il Potere del Fossile, Edizioni SEB 27, Torino, 2000; Luigi Sertorio è professore associato di Ecofisica alla Facoltà di scienze dell’Università di Torino.
(7) Carlo Bertani, Energia, Natura e Civiltà. Un futuro possibile?, Giunti, 2003.
(8) Michele Paolini, La guerra del petrolio, Editrice Berti, 2003.
(9) Per approfondire, tra gli altri: Michele Paolini, Carlo Bertani, Giulietto Chiesa, Michel Chossudovsky, MC monografico sulle guerre ottobre-novembre 2003.
(10) Worldwatch Institute, State of the World’03, Edizioni Ambiente, Milano 2003.
(11) Luca Mercalli, Clima di guerra: quali sono i costi energetici e ambientali del conflitto iracheno?, Società Meternorologica Italiana, 25 marzo 2003; Luigi Sertorio, Storia dell’abbondanza, Bollati Boringhieri 2002.
(12) Adriano Paolella, Banca del Clima: un progetto per quantificare il risparmio energetico, in Attenzione, rivista del Wwf per l’ambiente e il territorio, n. 20, lug. 2003.

Bibliografia essenziale:
APAT, Annuario dei dati ambientali. Sintesi, Roma 2002
Domenico Filippone, Da onnivori a energivori! L’energia nuovo alimento della specie umana, Itinerari. Sviluppo Sostenibile?, n.5, novembre/dicembre 2001
ENEA, Clima e Cambiamenti Climatici, Roma, dicembre 2002
ENEA, L’energia e i suoi numeri, Italia 2000, Roma, ottobre 2001
ENEA, Noi per lo sviluppo sostenibile, Roma, novembre 1999
Gianfranco Bologna (a cura di), Italia capace di futuro, EMI 2000.
Worldwatch Institute, State of the World’03. Stato del pianeta e sostenibilità-Rapporto annuale, Edizioni Ambiente, Milano 2003

Alcuni siti internet:
www.unfccc.int
www.grtn.it
www.enea.it
www.bancadelclima.it
www.nimbus.it.
www.greenpeace.it
www.wwf.it

Silvia Battaglia




Buona fortuna sister Magdalena

Una nidiata di orfani, circondati
dall’affetto di cinque «missionarie
della carità».
Che continuano
a diffondere
nel mondo
il «dono»
di Madre Teresa.

Ormai sono passati due anni dalla nostra indimenticabile esperienza in Kenya; ma è come se avessimo ancora nelle orecchie le voci e le grida allegre dei bimbi dell’orfanotrofio di Maralal.
Ma facciamo un passo indietro.

Agosto 2001,
Torino-Nairobi, Nairobi-Suguta Marmar, dove c’era il nostro «campo base», coloratissima sede da cui, ogni mattina, partivamo per una «missione» diversa: c’erano giornate in cui andavamo a visitare i villaggi più sperduti, per portare vestiti o medicinali; altre con l’impegno della catechesi alle donne e ai bambini; altre ancora, in cui si correva per celebrare la messa in più posti; e poi, finalmente, il meritato giorno di riposo, in visita al vivacissimo mercato di Maralal! Ci assaliva subito un’euforia strana: gli occhi ci si riempivano di colori e il naso degli odori più diversi: stoffe, spezie, animali, pile di collanine di tutte le forme e dimensioni, e, dulcis in fundo, caratteristici personaggi nostrani.
Ed è proprio durante queste nostre giornate a Maralal, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere sister Magdalena e la sua grande schiera di «tesori». Nella cittadina, infatti, c’è l’unico orfanotrofio del distretto Samburu. Sulla via principale, dietro un muro completamente scrostato e una piccola porticina di ferro, in realtà si apre un grande mondo: panni colorati stesi al sole, giochini sparsi per il cortile e poi loro, le cinque magnifiche padrone di casa, attorniate da una schiera di pulcini, tutti occhioni e sorrisi!
A capo delle cinque suore missionarie della carità (l’ordine di Madre Teresa di Calcutta) c’è suor Magdalena, la superiora, responsabile della struttura, ormai da cinque anni. Dopo le presentazioni e una visita nei locali dell’orfanotrofio, le suore ci hanno gentilmente offerto un thè caldo, mentre suor Magdalena si è seduta con noi, iniziando a raccontarci la sua storia e quella del suo operato a Maralal…

Raccontava,
per esempio, di quando la mattina uscendo in strada, a volte trovavano fagottini lasciati espressamente davanti alla loro porta, con dentro bimbi abbandonati: le famiglie infatti, sapendo di non poterli accudire e mantenere, preferivano privarsene, lasciandoli in un porto sicuro, dove cibo e una sana educazione non sarebbero mai mancati! O quando tutti i bimbi piangevano insieme, perché era l’ora della pappa e le cinque suorine, da sole, non riuscivano a tenere il ritmo!
La cosa che ci ha colpito di più è stata quella di entrare nel dormitorio: tante piccole testoline nere, dentro una trentina di lettini blu, si sono girate al nostro arrivo e, dopo il primo momento iniziale di silenzio e stupore, c’è stato chi si è messo a ridere, chi a piangere e chi si rintanava sotto le copertine per la timidezza. Erano bellissimi, ce li saremmo portati a casa tutti quanti!
Ora siamo ancora in contatto con suor Magdalena. In questi due anni ci siamo scritti lettere e cartoline, noi raccontando il nostro solito tran-tran quotidiano e loro aggioandoci sui piccoli progressi dell’orfanotrofio: ampliamento delle strutture, camerette per i bimbi, rinnovo della sala mensa e nuove divise scolastiche per gli scolaretti.
Per due anni abbiamo anche raccolto e mandato loro vestitini, scarpe e giochi; loro ci ringraziavano, mandandoci disegni e foto. Non avremmo potuto chiedere di meglio!

Con l’ultima lettera
però, abbiamo appreso che suor Magdalena, alla fine di gennaio, è stata trasferita in un’altra città, in un altro continente, per un’altra missione. Il suo operato a Maralal è finito.
Ci ha detto che è triste, che i «suoi bimbi» le mancheranno parecchio, che ha paura di soffrire il cosiddetto «mal d’Africa»… ma anche che «le strade del Signore sono infinite» e che, dunque, è pronta ad affrontare il nuovo incarico con la stessa vitalità e lo stesso entusiasmo. Perché lei ha stretto un patto con il Signore: ha scelto di essere missionaria della carità nel mondo!
Cara suor Magdalena, sai che dovunque andrai, noi ti sosterremo sempre e ti saremo vicini, con il pensiero e la preghiera…
Buona fortuna!

Rosa e Rosetta

«H o conosciuto la famiglia di Madre Teresa, sua mamma Drane e la sorella Aga, quando sono venute a vivere nell’appartamento sopra al mio. Come d’abitudine, mi sono presentata, dando il benvenuto. Sono stata accolta con grande calore e subito tra di noi si è sciolto il ghiaccio». Sono le prime parole della signora Myzejen Mero, vicina di casa della famiglia di Madre Teresa, negli anni trascorsi a Tirana.
«La signora Drane aveva già 82 anni ed io la chiamavo Loke (che significa mamma), come voleva essere chiamata da tutti. Era una donna piccola, molto magra, con grandi occhi e uno sguardo solare. Parlava la lingua kosovara; chiamava Teresa “Gonxhe Jul” (che in turco significa rosetta) e da lei veniva chiamata “Drano File”, rosa. Tutte le lettere che riceveva dalla figlia suora iniziavano con “Cara Drano File”.
È stato quando Teresa aveva terminato il ginnasio che Loke, vedendo la figlia silenziosa e pensierosa, scoprì che stava maturando il desiderio di consacrarsi al Signore, ma glielo impedì. Forse per paura di una nuova perdita, dopo quella del marito (avvelenato) e di vari cugini (morti di tubercolosi). Ma il Signore opera per vie a noi sconosciute e, successivamente, Teresa si ammalò di tifo e cadde in coma per tre giorni. Ormai le avevano già preparato l’abito bianco quando, piano piano, si riprese.
Di fronte ad un tale avvenimento e all’insistenza della figlia, Loke le rispose: “Va bene, mi hai convinta. Se fossi morta, non ti avrei più vista con gli occhi e non avrei più udito la tua voce; ma adesso che sei ancora in vita, anche se sarai lontana, non potrò vederti, ma almeno potrò ancora sentire la tua voce”. E fu così che ebbe inizio la grande avventura di colei che oggi, con affetto, noi chiamiamo Madre Teresa.
Lo stile di Madre Teresa si vedeva nella corrispondenza che teneva con la sorella Aga. Le lettere erano sempre brevi, ma non mancavano mai le foto dei bambini lebbrosi, a cui la Madre stava dedicando la vita. Così, anche quando Loke fu colpita da sclerosi multipla ed Aga le raccontò tutte le cure che le prestava, Madre Teresa le rispose brevemente: “Beata te, che stai curando la mamma e stai diventando per lei come un angelo custode”. Quando morì, scrisse semplicemente: “Beata la mamma, che si è riunita agli angeli del cielo”.
Ancora in vita, Loke ed Aga erano sempre serene e vivevano aiutando i bambini del vicinato. Aga veniva chiamata zia e ogni anno, a settembre, preparava a tutti la divisa per la scuola. Era una ragazza molto onesta, di forte esempio, che entrava nelle case e custodiva i segreti di ognuno. Erano entrambe benvolute da tutti; quando Loke morì, ognuno diede il suo contributo, seppellendola secondo il rito cristiano, in un paese dominato dalla dittatura e dal rancore verso ogni forma di fede.
Abbiamo continuato a stare vicino ad Aga, ma dopo un anno anche lei è stata poco bene; ha avuto un infarto ed è stata ricoverata. Spontaneamente, tutti ci siamo organizzati per darle l’assistenza che meritava! Personalmente, sono riuscita a salutarla proprio il giorno prima della sua morte: era molto triste, ma serena. Hanno vissuto bene ed hanno lasciato un importante messaggio di speranza attorno a loro».
Chiara Minutella
e Ermal Rexhepi

Alessia Magnetto




E l’ultimo spenga la luce

L’uomo è diventato «energivoro», cioè consuma sempre più energia.
Ma l’energia non è né illimitata né gratuita. L’attuale sistema energetico
comporta spreco di risorse naturali, inquinamento e impatti ambientali,
costi economici e sociali. La scorsa estate siamo stati sommersi da fiumi
di parole in occasione di alcuni blackout. Ma non uno dei nostri politici
e presunti esperti che abbia detto l’unica cosa veramente determinante:
«Il nostro stile di vita consuma troppa energia e per questo è insostenibile».
(Prima parte)

Scrive Mario Rigoni Ste in un bellissimo articolo (1) del 29 settembre 2003, all’indomani del tanto discusso blackout italiano: «Questo “buio-fuori” potrebbe far accendere la “luce-dentro”. Chissà se un blackout sarà capace di far riflettere la gente così dipendente dal “progresso”?».
Se non tutti i mali vengono per nuocere, in effetti anche un evento come il blackout può riaccendere la consapevolezza sul proprio stile di vita, sulle caratteristiche di una società completamente dipendente dall’uso di energia, non solo per i bisogni fondamentali, ma anche per tutti i desideri superflui: energia per i trasporti, per le industrie, per il riscaldamento, per l’illuminazione, per il cinema, il teatro e la musica, per computer e televisione, per fare la doccia, ma anche per lo spremiagrumi elettrico, per la scopa elettrica, per lo spazzolino elettrico, per fare la spesa di giorno in un ipermercato con la luce artificiale.
La capacità dell’uomo di utilizzare energia è quasi illimitata: da onnivoro, l’uomo è diventato «energivoro» (2).
Un’occasione per approfondire seriamente la questione energetica si trasforma invece molto spesso in frasi fatte e in preconcetti che presentano di volta in volta aspetti parziali del problema: «bisogna costruire subito nuove centrali», «il futuro è nelle fonti rinnovabili», «bisogna investire nelle energie pulite», «l’Italia è un paese del Terzo Mondo» e via di seguito.
Fare ordine sul tema energetico è estremamente complesso; indirizzare il dibattito esclusivamente sulle fonti di energia pulita può essere limitante e fuorviante, sia per le implicazioni ambientali sia per quelle sociali e di stabilità internazionale. Cosa si nasconde quindi dietro l’utilizzo di energia, dietro il gesto di «inserire la presa nella corrente»?
RINNOVABILE?
L’energia di un corpo (un organismo vivente, un oggetto, un macchinario…) può essere definita come la sua attitudine a compiere lavoro. L’energia può assumere forme diverse: può presentarsi come energia chimica, termica, meccanica, elettrica, elettromagnetica, nucleare.
Le fonti di energia possono essere classificate in vari modi:
• fonti primarie (carbone, petrolio, gas naturale, uranio, radiazione solare, vento, geotermia, idraulica, maree, biomassa): includono sia le materie prime energetiche sia quei fenomeni naturali che rappresentano possibili fonti di energia se opportunamente convertiti nelle forme adatte all’utilizzazione (ad esempio il vento può essere utilizzato per generare energia tramite il movimento delle pale eoliche);
• fonti secondarie (elettricità, idrocarburi, idrogeno, metanolo…): includono quei prodotti e quelle forme di energia che derivano da una trasformazione precedente delle fonti primarie. Ad esempio, l’elettricità è una fonte secondaria perché può derivare da un’opportuna trasformazione del petrolio, del vento, della forza dell’acqua.
Tra le fonti primarie si possono ulteriormente distinguere:
• fonti non rinnovabili, che si sono originate dalla decomposizione di sostanze organiche accumulatesi durante le diverse ere geologiche; esse si trovano in natura in quantità limitata e hanno bisogno di tempi estremamente lunghi per riformarsi: ciò fa sì che rappresentino risorse esauribili: si tratta dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale), ma anche dei combustibili nucleari (uranio, torio…);
• fonti rinnovabili, che traggono origine da fenomeni naturali che stanno alla base della vita del pianeta: la radiazione solare (trasformabile in energia solare), il vento (energia eolica), l’acqua (energia idraulica), il calore della terra (energia geotermica), la biomassa, le maree.

IL DOMINIO
DEI COMBUSTIBILI FOSSILI
Proviamo ora a dare qualche dato significativo sull’energia (3):
• a partire dal 1992, il consumo mondiale di energia ha registrato incrementi significativi e si prevede che fino al 2020 continuerà a crescere ad un tasso del 2% annuo;
• l’incremento maggiore nell’impiego di energia si è verificato nel settore dei trasporti, nel quale il 95% dell’energia che viene consumata deriva dal petrolio. Si prevede che il consumo di energia in questo comparto crescerà ad un tasso dell’1,5% all’anno nelle nazioni industrializzate e del 3,6% nei paesi in via di sviluppo;
• i combustibili fossili rappresentano circa l’80% del totale mondiale dell’energia prodotta e consumata, in calo rispetto all’86% circa registrato nel 1971;
• attualmente, il 20% della domanda mondiale di energia esistente di olio e gas proviene dall’Asia. E, dato ancor più importante, più del 50% della crescita della domanda che viene registrata annualmente proviene da questa regione;
• l’energia nucleare rappresenta il 16% della produzione mondiale di energia elettrica, ma ci sono continue preoccupazioni sulla sua sicurezza e sul suo rapporto costo/efficacia, in particolare per quanto riguarda il materiale di scarto, le scorie radioattive, le spedizioni trans-
frontaliere (cioè da una nazione all’altra), lo smantellamento dei vecchi impianti;
• le modee fonti di energia rinnovabile rappresentano circa il 4,5% del totale dell’energia prodotta.
In Italia (4), negli ultimi 20 anni i consumi energetici dell’industria sono rimasti costanti, mentre si è registrato un notevole aumento nel settore civile e in quello dei trasporti. Attualmente l’utilizzo di energia termica, ossia sottoforma di calore, rappresenta il 54,2% dei consumi totali e il 92% circa di tutti gli usi finali domestici (basti pensare all’utilizzo massiccio di dispositivi elettrici come scaldabagni, stufette, condizionatori, foi e fornelli) e viene soddisfatto tramite il ricorso a fonti non rinnovabili, specialmente gasolio e metano.
L’attuale sistema di produzione dell’energia elettrica avviene quasi totalmente bruciando i combustibili fossili: semplificando, il calore generato dalla combustione (energia termica) viene trasformato in energia meccanica attraverso una turbina, e successivamente in elettricità (energia elettrica) tramite un alternatore elettromagnetico. Questi passaggi fanno sì che solo una quota compresa tra il 35% ed il 55% del calore prodotto (dipende dal tipo di centrale usata) diventi elettricità: la restante parte viene dispersa nell’ambiente.
Il fatto che una forma pregiata di energia, quale l’energia elettrica, venga poi utilizzata per ottenere forme di energia di scarso pregio, quale il calore a bassa e media temperatura (è il caso dello scaldabagno elettrico), è un’assurdità fisica (5) traducibile in spreco di risorse naturali non rinnovabili, inquinamento e costi economici!
HA UN FUTURO
LA CIVILTÀ INDUSTRIALE?
L’allarme lanciato periodicamente per sollecitare l’utilizzo di fonti rinnovabili che sostituiscano il massiccio uso di combustibili fossili si basa spesso sulla scarsità delle risorse non rinnovabili.
Secondo i dati ufficiali delle multinazionali del petrolio, negli ultimi 50 anni le riserve di petrolio e gas naturale sono aumentate, anche se con un rallentamento nell’ultimo periodo: un forte calo della produzione di petrolio si manifesterebbe quindi non prima del 2050.
Secondo alcuni analisti, invece, il petrolio scoperto alla fine degli anni ’80 sarebbe estratto tramite tecnologie avanzate da giacimenti già utilizzati. In questo caso la produzione mondiale di petrolio inizierebbe a diminuire già intorno al 2015 (secondo i pessimisti, 2010), non necessariamente per mancanza della risorsa ma per i costi troppo elevati che richiederebbero le opportune tecnologie. Ovviamente, nel caso l’offerta diminuisse e la domanda crescesse (sia a causa dell’aumento dei consumi pro capite, sia a causa dell’aumento della popolazione mondiale), sarebbero prevedibili gravi conseguenze sui prezzi e sulla stabilità dei mercati.
Fra i numerosi studi, spicca la Teoria di Olduvai (6), proposta da Richard C. Duncan, che ha analizzato i dati di produzione e consumo dell’energia pro capite a livello planetario, dal 1960 (dati storici) al 2060 (previsioni).
Secondo questa teoria, la «civiltà industriale» durerebbe circa 100 anni, presentando alcuni eventi particolari: 1930, inizio della civiltà industriale; 1979, raggiungimento del massimo valore assoluto di produzione del petrolio fino ai nostri giorni; 1999, fine del petrolio a buon mercato; 2000-2001, conflitti in Medio Oriente ed escalation del terrorismo internazionale; 2006, picco di produzione del petrolio; 2012, blackouts elettrici permanenti previsti in tutto il mondo; 2030, produzione pro capite di petrolio uguale a quella del 1930.
Anche se in campo energetico l’Italia è dipendente dall’estero per l’83%, valore praticamente costante dal 1971 ad oggi, lo sforzo nel produrre energia elettrica a partire da fonti rinnovabili risulta esiguo.
Se la Olduvai Theory può sembrare pessimista, in realtà il declino della civiltà industriale potrebbe essere causato da un insieme complesso di concause già in atto: impoverimento delle riserve fossili, sovrappopolazione, danni ambientali, inquinamento, riscaldamento globale, desertificazione, conflitti per l’appropriazione delle risorse.
(Fine prima parte – continua)

Silvia Battaglia




Fare il bene stando allegri

È possibile parlare dello «humour» dell’Allamano? Certamente sì, anche se, confrontandolo con quello del Cottolengo, don Bosco, Cafasso, le differenze si notano. L’Allamano nel parlare (assai meno nello scrivere) risulta più immaginoso e, soprattutto, più aneddotico, sia del Cafasso come degli altri due santi piemontesi. Il suo humour è certamente meno frizzante, più contenuto e sottile, quasi impercettibile, al punto che anche coloro che lo hanno avvicinato o hanno scritto di lui non si sono accorti della sua esistenza; nessuno, per lo meno, lo ha messo in rilievo, come se in una fuga di Bach, nel turbinio delle note, non si avvertisse l’andamento continuo del pedale.
servire in letizia
Anzitutto, i suoi aneddoti sono quasi sempre corti, pratici e immediati. Come quando, trattando della povertà, racconta che «frate Leone vede in visione molti frati che dovevano attraversare un fiume impetuoso; alcuni avevano un fardello sulle spalle e, giunti in mezzo al fiume, la forza della corrente li travolse. Altri, che non avevano nulla, passarono liberamente».
«Mi ricordo di un frate vecchio, prefetto di sacrestia, che non toccava mai con le mani i denari, ma usava una zampa di gatto». «E sì, quando si ha 60 anni, se ne desiderano 70 e poi… 80. Un canonico racconta: “È morto uno di 60 anni e un altro commentò: Non era poi tanto vecchio!”. Ma lui ne aveva 80 e gli altri hanno sorriso».
Ci sono nell’Allamano inviti generici e insistenti alla letizia come nota fondamentale della santità, specie nei missionari e missionarie. In caso contrario, non avrebbe potuto continuare per tutta la vita ad essere «rettore» di un santuario dedicato alla «consolazione». La conferenza del 29 gennaio 1917 inizia: «Siete sempre allegri? Sempre contenti? Bene, bene». «Vedete, se si vuole fare del bene, bisogna stare allegri». «Vedete come è bello essere sempre allegri! Bisogna che quello sia un carattere vostro: Servite Domino in laetitia, ma servite». «Dovete sempre essere allegri, di vera allegria, in modo che tutti vi possano vedere felici. Che possano dire: hanno lasciato tutto, eppure guarda come sono felici. E, poi, perché non essere felici?».
Parlando alle missionarie, diceva: «Non bisogna addormentarsi sulla calzetta»; voleva dire che bisognava fare le cose con piacere, sereni e allegri, «come i bambini che, quando dormono, hanno un’aria così bella e sorridente; non addormentatevi mai col muso; bisogna andare a dormire con pensieri allegri più che si può». «Dovete sempre avere una bell’aria… Andate avanti come vanno tutti i cristiani, alla buona, cioè, serene, allegre, gentili».
Aborriva però lo «spirito buffonesco»: «Ci sono di quelli che mettono sempre in ridicolo… disturba tanto quel parlare sempre figurato». In un’altra, occasione disse in piemontese: «Il mio spirito l’è nen fé ‘l faseul» (il mio spirito e di non fare il fagiolo).
A volte, a dare il tono dei suoi intrattenimenti spirituali era il suo modo d’introdursi. Stupisce che i suoi ascoltatori siano persino giunti a trascrivere queste espressioni: «Bravi! Là, bene! Eccovi come nel Cenacolo»; «Bene, bravi» o le parole conclusive: «Bé, Bé, là!». Oppure, quando rivolgendosi al più giovane dei suoi ascoltatori (poiché le file dei suoi missionari si erano assottigliate a motivo della guerra), dice: «E tu, Michelino, quanti anni hai? Sedici ancora non compiuti… Fortunati tutte e due: Tu sei giovane e io vecchio» e, per questo, esenti dal servizio militare.
Innumerevoli sono poi i casi in cui, con brevi racconti o addirittura con bisticci di parole, riesce a far esplodere delle piccole scintille, come stesse stropicciando due pietre focaie, e un bel fuoco di sorrisi, riuscendo a trasmettere il suo pensiero senza aggrottamenti della fronte: «Ho chiesto ai ragazzi se avevano preso la febbre spagnola; mi rispondono di sì, ma quella italiana, cioè, l’appetito!». La guerra infatti stava imponendo a tutti restrizioni molto gravi.
A riguardo della «pazienza» a motivo della guerra, dice alle missionarie: «Nel Pater noster, noi domandiamo il pane; nell’Ave Maria domandiamo la polenta… Un canonico mi raccontava che una vecchietta dicendo mulieribus intendeva domandare la polenta alla Madonna. Essa non poteva pronunciare bene mulieribus e così trasformava questa parola in melia (meliga-granoturco). Ricordatevi dunque di chiedere al Signore il pane e alla Madonna la polenta (sorride)».
«Quando si fa una novena ai santi, non si ottiene subito la grazia; sembra che la prima volta non sentano; se ne fa una seconda e il santo incomincia a sentire, se ne fa una terza e il santo apre e ci ottiene la grazia». Invita alla santità di fatto e non soltanto di parole: «Sapete quell’uccellaccio che grida cras, cras (che in latino significa «domani»)… e mai hodie (oggi)».
Nel 1913, raccontò che padre Barlassina, nuovo prefetto apostolico del Kaffa, era stato ricevuto in udienza da Pio x. Parlarono di tante cose, riferisce l’Allamano, «perfino di quegli animali di cui non vogliamo fare il nome, ma dei quali, disse Pio x, si fa un buon prosciutto».
«Anche i nostri cari, cioè i missionari, sotto le armi o in Africa sono tuttavia sempre dell’Istituto, sono sempre uniti a noi… sono sempre attaccati all’albero… Ebbene se vi venisse rivolta questa domanda: o chi sei tu? Sono uno studente della Consolata! – Questo sì! Ma sei un vero aspirante alle missioni? Sei sempre qui, ma qui ci sono anche i gatti, che abitano qui nell’istituto».
Un giorno di luglio, di ritorno da Sant’ Ignazio, dove si era svolto il solito corso di esercizi spirituali, predicati da un gesuita, racconta ai missionari che il predicatore, parlando di come dal noviziato di Chieri erano usciti tre suoi compagni, «fu preso dalla malinconia per timore di dover uscire anche lui e fare la bella figura del gesuita sgesuitato».
Sconcertante è il seguente caso. «Una persona una volta mi domanda se gli permettevo di piangere almeno per un’ora, puramente per sfogo, così… Ma come?! Senza nessun motivo, piangere puramente per sfogo, che stupidaggine!».
Al vescovo di Ivrea, mons. Matteo Filipello, suo compaesano e discepolo, che non permetteva a un suo sacerdote, don Luigi Santa, di entrare nell’istituto, l’Allamano dice: «Tu non solo non puoi trattenerlo, ma devi lasciarlo andare! Se mai, dagli la benedizione con la sinistra».
Racconta padre Ugo Viglino: «In un giorno dell’ottobre del 1924, la nostra piccola classe di otto alunni del ginnasio si recò tutta insieme a trovarlo al Convitto… Gioviale, tanto felice di essere con noi. A un certo punto, rivolgendosi a Pessina, mio vicino: “Di che paese sei?”. “Di Mondovì”. “Cui d’ Mondvì i ciamo i babi cheucc” (Quelli di Mondovì li chiamano i rospi cotti)».
a scuola della vita
Si può dire che la sua semplicità aneddotica e immaginazione non avessero limiti. Si potrebbe comporre un’antologia assai ampia. Il giorno dei morti del 1906, invita a pregare, come faceva ogni anno nella stessa circostanza, per i defunti. Poi, si lascia prendere dalla fantasia: «Quelle tante anime da noi liberate dal purgatorio figuratevi se stanno quiete, quando ci vedono a nostra volta in purgatorio! Andranno da nostro Signore e, per non disturbarlo, dalla Madonna o da san Giuseppe, e ci caveranno presto. Il Signore non può lasciarle agitate, deve quietarle e come fare in altro modo?». Alla fine della conferenza fa distribuire delle castagne, soggiungendo: «Ad ogni castagna che prendete ponete l’intenzione di trarre un’anima dal purgatorio». La frase, annota chi trascrisse la conferenza, suscitò «sorrisi universali».
Ci troviamo, naturalmente, fuori degli schemi rigidi della teologia sui novissimi. Così, un altro apologo di teologia spicciola riguarda la devozione mariana: «Sapete quel fatto della Madonna che faceva entrare le anime in paradiso per un’altra strada… ma non lo voglio raccontare». Lo racconta qualche mese dopo: «E sapete quella storia che si racconta che la Madonna fa entrare in paradiso per la finestra quelli che non passerebbero per la porta. Si racconta che un giorno san Pietro, girando per il paradiso, vede delle brutte facce, che lui certamente non aveva lasciato passare per la porta. Va da nostro Signore e gli dice: “Ma non so! C’è certa gente in paradiso che non so da dove sia passata… Hai dato le chiavi solo a me, le ho solo io, non so da dove passino; poi ho capito che è la Madonna, tua madre; sono stato a vedere bene e ho visto che è proprio lei che le tira su dalla finestra; purché abbiano una medaglia o uno scapolare, e poi essa li tira su! Questo qui non va!”. E allora nostro Signore dice a Pietro: “Ma! Cosa vuoi farci… mia madre è madre! Lasciala un po’ fare!”».
«Là in seminario c’era un campanello e c’è ancora adesso, mi pare, che veniva suonato solo quando veniva l’arcivescovo di Torino a trovarci, così tutti restavano avvisati e si lasciava tutto e si veniva fuori a riceverlo. Un giorno venne una vecchia di montagna, tutta vestita alla moda antica, con in testa certe cose lunghe come si costumava allora, era di Balme… Ebbene costei arriva in seminario e, invece di tirare l’altro campanello, tira quello dell’arcivescovo. Allora noi che eravamo a scuola, siamo venuti tutti fuori in fretta; e poi, invece del vescovo, c’era quella vecchierella; e tanto più che aveva visto che l’uscio era aperto ed è venuta dentro. Ebbene, un chierico mi ha fatto impressione: le è subito corso incontro, l’ha presa per il braccio e ha detto: “È mia mamma!”. Fossimo stati noi, neh?! Avremmo subito detto: “E perché sei venuta adesso? Perché hai tirato quel campanello la!”. Avremmo voluto nasconderla subito, che nessuno la vedesse, vestita com’era. Invece quel chierico, niente: “È mia madre”. E l’ha salutata tutto grazioso, come si deve fare».
Altri aneddoti piacevoli li desume dall’esperienza di tutti i giorni, a contatto con le persone di ogni ambiente sociale, dal confessionale, dalla predicazione. «Non facciamo come quel tale della predica sull’avarizia. Quando il parroco iniziò la predica disse: “Oh! Questo non fa per me!”; si coprì ben bene e cominciò a dormire; e tutta la gente a pensare: “Questa volta la predica fa proprio per lui”».
Anche la gola può fare dei brutti scherzi. «Ho tardato, perché mi sono fermato a raccontare ai giovani la storia della capra. È venuta nella sacrestia della Consolata una ragazzina e piangeva, diceva che le era morta la capra della nonna, perché aveva mangiato una rista d’ai (treccia d’aglio). È gonfiata e poi è morta. E un bel giorno videro che non c’era più l’aglio, ed è morta crepata. Vedete la gola».
Svariatissimi poi i toni dello humour a riguardo del comportamento esteriore e interiore, ch’egli suggeriva ai missionari: «A me piace molto quel pensiero di san Francesco di Sales quando dice: “Entriamo in un palazzo antico; per lo scalone, nelle sale vi sono delle statue, che magari da cent’anni sono sempre lì, non si sono mai mosse; direte dunque che sono inutili? No! Danno gloria al loro padrone. Ora, immaginate che uno voglia gettarle giù. No! – gli si dirà – fanno figura, danno gloria al loro padrone. In chiesa facciamo come quelle statue, diamo gloria a Dio con la nostra presenza”». Tuttavia, quella presenza «come statue» all’Allamano non piaceva molto. Infatti, in un’altra occasione dice: «Oh, come è brutto in una comunità essere come tante statue, dove ognuna sta al suo posto senza toccare le altre»!
con fortezza e dolcezza
È noto come all’Allamano, a causa di certi inconvenienti verificatisi in Africa per modi troppo violenti nei riguardi della gente, abbia fatto della mansuetudine uno dei pilastri fondamentali della sua metodologia missionaria. Deve però trattarsi di vera mansuetudine: «C’era in seminario un chierico che pareva proprio calmo; di quelli che non si muovono, che fanno due passi in una pianella. Un giorno, che passava con un vassoio d’acqua in mano e un altro chierico, lo toccò, egli, voltatosi verso il compagno, gli gettò addosso il vassoio d’acqua. Vedete, anche quelli che sembrano più calmi…».
Così a riguardo della buona educazione. «Mons. Bertagna aveva l’abitudine di tenere le mani in tasca; e così di fermarsi davanti alle vetrine; credo che studiasse un caso di morale; eppure era lì fermo a vedere il cacio».
Neppure è bene tenere le braccia dietro la schiena. «Nei paesi chiedono se uno ha del grano da vendere… e dicono anche un’altra cosa: sapete quello che domandano? Ha la figlia da maritare?».
Come superiore di un istituto femminile, dovette scuotere una suora che «faceva niente ed era sempre a letto», credendosi ammalata; le impose di scendere in refettorio insieme alle altre… ed è guarita. «Essa dice che è un miracolo della Madonna di Pompei… Era un capriccio! In quella comunità si preparavano sei tipi di minestra».
Era venuto a conoscenza che qualche suo missionario in Africa si era ammalato per aver mangiato qualche banana in più o per aver bevuto acqua inquinata «con pericolo di partire per l’eternità»: sarebbe un partire poco glorioso, «da folli», e porta l’esempio della capra.
Nonostante questo costante humour (da pochi avvertito) e tranquillità di spirito, qualche spiffero d’aria fredda non manca neppure in lui, poiché anch’egli ritiene che il vangelo e la santità siano esigenti; per temperamento, poi, era amante dell’ordine, della pulizia, delle cerimonie liturgiche eseguite a puntino. Il che lo può far apparire in qualche caso alquanto «pignolo». Così, ad esempio, quando porta a modello san Francesco Saverio che, passando presso il castello natio, rinuncia a visitare la vecchia madre e i fratelli, dicendo: «Li rivedrò in paradiso».
Sono però, queste e altre piccole cose marginali, che vanno viste in un contesto più ampio. Con lui a Torino ebbe infatti termine il rigorismo morale e ascetico, che aveva imperversato per molti anni. Così come va tenuto presente che, nel suo metodo educativo, il fortiter (fortemente) è sempre abbinato al suaviter (dolcemente).

Igino Tubaldo




Parliamaoci chiaro

«Meglio cinque parole intelligibili che diecimila in lingue» diceva già san Paolo. Tale suggerimento è,
oggi, valido più che mai sia in campo sociale che in quello religioso; anzi, è raccomandato soprattutto nel dialogo ecumenico.

Q ualche passo avanti nel dialogo ecumenico, specie tra cattolici, ortodossi e protestanti, è stato compiuto. Se si paragonasse tale dialogo a una tavola rotonda, è senz’altro assodato che ogni membro che siede a quel tavolo si considera su un piano di perfetta uguaglianza con i suoi partners. La deontologia del dialogo ormai è accettata. Quanto ad accordi, tuttavia, le distanze sono ancora enormi, che assumono a volte tali dissonanze, da sembrare un’orchestra con strumenti non accordati.
Due, soprattutto, sono i punti dove il disaccordo può dirsi totale. Il primo, specie tra cattolici e protestanti, riguarda il culto mariano e dei santi. Su questa questione nel 1990 uscì un documento ecumenico, frutto di un laborioso dialogo tra «cattolici romani e luterani» negli Stati Uniti, svoltosi dal 1983 al 1990, in otto dense riunioni.
Il documento ha un titolo molto significativo: L’unico Mediatore – I Santi e Maria; ed è molto lungo (152 pagine) e disgraziatamente molto complesso; quindi poco accessibile ai comuni mortali. Sembra quasi di assistere a una concitata partita di ping pong, botta e risposta. Non su un vasto campo di calcio, ma su un minuscolo tavolo da pranzo.
Il secondo punto di profondo disaccordo riguarda la figura stessa del papa e la sua funzione nella chiesa. Il 25 maggio 1995, Giovanni Paolo II scrisse un’enciclica dal titolo Ut unum sint sull’impegno ecumenico. Nella parte finale dell’enciclica, in cui tratta direttamente del vescovo di Roma, riconosce che il papa, proprio lui, «costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi. Per quello che ne siamo responsabili, con il mio predecessore Paolo VI, imploro perdono».
PAROLE VUOTE
DISCORSI INCOMPRENSIBILI
Il prof. Tullio de Mauro, nella prefazione al libro di Roberto Berretta, Il piccolo ecclesialese illustrato, osserva che, ad esempio, la parola dono, così bella e dolce, diventa acerba come un limone, se presentata in un’«ottica ablativa».
Il noto predicatore Raniero Cantalamessa aggiunge: «Uno dei motivi per cui, in molte parti del mondo, si sta verificando un esodo dei cattolici verso altre chiese o sètte, è che la predicazione cattolica è diventata così ricca e complessa da non arrivare direttamente al cuore di una persona…» e per conto mio aggiungerei: neppure al cervello.
Se anche nell’ambito della stessa nostra chiesa, tra noi cattolici, non riusciamo a capirci, come fare a dialogare con fedeli di altre chiese, che forse devono affrontare le stesse nostre difficoltà?
Tanto più che, a quanto pare, un po’ tutti i settori del nostro vivere civile sono infestati da questo virus del parlare e scrivere senza farci capire.
Un giornale pubblicò la seguente lettera di un cliente di una banca: «Nella mia banca c’è un nuovo consulente finanziario addetto ai servizi di risparmio. Parla da esperto di borsa, usa parole per me incomprensibili. Viene da pensare che non voglia essere chiaro per vendere quello che vuole. Le pare giusto?».
E dopo la firma segue un esilarante articolo a commento e a conferma.
Un altro autore, per dimostrare la mania di certi politici di scrivere in modo incomprensibile – quasi tutti – riporta questo periodo di prosa politica: «Gli elementi di intelligence (evviva l’inglese!) e i risultati delle operazioni di polizia hanno confermato l’esistenza nel nostro paese di poli impegnati in attività, la cui valenza emerge alla luce di una strategia globale che trova nella fase logistica momento nodale per garantire la mobilità dei militanti».
Mi auguro che il tipografo abbia riportato in modo esatto questo testo. Ma il commento del giornalista è questo: «Se fossi presidente della Camera l’avrei rispedito al mittente: “Per favore riscrivete tutto in un linguaggio decente, chiaro e stringato. I rappresentanti del popolo italiano non saranno un granché, però non avete il diritto di offenderli con una prosa così demente”».
Lo scopo di questo mio scritto è, però, religioso, specie nei suoi aspetti ecumenici. Uno di questi aspetti, primario e indispensabile, senza del quale tutti gli altri servono a poco, è di parlare in modo comprensibile.
Ci sarebbe da divertirsi, prima di arrivare al punto, ma il sorriso sarebbe sempre amaro.
Indro Montanelli, nella celebre La Stanza del Corriere, diede una secca risposta alla lettera di un teologo che dissentiva dal suo modo di presentare lo scisma del 1054, che spaccò la chiesa in due: «Vede, questa è la grave stortura della cultura italiana, teologia compresa: di essere una cultura a circolo chiuso… di pochi eletti: ai quali io non appartengo, né mai ho ambito di appartenere. Perché il mio compito – quello che mi sono sempre prefisso – è di spiegare le cose a chi non le sa, non a chi le sa meglio di me, ma vuole tenersele per sé».
E più spassose ancora, a volerle riportare per intero, sarebbero le critiche di Guido Ceronetti a scritti redatti in «un gergo del tutto demenziale», che provano che chi così scrive «non è mentalmente a posto». E aggiunge, e ciò vale anche per il linguaggio religioso: «La prima delle difese è il linguaggio: se le sue porte sono senza cardini, i lupi vi entrano a frotte, con la solita zampina infarinata».
«I RUMINANTI
DELLA SACRA ALLEANZA»
È noto che il papa Luciani parlava in modo semplice. Aveva voluto accanto a sé suor Celestina per un compito speciale: che gli leggesse le sue prediche e gli dicesse se capiva tutto.
Qualcosa del genere aveva fatto anche don Bosco, servendosi di sua madre. Un giorno le lesse un articolo, nel quale chiamava l’apostolo Pietro «il clavigero». Sua madre l’interruppe: «Clavigero? Dov’è questo paese?». «Non è un paese – le rispose il figlio – vuol dire: colui che porta le chiavi». «E allora dillo così e lascia quella parola che io non riesco neppure a pronunciare».
J. Maritain chiamava certi biblisti, teologi, vescovi e papi per i loro scritti troppo lunghi e soprattutto difficili: i ruminanti della sacra alleanza. Come buoi o quei tipi che masticano continuamente gomma americana.
TEOLOGIE DEMENZIALI
E SGANGHERATE
Tempo fa ricevetti in omaggio un libretto dal titolo: La via dell’anima. In prima pagina, quasi come dedica o sintesi del volumetto, si legge:
Nella parusia spirituale
si raggiunge il sé
paradiso metapsichico
che permette di considerare
la morte fisica come
paradiso metafisico.
Ma il buon Dio ci liberi dai paradisi metapsichici e più ancora da quelli metafisici!
In un’altra pagina il cristiano è così definito: «Il cristiano è l’attributo di chi ha subito in modo cosciente-accettato il processo di transizione psiche-pneuma ed è diventato persona».
Il vescovo di Como, mons. Alessandro Maggiolini, su un giornale tra i più diffusi d’Italia propose «una legittima difesa da parte dei credenti – preti inclusi – contro il moltiplicarsi patologico dei documenti ecclesiali».
E ciò per un motivo, non solo pastorale, ma anche ecumenico, cioè di possibili dialoghi e accordi.
E i più responsabili di questo degrado sono i teologi di professione, con i loro scritti il più delle volte incomprensibili. Si potrebbe stralciare un campionario, a dir poco, allucinante. Tre esempi soltanto, tra i mille che si potrebbero elencare.
In un libro sullo Spirito Santo leggo: «Lo Spirito perfetto dà luogo alla cre-azione, vero processo teogonico, col quale le potenze praeter Deum, predivinizzate, operano demiurgicamente a formare l’unum-versum, l’universo intero delle cose create, realizzando a un tempo l’individuazione e caratterizzazione delle Persone…» e i puntini indicano che non sarebbe finito!
Così, secondo esempio: «Lo Spirito Santo è il traboccare ad extra dell’exstasi ad intra del Padre e del Figlio». Povero Spirito Santo!
Terzo esempio: «Da Gregorio di Nissa al Concilio Vaticano II, ogni antropologia iconica ha valutato l’autentica relazionalità logonomica dell’uomo e l’autentica relazionalità cristonomica del cristiano»; e tutto ciò per dire che esiste un «io liturgico».
Ma questa è pazzia pura: teologia rompicapo, vaniloquio teologico.
Ripenso a san Paolo che ai Corinti, amanti del «parlare in lingue» da esperti carismatici, li ammonisce (mi si perdoni il latino): «Sed in ecclesia volo quinque verba sensu meo loqui, ut et alios instruam (nell’assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri) quam decem millia verborun in lingua (piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue)», che volgarmente tradurrei: «Preferisco dire cinque parole capite da tutti che diecimila incomprensibili!» (cfr 1 Cor 14,19).
Anche perché è assolutamente impossibile non far scappare la gente dalle chiese o avviare un dialogo ecumenico, anche solo tra noi, con tante e tante parole, non sempre dettate da un comune buon senso.

Igino Tubaldo




L’olivo del gran capo

Nato a Campolongo (UD) nel 1912, morto a Tosamaganga (Tanzania) nel 2003,
65 anni di missione. È padre Rambaldo Olivo, ridotto all’osso.
Per lui il cognome valeva più del nome.
Si compiaceva di essere «un olivo verdeggiante».

Si spense a Tosamaganga
il 26 giugno 2003. Lui che spesso esprimeva il timore di essere solo al momento della morte, ebbe il dono della presenza di due confratelli e di una decina di suore, che con la preghiera lo accompagnarono durante la breve agonia. Aveva scritto: «Signore, prendimi quando vuoi, ma liberami dalla morte subitanea. Dammi il tempo per un’ultima spazzolata. Però, fiat ut vis…».
Il Signore lo ascoltò, anche troppo! Il suo fu uno spegnersi lento, un consumarsi senza alcuna malattia, se non l’anzianità. Negli ultimi due anni la totale inattività, la vecchiaia e il timore di essere di peso gli erano un tormento. Si lamentava che il Signore lo avesse dimenticato, chiamando prima di lui missionari più giovani e ancora in salute. Ogni volta che le campane suonavano a morto diceva: «La prossima volta sarà per me». Era in attesa continua.
Aveva pure scritto: «Non ho dolori fisici e neppure morali. Cerco di fare ciò che vuole il Gran Capo. Per me è stato tanto misericordioso. Sono pronto alla sua chiamata…».
Lo visitai la sera del 20 giugno, festa della Consolata, e lui non voleva assolutamente che me ne andassi. Numerose volte feci cenno di andarmene, ma lui, stringendomi la mano, mi obbligava a restare. Fino a quando, assopitosi, potei lasciarlo. Ebbi la netta percezione che sentisse vicina la sua «pasqua».
Ripassai a salutarlo il giorno 24, e stava meglio. Era l’ennesima «risurrezione» di Olivo? No, perché due giorni dopo spiccava il volo verso l’eternità. Sul petto aveva un crocifisso e un quadretto della Consolata. Il crocifisso: quello che gli fu consegnato 65 anni prima, alla partenza per le missioni.
Un giorno scrisse: «Quel crocifisso lo porto ancora oggi, anche se è piuttosto consumato. Mi auguro di presentarmi al Gran Capo con Lui». Sì, il crocifisso era consunto. Così il quadretto della Consolata. Crocifisso e Consolata erano sempre lì sulla sedia, accanto a lui. Li baciava. Erano il suo viatico.

Missionarietà.
Che fosse a Madibira, Irole, Kibao, Igwachanya o Tosamaganga, lo stile missionario di padre Olivo era sempre lo stesso. Poche sue parole lo descrivono: «Visito tutte le famiglie di ogni villaggio, anche quelle pagane, anche quelle musulmane: nessuno mi ha mai messo alla porta… Sono sempre in giro a controllare le scuole, a vedere che i catechisti insegnino, a benedire le famiglie, a portare la parola di Vita».
Un giorno scrisse a lettere maiuscole: «Un grazie sincero al buon Dio, che mi ha sempre tenuto la sua mano santa sul capo in tutti i miei anni d’Africa. Anni dei quali non mi sono mai pentito».
La missione gli era nel cuore e gli sprizzava da ogni parte.

Gioia e facilità
di relazioni. Ecco una sua testimonianza da Madibira, la prima missione: «Non ebbi difficoltà di sorta né con il nuovo ambiente, né con i missionari». E, ricordando le possibili difficoltà della vita comunitaria, è bello leggere ciò che scrisse del periodo trascorso a Tosamaganga con padre Giovanni Berghi: «Siamo stati insieme 17 anni, e non è mai successo che io sia andato a letto con il muso per qualche torto ricevuto da lui o che io gli abbia fatto qualche affronto. Eravamo più che fratelli siamesi. Discutevamo e programmavamo: nulla si faceva senza dirci tutto».

Lunga la processione
quel giorno al cimitero di Tosamaganga, dove riposano tanti missionari e missionarie della Consolata. Meticolosa, come sempre, la deposizione della bara nella fossa, con i riti culturali da osservarsi, e la copertura con la terra scavata.
Ultime preghiere… E per un missionario di 91 anni (di cui 65 spesi in Tanzania) non poteva mancare una danza, al suono di tamburi, attorno alla sua tomba ricoperta di fiori. Non era un atto funebre. Era una danza di gioia, affetto e gratitudine cui hanno partecipato anche i padri e le suore.
Con padre Rambaldo Olivo scompare una generazione di missionari: quelli venuti in Tanzania prima della seconda guerra mondiale; quelli che hanno camminato e camminato spesso malati di malaria; quelli che hanno seminato nel pianto, ma che hanno pure goduto la gioia dei frutti successivi. Missionari innamorati della missione.
Affermava padre Olivo: «L’Africa mi piace sempre di più con il passare degli anni, i madibiresi soprattutto». Se c’è un ricordo che rimarrà indelebile in chi lo ha conosciuto è il suo zelo missionario: visitare, annunciare, catechizzare, celebrare. E anche la sensibilità nei confronti di chi era in necessità. Era generoso e riconoscente.
Sentiva molto la gratitudine. «Se ho fatto qualcosa di buono, lo devo all’aiuto ricevuto da tanti confratelli», dalle missionarie della Consolata, dalle suore Teresine, dai sacerdoti diocesani Tito e Rodrigo, dalle autorità locali e dalla popolazione (egli la considera tutta buona), dai benefattori in Italia.
Da tutti otteneva aiuto. E chi poteva rifiutarsi di fronte alla sua bonaria imperiosità? Il suo dito perennemente alzato ne era un simbolo.

Padre Olivo
hai camminato a piedi, hai percorso chilometri e chilometri in bicicletta e in moto. Hai guidato l’auto persino in modo spericolato, fino a due anni fa. Ora riposa in pace, con quel lieve sorriso che ti era abituale.
Noi ringraziamo il Signore per la tua lunga e operosa vita e per i molteplici doni che ti ha elargito perché facessi del bene a tutti. Ti ringraziamo per l’esempio di totale sacerdotalità, per sentirti ed essere missionario della Consolata nella bocca, nel cuore, nella vita. È il mantello di cui vogliamo essere ricoperti. Lascialo cadere su di noi. •

Giuseppe Inverardi




Carissimo Mario

Lettera a padre MARIO BIANCHI viale dei teologi e missionari ciità di Dio

ti scrivo dopo la tua morte.

Stranamente ti dò del «tu», cosa che non ho mai fatto prima… Ecco alcune riflessioni sulla tua figura, basate su ricordi personali nell’arco dei tuoi ultimi 24 anni. I lettori valuteranno la validità o meno del mio scritto.

Nel 1969-1975,

quale superiore generale dell’Istituto Missioni Consolata (imc), numerosi giovani confratelli ti ritenevano un po’ conservatore, eletto per frenare le iniziative che uscivano dal solco tradizionale dell’Istituto. Pareva tu volessi comprimere le aperture iniziate o tollerate dal predecessore, padre Domenico Fiorina.

Non dico che tu non stimassi padre Fiorina: tutt’altro. Ma eri fermo nei tuoi principi, decidevi. Così hai accettato (sia pure a malincuore) l’uscita dall’Istituto di parecchi missionari, soprattutto in Brasile. La tua preoccupazione era quella di salvare l’imc, e pensavi di farlo basandoti sulla tradizione della Chiesa.

Come professore di teologia dogmatica, prendevi con serietà il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ma ragionavi: il Concilio non ha promulgato dogmi; la dottrina è la stessa. Quindi gli appelli del Concilio a cambiare e adattarsi al mondo d’oggi non erano vincolanti.

Volevi evitare pratiche rischiose, che potevano snaturare il fine dell’IMC; volevi scongiurare comportamenti secolarizzanti. Tuttavia accettavi la critica e il dialogo. Quando un missionario commentava per iscritto le tue circolari, non solo eri pronto ad ascoltare, ma eri anche riconoscente. Al termine ribadivi le posizioni che ritenevi giuste.
Delegavi responsabilità concrete al vicesuperiore generale, ai consiglieri e ai superiori delle circoscrizioni in Africa, nelle Americhe e in Europa. (Allora non eravamo ancora in Asia).

Rieletto superiore

per altri sei anni (1975-1981), la tua posizione è rimasta la stessa. Tuttavia hai avuto un vicegenerale che dialogava con i missionari fuori dei «parametri normali» dell’IMC. Il vice si è sforzato di trattare bene gli esclaustrati giustificati e non giustificati. Tu ne hai visitati alcuni nel loro posto di lavoro, informandoti sulle loro attività.

Volevi persone decise a lavorare «dentro» l’IMC. Altrimenti, dovevano decidere diversamente… Però, di fronte ad un missionario che ha lasciato l’Istituto per incardinarsi in una diocesi, hai scritto: «Il problema reale con lui (ma anche con altri) è forse un altro: quello di misurare il tempo necessario ad ogni individuo per maturare la decisione se restare o no nell’Istituto… In tale situazione può accadere che i superiori chiedano all’individuo di decidere prima che egli sia pronto a farlo. È un problema di discernimento non facile; e si può sbagliare, senza volerlo. Penso che, se si sbaglia, per l’individuo resta sempre aperta la porta per rientrare nell’Istituto. Tale porta è aperta anche per il padre…».

Come superiore generale
hai avuto contatti con altri omologhi di varie congregazioni. Hai parlato, per esempio, con i padri Pedro Arrupe e Theo Van Asten, superiori dei Gesuiti e Padri Bianchi. Con loro hai trattato il problema del Mozambico durante la lotta anticoloniale nei primi anni ’70. Tu non eri molto entusiasta dei missionari che, in blocco, abbandonavano il paese per protesta contro i vescovi portoghesi, che appoggiavano troppo il governo coloniale. Tuttavia hai rispettato la decisione dei missionari, esprimendo loro solidarietà.

Ai missionari della Consolata hai concesso piena libertà di lasciare o restare in Mozambico. Esortavi chi rimaneva ad essere difensore della causa dei nativi. Hai maturato questo atteggiamento dietro consiglio e informazione dell’allora superiore dei missionari nel paese.

Un missionario della Consolata, mozambicano, fuggì dal suo paese per raggiungere il Fronte di liberazione del Mozambico. E, anche se viveva con i ribelli, l’hai sempre considerato dell’IMC. Perché? Penso due motivi: primo, quella persona si trovava in una zona con la presenza di missionari della Consolata; secondo, il superiore dell’IMC in Tanzania aveva rapporti regolari con lui. Quindi, anche se era con i ribelli, manteneva contatti con l’Istituto.

Dopo 12 anni

al comando-servizio dell’IMC, hai operato a Roma presso le pontificie Opere missionarie (1987-1995).
Passando per la capitale mi piaceva ricordarti alcuni episodi, quando eri generale. Eri anche contento di discutere sulla tua tesi di laurea in teologia, sostenuta all’università Angelicum di Roma. Il tema elaborato fu «il sacerdozio dei fedeli nella teologia di san Tommaso di Aquino».

Una volta ti chiesi: «Quale esperto sul sacerdozio dei fedeli secondo san Tommaso, cosa pensi di quanto dice il Vaticano II al riguardo?». La risposta fu: «Poiché il Vaticano II non ha definito dogmi, il pensiero equilibrato di san Tommaso è anche discutibile».
Per questa posizione ti ritengo un pensatore lucido ed onesto. Ma ti era difficile accettare i cambiamenti nella traditio christiana con il sottofondo aristotelico-tomista. Oggi, nella Città di Dio, non so come vedi le cose… Intanto sta a noi risolvere i problemi fino alla nostra morte.

Nel 1997, sempre a Roma,

mi hai pregato di sostituirti nel celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata. Tornato a casa, mi hai domandato:

– Cosa hai detto ai fedeli?

– In cinque minuti ho detto che sono mozambicano e che sono missionario della Consolata. Educato dai missionari della Consolata sin da bambino, sono felice di celebrare la messa in una parrocchia dedicata alla Consolata.

Ricorderò sempre il tuo sorriso e le parole: «Oggi sei più maturo, hai superato il “sessantotto”, ti sei convertito».

L’ultimo nostro incontro
avvenne nella casa-madre di Torino (novembre 2002). A pranzo e cena ti facevo ridere con i miei «spropositi». Ma tu capivi che scherzavo.

Una volta dissi: Giovanni XXIII, dopo la prima sessione del Concilio, ha saputo dai medici di avere una malattia che lo avrebbe presto portato alla morte, se non si fosse sottoposto a cure speciali. E ti domandai:
– Perché papa Giovanni ha risposto ai medici che preferiva la morte e dissolversi in Cristo?

– Papa Giovanni era un uomo di fede: credeva nella vita dopo la morte…

Subito ti incalzai:
– Tanti parlano di fede, ma hanno una grande paura di morire; ci tengono a questa vita e ai posti che occupano e si fanno prolungare la vita con numerosi farmaci.

– Sì, è vero…
– Allora significa che costoro non hanno fede?
Sorridesti… Padre Mario, perché non mi dicesti chiaramente: «Il tuo pensiero potrebbe offendere personaggi a cui si deve venerazione»?…

Perché questa lettera? Per farti conoscere, affinché molti si sentano motivati ad essere onesti e decisi nella vita. Tu sei stato così. E meriti rispetto, ammirazione.

Nato a Coriano (FO) il 30 luglio 1925, Mario Bianchi entrò nell’Istituto Missioni Consolata (IMC) nel 1947, proveniente dal seminario di Rimini. Sacerdote, si laureò in teologia all’Angelicum di Roma. Per 13 anni professore di dogmatica nel seminario teologico IMC di Torino, fu pure direttore della rivista Missioni Consolata.

Destinato al Kenya nel 1966, nel 1969 fu eletto superiore generale dell’Istituto. Rieletto per un secondo mandato, terminò il servizio nel 1981. Poi fu superiore della Delegazione centrale e, nel 1987-1995, segretario generale della Pontificia Unione Missionaria del clero (Roma). Trascorse gli ultimi anni della vita a Torino, nella casa-madre, impegnato nell’animazione missionaria. L’11 agosto 2003 fu chiamato alla casa del Padre a 78 anni, di cui 55 di sacerdozio.

Il suo testamento

Ringrazio il Signore di avermi chiamato ad essere sacerdote,
religioso e missionario nell’Istituto della Consolata.
Egli ha disposto che avessi la responsabilità della direzione
dell’Istituto in un periodo non facile della sua storia.
Chiedo perdono a Dio e ai confratelli per ciò che non ho fatto
o avessi fatto non bene nello svolgimento del mio servizio.
Prego il Signore di donarmi la perseveranza nella vocazione
missionaria, per la quale non Lo ringrazierò mai abbastanza;
e mi raccomando con fiducia e umiltà alla misericordia di Dio
e alle preghiere dei confratelli.
La Consolata, che mi volle nella famiglia dei suoi missionari,
mi ottenga dal Signore la corona dell’apostolato
per le preghiere del Padre Fondatore e di coloro
che, fedeli alla vocazione missionaria e religiosa,
hanno già terminato il servizio alla Chiesa
e si sono ricongiunti al padre della nostra famiglia.

p. Mario Bianchi (Roma, 12 luglio 1981)

D i fronte ad un mondo che si caratterizza per sfiducia, insoddisfazione e negatività, padre Mario Bianchi ha cercato di essere per tutti, ma soprattutto per i confratelli, un missionario che parlava della tenerezza di Dio padre, una tenerezza che conforta, che dà gioia e speranza.
Sentiva, in questo modo, di essere un vero missionario della Consolata.
p. Piero Trabucco

padre Felipe Couto




AMBIENTE Acqua delle mie brame

ACQUA DELLE MIE BRAME

Il problema della scarsità d’acqua
si sta rapidamente aggravando,
come dimostrano le sempre
più frequenti guerre per
l’«oro blu» (in Medio Oriente,
regione nilotica,
subcontinente indiano).
Intanto, in Italia il consumo
giornaliero medio pro capite
è di 213 litri e negli Stati Uniti
raggiunge la stratosferica
cifra di 600 litri. È questo
lo «stile di vita»
che vogliamo difendere?

SPRECHI INACCETTABILI

Nel 2000, i paesi afflitti da problemi idrici o da scarsità d’acqua erano 31; secondo le previsioni, entro il 2025 la cifra salirà a 48, compresi India e Cina. Anche se il problema della scarsità d’acqua riguarda tutti i paesi del mondo, i più pregiudicati sono quelli del Sud.
È il Kuwait, con i suoi 10 metri cubi pro capite, il fanalino di coda della classifica sulla disponibilità d’acqua, inserita nel rapporto dell’Unesco. Lo seguono la Striscia di Gaza (52 metri cubi) e gli Emirati Arabi (58 metri cubi). I paesi più ricchi d’acqua sono invece la Guyana Francese con oltre 800 mila metri cubi e l’Islanda (circa 60.000 metri cubi). L’Italia non è esente da questi problemi: a causa della cattiva gestione delle acque, al Sud il 18% della popolazione soffre di carenza idrica.
Si parla di grave crisi idrica quando la disponibilità di acqua pro capite è inferiore a 1.000 metri cubi di acqua all’anno. Al di sotto di tale quantità sono fortemente ostacolati la salute e il benessere economico del paese, mentre sotto i 500 metri cubi è la sopravvivenza stessa ad essere compromessa.
Di fronte a queste cifre, risultano contrastanti i dati sul consumo di acqua nei paesi del Nord: molte famiglie dei paesi ricchi arrivano a consumare oltre 2 mila litri al giorno di acqua di buona qualità (secondo l’Oms la quantità ottimale sarebbe di 150 litri al giorno).
In Italia il consumo giornaliero medio pro capite è di 213 litri, negli Stati Uniti è di 600 litri. Nella seconda metà del secolo scorso la domanda di acqua si è triplicata rispetto all’inizio del secolo, e si stima che, d’ora in poi, raddoppierà ogni vent’anni.
Il contrasto diventa inaccettabile se si analizzano gli sprechi d’acqua, enormi in tutto il mondo:
– il 40% dell’acqua usata per l’irrigazione si perde per evaporazione
– le perdite negli acquedotti oscillano in media fra il 30 ed il 50% (anche nei paesi sviluppati)
– una lavatrice standard consuma mediamente 140 litri a ciclo; lo sciacquone 10-20 litri alla volta; una lavastoviglie 60 litri.
È facile prevedere che l’aumento della popolazione mondiale determinerà un’ulteriore crescita della domanda di acqua, ma intanto è necessario essere consapevoli di chi oggi ne consuma eccessivamente.

POCA ACQUA, POCA SALUTE

La scarsità d’acqua si ripercuote direttamente sulla salute dei suoi abitanti: si stima che l’80% di tutte le malattie ed il 33% delle morti nei paesi del Sud del mondo siano legate alla mancanza d’acqua, alla sua cattiva qualità, all’assenza di impianti di depurazione.
Trentamila persone al giorno muoiono per:
– malattie trasmesse dall’acqua (tifo, colera, dissenteria, gastroenteriti, epatiti)
– infezioni della pelle e degli occhi
– parassitosi
– malattie dovute ad insetti vettori (ad es. mosche e zanzare)
– infezioni da mancanza di igiene.
Il paradosso tra Nord e Sud ritorna anche in tema sanitario: il convegno medico internazionale sulle malattie infiammatorie, tenutosi a Capri il 14 aprile 2003, mette in guardia contro i rischi di un’igiene e pulizia eccessiva (legata inevitabilmente a spreco di acqua potabile), responsabili della distruzione e dell’indebolimento di batteri che difendono l’intestino dalle infiammazioni.
Scarsità d’acqua significa inoltre diminuzione della produzione alimentare e quindi aumento della fame. In questa drammatica situazione, è evidente che troppi uomini si vedono negato il proprio diritto all’acqua, ossia alla vita stessa.

L’ACQUA,
DA DIRITTO A MERCE

Se la risorsa acqua è stata finora considerata un «diritto inalienabile» dell’umanità, al 2° Forum mondiale dell’acqua all’Aia ( 2000) il termine diritto è stato sostituito da «bisogno». Però, mentre «diritto» obbliga le istituzioni ad assicurare a tutti quel diritto fondamentale, «bisogno» attenua i toni e trasforma l’acqua in un bene economico, una merce come qualsiasi altra, sottoponibile a concorrenza, da quotare in borsa, da privatizzare.
Tre sono i principi fondatori della politica promossa dai fautori dell’economia di mercato applicata anche all’acqua: considerandola un bene economico, l’acqua può essere venduta, comprata, scambiata; essendo un bisogno, e non più diritto, gli uomini diventano consumatori/clienti di un bene/servizio da rendere accessibile secondo le logiche di mercato; deve essere trattata come una risorsa preziosa (l’oro blu), destinata ad essere sempre più rara e quindi anche strategicamente importante.
Da ciò conseguono la liberalizzazione, la deregolamentazione e la privatizzazione dei servizi idrici, e quindi la priorità all’investimento privato. Tuttavia, la privatizzazione dei servizi d’acqua non si è tradotta necessariamente e dappertutto in un miglioramento dei servizi o in una riduzione dei prezzi, né in una diminuzione della corruzione o nella creazione di un circolo virtuoso di investimenti.
Nella maggior parte dei casi e specialmente nei Paesi del Sud, i prezzi sono saliti alle stelle (basti pensare al caso di Cochabamba in Bolivia, di Manila nelle Filippine, di Santa Fé in Argentina…), la corruzione si è manifestata nelle concessioni ai privati, l’indebitamento dei paesi poveri è aumentato, il miglioramento dei servizi ha paradossalmente avvantaggiato i gruppi sociali più abbienti. La decisione in materia di gestione delle risorse idriche passa quindi dai soggetti pubblici ai privati: è la mercificazione della vita stessa (vedi Dichiarazione conclusiva del 1° Forum alternativo mondiale dell’acqua, Firenze 21-22 marzo 2003). Affinché l’acqua rimanga un bene comune dell’umanità, è nato un movimento internazionale d’opinione che opera per un «Contratto mondiale per l’acqua».
Uno dei prossimi boom economici sembra inoltre essere legato all’acqua in bottiglia: secondo uno studio preliminare commissionato dal Wwf, in tutto il mondo i consumatori pagano dalle 500 alle 1000 volte di più per una bottiglia d’acqua che, almeno nel 50% dei casi, ha le stesse caratteristiche dell’acqua di rubinetto, con solo un po’ di sali e minerali aggiunti. Intanto i fiumi, che dovrebbero rappresentare la fonte della maggior parte dell’acqua potabile, sono sempre più minacciati dall’inquinamento. Disinquinare le risorse di acqua pubblica, piuttosto che affidarsi ciecamente all’acqua imbottigliata, diminuirebbe invece l’entità di due problemi ambientali: il trasporto delle bottiglie e l’elevata produzione di rifiuti di plastica.

GUERRE E CATASTROFI

In alcuni paesi le tensioni politiche per l’accesso all’acqua potabile sono cresciute a livelli allarmanti. Secondo alcuni le «guerre per l’acqua» potrebbero essere alle porte, se non già sotto i nostri occhi; secondo altri rappresentano già la causa di oltre 50 conflitti nel mondo, tra i quali la stessa guerra contro l’Iraq.
La metà dei villaggi palestinesi non ha acqua corrente, mentre tutte le colonie israeliane ne sono provviste. In Brasile sono presenti l’11% delle risorse idriche dolci del pianeta, ma 45 milioni di brasiliani non hanno accesso all’acqua potabile. Entro il 2025 è previsto che le popolazioni delle 5 regioni considerate punti caldi del conflitto idrico (regione del Lago d’Aral, bacini del Gange, del Giordano, del Nilo, del Tigri-Eufrate) aumenteranno tra il 32% e il 71% (vedi box).
Secondo Vandana Shiva, le guerre dell’acqua non sono un’eventualità futura: ne siamo già circondati, anche se non sempre sono immediatamente riconoscibili come tali. Possono presentarsi come guerre tradizionali, oppure come conflitti fra culture, su come si percepisce e si vive l’esperienza dell’acqua. Conflitti tra la cultura della mercificazione e quella opposta del dare, ricevere acqua come dono gratuito. «Immaginate un miliardo di indiani che, abbandonata la pratica dell’offerta dell’acqua presso i piyao, ricorrono a quella in bottiglie di plastica per placare la sete. Quante montagne di rifiuti di plastica ne deriverebbero? Quanta acqua sarà distrutta dalla plastica buttata via?» (Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, 2003).
C’è ancora un ulteriore insospettabile aspetto legato al problema acqua. Come si è visto in MC marzo 2003, spesso catastrofi come alluvioni, cicloni o siccità sono tutt’altro che naturali. Al contrario, a causa dell’effetto serra ed al conseguente riscaldamento del pianeta, questi fenomeni estremi sono destinati ad aumentare.
La quantità totale dell’acqua rimane la stessa, ma i tempi impiegati a precipitare sottoforma di pioggia possono essere molto più rapidi che in passato, causando ad esempio fenomeni alluvionali devastanti. Ogni giorno, una quantità di acqua poco maggiore di quella contenuta nel Mar Caspio (il lago più grande del mondo) evapora dalla superficie del pianeta per ricadere sottoforma di pioggia, grandine e neve. Al contrario, fenomeni di siccità prolungata e di progressiva desertificazione potranno rendere sempre più critica la già grave situazione legata alla disponibilità di acqua.

E NOI, NEL NOSTRO PICCOLO?

Nonostante lo sforzo di distinguere le varie problematiche legate all’acqua nelle implicazioni ambientali, sociali ed economiche, è evidente come tutte le sfaccettature della questione siano strettamente legate fra loro e come non sia possibile cercare di risolvere un aspetto del problema tralasciandone gli altri.
Anche se a prima vista pare impensabile, anche in questo caso una parte importante della responsabilità ricade su tutti noi, singoli cittadini:
– dal punto di vista del nostro comportamento quotidiano
– come attenzione e senso critico che dovremmo manifestare nei confronti delle politiche perseguite dai governi e dagli organismi inteazionali
– dal punto di vista delle capacità e voglia di formarsi ed informare.
Capire allora che l’acqua può essere considerata rinnovabile soltanto:
– se il suo prelievo non è più veloce della formazione delle riserve d’acqua (ad esempio delle acque sotterranee) e
– se il livello di inquinamento dell’acqua restituita all’ambiente dopo il suo uso non ne pregiudichi il suo riutilizzo.
Noi beviamo la stessa acqua che bevevano gli antichi romani, i nostri pronipoti berranno la stessa acqua che beviamo noi. Come scrive Vandana Shiva: «Il ciclo dell’acqua ci connette tutti e dall’acqua possiamo imparare il cammino della pace e la via della libertà».

L’AFA, IL GOVERNO, I CITTADINI:
BENESSERE PRIVATO, MALESSERE PUBBLICO

Ma i consumi non dovevano «far girare l’economia»? Siamo stati tormentati per mesi con l’ormai (purtroppo) nota pubblicità televisiva che ci ricordava come i consumi facciano bene all’economia… e oggi, 26 giugno 2003, il ministro per le attività produttive Antonio Marzano in persona, alle 13.30 sul Tg1, ci implora di consumare meno energia, di risparmiare, di usare meno possibile i condizionatori, addirittura di spegnere anche la lucina rossa del televisore… Se il ministro ci parla in questo modo in prima notizia, se la notizia dura ben 9 minuti, se tutti i Tg la ripropongono, allora c’è da preoccuparsi: la situazione dev’essere proprio grave.
Ma andiamo con ordine. Nella puntata precedente abbiamo sottolineato come i consumi facciano girare non solo l’economia, ma facciano anche impazzire il clima. Nessuno scienziato negherà l’eccezionalità del mese di giugno 2003, dominato da un caldo rovente fuori da qualsiasi media stagionale: avvisaglie dell’effetto serra? Scatta comunque la corsa all’acquisto non solo di ventilatori, ma dei famigerati condizionatori d’aria: 400-1.000 euro in cambio del tanto desiderato fresco. Peccato che i condizionatori consumino molta energia elettrica, troppa… Chi si azzarda a criticarne l’uso smodato per motivi ambientali viene tacciato di petulanza, di «terrorismo» ambientale e via dicendo.
Le autorità dell’energia decidono di programmare, in tutto il territorio nazionale, dei blackout a macchia di leopardo, perché non c’è energia elettrica sufficiente per soddisfare tutte le richieste. E, quasi come una beffa, scatta il «caloroso» invito a diminuire i consumi: «Non prendete l’ascensore, non aprite il freezer, il traffico può andare in tilt…». Ma allora è vero che c’è un limite ai consumi, che i limiti sono imposti dalla natura e non dall’economia? Come si sentiranno i milioni di cittadini che pensavano di risolvere tutto con i soldi, e che invece si ritrovano un condizionatore nuovo di zecca senza (teoricamente) poterlo usare?
Il fatto tragico non è comunque questo: al contrario, la «necessità» di energia elettrica sarà il pretesto per la costruzione di nuove centrali elettriche, nuove dighe, nuove strutture che impatteranno il nostro già ferito territorio, che incentiveranno nuovamente i consumi, che di conseguenza incrementeranno il fenomeno dei cambiamenti climatici… in un circolo vizioso senza fine. Forse toerà la «necessità» di costruire le famigerate centrali atomiche: con il loro sfrenato consumismo, gli italiani rischiano di far tornare in auge il problema del nucleare che essi stessi avevano allontanato con il referendum del 1987. In questi casi, il paradosso è una costante: in caso di costruzione di nuove centrali, non mancheranno le manifestazioni di protesta della popolazione locale (che le centrali non le vuole sul proprio territorio) o quelle di soddisfazione di coloro che vogliono più energia per utilizzare i condizionatori (che «fanno girare l’economia»…). La stessa giornalista del Tg1 ci presenta l’invito a risparmiare energia, vestita in giacca nera, mentre fuori ci sono 38 gradi…
Come se non bastasse, un altro «invito» ci viene rivolto in questi giorni: risparmiare acqua. In molti comuni, non dell’Africa ma del ricco ed industrializzato Nord Italia, l’acqua viene razionalizzata e distribuita in container di plastica, a causa della siccità. Così, mentre la AEM di Torino propone con entusiasmo al cittadino «proiettato nel futuro» di cambiare il contratto di casa da 3KW
a 4,5 o addirittura a 6KW, in modo che possa utilizzare tutti gli elettrodomestici che desidera (in particolare il condizionatore), molti gestori di centrali elettriche sono costretti a chiudere gli impianti per mancanza di acqua.
Che cosa sta succedendo? Forse dovremmo fermarci un momento, sederci, iniziare a pensare, con calma, su cosa stiamo combinando.

Si.Ba.

Le guerre per l’«oro blu»

ISRAELE-GIORDANIA: Israele dipende, per i 2/3 dell’acqua che consuma, dai paesi confinanti con cui condivide il fiume Giordano (Giordania, Palestina, Siria). Nel 1994 è stato firmato un accordo tra Israele e Giordania, ma l’equilibrio è precario, essendo non lontana la penuria d’acqua.

ISRAELE-PALESTINA: durante il Forum Alteativo dell’acqua tenutosi a Firenze nel marzo 2003, un membro della delegazione palestinese in Italia, Belal Mustafa, ha denunciato che l’80% delle risorse idriche palestinesi viene usato da Israele, che ha un controllo pressoché totale delle acque del Giordano. «Per scavare nuovi pozzi c’è bisogno dell’autorizzazione dell’esercito israeliano… la maggior parte degli insediamenti dei coloni sono stati realizzati proprio in base alla presenza di falde acquifere nella zona… gli israeliani hanno a disposizione 260 litri di acqua al giorno pro-capite, mentre i palestinesi solo 70, meno degli 80 litri considerati dal processo di pace di Oslo il loro fabbisogno minimo» (da Rocca, 1 maggio 2003). Problema sottolineato anche da Jonathan Laronne, docente israeliano dell’università Ben Gurion di Tel Aviv, secondo il quale sarebbe necessaria ed indispensabile una gestione comune e pubblica della risorsa idrica per entrambi gli stati.

TURCHIA-SIRIA-IRAQ: le tensioni riguardano la Turchia da un lato e Siria e Iraq dall’altro. Sia il Tigri che l’Eufrate nascono in Turchia, attraversano per un breve tratto la Siria, per poi entrare in Iraq. Questi paesi, dato il clima molto arido, confidano sulle acque dei due fiumi, minacciati però dalla costruzione di 222 dighe, la cui conseguenza è la diminuzione del 35% dell’acqua entrante in Iraq. La Turchia sta inoltre provocando la distruzione di storia e cultura del popolo curdo, a causa delle evacuazioni e deportazioni per la creazione dei nuovi bacini.

IL FIUME NILO: questo fiume è fonte di tensioni per tutti i paesi che attraversa: Uganda e Tanzania, Sudan, Etiopia, Egitto. Questo paese è l’ultimo ad essee attraversato in ordine spaziale: il suo approvvigionamento idrico dipende, quindi, dagli stati a monte. Le tensioni più gravi sono tra Egitto ed Etiopia e tra Sudan e Uganda. Punto strategico è la città di Damazin, sede della diga che fornisce l’80% dell’acqua consumata dalla capitale del Sudan, contesa tra gli eserciti nemici.

IL FIUME GANGE: il Gange, uno dei più grandi fiumi del mondo, attraversa India, Nepal, Bangladesh. Nel 1975 l’India ha costruito una diga nei pressi di Farrakka, riducendo drasticamente l’apporto d’acqua al Bangladesh, e innescando una disputa non ancora risolta.

Si.Ba.

(rielaborato da: Civiltà dell’Acqua, www.provincia.venezia.it/cica; Rocca, rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi, 1 maggio 2003)

Silvia Battaglia