FARE… NON BASTA PIÙ!

Domande e inquietudini
di un missionario, di fronte
al suo lavoro e al modo
di annunciare il vangelo.
Per evitare di lavorare
invano! Con un punto fisso:
la solidarietà non si discute.
Ma non è patealismo.

La missione rende presente il
regno di Dio, conducendo
persone e comunità a fare
esperienza di Gesù, unico salvatore e
redentore. L’unum necessarium della
missione è quello di portare i frutti
della redenzione a tutti. «Legge suprema
è la salvezza delle anime» si diceva
un tempo.
Noi siamo i responsabili del cammino
della chiesa in questa porzione
del regno che è il Distretto samburu
(Kenya), in cui la missione di Baragoi
ha compiuto 50 anni (1952-2002).

Dopo 50 anni
di generoso lavoro, fino allo spargimento
del sangue, non possiamo
chiudere gli occhi sulla realtà: circa
l’80% dei samburu e un po’ meno
per i turkana e gli altri immigrati
(kikuyu, kalinjin, rendille, meru…)
non è stato raggiunto dal vangelo. Le
nostre comunità samburu sono com-
poste da bambini e da alcune donne.
Sono assenti anziani e giovani.
Inoltre, forse a causa dell’eccessiva
tutela dei missionari, la chiesa locale
appare rachitica, malata di perenne
adolescenza, incapace di responsabilità
e progresso. La gioventù, dentro
e fuori la scuola, sta perdendo
ogni senso etico e religioso; gli anziani
sono irraggiungibili…
Molte le attività: spesso siamo immersi,
senza risparmio, dentro a un
vero e proprio dinamismo pastorale.
Ma ciò che stiamo facendo è davvero
secondo il vangelo? Non corriamo,
forse, il rischio di trascurare ciò
che è essenziale? Il nostro ministero
è il modo migliore per condurre la
gente (tutta!) a conoscere, amare e
servire Dio, vivere in grazia per la sua
gloria?
Se guardiamo i nostri consigli parrocchiali
e pastorali, le varie associazioni
di giovani e studenti, i diversi
incaricati della catechesi, possiamo
domandarci: che cosa fa tutta questa
gente che collabora e si sacrifica per
la vita della chiesa? Come collabora?
Che cosa ha in mente e cosa si propone?
Qual è l’anima di tutto il lavoro?
È l’amore di Dio, la comunicazione
del Verbo della vita? È aiutare
gli altri a vivere nella
quotidianità, immersi nella giorniosa
volontà di Dio? È questo che noi e
loro stiamo facendo?
Non ci lasciamo, forse, ingannare
da routine, pigrizia, ricerca di realizzare
noi stessi, dall’amore ai nostri
progetti, dallo spirito mondano, dal
populismo e patealismo?
Sono interrogativi che nascono da
una dolorosa realtà e, se non fosse
per la fiducia nel Dio misericordioso,
principale artefice della missione,
ne saremmo quasi schiacciati.

Guardando
alle nostre missioni, mi viene da
pensare che, forse, siamo su un’altra
strada e che tante delle nostre realizzazioni,
che tuttavia hanno un volto
religioso e apostolico, non rispondono
all’esigenza e al fine del nostro
mandato missionario: la salvezza delle
anime.
Penso che, al principio del nostro
cammino pastorale, vada messa la
prospettiva della santità a tutti i livelli.
Abbiamo bisogno di gente, uomini
e donne, con il dono di una
giorniosa tensione alla santità, che annuncino
e anticipino l’avvento del
regno.
È richiesta la santificazione del
missionario e dei preti locali, dei religiosi
e laici, di tutto il popolo di
Dio: senza la volontà di santificazione,
tutto diventa spreco di energie e,
ancor più, illusione. È la santificazione
che la chiesa deve portare dentro
le culture e la società. Se lo fa, risponde
alla sua vocazione. «Siate
perfetti come il Padre».
La «storia della missione» e delle
sue opere (scuole, ospedali, chiese,
pozzi) sovente non è la «storia della
salvezza». La nostra organizzazione,
spesso così materialistica da non avere
neppure più il ritegno di dire che
senza denaro non si può far missione,
impedisce o ritarda la nascita di
un’autentica chiesa locale. Il nostro
lavoro è quello di spianare la via al
vangelo, affinché, per quanto dipende
da noi, entri senza troppi ostacoli
nelle anime e diventi una realtà loro
propria.
Il termine di ogni attività missionaria
è la creazione di un cristianesimo
locale, che realizzi il triplice self
support (ecclesiastico, culturale e finanziario)
e in cui i cristiani diventino
evangelizzatori. La gente ha bisogno
di sentire con entusiasmo e gioia
il vangelo, mentre l’attuale missione
si preoccupa (troppo spesso) di
strutture, a scapito del vero annuncio.
È, forse, perché abbiamo smesso
di tendere alla santità, di collaborare
nell’intimità con il Cristo risorto,
che le nostre comunità sono interiormente
così povere? Abbiamo dimenticato
che, «se Dio non costruisce
la casa, invano vi faticano i costruttori
»? Fondare la chiesa è un
ministero che esige santità. Il beato
Giuseppe Allamano ce lo ricorda:
«Prima di convertire gli altri, voi dovete
essere santi, altrimenti non sarete
utili né a voi stessi né agli altri».
Se manca questo, ogni darsi da fare
porta soltanto delusione.

La forza
di penetrazione del vangelo si basa
sulla potenza della croce, più che
su quella delle opere: siamo dei consacrati
a Dio per la missione. Tutto il
resto viene dopo. Da qui, la necessità
di un’osmosi tra vita apostolica e
ascetica. Come condizione per pascolare
il gregge, Cristo non chiede
a Pietro che un assoluto e definitivo
amore per Lui. E fu dalla croce, assai
più che dalla predicazione o dalle
opere (miracoli), che Gesù acquistò
lo Spirito per noi.
Si è missionari per «salire» sulla
croce: è qui che il Cristo compie definitivamente
il «mandato missionario
» ricevuto dal Padre. L’apostolo
Paolo lo comprese bene e lo fece valere
come il suo unico titolo di gloria:
«Quanto a me, non ci sia altro
vanto che nella croce del Signore nostro
Gesù Cristo» (Col 6, 14). E il nostro
vanto, qual è?
Preoccupati delle strutture, siamo
in ritardo nell’annuncio del vangelo
fra i non-cristiani. Questi, in generale,
non vedono subito Gesù Cristo
nel lavoro apostolico della missione.
Vedono la scuola, il dispensario e le
altre belle opere. Nei missionari vedono
stranieri colti, ricchi e influenti;
nei convertiti vedono individui
soggetti agli stranieri per i benefici
che ne ricevono o che sperano di ricavare.
Se vedono una religione, è
quella degli stranieri.
Penso che sia giunto il tempo di
non affannarci più per le opere, ma
di impegnarci nell’indigenizzazione
della chiesa.

Per una chiesa,
indigena, at home, sono indispensabili:
autofinanziamento (se continua
il finanziamento estero, continua
la servitù) e autoevangelizzazione
attraverso il clero locale, capace
di vivere con mezzi e ritmi propri.
Una missione, senza sussidi esteri,
potrebbe significare una grande purificazione
e un decisivo passo verso
la nascita e costituzione di una autentica
chiesa locale.
Dobbiamo convincerci che il denaro
non è la conditio sine qua non
per l’attività missionaria: al contrario,
esso contiene una logica infeale,
che nasconde la croce di Gesù
Cristo. È la prima delle schiavitù e
rende artificiale la presenza della
chiesa. Se alla chiesa locale manca
l’indipendenza economica, la sua indigenizzazione
resta un’utopia. Ma
la continua dipendenza dall’estero e
l’incapacità dei ministri locali di guidare
le strutture e i meccanismi «europei
», sia parrocchiali sia diocesani,
bloccano sul nascere ogni genuina
iniziativa diversa.
Anche triplicando il numero di
missionari, se non si cambia metodo,
non si rimedierà alla «piaga» della
missione. Infatti, dove più forti sono
uomini e mezzi, più debole è la chiesa
locale. La missione è per sua natura
transitoria, «provvisoria» ed è
necessario che i missionari lavorino
per rendersi «superflui». È tempo di
passare dalla fase protettivo-assistenziale
a quella di una piena responsabilità
diretta.
Bisogna cambiare metodo e perseguire
con maggiore energia l’ideale
di una chiesa locale, sulla scia delle
prime comunità apostoliche. C’è
bisogno di un’élite di laici, accanto
ai sacerdoti, che siano responsabilmente
presenti nelle strutture della
vita non solo parrocchiale, ma anche
sociale e politica.
Il cristianesimo non è soltanto liturgia
e culto, ma anche impegno
umano e sociale. Ma sono i cristiani
che lo devono realizzare, in forza del
loro battesimo e della loro carica interiore.
La chiesa primitiva ha creato
il diaconato per questo: perché gli
apostoli dovevano impegnarsi al ministero
della parola e della preghiera.

Achille Da Ros




I RIFIUTI? FUORI DAL MIO GIARDINO!

Ogni persona produce, in media, 491 chilogrammi di rifiuti all’anno,
che generalmente finiscono nel cassonetto dell’immondizia o, spesso,
ai margini delle strade, nei boschi, nei fiumi.
Nessuno vuole tenere la spazzatura in casa, nessuno vuole la discarica
o l’inceneritore nella propria zona, ma quanti praticano la raccolta
differenziata e soprattutto quanti si preoccupano di produrre
meno rifiuti? Una percentuale ridicola. Insomma, viviamo in una società
dove la cultura ambientale è inesistente, da vergogna, da zero in pagella.
E le conseguenze sono pesantissime. Per tutti.

«Verrebbe da ridere, ma bisognerebbe piangere».
Questo potrebbe essere la morale di ciò
che non è una favola ma, purtroppo,
il risultato di una ricerca
del CNA, il Consorzio Nazionale
per il riciclo degli imballaggi
in Acciaio.
L’inchiesta, condotta su 1.000
persone tra i 18 ed i 65 anni, ha
fatto emergere la profonda ignoranza
degli italiani in campo
ambientale. Qualche esempio.
Il 28% degli intervistati sostiene
che l’ecosistema sia un
nuovo e rinfrescante sistema di
condizionamento dell’aria,
mentre per il 24% si tratta di uno
speciale ed utile apparecchio
acustico; il benzene sarebbe addirittura
un carburante di nuova
generazione ed evoluzione ecologica
della benzina (63%)!
Limitatamente al tema dei rifiuti
la situazione non è certo
più rosea. La raccolta differenziata
viene definita come un sistema
di lavorazione del settore
agricolo (33%) o come un sistema
di classificazione per appassionati
di collezionismo
(11%): ciò significa che il 44%
non sa cosa sia la raccolta differenziata.
Per biodegradabilità il
29% degli intervistati intende lo
stato di degrado in cui versano molti
parchi e giardini ed un altro 29%
i tempi di scadenza di un prodotto
biologico. Il 35% considera il riciclaggio
dei rifiuti un irregolare
smaltimento dei rifiuti volto all’elusione
della relativa tassa, mentre il
18% pensa che si tratti di un sistema
truffaldino di vendita perpetrato
ai danni dei consumatori. Per un
buon 28%, inoltre, il compostaggio
sarebbe un metodo educativo che
prevede una postura ordinata e corretta!
Questi risultati rappresentano solo
uno dei tanti elementi che confermano
la profonda mancanza di
conoscenze ambientali fra la popolazione,
in particolare per quanto
concee l’argomento rifiuti. Eppure,
tra le infinite interconnessioni
esistenti fra l’uomo e la natura, il
legame fra noi ed i rifiuti che produciamo
dovrebbe essere tra i più
evidenti. Se non è immediato immaginare
lo zaino ecologico di un anello
d’oro o di un computer (MC,
giugno 2002), o i cambiamenti climatici
indotti dall’emissione di
CO2 relativa ai nostri consumi, la
quota di rifiuti prodotta direttamente
dal nostro stile di vita ci accompagna
invece costantemente.
In quale famiglia non si discute
per andare a buttare l’«immondizia
»? Allora, se gli «immondi» sacchi
neri prodotti da noi stessi sono
così sgraditi nelle nostre case, perché
non chiedersi che fine faranno
dal momento in cui li poniamo nel
cassonetto? Perché non sentirne in
qualche modo la responsabilità? Al
contrario, il problema non è solo relativo
all’ignoranza in questo campo
ma, fatto ben più grave, all’indifferenza
nei confronti dei nostri
rifiuti e delle conseguenze che la loro
produzione ed il loro smaltimento
comportano.
COSA SONO I RIFIUTI
Se nelle puntate precedenti si è analizzata
l’origine di un prodotto
(dal punto di vista dello sfruttamento
delle risorse naturali e dei
flussi di materia associati al prodotto
stesso), vediamo ora il percorso
che compie il prodotto morto (buttato),
ossia il rifiuto.
Secondo il D.P.R. 915/82, per rifiuto
si intende «qualsiasi sostanza
od oggetto derivante da attività umane
o da cicli naturali, abbandonato
o destinato all’abbandono».
Essere rifiuto non è quindi una caratteristica
intrinseca di un oggetto.
Un prodotto può essere ancora funzionante,
utile o riparabile, ma essere
abbandonato ad esempio perché
fuori moda o perché non soddisfa
più le richieste originarie.
È fondamentale distinguere con
chiarezza le differenti fasi del ciclo
di vita del rifiuto:
1) la produzione
2) la raccolta
3) lo smaltimento.
LA PRODUZIONE
Quello dei rifiuti è diventato un
problema ambientale molto grave,
sotto diversi punti di vista. In questo
secolo, infatti, si è avuto:
– un aumento vertiginoso della produzione
di rifiuti, dovuto in particolare
alle abitudini legate alla società
consumistica;
– un aumento della tossicità per
l’ambiente, dovuto al passaggio dalla
società agricola a quella industriale;
– una diminuzione delle possibili aree
per il tradizionale smaltimento
(la discarica).
I rifiuti prodotti sono definiti urbani,
se provengono dal settore civile,
oppure speciali, se di natura industriale,
artigianale o commerciale.
I rifiuti solidi urbani (RSU)
comprendono circa il 29% di sostanze
organiche (alimenti), il 28%
di carta e cartone, il 16% di plastica,
il 4% di legno e tessuti, il 4% di
metalli, l’8% di vetro e un 11% di
altri materiali.
Nel 1999 sono stati prodotti in Italia
più di 28 miliardi di tonnellate
di rifiuti urbani, per una media pro
capite di circa 491 kg di rifiuti all’anno!
Le quantità variano da regione
a regione ed anche in base al
periodo dell’anno. Nella provincia
di Torino, ad esempio, la produzione
di RSU è in costante ascesa dal
1969, con un tasso medio annuale
d’incremento di circa il 3%. Nel
1969 ogni torinese produceva circa
183 kg di rifiuti, 317 kg nel 1985, fino
ad arrivare a 540 kg nel 2000.
Interessante è inoltre il rapporto tra
l’andamento del prodotto interno
lordo (Pil) e la produzione di rifiuti:
all’aumentare del Pil pro-capite,
aumenta anche la quota di rifiuti
urbani pro-capite prodotta. La
quantità di rifiuti prodotta, infatti,
dipende strettamente dalla quantità
di beni fabbricati e consumati.
LA RACCOLTA
La raccolta del rifiuto può essere
di due tipi:
1) raccolta indifferenziata ossia tutti
i tipi di rifiuti vengono raccolti insieme;
2) raccolta differenziata ossia i rifiuti
vengono raccolti in base alla tipologia.
Per molti anni, in Italia la raccolta
differenziata (r.d.) è consistita
nella raccolta del vetro nelle campane.
Solo alla fine degli anni ’80 è
stata introdotta la raccolta della carta,
delle lattine in alluminio e della
plastica. Dal 1996 sta inoltre aumentando
la raccolta del verde e
della frazione organica. Si sono, infine,
aggiunte la raccolta delle pile e
dei farmaci.
Vale la pena di ricordare che la
r.d. (praticata da una percentuale
ancora molto bassa di cittadini) non
è volontaria, bensì obbligatoria. Il
Decreto legislativo del 5 febbraio
1997, n. 22, più noto come «Decreto
Ronchi», ha infatti fissato precisi
obiettivi da raggiungere nell’arco
di 6 anni dall’entrata in vigore: 15%
di rifiuti raccolti in modo differenziato
entro il 1999, 25% entro il
2001, 35% entro il 2003. La media
italiana, invece, è di circa il 13%,
con notevoli differenze fra le diverse
regioni.
LO SMALTIMENTO
Dopo essere stato raccolto, il rifiuto
è destinato ad una qualche forma
di smaltimento: la messa in discarica
(oggi avviene per il 74,4%
della quantità di rifiuti), l’incenerimento
(7,2%), il recupero dei materiali
o riciclaggio (7,4%) il compostaggio
(11%).
L’INCENERITORE
L’inceneritore si sta affermando
come metodo di smaltimento in
quanto dà la sensazione di eliminare
il problema rifiuti in modo rapido
ed efficace: il rifiuto, bruciando,
«sparisce»…
In realtà, è noto che «nulla si crea,
nulla si distrugge» e ciò vale anche
per un inceneritore, che altro non è
che un impianto di combustione ad
alta temperatura, nel quale il combustibile
è rappresentato dal rifiuto
stesso. Nell’impianto entrano appunto
i rifiuti, del combustibile che
sostenga il processo di combustione,
aria (cioè ossigeno per la combustione),
acqua (per le operazioni
di filtraggio dei fumi e di raffreddamento
delle ceneri).
Dopo la combustione, dall’impianto
fuoriesce la stessa quantità di
materiali, ma trasformata in: ceneri,
fumi di combustione (contenenti
anidride carbonica, vapore acqueo
ed altri gas), polveri, acqua inquinata
(che, dopo essere stata depurata,
darà vita ai fanghi).
Da 1 tonnellata di RSU, quindi, si
ottengono circa 6000 Nm3 («normalmetricubi
»: unità di misura dei
gas) di fumi, 6,7 kg di polveri e 300
kg di ceneri e scorie. Da un lato,
quindi, l’incenerimento causa un
problema di inquinamento atmosferico
(fumi e sostanze inquinanti
in essi contenute), dall’altro crea un
problema di smaltimento delle ceneri
e dei fanghi. Le ceneri, i carboni
attivi usati nei filtri dei fumi ed
i fanghi, infatti, contengono cloro,
fluoro, zolfo, metalli tossici, inquinanti
non presenti nei rifiuti in entrata
(diossine, furani, fenoli…): si
tratta in molti casi di sostanze persistenti
che si accumulano nel terreno
e che possono tornare all’uomo
attraverso l’alimentazione. Ecco
perché questi rifiuti in uscita
sono classificati come rifiuti speciali
e necessitano di discariche speciali,
la cui gestione e localizzazione
presenta generalmente maggiori
difficoltà rispetto ad una discarica
per rifiuti urbani.
Gli inceneritori, quindi, anche se
riducono il volume dei rifiuti, pongono
problemi di inquinamento atmosferico
e di salute pubblica e necessitano
comunque di una discarica.
Se fra i vantaggi principali
dell’incenerimento compare la riduzione
del volume iniziale dei rifiuti,
in realtà molti sostengono che
tale risultato può essere raggiunto
anche con un moderno processo di
pressatura.
Spesso gli inceneritori vengono
definiti anche «termovalorizzatori»:
ossia è possibile utilizzare il calore
prodotto dalla combustione dei rifiuti
per produrre energia elettrica.
Tuttavia, perché tale operazione sia
conveniente, è necessario che gli
impianti siano di grosse dimensioni
e siano localizzati in prossimità di utenze
civili ed industriali alle quali
inviare il vapore o l’energia elettrica
prodotti.
LA DISCARICA
La discarica «controllata» (aggettivo
che vuole sottolineare la distinzione
rispetto alla discarica selvaggia,
fuorilegge) è un impianto nel
quale vengono «stoccati» i rifiuti.
Esistono varie tipologie di discarica
in base ai rifiuti ospitati (urbani,
speciali). Secondo il Decreto Ronchi,
in discarica potranno essere
confinati soltanto i rifiuti inerti (non
in grado di reagire con altre sostanze)
e i rifiuti derivanti da operazioni
di riciclo, recupero e smaltimento
(come ad esempio l’incenerimento).
La discarica deve soddisfare alcuni
requisiti generali: deve essere
localizzata in luoghi stabili per tempi
anche molto lunghi; deve possedere
barriere naturali (ad es. spessi
strati argillosi) o artificiali (ad es. fogli
di polietilene di diverse tipologie)
che isolino i rifiuti dall’ambiente
esterno, in particolare dall’aria
e dalle acque sotterranee; deve
essere controllata con differenti sistemi
di monitoraggio. Nonostante
la discarica sia spesso associata ad
una «buca» in cui si possa gettare di
tutto senza creare problemi, due sono
i possibili impatti sull’ambiente:
1) sulle acque sotterranee: il contenuto
acquoso dei rifiuti, veicolato
dalle acque piovane, può infiltrarsi
nel sottosuolo e raggiungere eventualmente
la falda sottostante la discarica;
2) sull’aria: i processi di degradazione
naturale della parte organica
del rifiuto provocano la formazione
del biogas, un gas composto essenzialmente
da metano ed anidride
carbonica; esso può dare problemi
di incendi e soprattutto di cattivo odore,
e quindi dovrebbe essere bruciato
oppure recuperato ed utilizzato per produrre piccole quantità
di energia elettrica.
IL RECUPERO DEI MATERIALI
Per recupero o riciclaggio si intende
la valorizzazione e l’utilizzo
delle risorse naturali presenti nel rifiuto,
in modo da poterle reintrodurre
nei cicli di produzione e consumo,
con due vantaggi principali:
1) risparmio di materie prime (recuperando
il vetro si risparmia la
sabbia estratta dalle cave e tutte le
sostanze aggiuntive necessarie alla
produzione del vetro);
2) risparmio di energia (l’energia
impiegata per estrarre la sabbia e le
altre sostanze, per i trasporti, per ottenere
la temperatura a cui fonde la
sabbia…).
Gli esempi più noti sono il recupero
della carta, del vetro, della plastica
e dell’alluminio. Anche il compostaggio
è una forma di recupero:
tramite un’operazione naturale di
biodegradazione, la sostanza organica
(il verde e gli alimenti) si trasforma
in ammendante per l’agricoltura.
Essendo dei veri e propri impianti
industriali, anche gli impianti di
recupero presentano vantaggi e
svantaggi dal punto di vista ambientale
ed economico. Ad esempio,
è noto che, nel recupero della
carta, la fase di disinchiostrazione
abbia un pesante impatto sull’ambiente.
La plastica non può essere
recuperata molte volte perché perde
le proprietà iniziali: una bottiglia
di plastica non può tornare ad essere
una bottiglia ma può diventare
materiale per oggetti vari (ad esempio
panchine, maglioni in pile, materiale
espanso per le automobili…).
Il vetro, invece, può essere fuso infinite
volte senza perdere le sue caratteristiche.
Ecco perché il recupero
del vetro è forse quello che
comporta meno problemi a livello
di mercato: la qualità di una bottiglia
di vetro proveniente da vetro riciclato
(quello che noi mettiamo
nelle campane della raccolta differenziata)
è la stessa di una bottiglia
fabbricata a partire dalle materie
prime (sabbia, carbonati di calcio e
sodio, ossidi di ferro…).
Al contrario, il mercato della carta
non è ancora abbastanza sviluppato,
in quanto la qualità della carta
riciclata non soddisfa le richieste
di tutti gli acquirenti (anche se nella
maggior parte dei casi non è necessario
scrivere una lettera o una
relazione su carta bianchissima…).
Gli impianti di recupero sono molto
complessi e costosi e quindi giustificabili
per quantità elevate di rifiuti.
Essi inoltre necessitano che il
materiale da riciclare (vetro, carta,
plastica…) sia il più possibile privo
di altri elementi estranei. Ad esempio,
se nelle campane del vetro sono
presenti anche piccole quantità
di ceramica (come la tazzina di
caffè), la probabilità che le bottiglie
ottenute dalla fusione del vetro si
rompano è molto elevata.
A questo punto risultano evidenti
alcune considerazioni:
– qualsiasi tipologia di smaltimento
(inceneritore, discarica, recupero)
presenta vantaggi e svantaggi;
– la raccolta differenziata non è una
forma di smaltimento alternativa alla
discarica o all’inceneritore, come
molti pensano; essa rappresenta invece
il passaggio dalla produzione
dei rifiuti al recupero (della carta,
del vetro, della plastica, ecc….) e,
quindi, costituisce una prima fase di
separazione dei materiali, alla quale
seguiranno trattamenti più accurati;
– affinché il recupero possa essere
efficiente, la r.d. deve essere fatta
nel migliore dei modi, sia da parte
del cittadino, sia dell’amministrazione
comunale.
LOCALISMO E
SOSTENIBILITÀ

Finora l’analisi del problema rifiuti
è stata affrontata da un punto
di vista locale, ossia limitatamente
al territorio in cui un certo impianto
(discarica, inceneritore…) è costruito.
Se, in questo contesto, ci ponessimo
la domanda «perché la questione
rifiuti è grave?», sicuramente la
risposta sarebbe «perché non sappiamo
più dove metterli!». Questo
effettivamente corrisponde al vero,
e di conseguenza l’intero dibattito
verte su quale sia la migliore tipologia
di smaltimento.
Se però si cambia il punto di vista,
possono emergere alcune considerazioni
inaspettate e sorprendenti.
Tale nuovo punto di vista è quello
dello sviluppo sostenibile (MC, giugno
2002). La sostenibilità ambientale,
infatti, analizza i problemi nel
lungo periodo (e quindi non nel
breve) e in uno spazio più ampio rispetto
al locale: essa si chiede le
conseguenze di una certa azione
antropica sia a livello planetario sia
a distanza di tempo.
In quest’ottica il problema rifiuti
rivela le due facce di una stessa medaglia:
da un lato il problema dello
smaltimento, dall’altro il sovrasfruttamento
delle risorse naturali.
Ricordando infatti che il rifiuto è un
prodotto morto e che un prodotto
è un insieme di risorse naturali, è evidente
che la maggior produzione
di rifiuti significa un sempre maggiore
sfruttamento delle risorse del
pianeta. Maggiori rifiuti significa
anche maggiori impronte ecologiche
e, quindi, disequilibri ambientali
e sociali crescenti (MC, giugno
2002).
Ecco che il problema dello smaltimento
diventa secondario. La parola
d’ordine dovrebbe essere «ridurre
i rifiuti», come lo stesso Decreto
Ronchi invita a fare. Della
quota di rifiuti prodotta bisognerebbe
poi fare una raccolta differenziata
(r.d.) accurata, tale da incentivare
il recupero dei materiali e
limitare al massimo la costruzione di
inceneritori e discariche. Tuttavia
questo non avviene, anzi, viene attribuita
un’importanza primaria alla
r.d.: è certamente vero che essa sia
una pratica fondamentale, ma il fatto
che aumenti non significa automaticamente
che diminuisca la produzione
dei rifiuti. Allora, perché
premiare solo i comuni che aumentano
la r.d. e non quelli che diminuiscono
la produzione dei rifiuti?
Anche l’analisi relativa all’inceneritore
cambia aspetto sotto il punto
di vista della sostenibilità. Essendo
una sorta di «macchina» che funziona
«a rifiuto» anziché a benzina,
l’inceneritore necessita di rifiuti, favorendone
paradossalmente l’aumento
anziché la diminuzione.
Altri aspetti interessanti emergono
dallo studio degli impianti di recupero.
Prendiamo come esempio
un impianto di recupero del vetro.
In provincia di Torino non esiste un
impianto di riciclaggio del vetro: i
vetri provenienti dalle campane della
raccolta differenziata sono quindi
trasferiti ad Asti, a Dego (Savona)
o a Milano, con un notevole impatto
ambientale dovuto ai
trasporti. Questi impianti, inoltre,
generalmente esportano il vetro riciclato
(sottoforma di contenitori e
bottiglie dalle numerose forme) anche
sui mercati esteri, in Europa ed
oltreoceano. L’impatto dovuto ai
trasporti (estrazione di petrolio ed
emissioni di gas che alterano il clima)
non rischia così di annullare
quel risparmio di materie prime ed
energia che il recupero consentirebbe
di offrire?
Ci si può chiedere allora se grossi
impianti localizzati potrebbero essere
sostituiti da piccoli impianti
diffusi sul territorio, in grado sia di
rivitalizzare l’economia e l’occupazione
locali, sia di minimizzare i trasporti.
Purtroppo, però, questi impianti
sono molto costosi e gli investimenti
iniziali sono facilmente
ammortizzabili solo se l’impianto è
di grandi dimensioni.
Non è possibile allora ripensare il
funzionamento del sistema? Ad esempio,
si potrebbe potenziare la
pratica del vetro a rendere, affiancandola
al recupero? Bisogna inoltre
ricordare che, generalmente, un
impianto di recupero vetri utilizza
due terzi di vetro proveniente dalle
campane della r.d. ed un terzo di
materie prime. Ogni bottiglia prodotta,
quindi, è costituita per un terzo
da sabbia vergine! Se la richiesta
di contenitori in vetro aumenta
sempre di più, come sta succedendo,
aumenterà comunque la frazione
di materie prime estratte, anche
se il vetro viene recuperato. Risulta
di primaria importanza, quindi, la
riduzione della richiesta di contenitori.
E qui si apre un altro capitolo
interessante: gli imballaggi.
L’aumento smisurato degli imballaggi
rappresenta l’emblema dello
spreco di materie prime. Ha senso
utilizzare un materiale prezioso come
l’alluminio per contenere semplici
bevande? Non è un paradosso
che il contenitore sia più prezioso
del contenuto? Perché consumare
la plastica (derivante da una risorsa
scarsa ed inquinante come il petrolio)
non solo per le sue caratteristiche
chimico-fisiche, ma soprattutto
per fabbricare sacchetti ed imballaggi
vari, destinati ad una vita brevissima?
(Fine 4.a puntata – continua)

Consigli per RIDURRE i rifiuti:
scegliere i prodotti con minor zaino
ecologico;
scegliere i prodotti con meno imballaggio
possibile;
preferire prodotti duraturi, riparabili,
smontabili;
preferire materiali riciclabili;
provare a riutilizzare i prodotti per
scopi differenti dall’originario;
evitare i prodotti usa e getta;
diminuire l’uso di prodotti chimici
pericolosi;
evitare i cibi confezionati con involucri
inutili;
non fare incartare dai commessi prodotti
che hanno già una propria confezione;
preferire i liquidi (alimentari e non)
alla spina o in contenitori a rendere;
evitare i contenitori di plastica mono
uso;
preferire i contenitori di vetro a quelli
in plastica o alluminio;
evitare gli imballaggi in tetrapak,
costituiti da cartone ed alluminio (ad
esempio per il latte, i succhi di frutta…);
evitare i prodotti con «omaggi» che si
rivelano spesso come oggetti inutili,
destinati a diventare subito rifiuti;
preferire borse di juta e cotone alle
borse di plastica;
preferire le pile ricaricabili;
utilizzare i fogli con una facciata bianca
per la brutta copia;
fotocopiare fronte e retro;
non prendere volantini o fogli pubblicitari
se non interessano;
usa il più possibile la carta riciclata.

Silvia Battaglia




QUANDO LO SVILUPPO NON È PROGRESSO

Secondo la cultura oggi dominante una società è tanto più sviluppata quanto
più consuma. Il benessere degli individui è misurato in termini di consumo
e di accumulo di merci. Gli stili di vita dei paesi industrializzati sono
incompatibili sia con i limiti fisici del pianeta (risorse e capacità
di assorbimento dei rifiuti limitate) sia con gli ideali di equità. L’attuale
modello di sviluppo non solo produce ingiustizia per l’80% della popolazione
mondiale, ma mette a rischio il benessere delle generazioni future.
«Il mondo – diceva il Mahatma Gandhi – è abbastanza ricco per soddisfare
i bisogni di tutti, ma non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno».

Nelle puntate precedenti (1) si è accennato in
termini qualitativi al legame esistente tra ambiente
e società, tra emergenze ambientali ed
emergenze sociali, tra sistema economico e risorse
naturali, tra crescita economica e limiti fisici alla crescita
stessa. Ci si è avvalsi di principi fisici, di nozioni
storico-filosofico-etiche, ma anche di semplici analisi
del funzionamento del sistema economico, nonché
di considerazioni di buon senso.
Esistono tuttavia ulteriori strumenti, basati su leggi
della fisica, della matematica e della statistica, in
grado di evidenziare perché sia necessario ridurre
considerevolmente le quantità di materiali e di energia
prelevate dall’ambiente e destinate all’attuale
sistema economico. Esistono cioè degli strumenti
utili per capire se ci stiamo orientando verso uno
«sviluppo sostenibile».

I DOGMI DEL MODELLO
Sviluppo è certamente un concetto ambiguo e
soggetto ad interpretazioni anche molto diverse tra
loro.
In biologia, il termine descrive il processo attraverso
il quale un organismo raggiunge la sua forma
completa: nel linguaggio comune esso indica la crescita
degli animali o delle piante. Nella seconda metà
del Settecento, con la rivoluzione industriale e l’emergere
del capitalismo, il termine viene trasferito
anche alle scienze sociali, identificandosi sempre
più con il concetto di progresso. Mentre nelle civiltà
greche e romane la crescita era considerata come un
processo ciclico e in quelle medievali come degenerazione
e decadenza, nel pensiero occidentale moderno
«il progresso implica che una civiltà sia progredita, stia progredendo e progredisca
nella direzione desiderata».
L’influenza darwiniana fa sì che sviluppo
e progresso diventino sinonimo
di evoluzione, ossia processo
verso forme sempre più perfette. Lo
sviluppo, quindi, da processo nascita-
morte, viene ora concepito come
qualcosa di «direzionale, cumulativo,
irreversibile e volto ad uno scopo».
La cultura dominante, che
confonde tra loro i termini sviluppo,
crescita, progresso ed evoluzione,
impone che «i diversi paesi si sviluppino
secondo stadi successivi,
dalla società tradizionale a quella dei
consumi di massa, lungo una direzione
lineare verso la modeizzazione».
Tre sono i dogmi su cui si basa tale
pensiero:
1) esiste un unico modello di sviluppo,
che ha come fine la società
capitalista avanzata dei consumi;
2) l’unico fine è quello della crescita
economica;
3) il benessere deve essere inteso come
consumo e accumulo di merci
(Cuhna, 1988).
Secondo questo approccio, quindi,
lo sviluppo economico, inteso
come sviluppo industriale e tecnologico,
assicura da solo il progresso
sociale e il benessere dell’uomo.

ECONOMIA
CONTRO ECOLOGIA?

Nei primi anni Sessanta iniziano
ad emergere, in molteplici ambiti,
danni ecologici irreversibili dovuti
alla grande crescita economica ed
industriale. La percezione dei problemi
ambientali è limitata ai fenomeni
di inquinamento locale e le soluzioni
proposte consistono nella
definizione di livelli di emissione relativi
a determinate sostanze, nella
dispersione degli inquinanti, nella
protezione di spazi circoscritti. È
l’approccio della «protezione e riparazione
ambientale».
Nel corso degli anni Settanta, grazie
al miglioramento delle conoscenze
scientifiche e alla crescente
sensibilizzazione dell’opinione pubblica,
le preoccupazioni ambientali
iniziano ad estendersi su scala internazionale.
Si passa ad un approccio diverso,
quello della «gestione delle risorse»:
nel 1972, infatti, il rapporto del Club
di Roma «I limiti dello sviluppo»,
pubblicato dal Mit (Massachusetts
Institute of Technology), affianca al
problema dell’inquinamento quello
del depauperamento delle risorse
del pianeta, la cui gravità viene amplificata
dalla crisi petrolifera del
1973. È anche l’approccio della «gestione
del rischio»: dopo alcuni eventi
catastrofici di origine industriale
(Seveso, Bhopal…), nasce l’esigenza
di saper affrontare situazioni
nelle quali il rischio non è completamente
eliminabile a priori e le conseguenze
sono spesso irreparabili.
Nonostante numerose critiche, il
rapporto del Club di Roma ha avuto
il merito di sollevare il dibattito
internazionale sulle questioni ambientali
e di avanzare il concetto di
limiti fisici alla crescita. Le due posizioni
estreme, all’interno delle
quali si è sviluppata la discussione,
sono l’economia di frontiera e l’ecologia
profonda, analoghe rispettivamente
all’approccio tecnocentrico
ed ecocentrico:
1) l’economia di frontiera assegna
alla natura un valore strumentale, in
virtù dei numerosi servizi che essa
offre all’uomo; la considera, inoltre,
come fonte inesauribile di risorse
(materie prime, energia, acqua, suolo,
aria) e come deposito illimitato
dei sottoprodotti derivanti dall’attività
di produzione e consumo (rifiuti,
inquinamento e degrado ecologico);
ritiene quindi l’economia
completamente separata dall’ambiente
e conserva un’assoluta fiducia
nella tecnologia e nel mercato; lo
sviluppo è inteso esclusivamente in
termini quantitativi, ossia come crescita
economica;
2) l’ecologia profonda riconosce alla
natura un valore intrinseco, al di
là dei suoi servizi, per il quale va tutelata
e rispettata; evidenzia aspetti,
completamente ignorati dalla precedente
posizione, quali elementi etici,
sociali, culturali, basati sul concetto
di sviluppo in armonia con la
natura.
A questa corrente di pensiero appartiene
l’ipotesi Gaia, formulata
da J. Lovelock, secondo la quale il
pianeta costituisce un grande organismo
vivente in grado di autorganizzarsi
ed autorinnovarsi, non però
necessariamente in materia ottimale
per la specie umana…

LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Nel 1987, con il rapporto Brundtland
(3) inizia ad imporsi il concetto
di sviluppo sostenibile, affermatosi
a livello internazionale con la
«Conferenza mondiale su ambiente
e sviluppo», svoltasi a Rio de Janeiro
nel giugno 1992.
Secondo la definizione originale,
è sostenibile uno «sviluppo che soddisfi
i bisogni del presente senza
compromettere la capacità delle generazioni
future di soddisfare i propri
». Nonostante il proliferare di interpretazioni
anche molto lontane
tra loro, vi sono alcuni concetti peculiari
alla base di questo nuovo approccio.
1) Il capitale naturale. Si possono
distinguere tre forme di capitale:
quello prodotto dall’uomo (infrastrutture,
macchinari…), quello umano
e quello naturale (atmosfera,
ecosistemi, flora…). Ogni tipologia
di capitale, da sola o insieme alle altre,
genera dei servizi, necessari all’uomo
per aumentare il proprio livello
di benessere: il capitale umano
rappresenta la forza lavoro; i macchinari
permettono, ad esempio, le
trasformazioni delle materie prime
in beni di consumo.
L’uomo utilizza i materiali, l’energia
e l’informazione contenuti nel
capitale naturale combinandoli con
le altre due forme. Ne consegue che
il capitale naturale è essenziale per il
benessere umano, nonché per la sussistenza
stessa del capitale prodotto
dall’uomo (i macchinari e le infrastrutture
sono costituiti da risorse
prelevate dalla natura…) e del capitale
umano (alcuni servizi offerti
gratuitamente dalla natura e indispensabili
alla sopravvivenza sono,
ad esempio, la purificazione naturale
di aria e acque, la protezione dai
raggi ultravioletti, la stabilizzazione
del clima, la rigenerazione del suolo,
la preservazione della fertilità, il
mantenimento della biodiversità, la
decomposizione dei rifiuti, ecc.).
Di conseguenza, non è più sufficiente
diminuire o rimuovere l’inquinamento
diretto verso l’ambiente
naturale, ma è necessario soprattutto
impedire trasformazioni
irreversibili degli ecosistemi a causa
dell’azione dell’uomo, cioè è necessario
conservare il capitale naturale.
2) L’equità sociale. Uno sviluppo sostenibile
richiede sia l’equità intragenerazionale,
cioè all’interno di una
stessa generazione, sia l’equità intergenerazionale,
cioè rispetto alle
generazioni future.
3) Distinguere tra sviluppo e crescita.
Mentre la «crescita» è un concetto
di tipo quantitativo, il termine
«sviluppo» vuole indicare una trasformazione
soprattutto qualitativa:
non solo economica, quindi, ma
comprendente tutti gli aspetti della
sfera sociale.
4) La sostenibilità. È un concetto
che comprende contemporaneamente
e allo stesso modo tre dimensioni:
economica, ambientale e sociale.
Lo sviluppo economico non è ritenuto
prioritario rispetto a quello
sociale, ma il raggiungimento dell’uno
non può prescindere dall’altro.
Lo sviluppo sostenibile ha quindi
il merito di aver contribuito al
passaggio da una visione settoriale
dei problemi (sviluppo economico
visto indipendentemente dall’aspet-
to sociale ed ambientale) ad una visione
integrata, multidisciplinare e
complessa. In questo contesto l’ambiente
non è più considerato un vincolo
o un aspetto marginale, ma diventa
parte integrante e strategica
dello sviluppo.
In un intreccio così complesso di
componenti (economiche, ambientali
e sociali), uno sviluppo sostenibile
dovrebbe riconoscere l’importanza
di concetti come l’incertezza,
il limite, e quindi la prudenza nel valutare
le conseguenze sull’ambiente
delle azioni umane, specialmente se
numerose e concomitanti; dovrebbe
ottimizzare l’uso delle risorse
scarse del pianeta e ridurre inquinamento
e rifiuti prodotti, per garantire
l’esistenza di tutti gli esseri viventi;
dovrebbe mirare non solo al
benessere economico ma anche e
soprattutto al miglioramento della
qualità della vita.
Dato che ogni paese possiede peculiari
caratteri sociali, ambientali
ed economici, si dovrebbe abbandonare
la «psicosi spaziale», ossia la
presunzione, propria delle culture
dominanti, di poter applicare ovunque
lo stesso modello di sviluppo.
A livello pratico, però, lo «sviluppo
sostenibile» rischia di essere solo una
formula pubblicitaria; nel momento
in cui la definizione teorica
deve essere tradotta a livello operativo,
interpretazioni molto diverse
tra loro ne ostacolano la concreta
realizzazione.

L’IMPRONTA ECOLOGICA
Come si accennava all’inizio, esistono
strumenti, detti «indicatori»,
basati su principi fisici, biologici,
matematici, statistici ecc…, in grado
di misurare il livello di sostenibilità
dello sviluppo. Gli indicatori rivelano
se stiamo migliorando le condizioni
ambientali, sociali ed economiche
del pianeta (o di una nazione,
di una comunità…) o, al contrario,
se le stiamo peggiorando. Uno strumento
di calcolo potente dal punto
di vista didattico (perché relativamente
semplice e molto intuitivo) è
quello dell’«impronta ecologica».
L’impronta ecologica stima, in ettari,
la superficie terrestre ed acquatica
necessaria, da un lato, alla produzione
delle risorse naturali richieste
dall’economia per la produzione
di beni e, dall’altro, all’assorbimento
dei rifiuti prodotti.
È quindi possibile calcolare l’impronta
ecologica di qualsiasi nazione
(popolazione, comunità o individuo):
essa rappresenterà l’area di
terra produttiva e di acqua richiesta
per produrre le risorse consumate
da quella stessa nazione e per assorbire
i rifiuti generati. Tale superficie
viene stimata attraverso varie
metodologie.
Il metodo dell’impronta ecologica
si basa sulle seguenti considerazioni:
1) ogni prodotto o servizio ha bisogno
di materiali ed energia provenienti
dalla natura;
2) ogni bene genera scarti (nella produzione,
nell’uso, nello smaltimento
finale), e sono necessari
sistemi ecologici che li
assorbano;
3) tutti gli insediamenti abitativi
e le infrastrutture
occupano spazio, sottraendo
suolo agli ecosistemi
naturali e alle loro
funzioni.
Per calcolare l’impronta
ecologica, si valutano le risorse
naturali consumate
per l’alimentazione,
l’abitazione,
i trasporti, i
beni di consumo
e i servizi. I sistemi
ecologici produttivi,
dai quali
provengono le risorse,
sono il suolo coltivabile, le zone
di pascolo, le foreste gestite, le foreste
naturali, il suolo necessario alla
produzione di energia, gli ambienti
marini. L’impronta ecologica
individuale, locale o nazionale dipende
da fattori come il reddito, i
valori e i comportamenti personali,
i modelli di consumo, le tecnologie
usate.
Dividendo le terre emerse e il mare
biologicamente produttivo (12,6
miliardi di ettari, al 1996) per il numero
degli esseri umani (5,7 miliardi,
al 1996), si ottiene che ogni individuo
ha a disposizione circa 2,2 ettari
di territorio produttivo all’anno.
Considerando che il 10-12% di spazio
naturale dovrebbe rimanere intatto
per conservare la biodiversità
e i processi ecologici (i biologi
suggeriscono il 25%!),
l’impronta ecologica pro capite
diventa di 2 ettari (4). Ogni
individuo, quindi, ha a disposizione
circa 0,2 ettari di
terreno agricolo, 0,8 ettari
di terreno da pascolo, 0,6
ettari di foreste, 0,5 et-
tari di aree oceaniche.
Le stime relative al 1996, invece,
dimostrano che l’impronta media
mondiale effettiva era pari a 2,85 ettari
di superficie pro capite. Dal
punto di vista ambientale ciò significa
che stiamo sfruttando un’area
superiore di almeno il 30% rispetto
all’area disponibile. Tale eccedenza
provoca l’impoverimento del capitale
naturale del pianeta. Per fare
un’analogia con il capitale monetario,
è come se, anziché utilizzare solamente
gli interessi maturati, noi
spendessimo anche parte del capitale
investito, cosa che porterebbe
ad un’inesorabile progressiva diminuzione
dello stesso e, di conseguenza,
alla sempre minor disponibilità
di interessi.
La crescita dei consumi e la crescita
della popolazione (7 miliardi di
persone nel 2012, 8 miliardi nel
2026 e 9 miliardi nel 2043) porteranno
inevitabilmente ad una sempre
maggior erosione del capitale
naturale, con conseguenze non facilmente
prevedibili sugli equilibri
naturali e, di conseguenza, sulla nostra
stessa sopravvivenza. Già oggi
si parla di cambiamenti climatici, di
aumento della frequenza dei fenomeni
estremi (siccità, alluvioni), di
desertificazione, emergenza acqua,
piogge acide, diminuzione della biodiversità…

SE TUTTI
CONSUMASSERO COME…

I più recenti calcoli informano che
uno statunitense medio ha un’impronta
ecologica di 12,22 ettari pro
capite, un canadese 7,66, un tedesco
6,31, un italiano 5,51, un colombiano
1,90, un indiano 1,06, un cambogiano
0,83, un afghano 0,58, un
abitante della Namibia 0,66, un eritreo
0,35. Gli individui non hanno
quindi lo stesso «peso» sulla Terra.
Ci sono popolazioni che superano
di gran lunga la loro legittima «fetta
» di terra a disposizione (i 2 ettari
di superficie), altri che ne utilizzano
una piccolissima parte.
Due considerazioni: innanzitutto,
se tutti gli abitanti del pianeta consumassero
come uno statunitense
medio, avremmo bisogno di almeno
3 pianeti come la terra! Lo stile di
vita dei paesi industrializzati non
può quindi essere esteso a tutti gli abitanti
del mondo, semplicemente
perché le risorse del pianeta e la capacità
di assorbimento dei rifiuti sono
limitate e non infinite come si
pensava in passato. Secondo aspetto:
il 20% della popolazione mondiale
sfrutta l’80% delle risorse del
pianeta. Questi dati mostrano quindi
una forte ingiustizia sociale, non
solo rispetto alle generazioni future,
ma anche nei confronti delle generazioni
presenti.
Prendiamo l’Italia come esempio:
in base al territorio produttivo, noi
avremmo a disposizione solo 1,92
ettari per i nostri consumi; tuttavia
la nostra impronta pro capite risulta
essere di 5,51 ettari. È evidente che
i restanti 3,59 ettari vengono compensati
dal commercio internazionale:
si parla di deficit ecologico locale
(o debito ecologico, per analogia
con il debito sociale). Questo
però significa che gli stessi 3,59 ettari
sono sottratti a qualche altra popolazione.
Essendo l’economia basata
sulle risorse naturali, è quindi evidente
che la ricchezza materiale
dei paesi del Nord del mondo dipende
dalle ricchezze naturali prelevate
dal Sud del mondo.
È noto che una parte dei problemi
dei paesi poveri siano di origine intea
(corruzione, nepotismo, cattiva
gestione dell’economia, violazione
dei diritti umani…); altrettanto evidente
dev’essere però il fatto che i
paesi industrializzati devono diminuire
in modo considerevole il loro
consumo di materie prime, energia e
natura, non solo tramite l’innovazione
tecnica, ma anche e soprattutto
tramite una rivoluzione culturale basata
su nuovi stili di vita.
Uscendo dalla logica della solidarietà
intesa come beneficenza, è necessario
entrare in una logica di
«giustizia»: non «dare» in misura
maggiore, ma piuttosto «prendere»
in misura minore (5).
Queste considerazioni ci obbligano
quindi a rivedere l’attuale concetto
di «benessere»: un benessere
oggi esclusivamente materiale, basato
su un consumo di risorse che
danneggia gli ecosistemi, la giustizia
mondiale e le generazioni future.
(Fine 3.a puntata – continua)

BIBLIOGRAFIA
NOTE:
(1) Vedi Missioni Consolata di gennaio
2002 e marzo 2002.
(2) Anna Segre-Egidio Dansero, Politiche
per l’ambiente, Utet, 1996.
(3) Il rapporto Our Common Future,
presentato nel 1987 dalla «World Commission
on Environment and Development
» (Wced), commissione promossa
nel 1983 dalle Nazioni Unite, è noto come
«rapporto Brundtland», dal nome
del premier norvegese che al tempo
presiedeva la commissione stessa.
(4) Centre for Sustainable Studies,
Rapporto Living Planet 2000, Redefining
Progress.
(5) Wuppertal Institut, Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999.
Anna Segre – Egidio Dansero,
Politiche per l’ambiente,
Utet, Torino 1996
Wolfgang Sachs (a cura di),
Dizionario dello sviluppo,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
Gruppo di Ricerca
in Didattica delle Scienze Naturali,
I volti della sostenibilità,
Università di Torino, 2002
Mathis Wackeagel
e William E. Rees,
L’impronta ecologica.
Come ridurre l’impatto dell’uomo
sulla terra,
Ed. Ambiente, Milano 2000
WWF Inteational,
Rapporto Living Planet 2000,
Gland, Svizzera, ottobre 2000
Wuppertal Institut,
Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999
Gianfranco Bologna (a cura di),
Italia capace di futuro,
EMI, Bologna 2000
Centro Nuovo Modello di Sviluppo,
Ai figli del pianeta,
EMI, Bologna 1998
Giovanni Salio,
Elementi di economia
nonviolenta. Relazioni
tra economia, ecologia ed etica,
Edizioni del Movimento nonviolento,
Verona 2001
Christoph Baker,
Ozio, lentezza e nostalgia,
EMI, Bologna 2001
E. U. von Weizsäcker, A. B. Lovins,
L. H. Lovins,
Fattore 4,
Edizioni Ambiente, Milano 1998.
Enea,
Atti della Conferenza
nazionale energia e ambiente
(Roma, novembre 1998),
Fabiano Editore,
Canelli (Asti) 1999

Sviluppo
Nel linguaggio comune, accettato da economisti, decisori pubblici ed opinione
pubblica, per «sviluppo» si intende la crescita quantitativa dell’economia,
misurata attraverso vari indicatori economici, primi fra tutti il Pil (prodotto
interno lordo). Lo sviluppo sostenibile, invece, distingue tra «crescita»
quantitativa e «sviluppo», inteso come miglioramento qualitativo, che integri
fra loro gli aspetti economici, sociali ed ambientali.

Indicatori di sostenibilità
Sono strumenti che monitorano il progresso verso uno sviluppo sostenibile.
Tentando di ricomprendere tutte le dimensioni della sostenibilità, essi mirano
a sostituire gli attuali strumenti di misura della crescita economica, in particolare
il Pil. Questo non solo considera esclusivamente le attività valutabili in
termini monetari, ma omette aspetti rilevanti e ne comprende altri di paradossali.
Dal punto di vista sociale, infatti, non considera la produzione di beni
e servizi derivanti dal lavoro domestico o dal volontariato, mentre calcola
le spese sanitarie necessarie per affrontare gli effetti negativi della produzione
e del consumo; dal punto di vista ambientale, il Pil aumenta anche grazie
alle spese per la protezione ambientale (alluvioni, terremoti…!) e per il disinquinamento.

Impronta ecologica
Rappresenta la superficie di territorio ecologicamente produttivo (terra ed acqua)
necessaria per fornire le risorse di energia e materia consumate da una
certa popolazione e per assorbire i rifiuti prodotti dalla popolazione stessa.
Mentre il classico concetto di «capacità di carico» indica quante persone può
sopportare la terra, l’impronta ecologica indica quanta terra ogni persona richiede
per condurre il proprio stile di vita.

Zaino ecologico
Detto anche «flusso nascosto», o «fardello ecologico», rappresenta la quantità
di materiali prelevati dalla natura durante le fasi di produzione, utilizzo e smaltimento
relative ad un prodotto (o servizio). Si tratta di materiali abiotici (sabbia,
ghiaia, minerali, combustibili fossili), materiali biotici (biomassa vegetale
ed animale), terreno fertile, acqua, aria.

L’IMBROGLIO DEI… PANNOLINI SINTETICI
L’abitudine di acquistare pannolini «usa e getta» per i propri bimbi è ormai
consolidata, ma è una tendenza dispendiosa e altamente inquinante che
andrebbe corretta.
Le nostre mamme utilizzavano i ciripà o triangolini, che richiedevano un lavoro
notevole di «manutenzione». Oggi il mercato mette a disposizione del consumatore
consapevole pannolini in tessuti modei, che si mettono e tolgono
come un «usa e getta», ma che non sono destinati alla discarica, in quanto lavabili.
Le motivazioni per una scelta di questo tipo sono di natura ambientale, ma
anche legate a convenienza economica.
Analizzando il ciclo di vita di un pannolino sintetico, vediamo che i pannolini
«usa e getta» sono costituiti in gran parte da plastica ed inquinano pesantemente
l’ambiente già dalla loro produzione: in un anno si utilizzano svariati
galloni di olio, tonnellate di plastica e milioni di tonnellate di polpa di legno,
alla fine del ciclo di uso il pannolino finisce nelle discariche con un periodo di
decomposizione pari a 500 anni.
Se pensiamo all’aspetto economico, vediamo che ogni confezione di pannolini
«usa e getta» ne contiene mediamente 40, per una spesa di circa 10 Euro.
Considerando di consumae almeno un pacco a settimana (in realtà se ne utilizzano
molti di più), si spendono circa 40 euro mensili, il che vuol dire quasi
480 Euro l’anno; una spesa alquanto incisiva per il bilancio familiare. I pannolini
in tessuto esistono per tutte le tasche e anche con i più costosi è possibile
risparmiare quasi 240 Euro l’anno.
Il comune di TORRE BOLDONE nel bergamasco, nella figura dell’assessore
Ronzoni, ha attivato nel ’98 un’attività di sensibilizzazione all’uso dei pannolini
in tessuto, inviando ai neogenitori un pannolino di tessuto. Negli anni successivi
l’attività d’informazione è continuata, inviando una brochure informativa.
Attualmente le famiglie con bimbi che hanno optato per questa soluzione
sono il 20%, con una riduzione notevole alla fonte dei rifiuti.
CINZIA VACCANEO
PER MAGGIORI INFORMAZIONI:
– pannolini «Lotties»:
Berg Eveline Maria, via Lanciano 15 – 47838 Riccione RN,
tel. 054-1691087
– pannolini «Belli come il sole»: Ilaria Proverbio via Solferino 2/c – 37132
Verona, tel 045-8920213 bellicomeilsole@tin.it
– pannolini Disana (Germania) www.disana.com
Possono essere acquistati tramite il catalogo «I PICCOLISSIMI»
via di Eschignano 39 54100 Massa
tel. 0585-488.209; fax 0585-488.378
www.ipiccolissimi.it

UN DECALOGO DI COMPORTAMENTO PER CIASCUNO DI NOI
CONSIGLI PER CONSUMI… SOSTENIBILI
1) COMPRA DI MENO. Non esistono prodotti ecologici, ma solo meno dannosi di
altri. Ogni prodotto (anche un bicchier d’acqua) comporta un invisibile «zaino
ecologico» fatto di consumo di natura, energia e tempo di lavoro.
2) COMPRA LEGGERO. Spesso conviene scegliere i prodotti a minore intensità di
materiali e con meno imballaggi, tenendo conto del loro peso diretto, ma
anche di quello indiretto, cioè dello «zaino ecologico».
3) COMPRA DUREVOLE. Buona parte dei cosiddetti beni durevoli si cambia troppo
spesso. Cambiando auto ogni 15 anni, invece che ogni 7, ad esempio, si
dimezza il suo zaino ecologico (25 tonnellate di natura consumate per ogni
tonnellata di auto). Lo stesso vale per mobili e vestiti.
4) COMPRA SEMPLICE. Evita l’eccesso di complicazione, le pile e l’elettricità
quando non siano indispensabili. In genere oggetti più sofisticati sono più fragili,
meno riparabili, meno duraturi. Sobrietà e semplicità sono qualità di bellezza.
5) COMPRA VICINO. Spesso l’ingrediente più nocivo di un prodotto sono i chilometri
che contiene. Comprare prodotti della propria regione riduce i danni
ambientali dovuti ai trasporti e rafforza l’economia locale.
6) COMPRA SANO. Compra alimenti freschi, di stagione, nostrani, prodotti con
metodi biologici, senza conservanti né coloranti. In Italia non è sempre facile
trovarli e spesso costano di più. Ricorda però che è difficile dare un prezzo
alla salute delle persone e dell’ambiente.
7) COMPRA PIÙ GIUSTO. Molte merci di altri continenti vengono prodotte in condizioni
sociali, sindacali, sanitarie e ambientali inaccettabili. In Europa sta
però crescendo la quota di mercato del commercio equo e solidale
(TRANSFAIR). Preferire questi prodotti vuol dire per noi pagare poco di più, ma
per i piccoli produttori dei paesi poveri significa spesso raddoppiare il reddito.
8) COMPRA PRUDENTE. In certi casi conviene evitare alcuni tipi di prodotti o
materiali sintetici fabbricati da grandi complessi industriali. Diversi casi
hanno dimostrato che spesso la legislazione è stata modellata sui desideri
delle lobby economiche, nascondendo i danni alla salute e all’ambiente.
9) COMPRA SINCERO. Evita i prodotti troppo reclamizzati. La pubblicità la paghi
tu: quasi mezzo milione all’anno per famiglia. La pubblicità potrebbe dare un
contributo a consumi più responsabili, invece spinge spesso nella direzione
opposta.
10) INVESTI IN GIUSTIZIA. Ecco due esempi: finanza etica e impianti che consumano
meno energia. In Italia puoi investire nelle MAG (MUTUA AUTO GESTIONE)
e nella Banca Etica. Investendo poi nell’efficienza energetica puoi dimezzare
i consumi e i danni delle energie fossili come carbone e petrolio.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI:
«CAMPAGNA BILANCI DI GIUSTIZIA», Segreteria Nazionale Venezia
Tel. 041.538.14.79
www.unimondo.org/bilancidigiustizia, bilanci@libero.it

LO ZAINO ECOLOGICO E SOCIALE
Quando acquistiamo un prodotto è come se ci portassimo
a casa solo la punta di un iceberg. In realtà,
per produrre quel bene è stata movimentata una
massa di materiali, accumulatisi nelle varie fasi della produzione
del bene stesso e depositati come rifiuto in qualche
luogo (in tanti luoghi diversi…). Questi materiali
(ghiaia, sabbia, minerali, petrolio, carbone, gas naturale,
biomassa vegetale ed animale, terreno fertile, acqua,
aria…), che non entrano nel ciclo produttivo e che noi consumatori
non vediamo, costituiscono lo «zaino ecologico»
del prodotto. Siamo abituati a considerare i «nanogrammi»
di inquinanti emessi dai camini, dalle auto…, ma non le
«megatonnellate» di materiali utilizzati a monte del prodotto
consumato e causa di un fortissimo impatto sull’ambiente.
L’indicatore «zaino ecologico» rappresenta, quindi, il carico
di natura che ogni prodotto o servizio si porta sulle spalle
in un invisibile zaino.
Questo argomento sta diventando un importante oggetto
di ricerca. In particolare, si sta studiando per inserire nell’etichetta
di ogni prodotto anche il relativo zaino ecologico,
per dare la possibilità al consumatore di rendersi
responsabile verso le proprie scelte.

Esempio 1
DALLA CIOTOLA ALL’AUTOMOBILE
Una ciotola di legno di tiglio del peso di circa 500 g ha uno
zaino ecologico di 2 kg, mentre una ciotola di rame dello
stesso tipo ha uno zaino di 500 kg. Lo zaino ecologico di
una marmitta catalitica (se il platino in essa presente non
è riciclato) pesa più di 2,5 tonnellate; 1 litro di aranciata,
in base al paese da cui proviene, può avere fino a 100 kg
di materiali nascosti; un giornale quotidiano, del peso di
soli 500 g, ha uno zaino di 10 kg; la costruzione di un’automobile
produce 15 tonnellate di detriti solidi, senza contare
l’acqua utilizzata.
Generalmente, più un prodotto è prezioso o elaborato,
maggiore è il suo zaino ecologico. Ad esempio, il «simbolo
dell’amore», un anello d’oro di circa 10 grammi, necessita
di 3,5 tonnellate di materiale minerale che vengono estratte
dalla miniera e raffinate.
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)

Esempio 2
DIETRO UNA LATTINA
Una lattina di alluminio pesa solo 15 grammi, un peso
apparentemente insignificante. Moltiplicato per il numero
di lattine consumate in un giorno nel mondo (circa 1 milione)
si ottiene una massa di 15 tonnellate di alluminio.
Poiché l’Al si ricava dalla bauxite, per ottenere alluminio
puro bisogna estrarre una massa di materiale che pesa 4
volte tanto, ossia 60 tonnellate. La bauxite si trova ad
esempio nella foresta amazzonica, e per arrivare ai giacimenti
è necessario deforestare una zona per la costruzione
di strade ed infrastrutture. Probabilmente migliaia di abitanti
della foresta sono stati costretti a lasciare le loro terre
e a spostarsi. Intoo alle fonderie si accumulano montagne
di detriti e di altri rifiuti industriali. Inoltre, per la trasformazione
della bauxite in alluminio, è necessaria una
grande quantità di energia elettrica, che ad esempio richiede
gasolio. Anche il gasolio, però, ha la sua storia…
(rielaborato da «Ai figli del pianeta», EMI, Bologna 1998)

Esempio 3
DIETRO L’ESTRAZIONE DELL’ORO
Per la gente di Wasse Fiase, nel Ghana occidentale, non c’è
avvenire. Il loro futuro è stato avvelenato, violentato e
annientato dalle società minerarie. Già oggi la povertà si
legge sulle facce dei senza terra e si palpa nella natura violentata.
«Siamo stati spogliati di tutto, perfino della nostra
vita – si lamenta un giovanotto sulla trentina. – Si sono
presi tutte le nostre terre per far posto alle miniere. Noi le
possedevamo dai tempi dei nostri nonni». Poi, nel 1990, il
governo cominciò ad ordinare l’estrazione di oro, giunsero
le prime società minerarie e la gente venne costretta a
sgomberare. Cominciarono così le deportazioni di massa.
Sia chi è partito, sia chi è rimasto è ridotto alla carità. «La
terra non ci appartiene più e, se ti provi a coltivare qualcosa
su un pezzo di terra abbandonato, c’è sempre il
rischio che arrivi una ruspa e ti distrugga tutto. Siamo
costretti a chiedere il permesso per qualsiasi cosa. Ma perché
dobbiamo chiedere il permesso alle imprese minerarie
per vivere nella nostra terra?» (The New Inteationalist,
marzo 1998).
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)

Silvia Battaglia




CHE IL VINO NON DIVENTI ACQUA!


Riflessioni proposte ai missionari nel Convegno di Ariccia/Roma
(4-8 febbraio), utili anche a chi ha a cuore una chiesa diversa, più
missionaria.

L’invito
proposto al Convegno di Bellaria (1998) fu di «aprire il libro della
missione». E fin qui, niente di speciale: possiamo aprirlo e lasciarlo
sulle nostre scrivanie. Occorre, invece, leggere e lasciarci mettere in
discussione. Aprire il libro richiede movimento, gesti dinamici per
passare dal «fare» all’«essere» missione.

Come tutti
i libri, anche quello della missione ha una premessa, dei capitoli e un
epilogo. Ma non ci deve essere la parola «fine».



 Una premessa:

è la
chiamata dei dodici da parte di Gesù, che li scelse per averli con sé e
mandarli poi a predicare due a due. Leggeri nell’«equipaggio», non
avrebbero dovuto essere maestri di retorica, ma persone dal linguaggio
schietto, astuti e docili; insomma, non semplicioni e neppure saccenti,
capaci invece di coniugare amore e giustizia.

Li avvertì
che non sempre avrebbero trovato dove posare il capo; anzi, sarebbero
stati odiati a causa sua. E, compiuta la missione, niente gloria, ma solo
e semplicemente essere considerati «servi inutili».

Unico
segno di potenza: la croce!

All’origine

di ogni
vocazione, c’è sempre l’iniziativa di Cristo e la risposta della persona
chiamata. Lo scopo della scelta è duplice: condividere la sua vita e
continuae la missione di incarnazione, annuncio e testimonianza. Questo
aspetto della chiamata è essenziale, per non dimenticare le nostre origini
e correre il rischio di invertire i ruoli, sentendoci datori di lavoro,
importanti, onnipresenti, indispensabili!

Vogliamo
costruire il Regno… e non abbiamo tempo di stare con Lui, dimenticandoci
di un piccolo particolare: che il Regno è già iniziato! A noi tocca
annunciarlo, scoprirlo e farlo conoscere. Il Regno c’è; non siamo noi che
lo inventiamo; ma spesso assumiamo atteggiamenti da «architetti».

Si
annuncia quello che si ha dentro, l’esperienza personale. Questo  ci
insegna la missione, ed è quanto le nostre chiese madri si attendono da
noi. La chiesa italiana chiede ai missionari spirito apostolico,
entusiasmo evangelico, tenacia e testimonianza (martirio), per
rivitalizzare il cammino delle comunità cristiane dell’Occidente.

La
presenza di istituti missionari in una chiesa locale non può né deve
passare inosservata. Anche perché (forse non lo sappiamo), siamo
considerati gli esperti dell’annuncio e siamo chiamati ad animare la
comunità cristiana. Lo abbiamo fatto e lo facciamo con disinvoltura in
terre geograficamente di missione, ma con la nostra gente ci ritroviamo
timidi, paurosi e ritrosi.

Ci
sentiamo inadeguati e stranieri in casa nostra? Non sappiamo più metterci
in sintonia con il popolo?… Perché in missione ti senti grande, capace e
qui, dove sei nato, ti senti balbuziente?… Animare la propria chiesa è
certamente meno gratificante, ma è altrettanto urgente e indispensabile.
La nostra presenza deve essere viva, quasi un pungolo che stimola, porta
al confronto e obbliga all’azione.

Però
essere missionari non significa fare i supplenti. Oggi in Italia si stanno
creando situazioni di missione, di rievangelizzazione. La tentazione è di
affidare «agli addetti del mestiere» zone o situazioni considerate di
frontiera. Da parte nostra è doveroso privilegiare questi servizi, ma è
compito della chiesa locale fronteggiare tali realtà e trovare risposte
adeguate. Come, per esempio, la cosiddetta missione che «viene a noi»,
cioè il fenomeno migratorio.

Dobbiamo
privilegiare i campi di animazione missionaria, avere una presenza nei
seminari diocesani (e non solo con missionari, ma anche missionarie),
intervenire nei mezzi di comunicazione per far passare un nuovo modo di
percepire gli altri.



 La natura stessa

della
vocazione missionaria è dialogica. L’incontro con l’altro, il diverso, il
nuovo è pane di ogni giorno: un esercizio giornaliero che dovrebbe
allenarci ad essere persone capaci di empatia, di «compassione». Chi apre
e legge il libro della missione trova questo capitolo di estrema
attualità.

Oggi in
Italia assistiamo preoccupati ad un ritorno di ideologie xenofobe, con
posizioni intransigenti a tolleranza zero; assistiamo ad un regresso
culturale. È caduto il muro di Berlino, ma se ne stanno erigendo altri,
invisibili, ma forse più massicci. E sembra che questo non incida sul
nostro «quieto vivere»!

I casi
sono due: o la vita missionaria ci è passata sopra, senza forgiare
minimamente il nostro essere, o non siamo informati: gravissimo peccato
pure questo. L’informazione critica, l’approfondimento serio, la ricerca e
lo studio devono essere una delle nostre principali attività.

Dialogo
esige conoscenza, ascolto, competenza. Sono finiti i tempi in cui bastava
raccontare la storia del «moretto». Oggi la gente vuole conoscere i perché
delle tragedie che assillano il Sud del mondo; vuole sapere quali e di chi
sono le responsabilità dei disastri umanitari. Qui e in missione dobbiamo
essere responsabilmente preparati.

Dialogo è
anche collaborazione: tra missionari e con i laici. Ma non lasciamoli
entrare solo dalla porta di retro, ossia in qualità di subaltei, senza
diritto di parola. Sono invece persone che possono aiutarci a leggere
criticamente la realtà nella quale viviamo.



 I poveri, ragione prima

e ultima
della nostra vita. Però mai una parola come «poveri» è stata tanto usata e
abusata. I poveri sono diventati oggetto di estenuanti riflessioni,
documenti…

Eppure,
chissà perché, mai come adesso sono così lontani da noi. Ci siamo talmente
adeguati a mettere «a norma» le nostre case, che non c’è quasi più posto
per chi «a norma non è». Abbiamo paura di infrangere le leggi dello stato
e perdiamo la forza di «contraddizione» (come Gesù, segno di
contraddizione!).

Non
possiamo avere due regole di vita: in missione e in Italia. Se sei
disposto al martirio là, devi essere disposto a infrangere le leggi anche
qua, che diminuiscono la testimonianza evangelica.

Davvero ci
siamo incarnati, fino a far causa comune con gli emarginati? Il nostro
stare con i poveri è nel ruolo di «compagni di viaggio» verso un mondo più
giusto? Oppure, facciamo sentire il peso del nostro vantaggio economico,
culturale, spirituale?

Partire

è la
nostra parola d’ordine, anche se a volte non sappiamo bene verso dove.
Talvolta non si capisce bene se è «fuga» o un partire verso qualcuno,
uscendo da noi stessi. Non basta divorare chilometri per sentirsi
missionari: la partenza che ci viene richiesta è più radicale e meno
avventurosa.

Ripartire,
ogni giorno e ogni momento, per andare incontro all’altro… Nel libro
della missione ci sono parole essenziali, che dobbiamo ricuperare:
passione, gioia, fermezza; devono sostituire… negatività, stanchezza,
istituzionalizzazione del carisma.

La
missione ci richiede di essere, più che assertori di certezze, umili
ricercatori di verità… profeti in cammino verso il Regno. Se scordiamo
la chiamata, l’essere noi stessi «terra da evangelizzare», la nostra
attività sarà come il muoversi «di un mare agitato che non può calmarsi, e
le cui acque portano su melma e fango» (Is 57, 20).

Non
conformiamoci alle regole della società, per non fare l’antimiracolo:
trasformare il vino in acqua!

(*) Elisa
Kidanè, missionaria comboniana eritrea, ha operato in Ecuador. Oggi è
redattrice di Raggio.

Elisa Kidanè




Ecco i «punti neri»

Caro direttore,
Missioni Consolata è bella,
ma ha dei «punti neri».
Sono anziano, però, nel
leggere PAOLO MOIOLA,
ritorno giovane, quando
leggevo L’Unità dei comunisti
e dei catto-comunisti,
quando (anche allora) tutti
i mali erano imputati agli
americani.
Moiola è giovane; non
ha visto la seconda guerra
mondiale, né può sapere
di tutte le concessioni, fatte
dalle nazioni democratiche,
a Hitler per non entrare
in guerra; quindi
può «gridare che un’altra
strada esiste per non farla» (Missioni Consolata,
ottobre-novembre 2001).
Monsignor Joseph Fiorenza,
presidente dei vescovi
Usa, afferma: «L’azione
militare è sempre da
deplorare, ma può essere
necessaria per proteggere
gli innocenti o per difendere
il bene comune»
(Corriere della Sera, 10 ottobre
2001).
In «Colloqui col Padre»
Famiglia Cristiana ricorda
che il Concilio Vaticano II
nella Gaudium et Spes afferma:
«Fintantoché esisterà
il pericolo della
guerra e non ci sarà un’autorità
internazionale…
non si potrà negare ai governi
il diritto di una legittima
difesa».
La maggior parte degli
articoli di Moiola sono un
attacco feroce all’America:
cita un grande scrittore
messicano, che definisce
George Bush «un energumeno
ignorante» (Missioni
Consolata, ottobre/novembre
2001). È grande
chi usa tale linguaggio?
Moiola intervista SUSAN
GEORGE (Missioni Consolata,
dicembre 2001), «nota
studiosa franco-statunitense», che dichiara: «Ho
paura che Bush vorrà fare
il cow-boy e farà cadere il
mondo nella trappola del
Far West». Ma che studia
costei? Insulti?
Preciso: sono poche le
cose del sistema sociale americano
che mi piacciono;
in politica estera non
sempre l’America si comporta
coerentemente. Ma
non si può dimenticare
che ha salvato l’Europa e
(direi) il mondo più volte
(nella prima e seconda
guerra mondiale); ci ha
scampati dalla fame con il
piano Marshall (1948-
1952), dal comunismo e
oggi dal terrorismo(temuto
da tutte le nazioni del
mondo), che è la forma
più odiosa per reclamare i
propri diritti. L’America è
la più grande nazione
multietnica al mondo.
Mi permetto di sussurrare
a Paolo Moiola: «Un
po’ di umiltà non guasta».

Certissimamente un
po’ di umiltà fa bene.
A tutti…

Rinaldo Banti




IL BUON SAMARITANO… COMUNISTA

Su Missioni Consolata di gennaio
2002 leggo «la parabola di Luca
» attualizzata. Ed ecco che un comunista
viene a darci la lezione del
«buon samaritano», votando contro
la guerra in Afghanistan. Beh, proprio
un comunista? Quando l’Unione
Sovietica invase l’Afghanistan (e
lo fece per conquistare il paese ed
instaurarvi il regime comunista), da
che parte stava quel comunista? Le
bombe sovietiche erano di cartapesta?
Nel regime sovietico non c’era posto
per la pietà, sopraffatta da ben
altri sentimenti; e a chi la pensava
diversamente e non si sottometteva
era riservato un trattamento speciale:
gulag, gulag, e ancora gulag! Ce
ne siamo scordati? Si legga «Arcipelago
Gulag» di Aleksandr Solzenicyn.
Nell’ottobre scorso l’America ha
intrapreso l’azione bellica in Afghanistan,
perché terribilmente provocata
e con ben altri propositi da
quelli dell’Urss: primo fra tutti quello
di combattere il terrorismo. Per
questo ha avuto quasi un universale
sostegno. L’intento, poi, di convertire
alla democrazia un paese musulmano
è impresa ardua. Ora, dopo
tre mesi di bombardamenti, la prosecuzione
del metodo di lotta al terrorismo
va certo ripensata.
Non sono uno scrittore; reagisco
istintivamente quando vengo
tirato per la barba, ormai
bianca. Mi definisco un cristiano
credente, non indifferente
al senso di pietà unito
al timor di Dio. Rammento
al comunista
della «parabola»
che la maggior parte
delle organizzazioni
umanitarie
nel mondo ha
un’impronta cristiano-
cattolica…
Anch’io ho una storiella
da raccontare.
Eccola: «Ricordo un natale,
trascorso in India
con le suore di Madre
Teresa. Eravamo a cena
e suonarono alla porta.
Una suora andò ad aprire e ritoò
con un cestino, che mise sul tavolo
senza scoprirlo. Tutti pensarono che
contenesse dei doni. Poi guardammo
dentro e scoprimmo che c’era un
bambino che dormiva. Tutte le suore,
piene di gioia, esclamarono: “Gesù
bambino! Gesù bambino è venuto
tra noi!”. E dire che avevano 500
bambini nell’orfanotrofio…». Il racconto
è del vescovo Paolo M. Hnilica.

Grazie della testimonianza squisitamente
missionaria e grazie anche dell’invito
alla coerenza.
Durante l’invasione dell’Afghanistan
da parte dell’Unione Sovietica (1979-
89), gli Stati Uniti sostennero la resistenza
dei locali mujaheddin musulmani
e gradivano che un certo Osama
Bin Laden combattesse contro l’impero
sovietico, ritenuto «il regno del male
» (cfr. Gilles Kepel, Jihad, ascesa e
declino, Carocci, Roma 2001). Oggi invece,
per il governo di George Bush, la
Russia di Vladimir Putin è un’alleata
importante contro il terrorismo di Bin
Laden, divenuto il nemico numero uno.
Alleata politica degli Stati Uniti è
pure la Cina, che ha messo da parte le
proprie divergenze.
Quale sarà il prezzo che gli Usa dovranno
pagare ai due alleati? Non vorremmo
che il conto preveda concessioni
anche in materia di
diritti umani: per esempio,
negli «scontri armati in Cecenia
» e nella «assimilazione
delle 55 minoranze cinesi alla
maggioranza degli han» (cfr.
Le Monde diplomatique,
febbraio 2002).
Su che cosa si fonda la
coerenza politica e
quanto dura?

A. DE ANGELI




Bravo padre Enzo!

Carissimi missionari,
devo aiutare la mia gente
a passare dal solo dare al
saper ricevere i doni di altre
culture e chiese. Sto
cercando del materiale
con un linguaggio adatto.
Sapreste indicarmi qualcosa?
Cari amici, niente paura
delle critiche! Potete contare
anche su moltissimi
estimatori.

L’enciclica di Giovanni
Paolo II Redemptoris
missio; l’opuscolo Parrocchia,
comunità missionaria
di D. Pecile (Elledicì,
Torino 1989); il libro di
A. Nanni Educare alla
convivialità (Emi, Bologna
1994). Fondamentale,
per i «nuovi stili di vita
», è il volume Guida al
consumo critico (Emi, Bologna
2000). Eccetera.

Enzo Balasso




LE SPADE NEL FODERO

Ho letto con sgomento su Avvenire 8/2/2002 che
la televisione Abc ha diffuso un reportage da Cuba
(base USA di Guantanamo), dove si vedono i detenuti
talebani ribellarsi agli agenti americani che
rovesciano loro addosso feci e urine. È vero?
Esistono testimonianze sufficienti per odiare la
guerra (non i soldati, vittime essi stessi del vortice
distruttivo, mai totalmente estinguibile dall’uomo).
Qualcuno ha gridato: «Mai più la guerra!». Altri
l’hanno bollata come «avventura senza ritorno». Si
è pure detto: «Con la guerra tutto è perduto». Cosa
ci serve ancora per accantonarla per sempre?
La guerra è stata pure abolita da alcune costituzioni
come mezzo risolutivo dei conflitti. E perché ritorna
sotto altri nomi? Ingerenza umanitaria, azione
di polizia internazionale, legittima difesa…
È necessario un salto di qualità nella riflessione e
nelle scelte quotidiane di ognuno di noi. Il Dalai Lama,
buddista, ha saputo dire «no» alla guerra e a
qualsiasi violenza. E noi cristiani?
Ad Assisi altri leaders religiosi (tra cui Giovanni
Paolo II) hanno dichiarato di impegnarsi perché la
religione non sia mai usata per uccidere, ma per instaurare
tra i popoli relazioni di giustizia e pace.
Le intenzioni sembrano buone; ma, come cristiani,
dobbiamo maturare le motivazioni per tale impegno.
Come «cattolici» noi abbiamo il Concilio ecumenico
e il Catechismo degli adulti: ci consentono
ancora di scegliere «con dolore» l’extrema ratio, cioè
la guerra, quando si è mostrata fallimentare ogni altra
via (dialogo, diplomazia…). Nessuno è disposto
a sopportare una «pace ingiusta», che può significare
sfruttamento, morte. Volendo essere «ragionevoli
», non si dovrebbe scartare questa ipotesi.
Gesù ci ha proposto un’altra via? Sì. Ci ha chiesto
di credere nella forza dell’amore. È la proposta della
croce nella prospettiva della risurrezione: dell’abbraccio
eterno del Padre, il quale non lascia che nessuno
dei suoi figli si perda. La testimonianza dell’amore,
che ci fa essere dono per tutti, porta a soluzione
i conflitti nei tempi che solo Dio conosce e che
non sempre ci consentono di vedere «qui ed ora» i risultati.
Vorrei sapere da specialisti del Nuovo Testamento
se le mie opinioni sono pure fantasie. È vero che l’amore
per i nemici, predicato da Gesù, dovrebbe disarmare
qualsiasi soldato cristiano?
Forse ci vorrà un nuovo Concilio ecumenico…

Caro Filippo, in attesa degli specialisti, «accontentati
» di Gesù che comanda a Pietro: «Rimetti la spada nel
fodero» (Mt 26, 52). Tuttavia è un Gesù che non subisce
passivamente la violenza. A chi lo schiaffeggia replica:
«Se ho parlato male, dimostralo; ma, se ho detto
la verità, perché mi percuoti?» (Gv 1, 23).

FILIPPO GERVASI




GRANDI AMORI


«Cuore grande e fede incrollabile, uniti a uno spirito
ribelle e un po’ goliardico, hanno fatto di questo piccolo grande
missionario uno strumento formidabile dell’amore cristiano». Così gli
amici ricordano padre Antonio Giannelli, scomparso all’inizio di quest’anno,
dopo aver speso quasi 50 anni in Africa, privilegiando poveri, anziani e
bambini.
Invece,
dopo circa due ore, eccoci a Gaturi, la missione di padre Antonio, dove
sarò ospite per un mese insieme a Ugo e Luca. Non fatichiamo molto a
capire che la nostra vacanza in Kenya sarà caratterizzata dal lavoro sodo,
per dipingere la chiesa parrocchiale: siamo qui per questo e ce ne
rallegriamo.

Padre
Antonio non ci fa mancare nulla: pennelli, vernice, cappelli di carta,
scale, ponteggi e latte caldo a volontà. Eh, sì! Sull’altopiano collinoso,
200 chilometri a nord di Nairobi, agosto è fresco e piovoso.

Le
giornate sono faticose, ma serene. Antonio, aiutato da padre Aldo Cremasco,
è sempre in movimento: scuola, famiglie da visitare, dispensario, bambini
da accudire ed educare. E poi le funzioni sacre con i canti così
coinvolgenti, la preghiera comunitaria ed altre attività religiose… La
sera arriva improvvisa e ci coglie indaffarati nelle ultime fatiche della
giornata.

Padre
Antonio arriva spesso per ultimo al desco serale, ma è il primo ad alzarsi
per riordinare la cucina e accendere il gruppo elettrogeno, che fornisce
per un’ora o poco più l’energia elettrica. Appena il tempo di una partita
a carte prima del meritato riposo: il vincitore, manco a dirlo, è quasi
sempre padre Antonio.

Il
ricovero per anziani è una delle realizzazioni di cui il missionario va
più orgoglioso. Anche se nella tradizione familiare africana la figura
dell’anziano riveste un ruolo importante, la realtà è spesso differente:
l’emarginazione di persone, avanti negli anni e non più totalmente
autosufficienti, è sempre più frequente nella società locale.

Tutti i
giorni Antonio passa molto tempo con i suoi «vecchietti», come li chiama
con affetto. Per ognuno ha una parola di conforto; ma non solo: si informa
delle loro necessità e li mette al corrente di ciò che sta accadendo nel
villaggio.

Quattro
settimane sono passate in fretta e ci troviamo di nuovo all’aeroporto di
Nairobi in attesa del volo per l’Italia. Rimpianto e malinconia sono i
sentimenti dominanti, mitigati, però, dalla consapevolezza di avere
imparato tante cose dalla compagnia del missionario.

Dopo
questa esperienza, non sono più lo stesso: le parole del vangelo sono
sentite come invito obbligatorio a fare qualcosa per gli altri e la
condivisione con i più deboli è diventata più naturale. E questo grazie
all’esempio di padre Antonio, che proprio nel messaggio di Cristo trova la
forza per affrontare ogni giorno grandi sfide e fatiche, anche nei momenti
in cui la salute incomincia a dargli qualche grattacapo.

Ritoo in
Kenya nel 1992 e trovo in padre Antonio il solito spirito giovanile, come
se il tempo lo avesse appena sfiorato.

Nel
frattempo egli ha cambiato parrocchia: nel 1987 è stato incaricato di
fondare una nuova missione nella zona di Wamagana, a nord di Nyeri. Detto
fatto: si è messo subito al lavoro e in pochi anni ha compiuto
un’autentica meraviglia. Egli stesso mi fa da cicerone, mostrandomi le
opere realizzate: chiesa, casa dei padri, scuola secondaria, laboratorio
di cucito per le ragazze, casa per le suore e, vero fiore all’occhiello,
la casa di accoglienza per bambini con gravi deficit mentali e motori. Una
vera rarità nel panorama assistenziale africano.

Maestosa è
la chiesa parrocchiale, dedicata alla Madonna della coltura, venerata nel
santuario di Parabita (Lecce), luogo natale del missionario della
Consolata. La costruzione è stata laboriosa e lo ha occupato a lungo; ma
ne è risultato un edificio con l’ardito tetto in cemento armato, simile a
quello della cattedrale di Nyeri, e le pareti arricchite da bei dipinti,
tele e vetrate multicolori.


Nell’illustrare le varie opere della missione i suoi occhi brillano di
luce particolare: senza l’aiuto della Madonna, fa intendere che non
sarebbe riuscito a costruire tutto ciò che sto ammirando.

Una simile
impresa implica un’organizzazione complessa e articolata. Il missionario
vi ha coinvolto i cristiani della parrocchia in modo ampio e concreto,
stimolandoli a crescere nel senso di responsabilità verso tutti i loro
simili.

Una delle
caratteristiche più affascinanti di padre Antonio è l’entusiasmo con cui
si prodiga per il bene degli altri, senza badare a sacrifici né alla
propria salute. Ed è un entusiasmo contagioso, che suscita solidarietà in
numerose persone, familiari e amici sparsi in Italia,  a cui confida
progetti, fatiche e speranze.

 

 

Torino
1999. Padre Antonio ritorna in Italia per controlli sanitari urgenti. La
salute lo sta abbandonando piano piano, ma non si scoraggia: accetta la
malattia con grande serenità e dignità.

Nonostante
le precarie condizioni fisiche, vorrebbe salire su un aereo e volare tra i
«suoi bambini» di Wamagana. «La mia casa e i miei figli sono laggiù – mi
confida -. È là che devo tornare. Qui procuro solo guai!».

Il
pomeriggio del 23 gennaio 2001 padre Antonio si sente male; avvisa i suoi
dell’imminente fine; affida le ultime volontà a padre Daniele Armanni e
vola in paradiso.

La sua
scomparsa mi lascia sbigottito, insieme a tutti coloro che gli sono stati
vicini. Ci rimangono una profonda ammirazione per la fede e forza d’animo
con cui è vissuto fino all’ultimo respiro e la certezza che, dal cielo,
potrà fare ancora tanto per i suoi bambini e per quanti lo hanno
conosciuto. Ci mancherà moltissimo. Ma saremo ugualmente suoi testimoni,
concreti e puntuali, per continuare a fare vivere a Wamagana un pezzetto
di paradiso.

 


MISSIONARIO
«MAIUSCOLO»

Quando per
strada incontro un bambino mi ritorna alla mente ciò che padre Antonio
Giannelli ripeteva negli ultimi mesi di vita come un testamento. Adesso
che non c’è più, mi rendo conto di quanto amore avesse in cuore per i suoi
bambini e con quanta sofferenza avesse dovuto lasciare, nel maggio 1999,
la sua missione di Wamagana.

Da quel 23
gennaio, quando padre Antonio ci ha lasciati, per me e per tanti altri è
come se una parte della nostra vita se ne sia andata con lui; ma la sua
presenza continua a scandie i momenti sereni e tristi. Ricordo ogni suo
gesto e parola. Anche quando, scherzando, mi diceva «vattine», era per me
un momento di affetto, che rimarrà per sempre scolpito nella mente e nel
cuore.

Ho davanti
agli occhi alcune fotografie che rievocano i momenti sereni. Anche se
ormai la malattia aveva scalfito il suo fisico e ancor più il suo cuore,
riusciva a dimenticare la sofferenza per farci sentire tutta la sua
umanità, come nelle interminabili partite a carte, in cui boicottava il
gioco (perché non accettava di perdere) o davanti a un piatto fumante di
polenta e funghi, quando ringraziava il Signore per ciò che gli era
concesso, soprattutto per essere ancora con noi e poter dare ancora
qualcosa.

Da padre
Antonio abbiamo ricevuto molto. Col carattere spensierato e ribelle, a
volte incosciente, ci ha regalato momenti di gioia; col suo coraggio,
dignità e voglia di lottare, specie contro il male che lo stava
distruggendo, ha fortificato il nostro carattere. Con i suoi silenzi, la
riservatezza e (perché no?) la testardaggine, a volte sfrontata, ci ha
insegnato che l’amore per gli altri è più importante dell’amore per se
stessi.

Ricordo
anche la sofferenza e rabbia che provava quando si sentiva accusato di
gestire missione e progetti con criteri troppo personali. Per me e per chi
l’ha conosciuto a fondo, padre Antonio è stato e resterà sempre un
missionario con la «M» maiuscola, per tutto quello che ha fatto per la
gente delle missioni in cui ha lavorato per tanti anni; specialmente per i
«suoi bambini», che considerava tutti figli suoi, e per la comunità di
Wamagana, che riteneva la sua grande famiglia.

Il modo
migliore per ricordarlo e ringraziarlo di tutto quello che ha saputo e
voluto darci in tanti anni di amicizia, sincera e disinteressata,
consisterà nel continuare la sua opera, specialmente a favore dei «suoi
bambini». Glielo abbiamo promesso.

Federico Casarani




PUNTI INTERROGATIVI


Ripensando ai lunghi anni trascorsi in Kenya, un missionario si confessa.
È cambiato il modo di stare con la gente, di spiegare la salvezza dei non
cristiani di aiutare gli altri…
Ma,
anche se ci si può lamentare con Dio di fronte alle sofferenze dei
poveri,la cosa migliore da fare è ancora… fidarsi di Lui.

Siamo agli inizi

degli anni
’50. Sono le mie prime settimane di scuola e sto cercando di mettere
insieme le lettere dell’alfabeto, di leggere le prime parole. Però mi
sembra tutto tempo sprecato: niente entra in zucca! Un giorno la maestra
ci chiede di portare qualcosa per la «giornata missionaria mondiale». E
che cos’è?

Rumino la
parola «missione» lungo la strada… niente! Forse che la maestra non
lavora per noi? Ha bisogno anche lei di uno stipendio. Forse è proprio
questo che ci ha chiesto. Lo dico subito a papà e, immaginate la mia
delusione, quando mi risponde che è già pagata dal governo.

Missione.
«Sì, – mi spiegano – sono i neretti». Poverini! Devono avere ben freddo,
perché sono mezzi nudi. Mia sorellina ha una bambola moretta: la guardo,
la rigiro tra le mani… Sono anch’essi come noi. Cambia solo il colore
della pelle. Ma – continuo a chiedermi – come mai sono così? Forse che si
sono dati il lucido da scarpe?…

Erano
altri tempi. L’Italia era ancora «bianca e pulita», come sostengono alcuni
oggi. Per le nostre strade non si vedeva «gente di colore». Oggi tutto è
cambiato. Italia ed Europa stanno diventando sempre più color caffellatte
e nessuno si chiede più come sono i negretti. Gli anni sono passati e
anch’io, ormai, ho trascorso metà della mia vita in Africa. Sono
missionario. Ma perché?

Ci
dicevano e ripetevano che coloro che morivano senza battesimo andavano
all’inferno. Bisognava, allora, andare, battezzare, predicare. Questo,
però, mi ha sempre lasciato con molti punti interrogativi… In Kenya le
conversioni sono molte, i catecumenati pieni e tanti chiedono di conoscere
la fede cristiana. Lo Spirito lavora, anche se è tutta gente che viene
dalle religioni tradizionali.

Ma i
musulmani, gli hindu… non si convertono. Parlare loro di Gesù Cristo?
Sarebbe inutile. Penso al commerciante indiano che, ogni settimana,
provvede il pane all’orfanotrofio. Penso alla donna musulmana che ho
incontrato un giorno nel suo negozio, durante il ramadan, mese del
digiuno: stava ascoltando alla radio un programma musulmano, con il volume
assordante. Non capivo la lingua, ma sentivo che ripeteva sempre la stessa
litania e la ripeteva mentre mi serviva. Mi sono azzardato a chiedere che
cosa fosse. Un po’ sorpresa, mi ha risposto che si trattava della loro
preghiera, senz’altro strana, molto strana per noi.

Che gente
come questa dovesse andare all’inferno non l’ho mai pensato. Per fortuna
oggi la teologia è cambiata e in paradiso ci vanno molti di più. Il mio
compito è soprattutto quello di «testimoniare», condividere, essere
presente.

Ammiro tantissimo

i primi
missionari arrivati qui, nel centro del Kenya, all’inizio del secolo. Soli
e sperduti in un paese senza strade, tra gente indifferente e a volte
ostile, impossibilitati a comunicare non conoscendo la lingua del posto,
tagliati fuori dal loro mondo di origine… Quanta povertà!

Eppure ce
l’hanno fatta… Oggi alzo la cornetta e chiamo l’Italia, senza neppure
passare dal centralino. Ci sono strade, macchine. In città troviamo cibi
di ogni tipo e viviamo in case di pietra.

Ricordo un
mio compagno missionario che voleva vivere come loro, gli africani: cibo,
casa, mezzi di trasporto… Dopo qualche tempo si è ritrovato
all’ospedale: una degenza che l’ha fatto riflettere e gli ha fatto
cambiare qualche idea. Ho un’educazione, una formazione, una cultura, un
passaporto, una cittadinanza italiana. Quanti in Kenya vorrebbero averla.
Scapperebbero subito, per cercare fortuna in Italia. Sì! Sono ricco. Ma mi
sento anche tanto povero.

Povero,
perché vivo in un paese straniero, di cui non potrò mai conoscere appieno
la lingua e la cultura. La mentalità della gente è sempre un mistero,
anche dopo tanti anni. Povero, perché in certi uffici o parlando con certe
persone, sento chiaro il messaggio o l’invito (anche se non detto a
parole): è meglio che me ne torni nel mio paese.

Sì, sono
un povero ricco o un ricco povero! Senz’altro un segno di contraddizione:
amato, stimato, rispettato da molti… rigettato da altri. Testimonianza,
quindi, di un povero ricco. Ed è con la mentalità del ricco che sono
venuto. Avevo molto da dare. Ed era anche vero. Oggi, quando qualcuno mi
chiede un aiuto materiale, non posso dire che non ho niente. In fondo alle
tasche qualche monetina la trovo sempre.

Ma, dopo
tanti anni, mi accorgo che ho ricevuto molto dagli africani. Hanno valori
che noi non abbiamo o abbiamo perso: amore alla vita, solidarietà,
comunità, il gusto per la celebrazione… Quando sono in Italia, quelle
messe domenicali di 35 minuti, così slavate, proprio non mi dicono niente
o quasi. E non c’è modo di farle più lunghe, perché ti accorgi che la
gente comincia a guardare l’orologio o il parroco, dopo gli avvisi, ha già
detto ai fedeli: «In piedi per la preghiera finale».

E quella
volta che mi sono permesso di lasciare un minuto di silenzio dopo la
comunione, l’inserviente in sacrestia mi ha subito domandato se mi fossi
addormentato. Poteva permetterselo, perché… era mio nipote! Le
celebrazioni liturgiche in Africa, sempre così animate e piene di vita,
sono un’altra cosa.


Missione è presenza

dare e
ricevere, in un interscambio che arricchisce entrambe le parti. Sono
venuto giovane, entusiasta, pieno di vita, pensando di cambiare il mondo.
Mi accorgo ora, dopo tanti anni, che l’Africa ha cambiato me.

È appena
venuta una donna a chiedere aiuto: non ha di che sfamare la famiglia. So
che è sincera. È la seconda siccità di fila; sono mancate le piogge anche
quest’anno. Andando in giro, mi si stringe il cuore, quando vedo quel
granoturco così accartocciato. Ho trovato ancora qualcosa per lei nel
portafoglio. Ma domani avrà di nuovo fame. È nuvoloso, ma non cade una
goccia di pioggia per salvare in extremis questo granoturco e questi
fagioli. Niente. Chiedo a Dio, nella preghiera, che cosa stia facendo. Il
suo silenzio è terribile. Certo, se avessi creato io il mondo, l’avrei
fatto diverso. Non avrei permesso che tanta gente soffra la fame.

Ma forse è
meglio che lasci a Dio il suo mestiere. E io mi accontenti di essere un
povero testimone, che ha tanto da imparare. Un testimone che prega con
questa gente: «Dacci oggi, il nostro pane quotidiano». E quanto al mondo,
visto che non l’ho creato io, non sarò io a cambiarlo. Ma voglio offrire
il mio piccolissimo contributo per renderlo più umano, più abitabile.

È tutto
ciò che posso fare e che Dio mi consente… qui in Kenya. Gliene sono
grato. Molto grato.

Un missionario sereno