La parabola del «figliol prodigo» (6)
La Legge dell’impossibilità
«Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor 1,27)
Il confronto presentato il mese scorso tra la parabola del «figliol prodigo» e quella del pubblicano e fariseo al tempio insegna che i vangeli devono essere letti non a pezzetti o brani separati, ma nel loro contesto e visione globale. Tale confronto mette in luce che Lc 15 e Lc 18 (così pure il confronto tra il fariseo Simone e l’anonima prostituta in Lc 7,36-50) sono due modi per spiegare ai cristiani la teologia paolina della giustificazione: cuore di tutto il NT e nodo cruciale per i cristiani della prima e seconda generazione. I primi cristiani, in quanto ebrei, si consideravano depositari esclusivi della salvezza, ma entrarono in crisi quando videro che Dio accoglieva i pagani e su di essi effondeva lo Spirito senza differenza alcuna (cf At 10).
È un momento drammatico. L’accettazione nella comunità giudaico-cristiana dei pagani provenienti in massima parte dal mondo greco non fu pacifica né semplice. Ne fece le spese Paolo, che per tutta la vita si portò conficcata nel fianco «la spina» (cf 2Cor 12,7) del sospetto e del rifiuto da parte della comunità cristiana di Gerusalemme.
Fu uno scontro durissimo tra due correnti teologiche: da una parte Paolo, aperto al futuro e alla libertà; dall’altra Giacomo (all’inizio anche Pietro), che pretendeva che i pagani, prima di diventare cristiani, si convertissero al giudaismo, praticando la circoncisione e sottomettendosi ai precetti della Toràh. Vinse la linea di Paolo, assunta ben presto anche da Pietro (cf At 10; Gal 2).
Quando il «no» diventa «sì»
Vi sono nella scrittura vari esempi riguardanti coppie di fratelli o gemelli con i quali può essere confrontata la parabola del «figliol prodigo» per assaporae una profondità maggiore. La prima coppia riguarda due fratelli che il padre manda a lavorare nella vigna: essi si comportano in modo opposto alle parole che dicono: uno dice di sì e poi non ubbidisce, l’altro dice di no e poi, «pentito», ubbidisce.
«28Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. 29Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. 30Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Dicono: “L’ultimo”. E Gesù disse loro: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”» (Mt 21, 28-31).
Anche qui abbiamo due figli e due comportamenti: quello apparentemente obbediente, alla fine è disobbediente; quello esteamente appare ribelle, alla fine ubbidisce al padre. Il figlio che dice di sì e non va è il figlio maggiore di Lc 15 e il fariseo di Lc 18 e Lc 7; mentre il figlio che dice di no e poi esegue la volontà del padre è il figlio minore di Lc 15 e il pubblicano di Lc 18 e la prostituta di Lc 7.
Gesù commenta tale comportamento come schizofrenico: «Perché mi chiamate: Signore, Signore, e poi non fate ciò che dico?» (Lc 6,46). Mt dice che le parole non bastano per fare di noi i figli di Dio; solo l’identità con la sua volontà ci introduce nel mistero del suo cielo: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).
Stare «in» casa o essere «nella» casa
La specularità tra la coppia dei fratelli di Mt e quella dei fratelli di Lc è ancora più profonda perché svela la vera natura di ciascuno, al di là delle apparenze. Il maggiore afferma di avere detto sempre di sì nella sua vita: «Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando» (Lc 15,29), mentre in realtà ha sempre onorato il padre «con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mt 15,8; cf Is 29,13). Egli è sempre stato materialmente «in» casa di suo padre, ma non è mai stato «nella» casa del padre e con il padre, perché chiuso nel suo egoismo e vigliaccheria. Non si è neppure accorto che ogni giorno se ne andava molto più lontano del fratello minore, andato via da casa a vivere «da dissoluto» (v. 14). L’ossessione dalla «roba» ancora oggi gli preclude ogni possibilità di conversione.
Al contrario, il figlio minore ha abbandonato il padre e la casa materialmente, ma in fondo al cuore il padre è rimasto sempre presente; la decisione del ritorno gli viene dalla «memoria» del padre, della cui accoglienza egli non dubita: «Rientrò in se stesso e disse… Mi leverò e andrò da mio padre» (vv.15,17.18). Il minore non è «in casa», ma è sempre rimasto «nella» casa con suo padre e, trovandosi in «un paese lontano» (v. 13) ne sente nostalgia e mancanza (v. 17).
Peccato per difetto o per eccesso
Ancora una volta si capovolgono le situazioni: il «lontano» diventa «vicino»; chi crede di stare dentro la casa si trova fuori, estraneo. Tutti e due i figli peccano nei confronti del padre; ma mentre il minore, assillato da un bisogno errato di libertà, pecca per eccesso e per esuberanza, il fratello maggiore, accecato dall’egoismo, pecca per difetto, cioè per grettezza, perché dominato dalla paura e dalla religione del dovere, cioè da una religiosità basata sul tornaconto.
Chi pecca per eccesso, spesso lo fa per amore, mentre chi pecca per grettezza, lo fa sempre per interesse. La parabola dei due figli «incoerenti» in Mt precede immediatamente quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46) e anche la versione lucana dei vignaioli (Lc 20, 9-29) segue il racconto del «figliol prodigo». La conclusione sia di Mt che di Lc è inevitabile: quando il Figlio dell’uomo verrà, «affiderà ad altri la vigna» (Lc 20,16) perché i vignaioli che si era scelti sono risultati indegni. Scribi e sommi sacerdoti «avevano capito che quella parabola l’aveva detta per loro» (Lc 20,19). La parabola dei due fratelli di Mt si conclude con lo stesso insegnamento di Lc: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31).
La conclusione a cui arriva Mt è dura per gli orecchi pudichi dei benpensanti che hanno passato la vita a fare calcoli e confronti tra quanto hanno dato a Dio e quanto hanno ricevuto in cambio, tra la loro integerrima facciata di perbenismo e la pretesa di essere annoverati tra i giusti: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31). I pubblicani li abbiamo incontrati nel versetto iniziale della parabola: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo», che corrisponde nel contenuto a «pubblicani e prostitute» di Mt. Gli uni e gli altri sono impuri e Gesù, se vuole essere fedele osservante della Toràh e della morale religiosa, deve allontanarli da sé perché diventerebbe impuro anche lui. Gesù invece mangia con loro (Mt 9,11).
La persona prima della norma
Al tempo di Gesù, il giudeo era ossessionato dall’osservanza della Toràh che la tradizione aveva codificato in 613 precetti: era il primato della norma sulla persona. Gesù con le sue parabole (pastore/donna e padre con i due figli; i due figli incoerenti, i vignaioli, ecc.) opera un radicale cambiamento di prospettiva e annuncia la novità del suo messaggio, che si può sintetizzare nel principio nuovo che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,2). Gesù non esita a disubbidire alla norma e trasgredire i precetti, pur di salvare coloro che erano esclusi dalla convivenza civile e religiosa. Gli specialisti del sacro e della religione non si sporcano le mani, come il sacerdote e lo scriba che, incontrando un povero mezzo morto, pur di non toccarlo cambiano marciapiede (Lc 10,31-32).
«Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?» (Lc 5,30). Non sono più i comportamenti esteriori che contano, ma la disponibilità del cuore e la coerenza nella verità. Ora nessuno può più dire che per lui non c’è salvezza: gli affamati sono invitati alla mensa e gli esclusi entrano a fare parte del Regno. In Lc 15,1 abbiamo già commentato il verbo «si avvicinavano», riferito ai pubblicani e ai peccatori. Ora però possiamo immaginae la scena più concretamente, terribile per quel tempo e affascinante nella sua prospettiva: reprobi e condannati dalla società religiosa, pieni di paura e circospezione, consapevoli di essere disprezzati per la loro innata impurità, passo dopo passo «si avvicinano» all’Uomo che pronuncia parole nuove e dense di una speranza mai udita: «Un uomo aveva due figli…» (Lc 15,11).
Il vangelo del grembo
Egli parla per loro, parla solo a loro, è venuto esclusivamente a cercare i peccatori, pubblicani e prostitute, per i quali era «come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Os 11,4) e ai quali ha portato il «vangelo del grembo»: voi siete generati e amati da Dio; voi peccatori ed esclusi siete prediletti da Dio; voi disprezzati e reietti dalla società dei finti religiosi siete i beniamini di Dio; voi che siete scappati dalla casa del Padre per paura o per pudore, tornate nel grembo di Dio, che non vi ha mai abbandonato, perché «mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore (Lc 4,18-19).
Il padre della parabola lucana accoglie il figlio minore che, secondo la giustizia umana, non ne aveva diritto e invece è di nuovo reintegrato nell’«anno di grazia» e per lui ricomincia la vita e l’avventura dell’amore: «Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”» (Lc 5,31-32). Ora è compiuto per sempre l’anelito del salmista che desiderava partecipare all’incontro della misericordia con la fedeltà e vedere la giustizia mentre bacia la pace (cf Sal 85/84,11).
La voglia di andarsene lontano
Un Midrash ebraico descrive la storia della salvezza come un costante e progressivo allontanamento dell’uomo da Dio: «Più li chiamavo, più si allontanavano da me» (Os 11,2). Da Adamo il ribelle a Caino l’assassino, da Lamech l’immorale agli uomini di Sodoma e Gomorra, alla generazione della torre di Babele e lungo tutta la storia, l’uomo ha camminato in direzione opposta a quella del giardino di Eden. Per ogni generazione che pecca e provoca l’allontanamento della Dimora/Shekinàh di Dio dalla terra, sorge una generazione giusta che avvicina la Presenza alla terra:
«Quando peccò il primo uomo, la Dimora salì al primo cielo; peccò Caino e salì al secondo cielo; con la generazione di Enoch al terzo; con la generazione del Diluvio al quarto; con la generazione della torre di Babele al quinto; con i sodomiti al sesto e con gli egiziani ai giorni di Abramo al settimo. Al contrario, vi furono sette giusti: Abramo, Isacco, Giacobbe, Levi, Keat, Amram, Mosè con il quale la Dimora discese di nuovo sulla terra, al Sinai, come era sulla terra, all’Eden, prima del peccato (di Adam)» (cf Midrash Numeri Rabbà XIII,4; Genesi Rabbà XIX, 13 =Cantico Rabbà, V,1).
Questi insegnamenti Gesù respirò fin da bambino: coloro che si ritenevano giusti o pii erano soddisfatti di se stessi perché contribuivano a portare la Dimora di Dio sulla terra. Allontanare empi e impuri dalla loro vista e dalla vita era opera meritoria, un atto di culto.
Gesù sconvolge ogni prospettiva e modo di pensare, perché ora è Dio stesso che stabilisce definitivamente la sua dimora in mezzo agli uomini: «Il Lògos (Verbo, Parola) carne (fragilità, debolezza) fu fatto e si attendò (piantò la sua tenda) in mezzo a noi» (Gv 1,14). Veramente strano questo Dio di Gesù Cristo, che non si diverte affatto a condannare le persone, ma non si dà pace finché non li salva, specialmente se sono incapaci anche di meritarlo.
Il perdono di Dio, che è il suo unico modo di essere giusto, non si limita a cancellare il male, ma rigenera la persona a nuova vita come se rinascesse nuovamente (cf Gv 3,3-8). «Donna… nessuno ti ha condannata? Nessuno, Signore… Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,10-11). Lc nella parabola descrive il padre che «commosso, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (15,20) con una serie di quattro azioni in un rapporto di crescendo musicale, dal piano al fortissimo che travolge il lettore in una dimensione di puro amore.
Il perdono fonte di gioia
La parabola lucana, abbiamo detto, potrebbe essere catalogata come il «vangelo del grembo», perché in ebraico il termine misericordia deriva dalla parola rahamìm che richiama l’utero materno nell’atto di generare alla vita (cf Sal 51/50,3). Il termine «commosso» usato dalla traduzione italiana è troppo povero per esprimere la densità e intensità del greco «esplanchnìsthê», che traduce a sua volta l’ebraico «rachàm», che significa «grembo/utero» materno, sottolineando che la misericordia non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia.
Questo è il cristianesimo nel suo ideale supremo. Questo dovrebbe essere il cattolicesimo. Questa dovrebbe essere la vita e testimonianza dei credenti. Da quando Gesù è morto sulla croce, giudizio, condanne, moralismo, perbenismo, tutto è morto con lui, perché da quella croce, nuovo monte Sinai della Nuova Alleanza, scendono non più due tavole di pietra, ma il grembo e la tenerezza che hanno il volto umano e divino dell’Uomo Gesù.
Una costante: lo schema «maggiore/minore»
Nella puntata n. 3 (MC 6-7, 2006, p. 63) abbiamo accennato allo schema del fratello minore che subentra al fratello maggiore nella linea della discendenza o dell’eredità, o semplicemente nella linea della storia della salvezza, perché il minore che ha sperperato la sua parte di eredità viene riammesso di nuovo nel diritto di ereditare alla morte del padre (v. simbolismo dell’anello al v. 22).
Questo schema costituisce una «legge», una costante invariabile di tutta la rivelazione e che noi codifichiamo così: Dio sceglie ciò che agli occhi della logica umana è impossibile per realizzare il suo progetto di salvezza.
Questa norma, descritta attraverso i comportamenti nell’AT, giunge a diventare espressamente «parola rivelata» nel NT con Paolo: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-29). Ne rileviamo alcuni esempi, tra i più rilevanti.
a) Fratelli insanguinati. In Gen 4,1-20 si narra del fratricidio del fratello maggiore, Caino, che uccide il fratello minore Abele. Anche qui un conflitto tra due mondi: un contadino (sedentario) e un pastore (seminomade) vivono in perenne conflitto e reciproca gelosia. L’insegnamento del racconto è semplice: chi non accetta la dipendenza da Dio e non ne riconosce la pateità, non può riconoscere la frateità, che invece vede come impedimento e ostacolo da eliminare. Il figlio maggiore di Lc 15 non accoglie il fratello perché è lontano dal loro padre.
b) L’inganno: Esaù/Giacobbe. In Gen 25,19-34 si narra che Dio si ricordò di Rebecca, sposa sterile di Isacco, ed ella rimase incinta di due gemelli che sarebbero stati capi di due popoli. Dio disse a Rebecca: «Un popolo prevarrà sull’altro, il maggiore servirà il minore» (Gen 25,23c). Il maggiore, partorito per primo, è Esaù; il minore, partorito per secondo, è Giacobbe (Gen 25,26). Secondo il diritto Esaù avrebbe dovuto continuare la discendenza di Isacco e invece egli vende la sua primogenitura al fratello minore Giacobbe che con uno stratagemma imbroglia il padre e il fratello (Gen 27,146).
c) L’incesto: Rerach/Perez. In Gen 38 si narra la storia dell’incesto di Tamar, che pur di ottenere giustizia secondo la Toràh (Dt 25,5), non esita a travestirsi da prostituta per concepire da suo suocero che, senza saperlo, la lascia incinta di due gemelli: Perez e Zerach (Gen 38,30). Zerach avrebbe dovuto essere il primogenito; invece al momento della nascita è soppiantato dal gemello Perez che ritroveremo nella genealogia di Mt come antenato di Gesù con il nome di Fares (Mt 1,3; Lc 3,33). Un altro fratello minore che soppianta il maggiore.
d) Lo scambio: Manasse/Efraim. In Gen 48, si narra di Giacobbe che, ospite di suo figlio Giuseppe, vice re d’Egitto, ormai vecchio e cieco, vuole benedire i due figli che Giuseppe ebbe dalla moglie egiziana Asenèt: Manasse il primogenito ed Efraim il secondogenito. Giuseppe colloca il figlio maggiore davanti alla mano destra di Giacobbe e il minore davanti alla mano sinistra, affinché il vecchio padre possa compiere il rito della trasmissione secondo la legge. Ma al momento di benedire Giacobbe incrocia le braccia e inverte la benedizione: «Israele stese la sua mano destra e la pose sul capo di Efraim, che pure era il più giovane, e la sua sinistra sul capo di Manasse, incrociando le braccia, benché Manasse fosse il primogenito… Così pose Efraim prima di Manasse» (Gen 48,14.20c). Dio guida la storia secondo suoi criteri per noi inverosimili.
e) L’ultimo sarà il primo: Davide e i 7 fratelli. In 1Sam 16,1-13 si narra che Dio manda il profeta Samuele a cercare il successore del re Saul tra i figli di Iesse. Il profeta fa venire i primi sette uno ad uno; vorrebbe consacrare Eliab, il primogenito. Dio lo scarta, come gli altri sei. Rimane l’ultimo, «il più piccolo che ora sta pascolando il gregge» e a cui nessuno presta attenzione, tanto che non è stato nemmeno invitato. Dio, invece, sceglie lui, il più piccolo e dimenticato che diventerà il re Davide, il consacrato dal cui casato discenderà il Messia d’Israele.
Tutti questi avvenimenti hanno in comune la legge dell’impossibilità: coloro che non hanno diritto sono scelti per proseguire la discendenza di Abramo fino al Messia, mentre coloro che ne hanno il diritto naturale lo perdono. Nella logica di Dio tutto si capovolge, perché in lui non c’è la giustizia come misura tra eguali, ma l’amore senza confini, la cui misura è l’accoglienza come premessa per un amore più grande e senza condizioni.
A scuola di Maria di Nazareth
È la stessa logica che domina e dirige il comportamento del padre della parabola lucana: egli ama il figlio minore non meno del figlio maggiore, ma tra i due non fa le parti uguali: ama secondo il bisogno e la necessità di ciascuno, senza togliere con questo nulla all’altro.
La logica del padre misericordioso che accoglie il figlio minore, nonostante l’opposizione del maggiore l’ha bene capita Maria di Nazareth, l’ultima degli ‘anawin/poveri di Yhwh di cui si fa portavoce e garanzia: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53).
È la stessa logica che Lc illustra nelle beatitudini della pianura, quando il Figlio di Maria di Nazareth darà agli altri lo stesso nutrimento che egli ha ricevuto da sua madre: «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Beati voi che ora piangete, perché riderete. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» (Lc 6, 21-25). [continua – 6]
Paolo Farinella