Angioletto nero

Ricordando un missionario … e il suo estro artistico

Nato a Moncalieri (TO) nel 1927, Giulio Cesare frequenta la scuola di avviamento professionale, si specializza come incisore di metalli e per un decennio si dedica a tale professione. All’età di 25 anni entra nell’Istituto dei missionari della Consolata. Terminato il percorso formativo a Rosignano Monferrato, Certosa di Pesio e Torino, viene ordinato prete nel 1962. Due anni dopo parte per il Kenya e vi lavora fino al 1970, quando è richiamato in Italia, per attendere alla formazione degli studenti del seminario teologico di Torino. Dal 1976 ricopre vari incarichi, come superiore di comunità ad Alpignano e Gambettola, parroco di San Martino (Alpignano) e Regina delle Missioni (TO), animatore di gruppi laicali. Per 30 anni continua a mettere a disposizione dell’Istituto, confratelli e amici le sue doti di artista, fino alla sua scomparsa, avvenuta ad Alpignano il 17 novembre 2006.

Quando il giovanotto Giulio Cesare manifestò al suo datore di lavoro la nuova vocazione a cui si sentiva chiamato, l’orefice torinese esclamò sconsolato: «Chiudo bottega. Mi mancherà la mia mano destra!». Sì, perché il nostro nuovo acquisto alla causa missionaria aveva… l’oro nelle mani. Anche una comunissima scritta sulla copertina di un quaderno diventava un piccolo capolavoro.
Entrato nel seminario per vocazioni adulte a Rosignano Monferrato (AL), lo studente Giulio Cesare imparò a faticare sui libri, destreggiandosi con latino e greco, invece che fondendo oro e modellandolo in spille e anelli. Ma il gusto artistico rimase e si perfezionò.
Ancora prima di diventare sacerdote (1962), durante gli studi di teologia, i pennelli si abbinarono alla penna e tante cupe e monotone stanze del seminario maggiore di Torino acquistarono luce e gioia con i colori alla «Giulio Cesare», così li ribattezzammo.

Vari anni dopo ci ritrovammo insieme in Kenya nella diocesi di Meru. Il vescovo mons. Lorenzo Bessone aveva un gran bisogno di un segretario tuttofare. In quel concetto di «tuttofare» era compreso anche il compito di preparare nuovi progetti di chiese, asili, scuole, centri sociali, mostre…, che la diocesi, in fase di grande sviluppo, necessitava. Il nostro «artista» era davvero un mago nei suoi disegni e novità.
Mago lo era pure nel modo di eseguire certi progetti. Forse, la sua «magia di esecuzione» era dovuta a una caratteristica del maestro artista: la sua generosità nel dire sempre di sì a tutti e le sue grandi distrazioni.
Tante volte abbiamo visto padre Giulio fare il saltimbanco per completare un’opera, o addirittura incominciae l’esecuzione, il giorno prima dell’inaugurazione. Una di tali «avventure» mi è rimasta stampata nella mente con inchiostro indelebile: si trattava di allestire uno stand  nella fiera agricola locale, alla quale la diocesi di Meru era stata invitata per far conoscere al pubblico le varie opere realizzate o in fase di progettazione in diverse parti del territorio. In modo particolare bisognava illustrare i progetti che riguardavano il problema dell’acqua!
Mancava un giorno all’apertura della fiera. Lo stand offriva in quel momento ai curiosi (i soliti scugnizzi) una lunga tela di sacco e nulla più. Quel mattino, padre Giulio arrivò con un camioncino zeppo di barattoli, scope e pennelli. Scaricò tutto davanti a sé e poi si mise pensieroso ad ammirare il panorama di sacco, grattandosi la barbetta. Poi intinse un pennellone dentro un bidone di colore, lo assicurò a un manico di scopa e via… partì in quarta «sporcando» quella tela lunga più di 30 metri. Dieci minuti di sosta, tanto per dar modo al colore di asciugarsi un poco e… via un’altra cavalcata.
«Cosa sta facendo questo muchenge?» (bianco) si domandavano i curiosi. Il muchenge si allontanò di una quindicina di metri a meditare la prossima manovra. Poi partì deciso senza ripensamenti, dal bel mezzo della lunga tela. Qui un’ombra nera, là un tocco di verde, macchiette sparpagliate di ocra.
Qualcosa di familiare cominciava ad apparire… ma non troppo. Ultimo spazzolone: sì, perché davvero questo era uno spazzolone tanto era grande. Un cielo azzurro prese a coprire quel lungo accavallarsi di colori sottostanti e l’inconfondibile silouette della grande montagna sacra del Kenya prese a far capolinea come da una massa di nubi. Zak e zak! Ed eccoti servito.
Fu uno scroscio di mani e un bornato di approvazione: la giogaia del monte Kenya era ora tutta davanti agli spettatori increduli. E c’era ancor tempo per il sole pomeridiano per asciugare quella distesa di colori.
Inutile dire che il giorno seguente la giuria assegnò il primo premio allo stand diocesano.

Tra padre Giulio e il sottoscritto c’è stato un piccolo segreto, che oggi posso rivelare, dato che il missionario ci ha lasciati. È un segreto che inizia con una storia triste. Era il 7 gennaio 1965, festa di san Luciano.
Appena tornato dalla cava di sabbia, dove ero andato a far rifoimento per i lavori della missione, la suora del dispensario mi chiama e mi fa vedere, in braccio a un uomo, un fagotto di stracci con un bimbo di età indefinita, moribondo.
Si decide di fare almeno un tentativo: portarlo all’ospedale.
Vestito come sono da manovale muratore, carico l’uomo e il bimbo e cerco di accelerare i tempi. Ci son cinque chilometri per giungere all’ospedale, ma su una strada da specialisti in autocross.
Tengo d’occhio il bimbo. Lo vedo aprire gli occhi alla ricerca di un ultimo filo di vita. Non sono neppure a un terzo del tragitto e manca proprio il più difficile. In prima ridotta il Land Rover si arrampica come può.
Decido di fermarmi. Mettiamo il bimbo sull’erba perché possa respirare meglio. Mi faccio coraggio e inizio un dialogo con l’uomo che sostiene il moribondo.
– Ni mekriste? (è cristiano)?
– Are (no).
– Vuoi che lo battezzi?
– È affare tuo! (come per dirmi: fai quello che credi bene).
Afferro la bottiglia dell’acqua che per prudenza ho sempre nella cabina del camioncino. Ohimé! è vuota. Neppure una goccia. Avevo infatti aggiunto poco prima acqua nel radiatore. Ora l’acqua più vicina è a venti minuti di corsa.
Sento però l’acqua del radiatore bollire e uno spiffero di vapore uscire da qualche parte. Afferro il tappo della bottiglia e raccolgo con ansia le poche gocce che si condensano.
«Luciano, vai con gli angeli di Dio. Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Mi è venuto così spontaneo ricordare mio fratello che in Italia celebrava san Luciano.
Meno di un minuto e … quell’angioletto è già in paradiso.
Con fare guardingo l’uomo ha già nascosto tra gli stracci il morticino. Se lo è messo in cabina tra le gambe. E mi dice di tornare alla missione. Giunto a casa, devo tribolare non poco per capire le intenzioni dell’uomo. Mi supplica di portarlo nella foresta. Toccare i morti per lui è tabù. Potrebbe essere costretto a fare un sacrificio agli spiriti.
Lo faccio salire nel cassone posteriore del camioncino e giunto nel bosco appena fuori della missione, faccio marcia indietro per isolarmi il più possibile nel semibuio delle piante. Vedo l’uomo scendere guardingo, armeggiare un pochino con il suo machete per scavare una buca… Poi tutto diventa silenzio. Anche l’uomo è sparito. Sotto dieci centimetri di terra, coperto da poche foglie, giace il corpicino del piccolo Luciano. La iena, nella stessa notte non faticherà a portarselo via!

Quell’angioletto, mandato per direttissima in paradiso con quattro gocce d’acqua rugginosa, continuò a occupare i miei sogni per almeno tre anni, finché un giorno mi venne un’idea. Avevo pregato padre Giulio Cesare di farmi una «vetrata» per la nuova chiesa parrocchiale di Amugenti. Si trattava di una vetrata «all’africana»: carta velina a colori racchiusa tra due vetri, ma dall’effetto strabiliante!
Padre Giulio cominciò a fare un bozzetto. Mentre lo guardavo, mi venne in mente il piccolo Luciano. E cominciai a cantare:
«Pittore ti voglio parlare
mentre dipingi un altare.
Io sono un povero negro
e d’una cosa ti prego.
Pur se la Vergine è bianca…
fra gli arcangeli ti prego
metti un angioletto nero!».
Raccontai la storia dell’angioletto a padre Giulio. Si commosse anche lui e mi fece la sorpresa. Tutte le volte che ammiro nel mio breviario la foto di quella vetrata, penso a quel bimbo che più di 40 anni fa avevo battezzato con quattro gocce d’acqua, portato nella foresta e mai più trovato.
Avevo concordato con padre Giulio di non dire a nessuno come mai in quella vetrata c’è un angelo bianco e un angelo nero. Ora lo sapete anche voi. 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Inceneritori: quale alternativa?

Una tematica che accende il dibattito

A seguito dell’articolo «Bruciare i rifiuti? Una pessima idea» comparso sul numero di marzo, un lettore ben documentato chiama in causa gli autori. «Articolo fazioso, impostazione più ideologica che scientifica». È meglio la discarica o l’inceneritore? Gli articolisti rispondono.

Spettabile redazione,

ho letto con attenzione l’articolo sugli inceneritori, riportato sul numero di marzo di MC. Peccato per l’ambiguità con la quale è stato trattato l’argomento come risulta evidente fin dal titolo: «Bruciare i rifiuti? Una pessima idea».
Al presente nessuno pensa agli inceneritori – non uso il termine termovalorizzatori, che non piace ai redattori del servizio – per «bruciare i rifiuti», bensì a impianti per eliminare la sola parte non riutilizzabile.
È pur vero che, qua e là, nell’ampio servizio, si ammette anche l’eventualità della destinazione all’incenerimento del Cdr (combustibile derivante dai rifiuti, meglio definibile frazione secca), ma l’insieme dell’articolo e dei numerosi riquadri, presenta gli inceneritori come distruttori di tutti i rifiuti, definiti «tal quale» e, di conseguenza, come produttori di velenosi inquinanti.
Mi è difficile credere all’esistenza di inceneritori che brucino il «tal quale», se non altro perché sarebbero talmente inefficienti e avrebbero tali problemi di gestione e di emissioni, da non poter funzionare a lungo. Lo stesso inceneritore di Brescia, non di ultima generazione, non brucia il «tal quale», ma rifiuti selezionati. L’inceneritore di Rho, più recente, risulta molto efficiente e con bassissime emissioni. L’inceneritore del Gerbido e gli altri allo studio in Italia dovrebbero essere non certo inferiori a quello di Rho e pertanto non quei mostri di inquinamento come nel servizio sono presentati.

È semplicemente faziosa l’affermazione di Paolo Moiola, posta come giudizio finale del servizio (pag. 60), che raccolta differenziata ed inceneritore sono antitetici.
È vero invece l’esatto contrario, poiché gli inceneritori presuppongono la raccolta differenziata in quanto rappresentano una delle fasi della stessa, insieme agli impianti di preselezione e trattamento, dopo la raccolta domiciliare delle frazioni divise.
Il servizio su MC, cercando di accreditarsi come scientifico, presenta un profluvio di dati scelti artatamente, ma che, se anche veri, nell’insieme dicono solo mezza verità, perché trascurano diversi aspetti del complesso problema. Si tratta di una impostazione più ideologica che scientifica.
Senza addentrarmi troppo nella questione, faccio rilevare che l’incenerimento dei rifiuti è l’ultimo anello di una lunga catena e che se non si tiene conto di ciò che sta a monte, si rischia di sbagliare clamorosamente il giudizio.

Suonano quasi irrisorie le ultime 7 righe e mezzo dell’articolo, in un servizio di 8 (otto) pagine, nelle quali si fa un fiero riferimento a «nuovi stili di vita» per ridurre i rifiuti!
Certamente il nodo del problema sta proprio nello smodato e ottuso consumismo. Questo, oltre a mettere a disposizione una esagerata quantità di beni, con relativi rifiuti, si porta appresso modalità irrazionali, spesso senza senso, di confezionamento dei prodotti, da quelli alimentari a quelli di tutti gli altri generi. Non di rado il contenitore è più consistente del contenuto.
Allora una fondamentale questione riguarda la messa in circolo di materiali già in partenza definibili rifiuti. Una campagna seria contro gli inceneritori dovrebbe innanzitutto puntare a promuovere in tutti i modi consumi più sobri e nel proporre modalità diverse di imballaggio, attualmente oltremodo esagerate e impostate sul vuoto a perdere.
Questo è un problema affrontabile solo in sede politica. Soltanto leggi appropriate possono dare una svolta incisiva. Perché non imporre una tassa alla sorgente su certi contenitori, tale da rendere conveniente il loro riutilizzo, anziché il passaggio immediato ai rifiuti? Perché non il divieto, «tout court», dell’utilizzo di certe plastiche non riciclabili, di difficile combustione e producenti inquinanti micidiali, compresa la diossina?

È faticoso spendersi per cercare di ottenere modifiche del modo di progettare «le cose», del confezionarle, del trasportarle! Significa scontrarsi con l’inerzia e l’interesse del mondo industriale e commerciale. Si presenta un ulteriore ostacolo di non facile superamento: la modifica del comportamento di tanti ormai consolidati consumisti e, a seconda della latitudine, più o meno restii a sottostare alle regole della differenziazione dei rifiuti domestici.
In attesa di una rivoluzione copeicana di là da venire, che facciamo?
Topino e Novara sparano a zero sugli inceneritori ma, visto che la produzione dei rifiuti continua imperterrita, questi dove li mettiamo?
Con la raccolta differenziata si fa un passo nella direzione giusta, quindi è utile verificare a che punto siamo. Si va da un 10% nel Sud a un 25-30% al Nord. Sono pochi i comuni virtuosi che arrivano al 50%, quota in Italia ritenuta un buon obiettivo! Ci accontentiamo di ben poco se ci poniamo a confronto dei paesi del Nord Europa, in cui la percentuale raggiunge il 90% e dove sono usati gli inceneritori.
Quindi come sanno i redattori del servizio, fatta la raccolta differenziata, rimane una consistente quota di «indifferenziato» che va selezionata per separare l’umido, ancora in qualche modo riciclabile come «compost» e che se fosse avviato all’inceneritore lo metterebbe in crisi. Ciò che rimane, la «frazione secca», costituisce il 15-30% del totale, che va in qualche modo eliminata.
Se escludiamo aprioristicamente l’incenerimento, non rimane che la discarica! Questa è la preferenza che emerge evidente dal servizio.
Perché allora si tace delle discariche, ormai dappertutto strapiene e le cui collinette (non più tanto «ette») incominciano a modificare la «sky line» delle città? Per correttezza andrebbe detto quanto le discariche siano vere «bombe ecologiche», lasciate in eredità alle future generazioni, con tanto di problemi di inquinamento delle falde, caratteristici miasmi (il profumo città), ecc.

La maggior parte delle discariche ha accolto senza differenziazione tutti i tipi di rifiuti e, per non dovee aprire di nuove, obiettivo principale di tutto il ciclo della raccolta dei rifiuti differenziata, il poco spazio disponibile va utilizzato nel modo più intelligente possibile, riducendo al minimo il conferimento di materiale.
Risulta pertanto evidente quanto sia essenziale la raccolta differenziata, che andrebbe ben diversamente sostenuta, da quanto oggi facciano le amministrazioni comunali, ma anche quanto sia essenziale la combustione di ciò che non è riciclabile in alcun modo, ricavandone comunque ancora un po’ di energia elettrica e termica. Non è molto importante il valore economico di ciò che si ottiene, neppure in grado di portare in pareggio il bilancio, ma il fatto di ridurre al minimo i rifiuti irriciclabili, ovvero a meno della metà quel 15-30% di Cdr.
Finora si sono procrastinate le scelte, con il tipico vizio italiano, quando posti di fronte a problemi difficili, meglio dire, impopolari, ma ormai il problema non può più essere eluso.
Qualcuno mi saprebbe dire cosa ne faremmo delle «ecoballe» napoletane, se altri paesi europei non le accogliessero per incenerirle, facendosi pagare «il giusto» per il favore? E dei rifiuti industriali, di cui ogni tanto si ha notizia di clamorose «esportazioni» nei cosiddetti paesi poveri, con procedure sicuramente criminose e incivili?

Siamo di fronte a scelte né facili, né indolori, e nessuna entusiasmante. In attesa di incidere radicalmente sulla fonte della produzione dei rifiuti, per le quali, sì, occorre spendersi generosamente, la scelta è per il male minore.
Occorre una opinione pubblica ben informata e perciò mi permetto di richiamare chi si rivolge a dei lettori, al dovere di grande onestà intellettuale, al dovere di estrema correttezza. Non possono essere sottaciuti aspetti del problema che potrebbero condurre il lettore a conclusioni diverse da quelle auspicate dallo scrivente.
Diversamente siamo di fronte non a informazione, ma a un tentativo ideologico e fazioso di indottrinamento. «Missioni Consolata» non può essere luogo per simili comportamenti.
In attesa di una gradita risposta saluto cordialmente.

Piero Coletto
Rivoli (TO)

Gentile Sig. Coletto,

abbiamo letto la sua lettera di critica al nostro articolo sugli inceneritori. Nel mondo scientifico, la critica svolge la fondamentale funzione di obbligare gli studiosi a documentarsi a fondo prima di affermare qualsiasi concetto e, nel contempo, a cercare sempre nuove soluzioni per risolvere un problema. Tuttavia la critica, per essere costruttiva, deve sempre essere a sua volta supportata da un’accurata documentazione e non solo da opinioni personali.
Il «profluvio» di dati da noi prodotto per, come lei dice, accreditare come scientifico il nostro lavoro, ha lo scopo di evidenziare un aspetto inquietante degli inceneritori e cioè il loro impatto sulla salute umana e sull’ambiente in generale. Lei sostiene che «tali dati, anche se veri, dicono solo mezza verità, perché trascurano diversi aspetti del complesso problema». Sicuramente ci sono altri aspetti del problema dello smaltimento dei rifiuti, tutti importanti e meritevoli di accuratissima disamina, ma quello dell’impatto sulla salute pubblica li supera tutti di gran lunga e chi opera nel settore sanitario ha in primo luogo il dovere di occuparsi per l’appunto di salute e di ciò che può nuocere alla medesima. Nella sua critica questo aspetto pare essere invece di secondaria importanza.

Per quanto riguarda poi la sua deduzione, secondo cui da questo articolo si evincerebbe la nostra preferenza per la discarica, vorremmo precisare che, sebbene essa non sia la soluzione ideale, è sempre meglio una discarica controllata, piuttosto che una discarica per rifiuti speciali (tossici), come è quella necessaria per lo smaltimento dei fanghi, delle ceneri e delle polveri derivanti dall’inceneritore. Non abbiamo tuttavia fatto alcun elogio per la discarica in nessuna parte dell’articolo.
Alcuni punti della sua lettera richiedono una risposta particolareggiata.
In primo luogo, lei contesta l’ambiguità del titolo: «Bruciare i rifiuti? Una pessima idea». Il titolo non è ambiguo, è univoco: numerosi studi scientifici hanno dimostrato un aumento di malformazioni nei bambini e di tumori, nelle zone dove sono attivi gli inceneritori. Sono lavori dell’Istituto Oncologico Veneto per il rischio di sarcoma, dell’Università di Firenze per i linfomi non Hodgkin, di ricercatori ed epidemiologi di varie parti del mondo, per le malformazioni del palato (labbro leporino) e per l’endometriosi. In particolare lo studio realizzato nella regione Rhone Alpes (comprende i centri di Lione, Nimes e Montpellier) dell’Institut Européen des Genomutations ha constatato un numero considerevole di nascite di bambini malformati correlato alla presenza di inceneritori. Ricordiamo inoltre il recente studio dell’Associazione Cardiologi sul rischio micropolveri e sulla loro diretta responsabilità nella crescita di morti per infarto.

Di seguito lei scrive che le riesce difficile credere all’esistenza di inceneritori che brucino il «tal quale», se non altro perché «sarebbero talmente inefficienti e avrebbero tali problemi di gestione e di emissioni, da non poter funzionare a lungo» e cita come esempio l’inceneritore di Brescia, anche se fonti verificabili (Il Gioale del 12 febbraio 2007) riferiscono che tutti i rifiuti di Brescia finiscono nel termovalorizzatore e, conseguentemente, la raccolta differenziata non ha più motivo di essere fatta. L’affermazione di Paolo Moiola, che lei definisce «semplicemente faziosa», secondo cui «raccolta differenziata ed inceneritore sono strumenti antitetici» risulta dimostrata dai fatti.
Dopo aver illustrato le sue considerazioni, lei indica l’incenerimento come il male minore; facciamo due conti: in base a studi condotti su un modeissimo inceneritore italiano, per ogni tonnellata di rifiuto incenerito si producono 7.600 nanogrammi di diossine, che si ritrovano nelle ceneri pesanti, 2.700 nanogrammi nelle ceneri leggere e 170 nanogrammi nei fumi: in totale per ogni tonnellata di rifiuto incenerito sono 10.470 i nanogrammi di diossine immesse nell’ambiente. Poiché in una tonnellata di attuali rifiuti urbani si trovano mediamente solo 2.700 nanogrammi di diossine, (valore in calo di pari passo alla minore immissione di diossine da attività umane inquinanti) l’affermazione che gli inceneritori sono macchine che, per ridurre i volumi di scarti non pericolosi, producono rifiuti (solidi ed aeriformi) pericolosi, è una affermazione assolutamente corretta. Questo conteggio riguarda la sola diossina, la cui quantità viene quadruplicata dall’inceneritore, ma bisogna sempre considerare anche tutti gli altri veleni, che abbiamo descritto dettagliatamente nell’articolo che lei contesta.

Tra gli inquinanti prodotti dall’incenerimento abbiamo ricordato le polveri sottili e vorremmo aggiungere una breve considerazione sui filtri anti-particolato (FAP), che degradano le polveri fini PM10 riducendone la presenza nelle emissioni (anche dei veicoli a motore).
Bisogna fare molta attenzione perché degradare non vuol dire far scomparire. È stato dimostrato che con il filtro anti-particolato le PM10 vengono combuste e diventano PM2,5 o PM1, che sono molto più pericolose.
Dato che in Italia la legge prevede il monitoraggio delle sole PM10, le aziende hanno trovato questo sistema (legale) che consiste nel trasformare i PM10 prodotti (sottoposti a controllo ambientale) in qualcosa di ancora più fine e pericoloso (che non è sottoposto a controllo).
La pubblica amministrazione dovrebbe prendere atto che la produzione di queste polveri ultra sottili (che prendono il nome di nanopolveri) è molto più nociva per le persone e di conseguenza dovrebbe prescrivere controlli più approfonditi.

È  quanto meno strano, poi, che lei si sia accorto solo delle ultime sette righe e mezzo su otto pagine, per quanto riguarda il monito a nuovi stili di vita perché, ad esempio, quanto lei suggerisce circa il pagamento di una tassa o di una cauzione sui contenitori, in modo da favorie il riutilizzo è stato ampiamente citato nel lavoro, così come il ricorso al riciclaggio.
Probabilmente la sua è stata una lettura un po’ frettolosa, altrimenti si potrebbe pensare, data l’acredine della sua lettera, che la critica al nostro lavoro sia stata dettata più da una forma di cointeressenza con la costruzione e/o la gestione degli inceneritori, che dalla reale ricerca della soluzione meno pericolosa e più idonea per il problema dei rifiuti.

Il nostro comportamento, che lei giudica «un tentativo ideologico e fazioso di indottrinamento», non è volto ad indottrinare i lettori (nel mondo scientifico si procede con dimostrazioni), ma a cercare di fare il possibile per lasciare ai nostri figli e alle generazioni future un mondo meno inquinato. Forse anche fare informazione può servire allo scopo, per cui, consci del fatto che quanto scriviamo può risultare sgradito a qualcuno, tuttavia riteniamo importante invitare i lettori a riflettere.
Infine, per quanto riguarda il suo richiamo «al dovere di grande onestà intellettuale e al dovere di estrema correttezza», le ricordiamo che i professionisti nel settore della salute rispondono al giuramento di Ippocrate, che prevede la tutela della persona e non degli interessi economici, in questo caso, dei costruttori degli inceneritori e dei loro «amici».
La ringraziamo, in ogni caso, per il suo interesse sull’argomento, che ci ha dato la possibilità di approfondire il discorso, in particolare sugli aspetti sanitari.
A disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti, porgiamo cordiali saluti.

Roberto Topino e Rosanna Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




La parabola del «figliol prodigo» (11): Quando desiderare tutto signigica possedere nulla

«Tutto mi è lecito». Ma io non mi lascerò dominare da nulla

N ella puntata precedente abbiamo elencato i sedici affreschi dei vv. 13-16 ed esaminato i primi sette riportati nel v. 13. Proseguiamo l’approfondimento esaminando altri tre affreschi contenuti nel v. 14.

Quando ebbe speso tutto
Al v. 13 avevamo lasciato il figlio giovane che aveva «raccolto tutto»; ora, al v. 14, lo ritroviamo che ha «speso tutto». Nella vita del giovane figlio, il «tutto» è sinonimo di «nulla». Al raccolto possessivo corrisponde la dispersione immediata. L’illusione di essere ricco non si è ancora sedimentata che già si trova vuoto di tutto. Aveva considerato il «possesso» della ricchezza il fondamento della sua libertà e si ritrova la povertà assoluta che diventa precarietà e inconsistenza. Voleva essere «adulto» e indipendente, ma ha solo dimostrato di essere imprevidente e incapace di calcolare le sue forze.
È evidente che nello «sforzo» superficiale di «spendere tutto» c’è anche il sarcasmo che egli non ha speso «del suo» perché il «tutto» come abbiamo visto era la vita del padre, che egli ha sperperato e svenduto.
Il «figlio più giovane» è il vero erede di Adam ed Eva che nel giardino di Eden, pur avendo tutto («di tutti gli alberi del giardino puoi mangiare», Gen 2,16), vogliono ancora di più e aspirano all’esclusività assoluta, cioè prendere il posto di Dio e possedere «l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,17). Solo così possono affrancarsi dalla libertà reale che posseggono e che essi ritengono insufficiente, ritenendosi capaci di una libertà infinita.
Adam ed Eva si ritrovano «nudi», cioè spenti di vita e di luce, senza alcun potere e privi della loro stessa personalità. «Nudi» che scappano a nascondersi in mezzo agli alberi del giardino (Gen 3,10): desiderare una libertà maggiore di quella che si può contenere genera frustrazione e paura.
Una persona libera che si nasconde è una contraddizione esistenziale. Come i suoi progenitori, il giovane fi-glio è «nulla» in sé e per l’ambiente che lo circonda: egli è in «un paese lontano», dove per essere qualcuno deve comprare non gli amici, ma i compagni di baldoria. Spende tutta la parte di padre di cui si era impossessato per accreditarsi per quello che non è: un uomo ricco. Alle prime avvisaglie di una avversità, crolla la ricchezza che non c’è mai stata e sprofonda lui stesso nella sua inconsistenza. Inaspettata giunge una «potente carestia», che frantuma tutti i sogni del giovane illuso.
La libertà non è mai affrancarsi da qualcuno o da qualcosa perché resterebbe una finta libertà esteriore, cioè solo materiale. Non avere catene ai piedi non significa affatto essere liberi. La libertà è un atteggiamento dell’anima, un moto dello spirito che si compie e si realizza in gesti concreti di liberazione. Il giovane figlio non è libero nel cuore, perché egli è schiavo delle sue «presunte» ricchezze con le quali ha confuso la vita stessa di suo padre. Perdute le ricchezze, disperso il «patrimonio», egli annaspa nel vuoto e nel nulla. Si è liberi quando non si ha nulla da difendere perché nulla appartiene a chi ha regalato anche la propria libertà.
La persona libera è il povero nello spirito (Mt 5,3) perché accoglie i suoi stessi bisogni come compagni di viaggio senza mai trasformarli in padroni o peggio in «idoli» a cui ogni giorno bisogna sacrificare un pezzo di sé. È libero colui che sa dipendere dalle relazioni che sperimenta come strutture di crescita e come strumenti per generare altre relazioni che a loro volta generano ancora pienezza di vita. La persona gretta invece vive le relazioni (affettive, di amicizia, con Dio) in modo e forma «golosi», ma non ha tempo per assaporarli perché è solo preoccupato e occupato di avere di più per ritrovarsi alla fine senza nulla in mano e in cuore.

In quel paese venne una
carestia grande
(lett.: forte/potente)
Non basta allontanarsi dalla casa del padre per essere autonomo: la soglia di casa non è il confine tra l’autonomia e la dipendenza, ma la misura del confronto sia in casa che fuori. Il figlio giovane ora si trova in «quella regione» che diventa anche tragica, perché arriva la carestia. Nella casa di suo padre poteva raccogliere «tutto» ciò che non era nemmeno suo, mentre lontano da casa può incontrare solo la fame, cioè la privazione anche del necessario per vivere.
Da un punto di vista letterario, l’espressione è «una forte/potente carestia» ed è collocata al centro del versetto; sembra quasi personificata, perché domina la scena come un fantasma pauroso. Non è solo carestia, è anche «potente» ed è contrapposta alla scena tragica del giovane che ha «speso tutto». Da una parte il vuoto totale, la nullità, e dall’altra la potenza della fame che avanza e sovrasta. Il viaggio della libertà è durato poco, lo spazio di una illusione.
Giobbe sconsolato e frustrato esclama: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre (= dalla terra) e nudo vi farò ritorno» (Gb 1,21), mentre il giovane della parabola lucana, non solo non è uscito «nudo» dalla casa di suo padre, perché aveva «raccolto tutto», cioè la metà della vita del padre, ma ora si trova anche nudo e senza niente. Per chi ha preteso «tutto» è un bel successo!
Il giovane è l’opposto del patriarca Abramo, che andò in Egitto a causa di una «carestia» (Gen 12,10). Luca usa la stessa espressione greca: «egèneto limòs – accadde/avvenne una fame/carestia». Il patriarca fugge dalla carestia e va in Egitto alla ricerca di cibo; il giovane fugge dal cibo e va verso la carestia. Il patriarca guarda al futuro; il giovane lucano guarda a se stesso. Abramo lascia la sua terra perché costretto; il figlio lascia la casa di suo padre per scelta e decisione. Abramo sta seguendo il disegno di Dio, suo Padre; il figlio si allontana dal padre che considera un ostacolo ai suoi disegni. Abramo commette una indegna ingiustizia (per salvare se stesso, non esita a concedere sua moglie Sara all’harem del faraone, Gen 12,12-13), ma lo fa per paura di trovarsi in terra straniera; il figlio va volutamente in «una terra lontana» a sperperare la vita del padre.
Anche Giacobbe, il fondatore delle dodici tribù, manda i figli due volte in Egitto, allontanandoli da sé e dalla propria terra. La prima volta «perché nel paese di Canaan c’era la carestia» (Gen 42, 5) e la seconda volta perché «la carestia andava diventando potente/forte» (Gen 43,1). Giacobbe allontana i figli da sé per salvarli dalla morte, mentre il figlio della parabola si allontana dopo avere ucciso il padre per raccogliere in forma di patrimonio la stessa vita patea che ha preteso anzitempo.
Giacobbe pensa alle generazioni future, il figlio lucano semplicemente non pensa: è troppo occupato a godersi la vita per accorgersi che sta arrivando la carestia. Egli crede di essere radicato nel presente e dà sfogo al suo carpe diem: «Fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero – Fugge il tempo geloso: cogli l’attimo e confida meno possibile nel domani» (Oratio, Carmina I,11,7-8). È talmente immerso nel suo presente da non accorgersi di essere già nel passato, in quel vuoto esistenziale da cui voleva fuggire, ma da cui non può scappare, perché nessuno può fuggire da se stessi, in quanto noi non possiamo non inseguirci dovunque andiamo.
Il testo greco è puntiglioso perché non dice che la carestia piombò «in quel paese», ma usa la preposizione  «katà – giù per» con l’accusativo, nel senso di «lungo quella regione», con valore distributivo locale, col significato di dappertutto: «Avvenne/accadde una carestia forte/potente lungo tutta quanta/dappertutto in quella regione».
Nemmeno un anfratto è sicuro, non c’è un posto dove ripararsi dalla fame. Il «paese lontano» del v. 13, verso cui camminava il desiderio di liberazione dal padre, ora diventa una prigione senza scampo e senza futuro: dappertutto c’è carestia e privazione. Anticipo di morte e di tragedia.

Ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno
Il verbo greco «hysterèō» significa «manco/sono privo/escluso» ed è preceduto da un verbo ausiliare «àrchō – io comincio a», per cui si può dire che indica un’azione ingressiva, che cioè sta per iniziare e di essa ora si vede solo il principio, ma è destinata a durare nel tempo o nello spazio. Inizia una nuova storia, imprevista e non programmata.
Il bisogno come privazione di qualcosa era assolutamente impensabile e quindi bandito dai pensieri del giovane figlio. Egli aveva un solo ed esclusivo bisogno: lasciare la casa del padre per affrancarsi da ogni forma di dipendenza e di bisogno; il suo unico bisogno era affrancarsi dall’affetto del padre, che considera opprimente. Questo unico bisogno diventa il motore della sua vita futura che egli immagina roseo, spensierato e senza problemi economici: egli ha «tutto» con sé ed è sufficiente a se stesso. Non ha bisogno della dipendenza nemmeno affettiva.
Egli deve andare lontano; il suo desiderio di libertà non nasce dal suo cuore, ma si misura solo con il metro della distanza. Più si allontana dalla sorgente della vita, più s’illude di trovare la pienezza di vivere. Tutto sacrifica per questo miraggio: padre, fratello, casa, amici, terra. Anche Dio diventa superfluo, mero accessorio. Quando il bisogno s’ingigantisce, fino a diventare una esigenza irrefrenabile, anche Dio si trasforma in ostacolo; anzi, in un persecutore senza cuore, qualcuno da cui allontanarsi.
Il giovane somiglia allo stolto del vangelo che avendo avuto uno straordinario raccolto non sa come gestire l’abbondanza e sogna una vita piena di sé e di ricchezze, prevedendo un futuro ancora più ricco: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divèrtiti! Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,16-21, qui 19-21). Coperti di ricchezze, hanno schiacciato la vita e con essa i bisogni e anche i sogni.
Il figlio della parabola sperimenta sulla sua pelle le parole del castigo predette dal libro del Deuteronomio e che egli avrebbe dovuto bene conoscere: «Non avendo servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame [gr. limòs], alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa; essi ti metteranno un giogo di ferro sul collo, finché ti abbiano distrutto» (Dt 28,57-48).
Nella bibbia la carestia o la fame (con la siccità) è sempre un castigo mandato da Dio, come conseguenza dell’allontanamento da lui o come segno dell’assenza della parola di Dio (Am 8,11) e quindi della mancanza di profezia. In una parola, la carestia significa che Dio ha abbandonato a se stesso Israele che ha rotto l’alleanza con il Signore (cf Ez 5,17).
Il giovane non ha servito il Signore «in mezzo all’abbondanza» nella casa del padre, ora sperimenta la logica conseguenza del suo peccato voluto e con determinazione perseguito: sarà schiavo (come vedremo commentando il v. 15) e sperimenterà ogni sorta di privazione: fame, sete, nudità e ogni altra sventura che lo soggiogheranno, riducendolo a uno stato animalesco, fino al livello più infimo oltre il quale è impossibile andare per un Ebreo: compagno e commensale dei porci. Egli non è andato solo «in un paese lontano», cioè in terra pagana, si è diretto invece nel regno dell’impurità che lo rende inabile alla preghiera e al sacrificio cultuale. Diventando impuro, egli si allontana dall’intimità e diventa estraneo a Dio e a se stesso.
Non è Dio, non è il padre a infierire sul giovane e la carestia non è un capriccio di Dio per farlo rinsavire; al contrario la fame, la sete e il bisogno improvvisi sono il risultato o, se si vuole, il segno esteriore della condizione interiore in cui l’uomo si trova. Attraverso le scelte libere e autonome, il figlio più giovane si esclude da sé dalla pateità, dalla frateità, dalla comunione (casa) per restare solo e privo di tutto. Bisogno e privazione, solitudine e fame sono le cicatrici della sua insipienza che non ha saputo pensare alla carestia in tempo di abbondanza (cf Sir 18,25).
Dopo avere speso tutto, non gli resta che il nulla totale, perché pur di mangiare qualcosa, egli vende addirittura se stesso, negando la sua stessa natura e apparendo per quello che realmente è: un morto che vive in una regione morta, devastata dalla carestia.  (continua – 11)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Quello infide fibre d’amianto

Un problema grave, a lungo sottovalutato

Ne parlava anche Plinio il Vecchio, che lo chiamava «lino vivo». Ne scrisse
Marco Polo ne Il Milione.  Le proprietà dell’amianto sono note da tempo.  
Per questo è ovunque. Chi non conosce i tetti in «onduline» (Eteit)
o i pavimenti in «linoleum»? Senza dire degli utilizzi non immediatamente riconoscibili. Da anni, si è scoperto che l’amianto è molto pericoloso per la salute, essendo causa di neoplasie fatali. Per questo è stato messo
al bando in molti paesi, ma – considerata la sua diffusione e le lacune
normative – i suoi effetti si faranno sentire a lungo. E pesantemente.

In igiene industriale vengono considerate «fibre» tutte le particelle allungate, di tipo aghiforme, con un rapporto lunghezza/diametro almeno pari a 3:1, un diametro uguale o inferiore a 3µ e una lunghezza uguale o superiore a 5µ (micron; cfr. MC, febbraio 2007, Glossario). Per avere un’azione patogena le fibre devono essere respirabili, cioè devono essere in grado di giungere fino al comparto polmonare più profondo, quello alveolare. Solo le fibre con diametro inferiore a 3µ e con lunghezza non superiore a 200µ possono essere respirate.
Questi requisiti sono posseduti dalle fibre d’amianto, un materiale ampiamente usato in svariate produzioni industriali, proprio grazie alla sua struttura fibrosa. Infatti tale struttura si rivela indispensabile per certi tipi di lavorazioni. Ad esempio, nell’industria tessile non si potrebbe fare a meno di materiali in grado di essere filati, così come nell’industria dei materiali compositi, cioè quei prodotti in cui una componente solida particellare viene inglobata in una matrice amorfa resinosa, o di altra natura, per formare un complesso resistente. In particolare, in questo secondo tipo d’industria, i materiali fibrosi sono usati specialmente perché possiedono una superficie maggiore a parità di volume, rispetto alle particelle rotondeggianti, quindi offrono una maggiore possibilità d’interazione chimica e un contatto fisico più ampio con i componenti della matrice.
Per questo motivo l’amianto, formato da fibre dotate di elevata resistenza alla tensione, grande flessibilità, grande resistenza al calore e agli acidi, è stato ampiamente utilizzato nelle più diverse produzioni industriali, finché non è stato messo al bando in molte nazioni tra cui l’Italia, una volta provata la sua cancerogenicità.

L’amianto nella storia

L’utilizzo dell’amianto inizia in epoche lontane.
Per via della sua proprietà di poter essere filato e di resistere al fuoco, veniva utilizzato, ad esempio, per produrre tovaglie che venivano ripulite sulla fiamma, stoppini per le lampade e lenzuola per cremare i cadaveri.
Plinio il Vecchio lo chiamava «lino vivo», con riferimento alla facilità con cui poteva essere tessuto.
Grazie alla sua resistenza al fuoco, nel Medioevo fu associato con la salamandra e con questo nome Marco Polo, ne Il Milione, definì un minerale che veniva filato per fare delle stoffe, che non bruciavano se gettate nel fuoco.
Il nome commerciale salamandra venne dato ai primi materassi per termocoibentazione in amianto prodotti industrialmente.
La rivoluzione industriale iniziata con l’invenzione del telaio meccanico e, nella seconda metà del xix secolo, con l’utilizzo diffuso della macchina a vapore e dei processi di fusione dei metalli, determinò un forte aumento dell’impiego dell’amianto al fine di non disperdere il calore dei foi, delle caldaie e dei tubi per la distribuzione del vapore.
La produzione di amianto arrivò a superare i 5 milioni di tonnellate all’anno.
Sempre per via delle sue proprietà isolanti, l’amianto è stato utilizzato in Europa per produrre manufatti per l’edilizia come canne fumarie, tubi dell’acqua, tetti (ondulati di cemento-amianto), intercapedini (cartongesso), pavimenti (linoleum).
L’amianto è stato anche utilizzato, mescolato a caldo con il catrame, per impermeabilizzare i tetti piani.
Molto pericolosa è stata l’applicazione a spruzzo, al fine di ottenere uno strato isolante per pareti e soffitti. L’amianto in polvere veniva soffiato con l’aria compressa insieme a una colla liquida (tipo Vinavil). Inutile dire che la lavorazione sviluppava nubi di polvere, ma va anche detto che lo strato isolante così ottenuto non era compatto e, dove è stato applicato, può rilasciare ancora oggi grandi quantità di fibre di amianto nell’ambiente.
Sempre al fine di proteggere dal calore e insonorizzare, è stato fatto un largo uso di amianto anche nei mezzi di trasporto: lo troviamo nelle locomotive e nei vagoni dei treni, nelle intercapedini delle navi, nei ripari dei motori, nei freni e nelle frizioni degli autoveicoli.
Per quanto riguarda il settore ferroviario, basti pensare, ad esempio, che in una carrozza ferroviaria passeggeri potevano essere collocate anche 2 tonnellate di materiale coibente.
Proprio nel settore dei trasporti si concentra ben il 25% delle neoplasie da asbesto complessivamente indennizzate dall’Inail dal 2001 al 2005.
Ben sapendo che possono passare decine di anni dal momento dell’esposizione a rischio all’insorgenza di una neoplasia provocata dall’amianto, anche se questo pericoloso minerale è stato messo al bando, dovremo aspettarci numerosi casi di patologie neoplastiche almeno per altri venti anni.
Si mantiene infatti elevato, rispetto al complesso delle neoplasie professionali, il numero di quelle causate dall’asbesto, con oltre 400 casi/anno riconosciuti (1), il 75% dei quali sono casi di mesotelioma pleurico, che sono in costante aumento; infatti prima del 2000 i casi riscontrati erano circa 100 all’anno (2).
Anche l’asbestosi rimane una delle principali patologie polmonari di origine professionale: nel quinquennio 2001-2005 ne sono stati riconosciuti dall’Inail più di 1.300 casi, di cui il 25% diagnosticato nel settore trasporti (3).

L’amianto oggi

Nonostante la messa al bando in Italia nel 1992, il rischio amianto è ancora attuale, ad esempio, per gli operai impegnati nella manutenzione o nei lavori di bonifica.
Possiamo trovare amianto anche in oggetti di uso comune, tipo foi da cucina, asciugacapelli, stufe elettriche, assi per stirare, presine e guanti da foo.
Non dimentichiamo che tuttora in Russia, in Canada, in Cina e in altre parti del mondo, l’amianto viene ancora utilizzato e possiamo trovarlo in manufatti importati.
In Europa, alla fine degli anni Novanta, l’amianto è stato messo al bando; ma, mancando una normativa che ne imponesse la bonifica, lo possiamo trovare ancora oggi in gran quantità e in condizioni sempre peggiori per via del deterioramento causato dal tempo.
L’amianto è un rischio professionale e ambientale di proporzioni catastrofiche. I dati di cui la letteratura scientifica sanitaria dispone a livello mondiale riportano che l’amianto è stato responsabile di oltre 200.000 morti negli Stati Uniti, e si stima che procurerà altri milioni di morti in tutto il mondo (4).
È grave dover riscontrare che questa enorme tragedia era annunciata e poteva essere evitata, non utilizzando l’amianto.

È attorno a noi

I minerali di amianto vengono suddivisi in due grandi gruppi: il serpentino e gli anfiboli. C’è un solo tipo di amianto derivato da minerale di serpentino, il crisotilo, noto anche come amianto bianco. Gli anfiboli comprendono cinque tipi di amianto: amosite, crocidolite, tremolite, antofillite e actinolite. Due di questi sono le varietà di maggior valore commerciale: l’amosite, o amianto marrone, e la crocidolite, o amianto blu. Gli altri anfiboli sono di scarsa importanza commerciale. Indicazioni iniziali che il crisotilo potesse essere meno pericoloso di altri tipi di amianto non sono state confermate (5). Attualmente la maggioranza dei lavori scientifici dimostra che anche il crisotilo causa tumori, compresi il cancro polmonare e il mesotelioma (6). Anche il crisotilo canadese, privo di anfiboli, è associato a mesoteliomi (7).
Gli effetti sull’uomo sono conosciuti da quasi un secolo.
Negli anni Venti del secolo scorso si cominciarono a studiare gli effetti dell’amianto sull’organismo, evidenziando le situazioni di accumulo nei polmoni (asbestosi); nei decenni successivi si cominciarono ad osservare gli effetti neoplastici di queste fibre, dal carcinoma polmonare al mesotelioma pleurico e peritoneale, che possono colpire non soltanto i lavoratori, ma anche la restante popolazione, a causa della presenza di amianto anche negli ambienti estei alle industrie, ad esempio nelle città.
I temibili effetti sulla salute hanno determinato dapprima la messa al bando delle lavorazioni più inquinanti, per esempio la coibentazione a spruzzo, e dell’utilizzo dell’amianto nell’industria alimentare, dove serviva per filtrare il vino o per la cottura dei biscotti. Da non dimenticare che l’amianto è stato utilizzato anche nei filtri delle sigarette.
Come già accennato prima, l’amianto è stato messo al bando, ma rappresenta ancora oggi un rischio non solo per i lavoratori, ma anche per i cittadini.
In molti casi, quando si riscontra un tumore da amianto, non si riesce a individuare una causa di rischio legata al lavoro svolto.
È ormai ben noto che anche l’inalazione delle fibre di amianto presenti negli ambienti urbani può essere fatale a distanza di tempo.

Quante fibre di amianto
respiriamo al giorno?

Viene spontaneo chiedersi: quanto amianto può essere pericoloso?
Studi condotti su diverse città italiane (Milano, Casale Monferrato, Brescia, Ancona, Bologna, Firenze), hanno evidenziato concentrazioni aerodisperse di amianto crisotilo comprese tra 0,1 e 2,6 fibre/litro. A Torino, per esempio, viene confermato da esperti del Politecnico e dell’Inail che la concentrazione media di amianto è di 1 fibra/litro. Per legge, il primo livello di allarme indicativo di una situazione di inquinamento è di 2 fibre/litro. Il livello stabilito dalle normative mette al riparo dal rischio di ammalarsi di asbestosi, ma gli studiosi concordano sul fatto che non evita il rischio cancerogeno.
Lo stato della Califoia ha cercato di dare un valore soglia e ha stabilito, come livello di rischio non significativo, il valore di 100 fibre al giorno di amianto crisotilo, che per essere correttamente misurato richiederebbe di avere a disposizione una tecnica strumentale e una procedura in grado di raggiungere un limite di rilevabilità pari a 0,005 fibre/litro (8).
Gli strumenti attualmente utilizzati non hanno una tale precisione, ma servono solo a misurare concentrazioni molto più elevate. Il limite di sensibilità degli apparecchi «a norma» si ferma a 0,4 fibre/litro per cui anche superando fino a 80 volte il livello stabilito dagli studiosi califoiani, i nostri rilevatori continuerebbero a segnare zero.
Ma quanto amianto respiriamo?
Con la presenza di una fibra/litro, ipotizzando un volume di aria respirata di 18 metri cubi al giorno, si può ritenere, con buona approssimazione, che un uomo respiri in un giorno 18.000 (diciottomila) fibre di amianto; questo valore viene definito «concentrazione di riferimento ambientale».

Dalla II Guerra mondiale
alle ricerche di oggi…

Circa 10 anni fa, il compianto prof. G. Scansetti (Dipartimento di traumatologia, ortopedia e medicina del lavoro dell’Università di Torino) in un articolo scientifico dal titolo «L’amianto ieri ed oggi» scriveva: «L’ultimo effetto largamente documentato, il più temibile anche per la restante popolazione, è stato il mesotelioma multiplo maligno, della pleura e del peritoneo. Se in ambito professionale nel nostro paese ci dobbiamo attendere effetti ormai soltanto riconducibili ad esposizioni “storiche”, la storia degli effetti sulla popolazione generale per la (bassa) contaminazione generale è tutta da scrivere» (9).
Il professore ricordava anche gli studi relativi al cancro polmonare associato all’esposizione all’amianto citando, tra l’altro, due lavori di uno studioso tedesco, Nordman (10), che nel 1941, con Sorge, diede anche la dimostrazione sperimentale (11).
Fra il 1943 e il 1944 un altro studio di Wedler citò anche «carcinomi pleurici» nelle sue statistiche, tedesche, sui tumori all’apparato respiratorio degli asbestosici (12).
Il prof. Scansetti ricordava anche un effetto negativo, non secondario, indotto, fra gli altri, dalle guerre: gli statunitensi e, più in generale, gli alleati non credettero a questi risultati dei tedeschi – pur giunti a loro conoscenza – perché sospettati di essere menzogne manipolate ad arte dal nemico: basti pensare ai lavori di coibentazione, con grande utilizzo di amianto, a bordo delle navi da guerra.
Le preoccupazioni di allora del prof. Scansetti trovano oggi riscontri precisi.
Il ministero della salute sottolinea che a differenza dell’asbestosi, per cui è necessaria un’esposizione intensa e prolungata, per il mesotelioma non è possibile stabilire una soglia di rischio, ossia un livello di esposizione così ridotto all’amianto, al di sotto del quale risulti innocuo. Il decorso della patologia tumorale è molto rapido e la sopravvivenza è in genere inferiore a un anno dalla prima diagnosi. Non sono state individuate terapie efficaci.
L’Università di Torino (Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Sezione di Anatomia Patologica) in un lavoro del 1997 dal titolo eloquente «Implicazioni medico-legali della diagnosi di mesotelioma» (F. Mollo, D. Bellis) riporta che: «È stato ripetutamente affermato che esposizioni molto lievi e brevi possono causare lo sviluppo del mesotelioma maligno (13,14,15). Ma in pratica la dose-soglia cumulativa (al di sotto della quale sia da escludere nel caso singolo la possibile azione carcinogenetica dell’amianto nei confronti del mesotelioma maligno) non è definita (16), e forse non è definibile».

L’Europa si muove

Il problema dell’amianto è ben conosciuto in Europa e l’Italia ha recentemente recepito la direttiva 2003/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 marzo 2003, che modifica la direttiva 83/477/CEE del Consiglio sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro. In un paragrafo della direttiva si ricorda che: «Non è stato ancora possibile determinare il livello di esposizione al di sotto del quale l’amianto non comporta rischi di cancro». 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara


(1) Rapporto annuale INAIL 2005
(2) Rapporto annuale INAIL 2000
(3) Dati INAIL sull’andamento degli infortuni sul lavoro, Giugno 2006
(4) Sixth Collegium Ramazzini Statement (1999)
(5) UNEP, ILO, WHO, 1998
(6) Smith e Wright, 1996; Stayner, Dankovic e Lemen, 1996
(7) Frank, Dodson e Williams, 1998
(8) Fondazione Salvatore Maugeri, Concentrazione di riferimento ambientale dell’amianto crisotilo in aree urbane: l’esperienza della città di Pavia, IRCCS, Pavia 1997
(9) Fondazione Salvatore Maugeri, L’amianto ieri e oggi,  IRCCS, Pavia 1997
(10) Nordman M., Der Berufskrebs der Asbestarbeiter, Z. Krebsforsch, 1938; 47: 288-302
(11) Nordman M., Sorge A., Lungenkrebs durch Asbeststaub in Tierversuch, Z. Krebsforsch 1941; 51: 168-182
(12) Wedler H.W., Asbestose und Lungenkrebs, Dtsch. Med. Woch. 1943; 69: 575-576
(13) Bertazzi P.A., Piolatto G., Epidemiologia mondiale ed italiana, in Mesotelioma Maligno, Ed. Regione Piemonte, Torino 1985, 18-31
(14) Scansetti G., Piolatto G., Pira E. Il Rischio da Amianto Oggi, Ed. Regione Piemonte, Torino 1985
(15) De Vos Irvine H., Lamont D.W., Hole D.J., Gillis C.R., Asbestos and lung cancer in Glasgow and the West of Scotland. Br. J. Med., 1993; 306: 1503-1506
(16) Doll R., Peto J., Asbestos: Effects on Health of Exposure to Asbestos, London: Health and Safety Commission, HMSO, 1985

Il Glossario di «Nostra Madre Terra»

L’ABC DEL PROBLEMA 

Amianto: è stato abbondantemente usato nell’industria dall’inizio del secolo scorso fino alla metà degli anni Settanta, dopodiché, data la sua pericolosità, è stato sempre meno utilizzato, fino alla totale messa al bando in alcuni paesi. In Italia è stato bandito dalla legge 257/92. Tra i suoi effetti patologici ricordiamo l’asbestosi, la formazione delle placche pleuriche e il mesotelioma pleurico e peritoneale.

Asbestosi: è la fibrosi polmonare da amianto, caratterizzata dalla formazione di granulomi, contenenti al centro una o più fibre di amianto, che appaiono rivestite da un’incrostazione ad astuccio, formata da proteine ad alto contenuto di ferro e calcio, provenienti dall’ospite. Queste strutture vengono chiamate anche «corpuscoli dell’asbesto» e possono essere reperite sia nel tessuto polmonare, che nell’escreato del paziente. La reazione infiammatoria, di cui la formazione dei granulomi è una parte, richiama la presenza dapprima di granulociti e poi di macrofagi e linfociti, cioè di globuli bianchi con funzione di difesa. In particolare i macrofagi esercitano un’azione di fagocitosi verso i corpuscoli dell’asbesto; tuttavia, poiché le dimensioni di tali corpuscoli vanno da 5µ a 100µ, quindi spesso sono al limite delle dimensioni del macrofago, la fagocitosi da parte di quest’ultimo risulta spesso incompleta. In molti casi, inoltre, il macrofago, che ha inglobato il corpuscolo, va in necrosi, perché al suo interno vengono liberati enzimi litici, quindi la cellula muore e il corpuscolo dell’asbesto può penetrare in un altro macrofago. All’accumulo dei macrofagi e alla loro necrosi si associano altre manifestazioni infiammatorie, tra cui reazioni vasculo-essudative e fibroblastiche, con produzione di sostanza fondamentale e di fibre (tipici materiali del tessuto connettivo), da cui la fibrosi.

Fagocitosi: attività esplicata principalmente dai macrofagi, ma anche da altri globuli bianchi, tra cui i granulociti, consistente nell’inglobare all’interno della cellula un corpo estraneo, grazie ad opportuni movimenti della membrana cellulare, che lo avvolge. Si forma così un vacuolo digestivo, all’interno del quale vengono riversati degli enzimi litici, da parte di organuli cellulari detti lisosomi. In tale modo il corpo estraneo viene quasi sempre digerito, tranne in casi particolari, come quello delle fibre di asbesto (vedi testo).

Fibroblasti: sono le cellule principali del tessuto connettivo, responsabili della produzione di fibre collagene ed elastiche, nonché della sostanza fondamentale, in cui le fibre sono immerse. Nel connettivo, le cellule sono distanziate tra loro e le fibre e la sostanza fondamentale si trovano negli spazi intercellulari. La maggiore o minore compattezza ed elasticità del tessuto sono date dalla quantità e qualità delle fibre, nonché dalle condizioni della sostanza fondamentale, che si presenta come un gel, la cui fluidità dipende dal rapporto tra acido ialuronico e acido condroitinsolforico, due mucopolisaccaridi di cui è costituita.

Fibrosi: abbondante produzione di fibre collagene, da parte dei fibroblasti (reazione fibroblastica), con funzione di riempimento di una lesione.

Granulociti: globuli bianchi ricchi di granulazioni, da cui il nome, capaci di movimenti ameboidi (assottigliamento della cellula e possibilità di strisciare), che consentono loro di fuoriuscire dai capillari sanguigni e raggiungere l’area d’infiammazione, dove esplicano anch’essi la funzione di fagocitosi, ma solo su particelle piccole come i batteri, a differenza dei macrofagi, che sono in grado d’inglobare anche cellule intere. I granulociti sono di tre tipi: neutrofili, eosinofili e basofili, a seconda del colore assunto dalle granulazioni, con le comuni colorazioni di laboratorio; il diverso colore corrisponde a vari tipi di enzimi contenuti nei granuli.

Granuloma: è una funzione infiammatoria cronica, circoscritta e caratterizzata da una reazione cellulare esuberante dovuta soprattutto a macrofagi, linfociti e plasmacellule. Rappresentano di solito la risposta del connettivo ad un processo infettivo specifico o comunque all’ingresso di un agente estraneo.

Linfociti: globuli bianchi responsabili della difesa di tipo specifico del sistema immunitario. Appartengono a due categorie: B e T. I linfociti B, una volta riconosciuto l’antigene estraneo, si attivano, si trasformano in plasmacellule e iniziano la produzione di anticorpi (o immunoglobuline), che vengono riversati nel sangue e vanno a legarsi in modo altamente specifico, secondo un meccanismo chiave-serratura, all’antigene, determinandone la distruzione mediante l’attivazione di un sistema enzimatico detto complemento, oppure la precipitazione e successiva eliminazione. I linfociti T hanno un’attività citotossica altamente specifica, per cui dopo avere riconosciuto l’antigene, si avvicinano alla cellula estranea e la uccidono (linfociti T killer), per rottura della membrana cellulare. I linfociti T sono particolarmente attivi nelle reazioni di rigetto, nei trapianti d’organo. La risposta specifica del sistema immunitario è più tardiva, rispetto a quella aspecifica, ma molto più efficace e duratura, grazie a particolari linfociti B e T, detti cellule «di memoria», che, una volta incontrato un certo antigene, non si attivano subito, ma ne registrano la presenza, per attivarsi poi in una seconda eventuale infezione.

Macrofagi: cellule con spiccata attività fagocitaria, responsabili della difesa di tipo aspecifico. Possono essere circolanti nel sangue (monociti, precursori inattivi) e fissi in molti tessuti (istiociti, attivi). Rappresentano uno dei più rapidi sistemi di difesa, seppure di tipo primitivo, del nostro organismo e la loro attività nei confronti di un qualsiasi agente estraneo è coadiuvante l’attività altamente specifica dei linfociti.

Mesotelioma pleurico e peritoneale: è una gravissima neoplasia maligna, che interessa la membrana sierosa di rivestimento del polmone (pleura) e il peritoneo, che riveste gli organi addominali. Le prime osservazioni di questi tumori risalgono all’inizio degli anni ‘30 nel Regno Unito. Nel 1964 l’Accademia delle Scienze di New York ha stabilito, per consenso unanime, il rapporto causale tra l’amianto ed il mesotelioma e successivamente è stata rilevata la maggiore pericolosità degli anfiboli, in particolare della crocidolite e della amosite. La messa al bando della crocidolite, la fibra più pericolosa, è avvenuta nel 1966 nel Regno Unito, nel 1970 in Australia, nel 1985 in Finlandia e nel 1986 in Italia, dove peraltro nel 1992 sono stati banditi tutti i tipi di amianto.

Placche pleuriche: ispessimenti a volte calcifici della membrana sierosa, che riveste il polmone.

Reazioni vasculo-essudative: edema e gonfiore presenti in zone infiammate.

(a cura di R.Topino e R.Novara)

Le coperture di Eteit
QUANDO SONO PERICOLOSE?

Non esiste una normativa che obblighi alla rimozione delle coperture in fibrocemento in buon stato di conservazione, ma il passare del tempo determina un progressivo deterioramento dei tetti con il rilascio nell’ambiente di fibre: in questi casi, quando i danni del materiale sono evidenti, la legge prevede la bonifica e la sostituzione delle coperture con altre senza amianto.
È l’esposizione agli agenti atmosferici che determina il progressivo degrado delle coperture per azione delle piogge acide, degli sbalzi termici, dell’erosione eolica e di microrganismi vegetali (muffe, licheni).
Per i motivi elencati, dopo anni dall’installazione, si possono determinare alterazioni corrosive superficiali con affioramento e rilascio delle fibre.
I principali indicatori utili per valutare lo stato di degrado delle coperture in cemento-amianto e conseguentemente l’aumento di rischio di rilascio di fibre, sono: la friabilità del materiale, lo stato della superficie con affioramenti di fibre e la formazione di muffe, la presenza di sfaldamenti, di crepe, di rotture e di materiale friabile o polverulento in corrispondenza di scoli d’acqua e grondaie.
Il segno più importante che dimostra la pericolosità del tetto è la presenza di materiale fibroso conglobato in piccole stalattiti in corrispondenza dei punti di gocciolamento.
In questi casi la dispersione di fibre è evidente e la bonifica è doverosa.

Roberto Topino e Rosanna Novara




La parabola del «figliol prodigo» (10)

Si allontanò dal suo popolo verso un paese lontano

«13Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolto tutto, se ne andò via
per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto
[lett. da (uomo) senza salvezza]. 14Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne
una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò
e si mise a servizio [lett. si incollò/attaccò] di uno degli abitanti di quella regione,
che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube
che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava» (Lc 15,13-16).

L a sequenza narrativa dei vv. 13-16 descrive la prima parte dell’agire del figlio «più giovane» che si potrebbe chiamare «il distacco». La sequenza è drammatica, perché con una sintesi straordinaria descrive sedici affreschi che possiamo così ricomporre:
1.    la fretta di scappare e togliersi da una situazione diventata pesante (dopo non molti giorni);
2.    l’attore è il figlio più giovane, quasi a mettere in evidenza la sua condizione di privilegiato;
3.    l’illusione di una ricchezza senza fine e autosufficiente (raccolto tutto);
4.    il distacco, il taglio definitivo con il proprio passato e la propria radice (se ne andò via);
5.    la mèta come realizzazione di sé e delle proprie aspirazioni (per un paese lontano);
6.    l’ingordigia di essere finalmente libero (sperperò la sua natura/le sue sostanze);
7.    la piena soddisfazione dei bisogni a lungo repressi e finalmente realizzati (vivendo da dissoluto);
8.    la fine della ricchezza considerata «tutto» e fonte di libertà (quando ebbe speso tutto);
9.    il paese lontano, la mèta diventa un incubo di sopravvivenza (in quel paese venne una grande carestia);
10.    l’inizio di una nuova vita: l’indipendenza diventa bisogno (cominciò a trovarsi nel bisogno);
11.    quello che un tempo era figlio ora diventa servo (si mise a servizio);
12.    il padre da cui ci si affranca ora diventa «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione);
13.    il fondo dell’abisso dell’impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci);
14.    chi aveva «tutto» si accontenta degli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube);
15.    chi era commensale del padre, ora aspira a diventare commensale dei porci (che mangiavano i porci);
16.    il prediletto del padre è respinto anche dai porci (nessuno gliene dava).
Queste sedici pennellate formano l’affresco dei quattro versetti che abbiamo citato e che formano una unità letteraria che descrive le prime tre tappe del «viaggio» verso la libertà del figlio più giovane: la partenza in ricchezza, lo sperpero in baldoria, la schiavitù nella fame.
Iniziamo a esaminare più da vicino il v. 13, sezionandolo in più parti per potee cogliere meglio la portata e riflettere ad un livello più profondo per cogliee il messaggio di salvezza per noi.

V. 13:  Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose se ne andò via per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Traduzione letterale: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolto tutto, si allontanò/separò dal [suo] popolo verso un paese lontano e là disperse la sua natura da [uomo] senza salvezza.

«Dopo non molti giorni»
L’espressione «dopo non molti giorni» significa «dopo pochi giorni» ed è una figura retorica che in letteratura si chiama «litòte» (dal gr. litòs = semplice). Essa attenua la durezza di un contenuto o di un’affermazione, negando il contrario (pochi = non molti; appena sufficiente = non è poi così male). Lc non vuole calcare la mano: invece di dire che se ne andò via quasi subito, afferma che se ne andò «dopo non molti giorni», ponendo l’accento sull’aggettivo «molti» che induce a riflettere. Questa figura letteraria è molto presente in Lc specialmente negli Atti degli Apostoli (Lc 21,9; At 1,5; 12,18, ecc.).
La manciata di ore intercorse tra la richiesta del figlio minore, che pretende la vita del padre, e la sua partenza verso la libertà devono essere carichi di emozioni e imbarazzo, impregnando di emotività la casa che già appare vuota: vuota per il padre, che vede il figlio esigere la propria morte per affermare se stesso, e vuota per il figlio, che con la testa è già nel suo mondo virtuale e lontano. Domina un silenzio carico di sconfitta, scandito dalle lacrime mute del padre, che impotente assiste alla propria morte pur restando in vita e col pensiero immagina gli scenari veri di morte certa in cui si sta avventurando il figlio.
«Dopo non molti giorni» è una pausa musicale in un rapido fugato di note che si arrampicano correndo verso la fine: come se Lc volesse concedere un attimo di respiro in una situazione di soffocamento e prima della tragedia che si sta preparando.

«Raccolto tutto»
Il figlio che col corpo è in casa, ma con il cuore e la testa è già «lontano», si premura di passare in rassegna tutta la casa per  non lasciare nemmeno le briciole di «quanto gli spetta» (v. 12) della metà della vita che il padre gli ha donato.
Il testo greco non dice «raccolte le sue cose», ma «raccolto tutto», suggerendo l’idea che il figlio passa in rassegna ogni angolo con una accurata ispezione. Anche tutto quello che ha è di suo padre, ma queste sono sottigliezze di cui uno spirito libero non si cura. Questa sottolineatura è importante, perché l’autore vuole metterla in relazione al v. 14 dove ci avverte che spese «tutto».
Gli sforzi per liberarsi del padre, l’anelito della libertà, l’aspirazione a una vita autonoma e senza freni, tutto ciò per cui ha vissuto svanisce in un baleno: tutto è inutile, perché come aveva raccolto «tutto», così ora spende «tutto»: nudo è nato da sua madre e nudo resterà senza suo padre (cf Gb 1,21).

«Si allontanò/separò dal (suo) popolo»
Il testo greco usa il verbo apo-dēmèō che è composto dalla preposizione di allontanamento «apò-» e «dêmos-popolo». L’idea soggiacente è molto più che un andare via da casa. Il figlio più giovane, andandosene, «si allontanò/separò dal [suo] popolo», tagliando dietro di sé ogni radice e ogni riferimento.
Per un orientale, allontanarsi dal clan, dalla tribù, dalla famiglia, rappresentata dal padre, significava andare incontro alla morte, perché vuol dire andare allo sbaraglio, senza alcuna protezione. Esaù, per es., quando vuole separarsi dal fratello Giacobbe, non parte da solo, ma raduna tutta la sua tribù, il gregge, il bestiame e tutti i suoi beni per andarsene «lontano dal fratello» (Gen 36,6-9). Parte con il suo popolo.
Il figlio più giovane della parabola lucana, invece parte senza popolo: ha già perso la sua identità prima ancora di sperperarla in un «paese lontano».
Egli è l’opposto di Abramo che, in Gen 12,1-4, «deve» lasciare il paese, la patria e il padre per ubbidire al Dio che chiama e convoca per un progetto di popolo nuovo con una prospettiva missionaria. Abramo, infatti, andrà «verso una terra» non ancora conosciuta, che Dio stesso gli indicherà per donargliela come promessa ed eredità (cf Gen 15 e 17). Abramo non si preoccupa di conoscere la mèta «verso cui andare», perché a lui basta sapere «da dove» parte. Egli non si allontana «da» qualcuno, ma va «verso» qualcosa, un futuro, una promessa, un’alleanza. «E Abramo partì» (Gen 12,4). La partenza di Abramo è solenne e maestosa, perché è la risposta a una chiamata e quindi la realizzazione di una vocazione. Il «partì» è un progetto.
Il figlio giovane della parabola invece «si allontanò» quasi di nascosto, fuggendo, in fretta: egli non ha un progetto, ma sa esattamente «dove vuole andare». Come Abramo lascia il suo paese, la sua patria e suo padre, ma solo per egoismo e interesse. Abramo è aperto alla fecondità sconfinata («padre di molti popoli»); il giovane figlio è chiuso nella sua grettezza. Abramo si affida alla parola del «Padre», sulla quale soltanto fonda il suo futuro («farò, benedirò, renderò, diventerai, maledirò»); il giovane figlio ha soltanto la certezza di lasciare il suo passato per andare incontro «ad un paese lontano», dove non c’è salvezza. Abramo aspira l’eredità della «terra promessa»; il figlio giovane, aspirando al suo egocentrismo, erediterà soltanto una porcilaia e una fame da schiavo.
Usando il verbo «apo-dēmèō» l’autore sottolinea che il figlio giovane non si mette solo in cammino verso un suo destino, ma che egli «lascia» dietro di sé tutti i fondamenti della vita: si separa dalla «comunità» di cui non è più membro e resta un solitario che cammina isolato verso un destino di morte. Fuori della comunità o del proprio popolo, non si dà vita, ma solo illusione, che presto si trasforma in morte. È l’apostasia che conduce all’inferno dell’isolamento e dell’egoismo.

«Per un paese lontano»
In tutto il NT un’altra volta soltanto si trova questa espressione e cioè in Lc 19,12: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi tornare». L’uomo nobile parte per ritornare, il figlio più giovane parte per allontanarsi definitivamente. L’uomo nobile va in un paese lontano solo provvisoriamente, il giovane «emigra» per sempre, entrando in una diaspora senza fine.
Il viaggio del figlio minore è l’inverso dell’esodo dei suoi padri, i quali uscirono «insieme» dalla condizione di schiavitù per andare verso una terra «lontana» e sconosciuta, che avrebbe loro garantito la libertà e la dignità di «nazione», anzi, di «nazione santa, popolo di Dio» (Es 19,6; 1Pt 2,10). Ora invece assistiamo al viaggio di un solitario che emigra verso «un paese lontano» per essere straniero tra stranieri. Egli va in esilio anche da Dio, perché allontanandosi dal padre, dalla casa e dalla «comunità», egli abbandona anche il «Dio di suo padre» (Es 3,6).
Giacobbe quando partì per la terra straniera di Egitto si fermò a Bersabea, ultimo avamposto abitato, prima di inoltrarsi nel deserto del Neghev, dove «offrì sacrificio al Dio di suo padre Isacco» (Gen 46,1). Andandosene, il figlio giovane compie un gesto di apostasia: egli rinnega suo padre e il Dio di suo padre, il suo fondamento e il suo principio. In una parola rinnega se stesso.
L’espressione «paese lontano» è quasi una formula per indicare una terra pagana abitata da stranieri (Dt 29,21), cioè tutto ciò che è opposto alla «terra santa» abitata da Dio. Da questa «santità» della terra si allontana il giovane figlio, che così non si mette in viaggio verso una mèta, ma s’incammina verso l’esilio. Il suo è un cammino dalla «santità» all’impurità.
Viene alla mente la figura femminile di Rut che, pur essendo pagana, si comporta in modo opposto al «figlio più giovane» che è un giudeo osservante. La nuora di Noemi, invitata dalla suocera a ritornare al suo paese, nella «casa di sua madre» (Rut 1,8) cioè «in terra lontana», si rifiuta e sceglie la dimora di Noemi come sua dimora, il popolo di Noemi come suo popolo e il Dio di Noemi come suo Dio (Rut 1,16).  Nella parabola di Lc, invece, un figlio d’Israele rifiuta il padre, il paese e la patria  «per un paese lontano». A differenza dei suoi antenati, a cui in «terra straniera» gli si attaccava la lingua al palato per l’impossibilità di cantare i canti del Signore (Sal 137/136,4-6) per non renderli impuri, questo figlio che rinnega la pateità aspira all’impudicizia del paese lontano e alla indipendenza da ogni dovere, perdendo così ogni diritto.

«E là disperse la sua natura
vivendo (uomo) senza salvezza»
Fa pensare che questo giovane figlio dissolve e consuma non se stesso, ma la parte di vita del padre, che egli ha preteso come parte spettante della sua eredità. Dilapida la vita di suo padre, che si era portato dietro come mezzo per acquisire la sua libertà. L’autore della parabola usa il verbo «dia-skòrpizō» che in italiano è tradotto con «io sperpero». Alla lettera potremmo tradurre con «fece scorpacciate», cioè si abbuffò, oppure «disperse» tutto ciò che era e che aveva, cioè la vita di suo padre, cioè la sua natura. Egli può permettersi di essere dissoluto perché non si gioca del suo dal momento che nulla possiede, ma della vita del padre che gli è stata regalata con abbondanza e che ora dilapida e sperpera senza criterio, da «dissoluto».
Il testo greco è pregnante e tagliente, perché usa un avverbio tragico e definitivo: «asôtōs» è un avverbio che deriva dall’aggettivo «à-sōstos» che è composto dalla vocale privativa «a», che significa «senza», e dal termine «sôstos» che a sua volta proviene dal verbo «sôzō» che significa «io salvo». Si può quindi tradurre l’avverbio con «senza speranza di salvezza», oppure «senza salvezza». Noi abbiamo tradotto: «Vivendo da (uomo) senza speranza di salvezza».
La dissolutezza non è solo un comportamento immorale, come dirà il fratello maggiore al v. 30, dove accusa il «figlio di suo padre» di avere divorato tutto con le prostitute, ma è un atteggiamento interiore, un modo di accostarsi e vedere la vita, una scelta consapevole di vita: il dissoluto è colui che non ha una prospettiva spirituale, ma è rivolto esclusivamente alle cose materiali, che diventano il suo unico orizzonte immediato e finale.
Il dissoluto «si dissolve» lentamente, a mano a mano che si consuma insieme alle cose che usa e che consuma: non significa necessariamente «scostumato», come forse si potrebbe pensare, ma letteralmente è uno «che si scioglie due volte», perché è un antropofago di se stesso nello stesso istante in cui sbrana le cose che sta usando: si consuma consumando.
Non è libero chi è riempito di cose con cui ha coperto la propria anima, che diventa sorda e dissoluta, perché già seppellita  nel vacuo e nell’effimero. La schiavitù più grande e irrimediabile è quella di colui che perde anche la speranza di essere salvato, perché vede la sua vita rinchiusa e ripiegata su se stesso, senza alcun riferimento agli altri che sono sempre, sul piano affettivo e di fede, la parte migliore di sé.
D’altra parte se il figlio giovane lascia suo padre e il suo popolo e il suo Dio, avendo raggiunto la mèta della sua vita, che è «un paese lontano», che altro può fare se non perdere la speranza? È la fine totale, perché tutto sarà perdonato, ma non il peccato contro lo Spirito Santo, cioè il peccato di disperazione, la morte della speranza (Lc 12,10). Il figlio giovane somiglia ad Adam, che «pretende» la conoscenza del bene e del male del «Padre», che egli vuole spodestare per sostituirvisi. Volendo diventare «come Dio», Adam ed Eva di fatto intendono uccidere Dio per sostituirlo; ne esigono la morte, lusingati dal potere di essere affrancati dalla libertà che avevano di mangiare «tutti gli alberi del giardino»; ma vogliono di più, vogliono ancora, vogliono «tutto» (Gen 3,1-7). Si ritrovano alla fine «nudi», «scacciati dal giardino di Eden», stranieri in mezzo al deserto, terra lontana e di nessuno (Gen 3,23-24).
Come i suoi progenitori, anche il figlio della parabola lucana si scaccia da sé dall’Eden, alla ricerca di una libertà che nemmeno conosce e che non saprà nemmeno gustare, perché estranea alla sua condizione di schiavo del suo bisogno.
Ci resta una sola domanda: dove si annidano in noi l’Adam e il figlio «prodigo»?                            (continua – 10)

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»(9)

La pateità / mateità è scandalosa

Nel numero precedente di MC non avevamo esaurito del tutto il v.12. Lo riprendiamo per approfondie la portata alla luce della scrittura. Abbiamo visto che il versetto riporta la richiesta del figlio e il gesto del padre come risposta (12b-c: bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. cE il padre divise tra loro le sostanze).
Apparentemente tutto sembra pacifico e lineare, ma così non è perché ci troviamo di fronte a una tragedia.

Solo il primogenito eredita
La richiesta dell’eredità, infatti, da parte del figlio «più giovane», cioè non del primogenito, è contro il diritto e quindi illegale. Per la legislazione biblica il passaggio di eredità da padre in figlio avviene per testamento o per diritto naturale solo dopo la morte, pena l’invalidità (Eb 9, 16-17). Il diritto ereditario del primogenito supera qualsiasi altro legame, anche quello di amore tra marito e moglie:

Se un uomo avrà due mogli, l’una amata e l’altra odiosa, e tanto l’amata quanto l’odiosa gli avranno procreato figli, se il primogenito è il figlio dell’odiosa, quando dividerà tra i suoi figli i beni che possiede, non potrà dare il diritto di primogenito al figlio dell’amata, preferendolo al figlio dell’odiosa, che è il primogenito; ma riconoscerà come primogenito il figlio dell’odiosa, dandogli il doppio di quello che possiede; poiché egli è la primizia del suo vigore e a lui appartiene il diritto di primogenitura (Dt 21,15-17).
L’eredità spirituale di Eliseo
Si può pensare che la stessa idea soggiaccia al racconto di Eliseo che insegue il suo maestro, il profeta Elia a cui, mentre è rapito in cielo da Dio, chiede in eredità due terzi del suo spirito per proseguire la sua stessa missione:

Elia disse a Eliseo: «Domanda che cosa io debba fare per te prima che sia rapito lontano da te». Eliseo rispose: «Due terzi del tuo spirito diventino miei». Quegli soggiunse: «Sei stato esigente nel domandare. Tuttavia, se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso; in caso contrario non ti sarà concesso»… Vistolo da una certa distanza, i figli dei profeti di Gerico dissero: «Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo». Gli andarono incontro e si prostrarono a terra davanti a lui (2Re 2,9-15).
La Legge enumera dettagliatamente gli eventuali passaggi in base alla parentela, perché lo scopo dell’eredità è quello di non frammentare il bene, ma di consegnarlo alle generazioni indiviso, sotto la responsabilità di un garante che è il primogenito:

Quando uno sarà morto senza lasciare un figlio maschio, farete passare la sua eredità alla figlia. Se non ha neppure una figlia, darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se non ha fratelli, darete la sua eredità ai fratelli del padre. Se non ci sono fratelli del padre, darete la sua eredità al parente più stretto nella sua famiglia e quegli la possiederà (Nm 27,8-11; per le figlie cf Nm 36,7-9).
Salvaguardia del patrimonio familiare
Al figlio primogenito dunque spettavano due terzi dell’eredità, mentre al minore solo un terzo. Egli però non poteva vendere il proprio terzo prima della morte del padre, che comunque mantiene il diritto dell’usufrutto. Il principio dell’unità del patrimonio è così forte che, anche al tempo di Gesù, se un figlio voleva vendere la parte del proprio patrimonio, vivo ancora il padre, il compratore ne sarebbe entrato in possesso solo dopo la morte del genitore del venditore. Il padre può fare una donazione in vita, ma è sconsigliata per le conseguenze negative che possono sopravvenire:

Al figlio e alla moglie, al fratello e all’amico non dare un potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze, perché poi non ti penta e debba richiederle. Finché vivi e c’è respiro in te, non abbandonarti in potere di nessuno. È meglio che i figli ti preghino che non rivolgerti tu alle loro mani (Sir 33,20-22).
 Il primo dato che emerge dalla parabola lucana è l’illegittimità della richiesta del «figlio più giovane» che diventa così una richiesta di morte anticipata del padre per potere godere del suo patrimonio. Nello stesso tempo «il figlio più giovane» viola la Toràh e le sue prescrizioni, dimostrandosi uno senza timore di Dio: per lui nulla ha valore, né il padre che vuole morto, né la Legge di Dio, che trasgredisce senza ritegno, rivelandosi non «figlio della Toràh», ma figlio pagano.

Amare da padre può significare perdere
Egli chiede la «parte di eredità che mi spetta» (v.12), sapendo bene che come «figlio più giovane», cioè secondogenito, non gli spetta alcuna eredità, ma solo quel terzo che nemmeno può alienare.
A rigore di legge, il padre avrebbe potuto buttare fuori di casa il «figlio più giovane» senza dargli nulla; oppure, come abbiamo visto, poteva condurlo in giudizio e chiedee la morte per lapidazione. Chi poteva dargli torto da un punto di vista giuridico?
Al padre però non interessa l’osservanza materiale della legge o avere riconosciuto il suo diritto al prezzo della vita del figlio; egli preferisce distruggere la propria vita, ma tentare di salvare il figliolo, piuttosto che non perdere la faccia, ma perdere il figlio. Non può obbligare con la forza della Legge ad amare con il cuore, perché nessuna legge può imporre i sentimenti e tanto meno l’amore. Non si ama perché si deve, ma si ama perché si vive.
Nel gesto del padre che prende la sua vita e la divide tra i due figli troviamo qualcosa di scandaloso: egli va oltre il diritto, oltre le convenienze, oltre le apparenze e pone se stesso come prezzo della colpa del figlio.
Il figlio pecca, ma è il padre che ne assume il peso e consapevolmente ne intende scontare la pena: «Divise la vita tra loro» (v.12). L’iconografia cristiana nel Medio Evo raffigurava il pellicano che si strappa il cuore per nutrire i suoi figli come simbolo del sacrificio di Cristo che il padre della parabola rappresenta perfettamente:

«A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,7-8).

Vangelo puro, senza se e senza ma
Troviamo nel gesto del padre qualcosa di più dell’amore affettivo di un padre: il figlio è un pagano, nemico del padre, e il padre lo ama senza porre condizioni, svelando così nel suo anonimato il volto intimo del Padre dei cieli «che fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45):

Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso… Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperae nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,32.35-36).
Il figlio chiede la «natura» del padre e questi va oltre la richiesta e dona tutta la sua stessa vita, con una abbondanza che va contro ogni logica e razionalità. Il padre ha un comportamento decisamente scandaloso: «A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo» (Lc 6,29-30).
Il padre che apparentemente sembra un remissivo senza spina dorsale, è invece un campione evangelico, l’esempio vivente dell’incarnazione del messaggio di Gesù:

Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi  vuol portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a camminare per un miglio, tu fanne due con lui (Mt 5,38-41).

Il padre e la vedova
Il figlio pretende la parte dei beni che non gli spettano perché non ne ha diritto, mentre il padre rinuncia al suo diritto e offre gratuitamente tutto ciò che è, perché sa che tutto ciò che ha proviene da Dio: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rom 3,23-24).
Egli è la controfigura della vedova che mette nel tesoro del tempio non quello che gli avanza, ma solo tutto ciò che è e tutto ciò che ha per vivere: due monetine, cioè la sua vita (cf Lc 21,2-4).
Chi rappresenta la vera «natura» di Dio è una vedova insignificante e un povero padre che si lascia depredare dal figlio non solo la proprietà, ma la sua stessa vita. Di fronte al figlio peccatore e parricida il padre si offre liberamente contro ogni logica, perché la misericordia non ha la logica della ragione, ma è la ragione dell’amore che genera e salva.
Il figlio è già salvo, anche mentre pecca, perché il padre lo ha riportato nel suo grembo per rifarlo nuovo, per redimerlo. Questo figlio non può perdersi e noi già ora sappiamo che egli si salverà, non perché si convertirà di sua iniziativa, ma solo perché il padre ha posto le premesse della sua redenzione.
Il figlio porterà con sé la vita del padre che si premurerà di custodirlo anche in mezzo ai porci; ma alla fine quella vita del padre che egli sperpererà sarà la forza che lo farà ritornare a casa. Il padre sa che solo lui può salvare il figlio, ma per salvarlo deve morire: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

Si è liberi quando si regala la propria libertà
Il figlio guarda al suo tornaconto immorale, il padre al contrario svuota se stesso, perché nulla vada perduto del figlio che vuole dannarsi da solo: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39) e per questo  non esita fino a lasciarsi uccidere per non condannare quel figlio che deve ad ogni costo essere salvato: «Spogliò se stesso» (Fil 2,7).
La fede è tutta qui, il cristianesimo non è altro: la libertà di regalare la propria libertà. L’espressione violenta del figlio più giovane, «dammi la parte che mi spetta», significa: vecchio, togliti di mezzo perché sei di ostacolo alla mia realizzazione e quando ti decidi di morire è anche troppo tardi. Io sono giovane e ho la vita davanti, ma tu sei vecchio e quindi inutile: dammi la tua vita che ci penso io a sperperarla.
Il padre sa quello che fa per questo figlio, a cui riconosce il diritto di chiedere la sua vita, perché è lui, il padre, che lo ha chiamato alla vita e non il contrario: «Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25).
È lui, il padre, che deve fare testamento per il figlio e non il contrario, che sarebbe innaturale: dividendo la sua vita tra i due figli, il padre sceglie di stare con loro fino in fondo,  annullando così la pretesa del figlio di volere vivere per conto suo. Dando la sua vita, il Padre mantiene unito non il patrimonio, ma la vita dei due suoi figli e la sopravvivenza della sua famiglia.

L’Agàpe è Cristo
In greco il verbo «divise – dieîlen» è al tempo aoristo, che indica un’azione definitiva e irreversibile: divise completamente/del tutto/definitivamente, senza possibilità di tornare indietro; il padre non esiste più, perché ora vive nei figli.
Questo padre anonimo, perché espressivo del volto di Dio, è l’opposto del ricco stolto che accumula ricchezze e ingrandisce i suoi silos come se fosse eterno: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divertiti… Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (Lc 12,19-20). Al contrario, il padre della parabola considera le sue proprietà nulla, di fronte alla vita del figlio, e non esita ad offrire se stesso gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio: egli è l’immagine incarnata dell’Agàpe di cui Paolo tesse le caratteristiche divine:

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’Agàpe, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’Agàpe, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi l’Agàpe, niente mi giova. L’Agàpe è paziente, è benigna l’Agàpe; non è invidiosa l’Agàpe, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’Agàpe non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l’Agàpe; ma di tutte più grande è l’Agàpe! (1Cor 13,1-8.13).
Luca è discepolo di Paolo e sa perfettamente che per Paolo l’Agàpe non è un sentimento o un atteggiamento morale dovuto, quasi un imperativo della coscienza. Luca sa che l’Agàpe in Paolo non è altri che Gesù Cristo, che manifesta il cuore stesso della rivelazione e cioè che «Dio Agàpe è» (1Gv 4,8).
Qualsiasi morale, qualsiasi comportamento etico, qualsiasi osservanza di regole o precetti… tutto è vanificato e vale nulla, se non è vissuto e sperimentato e consumato nell’amore a… perdere, nell’amore gratuito che dona se stesso, perché soltanto nel dono si compie e si realizza, come il padre della parabola lucana, come Gesù Cristo da cui Paolo si è «lasciato afferrare» (Fil 3,12):

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi Cristo, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi Cristo, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi Cristo, niente mi giova. Cristo è paziente, è benigno Cristo; non è invidioso Cristo, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Cristo non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e Cristo; ma di tutte più grande è Cristo!
Non ci resta che tacere, adorare e amare, accogliendo anche noi l’invito di Gesù al dottore della legge: «Va’ e fa anche tu lo stesso» (Lc 10,37).           (continua – 9)

A cura di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Bruciare i rifiuti? Una pessima idea

L’imbroglio dei «termovalorizzatori»

In Italia l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili è irrisorio. Forse anche per questa ragione si è inventata una scappatornia all’italiana: considerare come energia da fonte rinnovabile quella prodotta dagli inceneritori (termovalorizzatori).  Un falso, tra l’altro finanziato da un prelievo (il «Cip6») dalla bolletta elettrica di tutti noi.  I termovalorizzatori funzionano? Producono energia elettrica, ma a costi insostenibili, soprattutto per la salute dei cittadini.  Da ultimo, disincentivano la raccolta differenziata (che già è poco amata dagli italiani). A conti fatti, questa soluzione non funziona, in quanto produce più problemi di quanti ne risolva.

In Italia non si chiamano quasi mai «inceneritori» (sebbene lo siano a tutti gli effetti), ma «termovalorizzatori». Quest’ultimo termine indica che questi impianti non servono solo a bruciare i rifiuti, ma a produrre energia (che viene poi rivenduta allo Stato) oppure calore utilizzabile nel teleriscaldamento. Apparentemente sembrerebbero impianti vantaggiosi, invece non è proprio così, perché se tutti i rifiuti prodotti in Italia fossero destinati al termovalorizzatore e fosse ottimizzata al massimo la combustione, si arriverebbe ad ottenere energia elettrica solo per il 12% del fabbisogno nazionale per uso domestico. Per quanto riguarda invece il teleriscaldamento poi, questo è efficace solo entro 2,5 Km dall’impianto ed è possibile solo in edifici di nuova realizzazione. Attualmente in Italia la produzione di energia elettrica tramite incenerimento dei rifiuti è sovvenzionata indirettamente dallo stato, per sopperire alla sua antieconomicità ed il tutto avviene tramite il sistema detto Cip6 (vedi box). Infatti, questa modalità di produzione di energia è considerata impropriamente come «da fonte rinnovabile» alla stregua di idroelettrico, solare, eolico e geotermico. Pertanto chi gestisce l’inceneritore può vendere all’Enel l’energia che produce ad un costo circa triplo, rispetto a quello di chi produce energia a partire da metano, petrolio e carbone. L’Unione europea (Ue) ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia per gli incentivi dati dal governo italiano per la produzione d’energia bruciando rifiuti inorganici, visti come «fonte rinnovabile». Nel 2003 il Commissario Ue per i trasporti e l’energia Loyola De Palacio, recentemente scomparsa, in risposta ad un’interrogazione dell’on. Monica Frassoni al Parlamento europeo, ribadì (20/11/2003, risposta E-2935/03 IT) il fermo «no» dell’Unione europea all’estensione del regime di sovvenzioni europee  per lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili, previsto dalla Direttiva 2001/77, all’incenerimento delle parti non biodegradabili dei rifiuti. Queste le affermazioni testuali del Commissario all’energia: «La Commissione conferma che, ai sensi della definizione dell’art. 2, lettera b) della Direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 settembre 2001, sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità, la frazione non biodegradabile dei rifiuti non può essere considerata fonte di energia rinnovabile. Il fatto che una legge nazionale (Legge 39 del 1/3/2002, art. 43) proponga d’includere, nell’atto del recepimento italiano della Direttiva 2001/77 (D.L. del 29/12/2003, n. 387) i «rifiuti tra le fonte energetiche ammesse a beneficiare del regime riservato alle fonti rinnovabili, ivi compresi i rifiuti non biodegradabili», rappresenta una palese violazione di quanto dettato dalla Direttiva europea. Esiste peraltro una contraddizione in questa Direttiva comunitaria, che autorizza l’Italia a considerare l’energia prodotta dalla quota non biodegradabile dei rifiuti nel complesso dell’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, ai fini del raggiungimento dell’obiettivo del 25% del totale nel 2010; tale deroga è però stata attaccata nel 2006 in sede di Parlamento europeo coll’emendamento (art. 15 bis) alla legge comunitaria 2006.
C’è poi da considerare un altro aspetto, oltre a quello giuridico ed economico, dell’uso dei termovalorizzatori.

L’ambiguità dei «limiti di legge»

Qual è il loro impatto sulla salute pubblica? I termovalorizzatori possono operare solo se adeguatamente dotati di sistemi per l’abbattimento delle emissioni, in grado di garantire il rispetto dei limiti di legge. Attenzione, però, perché i limiti di legge, come tutti i limiti relativi a prestazioni tecnologiche, sono tarati sulla capacità di abbattimento dei fumi ottenibile con le attuali tecnologie. Infatti non serve imporre dei limiti oltre la capacità oggettiva di contenere l’inquinamento permessa dai sistemi attuali. Questo, però, significa che i «limiti di legge» non garantiscono un valore di inquinanti «sicuro» in base a studi medici ed epidemiologici sull’effetto degli inquinanti emessi. C’è poi da dire che i limiti di concentrazione degli inquinanti imposti dalla normativa sono riferiti al m3 di fumo emesso, mentre non viene detto nulla sull’emissione totale d’inquinanti, cioè al valore commisurato alla quantità di rifiuti bruciati. Praticamente vengono impostati come limiti di legge dei valori, che si riferiscono al «miglior impianto» attualmente realizzabile e non all’effettiva rischiosità dei vari inquinanti. Per capire meglio questo concetto ci viene in aiuto Mario Tozzi, noto geologo e divulgatore scientifico, primo ricercatore Igag/Cnr, che nel suo ultimo libro sostiene che le domande giuste da porre sarebbero: quanti picogrammi (miliardesimi di milligrammo) di diossina (vedi box) emette davvero un impianto? I valori foiti sono medi o minimi? Quante misurazioni sono effettuate in un anno?  È opportuno sapere che per i termovalorizzatori è previsto un solo controllo all’anno: per essere sicuri che l’impianto non sia nocivo è evidente che il monitoraggio dovrebbe essere continuo e non annuale e soprattutto non autocertificato.

Diossina per tutti

Attualmente le normative europee indicano che in un m3 di fumi non devono esserci più di 100 picogrammi di diossina. La sola considerazione che per le diossine si usa come unità di misura non il milligrammo, comunemente usato per le altre sostanze, ma il picogrammo   (10-12 g) è più che sufficiente a farci intuire il grado di pericolosità per la salute di queste sostanze. Del resto, a tale proposito, vale la pena di ricordare che le diossine sono le stesse sostanze responsabili delle terribili conseguenze dell’incidente occorso all’Icmesa di Seveso, o delle conseguenze dell’uso del tremendo «agente orange» (diossina appunto) usato nella guerra del Vietnam (vedi inserto). Tozzi fa poi un rapido calcolo per dimostrare a quale rischio potremmo essere esposti, vicino ad impianti «a norma di legge». Se la tecnologia attualmente disponibile non ci consente di rilevare la presenza di diossina al di sotto di un certo valore, ad esempio 50 pg/m3, entro comunque il limite di legge che è di 100 pg/m3, si rischia di non considerare affatto valori inferiori, ad esempio 40 pg/m3, di diossina emessa da un impianto e di valutare pertanto quest’ultimo come idoneo e rispettoso dei limiti di legge. Poiché però nell’aria che respiriamo normalmente, la quantità di diossina è di 0,05-0,5 pg/m3, allora 40 pg/m3 vogliono dire un quantitativo da 80 ad 800 volte superiore rispetto alla normale quantità. Quindi, solo perché non misurabile, ignoriamo tale quantitativo e le sue possibili conseguenze? Un inceneritore di media taglia, cioè da un migliaio di tonnellate di rifiuti al giorno, emette circa 5 milioni di metri cubi di fumi. Se la quantità di diossina in essi contenuta fosse di 40 pg/m3, significherebbe che ogni giorno nell’atmosfera sarebbero dispersi 200 milioni di picogrammi di diossine. Poiché la dose massima tollerabile gioalmente da una persona adulta è di circa 150 pg, questa quantità sarebbe quindi quella tollerabile da un milione e mezzo di persone. Con un centinaio di inceneritori di questo tipo sul territorio nazionale si arriverebbe a 20 miliardi di picogrammi di diossina, cioè la massima dose tollerabile da 150 milioni di persone. E questo con impianti rigorosamente a norma di legge.
Non dimentichiamo che, per quanto riguarda la diossina, non è importante solo la sua quantità in un m3 d’aria, ma quanta effettivamente se ne deposita al suolo in un anno. Le diossine infatti sono un gruppo di composti ad elevato peso molecolare, quindi poco volatili. Sono inoltre solubili nei grassi, dove tendono ad accumularsi e non vengono smaltite dall’organismo umano, per il quale sono tossiche e cancerogene. Pertanto, anche un’esposizione a livelli minimi, ma prolungata nel tempo, può causare gravissimi danni alla salute sia umana, che animale.  È importante a tale proposito ricordare che presso i lavoratori dell’inceneritore di Cracovia è stata rilevata un’incidenza anormalmente alta di neoplasie polmonari e di accidenti cardiovascolari, nonché un’incidenza anomala di neoplasie, disturbi respiratori, patologie tiroidee e malformazioni fetali negli abitanti esposti. In Italia uno studio condotto negli anni 1986-2002 nel territorio di Campi (Fi) ha rilevato più del doppio di casi attesi per linfomi non Hodgkin e per sarcomi dei tessuti molli, tumori che la letteratura scientifica correla molto strettamente all’azione delle diossine. Studi giapponesi sottolineano che la maggiore fonte di diossina è rappresentata dagli inceneritori urbani ed inoltre è segnalata l’incidenza di morti infantili, malformazioni congenite e malformazioni della sfera riproduttiva fra gli abitanti vicini ad inceneritori anche di ultima generazione. Naturalmente gli inceneritori non sono gli unici impianti a rilasciare diossina, che è rilevabile normalmente presso altri impianti industriali, soprattutto acciaierie, oltre che nel fumo di sigaretta, nelle combustioni di legno e di carbone e nelle combustioni incontrollate (es. mini-incenerimento domestico).

Mercurio, cadmio, (…): di tutto, di più

I termovalorizzatori sono responsabili della diffusione di idrocarburi aromatici policiclici, di policlorobifenile (PCB), di metalli pesanti, quali piombo, zinco, rame, cromo, cadmio, arsenico, mercurio e di furani; inoltre, come qualsiasi processo di combustione, rilasciano nell’aria polveri sottili, la cui quantità emessa aumenta al crescere della temperatura (specialmente il particolato ultrafine PM<2,5). A proposito di mercurio, la maggioranza degli studiosi sostiene che è pressoché impossibile escogitare sistemi efficaci per abbattee con sicurezza l’emissione; ricordiamo che il mercurio provoca gravissimi danni al sistema nervoso centrale. Per quanto riguarda le polveri fini PM2,5 e quelle ultrafini (da PM2,5 a PM0,1) di tipo inorganico, va innanzitutto detto che non esistono filtri efficaci, per cui un limite alla loro emissione non sarebbe attuabile al momento, se non vietando il funzionamento degli impianti di incenerimento. Le nanopolveri o particolato ultrafine, cioè quelle a PM<2,5, sono responsabili, secondo dati Oms del 2005, di un calo di vita medio di 8,6 mesi in Europa e di 9 mesi in Italia (morti cardiovascolari e respiratorie).
L’azione mutagena e cancerogena degli idrocarburi aromatici policiclici e del policlorobifenile è fin troppo nota, mentre per quanto riguarda il cadmio, questo ha mostrato un danno genotossico da stress ossidativi con accumulo nel sistema nervoso centrale, renale ed epatico e inoltre è causa di malformazioni fetali e cancerogenesi a carico di diversi tessuti.
Naturalmente nel corso degli ultimi vent’anni sono stati fatti molti passi avanti, nel tentativo di rimuovere i macroinquinanti derivanti dall’incenerimento e presenti nei fumi (ad es. ossido di carbonio, anidride carbonica, ossidi di azoto e gas acidi come l’anidride solforosa) e di abbattere le polveri. Si è così passati da sistemi di filtro come i cicloni ed i multicicloni,  con rendimenti massimi di captazione degli inquinanti rispettivamente del 70% e dell’85% ai filtri elettrostatici o filtri a manica, che hanno una resa fino al 99% ed oltre. Inoltre sono state sviluppate misure di contenimento preventivo delle emissioni, ottimizzando le caratteristiche costruttive dei foi e migliorando l’efficienza del processo di combustione. Questo risultato si è ottenuto attraverso temperature più alte, maggiori tempi di permanenza dei rifiuti in regime di alte turbolenze e grazie all’immissione di aria per garantire l’ossidazione completa dei prodotti di combustione. Però non va dimenticato che l’aumento della temperatura, se da un lato riduce la produzione di diossine, dall’altro aumenta quella degli ossidi di azoto, nonché delle nanopolveri, per cui diventa necessario trovare un compromesso.

Brescia: ma che bel premio!

Facciamo ora una considerazione a proposito del «miglior impianto», a cui si attiene la normativa vigente, in materia di limiti da non superare. Recentemente, cioè nell’ottobre 2006, l’impianto di termovalorizzazione di Brescia è stato proclamato «migliore impianto del mondo» dal Waste to Energy Research and Technology Council (Wtert), un organismo indipendente formato da tecnici e scienziati di tutto il mondo e promosso dalla Columbia University di New York. Lascia tuttavia perplessi il fatto che questo organismo annoveri tra gli enti finanziatori e sostenitori la Martin GmbH, che è tra i costruttori dell’inceneritore premiato. D’altro canto proprio questo impianto è stato oggetto di diverse procedure d’infrazione da parte dell’Unione europea. Se a ciò si aggiunge la testimonianza del dottor Francesco Pansera, che parla di censura del dissenso tecnico a Brescia, nonché di soppressione delle verifiche e delle voci critiche, il sospetto che i premi dati a certi impianti non siano altro che subdole forme pubblicitarie diventa forte. Sul sito della Martin GmbH, raggiungibile da quello della Wtert, si legge poi che in Italia la Martin è partner della Technip, un’altra multinazionale, che sta già partecipando ad un piano del presidente Cuffaro per la costruzione e la gestione di inceneritori in Sicilia. Quindi per queste ditte l’Italia, cioè la nazione premiata, rappresenta un mercato in espansione, purché si neutralizzino le critiche e si ottenga il favore dell’opinione pubblica. Del resto in Italia i termovalorizzatori sono ancora poco diffusi, a differenza dell’Europa, dove sono attualmente attivi 304 impianti in 18 nazioni.
Bisogna tuttavia porsi una domanda: perché paesi come l’Olanda, la Germania e la Francia stanno perseguendo la politica di bruciare sempre meno rifiuti, per dismettere un giorno gli impianti esistenti? A tale proposito in queste nazioni sono attuate amplissime forme di raccolta differenziata e di riduzione alla fonte anche con leggi nazionali sul riutilizzo delle bottiglie di vetro e di plastica (ogni cittadino in pratica paga una cauzione sulle  bottiglie di plastica e di vetro, che gli verrà restituita con un bonus per il supermercato, quando riconsegnerà le bottiglie negli speciali spazi presso i centri commerciali). Inoltre in tali nazioni si stanno sempre più usando forme di energia alternativa, quali quella eolica e quella solare. Alla luce di tutte queste considerazioni, possiamo dedurre che la strada del termovalorizzatore non è certo quella ottimale per risolvere il problema dell’eliminazione dei rifiuti e quello della produzione di energia, tanto più che non solo non sappiamo con certezza quali sono le sostanze realmente immesse nell’atmosfera, ma a quanto pare non possiamo nemmeno fidarci troppo delle valutazioni d’impatto ambientale, che vengono effettuate. Pensiamo inoltre al fatto che l’energia che si ottiene dalla combustione di un oggetto è quasi sempre di gran lunga inferiore a quella impiegata per costruirlo. Per di più, per ricostruire lo stesso oggetto, è necessario sfruttare materie prime dell’ambiente (ad es. alberi nel caso della carta), che si sarebbero risparmiate con il riciclaggio.  Sicuramente è quindi fondamentale assumere nuovi stili di vita, che portino ad una riduzione dei rifiuti all’origine, ad un loro riutilizzo o al loro riciclaggio, dove possibile, in modo da limitare al minimo il conferimento in discarica o negli inceneritori già esistenti.  

Roberto Topino e Rosanna Novara

Il glossario di «Nostra madre terra»

L’ABC DEL PROBLEMA


Cancerogeno: qualsiasi agente chimico, fisico o virale in grado d’indurre la comparsa di una forma di cancro.

Cicloni e multicicloni: si tratta di apparecchiature utilizzate per la separazione di particelle solide o liquide trascinate dai gas e per la separazione di particelle solide trascinate dai liquidi, sfruttando l’azione della forza centrifuga. I cicloni sono essenzialmente costituiti da recipienti cilindrici con una parte inferiore tronco-conica, nei quali viene introdotta tangenzialmente la corrente fluida da purificare, messa in movimento a grande velocità. Da un condotto centrale esce, verso l’alto, il fluido purificato, mentre nel fondo conico si raccolgono le particelle separate, la cui grandezza è di solito compresa fra 5 e 1.000 µm. Sono molto usati per eliminare le particelle dai fumi di scarico di industrie.

Composti organici ed inorganici: i primi sono composti contenenti atomi di carbonio (C) e costituenti tipici della materia vivente, mentre gli altri non contengono atomi di C e sono prevalentemente, anche se non esclusivamente, presenti nel regno minerale.

Danno genotossico: danno al Dna, quindi analogo di mutazione (vedi: mutageno).

Filtri a manica: sono utilizzati per le separazioni solido-gas e sono costituiti essenzialmente da tubi di tela, all’interno dei quali arriva il gas da depurare; mentre quest’ultimo attraversa la superficie, il solido viene trattenuto. Costituiscono l’ultima fase del recupero dei solidi da gas e spesso sono montati a valle dei cicloni.

Filtri elettrostatici: sono anche detti elettrofiltri. Sono costituiti da un tubo a grande diametro e di estesa superficie, che rappresenta il condotto del fumo ed è collegato a terra e da un filo posto al centro del tubo, dal quale è isolato elettricamente. Il campo elettrostatico, che si genera tra questi due elementi, provoca una ionizzazione del gas; gli ioni negativi caricano le particelle solide e liquide, presenti nei fumi, che si raccolgono sulla superficie del condotto (elettropositivo), dal quale sono asportate. Sono usati per asportare polveri e nebbie, anche di dimensioni piccolissime.

Fonti di energia alternativa: idroelettrica, solare, eolica e geotermica. In questi casi l’energia elettrica viene ottenuta rispettivamente dalla trasformazione di energia idraulica, solare, cinetica derivante dalla forza del vento e dal calore della terra.

Furano: composto organico eterociclico dotato di caratteristiche aromatiche (cioè con formula di struttura ad anello, contenente legami semplici e doppi alternati). Dal tetraidrofurano vengono preparati l’esametilendiammina ed il nylon. Presenta reazioni di sostituzione elettrofila, che avvengono però in condizioni più blande, che negli altri composti aromatici.

Idrocarburi aromatici policiclici: sono idrocarburi derivati dal benzene, per condensazione di due o più anelli benzenici. Vengono estratti dal catrame di carbon fossile o dal petrolio. È nota la loro azione cancerogena. Tra i tumori più diffusi, da loro causati, ricordiamo il cancro del polmone. Nel fumo di sigaretta sono presenti questi idrocarburi, nonché ammine aromatiche.

Mutageno: qualsiasi composto in grado di provocare una mutazione del Dna cellulare. Le mutazioni vengono distinte in geniche, cromosomiche o genomiche a seconda che vengano colpiti uno o più geni, un cromosoma oppure più di un cromosoma, così da compromettere l’intero genoma. Se il genoma colpito appartiene ad una cellula della linea germinale (ovociti o spermatozoi), la mutazione verrà trasmessa alla discendenza, con conseguenze di maggiore o minore gravità, a seconda del danno genetico (es. malformazioni, aborti spontanei, ecc.) mentre una mutazione a carico del Dna di una cellula della linea somatica (cioè di tutte le cellule del corpo diverse da quelle germinali), può determinare la trasformazione della cellula in senso neoplastico.

Picogrammo: 10-12g = 10-9mg = 1/1.000.000.000 mg.

Policlorobifenili: sono composti organici aromatici clorurati, in cui degli atomi di cloro sostituiscono in varia percentuale gli atomi d’idrogeno di un bifenile. Sono stati ampiamente impiegati per vari usi, finché non ne è stata segnalata la tossicità, dovuta all’inquinamento delle falde acquifere.

Stress ossidativo: danno a varie strutture cellulari dovuto all’azione dei radicali liberi, molecole che hanno perso nei loro atomi un elettrone, nell’orbita estea. Queste molecole vengono prodotte nelle fasi intermedie del metabolismo cellulare e sono sostanze chimiche paragonabili ad un ossidante, che intacca le materie più diverse, tra cui il Dna cellulare, con rottura delle sue catene e quindi con effetto mutageno e cancerogeno. Il nostro organismo si difende dall’azione dei radicali liberi con dei sistemi enzimatici, come la superossido-dismutasi, e non enzimatici tra cui gli antiossidanti naturali delle cellule, come il glutatione, la metionina, la cisteina e le vitamine C ed E. Diversi fattori favoriscono la formazione dei radicali liberi tra cui il tabacco, per la presenza di idrocarburi aromatici policiclici e di ammine aromatiche, l’alcornol, l’assunzione di certi farmaci, l’esposizione a svariati composti chimici, le radiazioni ionizzanti ed i raggi ultravioletti.
(a cura di R.Topino e R.Novara)

Come funziona un termovalorizzatore

DAI RIFIUTI, ENERGIA E… (fumi, scorie, ceneri)


Il funzionamento di un termovalorizzatore può essere sintetizzato in 7 fasi:

1) Arrivo dei rifiuti, che possono essere utilizzati come sono, il cosiddetto «tal quale», oppure provenire da impianti di selezione, per la produzione della frazione combustibile o Cdr (combustibile derivante dai rifiuti), previa separazione degli inerti (metalli, minerali, ecc.). Confrontando la resa di un impianto, che brucia il «tal quale», con uno che brucia il Cdr, si stima che il rendimento del primo sia di 250 Kwh/tonnellata, mentre quello del secondo sia di 800 Kwh/tonnellata, quindi la combustione del Cdr dà sicuramente una resa migliore. Prima di venire bruciati, i rifiuti sono stoccati in un’area dell’impianto dotata di un sistema di aspirazione, per evitare la dispersione dei cattivi odori.

2) Combustione: mediante griglie mobili i rifiuti vengono portati in foo e bruciati a circa 1.000° C, in presenza di aria forzata, per migliorare la combustione con continuo apporto di ossigeno.

3) Produzione di vapore: il calore derivante dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per portare ad ebollizione l’acqua di una caldaia posta a valle del bruciatore.

4) Produzione di energia elettrica: il vapore generato mette in moto una turbina, che accoppiata ad un motoriduttore e ad un alternatore, trasforma l’energia termica in elettrica.

5) Estrazione delle scorie: le componenti incombuste dei rifiuti vengono raccolte e smaltite in discarica. Nel caso dell’uso del Cdr si ottiene un abbattimento della produzione di scorie.

6) Trattamento dei fumi: i fumi derivanti dalla combustione vengono filtrati con un sistema multistadio (filtri elettrostatici o filtri a manica), per la riduzione degli agenti inquinanti sia aeriformi che corpuscolati; la loro temperatura viene inoltre abbassata a 140°C mediante acqua di raffreddamento, che necessita poi di depurazione.

7) Smaltimento delle ceneri: le ceneri derivanti dalla combustione sono normalmente classificate come rifiuti speciali non pericolosi e conferite in discarica. Nel caso della combustione del «tal quale» rappresentano circa il 30% del peso iniziale, mentre nel caso della combustione del Cdr rappresentano circa il 70%. Le polveri fini, classificate come rifiuti speciali pericolosi, rappresentano circa il 4% del peso iniziale. Entrambi i tipi di polveri sono smaltite in discariche per rifiuti speciali.

Il caso Torino

«VOGLIAMO INCENTIVI»

A seguito dell’emendamento al decreto legge sugli «obblighi comunitari», deciso dal Consiglio dei ministri il 27 dicembre 2006 e formalizzato a gennaio 2007, che in pratica ha ristretto l’ambito d’applicazione del sistema «CIP6» (gli incentivi alle fonti energetiche rinnovabili e assimilate, pagati come sovrapprezzo nelle bollette energetiche dai cittadini italiani), sia nella giunta comunale torinese che in quella della provincia di Torino c’è stata aria di bufera, perché sostanzialmente è stato colpito dal provvedimento il progetto di costruzione del termovalorizzatore del Gerbido. A seguito di questo emendamento, l’incentivo sarà limitato ai termovalorizzatori già esistenti ed operativi, ma non a quelli «già autorizzati» e di cui è già stata o sarà avviata la realizzazione, come appunto nel caso di quello del Gerbido.
La reazione del presidente della provincia di Torino, Antonio Saitta, si è tradotta in un appello bipartisan per tentare di ottenere, da parte del governo, una deroga a beneficio degli impianti già autorizzati. Secondo Saitta, senza tale deroga i costi della costruzione e del funzionamento del termovalorizzatore ricadranno sulle spalle dei cittadini, sotto forma di un vertiginoso aumento della tassa rifiuti.
Ma quanto verrebbe a costare la sola costruzione del termovalorizzatore? Ebbene, il costo dell’impianto è stimato in 260 milioni di euro, a cui vanno aggiunti 90 milioni di euro per le spese connesse, più 20 milioni di compensazioni, per un totale di 370 milioni di euro. La gara d’appalto dovrebbe essere avviata nel gennaio 2008, mentre l’impianto dovrebbe entrare in funzione nel 2011.
E quanto costa smaltire i rifiuti con il termovalorizzatore, oppure in discarica? Per quanto riguarda i costi dello smaltimento con il termovalorizzatore, questi varieranno a seconda della disponibilità dei contributi. In particolare dovrebbero essere di 120-125 euro per tonnellata a incentivi zero, mentre potrebbero scendere a 90-95 euro con incentivi al 40% ed a 80 euro con la totalità dei contributi; il conferimento in discarica costa attualmente circa 123 euro a tonnellata.
L’atteggiamento di chi vorrebbe questi incentivi è in linea con le direttive europee? La risposta, come abbiamo cercato di spiegare nell’articolo, è «no».

Roberto Topino
Rosanna Novara

Il caso della provincia autonoma

DOVE VOLA LA FARFALLA TRENTINA?


«Il bosco, la casa dei trentini», così recitava uno slogan della Provincia Autonoma di Trento. Sul turismo della natura il Trentino ha fondato le proprie fortune. Eppure, qualcosa sta cambiando e non in meglio. L’idea dell’inceneritore di Trento risale al 2001 e dovrebbe trovare realizzazione attraverso la «Trentino Servizi» spa. La società è partecipata al 20% dalla Asm di Brescia, proprietaria del famoso inceneritore, il quale, tra l’altro, ha prodotto questa grave conseguenza: «Brescia è ai primi posti tra le province lombarde per quantità pro capite di produzione di rifiuti, e agli ultimi per raccolta differenziata» (cfr. quotidiano L’Adige, 2 settembre 2002). Proprio un bell’esempio da seguire! Ma l’inceneritore non è tutto. Le cosiddette (e famigerate) «grandi opere» stanno per sbarcare anche nelle province di Trento e Bolzano. In primis, il progetto Alta velocità/capacità (Tav/Tac) da Verona a Monaco con un tunnel di 56 Km (da Fortezza ad Innsbruck) sotto il Brennero. Nel numero di dicembre 2006 de «Il Trentino», la rivista della Provincia di Trento, le pagine conclusive erano dedicate a «come sarà il Trentino tra 30 anni». Leggiamo qualche passo: «Tra trent’anni per il Trentino continueranno a transitare, assieme alle persone, anche le merci. Lo faranno soprattutto via treno, sui quattro (notare: 4!) binari della nuova ferrovia del Brennero e attraverso il grande tunnel sotto le Alpi. L’autostrada del Brennero sarà riservata alle auto (…)». A parte il fatto di non considerare per nulla la possibile (ed auspicabile) opposizione della gente, sembra che l’analisi costi-benefici sia stata fatta ignorando i primi (più che certi) ed esaltando i secondi (più che dubbi). A parte i 25 anni di lavori, l’ambiente naturale sconvolto, il paesaggio deturpato, il traffico, il rumore, le polveri, a parte tutto questo ci sarà anche il conto: l’Alta velocità è un buco finanziario senza fine, che dovrà essere colmato con soldi pubblici (si sa: al contrario dei profitti, i costi sono sempre collettivi…) per generazioni.
Continuiamo a leggere: «Tra trent’anni “Benessere” sarà la parola d’ordine. (…) Il riciclaggio dei rifiuti sarà un’abitudine normale, e l’inceneritore si avvierà alla chiusura». Ancora gli «esercizi di futurologia» de «Il Trentino» (così sono chiamati) nascono con importanti errori concettuali: in primo luogo, ignorano che già oggi la prospettiva più virtuosa è quella denominata «rifiuti zero»; in secondo luogo, non considerano che raccolta differenziata ed inceneritore sono strumenti antitetici, dato che la prima riduce la quantità di rifiuti prodotti, mentre il secondo ha bisogno di rifiuti per esistere e funzionare.
Insomma, gli amministratori trentini volevano infondere ottimismo nelle «magnifiche sorti e progressive», ma hanno ottenuto l’effetto opposto: uno scenario orwelliano. Quasi non bastasse, alcune settimane fa sono uscite delle statistiche sul «consumo di suolo» (cfr. L’Adige, 2 febbraio). Ebbene, il Trentino, negli ultimi anni,  ha cementificato come mai nella sua storia. Una terra di boschi e montagne, laghi e castelli, meli e vigneti rischia di soccombere davanti a progetti di sviluppo insensato ed anacronistico. Da trentino (sono di Rovereto) vedere la mia terra offesa da tangenziali, bretelle, viadotti, autostrade, funivie e in futuro forse anche da superferrovie, megatunnel, termovalorizzatori, aeroporti tra le montagne, mi produce un’enorme tristezza e rabbia. Ma voglio pensare in positivo. Per secoli i trentini e gli altornatesini (sudtirolesi) hanno saputo difendere la loro terra. Speriamo che si sveglino dall’attuale torpore e tornino in sé. Perché, come scriveva Tom Benetollo, «arrendersi al presente è il modo peggiore di costruire il futuro».

Paolo Moiola


Siti internet: www.pattomutuosoccorso.org
E-mail: noinceneritorenotav@gmail.com,
noeurotunnelnotavbz@libero.it

Fonti

I testi: M.Tozzi, L’Italia a secco, Rizzoli Editore, 2006

I siti Web:
• http://www.beppegrillo.it – blog del 1/12/06 e 15/12/06: – «Le emissioni degli inceneritori: danno biologico» in «Termovalorizzatori nella piana fiorentina: le ragioni del sì, le ragioni del no», di M. Gulisano, La Piana, Metropoli; – lettera del dr. Francesco Pansera al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia, dr. F. Abruzzo, del 30/10/2006
•http://www.ecoage.com/ambiente/rifiuti/termovalorizzatore.asp: Termovalorizzazione: di cosa si tratta?
• http://www.altreconomia.it: il termovalorizzatore Silla 2 di Milano
• http://www.rifiuti.it: Riciclaggio e recupero di rifiuti plastici in Svizzera
•http://www.rifiutilab.it/_downloads/Conferenza_Trento3doc.pdf: Inceneritore ed altri sistemi di trattamento termico dei rifiuti urbani: esperienze svizzere
•http://www.comune.firenze.it/comune/organi/q4/informa/giugno02/02.pdf: Termovalorizzatore: pro e contro
• http://www.isolapossibile.it/article.php3?id_article=1484: Regione Campania, emergenza rifiuti: storia di un disastro sanitario ed ambientale annunciato
• http://lists.peacelink.it/pace/msg12369.html: Proposta di cornordinamento a sostegno delle vittime della diossina in Vietnam

Roberto Topino e Rosanna Novara




La parabola del «figliol prodigo» (8)

Il padre spezza la sua vita tra i due figli

L a parabola del figliol prodigo si divide in due parti: a) vv. 12-24: il figlio minore; b) vv. 12-25: il figlio maggiore. Il padre è il peo attorno a cui ruotano tutti e due, anche a loro insaputa. Molti sarebbero i modi di accostarci al testo, scegliamo quello lineare, seguendo l’ordine dei versetti come proposti da Lc.

1a parte: il figlio «più giovane» (vv. 12-24)
Dividiamo questa prima parte che si compone di 13 versetti in 6 piccoli frammenti letterari, così sintetizzati:
1) vv. 11-15: morte come distacco     ovvero rifiuto della famiglia
2) vv. 16-17: morte come condizione    ovvero mancanza della famiglia
3) vv. 18-19: coscienza della morte     ovvero desiderio della famiglia
4) vv. 20-21: decisione contro la morte     ovvero famiglia come progetto
5) vv. 22-23: morte sconfitta     ovvero rinascita nella famiglia
6) vv. 23-24: morte trasformata in vita     ovvero famiglia in festa
Di ogni unità riporteremo il testo integrale nella versione della Cei; ma nel commento seguiremo il testo originario greco e, quando sarà necessario suggeriremo, una traduzione quasi letterale che ci permetta di fare un confronto, ma anche di andare più a fondo, con lo scopo di alimentare in noi il desiderio di «ruminare» la scrittura, che non si esaurisce in un solo significato.
Di questa parabola, che costituisce «il vangelo del vangelo», con l’aiuto dello Spirito cercheremo di assaporare parola per parola, cercando di sentirne la dolcezza come il profeta Ezechiele dopo avere mangiato il rotolo della parola di Dio: «Mangiai e accadde che nella mia bocca fu dolce come il miele» (Ez 3,3).

V. 11b: «Un uomo aveva due figli»
Nel numero di febbraio di MC abbiamo iniziato a commentare la 1a parte del 1° versetto della parabola lucana (v.11a) «E disse», che ci ha permesso di mettere in evidenza in modo particolare l’importanza della «Parola» in sé nel contesto dell’anonimato delle persone protagoniste della parabola: «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Di questa espressione avevamo già anticipato sia l’anonimato che la struttura circolare, dandone anche lo schema circolare o a chiasmo che riprendiamo.
L’espressione generica, infatti, ci lascia così stupiti da pensare che sia una scelta consapevole dell’evangelista per darci un messaggio particolare. L’indicazione lucana non descrive una relazione affettiva, ma evidenzia una contrapposizione d’interessi. Riprendiamo lo schema osservando la posizione dei singoli termini:
 L’uomo anonimo, solo dopo l’intervento dei figli acquisisce la dimensione esistenziale di padre. Nessuno è chi è per se stesso, senza rapporto a un altro. La nostra identità dipende dalla relazione costitutiva del nostro essere.
L’immobilità del possesso del verbo «aveva» si rapporta alla dinamicità del verbo «disse», che movimenta il cammino del figlio verso il padre. Il nucleo centrale di questa breve frase di presentazione è dominato dalla presenza, anch’essa anonima, dei due figli, di cui uno resta sullo sfondo (assente-presente incluso nei due figli), mentre immediatamente entra in scena «il più giovane».
Luca è unico nel NT a usare l’espressione «ànthropos tis» che si può tradurre con «un uomo», ma anche e forse meglio in senso più indefinito «un tale», perché fa riferimento al genere umano indistinto (cf 10,30; 12,16; 14,2.16; 15,11; 16,1; 19,12; 20,9; At 9,33).
In greco esiste un’altra espressione più individualizzante e precisa: «anêr tis – un uomo» (Lc 8,27; At 5,1; 8,9; 10,1; 13,6; 16,9; 17,5;25,14) oppure «tis anêr» (At 3,2; 14,8; 17,34), che Lc usa da ottimo conoscitore della lingua greca. Questa seconda espressione, pur anonima, mette in evidenza la caratteristica sessuata dell’uomo, come dirimpettaio della donna e sarebbe stata più idonea a definire un padre. Lc preferisce la prima alla seconda forma, più logica, forse perché la riceve da una fonte precedente, che vuole fare risaltare, attraverso l’anonimato estremo, la vera ricchezza di quest’uomo: non è definito da sé, ma è identificato subito dopo dai due figli: egli è padre.

Il padre crocifisso tra due figli-ladroni
Quale ne è il senso? Solo nel versetto successivo (v. 12) quest’uomo è definito «padre» in rapporto al figlio «più giovane»: i figli definiscono se stessi in rapporto al «padre», perché senza di lui essi non esistono. Un padre/madre senza il riconoscimento della loro pateità/mateità da parte dei figli restano anonimi: «un tale». Figlio e padre esistono solo nella relazione. Il padre «aveva due figli», ma resta «un tale», senza nome: un innominato perché i due figli non hanno un padre.
Possiamo intuire che quest’uomo è «già» morto prima ancora che inizi la storia: immediatamente infatti siamo immessi in una storia di morte e di morti. I figli sono morti al padre e il padre è morto per i figli. Il padre è «crocifisso» con i due figli che lo sorvegliano, ciascuno da un lato, ma ambedue assetati della morte del padre.
Il minore lo uccide anzitempo per appropriarsi dell’eredità prima della morte del padre: «Dammi la parte del patrimonio che mi spetta» (v. 12). È come se dicesse: «Tu per me sei morto».
Il maggiore non è da meno, perché mette il padre sotto processo e lo giudica con una severità veemente, condannandolo inesorabilmente senza appello: «Egli s’indignò… tu non mi hai dato… questo tuo figlio» (vv. 28. 30).
Si potrebbe intitolare questa prima parte della parabola come «la parabola della morte preventiva». Quale tragedia per questo «uomo», che in un attimo apre gli occhi e si sveglia da un sogno per prendere coscienza di avere fallito tutto nella sua vita che ha dedicato ai suoi due figli, i quali ora gli negano la sua stessa «natura»: i figli hanno il potere di trasformare il «padre» in «un tale».

Nota. In Oriente, al tempo di Gesù (il costume esiste ancora oggi presso i palestinesi) quando nasce un figlio, sia il padre che la madre perdono il nome proprio per acquistare quello della pateità/mateità. Facciamo l’esempio di Gesù. Il padre legale, Giuseppe, e la madre, Maria, mantengono i loro nomi fino alla nascita del figlio e per tutti sono Giuseppe e Maria. Dal momento della nascita del figlio maschio (che eredita non solo i beni, ma anche il nome e quindi il casato), Giuseppe diventa per tutti «il padre di Gesù» (‘ab Jehoshuà; in arabo: abù Issàh) e Maria perde il suo nome proprio e diventa per tutta la vita «la madre di Gesù» (‘em Jehoshuà; in arabo: ummùn Issàh: Gv 2,1.3; 19,25; At 1,14). Il figlio determina la natura e la funzione del padre e della madre.
Vale anche il contrario: di norma i figli non vengono chiamati con il nome personale, ma con il nome che indica la relazione generativa, per cui Gesù non è il «figlio di Giuseppe» (Lc 3,23; 4,22; Gv 1,45; 6,42) oppure «il figlio di Maria» (Mc 6,3).
 
L’anonimato estremo della parabola mette in risalto in modo drammatico la tragedia di questo padre: «aveva» solo due figli, che erano tutta la sua vita e la sua ricchezza; ha vissuto per loro credendo di essere una vita donata. Un istante e tutto crolla; senza identità, senza funzione, senza più figli: una pateità strozzata, vilipesa e uccisa.
È il sentimento comune a tanti padri e madri che davanti all’autonomia dei figli, che prendono strade diverse da quelle che essi vorrebbero, si abbandonano allo sconforto e pensano di avere fallito tutto nella loro vita o di non essere stati capaci di trasmettere ai figli quel bagaglio necessario ad affrontare il viaggio dell’esistenza, mentre i figli pretendono il diritto di sbagliare da soli, attraverso le loro esperienze.
A questi padri e madri, piombati nell’anonimato della sterilità non resta che assumere questo stato innaturale e trasformarlo in un punto di forza, come fa il padre della parabola lucana: è un padre negato che non nega né rinnega i suoi figli. I figli lo uccidono lasciandolo ancora respirare, ma egli non rinuncia alla sua pateità generativa e continua ad amarli perché a un padre e a una madre nessuno può impedire di amare e continuare a generare i figli, anche contro la loro volontà, anche se non ne sono coscienti. Un figlio può rinnegare il padre; il padre non può rinnegare mai il figlio: padre e madre «sono condannati» a partorire i figli sempre. In questo contesto si capisce e si spiega l’espressione che tante volte abbiamo richiamato: «Dio è giusto perché salva, perché perdona».

V. 12b-c: 12bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. 12cIl padre divise tra loro le sostanze
Il vocativo «padre» farebbe supporre un grado d’intimità confidenziale, invece mette ancor più in evidenza lo stridore tra questa parola pregna di affetto e la richiesta del figlio, che si rivolge al padre con un imperativo. Lc usa l’imperativo aoristo (dòs – dammi), che in greco esprime un comando che deve essere eseguito una sola volta, per cui potremmo tradurre: «dammi una volta per tutte/una buona volta» oppure «dammi definitivamente».
Usando il verbo in questo tempo il figlio vuole chiudere la partita col padre una volta per sempre, segno che la sua richiesta è frutto di una lunga gestazione e macchinazione. Forse da molto tempo fa le prove, ma non ha mai trovato il coraggio di affrontare il padre, mentre ora entra nella logica della rottura definitiva e quindi della lacerazione: «Padre, dammi…» nel senso di «facciamo i conti». Lo circuisce con una finta affettività (padre) per assestargli il colpo di grazia senza scampo (dammi).
Già nella quarta parola di libertà della Toràh (comandamento), Dio aveva scritto sulla pietra che una condizione per accedere all’alleanza era l’onore dei genitori: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dá il Signore, tuo Dio» (Es 20,12; cf Dt 5,16). La sanzione per chi non osserva questo obbligo è la morte: «Chiunque maltratta suo padre o sua madre dovrà essere messo a morte; ha maltrattato suo padre o sua madre: il suo sangue ricadrà su di lui» (Lv 20,9; cf Es 21,17). Il libro dei Proverbi caratterizza la fisionomia del figlio saggio e intelligente e quella del figlio stolto e disonorato: il primo onora il padre (Pr 15,20; 28,7; 10,1) il secondo lo rattrista (Pr 19,13.26; 17,25).
Il figlio più giovane con una sola parola (dammi)  abolisce la Legge, la Sapienza e qualsiasi principio che si basi sul dovere: abolisce semplicemente l’intera Toràh di Mosè. Egli è impaziente e in quanto giovanissimo non ha tempo per aspettare il suo tempo: accecato da se stesso, vuole il buio attorno a sé e tutto deve piombare nel silenzio della morte: «Dammi!». La figura del figlio più giovane risalta ancora di più, se messa a confronto con due simboli eccellenti di tutta la tradizione biblica giudaico e cristiana: Isacco e Gesù, i due figli esemplari.
 In Gen 22 incontriamo Isacco che sale accanto al padre Abramo verso la cima del monte Moira, dove egli figlio «unigenito» dovrà essere sacrificato. Lungo il cammino padre e figlio dialogano con intensità fino a identificarsi entrambi nell’obbedienza al loro Dio esigente. Isacco si rivolge ad Abramo, invocandolo con la dolce espressione «Padre mio!», a cui fa eco la risposta calda e traboccante di affettività del padre: «Eccomi, figlio mio» (v. 7).
Nel NT Gesù di Nazareth che la tradizione cristiana vede prefigurato in Isacco, nel momento supremo della sua morte, prende tutta la sua vita e la getta nel cuore del Padre: «Padre nelle tue mani depongo/affido (da paratìthemi) il mio spirito» (Lc 23,46). Isacco e Gesù hanno il rispettivo padre come mèta e fondamento della propria esistenza. Il «figlio più giovane» della parabola invece esige: «dammi» (da dìdomi); egli ha come scopo e confine della sua esistenza solo ed esclusivamente se stesso: egli vuole, esige e pretende. Il verbo greco dìdomi significa dare/donare/offrire, ma anche pagare (cf Lc 20,22; 23,2) per cui c’è una richiesta esigente, come se riscuotesse un pagamento.

«La parte del patrimonio che mi spetta»
La traduzione letterale quasi meccanica è: «Padre dammi la parte che è posta sopra della sostanza», perché esprime l’idea di una divisione e per dividere bisogna prima contare e quindi «porre sopra» il tavolo e fare i calcoli di quanto spetta a uno e quanto all’altro. Lc per indicare «il patrimonio» usa il sostantivo femminile «ousìa», derivato dal verbo eimì (io sono), che significa «sostanza/essenza/bene/patrimonio»; ma nel greco del 1° secolo (Platone e Plotino) significa anche «natura/esistenza», cioè la consistenza dell’essere. Il figlio non chiede solo «la roba» o il patrimonio, ma vuole di più: egli pretende la «natura» del padre suo, cioè la sua vita.
Il padre, infatti, capisce perfettamente la richiesta del figlio, perché l’evangelista si premura di dire che «divise tra loro» non le sostanze, come dice la traduzione della Cei, ma «ton bìon – la vita». Il padre prende la sua vita e la distribuisce, la divide, la spezza tra i due figli. Chiedere la vita del padre insieme agli averi, senza aspettare la morte naturale, significa volee la morte in anticipo. Con la sua richiesta il «figlio più giovane» uccide il padre in nome della sua autonomia e libertà.

Una vita… «a perdere»
Non si parla della reazione emotiva del padre, ma di ciò che fece: sa che come padre non ha una vita propria perché, avendo generato lui i due figli, spetta a lui dare loro la sua vita. Sono i padri che devono «donare» la vita ai figli e non viceversa: «Il padre divise tra loro la (sua) vita».
Nell’ultima cena Gesù compie lo stesso gesto: prese il pane, lo spezzò, lo diede (in greco dal verbo dìdomi) loro e disse: è il mio corpo… è il mio sangue (cf Lc 22,19). Chi ama oltre se stesso, dà la vita senza calcoli e senza misura. Solo Dio può fare questo e solo un padre/una madre sulla terra possono imitare Dio nel dare la vita «a perdere». Il padre avrebbe potuto appellarsi alla Legge e farlo condannare, metterlo in riga, diseredarlo, imporre la sua volontà e, se avesse voluto, avrebbe potuto distruggerlo, portandolo in giudizio ed esigendone la condanna: «Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce… suo padre e sua madre… lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita… Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà» (Dt 21,18-21). Invece di avvalersi del suo diritto, il padre non solo vi rinuncia, ma divide la sua vita.
Con questo gesto il padre non dà solo la sua vita, ma annulla e svuota la richiesta e l’azione del figlio, perché adesso non è più il figlio che pretende, ma è il padre che «offre/dà» la sua vita. La situazione è capovolta. Se il padre avesse punito il figlio, lo avrebbe inchiodato alla sua responsabilità oscena, perdendolo per sempre e uccidendolo; ma svuotando il suo «imperativo» (dammi), spezzando la propria vita e donandola senza nulla pretendere ai figli, egli li salva ancora una volta preventivamente e li mette al riparo da se stessi, perché li custodisce al caldo della sua vita che ora è data per sempre perché data per amore.

Il padre «spezzato», figura di Abramo
Non è più l’uomo qualunque, «un tale», ora è a tutti gli effetti «il padre» e non tradisce la sua «natura», quella che il più giovane chiede per sé come garanzia della sua autonomia, perché la «natura» del padre è quella di essere «vita» per i figli: «divise la [sua] vita».
Il comportamento di questo padre «spezzato» è lo stesso di quello di Abramo, quando Dio lo chiama e gli ingiunge una separazione dolorosa, una frattura irreversibile con tutta la sua vita: Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria, da tuo padre (Gen 12,1-4): Abramo deve lasciare la sicurezza (paese), la storia (patria) e gli affetti (padri); con sé deve portare solo la sua sterilità, perché possa sperimentare che la vita donata è un dono ancora più grande, perché non dipende dalla sua virilità, ma dalla grazia di Dio.
Il redattore di Genesi fissa in un gesto la risposta di Abramo: «E Abramo partì» (Gen 12,4). La risposta degli uomini di Dio è sempre un gesto che dice più di qualsiasi parola. Lo stesso atteggiamento troviamo nel «padre» del figlio più giovane: «divise la [sua] vita». Non si limita a dare le sostanze del patrimonio a cui forse nemmeno pensa, ma dà tutto ciò che è: il suo essere padre non appartiene a lui, ma appartiene solo ai figli. Non un rimprovero, non un appunto né recriminazione, ma semplicemente un dono gratuito della sua vita.
Al padre interessa solo una cosa: salvare il figlio; per questo, invece di rischiare di mandarlo da solo, gli dà la sua vita come compagna di viaggio e la vita del padre lo custodirà e proteggerà anche contro la sua volontà e a sua insaputa: «Il padre divise la vita».                  (continua – 8)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Tira proprio una brutta aria

Gli inquinanti atmosferici assediano le città

Benzene, polveri sottili, ozono. Si tratta di nomi ormai entrati nel linguaggio comune, ma senza che la loro conoscenza producesse effetti positivi. Sono soltanto aumentate le diatribe e lo scaricabarile delle responsabilità. Qual è il peso del traffico automobilistico nell’inquinamento? Le marmitte catalitiche servono? La benzina «verde» è efficace? Un’analisi competente che evidenzia la gravità
di un problema la cui soluzione pare lontana. E non soltanto per colpa delle istituzioni pubbliche…

La qualità dell’aria è certamente uno dei requisiti essenziali per la nostra salute e per il nostro benessere. Purtroppo gli inquinanti atmosferici, soprattutto nei grandi centri urbani, rappresentano una grave minaccia alla salute.
Secondo una recente valutazione della «Organizzazione mondiale della sanità» (World Health Organization, Who), il peso delle patologie correlate agli inquinanti atmosferici è di circa di 2.000.000 di morti premature per anno, a livello mondiale.
Questa valutazione tiene conto sia dell’inquinamento degli spazi aperti, che di quello degli ambienti confinati, dove ha un peso rilevante l’utilizzo di combustibili solidi, come il carbone ed il legname.
L’Oms ha perciò predisposto delle linee guida, per ridurre l’impatto sulla salute da parte degli inquinanti atmosferici.
Sulla base di queste indicazioni, in Italia, il Decreto ministeriale (Dm) n° 60 del 2 aprile 2002 ha recepito le direttive comunitarie (1999/30/CE e 2000/69/CE) conceenti i valori limite di qualità dell’aria ambiente per il biossido di zolfo, il biossido di azoto, gli ossidi di azoto, il materiale particolato (PM10), il piombo, il benzene ed il monossido di carbonio.

Dalla «super» alla «verde»: dal piombo al benzene

Bisogna fare una breve digressione sugli scarichi dei motori a combustione intea e sulle marmitte catalitiche.
In passato la benzina «super» conteneva un additivo antidetonante (la cui funzione è quella di rallentare la velocità di esplosione della benzina migliorando l’efficienza del motore) a base di piombo tetraetile, il quale, avendo effetti negativi sul sistema nervoso, è stato tolto e sostituito da altri composti tra cui il benzene.
La nuova benzina senza piombo è stata definita «verde» (i manifesti pubblicitari rappresentavano un passeggino vicino ad un’automobile), dimenticando o trascurando gli effetti del benzene in essa contenuto, noto per i gravissimi danni emato-midollari, con un meccanismo di azione molto simile a quello delle radiazioni ionizzanti, tanto che viene anche definito tossico radiomimetico.
Il benzene (detto anche benzolo) è stato spesso impiegato nell’industria, per le sue proprietà di solvente, nel periodo antecedente alla legge 5 marzo1963, che ne ha vietato l’uso.
L’entrata in vigore del Dm n. 60 del 2002 ha stabilito il valore limite per la protezione della salute umana di 5 µg/m3 (microgrammi al metro cubo), valore da raggiungere entro il primo gennaio 2010. Il Dm n. 60 prevede anche un margine di tolleranza di 5 µg/m3 (che riporta il valore limite a 10 µg/m3) fino al 31 dicembre 2005. Dal primo gennaio 2006, e successivamente ogni 12 mesi, il valore è ridotto secondo una percentuale costante per raggiungere lo 0% di tolleranza al primo gennaio 2010.
Se la benzina rossa aveva il difetto di contenere alte percentuali di piombo, la benzina cosiddetta verde ha il limite di contenere percentuali non indifferenti di benzene: dalla tossicità del piombo si è passati alla cancerogenicità del benzene.
Secondo recenti stime dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’U.S. Environmental Protection Agency, l’esposizione «a vita» di una popolazione a concentrazioni di 1 µg/m3 di benzene provoca 4-10 casi aggiuntivi di leucemia ogni milione di persone.
Ma quanto benzene c’è nella benzina «verde»? Appena è entrata in commercio si diceva che il benzene era presente nella concentrazione del 5%, tale percentuale è stata successivamente ridotta.
In Italia, la legge n. 413/1997 ha stabilito che il contenuto di benzene nelle benzine non deve superare l’1% in volume; ciò significa che facendo un pieno di 50 litri si carica circa mezzo litro di benzene!
Il benzene è un liquido incolore dal caratteristico odore aromatico pungente che diventa irritante a concentrazioni elevate. La soglia di concentrazione per la percezione olfattiva è di 5 mg/m3 (Air Quality Guidelines for Europe, Who 1987).
L’odore del benzene ricorda quello della vernice fresca e quello dello smalto per le unghie: quando un veicolo catalizzato parte si sente chiaramente tale odore, che permane fino a quando il sistema (catalizzatore, motore) non ha raggiunto le temperature di esercizio (per la marmitta è di circa 800°C). Ne deriva che le emissioni inquinanti, per i primi 4/5 km e con una temperatura estea di 20°C, sono paragonabili a quelle di una vettura non catalizzata. Con temperature estee inferiori a 20°C e con ingorghi di traffico l’inquinamento è ancora maggiore.

Le auto catalitiche: è questa la soluzione?

Uno studio della Stazione sperimentale combustibili di Milano ha dimostrato che una vettura non catalizzata, che procede in condizioni di scorrevolezza di traffico a velocità costante, emette una quantità di inquinanti inferiore ad una vettura catalitica costretta a procedere con marce ridotte e con continue soste e partenze, come avviene regolarmente in molte città italiane.
Quando in città si sente l’odore caratteristico del benzene, vuol dire che la sua concentrazione è superiore a 5 mg/m3, mentre la soglia di pericolo è di 5 µg/m3, cioè un valore inferiore di 1.000 volte.
Già a questo punto è chiaro che i blocchi alla circolazione attuati in varie città italiane serviranno a ben poco per tutelare la salute delle persone, perché tutte le vetture a benzina, in situazioni di traffico intenso e per tratti di pochi chilometri, emettono grandi quantità di inquinanti.
Un altro inquinante, che è oggetto di attenzione, è il biossido di azoto, che fa parte dei cosiddetti gas nitrosi, che si formano per combinazione dell’azoto con l’ossigeno.
Il traffico veicolare è responsabile di circa la metà degli ossidi di azoto presenti, l’altra metà è dovuta alle combustioni di tutti i tipi, dai riscaldamenti domestici alle industrie, tenendo presente che, in genere, più è alta la temperatura di combustione e maggiore è l’emissione di ossidi di azoto.
Il biossido di azoto ha un importante ruolo nel processo di formazione dell’ozono. Anche il biossido di zolfo o anidride solforosa è irritante per le vie respiratorie e può essere causa di bronchiti croniche anche invalidanti.
L’emissione di biossido di zolfo deriva dal riscaldamento domestico a gasolio, dai motori Diesel, dagli impianti per la produzione di energia e, in generale, dalla combustione di carbone, gasolio ed oli combustibili contenenti zolfo.
Il biossido di zolfo può anche dare origine ad acido solforico ed è responsabile della formazione delle piogge acide che hanno effetti negativi sull’ecosistema, sui monumenti e, non dimentichiamolo, sui manufatti di cemento amianto, corrodendo la matrice cementizia e liberando le fibre di amianto.
Negli ultimi anni l’emissione di biossido di zolfo nelle aree urbane è stata ridotta grazie al miglioramento della qualità dei combustibili, riducendo la concentrazione di zolfo.
Il terzo componente nocivo per l’apparato respiratorio è l’ozono, che può essere di origine naturale, ma è anche legato alle attività produttive. Quando le percentuali presenti nell’aria che respiriamo aumentano, l’ozono diventa un inquinante pericoloso per la nostra salute. L’ozono è un gas tossico e l’esercizio fisico svolto all’aperto in coincidenza con elevate concentrazioni di ozono nell’atmosfera può essere veramente dannoso.
Due parole sul monossido di carbonio, che è dovuto alla combustione incompleta dei carburanti utilizzati per il movimento degli autoveicoli.
Il monossido di carbonio è pericoloso perché non ha odore. L’inalazione di monossido di carbonio provoca vari disturbi (mal di testa, affanno, vertigini, nausea, disturbi visivi), che spesso non vengono correlati a tale composto proprio per la sua insidiosa assenza di odore.
Non dimentichiamo che, in ambienti chiusi, il monossido di carbonio può provocare la morte.

Le polveri sottili: un aumento irrefrenabile?

Ci sono poi le polveri sottili (PM10) definite anche «particolato», che includono tutte quelle particelle solide o liquide, che possono trovarsi disperse nell’aria, come la fuliggine, il piombo, il nichel, i solfati, la polvere, la cenere e anche sostanze naturali come il polline. Le polveri più inquinanti sono quelle emesse da sorgenti quali: industrie, centrali termoelettriche, cantieri e autoveicoli. Il particolato si può anche formare tramite la condensazione in microgocce di inquinanti quali l’anidride solforosa, gli ossidi di azoto ed alcuni composti organici volatili come gli idrocarburi policiclici aromatici. La loro pericolosità è quindi dovuta alle sostanze di cui sono composte e a ciò che trasportano.
Con la sigla PM10 si definisce il particolato caratterizzato da una dimensione inferiore ai 10µm, che ha la caratteristica di poter raggiungere direttamente gli alveoli polmonari.
Esistono particelle ancora più fini, le PM2,5, che sono gli inquinanti più dannosi per la salute dell’uomo; posizionandosi direttamente sulla mucosa dell’albero respiratorio e sugli alveoli, infatti, queste piccolissime polveri possono causare disturbi dell’apparato respiratorio, dalle semplici irritazioni alle più gravi patologie, cancro compreso.
Nel caso del particolato, il pericolo non è solo dovuto alla dimensione delle particelle, ma anche e soprattutto al tipo di sostanze in esse contenute.
A Milano, per esempio, le polveri sono molto più ricche di amianto rispetto a Roma (in media, 10 volte di più) e ciò le rende molto più pericolose rispetto ad altre di pari dimensioni, ma contenenti una minor percentuale di questo minerale. L’amianto, infatti, è una delle sostanze più pericolose presenti nelle città industrializzate.

Quando un guaio tira l’altro

A tal proposito, tornando all’effetto delle piogge acide, queste corrodono la matrice cementizia dei manufatti di eternit (cemento-amianto), liberando le fibre di amianto, che possono raggiungere i nostri polmoni.
La quantità di tetti di eternit presenti sul territorio è ancora notevole ed il rischio per i cittadini di contrarre tumori da amianto è tutt’altro che trascurabile.
Con buona approssimazione, si può affermare che soltanto un terzo dei mesoteliomi (tumori da amianto) è correlabile con attività lavorative a contatto con l’amianto; tutti gli altri casi sono dovuti ad esposizioni a rischio di tipo extra-lavorativo.
Un’altra sostanza dannosa, presente sotto forma di polvere fine, è il carbone, che ha la capacità di legarsi ad altre sostanze chimiche veicolandole fino nei nostri polmoni.
Va detto che i veicoli a benzina emettono quantità trascurabili di polveri sottili e non esistono per loro limiti riguardanti le emissioni di PM10.
I veicoli a benzina emettono però altri inquinanti: in primo luogo il benzene, del quale abbiamo parlato in precedenza.
I veicoli meno inquinanti in assoluto sono quelli alimentati a gas (metano o gpl) e quelli elettrici, anche se l’elettricità è prodotta con il petrolio e quindi il problema viene solo spostato.
Altre sostanze che si presentano sotto forma di polveri sottili sono dovute ai lavori nei cantieri, all’usura del manto stradale, delle gomme, dei freni e delle frizioni.
Le polveri sottili, in quanto tali, si depositano al suolo e vengono sollevate dal vento e dal passaggio dei veicoli: si giunge al paradosso che anche se fosse consentita solo la circolazione delle carrozze trainate da cavalli, verrebbero comunque sollevate polveri sottili.
Che fare? Per quanto riguarda la benzina ed il gasolio, alcuni studiosi sostengono che la cosa più stupida che si può fare è bruciare il petrolio, dato che esso è una fonte esauribile e non rinnovabile. Il petrolio viene però utilizzato anche per la produzione di moltissimi manufatti, che pertanto in sua mancanza dovranno essere realizzati con altri materiali.
Bisognerebbe trovare altri sistemi di produzione di energia; in Brasile, per esempio, molti veicoli, anche prodotti da industrie italiane, viaggiano ad alcornol (che è un ottimo propellente non inquinante).
Per le polveri sottili, ha dato ottimi risultati il lavaggio delle strade che, se praticato in modo costante, consente di abbattere in modo sensibile la percentuale di inquinanti dispersi nell’aria. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

SUV? NO, GRAZIE!

«La moda dei Suv sta prepotentemente affermandosi anche in Italia. Già diffusi negli Usa da molti anni sono noti per essere autovetture gigantesche, pesanti, voraci di energia e in genere specchio di un atteggiamento arrogante ed aggressivo verso il prossimo e l’ambiente. Essi non hanno nulla a che vedere con le vere e più spartane auto fuoristrada utili a chi lavora su terreni accidentati: si tratta invece di auto di gran lusso, il più delle volte sempre lucide e che non vedranno mai uno schizzo di fango o l’ammaccatura di un sassetto, usate semmai per salire sui marciapiedi di città e pavoneggiarsi davanti a bar e discoteche. In genere pesano 2,5 tonnellate (oltre il doppio di un’auto normale), sono più lunghe e più larghe, occupano quindi più spazio richiedendo parcheggi e strade più grandi. Consumano circa il doppio di un’utilitaria».

Fonte: Luca Mercalli – Chiara Sas­so, Le mucche non mangiano cemento, Edizioni Socie­tà Mete­o­ro­logica Subalpina, To­rino 2004; pagina 180.

SOLO CONOSCENDO POSSIAMO AGIRE

Un vecchio detto ammonisce che non abbiamo ricevuto la terra in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli. Dovremmo quindi riuscire a mantenerla vivibile per le generazioni future, non contaminata da sostanze capaci di mettere in serio pericolo la salute e la vita nostre e di chi verrà dopo di noi. Per fare questo è però necessario innanzitutto prendere coscienza di quali sono i problemi, che affliggono l’ambiente in cui viviamo, cioè le varie forme d’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, che spesso sono il risultato di svariate attività industriali, ma anche delle nostre abitudini di vita, non sempre corrette, o di forme di gestione della cosa pubblica poco oculate e non lungimiranti. Solo così, con la conoscenza di ciò che può minacciare la nostra salute, si può pensare alle possibili soluzioni per risolvere i problemi ambientali ed acquisire la convinzione che ciascuno di noi, modificando un poco le proprie abitudini, può contribuire al miglioramento dell’ambiente in cui vive, e più in generale del nostro pianeta.

In questa rubrica, ben conosciuta dai lettori di MC, verranno di volta in volta trattate le problematiche ambientali che ci riguardano più da vicino, con una particolare attenzione alle patologie che da loro possono derivare.

Roberto Topino
Rosanna Novara

IL GLOSSARIO DI «NOSTRA MADRE TERRA»

L’ABC DEL PROBLEMA

Amianto (o asbesto) – È il nome che si dà a molti silicati, che si presentano in fibre più o meno flessibili, che possono essere tessute. I più importanti tipi sono l’amianto crisotilo o asbesto vero e proprio, costituito da serpentino a fibre lunghe biancastre o verde-grigiastro; l’amianto anfibolo, costituito da actinoto, anfibolite e tremolite; l’amianto azzurro o crocidolite, contenente anche sodio e ferro. È insolubile, inodore, resistente al calore, alle azioni meccaniche e chimiche, per cui in passato ha trovato largo impiego nell’industria e nell’edilizia. Purtroppo esso ha un elevato potere cancerogeno, riconosciuto dall’Oms negli anni ‘80, per cui in Italia, a partire dal 1994, la legge ne vieta l’estrazione, la lavorazione e la commercializzazione. L’amianto è responsabile dell’insorgenza di asbestosi e di gravi forme di tumore come il mesotelioma pleurico e peritoneale ed il carcinoma polmonare.

Benzene (o benzolo) – È un liquido incolore, facilmente infiammabile, presente nella benzina verde. Si tratta di una sostanza tossica, di cui è accertato il potere cancerogeno. La prolungata permanenza in ambienti contenenti benzene provoca nausea, anemia ed, in alcuni casi, leucemia. È un idrocarburo ciclico, cioè è formato da un anello formato da 6 atomi di carbonio legati tra loro (oltre che con l’idrogeno), per mezzo di legami alternatamente singoli e doppi. È in pratica il capostipite degli idrocarburi aromatici. Nell’ambiente viene rilasciato, oltre che dalla combustione e dall’evaporazione delle benzine, anche dalle perdite di prodotti petroliferi nello stoccaggio e nel trasporto; inoltre, viene liberato con l’impiego di determinate pitture, nel lavaggio a secco e nella produzione di polietilene. Oltre agli effetti patologici sull’uomo e sugli animali, sono stati osservati danni alle piantagioni di cotone ed alle colture di fiori, in particolare di azalee e di orchidee.

Biossido d’azoto (NO2) – Questo, come altri ossidi di azoto, deriva dalla combustione ad elevata temperatura di gasolio, carbone o gas naturale nelle centrali elettriche. Inoltre gli ossidi di azoto, tra cui il biossido, derivano anche dalla produzione di fertilizzanti chimici. I loro effetti principali sono i disturbi respiratori, le piogge acide, la corrosione di metalli, l’effetto serra, la diminuzione dello strato d’ozono.

Biossido di zolfo (anidride solforosa, SO2): così come il triossido di zolfo SO3 è prodotto durante la raffinazione del petrolio,  le lavorazioni metallurgiche del rame e del piombo e la  produzione dell’acido solforico. La loro presenza nell’aria determina un aumento delle infezioni per via respiratoria, delle malattie cardiache e la corrosione di materiali a seguito della formazione di piogge acide.

GPL – È l’acronimo di «gas petrolifero liquefatto».

Leucemie – Si tratta di un gruppo di tumori maligni del sangue derivanti dai precursori dei leucociti (globuli bianchi) circolanti e tissutali. Esse rappresentano circa il 3% del totale dell’incidenza mondiale del cancro e sono, di solito, distinte sia in base al tipo cellulare d’origine (linfociti, mielociti, monociti), sia dal loro andamento clinico-patologico (forma acuta, subacuta, cronica). Nei bambini al di sotto dei 15 anni d’età, la leucemia è la forma di cancro più comune.

Linfomi – Si tratta di un gruppo piuttosto eterogeneo di tumori, tra cui i più noti sono quello di Hodgkin, i non-Hodgkin ed il linfoma di Burkitt. L’incidenza di queste forme di tumore è aumentata nei paesi occidentali a partire dal 1960, soprattutto tra le popolazioni con elevato livello socio-economico. Anche le leucemie appartengono a questa famiglia, mentre non tutti i linfomi sono leucemie, essendo molti di loro dei tumori solidi.

Materiale particolato (PM10 e PM2,5) – La definizione più corretta per queste forme d’inquinamento è quella di «particelle totali sospese» o PTS. Tali particelle vengono distinte in polveri inalabili o PM10, cioè con diametro inferiore a 10 µm, capaci di penetrare tutto il tratto superiore dell’apparato respiratorio fino ai bronchi e in polveri respirabili o PM2,5, cioè con un diametro inferiore a 2,5 µm, che possono penetrare tutto l’albero respiratorio fino agli alveoli polmonari. La loro liberazione nell’ambiente è dovuta a molteplici attività quali la combustione nelle centrali termiche, negli inceneritori dei rifiuti e negli impianti di riscaldamento domestici, l’attività dei cementifici, delle acciaierie, delle industrie vetraria e tessile e delle raffinerie di petrolio. I loro effetti principali sono le irritazioni polmonari, l’insorgenza di bronchiti, di enfisemi e di tumori maligni.

Mesotelioma pleurico e peritoneale – Questa forma di tumore maligno colpisce quasi esclusivamente la pleura ed il peritoneo ed è noto che si tratta della conseguenza di un’esposizione  ambientale o professionale all’asbesto. Queste forme tumorali hanno un lunghissimo periodo di latenza (circa 30 anni) ed un esito quasi sempre mortale. L’incidenza di questi tumori è in aumento in modo preoccupante, soprattutto nei paesi occidentali. Si può, tuttavia, attendere un aumento di questi casi anche nei paesi in via di sviluppo, dove purtroppo trovano tuttora largo impiego manufatti contenenti amianto, come l’eternit, già banditi nei paesi più sviluppati.

Micron – È la millesima parte del millimetro, cioè 0,001 mm. Viene identificato con la lettera greca µ, la quale viene utilizzata anche davanti ad altre unità di misura (per esempio: 1µg = 0,001 grammi).

Monossido di carbonio (CO) ed anidride carbonica (CO2) – Derivano dalla combustione incompleta della benzina, dalle emissioni dell’industria chimica e dall’incenerimento dei rifiuti solidi. Come effetti, il primo riduce la capacità del sangue di trasportare ossigeno, mentre l’anidride carbonica è la principale responsabile dell’effetto serra.

Ozono (O3) – È un gas bluastro dal caratteristico odore pungente, instabile anche a temperatura ordinaria, per cui tende a trasformarsi in ossigeno. Nell’atmosfera si trova solo in piccola quantità. Si forma dall’ossigeno per azione delle scariche elettriche e, per mezzo di reazioni fotochimiche, dagli ossidi d’azoto provenienti dagli scarichi dei motori a combustione intea e delle centrali termoelettriche. L’ozono danneggia i vegetali e molti materiali, tra cui gomme e tessuti; nell’uomo e negli animali provoca bronchiti ed attacchi d’asma. Esso contribuisce inoltre alla formazione della piogge acide e delle cappe di smog.

Piogge acide – Sono precipitazioni atmosferiche caratterizzate da un elevato tenore di acidità, a causa dell’aumento del consumo dei combustibili. Normalmente la pioggia è leggermente acida, con pH 5,6 circa, poiché reagisce con l’anidride carbonica e contiene acido carbonico. Attualmente, in molte zone del mondo e soprattutto nei paesi industrializzati, i dati relativi al pH delle precipitazioni sono molto inferiori alla norma; ad esempio nell’Europa continentale essi sono scesi a pH 4,1. Piogge con pH così basso danneggiano fortemente le foreste ed avvelenano le acque dei laghi e dei fiumi, con gravi conseguenze per la fauna. Tra i principali responsabili della formazione delle piogge acide c’è il biossido di zolfo o anidride solforosa, che reagisce con l’aria umida, ossidandosi e trasformandosi poi in acido solforico. Il meccanismo di formazione delle piogge acide è accelerato dall’inquinamento atmosferico globale, perché le particelle metalliche presenti nell’atmosfera (soprattutto ferro e manganese) catalizzano la reazione di acidificazione, così come l’ozono, il perossido d’idrogeno, l’ammoniaca e gli ossidi di azoto, questi ultimi emessi dalle centrali termoelettriche e dagli scarichi delle automobili.

Radiomimetico – Composto o sostanza con effetti sugli esseri viventi analoghi a quelli di una sostanza radioattiva, cioè effetti mutageni (che provocano mutazioni nel DNA), cancerogeni (che provocano il cancro)  e teratogeni (che provocano malformazioni fetali).

(a cura di R.Topino e R.Novara)

(*) Dott. Roberto Topino
Laureato in medicina e chirurgia, specialista in medicina del lavoro, si occupa di patologie legate all’attività lavorativa da circa trent’anni.
È stato cornordinatore della sezione tutela della salute dei lavoratori dell’Asl di Rivoli (Torino).
Dal 1992 esegue accertamenti e revisioni di malattie professionali presso l’Inail di Torino.

Dr.ssa Rosanna Novara
Ha una laurea in scienze biologiche e un dottorato di ricerca in oncologia.
Ha svolto attività di ricerca presso il dipartimento di scienze biomediche ed oncologia umana – sezione di anatomia ed istologia patologica dell’Università di Torino.
Attualmente è docente di anatomia e di fisiologia in una scuola di formazione professionale.

Roberto Topino e Rosanna Novara




La parabola del «figliol prodigo» (7)

Dio Padre è giiusto perché misericordioso

Con questa 7a puntata iniziamo la spiegazione, versetto per versetto, della parabola raccontata da Lc 15,11-32, a cominciare dal titolo.
Il più diffuso è: «Parabola del figliol prodigo»1. L’espressione non appartiene al testo biblico, ma è messo dagli editori come sintesi del brano. Non è un titolo sbagliato, ma è impreciso e povero, perché riduce l’immensa ricchezza della parabola a un solo aspetto, per altro marginale: la prodigalità spensierata del figlio lontano da casa.
Sono stati proposti molti titoli per questa parabola, che però non si lascia imbrigliare in una definizione sintetica. La prima edizione della Bibbia della Cei del 1971 titola: «Il figlio perduto e il figlio fedele: il “figlio prodigo”», cercando di salvare e superare al tempo stesso il titolo tradizionale, ma  travisando così la figura del figlio maggiore, che non è affatto un figlio fedele. La seconda edizione del 1997, infatti, cambia il titolo nel più comprensibile «Parabola del padre misericordioso», mettendo in evidenza il cuore del racconto, ma lasciando in ombra l’elemento della «giustizia», che è essenziale nel pensiero lucano.
Bruno Corsani e Carlo Buzzetti nella edizione bilingue (greco-italiano) del NT titolano: «Parabola del figlio ritrovato»3, che è parzialmente vera, ma non dice il cuore della parabola. Helmut Gollwitzer  titola «La gioia di Dio»4 e in questo modo sintetizza tutto il capitolo alla luce del tema della gioia (gr.: charà/chàirê) presente espressamente 6 volte in tutto il capitolo 15 (vv.5.6.7.9.10.32; cf anche v. 23). Gérard Rossé sceglie un titolo neutro, da scoprire: «La parabola del padre e dei suoi due figli»5, senza alcuna implicazione preventiva. Noi proponiamo di chiamarla: «La parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso». È un titolo lungo, ma offre la chiave di lettura per entrare nel cuore di Dio il cui mestiere è il perdono. Sappiamo, però, che si continuerà a chiamarla per abitudine e comodità «parabola del figliol prodigo».

La sezione della «giustizia»

Prima di cominciare l’analisi dei versetti, è necessario ribadire che quando si legge questa parabola bisogna avere ben presente l’inizio e la fine della sezione in cui Lc colloca il racconto: la sezione comprende da 15,1 fino a 17,10 e tratta della «giustizia di Dio», in contrapposizione a quella degli uomini. Questi emettono sentenze e condanne secondo criteri di eguaglianza, per lo più di convenienza; Dio al contrario esercita la giustizia di Padre e di Madre per recuperare sempre i figli del suo amore.
In Lc 15,1 come abbiamo già visto più volte, si legge il contesto di riferimento: «Si avvicinavano poi a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo, mentre mormoravano [sott. contro di lui] i farisei e gli scribi, dicendo». A conclusione della sezione in Lc 17,1-10 leggiamo che bisogna perdonare il fratello che si pente (v. 3); bisogna perdonare sempre: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu gli perdonerai» (v. 4).
Dall’inizio alla fine, l’orizzonte è dominato dai pubblicani, dai peccatori e dal perdono senza condizioni e senza misura. Perdonare è soltanto amare a perdere, senza chiedere nulla in cambio. Un perdono che pone una condizione (ti perdono, se fai questo o quello… se ti comporti così… se non lo fai più…) non è un perdono, perché manca la caratteristica della gratuità: non ti perdono perché lo meriti, ma perché io ho sperimentato la misericordia di Dio e la rendo visibile, le do un corpo offrendolo a te, realizzando così la preghiera del Padre nostro: «Padre, … perdona a noi i nostri peccati affinché anche noi possiamo perdonare a ogni nostro debitore» (Lc 11,4).
Il perdono di Dio diventa fondamento del perdono reciproco degli uomini e il perdono vicendevole degli uomini diventa il «sacramento» visibile della misericordia di Dio. A differenza di Lc, Mt userà una prospettiva diversa: «Padre, …perdona a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (6,12): impegniamo il perdono di Dio a condizione che «prima» noi abbiamo già perdonato. Le due prospettive s’integrano e si rafforzano.

Le coppie in contrasto

L’orizzonte in cui si colloca la parabola è duplice: da una parte la coscienza di essere peccatori (Lc 15,1-2) e dall’altra la certezza della misericordia (Lc 17,3-4). Gesù non fa un discorso morale né assume l’atteggiamento di giudice. Egli guarda al cuore della persona e cerca ogni mezzo perché entri nella dinamica della tenerezza di Dio, «perché nulla vada perduto di ciò che mi ha dato» (Gv 6,39).
La parabola, in quanto modello letterario, veicola un insegnamento generale, per cui il suo messaggio è valido sempre, anche per noi oggi. Sia l’inizio che la fine dell’intera sezione della «giustizia» mettono in contrapposizione due gruppi di persone con i loro atteggiamenti e sentimenti. I vv. 1-2 hanno una struttura incatenata:

1Si avvicinavano a lui    tutti i pubblicani e peccatori    per ascoltarlo,
2mentre mormoravano    i farisei e gli scribi,     dicendo…
  (sott. contro di lui)

Due vv. appena per mettere in evidenza tre contrasti: 1) pubblicani-peccatori si contrappongono a farisei-scribi;
2) i primi sono considerati lontani e impuri, ma si avvicinano a lui, mentre farisei-scribi, che dovrebbero essere vicini (almeno per professione), sono molto lontani e mormorano contro di lui, perché agisce fuori dai loro schemi: non sanno superare il loro limite; 3) i pubblicani-peccatori si dispongono ad ascoltare, cioè a entrare in sintonia di cuore e di anima; al contrario dei farisei-scribi, che parlano per condannare e disprezzare, «dicendo: Costui riceve i peccatori e mangia con loro» (v. 2).
È il capovolgimento radicale delle situazioni: chi crede di credere è ateo, chi è stato giudicato ateo e gettato fuori invece è credente, è parte della chiesa. Lo stesso atteggiamento troviamo in Mc 3,31-35, quando Gesù accredita come «sua famiglia» non quella di sangue, ma quella di «elezione»: «Giunsero sua madre e i suoi fratelli, e stando fuori, lo mandarono a chiamare… Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno [cioè dentro], disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre». Anche qui la contrapposizione è tra «fuori» e «seduti (dentro)».
Lo stesso clima si respira alla fine della sezione dove la contrapposizione è tra chi ascolta e chi deve ricevere il perdono: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu perdonalo/gli perdonerai» (17,4). Gesù usa l’imperativo alla 2a  persona singolare, allo stesso modo di Yhwh quando trasmette i comandamenti a Mosè sul Sinai (Es 20,2-17; Dt 5,6-21).
Il perdono non è una pia pratica di pietà né un atteggiamento ascetico di purificazione in vista di una ricompensa futura, ma assume la veste solenne di un comandamento. Il perdono, infatti, non è facoltativo, ma è un imperativo che adempie l’Alleanza nuova. Il perdono è la rivelazione della vera natura di Dio, che chi crede deve rendere visibile e sperimentabile. Perdonare significa aiutare gli altri a «toccare il Verbo della vita» (cf 1Gv 1,1) perché è la vera novità dell’evento Gesù Cristo.
Solo all’interno di questo clima possiamo accostarci alla rilettura della parabola prendendo coscienza che essa è stata scritta apposta per ciascuno di noi e ora la ri-leggiamo come se fosse la prima volta. Non ci limitiamo solo a una esegesi fredda e scientifica, ma cercheremo di danzare insieme alla Parola, evocando tutto ciò che essa suscita in noi, per la nostra vita spirituale e di preghiera.

V. 11a: «E disse»

L’espressione solenne e maestosa, propria del verbo principe della narrativa, «e disse» apre la parabola come al v. 3 apriva quella del pastore e della donna. Il soggetto sottinteso di tale verbo è Gesù, che è nominato in 14,16 e poi si passa direttamente a 17,11: in tutto il capitolo 15 Gesù non è mai nominato nemmeno come «narratore».
Questa assenza letteraria mette maggiormente in evidenza la sua Presenza come «Parola» che annuncia il «vangelo della misericordia giusta» di Dio, quasi a volerci insegnare che non dobbiamo fermarci mai alle apparenze, se vogliamo cogliere il cuore dell’altro. Dio è «Assente-Presente», discreto e silenzioso, che solo nel più intimo del più profondo di noi stessi e degli altri possiamo incontrare e «vedere». Anche sulla barca in mezzo alla tempesta sembrava dormire, ma al momento opportuno, la sua «Parola» domina le acque e i venti tempestosi (cf Mc 4,35-41).

Nel segno della coerenza. L’espressione «e disse», sia nella linea narrativa principale (come è qui in Lc) sia nella linea secondaria di commento aggiuntivo, nella bibbia ebraica ricorre 2.084 volte, nella bibbia greca della Lxx 2.337 volte, nel NT 125 volte. Una cifra impressionante che mette in evidenza la centralità della «Parola» in tutta la storia della salvezza.
Le due parabole di Lc 15 sono «Parola di Dio», proclamata dal Lògos stesso per dare compimento alla profezia di Isaia, che Gesù fa sua nella sinagoga di Cafaao, quando si appropria della sua personalità di messia della nuova Alleanza: «Mi ha consacrato con l’unzione (= sono il messia) per annunziare ai poveri il vangelo e proclamare un anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19; cf Is 61,1-2). I poveri a cui va annunciato il vangelo sono i peccatori, reprobi,  assassini, ladri, immorali, impuri, gli esclusi, le prostitute e tutte le categorie di persone che il perbenismo di ogni tempo condanna come fecero gli scribi e farisei.

Dabar: parola e fatto. È Dio che parla e annuncia la salvezza del perdono, ma non come proposito od obiettivo, ma come evento che si compie nel momento stesso in cui Lui «dice». Dio, quando parla, crea e realizza quello che dice, come evidenzia il 1° capitolo della Genesi, dove per 10 volte Dio parla «facendo» la creazione: «E disse Dio: “Sia la luce”. E la luce fu» (Gen 1,3; cf vv. 6.9.11.14.20. 24.26.28.29). Dio parla agendo e agisce parlando, perché in lui la parola è fatto, fino all’incarnazione inaspettata del Figlio: «Il Lògos (Parola) carne fu fatto» (Gv 1,14).
È ciò che sperimentiamo nell’eucaristia, dove la Parola che ascoltiamo diventa il pane del nutrimento e il sangue della vita. In ebraico c’è un termine «dabar» che è verbo e sostantivo: significa contemporaneamente sia «parlare/parola» che «fatto/avvenimento». Parola efficace: «Così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e senza avere compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11; cf Dt 32,2; Zc 1,6).
Per gli uomini spesso le parole sono suoni vacui e anche muti: si pronunciano quantità enormi di parole senza dire nulla. Si parla e si resta muti. Si parla, si parla e crolla la comunicazione: «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio» (Tagore). La chiacchiera ha preso il sopravvento. Tutti parlano al telefonino, sempre, e ognuno è sempre più solo e isolato.

La parola nasce se qualcuno ascolta. «E disse», posto all’inizio assoluto della parabola, esige un atteggiamento di ascolto profondo, perché la parabola non è un racconto edificante per suscitare pii desideri, ma è la proclamazione della volontà di Dio, che con una parabola annuncia «il vangelo del vangelo», definendo la sua natura di Dio e descrivendo la natura della sua nuova alleanza. Nel momento in cui Dio «dice» la parabola è Lui che sta davanti a noi e ci supplica, ci prega di essere presenti con l’ascolto delle orecchie del cuore.
«E disse» provoca in noi l’eco di Dt 6,4: «Ascolta, Israele!», dove è Dio stesso che «prega» il suo popolo. Ascoltare la Parola è vedere Dio che prega noi perché lo ascoltiamo. Dio che parla la parabola significa lasciarsi sedurre dalla sua «voce», come l’amante del cantico dei cantici, che cerca la «voce» dell’amato e non ha pace finché non si unisce a lui: «Una voce! Il mio diletto! Ora parla il mio diletto e mi dice… fammi sentire la tua voce perché la tua voce è soave…» (Ct 2,8.10.14). Il Targum del Cantico (2,14) mette in bocca a Dio queste parole: «Tu, assemblea d’Israele, che sei come una colomba pura… fammi vedere il tuo volto e le tue opere rette, fammi udire la tua voce! Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, è bello il tuo volto nelle opere buone».
La parabola che Gesù annuncia è un «vangelo», cioè la giorniosa notizia che Dio viene a salvare quello che poteva andare perduto. Quando Dio parla, e Dio parla in Gesù, non è per giudicare e condannare, ma sempre per salvare. Per questo ascoltare Dio è pregare lo stesso Dio che prega noi di fargli «udire» la nostra voce.

vv. 11b-12a: Un uomo aveva due figli.
        Il più giovane disse al padre

Questi due brevi vv. hanno una struttura circolare, a chiasmo, cioè a incrocio, perché la prima parola richiama l’ultima, la seconda la penultima, ecc.

Protagonisti anonimi. «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Il quadro è immediatamente definito dai protagonisti. Sappiamo che c’è «un uomo» anonimo, come è abituale nel vangelo, dove tutti i personaggi delle parabole o dei miracoli sono anonimi, tranne il mendicante Lazzaro (in ebr. Dio aiuta; cf Lc 16,20) e il cieco Bartimeo (in aramaico Figlio di Timeo; cf Mc 10,46). L’unica volta in cui nel vangelo di Lc si nomina qualcuno, questi è un povero, un mendicante a cui «Dio viene in aiuto» per rendergli quella «beatitudine» che gli spetta di diritto: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). Tutti gli altri personaggi sono anonimi, come il pastore che trova la pecora o la donna che ritrova la moneta. È veramente significativo che il vangelo riporti solo il nome di poveri esclusi e ne perpetui la memoria.
L’uomo anonimo della parabola ha due figli e dunque è padre. Un altro padre e due figli troviamo in Mt 21,38, dove s’invertono apparenza e realtà: quello che dice no fa la volontà del padre, mentre quello che dice sì, non la fa. La relazione non è solo contatto, ma condivisione di volontà, di progetti, di sogni, di vita.
Quando si è padri e madri non si è più anonimi, perché i figli sono il nome della nuova identità. Presso gli ebrei quando nasce un figlio, padre e madre perdono il loro nome proprio e vengono indicati e chiamati in riferimento al figlio: «Padre e madre di…» (cf Mc 6,3). Qui è assente la madre, di cui non si fa cenno; ma forse è dietro la tenda che la nasconde come è uso in oriente.
Nella «parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso»  l’anonimato s’incarna immediatamente in una relazione: «Il più giovane disse al padre». Nulla di straordinario se un figlio parla col padre e il padre col figlio, se non fosse per ciò che sappiamo sta per succedere. L’accenno al «più giovane», infatti, è un campanello d’allarme, quasi un anticipo che stiamo entrando in un abisso d’iniquità che cercherà la morte della pateità e distruzione della relazione.

La salvezza si fa storia. Chi è questo uomo che è anche «padre»? L’uomo innominato, come avviene in quasi tutte le parabole (Lc 10,30; 13,6; 14,16; 16,1; 19,12; 20,9), è l’immagine di Dio. Qui ha due figli come rappresentanti di tutta l’umanità: gli ebrei, simboleggiati dal figlio più grande, per ora assente, e tutti gli altri popoli, qui rappresentati dal «più giovane». La parabola ha un respiro universale perché riguarda tutta l’umanità.
Prima che scoppi il dramma e si giunga alla conclusione di salvezza, l’evangelista tiene a dirci che siamo «figli» perché quello che sta per succedere riguarda ciascuno di noi. La parabola è per noi e forse è il momento che iniziamo a prendere coscienza di cosa significhi per noi essere figli, prima di immergerci nel mistero che sta davanti a noi. L’anonimato del padre non è casuale, ma induce chiunque legga o ascolti a riempire il vuoto del nome mancante con il proprio nome e identificarsi con uno dei protagonisti, costringendoci a prendere coscienza del nostro cammino di fede: in ciascuno di noi vi sono due figli… il minore… e il maggiore.
Leggiamo nella Mishna giudaica: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore: con le due tendenze, il bene e il male» (Berakot [Benedizioni] 9,5)6.
La parabola del Padre giusto perché misericordioso è la parabola della pateità e della figliolanza che è dentro ciascuno di noi: la parabola infatti narra la storia della salvezza, o meglio annuncia il vangelo della salvezza che si fa storia nella vita di ciascuno di noi e nella storia di tutti i popoli.                          (continua – 7)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella