Contaminazione (profonda)

L’acqua, un bene vitale in grave pericolo

Contaminazione da nitrati e fitofarmaci, ma anche da arsenico, cromo, materiali radioattivi: le acque di falda sono in grave pericolo. Esse rappresentano il 50% del totale, ma in Italia il 28% di esse risulta ormai contaminato. Nonostante l’inadeguatezza dei controlli, i casi di inquinamento sono all’ordine del giorno. Per capire la gravità del problema, va ricordato che l’acqua dolce non è una risorsa illimitata. Spetta ai cittadini aprire gli occhi ed agire di conseguenza. 

Nell’articolo precedente (MC, settembre 2008) ci siamo occupati dell’inquinamento, che contamina buona parte dei fiumi della terra. In questa puntata, vedremo invece come anche le falde idriche sotterranee non stiano affatto bene di salute, anzi in certi casi la situazione è oltremodo drammatica. Ricordiamo che, in Italia, le acque di falda rappresentano il 50% del totale (che è di 70 miliardi di m³) delle acque foite annualmente dagli acquedotti nazionali, mentre il 15% proviene dai corsi d’acqua superficiali e il 35% dalle sorgenti.
A livello mondiale, le falde idriche profonde racchiudono circa 45.000 km³ di acqua, proveniente  dalle precipitazioni atmosferiche e a loro è affidata una importante funzione di riserva. 
L’infiltrazione d’acqua nel sottosuolo dipende dalla consistenza del terreno, ma anche dal grado della sua cementificazione, che è senz’altro un fattore limitante. Il tempo per il riciclo delle falde è lunghissimo, circa 1.400 anni, contro i 20 giorni dei fiumi. È evidente che la percolazione di sostanze inquinanti nelle falde può ridurre drasticamente la disponibilità di acqua, oltre che compromettere pericolosamente la salute di milioni di persone. Purtroppo, le capacità autodepuratrici degli ecosistemi acquatici sono diventate spesso insufficienti, a causa della contaminazione sempre maggiore di sostanze poco o per nulla biodegradabili.
In Italia, secondo i dati foiti dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici), relativi all’ultimo triennio, il 28% delle acque di falda risulta contaminato. Oltre la metà dei pozzi esaminati ha mostrato segni di compromissione, nelle nove regioni, che hanno aderito alla campagna di monitoraggio chimico. In particolare sono risultate più inquinate le falde del nord Italia, cioè delle regioni più industrializzate e dedite all’agricoltura di tipo intensivo, soprattutto per la presenza di erbicidi come l’atrazina (vietata a partire dagli anni ’80, ma tuttora presente nei terreni, data la sua scarsa biodegradabilità), la terbutilazina, il bentazone, utilizzato specialmente nelle risaie (quindi presente in elevata quantità nelle acque del pavese e del vercellese) e il metolaclor, utilizzato in quantità industriale nelle grandi distese di mais dell’area padano-veneta.

L’invasione dei nitrati

 Il problema dell’inquinamento delle acque di falda con prodotti fitosanitari è duplice, poiché, se da un lato l’uso di tali prodotti è inquinante per le falde, dall’altro si rischia di avere la compromissione della qualità dei prodotti agricoli, come conseguenza dell’irrigazione con acque di falda contaminate.
In Piemonte, l’inquinamento delle falde da fitofarmaci è in costante aumento dal 2000 e attualmente oltre un quarto dei campioni relativi alle falde superficiali risulta contaminato, come il 7% dei campioni relativi alle falde profonde (è stata riscontrata la presenza di 18 principi attivi, su un totale di 60 molecole ricercate); in particolare risulta contaminato il 60% dei campioni esaminati, in provincia di Vercelli e il 10% in provincia di Cuneo.
Questo fatto induce a pensare che non tutti gli agricoltori rispettino la normativa regionale e nazionale circa il divieto di utilizzo di determinate sostanze, come atrazina e bentazone, altamente dannose per la salute umana. Oltre alle sostanze suddette, un gravissimo problema per le acque di falda è rappresentato dalla presenza di nitrati, che in molti casi (talvolta anche nell’acqua potabile) arrivano a superare i limiti di legge, fissati in 50 mg/l. I nitrati derivano dai fertilizzanti azotati, dai reflui dei grandi allevamenti e dagli scarichi civili non opportunamente depurati e in alcune aree, come la pianura padana, caratterizzata da agricoltura e allevamenti intensivi, essi raggiungono livelli record d’inquinamento. Questo problema è molto esteso in Europa, di conseguenza la Commissione europea ha emanato una direttiva in materia (Direttiva nitrati 91/676).
Alla contaminazione da composti azotati contribuiscono anche le piogge acide, che riportano al suolo e alle acque i contaminanti dispersi nell’atmosfera. In Italia si sono avuti gravi casi di contaminazione da nitrati in Piemonte, Lombardia, Toscana, Marche e Campania. Emblematico è il caso di Fano (Ancona), rifoita per anni con acqua potabile, in cui sono stati riscontrati livelli di nitrati fino a 150 mg/l. I danni da nitrati sono conosciuti fino dal 1945, quando è stato riportato, per la prima volta, su Jama un caso letale di intossicazione.
In particolare un’alta concentrazione di nitrati nell’acqua rappresenta un grave problema per i lattanti, soprattutto nei primi tre mesi di vita, poiché i nitrati, a opera della flora batterica intestinale, si trasformano in nitriti, che vengono assimilati e sono in grado di alterare l’emoglobina, con conseguente difficoltà di trasporto dell’ossigeno ai tessuti. I nitrati possono peraltro causare seri danni anche nella popolazione adulta, poiché i nitriti, da essi derivanti, possono formare nitrosamine, specialmente a livello dello stomaco, per reazione con amine secondarie di origine alimentare e alcune di queste sostanze sono dei potenti cancerogeni. In particolare, degli studi condotti in Danimarca, Inghilterra, Ungheria, Italia, Cile, Colombia e Cina hanno associato l’esposizione ai nitrati con una maggiore frequenza dei tumori gastrici.

«Di tutto, di più»…
nelle nostre acque

Oltre ai fitofarmaci e ai nitrati, nelle acque di falda italiane si trovano, spesso in quantità di molto superiori ai limiti di legge, sostanze residue di attività industriali di vario genere. In questi casi, le cause di contaminazione sono legate sia alle acque di processo, che a quelle di raffreddamento degli impianti.
È particolarmente pesante l’impatto ambientale dell’industria chimica, dove gli inquinanti presenti nelle acque di processo variano, a seconda del tipo di produzione; ad esempio, gli effluenti della produzione di detersivi sono contaminati da tensioattivi e da fosfati, quelli delle resine sintetiche da solventi e da sostanze organiche, mentre quelli dell’industria degli inorganici di base contengono metalli pesanti. Altri settori, che vanno dalla siderurgia all’industria alimentare, possono contribuire in diverso modo all’inquinamento delle acque. Ad esempio le sostanze adoperate per la sterilizzazione dei cibi possono agire come inibitori, nei processi di biodegradazione dei sistemi acquatici.
Molto spesso le cause di contaminazione chimica delle falde sono correlate con lo smaltimento sul suolo o nel sottosuolo degli scarichi industriali, effettuato in modo abusivo, o in mancanza di collettori idonei. Negli ultimi anni i casi più gravi d’inquinamento industriale delle falde si sono avuti per perdita di liquidi dagli impianti stessi, o da serbatorni interrati, oppure da rifiuti sepolti nel sottosuolo. Vale la pena di ricordare alcuni casi di gravissimo inquinamento ambientale, che si sono verificati in Italia negli ultimi anni. In Maremma, nella provincia di Grosseto 22 siti, corrispondenti a circa 300 ettari, sono stati contaminati da arsenico e da mercurio, finiti nei pozzi dell’acqua potabile, mentre polveri di pirite, piombo, cadmio e manganese sono stati accumulati nei terreni coltivabili (Corriere della Sera, 12/05/2001).

Le attività dell’Eni:
chi inquina, non paga

Queste sostanze derivano dall’attività di industrie, come l’Eni e la Tioxide, produttrice di biossido di titanio. Oltre ad esse è stata rilevata la diossina proveniente dall’inceneritore di Scarlino (Grosseto), appartenente alla società «Ambiente S.p.A.» dell’Eni, entrato in funzione nel 1999 e sorto sui tre foi, in cui si arrostiva la pirite (minerale impiegato nella produzione dell’acido solforico).
La Iarc (Inteational agency for research on cancer) classifica l’arsenico come «cancerogeno di gruppo 1» e, secondo un suo studio, per valori di tale sostanza compresi tra 0,35 e 1,14 mg /l nell’acqua, è molto elevato il rischio di tumori a vescica, rene, cute, polmone, fegato e colon.
Nell’acqua di un pozzo di Scarlino è stata rilevata una concentrazione di arsenico pari a 3,3 mg/l. Sono stati avvelenati una quindicina di pozzi, che fino al 1997 hanno pescato dalle falde idriche sotterranee. I 3 pozzi, che per 25 anni hanno servito Follonica sono stati chiusi e in uno di loro il mercurio superava di 50 volte i limiti di legge. Arsenico e mercurio penetrati nelle falde della provincia di Grosseto, Argentario compreso, derivano dalla lavorazione della pirite, che prima Montedison e poi Eni hanno accumulato a cielo aperto in vere e proprie colline di rifiuti tossici, poggianti su acquitrini, come quelli del Casone e del Padule di Scarlino, dove l’acqua è ormai di tutti i colori. Qui la pirite è stata accumulata in vecchie vasche di acido solforico, che ha facilitato la cessione all’ambiente di arsenico e di mercurio, come spiega Roberto Barocci di Italia Nostra, docente di Economia e Assetto del territorio e autore di Arsenico (Stampa Alteativa).
Inoltre, la Coldiretti ha accusato l’Eni di avere ceduto gratuitamente agli agricoltori, come materiale sterile e inerte, gli scarti della lavorazione della pirite, da utilizzare nel rifacimento del fondo delle strade interpoderali. L’Eni si è sempre difesa, sostenendo che gli scarti della pirite non hanno ceduto metalli pesanti all’acqua in quantità tossica ed è stata sostenuta in tal senso dall’Arpat, secondo la quale l’arsenico e le altre sostanze in quell’area ci sono da sempre e ne costituirebbero una caratteristica geologica. Tale conclusione avrebbe evitato all’Eni i costi di bonifica.
Di diverso avviso è stato però il Pubblico ministero (Pm) di Grosseto Vincenzo Pedone, che ha decretato il sequestro dell’inceneritore di Scarlino, ha definito il degrado ambientale del comprensorio Follonica-Scarlino come «fatto notorio e addirittura eclatante, per ciò che attiene alla gravissima compromissione delle risorse idriche», ha anche constatato l’assenza di controlli pubblici e ha inviato l’avviso di garanzia al direttore e all’amministratore delegato di Ambiente S.p.A. Nel frattempo, alcune pericolose discariche dell’Eni hanno cambiato proprietà.

Dal Piemonte all’Abruzzo

Altri casi d’inquinamento delle falde sono, ad esempio, quello del rinvenimento nella falda di Aosta, nel giugno 2004, di eccedenze, rispetto ai limiti fissati dal D. Lgs. 152/99, di cromo esavalente, di fluoruri, di nichel, di solventi clorurati come tetracloroetilene e cloroformio e di solventi aromatici. Tali sostanze sono correlabili soprattutto con l’attività della Cogne Acciai Speciali di Aosta e inoltre, specialmente per la presenza in falda di ferro e manganese, con la discarica di Brissogne. Altri casi sono l’inquinamento da cromo esavalente nella falda di Asti, quello recentissimo (maggio 2008) sempre da cromo esavalente a Spinetta Marengo (Alessandria), quello da arsenico a S. Antonino di Susa (Torino).
Il caso più grave in Italia e forse in Europa è però quello dell’inquinamento delle falde di Bussi e della Val Pescara in Abruzzo, un disastro ambientale di proporzioni inimmaginabili per le potenziali conseguenze sulla salute di 500.000 cittadini, che hanno usufruito per anni dell’acqua inquinata prelevata dal campo pozzi S. Angelo di Bussi. I valori degli inquinanti tossici e cancerogeni in falda hanno raggiunto punte di 300.000 volte i limiti di legge per il cloroformio, di 420.000 volte per il tetraclorometano, di migliaia o decine di migliaia di volte per altre sostanze pericolose, tra cui mercurio, cloruro di vinile, tricloroetilene, tetracloruro di carbonio, ecc. Queste sostanze, secondo il Pm Aceto, che ha condotto l’inchiesta, al termine della quale ha inviato 33 avvisi di garanzia, sono state riversate nel fiume Pescara fino al 1963 e successivamente stipate in megadiscariche, lungo i fiumi Tirino e Pescara.
Anche in questo caso si tratta degli scarti di lavorazioni della Montedison. L’inchiesta è nata da una denuncia del WWF, basata sui referti di analisi condotte e pagate privatamente da tale associazione, già nel 1997 (ripetute nel 2007) e seguite da analisi dell’Arta nel 2004, a seguito delle quali i pozzi S. Angelo, che servivano l’area metropolitana di Chieti-Pescara, sono stati chiusi nel 2005 e riaperti parzialmente nel 2007, dopo l’utilizzo di filtri a carbone attivo (tali pozzi, a monte dei quali si trova una grande industria chimica, erano attivi dal 1990).
La vicenda è resa ancora più grave, se possibile, dal fatto che l’Istituto superiore di Sanità aveva espresso un parere, in cui dichiarava le acque emunte da questi pozzi come «non idonee al consumo umano»; ma, secondo il pm Aceto, nessun sindaco o amministratore e nemmeno la Direzione sanitaria dell’Asl hanno reagito con la dovuta fermezza; anzi, quest’ultima ha appoggiato in pieno l’operato del responsabile del Sian (Servizio igiene alimenti e nutrizione) dell’Asl, ora indagato.
Peraltro, secondo il magistrato, i responsabili della Montedison erano a conoscenza dell’inquinamento delle falde e delle conseguenze sui pozzi destinati all’acquedotto già dal 1992. I 33 avvisi di garanzia sono stati emessi nel maggio 2008.

Contaminazione
radioattiva? Presente!

In mezzo a tutti questi veleni, potevamo farci mancare una contaminazione radioattiva delle falde? No, naturalmente; infatti il 17 agosto 2006 l’assessorato all’Ambiente della regione Piemonte ha reso pubblica la contaminazione radioattiva delle falde a Saluggia, dove dall’intercapedine della piscina dell’impianto Eurex, contenente un deposito di materiali radioattivi, c’è stato un rilascio di acqua contaminata dal radionuclide Sr-90.
Peraltro, già nel giugno 2004, la Sogin (esercente dell’impianto Eurex) aveva comunicato che la piscina presentava una fuoriuscita di liquido radioattivo, con una contaminazione della parete estea della sua intercapedine di 1.000 Bq/dm².  A Saluggia gli impianti nucleari e la piscina della Eurex si trovano proprio sopra le falde acquifere, che meno di 2 Km a valle alimentano i pozzi dell’acquedotto del Monferrato, che porta l’acqua a più di cento comuni nelle province di Torino, Asti e Alessandria.
Va detto che, per incidenti di questo tipo, siamo in buona compagnia. In Francia, infatti, nel maggio 2006 è stata rilevata radioattività nelle falde acquifere della Normandia 7 volte superiore al limite imposto da una legge europea di 100 Bq/l. In questa zona è stato costituito un deposito di rifiuti radioattivi provenienti dalle 58 centrali nucleari francesi, ma anche dalla Germania, Olanda, Belgio, dal Giappone, Svizzera e Svezia (nonostante sia illegale per la legge francese stoccare materiali radioattivi provenienti dall’estero).
L’acqua della falda è risultata contaminata da trizio, che è un indicatore di futura contaminazione da altri radionuclidi, come stronzio, cesio e plutonio, sostanze cioè sicuramente cancerogene.
È invece di quest’anno, luglio 2008, l’incidente francese di Tricastin, dove sono stati registrati anomali valori di uranio nell’acqua di falda. Secondo la Criirad (Commissione di ricerca e di informazione indipendente sulla radioattività), tale contaminazione è da attribuire, più che all’incidente occorso all’impianto di Tricastin, alla presenza di materiale radioattivo di una precedente installazione militare, che aveva funzionato in quella zona tra il 1964 e il 1996 per la produzione di armi atomiche, grazie all’arricchimento dell’uranio. I residui della lavorazione vennero interrati, senza particolari precauzioni e l’acqua piovana ha potuto scorrere a contatto delle scorie, disperdendo l’uranio nel terreno. La fuoriuscita di uranio nella falda di Tricastin ammonta a 74 Kg.

Occhio alle acque minerali

A leggere cose come queste, si potrebbe pensare che forse è meglio bere acqua minerale, anziché del rubinetto, ma prima di farlo, è bene considerare il fatto che esiste un decreto legge del 29/12/2003, dell’allora ministro della Salute Sirchia, sulle acque minerali, il quale ha introdotto una soglia di tolleranza per svariate sostanze tossiche ad alto rischio.
Le aziende produttrici di acque minerali possono così immettere sul mercato dei prodotti, che prima sarebbero stati fuorilegge e che contrastano con le normative europee. In pratica, grazie a questo decreto esiste una lunga lista di sostanze, tra cui tensioattivi, oli minerali, antiparassitari, policlorobifenili, idrocarburi, ecc., per le quali, al di sotto della soglia di rilevabilità strumentale, le aziende produttrici possono continuare a dichiarare come esenti da ogni tipo d’inquinamento le acque minerali che producono.
Nel giugno 2003, la procura di Torino avviò un’inchiesta, da cui emerse che 23 delle 28 marche di acqua minerale analizzate non rispettavano l’obbligo di legge di essere completamente prive delle sostanze tossiche suddette; successivamente il numero delle marche non in regola è salito a 86.
La differenza tra le quantità di sostanze ammesse per le acque minerali, rispetto all’acqua potabile, è dovuta al fatto che le minerali vengono considerate «bevande», come il vino ad esempio, e quindi sono soggette a una normativa meno restrittiva, di quella per l’acqua potabile. Se consideriamo la possibile contaminazione da piombo, il valore soglia del vino è molto superiore a quello dell’acqua potabile, perché si ritiene che il consumo quotidiano della bevanda vino debba essere decisamente inferiore a quello dell’acqua. Così vengono messe in vendita acque contaminate «a norma di legge».

Inquinamento naturale
da fluoruri e da arsenico

Esistono, inoltre, in parecchie aree geografiche della terra, dei casi d’inquinamento delle falde, talora anche per cause naturali e non solo antropiche, che hanno portato milioni di persone in condizioni di salute drammatiche. Si tratta delle contaminazioni delle falde da fluoruri e da arsenico.
L’inquinamento da fluoruri ha determinato la comparsa di fluorosi scheletrica, una malattia che danneggia soprattutto gli arti in crescita e che può arrivare a compromettere anche la spina dorsale e il sistema nervoso, in milioni di bambini in India, ma anche in Cina, in Niger, in Etiopia, laddove cioè sono state installate pompe manuali nei villaggi, per fornire alle popolazioni acqua sicura, cioè non contaminata, come le acque superficiali, da coliformi e da altri agenti patogeni responsabili di gravissimi casi di colera, tifo e diarrea.
I fluoruri sono sostanze normalmente presenti nelle rocce granitiche del sottosuolo di gran parte dell’India e di altre aree geografiche e possono sciogliersi lentamente nelle acque di falda, senza peraltro allontanarsi molto dallo strato granitico. Ciò significa che risultano contaminate solo le acque dei pozzi profondi, mentre quelle dei pozzi superficiali risultano pulite.
Purtroppo, però, i continui prelievi d’acqua, alla lunga determinano un abbassamento delle falde e la necessità di scavare pozzi più profondi.
L’inquinamento più grave è però quello da arsenico, che ha provocato quello che dall’Oms viene definito «il più grave avvelenamento della storia dell’umanità», che riguarda soprattutto il Bangladesh e il delta del Gange. A causa di tale avvelenamento, il futuro della popolazione del Bangladesh è gravemente compromesso.
Ma l’arsenico ha colpito anche altre zone del delta del Gange, come il Bengala occidentale in India e parte del sud del Nepal. Questo problema è presente anche nelle falde di Argentina, Cile, Messico, Cina, Vietnam, Taiwan, Nepal, Myanmar, Cambogia, Ungheria, Romania e di parecchie zone del sud-ovest degli Stati Uniti.
In Bangladesh, negli anni ’70, per limitare i casi di dissenteria e di colera, l’Unicef ha promosso la diffusione di pompe manuali a tubo, che nel giro di pochi anni sono diventate sempre più numerose. Negli stessi anni iniziava la cosiddetta rivoluzione verde, cioè un programma di agricoltura intensiva, soprattutto di riso, leguminose e ortaggi vari, che ha comportato l’uso di grandi quantità di fertilizzanti e pesticidi, nonché di acqua. L’acqua estratta dalle pompe, molto spesso contaminata da arsenico, viene utilizzata in grande quantità a scopo irriguo, per cui questo minerale entra nella catena alimentare.
Di solito i primi sintomi dell’avvelenamento cronico da arsenico si avvertono dopo una decina di anni di esposizione e si manifestano soprattutto come ipercheratosi, disturbi cardiovascolari e circolatori, tumori polmonari, renali, epatici, ma soprattutto cutanei. L’avvelenamento acuto si manifesta invece con i sintomi di una forte gastroenterite.
Si calcola che, attualmente, muoiano circa 3.000 persone all’anno, tra coloro che hanno ingerito per anni acqua e cibi contaminati, ma sarebbero almeno 65 milioni le persone esposte a rischio e 200.000 coloro che presentano i sintomi dell’arsenicosi.
Le prime tracce di arsenico nelle falde del Bangladesh sono state rilevate nel 1993, ma solo dal 1995 è iniziata l’analisi sistematica dei pozzi, un ventennio dopo la posa delle prime pompe a tubo. Queste ultime sarebbero fortemente responsabili di questa situazione, perché altererebbero le condizioni redox del terreno, favorendo il rilascio di arsenico. Purtroppo, per anni non vennero effettuate accurate analisi dell’acqua estratta dalle pompe, cioè in pratica l’arsenico non veniva cercato, e ciò ha portato all’avvelenamento silenzioso di milioni di persone.
Attualmente esiste una diatriba tra scienziati, circa l’origine di tale avvelenamento. In pratica ci sono scienziati, che sostengono l’origine esclusivamente naturale dell’arsenico nel terreno: secondo costoro il minerale si sarebbe formato nelle rocce della catena himalayana, da cui nasce il Gange e sarebbe stato trascinato a valle, fino al delta, dove verrebbe estratto dalle pompe. Questa tesi, in qualche modo, assolve l’operato delle multinazionali e dell’Unicef.
Secondo gli scienziati indiani, invece, la quantità eccessiva di arsenico nel terreno sarebbe strettamente correlata all’uso massiccio di fitofarmaci, indispensabili per la coltivazione intensiva del riso, in quanto è stata osservata una correlazione tra arsenico e fertilizzanti organo fosforici.
La prima tesi è il frutto di ricerche condotte dalla British Geological Survey e dalla McDoland Ltd (Regno Unito); tali ricerche sono state finanziate dalle agenzie inteazionali e dalle multinazionali, che hanno una possibile responsabilità nell’avvelenamento da arsenico, per cui il loro risultato potrebbe essere viziato.
È vero che l’arsenico è un elemento naturale, che può trovarsi in discreta quantità, ad esempio sotto forma di arseniopirite, in certe aree geografiche, ma secondo i geologi indiani, nel delta del Gange non esiste una quantità di arseniopirite tale da giustificare un avvelenamento di così vaste proporzioni.
Una certa esperienza nel campo della ricerca ci porta a pensare che sia più corretta la tesi degli scienziati indiani. Tra l’altro uno studio condotto al Massachusetts Institute of Technology (Mit) da Charles F. Harvey, docente di ingegneria civile e ambientale, è giunto alla conclusione che le pompe a tubo alterano in modo drammatico il flusso delle acque sotterranee, modificando la chimica delle falde e determinando il rilascio di arsenico, a seguito della degradazione microbica del carbonio organico, trascinato nelle falde dalle stesse pompe.

Il dovere di «aprire gli occhi»

Dai casi d’inquinamento delle falde appena visti appare chiaro che quasi sempre ci si dimentica che il sistema dell’acqua dolce è un sistema chiuso. L’acqua dolce non è illimitata, quindi non ci si può permettere di renderla in parte inutilizzabile, perché inquinata. Non possiamo lasciare un’eredità così pesante alle generazioni future.
Soprattutto non possiamo dimenticare che l’acqua fa parte di noi, di tutti noi, quindi è inaccettabile che per il profitto di qualcuno, tantissimi si ritrovino a fronteggiare situazioni estreme. E non è accettabile che chi deve controllare chiuda gli occhi, davanti a disastri, come quelli appena visti. O che chi deve fare ricerca non ricerchi la verità, ma un modo per sollevare da ogni responsabilità coloro, a cui ha deciso di asservirsi. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara


GLOSSARIO

Arta: Agenzia Regionale per la Tutela dell’Ambiente.

Atrazina: è un principio attivo usato come erbicida, appartenente alla classe delle cloro tiazine. È adatto al diserbo principalmente di mais, sorgo e canna da zucchero. Presenta elevata persistenza ambientale, con conseguente rinvenimento nelle acque superficiali e di falda. È assai poco biodegradabile. In Italia ed in altri Paesi europei, il suo uso è proibito dal 1992, data la sua possibile azione cancerogena.

Bentazone: è un erbicida, che inibisce la fotosintesi clorofilliana, causando la deplezione delle riserve di carboidrati e la perdita dell’integrità della membrana dei cloroplasti (organuli cellulari deputati alla fotosintesi clorofilliana).

Bequerel: unità di misura dell’attività di una sostanza radioattiva.

Biossido di titanio: per il suo elevato potere coprente e la sua grande inerzia chimica, è attualmente il prodotto più impiegato come pigmento bianco (bianco di titanio) nelle pitture e veici, nella carta, nei laminati plastici, nelle fibre tessili, nella gomma, nei prodotti ceramici, negli inchiostri e nei cosmetici.

Cesio: alcuni suoi isotopi radioattivi si formano nelle reazioni di fissione nucleare e sono probabilmente pericolosi, perché vengono fissati dagli organismi vegetali ed animali. Nell’incidente di Cheobyl del 1986 è stato uno dei principali responsabili della contaminazione radioattiva.

Coliformi: sono un gruppo di microorganismi a forma di bastoncello, gramnegativi, aerobi ed anaerobi facoltativi, non sporigeni, che fermentano il lattosio, con produzione di gas e di acido. I coliformi fecali di origine umana sono delle Enterobatteriacee. Essi rappresentano un indubbio indice di contaminazione delle acque. Tra questi batteri sono comprese le Salmonelle, che sono delle Enterobatteriacee responsabili di malattie infettive di tipo gastroenterico, oltre che, in alcuni casi, di malattie setticemiche a sede extraintestinale.

Cromo esavalente: i composti, da esso derivati, hanno largo impiego nella produzione di veici, vetri, ceramiche ed inoltre nella concia delle pelli, nell’industria tessile, per la colorazione dei tessuti, nella preparazione di diversi prodotti chimici e nei trattamenti di superficie di metalli meno nobili (cromatura) per le sue proprietà antiruggine. La maggior parte dei composti del cromo presenta una tossicità relativamente elevata per tutti gli organismi viventi.

Fluoruri: composti del fluoro con metalli e non-metalli. Nel primo caso si possono considerare sali dell’acido fluoridrico, come il fluoruro d’alluminio, usato nella raffinazione dell’alluminio. I fluoruri con i non-metalli comprendono una serie di composti molto reattivi, che il fluoro forma con gli altri alogeni, con il boro e con il silicio.

Fosfati: sali degli acidi fosforici. Sono degli ottimi concimi, poiché il fosforo costituisce un elemento essenziale per lo sviluppo delle piante.

Ipercheratosi: abnorme aumento dello spessore dello strato coeo dell’epidermide, in alcune zone della cute. Può essere causato da diversi fattori, tra cui l’azione dei raggi ultravioletti. In questo caso si parla di cheratosi attinica, che è una precancerosi.

Metolaclor: principio attivo di protezione del mais, efficace soprattutto contro le infestazioni da graminacee.

Nitrati e nitriti: sali dell’acido nitrico solubili in acqua, ossidanti allo stato fuso, ma non in soluzione acquosa. I nitrati dei metalli alcalini, a temperature elevate perdono ossigeno, trasformandosi in nitriti. Il nitrato di sodio è il componente principale del nitro del Cile, che era l’unica fonte di fertilizzanti azotati prima della diffusione dei concimi chimici sintetici. Il nitrato d’ammonio ed il nitrato di calcio sono impiegati come fertilizzanti azotati. Il nitrato d’argento è impiegato in chimica analitica, per riconoscere e dosare gli alogeni. Il nitrato di potassio o salnitro è usato nella polvere da sparo, nella fabbricazione dei fiammiferi e dei fuochi d’artificio.

Nitrosamine: nitrosoderivati con attività carcinogenetica per l’uomo, in cui agiscono sia per inalazione, che per ingestione. Sembra accertato che i nitrosoderivati si formano nell’organismo, attraverso il metabolismo di nitroderivati e di ammine.

Plutonio: è un metallo notevolmente reattivo, come l’uranio. Il biossido di plutonio è impiegato come combustibile nucleare, in miscela con il biossido di uranio. Allo stato elementare è particolarmente adatto come materiale fissile, per armi nucleari.

Redox: abbreviazione di ossido-riduzione; si tratta di una reazione,in cui avvengono in contemporanea l’ossidazione di un composto e la riduzione di un altro. Il primo composto, cioè, acquisisce elettroni, mentre il secondo li cede.

Solventi aromatici: solventi contenenti nella loro molecola degli anelli aromatici a 6 atomi di carbonio. Hanno un caratteristico odore (da cui il nome) e sono cancerogeni. Tra loro abbiamo il benzene, il toluene e lo xilene, comunemente definiti benzolo, toluolo e xilolo.

Sr-90 o stronzio-90: isotopo radioattivo dello stronzio. Si forma nelle esplosioni nucleari e, attraverso la catena alimentare, può entrare nell’organismo umano, dove tende a fissarsi nelle ossa e nei denti, causando l’insorgenza di gravissime malattie da radiazione. Trova applicazioni come tracciante in medicina ed in biologia.

Tensioattivi: sostanze che, sciolte in piccola quantità in soluzioni acquose, ne diminuiscono la tensione superficiale, aumentandone il potere bagnante. Come conseguenza si ha un aumento delle proprietà schiumogene, detergenti, emulsionanti, disperdenti e della capacità di penetrazione in materiali porosi delle soluzioni acquose contenenti tensioattivi.

Terbutilazina: diserbante utilizzato sul mais. È un «non classificato» per i rischi umani, ma è stata documentata la sua incidenza sui tumori mammari dei topi. È altamente tossico per gli organismi acquatici quindi, a lungo termine, può avere effetti negativi sull’ambiente acquatico.

Trizio: isotopo radioattivo dell’idrogeno, che presenta un nucleo con un protone e due elettroni. Si forma in quantità più o meno rilevanti in tutti gli impianti nucleari, sia durante la fissione dell’uranio, sia nei reattori raffreddati ad acqua pesante, in seguito all’irraggiamento neutronico del deuterio. Può dare origine a diverse reazioni nucleari, sfruttabili per ottenere energia termonucleare, in modo controllato. Può essere usato in chimica, medicina e biologia, come tracciante radioattivo.

 

Roberto Topino e Rosanna Novara




«DIO È AMORE»

la parabola del «figliol prodigo» (24)

Concludiamo il nostro lungo cammino in compagnia dell’evangelista Luca, il quale da par suo ci ha fatto conoscere profondamente cinque personaggi: un padre sconfinato che non esita a dare la vita per i figli; il figlio minore, sognatore e irrequieto, ma senza una propria progettualità tanto da finire subito in fallimento; il figlio «anziano», apparentemente tutto dolce e obbediente, ma nel suo cuore è tragico senza possibilità di redenzione; la persona di Gesù, che non smentisce la sua natura di rivoluzionario delle convenzioni religiose e sociali del suo tempo; e infine noi stessi, noi lettori, che dopo questo viaggio «dentro» la parabola del cosiddetto «figliol prodigo», non possiamo rimanere gli stessi di quando abbiamo cominciato.

Punto di arrivo e di partenza: domande personali
La parabola del figlio prodigo, infatti, penetra nel midollo della nostra anima e ci scaifica fino all’osso come una spada tagliente (cf Eb 12,4). La lettura e il commento che abbiamo fatto ci obbligano a una presa di posizione personale nei confronti di Dio e dei nostri stili di vita. Le domande sono individuali. Chi è Dio «per me?». Il comportamento del padre che perdona senza chiedere in cambio nulla, un perdono gratuito, senza condizione mi scandalizza oppure mi rivela un «volto nuovo» di Dio che prima non immaginavo? Ritengo che il comportamento del padre sia «ingiusto» secondo i miei criteri della giustizia che spesso si avvicina fino a confondersi con la vendetta? A quale dei personaggi della parabola mi trovo più vicino? Per quali motivi? Ha senso la mia pratica religiosa, dopo avere vissuto questa parabola dal punto di vista del padre/Dio?
Tutte queste domande e molte altre ancora tracimano dentro di noi perché la parabola lucana è uno spartiacque tra il «dio-idolo», che a volte ci costruiamo per giocare a fare i religiosi, e il «Dio-Misericordia» che trancia la logica umana, esigendo da noi uno stile di vita divino, in forza del principio evangelico: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Il cristianesimo è tutto qui: non è una morale, né un sistema di pensiero, né un’organizzazione, né una religione, ma è solo una «imitazione» che si trasforma in simbiosi di vita e prospettiva con una Persona. Se non impariamo nei nostri rapporti, contatti, pensieri, parole, ideali, atteggiamenti, ad agire come Dio, la nostra religiosità è un francobollo da cui è evaporata la colla.
Ripercorriamo brevemente il cammino fatto con Luca e la sua parabola. Siamo partiti da alcune domande poste da un lettore: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare negli altri evangelisti? L’ha pronunciata veramente Cristo?».
Le domande sono radicali e dimostrano la poca frequenza, oltre la lettura di prassi, con la complessità della formazione dei vangeli e del NT. Un dato è certo: i cattolici conoscono poco, pochissimo, quasi niente le sacre scritture, che dovrebbero essere il fondamento della loro fede. Essi, infatti, sono molto religiosi, ma scarseggiano di fede e di conoscenza. Officiano, senza amare.

Conoscere la scrittura e il suo cammino
Di fronte a tali presupposti abbiamo proposto una carrellata veloce sulla formazione dei vangeli, spiegando che i vangeli non sono nati per tramandare aneddoti su Gesù, ma sono stati «predicati» per fare conoscere Gesù ai propri contemporanei. Da questa predicazione orale, fatta da persone innamorate di Gesù, sono nati i primi scritti come elenchi di miracoli, di parabole, di detti o sentenze ad uso in genere dei catechisti e dei predicatori.
Questi documenti sparsi giravano per le chiese e cominciarono a essere abbinati come «Parola di Dio» alla lettura dell’AT nelle assemblee eucaristiche. A circa 30 anni dalla morte di Gesù, quando ormai Paolo aveva valicato i confini della Palestina e fondava chiese nell’attuale Turchia e in Grecia, l’evangelista Marco, per primo, inventa un genere letterario nuovo che chiama «vangelo», preso più tardi a modello da altri due progetti pensati da Matteo e da Luca. Nascono così i vangeli «sinottici» perché se si mettono in colonne affiancate Marco, Matteo e Luca, si possono leggere simultaneamente o, come si dice in gergo biblico, in «sinossi» che significa «con un colpo d’occhio».
Lo schema dei vangeli «sinottici» è semplice: a) predicazione di Giovanni Battista; b) predicazione e attività di Gesù, prima in Galilea e poi in Giudea/Gerusalemme; c) passione, morte e risurrezione di Gesù. A questo schema, in epoca successiva, Mt e Lc aggiungono i primi due capitoli dei rispettivi vangeli che si chiamano in blocco «vangeli dell’infanzia», perché trattano di Gesù Bambino, ma visto e descritto alla luce della pasqua già avvenuta.
L’evangelista Gv non segue questo schema, ma si pone su un piano più teologico, perché fa emergere una «cristologia» alta: Gesù infatti fa lunghi discorsi che sono inverosimili storicamente, mentre sono essenziali per il progetto di Gv che ci presenta Gesù, l’uomo di Nazaret, come il «Lògos» eterno incarnato nella storia.
Dopo questa premessa essenziale e didascalica, abbiamo parlato del capitolo 15 di Lc, che riporta tre parabole secondo le bibbie ordinarie, mentre abbiamo dimostrato che le parabole sono due, di cui la prima quella del pastore è ripetuta anche in versione femminile (la donna che perde e trova la moneta). Il capitolo 15 di Lc è uno spartiacque, il vertice di tutta la rivelazione del NT, dopo l’affermazione giovannea che «Il Lògos-carne/fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Successivamente abbiamo presentato i protagonisti della parabola con una breve scheda storica dei pubblicani, scribi, farisei e sinedrio che fanno da sfondo e da pretesto alla parabola.

Luca 15: una nuova prospettiva
Infine, abbiamo avanzato l’ipotesi, che ci sta a cuore e di cui siamo convinti: il capitolo 15 di Luca, compresa quindi la parabola del figliol prodigo, non è una invenzione di Lc, ma è un «midràsh» del capitolo 31 di Geremia. Abbiamo spiegato che il midràsh è un modo giudaico di esegesi che si basa sul principio che la scrittura si spiega con la scrittura. Lc prende il testo del profeta Geremia che appartiene all’AT e lo commenta non con un altro testo dell’AT, ma con due parabole messe in bocca a Gesù, dicendoci così che la parola di Gesù è sullo stesso piano dell’AT: è Parola di Dio.
Gesù ha parlato ai suoi uditori di pecore, di monete e di figli: ne abbiamo molti esempi nei vangeli; ma nella forma espressa da Lc, l’intero capitolo è una costruzione per tradurre in forma cristiana il capitolo 31 di Geremia che parla di un pastore, di una donna e di due figli.
Il contesto di Geremia è «la nuova alleanza» (Ger 31,31) che è la chiave di comprensione di tutta la vita di Gesù. Egli porta la novità di un Dio che trasforma la vendetta in perdono, l’esclusione in inclusione, l’emarginazione in elezione, il peccato in grazia, il rifiuto in accoglienza. La novità riguarda anche la religione: dagli atti estei di culto pubblico o privato si passa all’adesione del cuore, all’etica dell’intenzione, alla purezza del cuore, al perdono senza condizione.
In MC (Luglio/agosto 2006) scrivemmo: «Lc 15 è dunque un midràsh di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio. Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di Lc in sinossi, cioè in modo speculare»: nello stesso numero mettemmo a disposizione dei lettori i due testi a confronto per vedee somiglianze e differenze.
Noi cattolici siamo abituati a leggere il vangelo e il NT in genere con la nostra mentalità occidentale latina, senza alcun riferimento, se non in forme marginali, all’ambiente vitale dove questi scritti sono nati, sono stati pensati e sono stati messi su pergamena.

Il giudaismo, ambiente vitale del vangelo
A questo scopo, abbiamo insistito molto nel dire che corriamo il rischio di non capire il 90% del vangelo se ci limitiamo a leggerlo con le nostre categorie culturali e non ci sforziamo di situarlo nel suo ambiente vitale, culturale e religioso del suo tempo. Gesù è un ebreo, Maria è un’ebrea, Giuseppe è un ebreo della stirpe di Davide, gli apostoli sono ebrei osservanti, i primi cristiani sono ebrei figli di Abramo: non possono non pensare e non esprimersi da ebrei. Essi conoscono non solo la scrittura ebraica, che è Toràh, i Profeti e gli Scritti (corrispondenti ai nostri Sapienziali), essi conoscono anche e specialmente la «bibbia orale», che è tramandata solo oralmente attraverso la predicazione e la sinagoga con i Targum e i Midràsh.
Affinché non andasse perduta, la maggior parte della predicazione orale fu messa per iscritto durante la diaspora tra il sec. II e il sec. VI d.C., ottenendo così i testi che conosciamo con il nome di Mishnàh, Talmud, Tosèphta, Ghemarà, che riportano i commenti alla scrittura di tutti i saggi d’Israele dal sec. III a.C. al sec. VI d.C. È un materiale immenso, certamente tardivo, ma che contiene materiale anche antico da valutare di volta in volta. Noi cattolici non conosciamo quasi nulla di tutto questo e spesso ci scandalizziamo, perché consideriamo il NT un frutto del tutto avulso dal mondo che lo ha generato e partorito. Finché non si ritoerà alla bibbia come libro fondamentale della nostra fede, basato nel contesto giudaico, il nostro cristianesimo sarà molto superficiale e anche falsato.
Abbiamo presentato la parabola, cercando di evidenziae il vocabolario peculiare, mettendo in risalto il comportamento del padre che riflette il modo di essere di Dio nei nostri confronti. S’è scoperto che il figlio maggiore è rappresentativo del mondo farisaico, che rigetta Gesù per difendere il proprio potere, e che il figlio minore ha tutte le caratteristiche dei pubblicani. Come questi, anche il minore non è giustificabile, ma nella logica della parabola non è determinante che egli chieda perdono, come spesso si legge nei commenti e negli usi liturgici di questa parabola, perché il cuore della pagina non è il figlio minore o maggiore, ma è l’accoglienza del padre/Dio, che previene i figli al di là dei loro meriti.
In sostanza abbiamo visto che il significato ultimo della parabola è la tenerezza di Dio, che si commuove fino alle viscere se vede un figliolo che si sta perdendo in «un paese lontano»: egli allora spinto dal suo viscerale amore senza fondo e senza confini, perde se stesso pur di guadagnare il figlio/figli. Alla fine abbiamo scoperto con amarezza che riesce nel caso del figlio minore, ma fallisce nel caso del figlio maggiore.

Lettura scientifica e insegnamento spirituale
Abbiamo impegnato 15 puntate per commentare i singoli versetti della parabola lucana, mettendo in evidenza anche aspetti psicologici, oltre che esegetici, pastorali e spirituali: il nostro commento infatti non voleva essere solo un rendiconto asettico delle questioni letterarie o testuali, ma un momento di valutazione anche della nostra vita alla luce della parola di Dio, più profondamente compresa. Lo studio della bibbia più è scientifico più diventa spirituale, perché dandoci il senso genuino del testo scritto, ci permette di entrare nel messaggio autentico della rivelazione.
All’interno del commento abbiamo imparato il significato del vitello grasso, il cui sacrificio ristabilisce i termini dell’alleanza qui tra figlio e padre e in termini più generali l’alleanza che in Gesù si stipula tra l’umanità e Dio, fermo restando il mestiere per eccellenza di Dio che è la misericordia. «I sandali, la tunica e l’anello» ci hanno svelato il senso nascosto nella tradizione giudaica di reintegro nell’eredità materiale, nella dignità personale e nell’identità filiale; siamo così arrivati a scoprire il capovolgimento delle situazioni di partenza: il figlio che ha chiesto la vita del padre per poterla sperperare nella dissolutezza e nell’impurità (paese lontano) ora si ritrova immerso in quella stessa vita che lo ha salvato dall’inferno della dannazione (porci) e dalla presunzione di se stesso.

La conversione interessata
Troppa retorica si è fatto attorno al figlio prodigo e alla sua conversione, tanto che è diventato un classico, durante la quaresima, imbastire una liturgia penitenziale dove lo si prende a modello di conversione e di pentimento. Il figlio minore invece è motivato dalla «necessità di sopravvivere» e la sua conversione, se c’è, avviene dopo, nel silenzio della parabola, quando il padre lo fa entrare nella sala del banchetto con la veste nuziale che gli cambia l’aspetto e quello che più conta il cuore. Ancora una volta è il padre il peo di ogni movimento.
Abbiamo anche ridimensionato drasticamente il figlio maggiore, verso il quale si è di solito più indulgenti, perché apparentemente non ha mai dato dispiaceri al padre, restando sempre in casa. Il commento ha evidenziato la natura perversa di questo figlio, simbolo del fariseismo e dell’opportunismo, del comportamento cioè di chi trama nell’acqua senza mai esporsi. Egli ha goduto, almeno crediamo di averlo bene chiarito, della partenza del figlio e già faceva i calcoli della «sua roba» alla morte del padre che aspettava con ansia. La sua vita è rovinata dal padre che accoglie il fratello e, come è stato assente per tutta la sua vita dalla vita del padre, così alla fine egli resta fuori del banchetto e non può indossare l’abito delle nozze. Egli che è rimasto sempre in casa, di fatto era partito da un pezzo ed era rimasto lontano, molto più lontano del paese dove è andato a gozzovigliare il fratello; il minore invece, andato fisicamente via da casa, è tornato perché nel suo cuore, anche a sua insaputa, era rimasto legato al padre di cui aveva inconsciamente nostalgia.

Gli ultimi precedono i primi
Abbiamo pure visto concretizzarsi la «legge» biblica del ribaltamento delle posizioni codificato nel Magnificat di Maria e la «legge della sostituzione» che percorre la bibbia dalle origini alla fine: l’ultimo prende il posto del primo e il secondogenito subentra nell’asse ereditario al primogenito. Strano e illogico, secondo i parametri umani, il Dio che è delineato nella parabola del figlio prodigo!
Egli è un Dio senza dignità e senza rispetto per se stesso, perché, travolgendo ogni costume sedimentato e ogni razionalità, si «mette a correre» per venire incontro a chi non ha più speranza, a chi è morto e bandito dalla società e dalla religione. Egli è un Dio senza pudore che abbandona il tempio, le chiese, conventi e monasteri, dove i figli sono al sicuro e corre per le strade del mondo a cercare la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio traviato. A buon diritto il lettore può dire: egli viene per me.
Un’attuazione pratica della parabola si ha nell’eucaristia, che è il commento sacramentale, o «midràsh sacramentale», della parabola della tenerezza del Padre che trasforma la vita del Figlio unigenito in parola, pane e vino perché i figli dispersi e smarriti possano rifocillarsi nell’ascolto, nel cuore e nel corpo per ritrovare il Volto di Dio, che in Gesù si manifesta e rivela a noi come Padre/Madre.
È questo il senso ultimo della parabola della pateità sconfinata che sa rigenerare, perché ama senza scopo e senza interesse. Se dovessimo sintetizzare il capitolo 15 di Lc in una parola, non avremmo dubbi perché c’è una sola parola, come ci suggerisce Paolo in 1Cor 13, e questa parola è «Agàpēē», il nome nuovo del Dio di Gesù Cristo: «Dio è Agàpēē» (Gv 1Gv 4,8) che tradotto alla lettera si può rendere con «Dio è Amore a perdere».

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




ACCOGLIETELO NEL SIGNORE CON PIENA GIOIA

La parabola del «figliol prodigo» (23)

«29 Ma egli rispondendo, disse a suo padre: Guarda/Ecco, da tanti anni [io] ti sono schiavo e mai un tuo comando ho trasgredito, e (tu) mai mi hai dato un capretto perché con i miei amici  potessi essere felice (= fare festa). 30 Ma quando questo tuo figlio, che ha mangiato con le prostitute la tua vita, è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso». «31 Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava fare festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Nella puntata precedente abbiamo lasciato il figlio «anziano» in preda all’ira contro il padre, che ha osato accogliere il fratello tornato a casa, dopo il tradimento e il pentimento. Nei nostri orecchi risuona ancora come una lama affilata e piantata nella carne viva l’espressione «questo tuo figlio», carica di disprezzo senza tregua e senza  sconti.

Stare con il padre senza esserci
Il fratello maggiore ha rinnegato la «frateità» e si è chiuso nella sua solitudine, che diventa anche rifiuto della pateità perché egli si considera non figlio, ma «schiavo»: «Da tanti anni (io) ti sono schiavo (in greco: doulèuō) e mai un tuo comando ho trasgredito» (v. 29). Stare a casa col padre deve essergli pesato come un macigno perché egli si è imposto non di «stare col padre», ma di vigilare sulla eredità che considerava sua a tutti gli effetti. La giustificazione della sua tirchieria avara è riversata sul padre, perché l’egoista non sa portare nemmeno le responsabilità delle proprie scelte, ma ha bisogno sempre di un paravento, dietro cui riparare il proprio perbenismo e la propria grettezza.
Il v. 29 dove il figlio maggiore accusa di avarizia, vi è una ripresa del tema dell’«avere» che segna tutta la parabola e che ci pare importante sottolineare anche visivamente;
v. 12: Padre, DAMMI (dice il figlio minore che pretende la vita e l’eredità del padre prima della sua morte);
v. 16: Nessuno gli DAVA (al figlio minore che vuole saziarsi almeno del cibo dei porci);
v. 22: Disse: DATEGLI l’anello al dito (dice il padre ai servi per reintegrare il minore nell’eredità);
v. 29: Mai mi HAI DATO un capretto (dice il maggiore al padre per giustificare la sua gretta avarizia);
v. 31: Tutto è TUO (dice il padre al maggiore che non ha mai potuto godersi quello che aveva).
Il figlio maggiore si dimostra autentico figlio di Adam che, rifiutando di riconoscere la «signoria» di Dio, finisce per ritrovarsi «nudo» per se stesso e incapace di riconoscere gli altri come suoi simili. Caino uccide il fratello Abele, perché senza padre non c’è fratello. Nella parabola di Lc, avviene il contrario: non riconoscere la frateità significa disconoscere anche la pateità di Dio. D’altra parte i due atteggiamenti sono simmetricamente corrispondenti («chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede?», 1Gv 4,20), perché senza fratelli non c’è padre.
Il fratello maggiore si ribella al padre che accoglie e «salva» il fratello minore, come il profeta Giona s’indignò con Dio perché concesse a Ninive un’opportunità di salvezza (Gn 4,1.4), mentre egli nel furore della sua personale giustizia avrebbe voluto distruggere tutta la città, abitanti e animali compresi.

Simbolismo dei nomi: il Barabbà e i barabbi
Esaminando il v. 28 (cf MC 7-8 [2008] 72-73) abbiamo parlato del «giorno dell’ira» e ci siamo riferiti sia a Caino che al profeta Giona che, ora, trovano pieno compimento nel figlio «anziano» della parabola, che si contrappone in modo lampante al padre come evidenzia lo schema seguente:
Due mondi e due prospettive si confrontano e si oppongono. È evidente che Lc non intende raccontare solo una parabola edificante, ma vuole proporre una catechesi in prospettiva cristologica. La figura del padre è simbolica di Dio che viene in cerca dei suoi figli vaganti nel deserto come pecore smarrite (Lc 15,4.8). Egli ha inviato il Figlio primogenito per radunare e salvare i «figli minori», che costituiscono l’umanità intera fino ad offrire la sua vita «perché (…) non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma (…) lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).
A questo riguardo nella scena della passione, in modo esplicito Matteo e in modo più implicito, come è suo costume, l’evangelista Giovanni giocano sul significato dei nomi aramaico-ebraici per esprimere il senso profondo degli avvenimenti. Pilato chiede alla folla urlante che scelgano chi liberare tra «Gesù, chiamato Cristo» [cioè il Bar-Abbà, Figlio unigenito del Padre] e «Barabba» [cioè il bar-abbà in aramaico] che significa figlio del padre/papà (cf Mt 27,17; Gv 18,40).
Gesù per salvare i «figli minori», cioè noi, non esita a dare la sua vita fino alla morte; mentre il fratello maggiore della parabola vuole la morte del fratello minore. Per Lc il figlio «anziano» è l’anti-Cristo, il vero figlio di Adam, che vuole usurpare per sé l’albero della conoscenza del bene e del male (cf Gen 3,2-6), escludendo dal suo orizzonte tutti gli altri fratelli (cf Gen 4,9). Sta qui la natura del peccato del figlio anziano: essa consiste nella «solitudine» della sua vita, che egli pretende di vivere da sé e per sé, senza padre e senza fratello.
Egli vive da solo, cioè per se stesso nell’abisso della grettezza, fuori da ogni parvenza di comunità e di relazione. Isolato nel suo egoismo, trasuda rabbia, odio e morte. Il suo peccato è più grave di quello del fratello minore che, anche andando con le prostitute (cf Lc 15,13.30), in qualche modo cercava una parvenza di relazione e di comunione; in modo certamente sbagliato, ma anche «in un paese lontano» (Lc 15,13) non visse mai da solo.

Questo tuo figlio….questo tuo fratello
Il figlio maggiore rinnega perfino il fratello (v. 30), che lo identifica solo come figlio di suo padre: «Questo tuo figlio». Il padre si rende perfettamente conto e risponde (v. 32) riportandolo a un livello profondo di affettività: «Questo tuo fratello». Per il figlio primogenito, il fratello «ha mangiato con le prostitute la tua vita (= del padre)»; per il padre il figlio minore, invece, «era morto ed è tornato in vita»; per l’egoista conta il patrimonio, per il padre la vita salvata.
C’è nella scrittura un altro tentativo simile a questo, quando, dopo il peccato d’idolatria compiuto da Israele che si è fabbricato il vitello d’oro, Mosè sale a Dio per intercedere il perdono. Dio ripudia il suo popolo e cerca, solleticando la vanagloria, di circuire Mosè per ricominciare una storia nuova, con persone nuove, con esiti diversi. Nelle parole di Dio Israele diventa il popolo di Mosè: «Allora il Signore disse a Mosè : “Và, scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito”» (Es 32,7). Mosè non cade nel tranello e rimanda a Dio la responsabilità della salvezza dall’Egitto: «Mosè supplicò il Signore, suo Dio, e disse: “Perché, Signore, divamperà la tua ira contro il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande forza e con mano potente?”» (Es 32,11). L’autore conclude lapidariamente che «il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo» (Es 32,14).
Di fronte alla fermezza della verità, anche Dio si piega e abbandona l’ira della morte, ma non il fratello maggiore della parabola lucana, che resta chiuso nelle spire della morte sua e degli altri. Non sappiamo come va a finire, perché la parabola si conclude con le parole del padre che rimanda il figlio maggiore alla sua responsabilità di primogenito. Egli però non risponde e Lc lascia il lettore con il sapore della prospettiva che almeno il figlio minore è salvo, al sicuro, in casa, in attesa che il padre rientri. La conclusione è aperta: forse convertito dalle parole del padre, il figlio anziano è entrato anche lui nella festa della risurrezione; ma forse, e più plausibilmente, ha sbattuto la porta e se ne è andato, maledicendo il padre che si è perso dietro il figlio minore.

«Io sarò sempre con te»
Alla dichiarazione del maggiore che si dichiara non figlio, ma «schiavo» (Lc 15,29), il padre risponde (Lc 15,31) con parole che manifestano la grandezza abissale della pateità: «Figlio, tu sei sempre con me». Bisogna fare attenzione a questa risposta del padre che non sembra così ovvia come potrebbe apparire. Il padre non dice di essere lui «sempre con il figlio» perché egli non ha mai messo in questione o in dubbio la propria pateità. Al contrario, è il «figlio» che non «deve» dimenticare di «stare sempre col padre» perché, accecato dagli interessi materiali, ha perso di vista anche la presenza della pateità.
Quale tragedia si consuma tra questi due uomini! Una pateità sempre presente è misconosciuta, mentre una frateità mai condivisa viene espulsa. Un padre tesse le relazioni vitali tra i figli e uno (il minore) lo uccide e l’altro (il maggiore) lo uccide e seppellisce.

a) Nell’AT, i patriarchi
Nell’AT, l’espressione «io sono/sarò con te» indica la protezione e la familiarità/vicinanza che Dio ha con i patriarchi: Abramo (Gen 21,22), Isacco (Gen 26,3.24), Giacobbe (Gen 28,15); con Mosè (Es 3,12), con Giosuè (Gs 1,5.9) nella prospettiva di una alleanza di amore filiale e paterno. Dio si prende cura di coloro che chiama e non li abbandona alla solitudine della disperazione.
Parlando il linguaggio della «vicinanza», il padre tenta di rimettere il figlio, che si è perduto senza mai muoversi da casa, nella scia dei patriarchi e reinserirlo nella trama della salvezza che si fa storia, ricordandogli che non ha motivo di sentirsi solo, perché avrebbe dovuto sentire la presenza patea. Invece il figlio maggiore, pieno di sé, abitato solo da interessi materiali, non solo non ha percepito la presenza del padre, ma ha anche rinnegato e oscurato la «Shekinàh/Dimora/Presenza» di Dio.
Mentre il fratello minore è stato capace di riannodare i nodi della sua esistenza, ritornando alla sua origine e alla sua identità, il fratello maggiore, stando sempre fuori di casa (il testo non dice che è entrato), in un colpo solo, ha reciso il suo passato e il suo futuro. Senza storia e senza prospettiva.

b) Nel NT: il Figlio della necessità
Nel NT si usa la stessa espressione per coloro che hanno condiviso le prove con Gesù (Lc 22,28-29), per il ladrone pentito che per primo sperimenta la promessa del compimento del regno: «Oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43), segni premonitori di una realtà più profonda e radicale: la totale identità tra Gesù/il Figlio e Dio/il Padre: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (cf Lc 15,31 con Gv 17,10).
Per Lc, l’evangelista del discepolo, seguire Gesù significa imitarlo nell’unità col Padre, l’opposto esatto di ciò che vive, decide e sceglie il figlio maggiore della parabola, che fu generato figlio, ma volle essere schiavo, finendo per diventare ateo praticante, idolatra senza Dio.
La parabola si conclude con la dichiarazione del padre sulla «necessità» della festa che richiama la gioia del pastore che ritrova la sua pecora (Lc 15,6) e quella della donna casalinga che ritrova la moneta (Lc 15,9), formando, a livello tematico, una specie di «inclusione» tra l’inizio e la fine del capitolo 15 di Lc, aggiungendo così un altro elemento unitario sul piano letterario.
Lc è particolarmente legato a questa «ineluttabilità necessaria»: nel NT il verbo al presente (= dêi – bisogna) e all’imperfetto (= èdei – bisognava) ricorre almeno 100 volte, di cui 40 solo in Luca: una presenza massiccia e segno che l’autore vuole sviluppare un proprio pensiero teologico.
Già al compimento dei dodici anni, in occasione della cerimonia della «Bar mtzvàh – figlio del comandamento», quando il giudeo diventa maggiorenne, mentre era nel tempio a discutere con i dottori della Toràh, alla madre che lo rimprovera, risponde che è suo compito (= dêi – bisogna) occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2,41-50, qui v. 49).
In Lc, Gesù è pressato della «necessità» che gli studiosi, specialmente di teologia, definiscono come «necessità di Dio o divina» per sottolineare il mistero della libertà di Gesù congiunto con quello di una chiamata particolare per un compito particolare: Gesù non si sottrae alla volontà del Padre fino al punto che la sceglie come fondamento della sua vita: «Prese la ferma decisione di dirigersi verso Gerusalemme» (Lc 9,51), la città di Dio, la città del compimento delle profezie, la città, dove la «necessità» di Dio diventa redenzione degli uomini e delle donne.

Un padre senza fine
Di fronte alla necessità della gioia che condivide la vita ritrovata del fratello, il figlio maggiore prende le distanze, si priva da sé della festa, e pretende anche di essere giusto. Il padre parla al plurale (in greco si ha il verbo in forma impersonale che può quindi leggersi come «plurale»): «È necessario che noi ci si rallegri e si faccia festa», aprendo uno spiraglio sul fatto che la gioia o è comunitaria o è un inganno.
Insieme ci si salva, da soli ci si danna. La comunità è il luogo principe della festa di accoglienza, ma ancora una volta il figlio maggiore ne resta volutamente fuori, mentre il figlio minore è immerso nel cuore della «casa», immagine della chiesa, che lo accoglie con amore materno e lo custodisce entro i muri del suo cuore.
Un padre e due figli. Il figlio scapestrato ora è dentro la casa, mentre il maggiore rimane fuori; il padre che prima era col minore a fare festa, ora è fuori accanto al maggiore per condividee l’angoscia e la resistenza; il figlio minore inizia il suo cammino di catecumenato dentro la chiesa in cui condivide la sua gioia di salvato, il figlio maggiore è in procinto di dare voce e corpo alla sua auto-scomunica perché egli si esclude da solo dalla prospettiva di salvezza della chiesa intera.
Tra i due è il padre che ancora una volta spezza la sua vita, una parte per figlio, pur di tenerli uniti. Nella penna di Lc, il padre è sempre in movimento perché corre da un figlio all’altro, dentro e fuori la casa/chiesa: alla fine è l’unico a non avere un posto, ma è anche il solo che sa stare accanto ai suoi figli senza pretendere da loro nulla in cambio del suo «esserci».
Non cerca di cambiare i figli, ma li aiuta a guardare dentro di sé perché soltanto loro conoscono «la necessità» del loro cuore e il bisogno della loro vita.     (continua – 23)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Acqua alla gola (scempio e follia)

L’acqua un bene vitale in grave pericolo (prima puntata: la situazione italiana)

Un tempo, nelle acque del Po, il principale fiume italiano, era possibile la balneazione. Altri tempi. Oggi il fiume soffre di ogni sorta di inquinamento. E così gli altri corsi d’acqua, i laghi, i mari. Ipossia, anossia, eutrofizzazione: un disastro provocato dalle attività umane, mai adeguatamente regolamentate, mai interessate a salvaguardare i beni della collettività. Il conto è salato, anzi salatissimo. Forse impagabile.

Siamo abituati a fare giri in bicicletta sulle piste ciclabili torinesi, tra cui quelle che costeggiano i fiumi principali della nostra città, il Po ed il suo affluente, la Dora Riparia. Durante questi giri, ci è capitato di osservare varie situazioni di degrado, che interessano i due corsi d’acqua. Ciò che più ci ha lasciati allibiti è stata la scoperta di cospicui sversamenti di cromo esavalente nelle acque della Dora, provenienti dalla tristemente famosa Thyssen
Krupp e dalle Ferriere Fiat, di cui abbiamo già parlato (MC, luglio 2008).
Non basta: a livello della costruzione del nuovo passante ferroviario di Torino, nel punto in cui esso passerà sotto la Dora, attualmente si possono vedere vere e proprie montagne di «smarino», che poggiano per buona parte sulla «tombatura» del fiume (la Dora per quasi un chilometro è coperta da una soletta di cemento, che fungeva da base di una parte delle Ferriere) e su di loro passano camion, che continuano a versare materiale in grande quantità, mentre il letto del fiume è stato ridotto ad un terzo della sua ampiezza, sotto il ponte adiacente, per consentire gli scavi sotto il letto del fiume stesso.
Viaggiando invece in riva al Po, abbiamo osservato per mesi la realizzazione di una pista ciclabile sull’argine del fiume; per costruire questa pista sono stati riversati, direttamente nel fiume, macerie provenienti da cantieri edili e cemento, che sono andati ad occupare circa tre metri dell’ampiezza del letto del fiume.
Osservazioni del genere ci fanno chiedere in quali condizioni siano i corsi d’acqua nel nostro paese. In generale, quali sono le condizioni delle acque dolci, comprese quelle di falda, in Italia? E nel resto del mondo? In questa prima puntata della nostra rubrica prenderemo in considerazione la situazione italiana.

Poveri fiumi italiani

Il Po, il maggiore dei nostri fiumi (652 chilometri), percorre una delle aree più densamente popolate ed industrializzate del bacino del Mediterraneo: la pianura Padana, dove vivono circa 20 milioni di persone nonché 12 milioni tra bovini e suini d’allevamento, più diversi milioni di polli. Dalle abitazioni, dalle industrie e dagli allevamenti di bestiame viene immessa nel Po una quantità di rifiuti organici pari a quella di una popolazione di circa 119 milioni. Il fiume inoltre bagna quattro delle regioni più produttive d’Italia, cioè il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia-Romagna ed il Veneto, regioni dove si trova circa il 50% dell’industria nazionale con una produzione annua di circa 25 milioni di tonnellate di rifiuti industriali, la maggior parte dei quali raggiunge l’Adriatico.
Un’analisi delle acque del Po, lungo tutto il suo percorso, eseguita da Legambiente nel 2005, ha rivelato che solo a Crissolo, in prossimità della sorgente, l’inquinamento è irrilevante, cioè di classe 1 (le classi d’inquinamento vanno da 1 a 5 e sono rispettivamente: 1 – non inquinato, 2 – lievemente inquinato, 3 – inquinato, 4 –  molto inquinato, 5 – gravemente inquinato). Procedendo verso valle, già a 50 Km dalla sorgente, cioè a Saluzzo, l’inquinamento è di classe 3. Nel tratto lombardo le cose peggiorano ed in provincia di Piacenza è stato rilevato un inquinamento di classe 4. Solo nel tratto da Guastalla (RE) al delta è stato rilevato un inquinamento di classe 2, ma questo esito potrebbe essere stato falsato dalle condizioni atmosferiche, caratterizzate da piogge intense, che hanno aumentato la portata del fiume, prima delle analisi. Probabilmente con una portata normale, i risultati sarebbero stati peggiori.
Secondo un rapporto dell’Istituto Ambiente Italia di maggio 2006, tra i grandi fiumi italiani solo l’Adige mantiene una qualità delle acque buona o sufficiente, mentre le condizioni del Po, del Tevere e dell’Ao sono critiche. Gli obiettivi di qualità chimica e biologica posti  per il 2016 sono oggi assolti solo da un terzo dei bacini idrici italiani, ma anche quelli posti per il 2008 sono pienamente rispettati solo in Trentino Alto Adige, Liguria e Valle d’Aosta, mentre le situazioni peggiori si hanno complessivamente in Emilia, Lazio, Lombardia, Marche e Campania. Nelle regioni meridionali, il sistema di monitoraggio è ampiamente insufficiente, infatti su 620 punti di campionamento, solo il 15% si trova nelle regioni meridionali e mancano del tutto i dati relativi alla Puglia ed alla Calabria.
Invece il Piemonte e la Valle d’Aosta rappresentano da sole il 23% dei dati nazionali. I dati si basano sull’indice SECA (introdotto dal Dlgs 152/99 sulla tutela delle acque), che integra i risultati delle analisi chimico-fisiche e microbiologiche (LIM) con i dati di qualità biologica dell’Indice Biotico Esteso (IBE), un parametro chiave per definire la qualità delle acque, che si basa sull’analisi della struttura della comunità d’invertebrati, che popola il letto dei fiumi. Secondo il Dlgs 152/99 entro il 2016 ogni corso d’acqua superficiale dovrà raggiungere lo stato di qualità ambientale «buono», per cui, entro il 2008, esso dovrà presentare almeno i requisiti dello stato di qualità ambientale «sufficiente».
Sempre secondo l’analisi di Legambiente, il 21% dei fiumi italiani risulta inquinato in modo da non raggiungere la sufficienza e ciò si verifica specialmente in Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia e Sardegna.

Come ti inquino un fiume, un lago, un mare

Che tipo di sostanze inquina i nostri fiumi? Possiamo innanzitutto dire che le sostanze inquinanti provengono dai settori civile, agro-zootecnico ed industriale. I principali inquinanti del settore civile sono le sostanze organiche biodegradabili. Il settore agro-zootecnico inquina con sostanze fertilizzanti, fitosanitari e pesticidi. L’industria invece emette sostanze organiche alogenate e metalli pesanti come mercurio, arsenico, cromo, cadmio e piombo. Oltre a queste sostanze, da ripetute analisi, effettuate nel Polesine sulle più comuni specie di pesci presenti nel Po, sono state rilevate quantità preoccupanti di diossina e di policlorobifenili (PCB), che rendono impossibile la pesca sul fiume, anche se purtroppo qualcuno comunque continua a pescare ed a mangiare questo tipo di pesci, correndo seri rischi, dato l’elevato potere cancerogeno della diossina e dei PCB.
Per quanto riguarda le sostanze biodegradabili organiche provenienti dal settore civile e da quello agro-zootecnico, la diretta conseguenza è il progressivo impoverimento di ossigeno delle acque, causato dai batteri, che assimilano e poi decompongono il materiale organico, consumando ossigeno in questa loro attività. Ciò determina un’ipossia, se non addirittura un’anossia delle acque, che progressivamente porta alla morte di ogni forma di vita presente e questo vale soprattutto per le acque marine, che ricevono dai fiumi l’enorme carico di sostanze organiche biodegradabili, in essi riversate. Inoltre i fertilizzanti agricoli riversano nelle acque dei fiumi enormi quantità di derivati dell’azoto e del fosforo, cioè sostanze nutrienti, che una volta raggiunto il mare favoriscono il fenomeno dell’eutrofizzazione, cioè l’abnorme crescita di alghe. Quando queste ultime muoiono, precipitano sul fondo marino e vengono degradate dai microrganismi esattamente come i liquami, accentuando così l’impoverimento d’ossigeno delle acque, con conseguente moria di pesci e perdita della biodiversità.
I problemi dell’impoverimento d’ossigeno delle acque e quello dell’eutrofizzazione stanno interessando allo stesso modo anche i principali laghi italiani. Il problema dell’inquinamento dei nostri fiumi e del Po in particolare è sorto dopo gli anni Sessanta, in concomitanza con l’espansione delle grandi città e degli impianti industriali, nonché con l’instaurarsi di un tipo di agricoltura e di allevamento intensivi. Prima di allora nelle acque del Po era possibile la balneazione. Ora è proibito fare il bagno, perché il rischio di malattie è estremamente elevato. Una curiosità: tra le malattie, che si possono contrarre facendo il bagno nei nostri fiumi, c’è la leptospirosi, malattia mortale per l’uomo, trasmessa dall’urina dei topi e dei ratti, che infestano le rive dei fiumi e più in generale le nostre città.

Stati Uniti: i diritti… degli inquinatori

I problemi legati all’inquinamento, di fiumi e laghi italiani sono presenti negli altri paesi industrializzati o in via di sviluppo, alla stessa maniera, se non peggio.
Vandana Shiva, nel suo Le guerre dell’acqua, riferisce il caso del fiume Cuyahoga a Cleveland, Ohio, Stati Uniti, che serviva da discarica per le industrie del luogo e che nel 1969 era così contaminato dai prodotti chimici, che prese fuoco.
Negli Stati Uniti, nel 1972 venne approvato il Clean Water Act, il quale stabiliva che nessuno può inquinare l’acqua e che tutti hanno diritto all’acqua pulita. Tale legge si poneva l’obiettivo di riportare entro il 1983 le acque dei fiumi in condizioni idonee per la pesca e per il nuoto. Purtroppo nel 1977, a seguito delle pressioni degli industriali, anziché puntare alla regolamentazione degli scarichi, si passò a considerare lo standard della qualità dell’acqua. Tale standard è stabilito dal governo, però, relativamente ad un’area designata e ciò in relazione all’acquisizione dei permessi di scarico o Tdp (Tradable Discharge Permits), da parte delle aziende, cioè una compravendita dei diritti d’inquinamento. In pratica, in tal modo, il governo passa da protettore del diritto all’acqua per tutti i cittadini, a quello di sostenitore dei diritti degli inquinatori. Tra l’altro, la quantità d’acqua necessaria per la fabbricazione di molti prodotti a livello industriale è impressionante e molto superiore a quella, che si consumerebbe fabbricando a mano lo stesso tipo e lo stesso quantitativo di prodotti. La lavorazione della pasta di legno per la produzione industriale della carta determina un consumo d’acqua tra i 270.000 e gli 855.000 litri per tonnellata di carta. La sbiancatura del cotone consuma dai 216.000 ai 324.000 litri d’acqua per tonnellata di cotone prodotto. Anche la modea industria informatica contribuisce in modo pesante all’inquinamento dell’acqua. Basta pensare al fatto che un singolo wafer di silicio da 6 pollici (cioè la piastra, su cui sono stampati i circuiti integrati e da cui si ottengono i chip che rappresentano, ad esempio, la memoria del computer, che stiamo usando, o quella di un telefono cellulare) richiede per la sua fabbricazione circa 10.237 litri d’acqua deionizzata, oltre a 90 metri cubi di gas generici, a 0,6 metri cubi di gas tossici, a 900 grammi di prodotti chimici ed a 285 kilowattore di energia elettrica. Se poi pensiamo al fatto che lo stabilimento Intel di Rio Rancho nel New Messico, di wafer di silicio ne produce 5.000 alla settimana…

Cina: un disastro dietro l’altro

Dall’altra parte del mondo, in Cina, dove è in corso una rivoluzione industriale senza precedenti, la situazione dei grandi fiumi, che bagnano il paese e dei loro affluenti, nonché dei laghi è, a dir poco, agghiacciante. Si calcola che siano inquinati il 90% dei fiumi e dei laghi cinesi, specialmente al nord, con oltre il 70% delle acque dei fiumi Giallo o Huang He (il più lungo dei fiumi cinesi, che va dall’altopiano del Tibet al golfo di Bo Hai, nel Mare Cinese orientale, dopo 5.460 Km), dello Huai e del Hai, nonché dei loro affluenti e che le loro acque siano troppo inquinate per l’uso umano.
I dati ufficiali dicono che oltre 320 milioni di contadini cinesi non hanno accesso all’acqua potabile e che circa 190 milioni bevono acqua sicuramente inquinata. Inoltre l’acqua inquinata dei fiumi viene usata per irrigare i campi, i cui prodotti vengono poi commercializzati ed esportati (ad esempio le mele Fuji, che troviamo nei nostri supermercati). Anche molti prodotti ittici provengono da zone altamente inquinate.
Tutto questo si sta traducendo in una strage silenziosa tra gli abitanti di molti villaggi, situati lungo le coste dei fiumi cinesi. Emblematico è il caso di un villaggio, Xiaojiadian, che si trova lungo le rive di un affluente del fiume Giallo, a 250 Km dal delta. Si tratta di un villaggio di circa 1.300 persone, dove negli ultimi cinque anni sono morte 70 persone, per cancro allo stomaco od all’esofago. Nei villaggi vicini, nello stesso periodo, sono morte altre 1.000 persone, per cause analoghe. A monte di questi villaggi, negli ultimi 20 anni sono sorte numerose concerie, cartiere ed industrie. In questa zona, l’incidenza del cancro all’esofago supera di 25 volte la media nazionale, al punto che il distretto di Dongping viene considerato la capitale mondiale del cancro, dagli oncologi che studiano questi casi. Peraltro, un rapporto del 2007 del ministero della Salute cinese imputava all’inquinamento atmosferico e delle acque un allarmante incremento dell’incidenza di tumori in tutta la Cina, in particolare del 19% nelle aree urbane e del 23% nelle aree rurali.
I problemi legati all’inquinamento vanno ad aggiungersi ad altri altrettanto gravi, che interessano questi fiumi ed in particolare il fiume Giallo, le cui acque vengono captate in enorme quantità: il 65% per l’agricoltura ed il resto dall’industria e dalle città in rapido sviluppo. Il risultato è che il fiume, già sottoposto a lunghi periodi di siccità, che sempre più caratterizzano la Cina, soprattutto nella sua parte settentrionale, pur essendo stato in passato responsabile di inondazioni catastrofiche, attualmente stenta a raggiungere il suo delta, essendo la sua portata ridotta ad un decimo di quella originale, ed in effetti, negli anni Novanta, per qualche tempo, non lo ha raggiunto affatto. Ciò comporta una concentrazione di sostanze tossiche, riversate nelle sue acque ed una grave ripercussione sia per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico di moltissime città, sia per la produzione di cereali, la cui diminuzione inciderà pesantemente sul mercato cerealicolo mondiale. La crisi idrica cinese è sicuramente cominciata con l’instaurarsi di un clima più secco e caldo, che sta interessando l’intera regione, con un aumento del processo di desertificazione (basti pensare che sono già scomparsi 3.000 su 4.077 laghi nella provincia del Quinghai). Nei mesi estivi, le piogge sono così scarse, che il governo cinese ha attuato un programma di «inseminazione» delle nubi, consistente nel bombardare queste ultime, nell’area sovrastante la sorgente del fiume Giallo, con cristalli di ioduro d’argento, per aumentare il tasso d’umidità e stimolare le precipitazioni. La situazione di questo fiume, già resa precaria dal clima, che ne ha ridotto la portata, per effetto della riduzione del 7% all’anno dei ghiacciai, che lo alimentano, è resa ancora più difficile dalla presenza di 20 grandi dighe, che ne frammentano il percorso ed aggravano il problema della siccità.

Nel frattempo, il riscaldamento globale…

Come sappiamo il problema della siccità è una delle conseguenze del progressivo rialzo termico (vedi il riquadro di pagina 54), che sta interessando il nostro pianeta, grazie all’effetto serra causato dall’immissione nell’atmosfera di gas quali l’anidride carbonica, il metano, l’ossido di azoto ed i clorofluorocarburi, dispersi in miliardi di tonnellate annue sin dagli inizi della rivoluzione industriale.
In particolare, l’anidride carbonica (CO2), da sola, è responsabile del 50% dell’aumento della temperatura. Fonti primarie di questo gas sono i combustibili fossili (petrolio, benzina, carbone) e la deforestazione, soprattutto l’abbattimento delle foreste pluviali. Il metano (CH4), che è responsabile per il 18% del rialzo termico, è in aumento ed è rilasciato da batteri presenti in zone acquitrinose, come paludi, torbiere e risaie, ma è anche presente nell’apparato digerente dei ruminanti, come i bovini; la sua molecola ha un’incidenza sul riscaldamento terrestre 20 volte superiore a quella dell’anidride carbonica. L’ossido di azoto (N2O) aumenta nell’atmosfera dello 0,8% all’anno e con ogni probabilità è rilasciato dai fertilizzanti agricoli; la sua molecola, ai fini dell’effetto serra, ha una potenza 200 volte superiore a quella dell’anidride carbonica.
I clorofluorocarburi (CFC), oltre a distruggere la fascia dell’ozono atmosferico, hanno un notevole ruolo per l’effetto serra, poiché contribuiscono tra il 17% ed il 24%, ma soprattutto la loro molecola ha un effetto 20.000 volte maggiore di quello dell’anidride carbonica. I CFC sono usati negli impianti di condizionamento e nei refrigeratori, nonché nelle materie plastiche espanse, negli aerosol e nei solventi.
Se l’emissione di questi gas continuerà con il ritmo attuale (teniamo presente che le automobili sono tra le principali responsabili di queste emissioni), si calcola che la temperatura media della superficie terrestre aumenterà di un grado entro il 2030 e di tre gradi, entro la fine del secolo e questa sarà la prima volta che la terra si troverà ad affrontare un simile rialzo termico in così pochi anni, considerando che dall’ultima era glaciale la temperatura media è salita di 4-5 gradi in 10.000 anni. Peraltro il progressivo inaridimento, che già colpisce parecchie regioni della Terra, non sarà ubiquitario, dal momento che l’innalzamento della temperatura porterà ad un aumento dell’evaporazione acquea degli oceani, accelerando il ciclo dell’acqua. Sono piuttosto prevedibili situazioni sempre più estreme, con territori maggiormente colpiti da siccità ed altri da alluvioni, per l’estensione delle precipitazioni, conseguente all’aumento dell’umidità media in certe zone. Le temperature più alte porteranno ad una più rapida evaporazione acquea dalla terraferma e quindi il suolo si seccherà più velocemente. Già ora molti fiumi, come appunto il fiume Giallo, presentano una consistente riduzione della loro portata. Questa situazione sta già interessando anche l’Italia.

L’Italia s’inaridisce

Secondo i dati della Protezione civile l’Italia sta diventando in parte arida. Il problema viene inoltre aggravato dalle captazioni d’acqua a fini produttivi e ad uso civile. In particolare per l’agricoltura vengono captati 20 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno, cioè il 49% di tutta l’acqua disponibile (nel resto d’Europa, il consumo per uso agricolo rappresenta il 30%), mentre l’industria ne consuma il 21% e per gli usi civili se ne capta il 19%.
L’enorme quantitativo d’acqua usato in agricoltura è strettamente correlato alla necessità di foraggio per gli allevamenti intensivi di bovini e di suini, oltre naturalmente alle colture per uso alimentare umano.
Un ulteriore problema, che sicuramente in Italia non incentiva al risparmio dell’acqua in agricoltura e nell’industria è il suo costo, che è in media di 52 centesimi di euro al metro cubo per uso civile, mentre per uso agricolo o industriale costa cento volte di meno. Inoltre, in certi casi i reali consumi per uso agricolo non sono nemmeno fatturati, oppure viene fatto un forfait. È chiaro che finché non ci sarà corrispondenza tra il costo ed il consumo reale dell’acqua, saranno pochi gli agricoltori che limiteranno le irrigazioni.
Ci sono poi le aziende imbottigliatrici di acque minerali (cfr. il Dossier di MC del giugno 2006) , che, pagando l’acqua ad una cifra irrisoria (meno di un centesimo di euro al metro cubo), realizzano guadagni esponenziali (al supermercato un metro cubo d’acqua minerale vale mediamente 516 euro). Infine, lo spreco d’acqua dovuto ai singoli individui, ma anche alle perdite nelle condotte, che si lasciano dietro il 42% dell’acqua captata, che non giungerà a destinazione (con la punta massima del 70% a Cosenza). 
(Fine prima puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Riscaldamento globale ed informazione

Colpi di sole

La mancanza di responsabilità verso le problematiche ambientali è conosciuta. Soprattutto in Italia. Eppure esistono giornalisti che, minimizzando o addirittura negando i problemi, incentivano l’illusione che le attività umane non siano dannose per la terra e per il futuro di tutti. 

L’Amazzonia è sempre presa come esempio di disastro ambientale inarrestabile. Ma – purtroppo – non c’è soltanto il polmone del mondo in pericolo. Secondo un recente libro fotografico1 dell’agenzia Onu per l’ambiente (United Nations Environment Programme, Unep), negli ultimi 30 anni l’Africa ha subito mutamenti devastanti: ghiacciai che scompaiono (ad iniziare dal Kilimangiaro in Tanzania), deforestazione selvaggia, biodiversità a rischio. Ma occorre andare lontani per vedere i disastri prodotti dal riscaldamento climatico (global warming): il Trentino, terra di montagne innevate (almeno fino a qualche anno fa) e boschi, da anni vede i propri ghiacciai (sono 83) assottigliarsi (uno per tutti, l’Adamello, il più esteso delle Alpi italiane). A tal punto che la provincia di Trento ha messo in campo iniziative di studio e ricerca per affrontare il problema2.

Scetticismo contro precauzione – Nel 1992, al Summit di Rio, si formalizzò il «principio di precauzione» per le questioni ambientali. Quel principio è stato clamorosamente disatteso, come dimostra l’affossamento del Protocollo di Kyoto (1997), che pure è molto timido nel fissare limiti alle emissioni di gas serra (anidride carbonica e metano, in primis). Nel frattempo, nei 15 anni trascorsi da Rio, la situazione ambientale si è notevolmente aggravata e gli studi scientifici hanno dato conferme alle ipotesi iniziali. «Catastrofismo ed esagerazioni», qualcuno nega l’evidenza stessa. Come giustamente sostiene Mario Tozzi, «lo scetticismo è il sale della scienza». Ma, secondo il ricercatore e giornalista scientifico, la stragrande maggioranza degli scienziati «dice la stessa cosa, cioè che il clima sta cambiando e che al 90% è colpa nostra».

La situazione secondo i rapporti Onu – Nel suo quarto rapporto (2007)3, il Comitato internazionale sul cambiamento climatico (Ipcc) afferma che «il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, come evidenziano gli aumenti riscontrati della media mondiale della temperatura dell’aria e dell’oceano, il disgelo generalizzato di nevi e ghiacciai e l’aumento della media mondiale del livello del mare». Secondo il rapporto redatto dai 2.500 scienziati dell’Ipcc, le cause sono da ricercare nella concentrazione di gas serra che sono aumentati notevolmente a causa delle attività umane a partire dal 1750, ma in maniera particolare negli ultimi 50 anni.   
Ma non è tutto qui. I mutamenti climatici, infatti, esasperano le ingiustizie tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del mondo, come ha evidenziato l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp): le conseguenze dei cambi climatici – siccità, inondazioni, eventi meternorologici estremi, migrazioni forzate – colpiscono tutti, ma i più deboli in particolare. «Sono i più poveri – si legge nel rapporto4 -, che non hanno contribuito e continuano a non contribuire in misura significativa alle emissioni di gas serra, a essere i più vulnerabili».

Il fantomatico «complotto» ambientalista – Nonostante la netta maggioranza degli scienziati concordi sul riscaldamento globale e sulle cause che lo determinano, ci sono giornalisti e divulgatori che negano il problema e così facendo producono disinformazione molto dannosa, considerando lo scarso spirito di responsabilità che politici, amministratori e cittadini hanno nei confronti dei problemi ambientali. In Italia, paese noto per la scarsissima vocazione ambientalista, stanno percorrendo questa strada due giornalisti del quotidiano Avvenire, Riccardo Cascioli e Antonio Gasperi, che sull’argomento hanno sfornato ben tre libri (citati a piè di pagina), tutti incentrati sulla negazione del riscaldamento globale e – udite, udite – su un presunto «complotto ambientalista», ordito da Onu, Ipcc, No-global ed associazioni. Le ardite tesi ed argomentazioni di Cascioli e Gasperi sono scientificamente smontate in un recente libro di Stefano Caserini (vedi piè pagina), professore al Politecnico di Milano, che nella premessa scrive: «Alla base del negazionismo italiano ci sono ragioni forse più di ordine psicologico e sociologico, la volontà di difendere l’attuale modello di sviluppo senza metterlo in discussione o la ricerca della visibilità che dà il cantare fuori dal coro; oppure, semplicemente, la pigrizia. “L’uomo non c’entra” è una tesi comoda, evita le grane delle politiche ambientali; obiettivo raggiunto anche dalle successive evoluzioni del pensiero negazionista: “ridurre le emissioni costa troppo” e “il riscaldamento globale fa bene”».

Gli irresponsabili difensori dello status quo – Di norma, in un mondo dominato dal «pensiero unico», sarebbe auspicabile e benvenuta una partecipazione critica alle scelte che influiscono sulla vita delle persone. Come ben sappiamo, ciò non avviene. Ironia della sorte (o mero prodotto dell’insipienza umana), il pensiero unico viene a mancare proprio dove invece servirebbe.
Sembrava che le problematiche ambientali potessero spingere gli stati ad unire le energie per affrontare questioni di enorme portata. In tutta evidenza, dal protocollo di Kyoto fino all’ultima riunione (luglio 2008) del G8 a Hokkaido, in Giappone, non è così. C’è sempre qualche presidente (di uno stato o di una multinazionale) che preferisce difendere lo status quo. E c’è sempre qualcuno pronto a scrivere che quel presidente ha ragione e che quegli scienziati raccontano «balle» (sì, è proprio questo il termine utilizzato).

di Paolo Moiola

Roberto Topino e Rosanna Novara




GUAI A VOI, CHE APPARITE  GIUSTI ALL’ESTERNO, MA DENTRO SIETE PIENI D’INIQUITÀ

La parabola del «figliol prodigo» (22)

«Ma lui rispose a suo padre: «Guarda/Ecco, da tanti anni (io) ti sono schiavo/servo e mai un tuo comando ho trasgredito, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma quando questo tuo figlio che ha mangiato con le prostitute la tua vita è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso».

Il padre umiliato due volte

Il padre era andato incontro al figlio minore per accoglierlo nella sconfinata sua pateità; ora di nuovo, «dopo essere uscito, chiamava/invitava» il figlio anziano (v. 28), dimostrando così che egli non ama un figlio più dell’altro, ma ama ogni figlio con tutto se stesso, partendo non dalla sua realizzazione di padre, ma dal bisogno personale dei figli.
Secondo il costume e la mentalità orientale, il padre che corre scomposto incontro al figlio perde la sua dignità di persona autorevole, perché sono i figli che devono correre verso l’autorità (cf puntata 15a in MC 2,2008, 22-24).
 Ora la scena si ripete: mentre il figlio maggiore è ancora fuori, è il padre che esce, umiliandosi a supplicarlo per essere parte della gioia e della festa. Per la mentalità orientale, sarebbe stato sufficiente che il padre gli avesse dato un ordine e lui doveva ubbidire; il figlio stesso dice con convinzione: «Mai un tuo comando ho trasgredito» (v. 29).
L’atteggiamento del maggiore è chiaramente falso, perché la sua adesione al padre è solo formale: se fosse stato un «vero figlio obbediente» come si gloria di essere, non avrebbe mai permesso che suo padre «perdesse la faccia» lasciando la festa e uscendo fuori a supplicarlo.
Il testo greco dice di più, aggravando ancora, se mai è possibile, la sua posizione: «Guarda/Ecco, da tanti anni [io] ti sono schiavo/servo». Quello che noi traduciamo con l’avverbio «ecco» in principio di frase, in greco è un imperativo (aoristo medio) del verbo «horàō – guardo/vedo», quasi che volesse dire: «Guarda da te stesso/renditi conto/possibile che tu non veda come…».
Da un punto di vista narrativo, questo imperativo con valore avverbiale posto ad inizio di frase ha lo scopo di rendere immediato, contemporaneo quello che segue. In altri termini, il redattore ci avverte che sta accadendo qualcosa di importante e le parole che seguono non sono parole qualsiasi, ma decisive.

Vivere da schiavo, fingendo di essere figlio

Il testo ci fa ascoltare le parole tragiche e tremende del figlio anziano che si pone di fronte al padre come se fosse in competizione. L’atteggiamento psicologico del figlio è di sfida e di conflitto: egli non ha alcuna considerazione del padre. Il verbo infatti che usa è «douléuō – io sono schiavo/servo», che esprime lo stato permanente di schiavitù alle dipendenze di un altro: lo schiavo è proprietà del padrone. Anche i servi spesso hanno dignità, ma quando si diventa servili, per apparire «modelli» agli occhi del padrone di tuo, non si appare soltanto «schiavi», lo si è veramente.
Il verbo «douléuō – io sono schiavo/servo» è opposto all’altro verbo greco «diakonéō – presto servizio/io servo», da cui deriva il sostantivo «diàkonos – diàcono/servitore»: esso esprime un «servizio libero» e in questo senso è usato per il servizio liturgico.
Due sono i riferimenti biblici a cui possiamo collegare l’atteggiamento del figlio maggiore: nel confronto con tutti e due egli rimane in perdita. Il primo esempio lo ricaviamo dal racconto dell’Esodo, dove Dio libera Israele «dalla schiavitù-doulèia» del faraone (Es 6,6) per condurlo al monte Sinai, dove arriva una massa di schiavi, ma da cui riparte un «popolo libero» con il tesoro delle «dieci parole» di libertà (Es 19-20). Il secondo esempio è più diretto perché mette a confronto la fatica della «schiavitù» che i protagonisti devono subire per realizzare il loro sogno.

L’esempio di Giacobbe

Nel libro della Genesi (Gen 29,15-30) si narra che Giacobbe «servì-douléuō» sette anni Làbano per avere in moglie la figlia secondogenita Rachele. Passati i sette anni di servizio, la notte di nozze, il padre scambia le figlie e Giacobbe al mattino si trova in moglie la primogenita Lia, che «aveva gli occhi smorti» (v. 17), invece di Rachele, «bella di forme e avvenente di aspetto» (vv. 15-20, qui 17). Se vuole avere Rachele, Giacobbe deve «servire altri sette anni» (v. 27): per amore Giacobbe ridiventa schiavo del suocero: «Fu ancora al servizio (douléuō) di lui per altri sette anni» (v. 30).
Quando Giacobbe, assolti i suoi obblighi, va via con mogli e proprietà, Làbano lo insegue, perché gli fa comodo avere uno schiavo di quel valore a basso costo; ma Giacobbe «si adirò e apostrofò Làbano: …Vent’anni ho passato con te… ho servito quattordici anni per le tue due figlie e quattro per il tuo gregge e tu hai cambiato il mio salario dieci volte» (Gen 31,36-42, qui vv. 36.38.41). Giacobbe rivendica «tutto il tempo del suo servizio/schiavitù» (doulèuō) che egli accettò per amore e non si rassegnò al raggiro, alla truffa e alle avversità. Egli agì per amore e alla presenza di Dio che egli venera e ama: «Se non fosse stato con me il Dio di mio padre, il Dio di Abramo, il Terrore di Isacco, tu ora mi avresti licenziato a mani vuote» (Gen 31,42).
Il patriarca Giacobbe rivendica non la quantità del tempo, ma la giustizia infranta dal suocero. Egli non ha agito con secondi fini e con reconditi pensieri, ma alla luce del sole, rispettando contratti capestro che egli accettò come piccolo prezzo di un grande amore.
Non si può dire lo stesso del figlio maggiore della parabola, che rivendica solo la «quantità» della sua schiavitù che nessuno per altro gli aveva chiesto né contrattato. Se il patriarca ha agito per amore, il suo discendente agisce solo per egoismo e interesse. Giacobbe crede in Dio, il figlio maggiore crede nelle sue sostanze; il patriarca affronta dei rischi e subisce per un bene superiore, il figlio anziano è prigioniero della sua grettezza che ostenta davanti al padre: «Da tanti anni ti sono schiavo».

La religiosità della parvenza

Se il figlio avesse avuto coscienza del suo rapporto affettivo col padre, avrebbe certamente usato il termine «diàkonos»; invece l’evangelista, usando il verbo della schiavitù, ci mette in guardia, dicendo che egli si sente e si comporta da «schiavo» perché, pur essendo figlio anagraficamente, ha sempre vissuto da sottoposto gretto e vuoto di passioni.
Una persona senza passioni, anche se a volte possono essere sbagliate, è sempre una rovina per se stessa e per l’umanità intera, perché riduce tutto al proprio interesse personale con cui fa coincidere l’esistenza e il valore di tutto l’universo. Ed è anche un monito perenne per noi: si può passare la vita a fare sacrifici, a macerarsi nelle rinunce e nelle privazioni, si può rinunciare a tutti i capretti del mondo, ma se non c’è la libertà dei figli di Dio, la gioia di regalare la propria libertà, l’autonomia dai propri interessi immediati e quasi sempre meschini, la condivisione con i fratelli «più giovani» che tornano dopo avere sperimentato i loro errori, noi saremo sempre i farisei della situazione: osserviamo materialmente tutti i precetti, ma il nostro cuore è lontano dalla salvezza, perché pur stando in casa col padre, di fatto siamo in «un paese lontano, vivendo da dissoluti, da persone senza salvezza» (Lc 15,13).
Il figlio «anziano» si rivela qui il più infantile e il più immaturo: non è mai cresciuto a livello di umanità, né come uomo né come figlio, perché come uomo si comporta e vive da «schiavo» e come figlio considera suo padre come padrone/proprietario. A questo punto non possiamo nemmeno meravigliarci della sua reazione nei confronti del «fratello», che egli non ha mai conosciuto, perché lo considera solo figlio di suo padre: «Questo tuo figlio» (v. 30).
Il suo isolamento è totale: nessuna relazione vitale lo anima, né quella affettiva parentale (padre, fratello, casa) perché egli è sempre «fuori» dagli altri, né (ed è facile supporlo) quella relazione con gli amici perché con questi «è felice» solo nelle feste occasionali. Il testo parla di «phìloi – amici», ma forse si dovrebbe parlare di «compagni» di baldorie.

Vita d’amore e prostituzione

Quanta differenza tra i due «fratelli»! Al v. 15, il minore che era in «un paese lontano», per sopravvivere «si incollò/attaccò» a un pagano perché spinto dalla disperazione, che lo induce a sognare di tornare al padre suo, anche nella condizione di «mìsthios – salariato/operaio». Egli prende lentamente coscienza del suo peccato morale e lascia che la vita del padre, che egli ha sperperato colpevolmente e resa immonda, lo travagli, lo recuperi, lo rimodelli per tornare alla sua affettività di relazione. Con le prostitute ha sperimentato l’ebbrezza della illusione momentanea, a pagamento, non ha avuto una relazione di vita, perché gli è venuto meno il contesto d’amore che la prostituta non può dare. I gesti d’amore, infatti, della vita d’amore e della prostituzione sono gli stessi, l’atto sessuale è lo stesso, ma la differenza sostanziale è tutta qui: nella vita d’amore il contesto è d’amore, libero e gratuito, nell’altro il contesto è mercenario perché si compra la finzione.
Dove c’è un corrispettivo, di qualsiasi natura e specie, c’è sempre prostituzione perché l’amore/agàpē è per sua natura gratuito e senza pretese, ma principalmente senza reciprocità.
Il figlio minore che è «materialmente» schiavo fino all’abiezione di «servire» i porci, anela a diventare «salariato», non schiavo, perché forse nel suo inconscio sa che suo padre non lo permetterebbe mai.
Al contrario, il fratello «anziano» che non si è mai allontanato dalla casa patea, che non ha mai trasgredito un «comandamento» del padre e che nella sua tirchieria ha risparmiato anche i capretti per le feste con gli amici, accusa il padre della sua inesistenza. Egli, infatti, dichiara apertamente la sua schiavitù come condizione interiore propria: è sempre stato uno schiavo e sempre lo sarà. Non ha sperperato con le prostitute, ma di prostituzione è piena la sua vita apparente e impura.
La parabola non dice che egli «entra» nella festa degli affetti, ma resta in sospeso, come un monito per noi che leggiamo a distanza di ventuno secoli. Egli somiglia al fariseo che si ritiene a posto per avere adempiuto i comandamenti prescritti e di non mescolarsi con gli impuri e gli ingiusti (Lc 18,11-12) o a quei cristiani che ritengono Dio in debito con loro perché vanno a messa, non si perdono una processione, fanno la carità e non ammazzano.
Essi hanno una concezione «quantitativa» della religione, che è solo quella del «dovere». Essi girano sempre con la bilancia per misurare il pro e il contro, per valutare di non esagerare nel rapporto con Dio, che comunque deve stare dalla loro parte, altrimenti è un «dio» ripudiato.

Il libello del ripudio

I due versetti (vv. 29-30) che stiamo commentando svelano l’abisso del figlio «anziano»: di fatto egli presenta il «libello del ripudio» al padre e, tramite il padre, al fratello.
Accusando il padre di non avergli mai concesso un capretto per fare festa con gli amici, egli mente (come vedremo nella prossima puntata), perché da figlio libero, poteva prendere tutto quello che voleva senza nemmeno chiedere il permesso. Da avaro e schiavo, ha sempre pensato ad accumulare, aspettando famelico la morte del padre per potere disporre della «roba» sua che egli ritiene propria.
Il minore di fronte al padre che gli corre incontro, si getta ai suoi piedi; il maggiore di fronte al padre che esce per supplicarlo, gli sbatte in faccia il suo perbenismo di facciata e il suo odio, facendogli la lista dei suoi diritti e l’elenco delle colpe del padre.
«Mai un tuo comando ho trasgredito». È la foto della presunzione narcisistica di chi pensa che il mondo comincia e finisce con lui. Il testo greco parla di «entolê – comandamento». La bibbia riserva questo termine all’osservanza dei «comandamenti» della Toràh (Dt 26,13; Gb 23,12), ma anche agli impegni umani (2Cr 8,15). Il  termine così acquista una connotazione «religiosa», ma anche «etica», perché esprime la natura della relazione umana: verticale verso Dio e orizzontale verso il prossimo. Dicendo di non avere «mai» trasgredito un comandamento, egli asserisce di non avere mai peccato né contro Dio né contro i propri simili, qui suo padre e suo fratello. In questo stesso istante, egli pecca con un peccato in più (cf Lc 18,14).
«Mai ho trasgredito un tuo comando» è lo stesso che affermare: io sono giusto perché osservo la lettera della Toràh, sono un modello di religiosità e pretendo di avere la mia parte, quella che mi spetta di diritto (cf Lc 18,14). Nel giardino di Eden, Adam vuole essere «come Dio» per usurpae il potere (cf Gen 3,5); qui il figlio anziano contesta il potere del padre che accusa di non essersi accorto della sua schiavitù accumulata per tutta la vita, credendo di potere comprare la sua dignità di uomo e di figlio che non ha mai avuto. 
Già prima di Gesù, la tradizione giudaica aveva codificato tutta l’osservanza della Toràh in 613 precetti, di cui 365 negativi, simbolicamente corrispondenti a ogni giorno dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti simbolicamente alla totalità dei «pezzi» che compongono il corpo umano. Il simbolismo è chiaro: tutto il tempo (anno) e tutto l’uomo (parti del corpo) sono sotto il segno della volontà di Dio che si esprime nell’Alleanza come dimensione d’amore e di affetto.
Al tempo di Gesù i farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi perché era molto arduo osservare tutti i comandamenti, giorno dopo giorno. Per questo Gesù, nel vangelo di Matteo, scritto per i cristiani provenienti dal giudaismo, espone la sua interpretazione della Toràh, oltre la tradizione, con le famose opposizioni del discorso della montagna: «Vi è stato detto… ma io vi dico» (Mt 5,21-22.27-28.31-32.33-34.38-39.43-44), con cui si schiera dalla parte del popolo degli esclusi dalla salvezza e dalla parte del Dio che la salvezza annuncia proprio agli esclusi. Egli toglie i pesi dalle spalle delle persone (cf Lc 11,46) e le impegna in un dinamismo di amore, sintetizzando la Toràh, in un solo «comandamento»: amare Dio e amare gli altri (Mt 22,36-40).

Ciò che non vogliamo fare, ciò che non dobbiamo essere

Al v. 30 c’è un cambiamento stilistico, con una frase temporale che imprime un’accelerazione al contenuto, come se non vi fosse tempo sufficiente: «Ma quando questo tuo figlio che ha mangiato con le prostitute la tua vita è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso».
In queste parole, le uniche che il maggiore pronuncia sul fratello minore, sono parole di disprezzo e di morte: «Questo tuo figlio». Se nel versetto precedente aveva ripudiato il padre, ora presenta il libello del ripudio anche al fratello che non ha mai amato. Egli è inchiodato nella «solitarietà» di se stesso: non ha altro dio che se stesso, cioè il suo abisso di nullità, che coincide con la cima del suo egoismo.
Egli accusa il fratello di impurità legale, perché «ha mangiato con le prostitute», senza rendersi conto che egli è impuro nel cuore, perché si è sempre limitato a osservare la lettera della Legge, senza mai lasciarsi penetrare e interpellare nella coscienza (cf Is 29,13; Mt 15,8).
L’espressione «questo tuo figlio» trasuda disprezzo illimitato: il ritorno del fratello ha sconvolto il suo piano di restare unico padrone dell’eredità patea. Egli è consapevole che il minore ha sperperato la «vita del padre», ma non si rende conto che il padre ha preferito essere sperperato pur di salvarlo da se stesso, riuscendoci e riportandolo a casa.
Il maggiore al contrario non tiene conto del valore della vita del padre (in greco: tòn bìon), perché la colloca in un contesto di un disprezzo assoluto senza appello: la perla della tenerezza del padre è buttata ai porci nel fango della grettezza (cf Mt 7,6).
Dal figlio «anziano» noi, uomini e donne della modeità, possiamo, dobbiamo imparare quello che non dobbiamo fare, che non vogliamo essere (continua – 22).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«ADIRATEVI, MA NON PECCATE;  NON TRAMONTI IL SOLE  SOPRA LA VOSTRA IRA» 

la parabola del «figliol prodigo» (21)

«Disse il Signore a Caino: Perché sei acceso d’ira» (Gen 4,6)
«28 Allora si adirò e non voleva entrare. Suo padre perciò, dopo essere uscito, lo chiamava/invitava».

Abbiamo concluso la puntata precedente anticipando la reazione del figlio «anziano», cioè del fratello maggiore «si accese d’ira e non voleva entrare» (v. 28), svelando così la sua natura fratricida e la sua indole irrecuperabile: se è vero che il minore è scappato di casa, è altrettanto vero che il maggiore non vuole entrare. Il figlio minore è tornato da «un paese lontano» (v. 13) e ora sta dentro; il figlio maggiore, invece, che non si è mai allontanato fisicamente, resta fuori perché non è mai entrato.
Ancora una volta tocca al padre uscire e andargli incontro, nel tentativo di recuperare anche questo figlio che avrebbe dovuto essere un modello di esempio per la sua «anzianità». È evidente che nella reazione del fratello maggiore esplode un conflitto di frateità che non è solo un conflitto affettivo, ma ora, leggendo i vv. 28-29, scopriamo qualcosa di abissale e di tragico: il conflitto è fondato sugli interessi, sulla proprietà.

L’esodo e l’immobilità

Quando il maggiore chiede informazione a uno dei servi (v. 26) coglie lo stupore che colpì tutti i membri della famiglia: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27). La straordinarietà dell’evento non è il ritorno del figlio, che in un certo senso può anche rientrare in una certa logica, ma nel fatto che il padre ammazza il vitello grasso, quello delle grandi occasioni.
In questo modo il padre ha dato al ritorno del figlio perduto un valore di grande significato: non un rientro qualsiasi, quasi fosse scontato, ma il passaggio dalla perdizione alla salvezza. Il padre celebra un vero «esodo» del figlio minore, che dalla schiavitù ritorna alla figliolanza, dall’Egitto dell’idolatria alla Terra Promessa dell’unica Pateità, dal deserto della disperazione al giardino della sua casa.
Di fronte a questo evento «universale di salvezza», il figlio anziano, invece di coinvolgersi e tuffarsi nell’ordito salvifico che lo interessa, perché chi ritorna è pur sempre suo fratello, reagisce in modo inatteso e sproporzionato: «Allora si adirò e non voleva entrare» (v. 28).
L’evangelista con tre sole parole riesce a esporre un mondo di contraddizioni: «Allora si adirò». In greco la parola «ira» si dice «orghê» e traduce l’ebraico «‛af», che letteralmente indica la narice del naso, che per i semiti è la sede dell’ira e della rabbia, perché la persona irata o arrabbiata gonfia le narici. L’ira gonfia di sé e non lascia spazio per gli altri. Poiché l’alito è caldo, è logico dire «si accende d’ira» oppure «bolle di rabbia».

Il giorno dell’ira

Anche di Dio si dice che «dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante, da lui sprizzavano carboni ardenti» (Sal 18/17,9; cf anche Sal 2,5; 6,2; 7,7; ecc.).
In tutta la tradizione biblica, il tema dell’«ira di Dio» è una costante che manifesta la vera natura del Dio d’Israele prima e di Gesù Cristo dopo. L’ira in Dio esprime un atteggiamento radicale di opposizione assoluta al mondo del peccato e del rifiuto consapevole dell’amore di Dio e dell’agnello.
San Paolo parla di «giorno dell’ira della giustificazione e della giustizia giudicatrice di Dio» (Rm 2,5) e l’Apocalisse dell’«ira dell’agnello» e del «grande giorno dell’ira» a cui nessuno potrà resistere (Ap 6,16-17).
Dio si «adira» di fronte all’ingiustizia che soffoca la verità (Rm 1,18); il fratello «anziano», invece, «si adira» contro il padre che ammazza il vitello grasso per il ritorno del fratello. Egli è l’anti-dio, pur essendo esteriormente un uomo devoto, religioso e pio e purtroppo, non è un caso isolato, ma è il frutto di una lunga storia di usurpazione e di prevaricazione che in nome di una supposta e scontata religiosità, riduce Dio e il suo comandamento a un puro meccanismo di potere. Peggio: di possesso.
Il «figlio anziano» è un modello, anzi, la sintesi finale di un lungo processo che comincia fin dalle prime pagine della scrittura. Adam nel giardino di Eden «vuole essere come Dio» per disporre della salvezza del mondo «conoscendo il bene e il male» (cf Gen 3,5). Dio è un antagonista e concorrente che bisogna sconfiggere sul suo stesso piano, perché Adam si sente defraudato in un suo diritto: se Dio è Dio, perché io non posso essere «come lui»?
Il progenitore ha fatto scuola e, infatti, il figlio Caino mette subito in pratica la lezione, non accettando l’agire di Dio: «Caino si adirò in sé… Perché sei adirato in te?» (Gen 4,56). Il testo ebraico parla di «ira in se stesso», cioè, un’ira covata e alimentata contro il fratello Abele, i cui sacrifici erano più graditi a Dio. Caino crede di subire una ingiustizia e teme di essere esautorato dal secondogenito e quindi di perdere il suo diritto alla primogenitura (ne abbiamo parlato a lungo nella puntata n. 6, sviluppando lo schema «maggiore/minore» – cf Mc 1 (2007) 24-26).
L’ira di Caino è contro di Dio che giudica «ingiusto», ma la sua ira si compie nel sangue, perché uccide il fratello minore, Abele. L’ira del figlio «anziano» in Luca è contro il padre, perché si oppone radicalmente alla generatività del padre che «fu commosso nelle viscere» di fronte al figlio minore mezzo morto ai suoi piedi (v. 20).
Il figlio/fratello maggiore è «irritato», diventa duro come pietra e non sente ragione: di mezzo c’è la sua «roba» che è più importante del resto, compresa la vita del fratello. All’amore generante del padre corrisponde la durezza assassina del figlio/fratello.

Giona vuole insegnare a Dio il mestiere di Dio

Nell’AT c’è una figura che somiglia molto al fratello maggiore: è il profeta Giona che «arde d’ira» contro Dio (Gn 4,1) perché «s’impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro (ai niniviti) e non lo fece» (Gn 3,10). Giona non capisce il comportamento misericordioso e temporeggiatore di Dio, che fa di tutto per salvare la città di Ninive e i suoi abitanti, mentre egli vorrebbe lasciarla al suo destino di morte e distruzione. A questo scopo non esita a mettersi contro Dio, anzi ad andarsene «lontano dal Signore» (Gn 1,3 – 2volte), quasi per non essere complice nell’esercizio della giustizia di Dio che è la misericordia.
Anche il figlio maggiore, si dissocia dalla misericordia di suo padre, e se ne sta lontano perché «non voleva entrare»: egli non ha nulla da spartire con l’immondo figlio del padre (non dice mai «mio fratello»!), così come Giona non vuole condividere nulla con quei peccatori dei niniviti. L’uno si «disgusta di Dio», l’altro «si adira»; l’uno accusa Dio di essere troppo buono; l’altro rifiuta la frateità, perché non ammette che la pateità possa capire e accogliere e rigenerare. Giona preferisce la morte piuttosto che spartire qualcosa con un Dio pietoso; il figlio maggiore si gonfia d’ira perché il fratello non è morto lontano da casa.

Il padre consolatore e l’ekklesìa

Il padre invece non si smentisce mai, è sempre se stesso, coerente alla sua pateità/mateità con ciascuno dei due figli e con tutti e due insieme, anche se l’evangelista non dice che sia riuscito a farli incontrare e accettare. Era andato incontro al figlio minore tornato dissanguato e ora va anche incontro al figlio maggiore, che non vuole entrare per tentare di riportarlo alla ragione dei sentimenti e della verità. Il figlio minore era «lontano», il figlio maggiore è «fuori». Né l’uno né l’altro sono «con il padre», che deve fare la spola dall’uno all’altro.
Nonostante il figlio maggiore non voglia entrare, nonostante lo accuserà (v. 29) di essere tirchio, il padre gli va incontro: «Suo padre perciò, dopo essere uscito, lo chiamava/invitava» (v. 28). È sempre il padre che fa il primo passo e va incontro ai figli, perché è compito dei padri generare per primi. Quest’uomo rappresenta il Dio di Giona e il Dio di Gesù Cristo, che non guardano il proprio interesse, ma unicamente la salvezza degli altri.
Il testo greco dice però qualcosa di più e di più profondo, perché il padre «dopo essere uscito» non si limita a chiamarlo/pregarlo, ma «para-kàlei autòn». Il verbo è composto dalla preposizione «parà-», che indica prossimità o vicinanza, e il verbo «kalèō» che significa «chiamare». Chiamare in prossimità o accanto (a sé) significa dunque non solo «chiamare», ma anche «consolare/confortare». Nel NT lo stesso verbo si usa per indicare lo Spirito Santo, il «Paràcleto/Paraclito» appunto, che giustamente viene tradotto con «Consolatore» e per estensione «Avvocato» (colui che sta accanto all’accusato per consolarlo con la sua parola di difesa).
Anche il termine «chiesa» deriva dallo stesso verbo: «ek-klesìa» (ek- preposizione d’origine o provenienza). La Chiesa è «chiamata da… (Dio)» perché sia segno visibile del Paràcleto/Consolatore attraverso la testimonianza della misericordia e tenerezza di Dio, che ama tutti gli uomini con simpatia.
È questo il contesto semantico entro il quale dobbiamo vedere l’azione del padre che esce di casa per «chiamare/pregare» il figlio. Non è una semplice supplica, ma una vera vocazione. Con il suo gesto di andargli incontro, il padre pone di fronte al figlio maggiore la possibilità di rientrare nell’«ecclesialità», cioè nel circuito profondo della consolazione e della condivisione con chi è più nel bisogno. In altre parole il padre ancora una volta svela la vocazione del figlio maggiore, che è quella di andare incontro al fratello minore, perché solo così egli può ritrovare la sua dimensione di persona e di figlio di Dio, perché Dio lo chiama a essere strumento di consolazione, cioè figlio dello Spirito Santo che convoca tutti i fratelli e le sorelle alla sorgente della frateità/sororità che è la pateità di Dio.

La faccia perbenista della religione atea

Non accettare la pateità di Dio come fondamento della propria vita (Adam/Eva), significa non riconoscere la frateità con i propri consanguinei (Caino/Abele), diventare gelosi dei doni altrui (Giuseppe/fratelli: Gen 37,11) e impedisce la convivenza nella stessa «casa», come gli invitati alle nozze del figlio del re che «non vollero venire» (Mt 22,2-3).
In questa «volontà» negativa del figlio, c’è qualcosa di diabolico, perché la volontà designa una scelta consapevole e determinata: «non voleva entrare» è più grave e più terribile del semplice «non entrò», perché esprime l’opposizione radicale al fratello e al padre. L’ira del figlio maggiore è indirizzata verso il padre più che verso il fratello, perché ciò che lo scandalizza è il comportamento del padre che è esattamente l’opposto del suo. Egli non si riconosce nel padre e pertanto lo rifiuta e lo rinnega: non ha il coraggio o, se si vuole, l’incoscienza del fratello minore, perché non sarà mai capace di andare via di casa a motivo della «facciata di perbenismo» che deve conservare; ma restando, si isola in un individualismo tragico, narcisista e possessivo, che lo uccidono prima ancora che cominci a respirare. Quest’uomo è pieno di sé, anzi è pieno di desiderio di possesso da non essere più in grado di ritrovare se stesso.

L’ekklesìa, luogo di condivisione nella gioia

Nella quinta puntata del presente commento (cf MC 12 -2006, 61-63), abbiamo paragonato il figlio «anziano» al fariseo nel tempio, che, stando davanti a Dio «in piedi», disprezza il pubblicano che se ne sta in fondo, invocando solo pietà e misericordia (cf Lc 18,9-14). Ora ne abbiamo la definitiva conferma: egli è «geloso» della salvezza altrui, come i vignaioli nei confronti di chi riceve un salario generoso da parte del padrone della vigna (Mt 20,15).
La religione autentica si avvera quando qualcuno si salva e il credente ne giornisce, condividendone la felicità e vivendola come se fosse una gioia personale: «Vi sarà più gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (v. 7).
Questa è la chiesa: la condivisione della gioia con tutti coloro che incontrano Dio e la sua misericordia. Al contrario, il figlio «anziano», come la maggior parte dei cristiani da registro, vogliono un Dio che sanzioni e castighi secondo un metro di giustizia che corrisponda al loro vedere e sentire. Costoro non hanno mai incontrato il Dio di Gesù Cristo, ma solo la proiezione di un loro bisogno, solo la caricatura di un Dio come loro lo immaginano.
Non basta essere battezzati, o «andare» a messa la domenica, o fare pratiche di pietà o sopportare la «religione del dovere» per essere credenti nel Dio rivelato da Gesù Cristo, «perché l’ira dell’uomo non produce ciò che è giusto davanti a Dio» (Gc 1,20). È il destino delle persone religiose che credono di programmare Dio come un orologio ad alta precisione, purché Dio esegua alla lettera la loro visione di vita, sposi le loro idee e attui i loro desideri. Per loro quello che si è sempre fatto è la regola d’oro e la barra di navigazione; tutto ciò che si discosta dal proprio ordine, proviene dal diavolo. Essi passano (o perdono?) la vita a precisare, a distinguere, a valutare: non vivono, soffrono sempre e vogliono che anche gli altri debbano essere come loro.

Quando Dio è pazzo e si vuole rinchiudere

Bisogna vivere in uno stato di discernimento permanente, se non si vuole correre il rischio di «credersi dentro», mentre in realtà «si è solo fuori», come accadde alla stessa famiglia di Gesù: «Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo» (Mc 3,31); ma Gesù, «girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui (in casa, cf v. 20), disse: … Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,34-25). Da una parte il fariseo che disprezza il pubblicano, dall’altra la famiglia che reputa Gesù «fuori di sé», cioè pazzo (Mc 3,21).
Il religioso, il fariseo, l’uomo dell’istituzione mantiene sempre le distanze da ciò che accade e senza nemmeno accorgersene si ritrova immerso in un isolamento popolato da regole, doveri, tradizioni che uccidono la Parola di Dio (Mt 15,6) e rifiutano gli altri che non si possono gestire come si vorrebbe secondo la propria volontà.
Il figlio maggiore somiglia molto a coloro che si appellano all’immutabilità della teologia e della liturgia, perché nei tempi modei non vedono che dissoluzione e nefandezze. Essi sono «fuori tempo», perché vivono solo di se stessi e per se stessi e pur restando in mezzo agli altri sono soli, terribilmente soli e si consolano foicando con le tradizioni che essi stessi si danno, ma che riescono a contrabbandare come Parola di Dio (Mc 7,13).
Essi non «vogliono sapere» che la storia è il luogo dove lo Spirito Santo parla e agisce oggi non meno di ieri, perché «lo Spirito soffia dove vuole» (Gv 3,8).

Il figlio maggiore che è dentro di noi

Il «figlio anziano» è il prototipo, oggi, di quei tradizionalisti, inevitabilmente fondamentalisti, che vogliono bloccare l’azione dello Spirito a un particolare tempo storico che, di norma, coincide con il tempo delle loro convinzioni e rimpiangono il passato come il paradiso perduto e non si accorgono di essere «fuori», mentre s’illudono di essere «dentro». Essi, infatti, rifiutano un Dio non «adeguato» alla loro mentalità, rinnegano la fede dell’incarnazione e vogliono bloccare ogni processo di trasformazione che non sia «conversione alle loro idee» e alla loro religione, che non è fede nello Spirito Santo, ma religiosità superficiale ed evanescente, che si nutre di riti e non di vita, di rubriche e non di amore.
Il figlio maggiore è un caposcuola che ha seminato discepoli in ogni epoca: egli è dentro ciascuno di noi che cova l’ira e ci gonfia di gelosia, quando vogliamo un Dio «a nostra immagine e somiglianza», capovolgendo così la Parola di Dio che ci parla di un Dio «annientato» per amore e per giustizia: «Gesù Cristo… non considerò un bene esclusivo l’essere uguale a Dio, ma annientò se stesso prendendo la condizione di schiavo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7).
Gesù infatti è il Figlio primogenito che è venuto a cercare i fratelli minori per insegnare loro ad essere una sola famiglia, che possa pregare con una sola voce e una sola frateità: «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6,9), dove in quell’aggettivo «nostro» c’è la nostra vita o la nostra condanna.                                                         (continua – 21)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




SEPOLCRI IMBIANCATI (e lacrime di coccodrillo)

Le morti sul lavoro in Italia: numeri da guerra civile

Le chiamano «morti bianche», ma di quel colore hanno poco o nulla.  È una vera e propria strage
(1.300 morti all’anno, 900.000 infortunati), che avviene quotidianamente nell’indifferenza dei più.  E poi, sempre correlate agli ambienti di lavoro, ci sono  le morti silenziose, quelle che non finiscono sui media. Ma che uccidono altrettanto o di più.

Sembra un bollettino di guerra: tutti i giorni qualcuno muore sul lavoro. I giornali parlano soprattutto dei decessi dovuti ad eventi traumatici. Scoppi, incendi, frane, allagamenti, crolli, scontri, investimenti e, in genere, tutti gli eventi che causano decessi improvvisi, fanno notizia e vengono riportati dai grandi mezzi di informazione.
Purtroppo le morti bianche, che finiscono sulle prime pagine dei giornali, sono soltanto la parte più conosciuta degli eventi luttuosi correlati con gli ambienti di lavoro, ma c’è una parte, meno conosciuta e anche meno considerata, che viene spesso definita la strage silenziosa.
Negli ambienti di lavoro vengono utilizzate molte sostanze che sono dei veri e propri veleni. Gli acidi, ad esempio, sono irritanti e causano effetti immediati sulla cute e sulle mucose; il lavoratore sente subito l’effetto di queste sostanze e cerca di evitare il contatto con esse, limitando in parte i loro effetti nocivi. Altre sostanze, come l’amianto e il piombo, hanno un’apparenza che non fa sospettare un pericolo, ma possono avvelenare ed uccidere a distanza di tempo. Un cenno a parte lo meritano le radiazioni ionizzanti: non si vedono, non si sentono, ma possono causare, a seconda dei tempi e delle dosi, ustioni gravissime e tumori.
I lavoratori, quasi sempre, non vengono informati dei rischi che corrono, anzi spesso vengono indotti a credere che non ci siano rischi. Pertanto, possono cercare di difendersi soltanto dalle sostanze irritanti, ma non da quelle i cui rischi vengono taciuti e nascosti.

La sicurezza costa, ma con la globalizzazione…

Col passare del tempo, con la diffusione delle informazioni e con l’applicazione delle leggi di tutela dei lavoratori, gli ambienti di lavoro sono migliorati e la possibilità di ammalarsi a causa delle sostanze utilizzate è progressivamente diminuita.
Purtroppo, di pari passo, a causa degli investimenti per la sicurezza e le spese per i risarcimenti per i malati professionali, il costo del lavoro è aumentato con la conseguenza che gli industriali hanno cominciato a chiudere gli stabilimenti nelle aree progredite per aprirli nei paesi del cosiddetto terzo mondo, dove si lavora per una miseria e non c’è nessuna tutela dei lavoratori né dell’ambiente.
Si chiama globalizzazione, dà un risparmio immediato nella produzione, ma aumenta la disoccupazione nei paesi industrializzati.
La disoccupazione, in questi paesi, è causa di una grave crisi economica e sociale, che porta alla difficoltà per molte persone di realizzare i propri progetti familiari, di avere dei figli oppure di dare loro un’istruzione adeguata.
Si assiste quindi ad un progressivo impoverimento culturale e generale della nazione e spesso ad un aumento della criminalità, nonché alla diffusione delle tossicodipendenze, che per molti rappresenta la fuga da una realtà difficile da accettare. L’impoverimento culturale rende inoltre la nazione meno competitiva rispetto ad altri paesi e quindi progressivamente più soggetta alla necessità di importare prodotti esteri.
È evidente e comprensibile che il lavoratore occupato, che guadagna bene, produce e compra, determinando un miglioramento dell’economia generale della sua nazione.

Le fonderie,  prodotti e scorie tossiche

Il discorso delle malattie professionali è molto vasto, richiederebbe un trattato e non si può riassumere in queste poche pagine, pertanto in questo numero parleremo soltanto dell’industria siderurgica della produzione dell’acciaio rinviando ad altri numeri futuri le altre lavorazioni.
Le fonderie si dividono in due grandi gruppi: quelle di prima fusione e quelle di seconda fusione.
La prima fusione è quella degli altifoi dove si fanno reagire il carbone e il minerale ferroso, ricavando il ferro, che viene, per l’appunto, fuso per la prima volta.
Le fonderie di seconda fusione partono dai rottami ferrosi e sono le più diffuse.
A causa del grande calore necessario per la fusione, tutte le attrezzature che vengono utilizzate contengono materiali refrattari e resistenti al calore, che sono la silice libera (che causa le silicosi) e l’amianto o asbesto (che causa l’asbestosi).
La silicosi e l’asbestosi sono due malattie simili, provocate rispettivamente dall’accumulo di silice o di amianto nei polmoni, con la conseguente progressiva riduzione della capacità respiratoria.
La silicosi e l’asbestosi sono le malattie professionali che si riscontrano più frequentemente tra gli operai, che hanno lavorato nelle fonderie.
La fusione dell’acciaio richiede anche l’utilizzo di altri metalli (cromo e nichel soprattutto), che servono per ottenere materiali di qualità superiore (acciai inossidabili).
L’acciaio, dopo essere stato ridotto in fogli sottili, definiti lamiere, subisce ancora trattamenti chimici di superficie per aumentare la sua resistenza alla corrosione.
Le lamiere, infine vengono arrotolate e spedite in altre fabbriche dove verranno tagliate, stampate e veiciate per fare manufatti di tutti i tipi, dalle automobili, agli elettrodomestici.
Queste lavorazioni determinano un grande inquinamento sia degli ambienti di lavoro, che di quelli estei.
Evidente è la formazione di polveri di silice e di amianto, ma non bisogna trascurare la produzione di diossine, di policlorobifenili, di polveri sottili e di metalli pesanti che vengono dispersi sia nell’aria, che nelle acque di scolo.
Per quanto riguarda la produzione di diossine, va detto che le acciaierie sono le più grandi produttrici di queste pericolosissime sostanze, che, purtroppo, tendono ad accumularsi nel terreno e nei tessuti delle persone che vivono nei paraggi o che si nutrono con i prodotti coltivati nei pressi di queste industrie.
Noto è il riscontro di diossine nel latte dei bovini allevati in aree dove sono presenti acciaierie.
Un altro rischio di notevole importanza riguarda la presenza di cromo e di nichel, due metalli, che sono stati riconosciuti come cancerogeni certi dalla comunità scientifica internazionale.
Abbiamo spiegato prima che questi metalli sono stati utilizzati per la formazione di leghe speciali e per i trattamenti di superficie dell’acciaio ed è pertanto normale trovarli negli scarichi industriali e nelle aree occupate dalle acciaierie.

Lo scandalo  «Dora cromata»

Una vasta area di Torino è stata per quasi un secolo occupata dalle cosiddette Ferriere, che producevano acciai speciali.
La fonderia e la fabbrica, in cui si svolgevano le operazioni di cromatura, si trovavano nell’area della Spina 3, che attualmente viene definita Vitali, dal nome della preesistente acciaieria, ora demolita, dove sono in corso lavori per la realizzazione di un quartiere residenziale.
Le analisi effettuate prima dell’inizio dell’apertura dei cantieri hanno riscontrato la presenza di una quantità impressionante di cromo esavalente nella falda sottostante l’area, a pochi metri dalla superficie.
Tutti i dettagli dei sondaggi si possono leggere nei 3 box a parte, dove vengono illustrati dati, che provengono dai documenti ufficiali del comune e della ditta che esegue i lavori.
Anche senza leggere i risultati degli studi effettuati, è evidente che l’area è inquinata da qualcosa di provenienza industriale. Qualche mese fa, un cittadino, che passava su un ponte della Dora a Torino, ha notato che da alcuni scarichi fognari usciva un liquido verde brillante e ha fatto delle fotografie, che sono state pubblicate da un giornale locale.
L’ipotesi più verosimile è che si trattasse di cromo esavalente sottoposto a trattamento chimico per trasformarlo in cromo trivalente, meno pericoloso, che assume un colore verdastro.
Ancora in questi giorni è possibile notare un liquido, dal caratteristico colore giallo del cromo esavalente, uscire da un cunicolo e versarsi direttamente nella Dora, nel punto dove si trovavano gli scarichi dell’acciaieria.
È da tempo che i cittadini, che abitano la zona inquinata, segnalano la loro preoccupazione. Anni fa, uscì un articolo su un giornale di Torino in cui si riportava la denuncia del comitato di quel quartiere: la popolazione locale lanciava l’allarme, diffidando politici, amministratori torinesi e imprese a costruire aree residenziali su terreni altamente contaminati dalla preesistente acciaieria. Si parlava proprio della contaminazione della Dora con liquidi pericolosi defluiti dalla fabbrica, della mancata bonifica dei terreni, dei tumori che avevano colpito gli operai in pensione e altro ancora.
Dopo l’uscita dell’articolo gli amministratori locali assicurarono che era tutto sotto controllo e che non c’era problema di sorta, che erano state predisposte vasche di filtrazione, che l’area era stata bonificata. Venne, forse, aperta un’inchiesta, ma i lavori andarono avanti perché le Olimpiadi erano imminenti e bisognava realizzare il villaggio per i giornalisti. Uno sguardo ai progetti, alle mappe e ai documenti ufficiali ha consentito di chiarire tutto.
L’area, impregnata di cromo esavalente, non è stata bonificata e attualmente il metallo cancerogeno sta inquinando la falda idrica e la Dora.

Thyssen, Thyssen 

Abbiamo cercato altre informazioni con i mezzi a nostra disposizione e abbiamo scoperto che, poche centinaia di metri a monte anche l’acciaieria Thyssen Krupp ha versato nella Dora e nelle fognature, tonnellate di cromo e di nichel, due metalli cancerogeni di prima classe.
I dati precisi degli scarichi pericolosi sono reperibili in rete sui siti dell’Ines (Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti) e dell’Eper  (European Pollutant Emission Register), che sono registri integrati nati nell’ambito della direttiva 96/61/CE, meglio nota come direttiva Ippc (Integrated Pollution Prevention and Control). Questi registri consultabili da tutti sono il risultato di un approccio integrato alla gestione ambientale, che coinvolge i governi, le industrie e il pubblico e dà la possibilità a chiunque di esercitare il proprio diritto di accesso alle informazioni ambientali.
Recentemente l’Arpa ha confermato l’esattezza dei dati, ma ha spiegato che non è tanto importante la quantità di materiale versato, ma piuttosto la concentrazione di questi materiali scaricati nella Dora, con l’autorizzazione della Provincia di Torino.
Un tecnico dell’Arpa ha spiegato che 500 chilogrammi di cromo sciolti nella quantità totale di acqua versata nella Dora in un anno (più di sei milioni di metri cubi) restano diluiti al punto da rientrare nei limiti di concentrazione previsti dalla legge per gli scarichi industriali.
Va chiarito che il rispetto dei limiti di legge (non solo in questo caso) non mette al riparo la popolazione dai rischi per la sua salute, perché mezza tonnellata di materiali altamente e certamente cancerogeni, anche se diluita parecchio, resta sempre mezza tonnellata e sarebbe giusto chiedersi dove è andata a finire, visto che in alcuni punti del Piemonte la concentrazione di cromo esavalente nella falda supera i limiti consentiti.

La legge, a tutela di chi? 

La legge prevede dei limiti per la concentrazione di cromo nelle acque, ma ci sono due normative. Il limite sanitario di concentrazione ammissibile nell’acqua potabile è di 50 µg/litro come cromo totale, mentre la norma di tutela ambientale pone invece il limite di 5 µg/litro di cromo esavalente. Il superamento del limite previsto per le acque di falda impone la ricerca delle cause e l’eventuale bonifica. In questi casi il sindaco, come massima autorità sanitaria, può disporre la chiusura dei pozzi.
La legge, in questo caso, non tutela la salute dei cittadini, perché gli esperti confermano che il cromo presente nell’acqua potabile è quasi tutto esavalente, per via della sua solubilità, pertanto è possibile bere acqua «a norma di legge» con quantità notevoli e pericolose di cromo esavalente. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Torino / Lo scandalo «Dora cromata» (1)

ACQUA AL «CROMO ESAVALENTE»

Bonificare costa, fa ritardare i programmi delle imprese costruttrici e, in buona sostanza, ritarda l’arrivo dei profitti. Tutte «buone» ragioni per minimizzare il problema o far lavorare l’oblio. Tanto i danni sulla salute si vedranno tardi e comunque vallo a dimostrare…

Nel corso delle indagini ambientali, condotte nel 2002 presso la sede dell’ex acciaieria Vitali a Torino (1), è stata riscontrata una situazione di contaminazione dovuta alla presenza di cromo esavalente in concentrazioni eccedenti il limite di 5 µg/litro fissato dal DM 471/99 per le acque sotterranee. Con un massimo pari a 455 µg/litro in corrispondenza del pozzo di monitoraggio P4.
La sorgente principale del cromo esavalente è stata individuata nelle vasche di neutralizzazione e di filtrazione, nonché nell’area di terreno dove era presente la lavorazione di cromatura. In virtù dell’elevato valore di cromo esavalente riscontrato, è stata decisa l’installazione di un sistema di pompaggio e di trattamento con solfato ferroso dell’acqua di falda, definito Pump & Treat, che, come prevedibile, ha dato risultati modesti.
Gli ultimi monitoraggi indicano che i valori di concentrazione del cromo esavalente, dal 2003 al 2005, sono rimasti superiori ai valori stabiliti dal DM 471/99 e dal DLgs 152/06 e pressoché costanti sia nell’area dello stabilimento, che immediatamente a valle di esso. Un documento del 7 settembre 2006 conferma che la principale contaminazione nella falda è costituita dal cromo esavalente in concentrazioni, rilevate in occasione delle più recenti campagne di monitoraggio della falda, fra 10 e 50 µg/litro, con un picco di 282 µg/litro, presso il già citato pozzo P4.

Il sito dell’acciaieria, fin dall’inizio del ‘900 sede di attività di tipo industriale siderurgico, ha una superficie di 250.000 metri quadri, che dovrebbe essere destinata ad uso pubblico e residenziale.
Tale area è risultata contaminata da scorie di acciaieria con superamento dei limiti consentiti da parte dei principali metalli pesanti (nichel, cromo e cromo esavalente). L’inquinamento è stato riscontrato anche all’esterno del sito, dove sono stati trovati degli strati di riporto contenenti scorie di acciaieria. Il volume delle scorie è stato stimato in circa mezzo milione di metri cubi. Sono stati riscontrati anche altri contaminanti in quantità superiore ai limiti. Visto l’elevato volume di scorie di acciaieria presente e considerato che il costo di conferimento in discarica è stato stimato pari a circa 80 milioni di euro (nel 2003), l’intervento di rimozione di tutta la massa dei rifiuti è stato valutato non compatibile con il valore dell’area.
È stato deciso di rimandare ad un approfondimento con la Smat la decisione di autorizzare lo scarico delle acque provenienti dal trattamento nella rete fognaria o nelle acque superficiali. Le determinazioni più recenti consistono nella preclusione alla realizzazione di pozzi ad uso idropotabile, nell’area costituita dalla prevedibile estensione della situazione di contaminazione da cromo esavalente dopo un tempo di 50 anni.
La Provincia di Torino ha richiesto alcune integrazioni, perché ritiene che dopo lo spegnimento dell’impianto Pump & Treat, con un possibile nuovo aumento dei valori di cromo esavalente, bisognerebbe installare un pozzo di monitoraggio nel punto limite presunto di contaminazione. La Provincia ha anche richiesto un monitoraggio di carattere permanente e la registrazione sugli strumenti urbanistici dei vincoli derivanti dal permanere di acque sotterranee contaminate, al fine di garantire nel tempo la tutela della salute pubblica ed una adeguata protezione dell’ambiente.

Il cittadino potrebbe porsi alcune domande: non era il caso di informare la popolazione, che sembra all’oscuro di tutto?; non conveniva bonificare l’area subito, invece di programmare interventi di monitoraggio per 50 anni? l’acqua e la salute delle persone non sono beni preziosi? non valgono di più del costo stimato per la bonifica? perché in nessun punto dei documenti acquisiti viene precisato che il cromo esavalente è un cancerogeno di prima classe al pari del benzene, dell’amianto, delle ammine aromatiche e delle radiazioni ionizzanti?

R.Topino e R. Novara

(1) E precisamente nel quadrilatero compreso tra via Borgaro, via Verolengo, via Orvieto e corso Mortara.

Torino / Lo scandalo «Dora cromata» (2)

Il cromo e i suoi composti

È un elemento chimico, appartenente al IV periodo ed alla prima serie di transizione del sistema periodico degli elementi. Non è molto diffuso in natura (circa 100 ppm sulla crosta terrestre), dove non è mai libero, ma combinato in diversi minerali, tra cui la più importante è la cromite. Il cromo si presenta come un metallo bianco argenteo, le cui proprietà meccaniche dipendono dal grado di purezza. A temperatura ambiente, il cromo resiste abbastanza bene a molti agenti chimici, tra cui l’ossigeno, ma viene attaccato facilmente dagli acidi non ossidanti diluiti, come l’acido cloridrico, solforico e fluoridrico.
I principali composti del cromo corrispondono a stati di ossidazione di questo elemento, che vanno da -2 a +6, con una netta prevalenza per gli stati +2 (bivalente), +3 (trivalente) e +6 (esavalente). Per valenza si intende la capacità dell’elemento di formare legami covalenti (molto stabili e ad elevatissimo contenuto energetico) con altri elementi. Nel caso del cromo +2 abbiamo ad esempio l’ossido cromoso CrO, dove entrambi gli elementi cromo ed ossigeno sono bivalenti; il cromo +3 dà con l’ossigeno l’ossido cromico Cr2O3, mentre il cromo +6 dà il triossido di cromo CrO3. Diversi composti del cromo, tra cui l’ossido cromico (verde cromo) ed il cromato di piombo (giallo cromo) PbCrO4 hanno un largo impiego come pigmenti per veici e nella lavorazione del vetro e della ceramica, mentre altri sali, tra cui l’allume di cromo, il solfato basico di cromo, il cromato ed il dicromato di sodio, vengono impiegati per la concia delle pelli, nell’industria tessile e delle tinte, nonché per la preparazione di diversi prodotti chimici.
La maggior parte dei composti del cromo, in particolare di quello esavalente, presentano un elevato grado di tossicità per tutti gli organismi viventi, poiché si comportano come energici ossidanti delle sostanze organiche, caratterizzanti la materia vivente.

R.Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




«AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI  CON AFFETTO FRATERNO»

la parabola del «figliol prodigo» (20)

«25… Ed essendo appena giunto, si avvicinò alla casa, ascoltò musiche e danze; 26e avendo chiamato (a sé) uno dei servi, s’informava di cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (trad. letterale).

Il figlio anziano della parabola, come abbiamo già visto, prefigura non solo «gli anziani», che con gli scribi e i sacerdoti costituiscono l’autorità istituzionale, rappresentata nel Sinedrio, ma anche il mondo «religioso» nel suo insieme che professa la religione del dovere e dell’adempimento.
Luca 15 si era aperto con la scena dell’avvicinamento dei «pubblicani e peccatori per ascoltarlo (= Gesù)», in contrapposizione a scribi e farisei che invece «mormoravano» (Lc 15,1.2), quasi di soppiatto, ma in modo che il mormorio fosse percepito. Il figlio anziano nella penna di Lc sviluppa un comportamento che riflette e rinnova il mormorio dei farisei, che sono emblema del perbenismo di facciata di ogni epoca, la cui regola d’oro è: avere la coscienza a posto con il minimo di disagio.

Sei verbi per un assente?
Per descrivere la personalità irrisolta del figlio «anziano», uomo religioso e pio, che entra in scena in modo bizzarro, l’evangelista nei vv. 25-26 usa sei verbi in sequenza, senza respiro: quattro verbi sono secondari (due participi e due imperfetti) e due verbi principali, cioè narrativi.
– «Era/si trovava nel campo» (verbo all’imperfetto che serve per dare al lettore una informazione supplementare, circostanziale che aiuti a inquadrare il personaggio): il figlio è sempre da un’altra parte, sempre altrove. Era assente nella prima parte, quando si consumò la tragedia del fratello, è assente anche nel momento del ritorno. È stato «in», ma mai «nella» casa. Da questo accenno ci rendiamo conto che la sua personalità è avvitata nella grettezza e isolamento. Nei momenti della vita, egli semplicemente non c’è. Se il fratello si è perso in «un paese lontano» (v. 13), egli, pur stando fisicamente vicino, è sempre stato smarrito «nel campo». 
– «Ed essendo appena giunto» (participio presente medio, costruito secondo la sintassi ebraico-aramaica, che serve da introduzione ai due verbi principali che seguono): questa notizia conferma e rafforza, aggravandola, quella del verbo precedente, perché mette in evidenza stridente che il figlio resta sempre fuori e, come vedremo, sceglie di restare fuori.
– «Si avvicinò alla casa» (verbo narrativo di primo piano, come il seguente, che l’evangelista vuole mettere in evidenza). La notizia principale è questa: appena giunto, si avvicina, ma non si precipita, come farebbe qualsiasi persona normale. Avanza circospetto e dubbioso e ancora una volta resta sulla soglia, in forma anonima. Si avvicina soltanto, sospettoso e forse irritato.
– «Ascoltò musiche e danze» (verbo narrativo, come il precedente, sulla linea principale della narrazione che l’evangelista vuole mettere in evidenza). È la seconda notizia che l’autore vuole dare come importante. Ascoltare è entrare in relazione con il clima di festa che danze e musiche (lett. «sinfonia») fanno presagire. Per il figlio la festa è una novità assoluta, che non capisce: o il padre è impazzito o è successo qualcosa di straordinario. Il figlio anziano «ascolta» e si sente profondamente estraneo. L’osservazione dell’evangelista esprime bene il disorientamento di questo disadattato normale che non ammette né la festa per sé (v. puntata seguente) né tanto meno può accettare che altri facciano festa. Lui e solo lui è la misura del mondo che lo circonda.
– «E avendo chiamato (a sé) uno dei servi» (participio medio che serve da complemento al seguente imperfetto, anch’esso secondario): il figlio anziano è talmente sospettoso che va alla ricerca di un intermediario per non esporsi in prima persona. Non si butta in mezzo alla novità, ma resta ancorato alla «sua tradizione» di uomo diffidente e fiero avversario di ogni innovazione. Ha sempre bisogno di schermi, che per lui sono scuse: potrà sempre dire che lui non c’era e non sapeva. Il verbo «proskalèomai – io chiamo a me/faccio venire a me (avvicinare)» nel NT ricorre (sempre nella forma media) 29 volte, di cui 10 nelle opere di Luca (Lc 7,18; 15,26; 16,5; 18,16; At 2,39; 5,40; 6,2; 13,7; 23,17.18.23). Di norma si applica a Gesù che chiama i discepoli (Mt 10,1), il popolo (Mt 15,10), i bambini (Lc 18,16), ma anche ad altri personaggi (Mt 18,32; Mc 15,44, ecc.). L’espressione «uno dei servi» è forma indeterminativa ed esprime l’ansia e la fretta di sapere: egli chiama uno «qualsiasi» dei dipendenti. Al v. 22 il padre aveva chiamato «i servi» (gr.: doûloi) cioè quelli che facevano parte della famiglia abitualmente; ora il figlio anziano chiama «uno qualsiasi» (gr.: hena tôn pàidōn, che letteralmente significa «uno dei ragazzi»), forse uno che lavorava a giornata e quindi un estraneo.
– «S’informava di cosa fosse tutto questo» (imperfetto medio, serve per descrivere al lettore l’atteggiamento del figlio). Il verbo greco «pynthànomai» esprime l’idea dell’investigare, quasi spiare: se ne stava a indagare. Nel NT ricorre 12 volte (Mt 2,4; Lc 15,26: 18,36: Gv 4,52: 13,24: At 4,7; 10.18.29: 21,33: 23,19.20), di cui, come si vede, ben 8 in Lc. Si può dire che è un verbo proprio del terzo evangelista. Il verbo a sua volta è seguito da una interrogativa indiretta e significa «domandare/indagare con curiosità/chiedere con attenzione». Luca con un paio di verbi dipinge il quadro completo della personalità del figlio anziano: è curioso, ma senza esporsi a fare la domanda diretta: indaga, confabula per sapere perché, in caso di necessità, vuole essere sicuro di non rimetterci e avere sempre una via di fuga o una spiegazione pronta.

Essere fuori stando dentro
Luca è un narratore straordinario perché con poche parole mette il lettore sull’avviso che il nuovo personaggio non ha una chiara personalità ben stagliata e definita, ma è un individuo indistinto, quasi senza volto; un uomo che si aggira, non si presenta; che spia, non affronta. Il suo ingresso in scena fa da contrasto stridente con la presenza del fratello minore, che era presente anche quando era assente: la casa senza di lui era un mortorio. Ora invece, solo sentire la musica allarma così tanto il figlio, fariseo-anziano, che si avvicina circospetto e s’informa attraverso il servo, restando però sempre «fuori».
Essere fuori è tipico delle persone religiose che sono talmente piene di pratiche e doveri e obblighi da non accorgersi che nel loro cuore non c’è posto per Dio: praticano molto, ma amano poco o nulla e non si accorgono che Dio passa inutilmente accanto a loro, preoccupati come sono di «soddisfare i precetti» per tranquillizzare la propria coscienza. Dio per loro è solo un pretesto, essi adorano soltanto il loro narcisismo solipsistico: sono schiacciati dai doveri religiosi da non essere più abituati a sapere ricevere gratuitamente il senso liberante dell’atto religioso.
Don Primo Mazzolari nel 1934 pubblicò un commento alla parabola lucana dal titolo La più bella avventura e pur non essendo un esegeta, ma un uomo letteralmente posseduto dallo Spirito, seppe cogliere le sfumature e l’anima dei protagonisti. Mettendo a confronto i due fratelli scrive: «Tanto colui che rimane come colui che va, non ha capito l’amore del Padre: perciò le tenebre sono dentro e fuori. Anche la Casa ha resistenze opache. L’amore del Padre non è negato, ma sospettato… L’anti-chiesa può essere nella chiesa stessa: come l’anticristo può essere accantonato nel mio animo di credente e cristiano. Siamo tutti fuori e tutti dentro, perché ognuno, nella propria inadempienza, è mancante; come nella propria insufficienza, ha la possibilità di rientrare» (P. Mazzolari, La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», Ed. Dehoniane 2001, pp. 40.43).

Si avvicinò alla casa, ascoltando musiche e danze
Il figlio anziano procede circospetto e non giunge libero e disinvolto, ma si limita ad avvicinarsi: ancora lontano, sente qualcosa di strano, un suono che aumenta mano a mano che si avvicina. Preoccupazione e curiosità alimentano il suo terrore. Dove c’è festa di solito c’è gioia e lui vive nella tristezza che è il vestito diuo della sua anima. S’insospettisce, diventa guardingo, comincia a domandarsi cosa stia succedendo; la preoccupazione e l’affanno lo prendono nell’anima e vuole vederci chiaro.
Emblema del «tipo» religioso osservante (fariseo) che si sente sempre in credito verso Dio e verso gli altri, di cui non ha alcuna stima, non ritorna a casa ma, «appena giunto», si avvicina come un ladro per origliare e pronto a giudicare e a condannare. Uomini di chiesa e laici clericali hanno la condanna facile, perché trasformano il vangelo in un codice penale per comminare pene a chi non è e non pensa come loro.
Egli sa che suo fratello è andato via e che in casa il padre vive in perenne lutto, piangendo il «figlio perduto» e domandandosi dove abbia potuto sbagliare nell’educarlo. Chiunque sarebbe corso immediatamente in casa a vedere di persona cosa stesse accadendo, ma «questo» figlio, no: lui non corre dentro casa, dal padre, ma comincia ad avere paura, perché ogni novità o variazione nel grigiore della sua giornata è un attentato all’ordine costituito.
È un uomo triste e lugubre che diffida di tutti e tutti considera inferiori a sé, perché solo lui è «il giusto». Probabilmente intuisce che possa essere tornato il fratello e va nel panico: non vuole ammetterlo nemmeno a se stesso, perché sarebbe il crollo di ogni suo sogno e cupidigia. Non pensa che la musica e le danze possano essere espressione di esplosione di vita e segno di felicità partecipata; al contrario, pensa che danza e musica siano segnali di tragedia, segni cupi di un imminente cataclisma, perché non annunciano nulla di buono.
La tragedia di quest’uomo è che, pur non essendosi mai allontanato da casa, non vi è mai entrato, perché ne è sempre rimasto «fuori», avendo paura di essere coinvolto in una rete di relazioni affettive a cui si sente estraneo. Deve chiamare un servo per sapere cosa accade (v. 26), quasi per mettere tra sé e l’evento un diaframma, uno schermo che al tempo stesso è riparo ed esclusione. Egli sente che tutto attorno gli è ostile e cerca una via di fuga, una forma di esorcismo, perché la novità della musica e danza gli sconvolge la vita.

Paradigma etico: Giuseppe e i suoi fratelli
Il versetto nella sua semplicità dice anche un altro elemento che spesso viene sottaciuto: nessuno ha avvertito il figlio «anziano» del ritorno del fratello. Egli era estraneo, «nel campo», e tale resta: nessuno si accorge della sua assenza, perché nessuno si è mai accorto della sua presenza. È tragica la figura di questo figlio che vive, come sapremo presto, nell’attesa della morte del padre per ereditare «la roba» e che è indiffe-rente sia quando c’è che quando non c’è.
Nel libro della Genesi (37,12-18) si narra che Giacobbe aveva i suoi figli «anziani» al pascolo in una regione lontana e, volendo avere notizie di loro e del gregge, mandò Giuseppe a cercare i fratelli: «Va’ a vedere come stanno i tuoi fratelli». Giuseppe, il fratello minore, si mette in viaggio verso i suoi fratelli e non conoscendo la strada, chiede a un passante: «Cerco i miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare». Alla fine «Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan». I fratelli «maggiori», gelosi del fratello minore «lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire».
Sappiamo come andò a finire: dopo non molti anni sarà Giuseppe, il figlio minore, che salverà la vita dei fratelli omicidi e di tutta la sua stirpe. Anche per lui valgono le parole del salmo che la liturgia pasquale applica al Cristo Messia: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo» (Sal 118/117,22).
Anche nella parabola lucana, avviene qualcosa di simile: il ritorno del figlio minore può essere l’occasione di salvezza per il fratello anziano, la svolta della sua vita e la riscoperta dell’amore di quel padre che egli non ha mai amato e da cui non si è mai lasciato amare. Il ritorno del fratello minore, al contrario, sancisce la sua condanna definitiva, perché egli non vuole un fratello e di conseguenza non vuole nemmeno un padre: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Nella parabola lucana nulla può escludere la possibilità che il minore sia scappato da casa per le vessazioni del fratello «anziano», ma è facile dedurlo dalla reazione del maggiore che si stupisce della musica, e forse teme che il fratello sia davvero ritornato. Egli sperava di essersene liberato per sempre, mentre adesso rischia di ritrovarselo di nuovo, ma come è suo costume non vuole esporsi.
Ormai siamo certi che egli non si è mai informato del fratello e né mai ne ha parlato con il padre, che probabilmente ha trasformato la casa in luogo di lutto perenne, dove la vita scorreva anonima e greve, perché quella casa era vuota e muta senza il «figlio più giovane».
Il figlio «anziano» non ha partecipato al lutto e non intende partecipae ora la gioia: ha messo gli altri nel ghetto, alzando una siepe di egoismo ed esclusione, e considera gli altri come suoi nemici, padre compreso, con i quali non vuole sporcarsi. Chiamare il servo per conoscere gli avvenimenti, significa impedirsi di vivere gli stessi avvenimenti e condannarsi alla morte. Invece di sprofondarsi nel cuore della festa per diventae parte e fae parte agli altri, «chiamò un servo».
L’evangelista in questo modo mette in contrasto l’atteggiamento del padre con quello del figlio «anziano». Il padre si accorge del figlio giovane prima di vederlo e lo percepisce «quando ancora era lontano» (v. 20) e gli corre incontro, perdendo la sua stessa dignità. Il «figlio anziano» non solo è nel campo, cioè lontano da casa, ma nemmeno quando si avvicina alla casa riesce a «sentire» la presenza del fratello.
La musica e le danze avrebbero dovuto essere «il segno» da mettergli le ali ai piedi e farlo volare verso la pateità e la frateità compiute nell’abbraccio di padre e figlio; al contrario, lo escludono ancora di più e lo seppelliscono nel suo egoismo e nella sua avidità.

La frateità, Pasqua della pateità
Nella prima parte della parabola, tutto si gioca sulla pateità negata dal figlio minore, mentre il maggiore viene ricordato solo incidentalmente, perché «un uomo aveva due figli» (v. 11), tra i quali il padre «divise la sua vita» (v. 12). In seguito si parla solo del figlio «più giovane», mentre dell’altro si perdono le tracce. Forse per questo una lettura superficiale ce lo ha fatto apparire «simpatico», modello di figlio adulto e maturo, devoto al padre, a differenza del minore, degenere e traviato.
Scopriamo, invece, che la sua assenza non è motivata dalla sua fedeltà, ma dalla sua natura di figlio degenere nell’anima e traviato nel sentimento: egli è sempre assente, nonostante sia il «più anziano» e quindi l’erede designato, colui che fa le veci del padre. A una lettura attenta e meno frettolosa veniamo a conoscere la natura gretta e il volto accigliato di questo figlio, che figlio non è mai stato, perché vive nel rifiuto della frateità.
Il servo interpellato, con ogni probabilità, conosce bene questo figlio anziano e con la sua risposta cerca di creare il ponte verso il padre, offrendogliene l’opportunità: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27), mettendo in luce lo stesso sentimento del padre, espresso al v. 24: il figlio morto e ritrovato.
Nelle parole del servo, però, c’è di più, perché anticipa le parole che lo stesso padre dirà più tardi, andando incontro anche a questo figlio «anziano» che si è perduto senza essersi mai allontanato: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32). Il servo infatti non dice che è tornato il «figlio del padre», ma precisa «tuo fratello è qui» e aggiunge «tuo padre» ha deciso si ammazzare il vitello della festa.
Il servo gli annuncia la Pasqua di risurrezione che sta vivendo il padre e lo invita a risorgere anche lui, entrando a mangiare il vitello della festa. Il servo/estraneo sa quello che il figlio anziano non sa e non vuole sapere: «Che io non perda nulla di quanto egli (il Padre) mi ha dato» (Gv 6,39). Egli da uomo della tradizione religiosa, che recita le preghiere secondo il rituale, quello sicuro, pensa a salvare se stesso, non curandosi della salvezza del fratello, e non sa che questa è la sua condanna e il suo inferno, perché da soli ci si danna sicuramente, mentre ci si può salvare solo insieme.

Salvare vale più di ogni sacrificio
In questa circostanza straordinaria, il servo prova a riportare il figlio dentro la rete di relazioni affettive, stuzzicandolo a entrare nella dinamica della pateità, che diventa frateità condivisa: tuo fratello, tuo padre. È straordinario che il servo non gli dica che il padre ha reintegrato il fratello nella pienezza della sua identità di figlio, attraverso i segni esteriori (vestito, anello e sandali del v. 22), ma metta in evidenza l’aspetto religioso e sacrificale dell’avvenimento: il vitello grasso, riservato al sacrificio per il Signore.
Per il padre ricevere il figlio vivo ha la stessa valenza che stare davanti a Dio: ammazza il vitello grasso per il suo ritorno come se stesse compiendo il sacrificio di ringraziamento nel tempio di Gerusalemme. Per il padre credere è accogliere il figlio perduto. Il servo coglie questa grandezza smisurata e ne è partecipe così tanto che crede possibile smuovere il cuore di pietra del figlio anziano: «Tuo fratello è tornato e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27).
A questa notizia il figlio «anziano»: «Si accese d’ira e non voleva entrare» (v. 28), svelando così la sua natura fratricida e la sua indole irrecuperabile; se è vero che il minore è scappato di casa, è altrettanto vero che il maggiore non vuole entrare; ma mentre il primo è tornato e sta dentro, l’anziano resta fuori perché non è mai entrato e tocca ancora una volta al padre uscire e andargli incontro, nel tentativo di recuperare anche questo figlio, che avrebbe dovuto essere un modello di esempio per la sua «anzianità». Di questo però ci occuperemo la prossima volta                              (continua – 20).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«GUAI A VOI, CHE SIETE RICCHI, PERCHÉ AVETE GIÀ IL VOSTRO CONFORTO»

La parabola del «figliol prodigo» (19)

«25 Si trovava, intanto, suo figlio, quello anziano [lett.: presbitero] in [nel] campo. E quando fu di ritorno, si avvicinò alla casa, udì musiche e danze» (trad. letterale).

P rima di iniziare a descrivere il nuovo personaggio che entra in scena, è utile fare una breve sintesi di tutto quello che abbiamo riflettuto fino a qui, per riuscire a cogliere la novità di questo «figlio maggiore» (spiegheremo più avanti il vero senso di questa imprecisa traduzione) che è essenziale ai fini narrativi.

Il sabato o la persona?
Con il v. 25 inizia la seconda parte della seconda parabola di Lc 15, cioè, il prolungamento della parabola del «figliol prodigo» vera e propria che si conclude con il v. 24.
Abbiamo già insistito precedentemente, spiegando che Lc 15 si compone di due parabole che hanno per protagonisti il pastore e la pecora da un lato (vv. 4-7) e il padre con il figlio minore dall’altro (vv. 11-24). Le due parabole hanno lo stesso insegnamento: pastore e padre non guardano al loro interesse e al loro benessere, ma mettono a rischio se stessi per la salvezza della pecora e del figlio. Per loro conta ciò che è importante: la pecora e il figlio, realizzando così la parola del Signore che «il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).
La seconda parabola (padre e figlio minore) approfondisce e sviluppa l’insegnamento della prima perché, oltre la simbologia, si estende ai rapporti umani vissuti. Non è più solo la gioia di un ritrovamento, ma c’è di più: nonostante il figlio minore lo avesse ucciso, chiedendogli l’eredità prima della morte, il padre lo accoglie di nuovo come figlio e lo reintroduce nel diritto ereditario.
Non si tratta solo di perdono, il padre va oltre la natura, anzi va contro natura e non lo sfiora nemmeno l’idea di perdono perché si lascia distruggere per avere la possibilità di reimpastare il figlio e rigenerarlo nuovamente alla vita come fosse la prima volta.

Dio è trasgressivo
In queste due figure (pastore e padre) sono descritti il volto e la natura di Dio come Gesù lo ha manifestato con il suo agire e le sue parole. L’evangelista vuole metterci di fronte alla necessità di purificare l’immagine che abbiamo di Dio, obbligandoci a prendere coscienza del suo agire «trasgressivo» secondo le regole umane.
Il Dio di Gesù Cristo non è «l’idolo» ufficiale che la religione dominante ha addomesticato per orientare le coscienze e addormentarle, piegandole al suo potere, ma è il Dio scandaloso che rompe gli schemi della convenienza e della religiosità a buon mercato. Egli non accetta transazioni ricattatorie del tipo: «Se tu mi fai un favore, io ti offro un sacrificio», perché questo «mercato» è stato rovesciato definitivamente da Gesù nel porticato del tempio (cf Gv 2,13-22). Egli ha una sola fissazione: salvare tutti, a qualsiasi costo ( Gv 6,39), perché per lui non esistono buoni e cattivi, delinquenti e onesti; per lui tutti gli uomini e donne sono figli e figlie suoi e la prova è che «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
Noi siamo lontani dal volto di Dio e spesso ci facciamo di lui una rappresentazione caricaturale, espressione di ciò che noi vogliamo che Dio sia: per molti cristiani Dio è la proiezione delle loro manie e del loro modo di pensare e vedere. Troppo facilmente dimentichiamo il monito di Paolo ai Gàlati che davanti ai nostri occhi «è stato dipinto/rappresentato Cristo crocifisso» (Gal 3,1).

Un figlio contrappunto
Da genio della narrazione, Luca vuole che comprendiamo bene il messaggio delle due parabole (pastore e padre) e per questo le prolunga, estendendone il significato, impiegando altre due figure complementari: al pastore che esprime la prospettiva maschile, aggiunge quella femminile della donna che trova la moneta (vv. 8-10). In questo modo la parabola del pastore che giornisce per il ritrovamento della pecora perduta diventa un insegnamento universale che vale sia per gli uomini che per le donne, cioè per tutta l’umanità.
Allo stesso modo la seconda parabola, che rigorosamente parlando è limitata al padre e al figlio minore (vv. 11-24), è prolungata di altri otto versetti, che illustrano la grandezza del padre sul contrappunto del «figlio maggiore» (vv. 25-32); tale prolungamento serve da contrasto, per fare emergere la figura del padre come un gigante di fronte alla piccolezza e piccineria egocentrica del figlio maggiore, che rivela una mentalità gretta e omicida più grave di quella del fratello minore.
Senza questa aggiunta, la parabola sarebbe abbastanza scialba, perché mancherebbe il contrasto tra il padre e il figlio anziano, tra questi e il fratello minore. Come in una pala a due quadri, a loro volta suddivisi in due parti, i colori sono netti, senza sfumature e per questo rapiscono l’attenzione e i sentimenti.
Con l’ingresso del «figlio maggiore» assistiamo a un capovolgimento imprevisto che Luca anticipa, collocandolo «fuori» della casa patea.
Ragionando con gli schemi umani, secondo un senso «materiale» della giustizia, istintivamente si è portati a solidarizzare con questo personaggio, che viene spontaneo giudicare buono e vittima dell’ingiustizia patea: non è giusto che il figlio minore che ha speso tutta la sua parte ora riabbia di nuovo tutto, mentre il maggiore che «è stato fedele» debba avere di meno. Se questo fosse il comportamento generalizzato, dove si andrebbe a finire?
Luca probabilmente consoce questo «tipico» modo di ragionare e quindi ci apre gli occhi a cogliere il comportamento di Dio, qui raffigurato nel padre, che capovolge sistematicamente i criteri di valutazione degli uomini.

Sguardo d’insieme
Nella terza puntata (MC 7-8 2006, pp. 61-63) abbiamo spiegato che la parabola lucana è un «midràsh» di Geremia 31, dove il figlio minore di Giuseppe, Efraim prende il posto del fratello maggiore, Manasse (Ger 31,18-20), realizzando un capovolgimento di diritti e situazioni, cioè ribaltando il modo umano di vedere le cose, alla luce del pensiero profetico che il modo di pensare di Dio è l’opposto di quello dell’uomo (cf Is 55,8-9). Questo capovolgimento di mentalità rispecchia l’insegnamento di Gesù, esposto nella parabola degli operai che vanno a lavorare nella vigna: gli ultimi non hanno meno dei primi (cf Mt 20,1-16) e che Lc mette in bocca a Maria nel Magnificat, che è la sintesi di tutta la storia della salvezza (Lc 1,51-53).
Nella stessa puntata abbiamo scritto: «La parabola dei due figli è parallela a quella del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Essi si recano al tempio per pregare, ma ritornano a casa a ruoli invertiti: l’atteggiamento del fariseo corrisponde a quello del figlio maggiore, mentre quello del pubblicano è identico a quello del figlio minore» (MC 12 2007, pp. 62-63). Il fariseo e il «figlio maggiore» sono tronfi di sé e accampano diritti davanti a Dio, mentre il figlio più giovane e il pubblicano sono disperati nel loro bisogno di perdono.
«Anziani, capi dei sacerdoti e scribi» (Mc 8,31)
Con il v. 25 entra in scena il figlio comunemente indicato nelle varie traduzioni (compresa la 3a edizione della CEI del 1997) come «figlio maggiore». Questa traduzione ridimensiona la vera portata del termine greco che è «presbýteros – presbitero/anziano» e ne svia anche l’esegesi, perché travisa l’intenzione dell’autore.
Con il termine «anziano» che traduce l’ebraico «zaqèn/ziqnê», infatti, nella tradizione biblica e giudaica al tempo di Gesù si indicavano gli antenati (At 2,17; Eb 11,2) oppure il sinedrio che governava Israele (Lc 7,3; Mc 11,27) e in epoca cristiana, i capi della comunità (At 14,23; 15,2). Qui si potrebbe dire che la parola è una specie di «sinèddoche» (dal gr. syn-ekdèchomai – prendo insieme), cioè una figura retorica che usa una parte per indicare il tutto: con il termine «anziani» si indicano tutte e quattro le categorie che componevano la suprema autorità in Israele.
I rappresentanti del sinedrio si dividevano in quattro classi o caste: sacerdoti, scribi, farisei e anziani; in genere si usa la forma abbreviata, cioè uno o due nomi per indicare tutti, cioè la «casta» globale dell’autorità ufficiale. Nei vangeli troviamo molto spesso questo utilizzo: «Scribi e farisei» oppure «dottori della leg­ge» o anche «farisei e dottori della leg­ge», e ogni volta s’intende la totalità del sinedrio, cioè di chi esercita autorità.
Luca quindi ci vuole parlare dell’atteggiamento ufficiale della religione del tempo di Gesù, qui rappresentata dal figlio «anziano», che escludeva dalla salvezza «i pubblicani e i peccatori» (Lc 15,1), nella parabola rappresentati dal figlio più giovane. Da ciò rileviamo che la parabola non ha il compito di suscitare un comportamento etico, cioè non è scritta per insegnarci a essere più buoni e accoglienti, ma ci insegna qual è la prospettiva di Dio che si manifesta a noi in un piano di salvezza, rivelato e proclamato da Gesù, affinché noi potessimo prenderlo come modello di vita e di testimonianza.

Sinagoga e chiesa scomunicate
Nel tempo in cui scrive Lc (seconda metà del sec. i d.C., anni 80-90), c’è una fortissima tensione che conduce alla separazione totale, con un atto di scomunica reciproca, tra la comunità cristiana ormai consolidata e la sinagoga anche della diaspora: gli ebrei accusano i cristiani di essere traditori della Toràh di Mosè e quindi li considerano «apòstati»; i cristiani, al contrario, considerano gli ebrei ciechi, che non sanno vedere il compimento di tutte le profezie nella persona di Gesù, e si ritengono i «veri discendenti» di Abramo (Mt 3,9). Il momento è drammatico.
Anche all’interno della chiesa le lotte sono feroci, come testimoniano le lettere di Paolo (vedi ad es. la lettera ai Galati): i cristiani provenienti dal giudaismo non accettano «il vangelo» di Paolo, che predica il superamento della tradizione nella novità di Cristo e si oppone drasticamente ai primi, che vogliono che i pagani convertiti prima diventino ebrei attraverso la circoncisione e solo dopo possono pervenire al battesimo come qualcosa in più. Per essere cristiani bisogna farsi prima giudei.
Dopo una lunga e furibonda lotta, che portò al primo concilio di Gerusalemme, prevale la posizione di Paolo (cf At 15,1-29), anche se l’apostolo non sarà mai accettato completamente dai giudeo-cristiani e subirà persecuzione e opposizioni da parte di «falsi fratelli», che ne spiano continuamente la predicazione e l’agire (cf 2Cor 11,26; Gal 2,4).
Questo, in sintesi il contesto storico, in cui collocare la parabola e allora si capisce meglio che l’intento dell’autore non è solo quello di completare un raccontino fiabesco con la figura un po’ strana di un figlio, ma di presentarci il simbolo di una categoria religiosa, cioè gli «anziani» d’Israele, a loro volta rappresentativi di tutto il sinedrio. Essi sono stati introdotti e descritti già all’inizio del capitolo: «I farisei e gli scribi mormoravano» (Lc 15,2) per l’accoglienza che Gesù riserva «ai pubblicani e ai peccatori» (Lc 15,1).

Religione col telecomando
Non sappiamo se questo «figlio» appartenga di fatto al gruppo degli «anziani» d’Israele e quindi al sinedrio, certamente li rappresenta molto bene e ne esprime l’atteggiamento di totale esclusione nei confronti di quanti essi non ritengono «idonei» alla salvezza. Logicamente, sempre «in nome di Dio», che gestiscono col telecomando a distanza, perché Dio è a loro servizio ventiquattro ore su ventiquattro, a cui ha delegato la sua volontà e la sua verità. Quando l’autorità si appella all’autorità di Dio per dare forza al proprio insegnamento, è segno che è distante da Dio, perché significa che la propria vita di testimonianza fa acqua da tutte le parti. L’autorità di Dio non ha bisogno di essere provata, perché si manifesta e si esprime nella trasparenza della vita che diventa una profezia parlante e orante del cuore di Dio.
La rappresentatività dell’«anziano» figlio non riguarda tanto le figure storiche degli «anziani, scribi e farisei», perché anche di loro al tempo di Gesù vi erano persone rette e giuste che cercavano la volontà di Dio con purezza di cuore: al contrario, il «figlio anziano» è rappresentativo del «fariseismo» in quanto atteggiamento religioso escludente e, quindi, ci riguarda da vicino, perché possiamo essere religiosi osservanti e praticanti ed essere farisei, che rinchiudiamo l’immagine di Dio nelle nostre anguste categorie mentali fino a escludere quanti non sono in sintonia con noi.
Lc ci vuole insegnare che dobbiamo costantemente purificare il nome e l’immagine di Dio che è in noi, per avere la certezza di essere di fronte al Dio di Gesù Cristo. Non è scontato: si può essere credenti ed essere «idolàtri»; si può essere preti e celebrare messa tutti i giorni e ritrovarsi «atei», perché ossequienti di una caricatura di Dio e non nel Dio carnale che ci ha spiegato Gesù (cf Gv 1,18).
Sì, si può essere religiosi e pii senza fede, perché per essere religiosi basta osservare esattamente le regole e le pratiche di pietà, ma per essere uomini e donne di fede bisogna essere appassionati e passionali, carnali e assetati di verità, amanti della novità, cercatori instancabili del volto di Dio, sempre nuovo e sempre diverso, capaci di dubitare di se stessi e delle proprie certezze, liberi da ogni forma di religiosità schiavizzanti e servi di una fede che affonda nel corpo e nel cuore di una Persona viva che viene a noi come Parola, Pane, Perdono, Tenerezza, Vita, Progetto, Speranza. Questa Persona è il Signore risorto, anzi il Signore Crocifisso e Risorto.

Lontano, restando vicino
«25 Si trovava, intanto, suo figlio, quello anziano (lett.: presbitero) in campo. E quando fu di ritorno, si avvicinò alla casa, udì musiche e danze».
La notizia più importante che Lc offre alla nostra attenzione nel presentare il nuovo personaggio è agghiacciante: «Si trovava nel campo», cioè non era in casa, ma lontano. Il fratello minore quando se ne andò da casa «partì per un paese lontano» (v. 13) e quindi intraprese un viaggio di diverse giornate di cammino: dovette sudare per diventare estraneo alla sua famiglia.
Il fratello «anziano» non ha bisogno di andare distante, egli è già «lontano» pur restando in casa. Non assiste all’incontro del padre con il fratello, non ne partecipa la gioia, non è contagiato dal trambusto che il ritorno comporta. Forse, Luca ci dice che, anche se fosse stato dentro le mura di casa, per lui sarebbe stato la stessa cosa, perché questo figlio è lontano non fisicamente, ma nel cuore. Si può stare insieme accanto ed essere distanti; si può vivere nella stessa famiglia/comunità/chiesa, vivere sotto lo stesso tetto, mangiare alla stessa mensa ed essere lontani, cioè irraggiungibili.
La notizia non è solo tragica, ma la costruzione sintattica del greco ci dice qualcosa di più. Il verbo all’imperfetto è all’inizio di frase per darvi importanza e sottolineare lo stato quasi permanente che esprime, perché l’imperfetto indica un’azione continuativa: «Si trovava», cioè, «era solito trovarsi» nel campo. Dopo la spartizione dei beni patei, probabilmente egli controlla da vicino la sua parte di eredità che cerca di fare fruttare al massimo: egli assapora la «sua» proprietà e da essa non si distacca mai, perché egli ama ed è amato dal possesso che, invece di riempirlo di gratitudine verso il padre che gliel’ha dato, lo allontana da lui sempre più.
Si può dire che il figlio «anziano» è l’assente per eccellenza: assente dalla vita e anche da se stesso, perché prigioniero del dèmone del possesso, sempre «in campo» a misurare, a controllare e amare la sua ricchezza con tutto il cuore, con tutta l’anima e tutte le forze (cf Lc 10,27). Come può trovare il tempo per «essere in casa» e accorgersi degli eventi straordinari che vi accadono?
Tre capitoli prima, Lc lo aveva avvertito che il Signore aveva messo in guardia i ricchi, i quali non possono salvarsi: «Badate di tenervi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc12,15); ma egli era lontano e lontano è rimasto, anche se materialmente «si avvicinò alla casa». (continua – 19)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«Offrirono olocausti con gioia e sacrificarono vittime di ringraziamento e di lode»

La parabola del «figliol prodigo» (18)

Il vitello dei patriarchi
Quasi tutte le volte che nella bibbia si parla dei patriarchi si aggiunge che hanno «greggi e armenti», che in ebraico suona «z’on ubaqàr», che la versione greca della Lxx traduce quasi sempre con «pròbata kài mòschoi». L’espressione indica bestiame adulto (buoi, mucche, vitelli) e minuto (pecore, capre, agnelli).
I patriarchi d’Israele possiedono «greggi e armenti» in abbondanza, perché sono sotto la benedizione di Yhwh. Possedere «greggi e armenti» è segno di potenza e dimostrazione di forza, come per Adonia fratello maggiore di Salomone (ma di diversa madre), che «immolò pecore, buoi e vitelli grassi» (1Re 1,9.19) per affermare pubblicamente la sua primogenitura nella successione al re Davide, vecchio, ma ancora vivo. Adonia si comporta come il giovane della parabola lucana: assume il regno quando il padre è ancora vivo, cioè lo uccide prima del tempo. Finirà male, ucciso per ordine di Salomone (1Re, 2,12-25).
Nel libro della Genesi in due racconti che narrano lo stesso fatto, ma in due modi diversi, troviamo presenti uno o più vitelli. Il primo (Gen 12,10-20) narra di Abramo che, giunto in Egitto, per paura di essere ucciso a motivo della bellezza di Sara sua moglie, su consiglio della stessa Sara, la fece passare per sua sorella. Di lei s’invaghì il faraone che la fece portare a corte per possederla: «Per riguardo a lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini» (Gen 12,16). Il secondo fatto è simile, ma questa volta è Abram a fare passare Sara per sua sorella che così, per la seconda volta, sta per finire nelle mani di un altro. Ora è il tuo di Abimèlech, re di Gerar che se ne era invaghito. Quella notte, però, intervenne il Signore, fermò l’adulterio e fece restituire Sara al legittimo marito: «Allora Abimèlech prese greggi e armenti… li diede ad Abramo e gli restituì la moglie Sara» (Gen 20,1-18, qui, v. 14). In Gen 21,27 Abramo sigilla un’alleanza con Abimèlech dandogli «greggi e armenti».
In tutti questi casi la bibbia greca della Lxx traduce il termine «armenti» con «mòschoi» (plurale): lo stesso termine che usa Lc 15,23: «mòschos» (singolare). Da ciò possiamo rilevare che il «vitello» segna in un certo senso la vita patriarcale. Ordinando ai suoi servi di «prendere il vitello», il padre della parabola lucana, si presenta come un patriarca che non ha più bisogno di nascondersi per paura, ma apre la sua casa per sigillare una gioia. Il padre continua la storia dei patriarchi, di cui la storia del figlio e del padre rappresenta una parabola e una sintesi.

Il vitello del sacrificio
Nel libro dell’esodo il «vitello» fa parte degli animali deputati al sacrificio di comunione: «Farai per me un altare di terra e, sopra, offrirai i tuoi olocausti e i tuoi sacrifici di comunione, le tue pecore e i tuoi vitelli (mòschoi)» (Es 20,24). Il vitello è il segno della presenza di Dio perché gli è offerto e lo riceve in olocausto. Nel momento in cui il fumo del sacrificio si eleva sull’altare, esso diventa lo strumento della presenza di Dio che dopo averlo ricevuto lo restituisce come alleanza.
Il padre che chiede di prendere il vitello per il ritorno del figlio perduto, entra nella logica del sacrificio di comunione e celebra l’«eucaristia», nel senso più pieno e più profondo del sacramento: ringrazia Dio facendo festa. Il padre, attraverso il vitello, reintroduce il figlio nella storia patriarcale da cui si era tagliato fuori, andando via di casa, in un paese lontano, diventando figlio impuro e spurio del suo popolo. Il vitello diventa così il segno della riammissione del figlio nella santità della vita, nel-la purità del culto, nella realtà del suo popolo.
La traduzione italiana non evidenzia la particolarità della lingua greca: il padre non chiede di prendere soltanto un vitello, ma «il vitello, il grasso», che tutti conoscono, «quello grasso, tò siteutòn», quello e non un altro. Nell’espressione «il vitello, il/quello grasso», in greco si ha una costruzione per cui il soggetto con l’articolo è seguito dall’aggettivo anch’esso con l’articolo per dargli forza ed evidenza, ma anche eleganza stilistica.
Tale costruzione serve per mettere in evidenza che si tratta del vitello noto a tutti, forse tenuto all’ingrasso con cura speciale per un sacrificio (molto probabilmente) oppure per una circostanza particolare. Nulla ci vieta di pensare che il padre lo avesse tenuto in disparte per un sacrificio di comunione per il ritorno del figlio.
Nel libro dei Giudici (6,25-35) Gedeone costruisce un nuovo altare e vi immola «un vitello grasso» per riparare il peccato di idolatria dei suoi concittadini che avevano sacrificato a Bàal: un sacrificio di purificazione (v. 28). Il vitello, quello grasso, è una spia forse per dirci che in questo modo il figlio è reintegrato nell’ortodossia che aveva rinnegato, andandosene «in un paese lontano». Nel vangelo nulla è detto per caso o a casaccio. Il figlio aveva messo in moto un processo di morte, abiura, distruzione, blasfemia; ora tutto si annulla nel segno de «il vitello, quello grasso», sacrificato per la festa della risurrezione del figlio.

Il vitello dell’accoglienza ospitale
Altri due testi famosi ci sembrano più attenenti di ogni altro con il testo lucano. Il primo racconta la visita dei tre personaggi misteriosi ad Abramo, alle querce di Mamre (Gen 18,1-15). Per dare risalto alla sua ospitalità accogliente: «All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e bello e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo» (v. 7). Il testo greco usa il termine «moschàrion», un diminutivo per dire «vitellino»; e per sottolineare la portata della scelta aggiunge due aggettivi che qualificano il vitellino come (letteralmente) «tenero e bello».
Qui il vitello è segno dell’ospitalità e accoglienza dello straniero, che nella cultura semitica è sempre il segno della Presenza di Dio. Rifiutare lo straniero è rifiutare Dio e porsi al di fuori della sua comunione. Prendendo «il vitello, quello grasso», il padre si mette sulla scia di Abramo e accoglie il figlio che torna come se accogliesse la Shekinàh di Dio. Ritorna da un paese lontano e straniero; ritorna da straniero perché aveva rinnegato il suo popolo; ora lo straniero è accolto da figlio e così il padre rende visibile la Presenza di Dio. Il Dio dei padri che il figlio aveva abbandonato, dilapidato, offeso, infangato con la sua vita di uomo «senza salvezza» (Lc 15,13), ora ritorna di nuovo nel figlio distrutto, che si presenta al padre non più come figlio, ma come servo, come straniero che chiede un salario per vivere. Il vitello non è solo lo strumento per la festa del ritorno del figlio, esso è il simbolo sacrificale di una gioia festosa perché è stata ricostituita la discendenza patriarcale e restaurata di nuovo la storia della salvezza che il figlio aveva spezzato. Il padre ritorna a essere il patriarca che riceve l’erede, mentre il figlio è il futuro che si riannoda al suo passato. Il figlio che era diventato «senza salvezza» (Lc 15,13) ora rientra a pieno titolo nella storia della salvezza patriarcale.

Il vitello dell’idolatria
Il secondo testo racconta del vitello d’oro (Es 32,1-6). La prima generazione che visse l’esperienza del deserto non esitò a lasciare il Signore durante l’assenza di Mosè che stava sul monte Sinai per ricevere la Toràh scritta e orale. Approfittando della lontananza del profeta, la folla riuscì a corrompere anche il sacerdote Aronne, che fuse l’oro raccolto tra la massa e costruì l’idolo per eccellenza, prototipo di tutte le prostituzioni future d’Israele e della chiesa: un vitello. Un vitello d’oro. In greco si usa il termine già visto: mòschos. Essi lo adorano come loro Dio e liberatore: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 32,4). La folla, complice il sacerdote Aronne, fece festa al nuovo Dio: «Domani sarà festa in onore del Signore. Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere» (Es 32,5-6).
In Luca, nel banchetto di festa per il figlio ritornato, il vitello non è adorato, ma ucciso; non si fa festa «davanti al» vitello, ma perché il figlio minore è tornato alla vita. Con questo banchetto, il padre della parabola reintegra il figlio sottraendolo all’idolatria del vitello dietro al quale si era perduto, prostituendosi e lo restituisce all’adorazione del Signore e Dio di Mosè, il Dio dell’alleanza del Sinai. Colui che con un solo gesto aveva rinnegato la Toràh, ora nel sacrificio del vitello annienta tutte le idolatrie passate e si apre a un futuro da dove potrà fare festa davanti al Signore Dio suo e dei suoi padri.

Il vitello dell’odio
L’espressione intera «il vitello, il/quello grasso» ricorre tre sole volte e solo in Luca ed esclusivamente nella parabola del «figliol prodigo». Della prima ce ne stiamo occupando ora; la seconda volta è in bocca ai servi, che informano il figlio maggiore del ritorno del fratello e del fatto che «tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso» (v. 17). In questa seconda citazione la costruzione in greco è uguale alla prima, cioè con la ripetizione dell’articolo si mette in evidenza la «singolarità» di «quel vitello».
Il figlio maggiore si arrabbia e si scoccia per il ritorno del fratello che viene a sconvolgere i suoi piani e accusa il padre con veemenza: «Per lui ha ammazzato il vitello grasso» (v. 30). In questa terza volta il testo greco cambia, non ripete più l’articolo davanti all’aggettivo. In italiano non si riesce a esprimere la differenza tra le due costruzioni: il vitello che nelle prime due citazioni precedenti era «quello e non un altro», qui, in bocca al fratello maggiore diventa «il vitello grasso», cioè un vitello qualsiasi, uno della mandria.
Al fratello maggiore da fastidio che il padre abbia preso «un» vitello per festeggiare il fratello. Anche se il padre avesse preso un pollo, o un uovo, o un dattero, per lui sarebbe stato sempre e comunque uno spreco perché il fratello non merita nulla. Il testo greco ci dice la diversità di atteggiamento interiore attraverso l’uso delle parole e per questo è importante studiare la scrittura e appropriarsi degli strumenti di lettura per cogliere anche le sfumature e non perdere il sapore della Parola che a noi giunge attraverso le parole. Per questo figlio maggiore, senza fede e senza umanità, il padre ha solo sperperato ancora una volta un pezzo del suo patrimonio per accogliere il figlio/fratello come ospite di Dio. In questo atteggiamento, il figlio maggiore è un vero ateo, un religioso praticante ateo: l’opposto del padre.
Il vitello della gioia
Il verbo greco che traduce l’ordine del padre di ammazzare «il vitello, quello grasso» è «thýō» e significa «uccido/immolo/sacrifico/offro in sacrificio» (cf Mt 22,4; At 10,13). In molti testi del NT (Mc 14,12; Lc 22,7 e 1Cor 5-7) il verbo è usato per il sacrificio dell’agnello pasquale.
Usando questo vocabolario «sacrificale» per l’uccisione de «il vitello, quello grasso», è come se Lc ci dicesse che ci troviamo di fronte a un vero e proprio «sacrificio eucaristico», perché il sacrificio è festa per la gioia ritrovata. Non a caso tutto converge verso il banchetto della festa, che è l’espressione sociale di un evento interiore e spirituale: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Il banchetto celebra la risurrezione del figlio, ma anche quella del padre e quella della casa: tutti risorgono in una casa quando qualcuno si salva dal pericolo e dalla morte.
Il banchetto è lo strumento della gioia perché, a tradurre alla lettera il greco, si deve mettere insieme la contemporaneità del mangiare con il giornire: le due azioni non possono essere separate perché la festa si esprime mangiando e mangiare è (non sempre) un segno/occasione di gioia e intimità. Il verbo principale usato da Lc è «euphràinō – giornisco/faccio festa», mentre il verbo «mangiare» è usato al participio, che è un tempo secondario ed esprime contemporaneità con il verbo da cui dipende.
In tutto il NT è usato 14 volte e sempre nello stesso senso di pienezza di soddisfazione, gioia irrefrenabile. A volte la gioia vuole essere egoista, ma diventa un peccato a sua volta, come nel caso dell’uomo ricco che invita la sua anima a godere e a divertirsi perché i raccolti sono andati molto bene, mentre non sa che non farà in tempo ad assaporare la festa perché quella notte gusterà il fiele della morte (cf Lc 12,19-21). Oppure come il ricco epulone che, mentre offre «lauti banchetti», non si accorge che sulla soglia di casa sua giace Lazzaro ammalato e affamato (Lc 16,19-21). La gioia non può essere mai individuale, ma per natura deve essere condivisa, perché è contagiosa e comunitaria; solo la tristezza è narcisistica. Il ricco che non si fa carico della povertà che sta sulla soglia di casa e delle cause che la provocano, scava «un grande abisso» tra sé e il cielo (Lc 16,26).

Il vangelo della gioia
In tutte le religioni storiche il rapporto con la divinità è assicurata dalla «comunione» con le offerte sacrificali (cf Dt 27,7). È una esigenza della religione mettere in contatto offerente e ricevente, attraverso segni e simboli: il banchetto di comunione è simbolo di intimità condivisa, accetta e partecipata. In un contesto di fede, però, il banchetto è secondario, perché è solo strumentale, mentre è determinante la gioia che attraverso il banchetto si esprime. L’eucaristia è il banchetto da cui scaturisce la gioia della ecclesialità, come il ruscello dalla sorgente.
La ragione del banchetto festoso è il figlio morto/risorto, perduto/ritrovato, espressione che troveremo ancora in chiusura del capitolo (v. 32); qui ci limitiamo a sottolineare che il padre non giornisce per sé, ma il motivo della sua gioia è solo il figlio. Come il suo amore fin dall’inizio fu e resta un amore senza tornaconto, così la gioia è una gioia gratuita, che consacra il suo amore e grandezza.
Il figlio fu al centro del suo dolore e solitudine; ora è il fulcro della sua gioia. Ha dato la vita al figlio, gli ha dato la libertà al prezzo della sua morte nel cuore; lo ha reintegrato nell’eredità, dignità e condizione di figlio: ora gli da anche la gioia del suo ritorno. Il padre è l’immagine perfetta del Padre celeste, che ha creato un cielo dove «c’è più gioia per un solo peccatore che si converte che per 99 giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,4.10).

Una parabola della gioia perfetta
Concludiamo con un aneddoto della vita dei padri del deserto. Due monaci avevano peccato gravemente. Il padre abate impose loro la stessa penitenza: andare fuori dal monastero e fare penitenza; chi avrebbe fatto la penitenza più adeguata sarebbe stato riammesso nella comunità. I due uscirono dal monastero e presero strade diverse.
Passò un anno. Un uomo macilento e lacero fece appena in tempo a suonare la campanella del monastero che cadde in terra stremato. I monaci lo raccolsero: è uno dei due fratelli tornato dalla penitenza. L’abate gli chiese cosa fosse successo ed egli narrò ciò che aveva vissuto: «Dopo un lungo peregrinare, vivendo di elemosine giunsi in un bosco dove non passava anima viva. Mi sistemai in una capanna di fortuna e mi inginocchiai davanti al Signore, dicendo: “Signore, sono un grande peccatore, e tu lo sai; per compiere la penitenza comandata dal padre abate, vivrò tutto il tempo a digiuno, mangiando solo ciò che offre il bosco e bevendo l’acqua del vicino ruscello; pregherò e mi flagellerò ogni giorno per riparare le mie colpe”. Ora al termine della mia penitenza, chiedo di essere ammesso in comunità». L’abate disse ai confratelli presenti: «Questa è grande penitenza. Sia riammesso».
Dopo qualche giorno, arrivò anche il secondo e suonò la campanella. Era fresco come una rosa, paffutello, felice e sereno, canticchiava con cuore allegro. Stupore e disprezzo nella comunità che lo accoglie. Il padre abate gli chiede: «Figlio mio, disgraziato, cosa hai fatto ancora di peggio? Come mai ti ritrovi qui e in questo stato?».
Il monaco raccontò il suo anno di penitenza, dicendo: «Padre abate, dopo lungo pellegrinare sono arrivato in un bosco da dove non passava nessuno; sono entrato in una capanna di fortuna, ho chiuso la porta, mi sono inginocchiato e ho pregato: “Signore, sono davanti a te e tu mi conosci più di quanto io conosca me stesso. Tu sai che ho peccato e non meriterei di essere considerato tuo figlio, ma so anche che sei un Dio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande nel perdono. Mi fido e mi affido alla tua parola e accolgo il tuo perdono come la festa più grande della mia esistenza. Per celebrare il tuo perdono e la tua infinita misericordia, trascorrerò tutto il tempo che mi resta a lodarti e ringraziarti, facendo festa e banchettando con tutto ciò che vorrai mandarmi”. Così ho fatto e ora sono qui a chiedere di essere riammesso nella comunità».
L’abate fece suonare le campane, radunò la comunità e disse: «Rallegratevi, fratelli! Oggi si è compiuto per noi un miracolo: questa non è solo grande, ma vera penitenza, perché c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. La vera penitenza è la gioia del perdono». Per suggellare il ritorno dei due fratelli diede ordine di fare un banchetto come si usa a pasqua.        (continua 18)

di Paolo Farinella

Paolo Farinella