Cana (24) «Vino non hanno»

Il racconto delle nozze di cana (24)

«La nuova alleanza nel mio snague, che è versato per voi»

Gv 2,3: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”».
(kài hysterêsantos òinou lèghei hē mêtēr toû Iēsoû pros autòn: Ôinon oùk èchousin)

Fatti i preparativi per lo sposalizio, preso atto che le nozze di Cana sono le sole in tutta la storia dell’umanità che si celebrano senza sposa, del tutto assente; conosciuti gli invitati importanti ai fini del IV vangelo, con il v. 3 entra in scena uno dei protagonisti eccellenti: «il vino», in greco «òinos». Nel racconto ricorre ben 5 volte: al v. 3 (2x), al v. 9 (1x) e al v. 10 (2x). Questa «abbondanza» di vino non solo materiale (sei giare per una capienza totale da un minimo di 240 a un massimo di 480 litri), ma anche letteraria (5 occorrenze) è indice di importanza e ci invita a prestare attenzione se vogliamo cogliere il significato inteso dall’autore.
Al «protagonista vino» abbiamo dedicato ben due puntate da due angolature diverse:
    – Il vino dalla prospettiva del Messia nel suo simbolismo cristologico (cf MC 10 [2010] 24-26).
    – Il vino dalla prospettiva di abbondanza nel suo simbolismo escatologico (cf MC 11 [2010] 21-24).
Rimandiamo a queste due puntate per non ripeterci. Sarebbe bene che i lettori interessati ad un approfondimento rileggessero i due testi perché sono utili per capire quanto diremo ancora. Chi avesse smarrito i nn. 10 e 11 del 2010 sopra citati, può consultare il sito della rivista MC on line sempre disponibile: https://www.rivistamissioniconsolata.it/cerca.php?cat=25  (consigliamo anche per chi ne avesse la possibilità di aggiungere l’exursus «Il vino nell’Antico Testamento e nella tradizione giudaica» in Aristide Serra, Le nozze di Cana, 249-273.
Un significato universale
Il testo del vangelo annota semplicemente che a un certo punto è «venuto a mancare il vino» (v. 3a). Qualcuno ha fatto male i conti o gli invitati ne hanno approfittato e quindi, nel pieno della festa, sorge un problema. Fermarsi a questa lettura però sarebbe molto banale. Il testo così come lo abbiamo è testimoniato dalla maggior parte dei codici e in particolare dai papiri Bodmer P66 (tra i sec. II e III) e P75 (tra i sec. VI e VII). Vi sono però alcune varianti che fanno capire l’importanza del tema. Il codice «Alpha*», risalente al sec. IV, legge: «E vino non avevano perché il vino delle nozze era stato terminato», che è una forma più estesa, esplicativa: vuole cioè chiarire il pensiero e spiegando allunga. Una regola della critica testuale è che tra due testi, in genere, è da scegliere quello più breve e più difficile, perché brevità e difficoltà sono segnali di maggiore antichità. Chi vuole spiegare le cose per chiarirle, certamente è successivo al testo.
Di fronte a questo fatto, la madre di Gesù che avevamo incontrato al versetto precedente per la prima volta prende la parola e fa notare la situazione: «Vino non hanno». Anche qui lo stesso codice «Alpha*» riporta un’altra variante che dice: «Vino non c’è». Apparentemente non c’è differenza tra i due testi, ma solo apparentemente, perché la variante semplifica molto e dal punto di vista teologico pone l’accento solo sul vino che è il soggetto della frase, mentre il testo accettato pone l’accento sulle persone, in questo caso, gli sposi in quanto sono essi che «non hanno vino», anche se la sposa è assente e lo sposo è figura secondaria che compare solo per essere rimproverato dal maestro del cerimoniale (architriclino). Proprio la particolarità di uno sposalizio senza sposa e con lo sposo che c’è e non c’è, ci apre a prospettive nuove e ci fa dire che essi sono espedienti per andare oltre le apparenze come molto spesso Giovanni ci costringe a fare. L’espressione «venuto a mancare il vino» in greco è un genitivo assoluto (funziona esattamente come l’ablativo assoluto in latino) che assume un valore generale, fuori dal contesto stesso in cui si trova. Il verbo «ysteré» in greco se riferito al tempo indica «essere ultimo/venire per ultimo»; se riferito allo spazio significa «venire dopo»; se riferito a persone o cose indica mancanza e privazione e quindi «manco/ho bisogno/sono escluso». L’uso di questo verbo in Gv è un «hàpax» cioè un termine usato una sola volta in tutto il vangelo per cui non si possono fare confronti, ma dobbiamo cogliee il senso solo in questo contesto.
Il genitivo assoluto, «venuto a mancare il vino», che in se stesso esula dal testo perché se ne potrebbe anche fare a meno senza modificare la struttura sintattica della frase, ha invece un valore importante perché l’autore lo usa fuori contesto e quindi con un senso universale, così universale che si può applicare a tutta l’umanità: non solo gli sposi, che hanno fatto male i calcoli, ma è l’umanità intera che è carente, manca, ha bisogno del vino nuziale.
Per questo motivo rifiutiamo le varianti testuali; «vino non c’è» è solo una costatazione povera del fatto che non si può continuare a fare baldoria perché manca il vino e non ha quindi la stessa forza del testo che sottolinea la tragedia della situazione: nessuno ha più vino, come a dire «non c’è il Messia» tanto atteso.
La madre/Israele non è in grado di dare la gioia della vita (il vino) ai suoi figli. Anche in un’altra circostanza e contesto il popolo sperimenta la mancanza di pane, quando di fronte alle folle che lo seguono, Gesù prende atto che «non hanno di che mangiare» (Mc 8,2) e più avanti i discepoli discutono che «pani non hanno» (Mc 8,16). Pane e vino sono gli alimenti esclusivi del banchetto messianico, secondo la regola della comunità di Qumran: «E quando (preparano la mensa per mangiare, o il) mosto (per bere, il sacer)dote sten(derà per primo la mano per benedire le primizie del pane) e del mosto (…)» (4Q258[4QSd], fr. I col. II [=1QS, V,21-VI,7]).
Il vino della Sapienza eucaristica
Sia la tradizione biblica che quella giudaica avevano identificato il vino con la Parola di Dio; Donna Sapienza, infatti, «ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola» alla quale invita «chi è privo di senno: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato (per voi”» aggiunge la LXX) (Pr 9,2.5). Il Sapiente è colui che si nutre della Parola del Signore perché «nella Toràh del Signore trova la sua gioia, la sua Toràh medita giorno e notte» (Sal 1,2; cf Dt 4,5-6; Sal 107,43; 119/118,99…; Gdt 8,26-27.29, ecc.).
Il pane e il vino della Sapienza sono quindi la Parola del Signore. Anche nell’Eucaristia, la Chiesa prepara la duplice mensa del Lògos che carne diventa (cf Gv 1,14) e del vino, alimenti che significano la Shekinàh/Dimora/Presenza della santa Trinità. Il vino preparato dalla Sapienza è quindi il vino della Toràh, cioè la natura stessa di Dio.
Nel libro del Siracide la Sapienza che parla in prima persona s’identifica con la vite: «Io come vite ho prodotto splendidi germogli» (Sir 24,17) per concludere che «tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la Toràh che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe» (Sir 24,23).
Anche Gesù si identifica con la vite: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) e il frutto che egli porta è «l’eucaristia della nuova alleanza (Mt 26,29 e parr.)» (Bibbia-Cei 2008, nota a Gv 15,1) dove si manifesta la volontà del Padre, cioè la sua Parola, cioè ancora il Figlio come progetto per l’umanità attraverso Israele e la Chiesa: «In principio era il Lògos e il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). L’immagine della vite e della vigna è classica nella Bibbia e si riferisce abitualmente a Israele (cf Is 5,1; Ger 2,21; Ez 15,2-6; Ez 19,10-14; Sal 80,9-16).
I rabbini amano raccontare che quando il sacerdote Melchisedek, uomo senza origini e senza ascendenti, accolse Abramo con i doni del pane e del vino (cf Gen 14,18), lo istruì anche nella Toràh del Signore Dio (cf Gen R 43,6 a 14,18). In questa ampia gamma di simbologia, è logico condividere la conclusione della tradizione giudaica che vede nel monte Sinai la cantina dove Dio ha conservato il vino della Toràh in vista dell’alleanza con Israele quando uscì dall’Egitto.  L’espressione della donna del Cantico dei Cantici: «Egli mi ha introdotto nella cella del vino» (Ct 2,4) è interpretata dal Targum (cf Tg Ct 2,4) e dal Midrash (Ct R 1,2.5; 2,4.1; 6,10.1) come il monte Sinai che Yhwh ha adibito a cantina del vino della Toràh. A riguardo abbiamo già scritto nella settima rubrica dedicata alle nozze di Cana:
«Il quinto personaggio è il “vino” che è il segno messianico per eccellenza. Il midràsh ebraico (Cantico Rabbà 2,4) equipara la Toràh, cioè la Parola di Dio al vino e il monte Sinai è descritto come la cantina dove Dio, prima ancora della creazione del mondo, ha conservato il vino-Toràh per la festa delle nozze messianiche: “Il Sinai è la cantina dove fin dalla creazione del mondo è stato tenuto in serbo per Israele il vino delizioso della Toràh. Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai” (Ct R 2,12; cf Nm R 2,3; Pr 9,5). In Gv 2,10 vi è un accenno a questa cantina, quando il maestro di tavola rimprovera lo sposo di avere conservato il vino eccellente fino ad ora  (“tu hai conservato il vino buono [= bello] fino ad ora – sý tetêrekas tòn kalòn òinon éôs àrti”)» (MC 9 (2009), 22).
A questo punto, prima di andare avanti, non è inutile una riflessione attualizzante sullo stato della Chiesa di oggi in rapporto a quanto detto sopra. Dal testo del vangelo apprendiamo che l’espressione assoluta «venuto a mancare il vino» ha un valore universale e quindi può e deve essere applicato anche a noi e al nostro tempo. L’AT aveva il Sinai come «cantina del vino della Parola», preparato prima ancora che Israele uscisse dall’Egitto; secondo altri testi che abbiamo esaminato nelle puntate precedenti, il vino delle nozze di Cana richiama il «vino del Messia», perché i suoi tempi saranno segnati da una abbondanza senza misura. Tutte queste tipologie di vino sono proiettate nel futuro, cioè aprono una dimensione non solo di speranza, ma spingono a procedere con lena e passione verso i tempi di domani, perché ci avvicinano sempre di più all’incontro con «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2).
(24 – continua)

Paolo Farinella




Cana (23) «Ecco lo sposo»

Il racconto delle nozze di Cana (23)

«Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato (meta-kalèô) mio figlio»  (Os 11.1)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)
Parte seconda
Dall’Esodo a Cana, il verbo della vocazione: «kalèô – io chiamo»
Il capitolo 19 dell’Esodo è il capitolo dell’alleanza sul monte Sinai, dopo l’uscita dall’Egitto: è l’atto di nascita di Israele in quanto popolo che Gv 2 commenta con il racconto delle nozze di Cana: questo intendiamo affermare dicendo che le nozze di Cana sono un midràsh di Es 19,1-2a (Alleanza del Sinai) e di Es 7,14-25 (l’acqua del Nilo cambiata in sangue).
In questo contesto si capisce bene che la prima parola portante del racconto di Cana è lo stesso verbo «kalèō – io chiamo/invito/convoco» che mette in relazione due personaggi: Mosè e Gesù. Il primo perché è il mediatore delle nozze tra Dio e Israele ed «è convocato/chiamato» da Dio a salire sul monte, il secondo perché è lo Sposo dell’alleanza nuova che ha il suo «principio» a Cana di Galilea (cf Gv 2,11), dove «è convocato/chiamato/invitato» per «rivelare» il senso della sua presenza non tanto in un fatterello di un villaggio, quanto piuttosto nel cuore della «Storia»: egli è il Lògos divenuto carne (cf Gv 1,14).
Il rapporto tra Mosè e Gesù non è una forzatura perché è lo stesso evangelista che ci obbliga a leggere in questa chiave il racconto, sia perché è il primo verbo principale che scandisce la narrazione di Cana, sia perché troviamo altri riferimenti supplementari che accenniamo soltanto.
a) Vocazione come rivelazione
Il verbo «kalèō – io chiamo/invito/convoco» ha un valore di rivelazione e di investitura (vocazione) e quindi assume un significato specifico teologico, perché in Gv 2,9, quando il capo del cerimoniale (architriclino) deve riprovare lo sposo anonimo per la questione della scelta tra vino buono e vino gramo, «chiama lo sposo», usando non il verbo «kalèō», ma il verbo che si usa ordinariamente per chiamare qualcuno: «phonèō». È lo stesso evangelista, dunque, a distinguere il significato dei due verbi.
Scrive l’esegeta francese, Marc Girard:
«Fermiamoci su un solo dettaglio: il verbo kalein, “chiamare” (v. 2). Di solito gli si attribuisce un significato banale: invito, convocazione. A fronte del vero “terzo giorno”, quello che è simboleggiato in tutto il racconto, c’è molto di più: l’espressione dell’appello fondamentale di Gesù – la sua vocazione –, consacrato sposo con la sua morte e risurrezione, e anche dei discepoli, rappresentanti e immagine della futura Chiesa-sposa» (M. Girard, Cana ou l’«heure» de la vraie noce …, 108).
Il verbo è nella forma passiva e gli studiosi rilevano che nella Bibbia molte forme di questi verbi vengono definiti come «passivi divini» ovvero «passivi teologici», perché esprimono un pensiero che va oltre il significato ordinario. Giovanni e Paolo sono maestri in questo uso. Il soggetto logico (o agente) del verbo passivo «eklêthē – fu chiamato» è Dio per cui non si tratta soltanto di un «invito» a un banale matrimonio, ma della «chiamata» di Dio che convoca Gesù, il Figlio, appositamente per inviarlo a celebrare le nuove nozze con Israele (sull’uso del «passivo divino» cf altri casi in Mt 5,4.6.7.9; 25,29.32; Lc 6,37-38, Rm 6,4; 11,17-24; Col 3,1.3 ecc.).
In base allo schema giovanneo, a cui siamo ormai abituati, dietro ogni parola vi sono di norma due significati: quello ovvio, ordinario, e quello nascosto, più importante. Le nuove nozze s’impongono perché le prime sono fallite sotto il peso del tradimento (cf Os 2,4-23). Infatti, il rapporto tra le due nozze è dato dal confronto tra i personaggi protagonisti dei due eventi, collocati entrambi «nel terzo giorno»: Mosè e Gesù.
Se la dinamica del «terzo giorno» è lecita, e noi crediamo che sia anche logica, allora il confronto tra Mosè e Gesù non solo è lecito, ma è necessario.
Il ruolo che svolge Gesù è simile a quello del responsabile (architriclino) della festa: è lui che procura il vino, è lui che dà ordini ai servi/diaconi, è lui che consente con il suo intervento lo svolgimento delle nozze. Non occorre più un architriclino, perché adesso è lo stesso sposo che prepara le nozze affinché vadano a buon fine. Mosè è chiamato sul Sinai per ritornare al popolo e consegnare le tavole della Toràh, Gesù è chiamato a Cana per «manifestare/rivelare» da sé la «Gloria – Dòxa/Kabòd» di Dio attraverso i suoi «segni» e il suo volto.
b) Il Padre è la sorgente della vocazione
Al Sinai è Dio che convoca (ekàlesen – chiamò: aoristo/passato remoto indicativo attivo del verbo kalèō) Mosè sulla montagna dell’alleanza (Es 19, 3.20); a Cana è Gesù ad essere invitato (eklêthē – fu chiamato: aoristo/passato remoto indicativo, passivo del verbo kalèō) alle nozze.
Il rapporto tra le nozze del Sinai e quelle di Cana è ancora più stringente se si considera anche che dopo avere ricevuto la Toràh, «Mosè scese verso/dal popolo» (Es 19,25; cf anche vv. 10.21.24); allo stesso modo a Cana, dopo il dono dell’abbondanza del vino nuziale del Messia, anche «[Gesù] scese a Cafàao» non più verso il popolo, ma «insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli» (Gv 2,12). In tutti e due i testi sia per Mosè sia per Gesù troviamo, in greco, lo stesso verbo: «katèbē – discese».
Gesù era arrivato solo «con i suoi discepoli», ora scende dal monte della nuova alleanza con un popolo numeroso: sua madre, i fratelli e i discepoli. Il confronto con Mosè continua ancora, come vedremo a suo tempo. Qui basti per sottolineare da un lato la convergenza tra Mosè e Gesù e dall’altro anche le grandi differenze che si possono sintetizzare in una: Mosè è sempre e solo il grande mediatore delle nozze, «l’amico dello sposo» che sovrintende alla riuscita del patto nuziale (cf Gv 3,29); Gesù è lo Sposo atteso nella notte e desiderato dalla sposa e finalmente giunto (cf Mt 25,6).
«Mosè è chiamato da Dio, che gli affida una promessa e un compito per il popolo. Gesù, il Figlio di Dio, è mandato da Dio e chiamato dagli uomini in mezzo a loro per adempiere e rivelare tra di loro la promessa e il compito che Dio gli ha affidato… L’arrivo a questo matrimonio non potrebbe essere segno di un nuovo matrimonio, fondato sulla rivelazione della gloria di Gesù e sulla fede obbediente dei suoi discepoli, un nuovo Sinai, il momento della nascita della Chiesa di Gesù Cristo?» (B. Dolna, Le nozze di Cana, 48.49).
c) La vocazione come «progetto di catechesi»
Il primo verbo del racconto sulla linea narrativa, cioè il verbo più importante, lo abbiamo già detto diverse volte, è il verbo «fu chiamato» che è lo stesso di Mosè «chiamato» sul monte Sinai. Il penultimo verbo, sempre sulla linea narrativa, del brano delle nozze di Cana è il verbo «katèbē – discese» (cf Gv 2,12). Abbiamo quindi lo schema: «Fu chiamato – discese / eklêthē – katèbē» corrispondente allo schema identico che descrive la consegna della Toràh a Mosè secondo il binomio «Salì – discese / anèbē – katèbē» (cf Es 19,3.20.25).
Gesù non sale a Cana, ma discende a Cafàao, la città immersa nella «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Questi movimenti fanno vedere la natura intrinseca della Parola di Dio, che non è solo una relazione di fatti, ma una chiave di comprensione del senso degli stessi fatti.
In Esodo, «Mosè salì (gr.: anèbē) verso Dio e il Signore lo chiamò (ekàlesen) dal monte» (Es 19,3); a Cana Gesù non deve salire «verso Dio» perché egli è il Lògos che «in principio era presso Dio e il Lògos era Dio» (Gv 1,1).
Ricevuta la missione sul monte Sinai, «Mosè scese – katèbē verso il popolo» (Es 19,25); a Cana, Gesù «sta» in mezzo al popolo e «scese – katèbē» a Cafàao per allargare l’orizzonte dell’alleanza del Sinai.
Sul monte dell’esodo, Mosè è in relazione esclusivamente con il popolo di Israele, il solo eletto per ricevere la Toràh come distintivo della propria identità: nessun altro popolo è presente. A Cana Gesù scende in una città che appartiene ad un territorio che è considerato alla stessa stregua di un territorio pagano, cioè impuro.
Il Sinai è per Israele, Cana è il monte del mondo, perché Gesù «scese» nel cuore dell’impurità per incontrare gli uomini direttamente.
Sul Sinai Mosè «sale e scende» come mediatore tra Dio e il popolo che resta al di fuori del recinto (cf Es 19,21.23); a Cana Gesù «prende in mano» le nozze e le porta a compimento e quando scende non porta le tavole di una legge di pietra, ma compie due fatti: «manifesta» la sua «gloria» ai discepoli, che così diventano testimoni ufficiali della vita del nuovo rabbi Joshuà, e contemporaneamente «consegna» se stesso all’umanità in attesa e ignara in una terra laica, quasi estranea alla religione ufficiale.
La chiamata di Dio a cui Gesù ubbidisce non è nuova nella sua vita, perché egli è intriso della volontà del Padre, di cui ha fatto la struttura portante della sua vita. Come Isacco, secondo la tradizione giudaica, incita il padre Abramo ad ucciderlo per ubbidire al volere di Dio, così Gesù fa dell’obbedienza al Padre la sua pietra angolare, l’asse portante della sua vita: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; 5,30; 6,38); «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42; Mt 26,42). Gesù non comunica parole sue, ma quelle del Padre (cf Gv 7,16; 8,26.40; 17,8.14); allo stesso modo le opere che egli compie sono quelle che gli ha affidato il Padre (cf Gv 5,17; 8,28; 10,25.37; 14,10; 17,4).
Ciò non vuol dire che Gesù si trova il progetto della sua vita impacchettato con fiocco, quasi che la sua venuta sia solo un adempiere passivamente la missione ricevuta; al contrario, egli, come chiunque altro vivente che vuole essere in comunione con Dio, deve «cercare» la sua volontà negli avvenimenti della sua vita e nelle persone che incontra, altrimenti non potrebbe crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40), non sarebbe un vero uomo, ma un Dio che finge di fare l’uomo.
È questo il motivo per cui Gesù, specialmente in Lc, a ogni tornante importante della sua vita sta sempre in preghiera (cf Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 11,1; 22,41.44; cf Mt 26,36). Egli prega per illimpidirsi lo sguardo del cuore e per capire gli eventi della storia come luoghi dell’incontro con il disegno del Padre.
Gesù corrisponde alla vocazione della sua chiamata cercando il senso della sua vita che il Padre gli ha affidato, ma che lui deve scoprire come ogni altro essere umano nella ricerca, con fatica e spesso anche nel dubbio.
È qui la grandezza della incarnazione che fa di Gesù l’uomo per eccellenza, perché Figlio di Dio. È profeta Pilato nel presentarlo al popolo nella pienezza della sua umanità: «Ecco l’uomo» (Gv 19,5).
Gv non usa il verbo «salire», ma «chiamare/invitare» per sottolineare, oltre alla somiglianza, anche la differenza, pur nel loro reciproco influsso, tra Gesù e Mosè: c’è il paragone, ma anche la «singolarità» di Gesù, che non ha bisogno di «salire» perché già «è disceso» per restare fino alla fine del mondo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo» confida Gesù a Nicodemo nell’incontro notturno (Gv 3,13), perché la logica della «kenòsi – svuotamento/abbassamento» (cf Fil 2,7) esige un «discendere dal cielo» permanente, definitivo: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38.41.42.51.58).
Se però in Gv 2,12 Gesù «scese a Cafàao», vuol dire che egli procede dall’alto verso il basso, da Cana a Cafàao per cui l’evangelista considera il villaggio come l’equivalente del monte Sinai, anche per via, come abbiamo già visto, del nome di «Cana» che significa «egli si è acquistato». Al Sinai Dio «si è acquistato un popolo», come cantano Mosè e gli Israeliti (cf Es 15,1.6), a Cana il Padre «acquista» il popolo del Regno nella persona del Signore Gesù che è la nuova Toràh dell’alleanza eterna (Per approfondire il tema della vocazione alla luce delle nozze di Cana e degli altri passi del vangelo [Gesù al tempio in Lc 2; il discorso della montagna in Mt 5, la scelta dei Dodici in Lc 6 e la trasfigurazione sul monte in Mc 9], cf A. Serra, Le nozze di Cana, 208-214).
Oltre Cana: le nozze paradigma della storia
Concludiamo l’esame di Gv 2,2 affermando con certezza che non è lo sposalizio di Cana l’evento di cui si vuole parlare, ma l’annuncio dell’autore che inizia una èra nuova sotto il segno e il sigillo delle «nozze» come  ripresa del tema e dell’esperienza dell’Esodo: come Israele si legò a Dio con un patto nuziale che nulla, nemmeno i tradimenti successivi, avrebbe potuto intaccare, allo stesso modo, «quando giunse la pienezza del “kairòs”» (Gal 4,4), cioè il tempo del Messia, non c’è più bisogno di un intermediario sponsale perché lo Sposo è presente direttamente, di persona per rinnovare le nozze con la Sposa/Israele – Chiesa. Israele infatti resta sempre Israele, ma ora include anche la Chiesa che si apre ai Gentili. La differenza tra l’alleanza del Sinai e quella che inizia a Cana sta in questo: al Sinai si tratta di una alleanza esclusiva con Israele, successivamente inviato ai popoli della terra; a Cana invece, che è già nella «Galilea delle Genti» (Mt 4,15), le nozze di Dio avvengono direttamente con Israele e con i Gentili: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).
A Cana si compie il desiderio e l’anelito della sposa del Cantico: «Il mio amato è mio e io sono sua» (Ct 2,16), che secondo il Targum a Ct 2,8 è anche l’anelito di Dio che sospira di vedere il volto della sposa orante, presente/chiamata nell’assemblea: «Fammi vedere il tuo volto, fammi sentire la tua voce nella santa Assemblea». Dio non può fare a meno di «vedere e sentire/contemplare e ascoltare» la sposa che «si è acquistato» al Sinai e a Cana nelle nozze dell’alleanza.
In questo contesto, la preghiera non è solo un elevare l’anima a Dio, ma una vera e propria «vocazione» per rispondere al bisogno di Dio di vedere il volto e ascoltare la voce di Israele/Chiesa che si raduna perché Dio possa compiere il suo anelito sponsale.
Quanto deve cambiare la nostra preghiera, confinata e limitata alla lode, alla domanda e al perdono! La Bibbia e la tradizione giudaica ci aprono invece alla preghiera come «vocazione» per consentire a Dio di esercitare il suo diritto di Sposo. Questa visione attraversa tutta la salvezza che cammina nella storia e si proietta nel futuro messianico, quando, al compimento del pellegrinaggio terreno, compiute le nozze e bevuto il vino del Messia, «lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni! … Sì, vengo presto! … Vieni Signore Gesù – Maranà thà”» (Ap 22,17.20; 1Cor 16,22).

Paolo Farinella
(23 – continua)

Paolo Farinella




Sotto una montagna di tecnorifiuti

LA INARRESTABILE CRESCITA DEI «RIFIUTI ELETTRONICI»

Cellulari, computer, macchine fotografiche, televisori diventano obsoleti sempre più rapidamente. Non c’è dunque da stupirsi se ogni persona produce in media 14 chilogrammi di rifiuti elettronici all’anno. Sono rifiuti riciclabili ma, contenendo varie sostanze tossiche, è costoso trattarli in maniera adeguata. Ecco perché si è individuata una soluzione più semplice:
esportarli nel Sud del mondo…


Quasi quotidianamente la nostra cassetta delle lettere contiene materiale pubblicitario di qualche grande catena di distribuzione di prodotti elettronici e di elettrodomestici. Nei depliant vengono magnificate le qualità delle ultime novità tecnologiche, magari con l’immagine di un simpatico robottino, che da un altoparlante dice «fuoritutto», per farci capire che questo è il momento giusto per acquistare il nuovo computer, il cellulare di ultima generazione, che fa tutto, ma proprio tutto, il televisore ultrapiatto che, appeso ad una parete, potrebbe essere scambiato per un quadro. Un’occhiata a volantini di questo genere ed ecco che, in molti, si scatena l’irrefrenabile desiderio di passare al nuovo e così il computer utilizzato fino al giorno prima, il cellulare, la macchina fotografica dalle modeste prestazioni, anche se ancora perfettamente funzionanti, vengono sostituiti. Ma tutto questo «vecchio» materiale elettronico dove va a finire? E quanto se ne produce?

AUMENTANO LE VENDITE,
SI RIDUCE LA VITA MEDIA

Secondo il rapporto dell’Unep (il programma dell’Onu per l’ambiente), presentato a Bali il 22 febbraio 2010, dal titolo Recycling from E-Waste to Resources, ogni anno si accumulano sulla Terra circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti hi-tech (più del 5% dei rifiuti solidi urbani generati nell’intero pianeta), 3 milioni dei quali prodotti negli Stati Uniti d’America e 2,3 milioni prodotti in Cina (di cui 1,3 milioni, in questo Paese, è rappresentato da vecchi televisori e 300.000 computer usati). E questi valori sono destinati ad aumentare. Secondo uno studio condotto dall’American Chemical Society, nel 2016 i Paesi in via di sviluppo arriveranno a produrre il doppio dei rifiuti elettronici (definiti anche e-waste, oppure Raee, cioè rifiuti delle apparecchiature elettriche ed elettroniche), rispetto ai Paesi sviluppati. C’è infatti un vertiginoso aumento del numero di persone in possesso di un pc o di altri dispositivi elettronici sia nei Paesi sviluppati, che in quelli in via di sviluppo. Peraltro i progressi tecnologici stanno riducendo moltissimo la durata dei prodotti elettronici di consumo, in modo che la gente ritenga obsoleti pc ed altre apparecchiature già dopo qualche mese dall’acquisto e li scarti, per dotarsi delle ultime novità. Del resto, secondo la legge di Moore, dal nome di uno dei cofondatori dell’Intel, ogni 2 anni la capacità di calcolo dei processori raddoppia. Gli sviluppatori di software si adeguano e così il computer acquistato oggi, domani sarà vecchio e dopodomani pronto per la discarica. Si è passati da 183 milioni di nuovi computer immessi sul mercato nel 2004 a 352 milioni nel 2010, mentre si stimano 409 milioni di computer venduti nel 2011. Ultimamente c’è stata una lieve flessione nelle vendite dei computer, ma solo perché talvolta, al loro posto, vengono preferiti i tablet di nuovissima generazione. La vita media dei pc è passata da 6 anni nel 1997 a 2 anni nel 2005 e si stima che sarà di un anno soltanto nel 2014. Per i telefoni cellulari va anche peggio. Nel 2004 ne sono stati venduti 674 milioni in tutto il mondo, nel 2010 si è arrivati ad 1,4 miliardi, un cellulare ogni 5 persone, con un aumento del 16-18% rispetto all’anno precedente ed una vita media per cellulare di 4 mesi. Questo fa sì che in ogni famiglia restino abbandonati nei cassetti da 2 a 4 cellulari. Che fine fanno i prodotti tecnologici scartati?

CHI RECUPERA
GLI SCARTI ELETTRONICI

Attualmente si raccolgono in modo differenziato meno di 2 chilogrammi di Raee pro-capite all’anno in Italia, contro i 5 chilogrammi della media europea ed una produzione di rifiuti elettronici di circa 14 chilogrammi per abitante. Greenpeace ha stimato che il 75% dei rifiuti elettronici europei e l’80-90% di quelli statunitensi non venga riciclato in loco, ma segua flussi nascosti, eludendo il controllo delle autorità competenti, per poi riapparire come d’incanto in discariche incontrollate in Africa, Ghana in primis, in Cina, India, Pakistan, Filippine, spesso persino con il pretesto delle donazioni caritatevoli.  A livello internazionale sono Cina, India e Pakistan, che ricevono la maggior parte dell’e-waste  prodotto nel mondo. Nelle discariche finisce per lavorarci la gente disperata, soprattutto bambini, a mani nude e senza alcuna precauzione, che recupera principalmente l’alluminio ed i cavi di rame dagli scarti elettronici, dopo avere bruciato questi ultimi oppure avere utilizzato degli acidi, per eliminare le parti in plastica. Dai roghi vengono esalate grandi quantità di piombo e di mercurio, che entrano nella catena alimentare. I cocktail di veleni a cui vengono continuamente esposti i ragazzi, che svolgono questo lavoro determinano spesso la loro prematura scomparsa; molti di loro non riescono infatti a superare i 25 anni d’età. Tra le sostanze tossiche presenti negli scarti tecnologici ci sono, oltre al piombo e al mercurio, il cadmio, l’antimonio, i ritardanti di fiamma bromurati.
Il piombo, presente nelle batterie e nei tubi catodici dei pc causa danni al sistema nervoso, al sistema circolatorio ed a quello riproduttivo. Il cadmio, contenuto nei semiconduttori e nei tubi elettronici di vecchio tipo, provoca danni irreversibili ai reni ed al sistema scheletrico. Il mercurio degli interruttori è alla base di danni ingenti al cervello, in particolare al sistema visivo, al cornordinamento motorio ed al bilanciamento. L’antimonio, che viene usato come agente antifiamma e per produrre un’ampia gamma di leghe metalliche, agisce come l’arsenico, cioè a piccole dosi provoca mal di testa, confusione e depressione, mentre elevati dosaggi determinano violenti e frequenti attacchi di vomito e portano alla morte in pochi giorni. I ritardanti di fiamma bromurati, usati nei rivestimenti plastici e nei circuiti elettrici, oltre a gravi danni ambientali permanenti, provocano danni alla tiroide ed interferiscono con lo sviluppo fetale. I roghi inoltre generano ingenti quantità di diossine, furani, policlorobifenili, cioè sostanze altamente cancerogene.

IL CASO DEL GHANA

È emblematico il caso della discarica di Accra, la capitale del Ghana, dove vivono e lavorano al recupero degli scarti elettronici circa 4.000 persone, prevalentemente bambini e ragazzi provenienti dal nord del paese, una regione particolarmente povera. La discarica è situata vicino al mercato alimentare di Agbogbloshie e viene definita «Sodoma e Gomorra» dagli abitanti.
I container che arrivano dalla Germania sono misti, cioè contengono sempre computer funzionanti, altri da riparare ed il 30% da buttare, che viene dato ai ragazzi di Agbogbloshie. I container inglesi contengono invece molta più spazzatura elettronica. Il tutto in barba alla Convenzione di Basilea, un trattato internazionale del 1989, che vieta al Primo mondo di scaricare i propri rifiuti elettronici nel Terzo, senza autorizzazione (possono essere esportati i computer funzionanti, non i rifiuti. Ma come vanno considerati i pc guasti, però riparabili facilmente e quelli obsoleti, su cui non gira più alcun programma? Nel dubbio i giudici decidono a favore degli esportatori). Questo trattato è stato approvato da 172 Paesi, ma 3 dei firmatari – Afghanistan, Haiti e Stati Uniti – non l’hanno mai ratificato, mentre Canada e Nuova Zelanda hanno rifiutato di firmare l’accordo.
Dopo la Convenzione di Basilea, l’Unione Europea ha varato due direttive: la 2002/95/EC denominata Restriction of hazardous substances (Rohs) e la 2002/96/EC, detta Waste electrical and electronics equipment (Weee). La prima direttiva impone restrizioni sull’uso di sostanze pericolose nella costruzione dei vari dispositivi elettrici ed elettronici, mentre la seconda regolamenta l’accumulo, il riciclaggio ed il recupero di tali dispositivi.
Trattare un pc secondo gli standard previsti dalla normativa europea Weee è un’operazione poco remunerativa, quindi buona parte dei rifiuti elettronici viene esportata verso i Paesi del Sud del mondo, dove spesso i protocolli di sicurezza sono inferiori e le normative a tutela dei lavoratori sono inadeguate o assenti. Smaltire in Germania un vecchio monitor a tubo catodico costa 3,5 euro, mentre portarlo in Ghana in un container costa solo 1,5 euro. Qui, nella discarica di Accra, dopo una giornata di lavoro vicino ai roghi ed essere riusciti a recuperare una mezza borsa di residui metallici, i ragazzi guadagnano circa 2 cedi ghanesi, pari ad un euro, con cui possono pagarsi un posto dove dormire al sicuro per una notte, oppure un pasto, ma non entrambe le cose.

THE STORY OF ELECTRONICS
Le ricadute sull’ambiente e sulla salute dell’e-waste sono descritte in The story of electronics (La storia delle apparecchiature elettroniche, reperibile sul sito: www.storyofstuff.org), un documentario realizzato da Annie Leonard, in collaborazione con il programma di ritiro Electronic Coalition, un’organizzazione americana, che promuove il riciclaggio dei rifiuti elettronici.
Tra i paesi in via di sviluppo, il Kenya sembra destinato a diventare la prima nazione dell’Africa orientale a dotarsi di normative sulla gestione dei rifiuti elettronici. A seguito di una conferenza nazionale tenutasi alla sede del Programma Onu per l’ambiente (Unep) di Nairobi, è stata tracciata una via comune da seguire, per il trattamento e la gestione dell’e-waste, in linea con la Convenzione di Basilea. Secondo l’Unep, l’e-waste rappresenta, per i paesi in via di sviluppo, anche un’opportunità economica, attraverso il riciclo ed il ripristino degli scarti dei prodotti elettronici e la raccolta dei preziosi metalli, che contengono. Un esempio è dato dall’attività di recupero svolta dagli allievi del Crc (Centro di recupero computer), sorto a Porto Alegre, nel Brasile meridionale; in questo centro sono stati ripristinati 1.700 computer nel giro di 3 anni, mentre i residui elettronici, che non possono essere recuperati, vengono utilizzati per produrre particolari forme d’arte. Questo centro fa parte del «Programma brasiliano d’inclusione digitale» ed è il risultato di una collaborazione tra il Ministero della pianificazione e la Rete marista di educazione e di solidarietà, un ramo della congregazione cattolica dei fratelli maristi. Oltre a quello di Porto Alegre, centri analoghi sono nati negli stati di Minas Gerais e di San Paolo, nel sud-est e nel sud del Paese, e nel distretto federale di Brasilia.
La materia prima di questi centri è rappresentata dalla spazzatura elettronica gettata dal governo federale, da banche, imprese e utenti privati, che si disfano degli apparecchi obsoleti per macchine più evolute.

IN EUROPA E IN ITALIA
Come vanno le cose in Europa e in Italia?
Secondo una ricerca commissionata dalla Dell alla società Research Now risulta che in Europa 7 persone su 10 preferiscono mettere in ripostiglio i vecchi pc, stampanti, cellulari ed altre apparecchiature elettroniche, piuttosto che recuperarle. I campioni dell’accantonamento sono gli inglesi e gli italiani. La ricerca ha coinvolto 5.000 persone intervistate in Italia, Spagna, Francia, Gran Bretagna e Germania ed ha dimostrato che solo il 5% degli europei ricicla i vecchi computer. Sono emerse discrepanze di sesso, età e nazionalità, in tema di riciclo. I più attenti sono risultati i tedeschi (riciclano 4 su 5), a differenza dei britannici (1 su 2). Inoltre gli uomini europei sono più informati in materia di riciclo dei vecchi pc, ma questo non vuole dire che siano dei perfetti riciclatori. Le donne invece risultano meno informate sulle procedure di riciclo, ma più attente al rispetto dell’ambiente, per cui si preoccupano maggiormente della destinazione dei rifiuti e dei consumi energetici dei prodotti da acquistare. In Italia va un po’ meglio per il ritiro dei televisori usati, da parte dei consorzi di riciclo, che nel 2009 ne hanno recuperato il 78% (78 chili recuperati su 100 chili venduti), a fronte di una vendita di 7 milioni di televisori, per un totale di 80.000 tonnellate di peso.
In Italia, la direttiva europea 2002/96/CE o Weee è stata recepita nel 2005 con il Decreto legislativo 151, mentre il 18 giugno 2010 è entrata in vigore la legge nota come decreto uno contro uno (D.M. n. 65 dell’8 marzo 2010), il cui scopo era quello di introdurre misure necessarie a semplificare l’applicazione della direttiva europea.

L’INCHIESTA DI GREENPEACE
TRA LE GRANDI CATENE

Greenpeace ha condotto una doppia inchiesta, a luglio ed a dicembre 2010, per verificare presso 5 tra le maggiori catene di distribuzione di materiale elettrico ed elettronico (Euronics, Eldo, Mediaworld, Trony ed Unieuro) se e come questa legge viene rispettata. La prima parte dell’inchiesta, condotta a luglio, è stata un piccolo test condotto presso i rivenditori di Milano, Roma e Napoli (12 negozi in totale), ad un mese dall’entrata in vigore del decreto legge, ed ha dimostrato che il 75% degli intervistati non rispettavano del tutto la normativa. A dicembre sono stati esaminati 107 negozi in 31 città italiane, mediante la compilazione di questionari in forma anonima e l’uso di telecamere nascoste. In contemporanea le 5 catene sono state contattate per capire se fossero a conoscenza dei risultati della prima indagine e solo due, cioè Trony ed Unieuro hanno risposto. Dalla seconda indagine risulta un miglioramento per quanto riguarda l’adeguamento alla normativa, in quanto il 49% dei rivenditori ha dimostrato di rispettare l’obbligo del ritiro dell’usato, al momento dell’acquisto del nuovo, tuttavia resta ancora il 51% di rivenditori, che non rispetta la legge, in parte o del tutto. Inoltre è emerso che nel 25% dei casi, il costo di consegna a casa del prodotto nuovo è stato aumentato per mascherare il ritiro non gratuito dell’usato. Nel 14% dei casi il ritiro gratuito avviene solo se il vecchio prodotto è portato in negozio dall’acquirente, mentre nel 12% dei casi non viene proprio effettuato. Ci sono poi i casi limite, in cui il ritiro a casa dell’usato è gratuito solo se l’elettrodomestico si trova al piano terreno, altrimenti il costo sale a 2,5 euro per piano. L’inchiesta ha inoltre dimostrato che, sebbene la legge preveda l’informazione obbligatoria da parte del commerciante nei confronti del cliente, circa la gratuità del ritiro dell’usato, tale informazione non viene data nel 63% dei casi. Sulla base dei risultati dell’inchiesta, Greenpeace ha stilato una classifica delle catene di distribuzione, che ritirano l’usato gratuitamente. Troviamo perciò il 60% dei negozi Eldo, che ritirano l’usato, seguiti da Mediaworld (50%), Trony (48%), Unieuro (47%) ed Euronics (45%). In tutti gli altri casi, i clienti sono invitati a portare l’usato nei centri di raccolta comunali, che dovrebbero accogliere i rifiuti dei privati cittadini e dei distributori, ma che nella realtà sono insufficienti e non sempre accessibili alla grande distribuzione (perché non autorizzati a ricevere rifiuti elettronici dai negozi, o perché hanno orari di apertura limitati. Su circa 3.000 centri di raccolta, circa il 70% si trova in sole 4 regioni italiane, cioè Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto. Già con un’inchiesta del 2009, però, Greenpeace aveva documentato che molti di questi centri (80% di quelli visitati) avevano problemi di gestione, oppure la loro struttura non era a norma. Il 30 giugno 2010 è scaduto il termine ultimo per l’adeguamento da parte dei comuni dei centri di raccolta rifiuti privi dei necessari requisiti, ma nulla è stato fatto dal governo per garantire un’ulteriore proroga. La mancanza di adeguamento ha comportato la sospensione del servizio di ritiro dei rifiuti, quindi la riduzione del numero dei centri di raccolta a disposizione sul territorio italiano. Ancora una volta si dimostra che in Italia si legifera, ma l’applicazione della legge è un’altra cosa.

Rosanna Novara Topino

LA VITA BREVE DEGLI OGGETTI
L’obsolescenza programmata e quella percepita sono una follia
che produce pesanti conseguenze.

Ormai quasi tutto ciò che compriamo ha vita breve, se non addirittura brevissima. Cellulari, che dopo pochi mesi smettono improvvisamente di funzionare, elettrodomestici, che paiono coalizzarsi contro i proprietari, per cui può capitare di trovarsi con la lavatrice, il frigorifero ed il televisore, che nel giro di pochi giorni si rompono. Automobili nuove, eppure già in panne sul ciglio della strada, perché la loro centralina elettronica si è messa a fare le bizze. Per non parlare della vita ancora più breve dei capi d’abbigliamento, molti dei quali sono programmati per essere indossati solo una o due decine di volte, dopodiché perdono inesorabilmente la loro bellezza perché stingono, infeltriscono, si rompono le cerniere, perdono gli strass. E sempre più spesso, quando qualcosa si guasta, ci sentiamo dire che farlo riparare costa più che comprarlo nuovo. I pezzi di ricambio spesso non si trovano e sono sempre meno anche i tecnici riparatori di elettrodomestici. Addirittura nel campo informatico si dice che i magazzini non servono, perché tanto un computer, dopo circa un anno è già considerato vecchio, quindi esce di produzione, per fare posto ai nuovi modelli, quindi non vale la pena riempire i magazzini di pezzi di ricambio. E così, sempre più spesso ci ritroviamo a ricomperare le stesse cose, per sostituire ciò che si è rotto. Per non parlare di quando comperiamo oggetti, che andranno a sostituie di analoghi, ancora funzionanti, ma che ai nostri occhi sono diventati vecchi, perché la pubblicità sempre più martellante ci dice che è uscito l’ultimo modello e ci fa sentire inadeguati, se non lo acquistiamo. Siamo insomma nell’era del ricambio, del consumismo più sfrenato, in cui le aziende produttrici delle più svariate merci, per convincerci ad acquistare sempre di più, ricorrono all’obsolescenza programmata ed a quella percepita. In pratica l’obsolescenza programmata consiste proprio nel programmare la rottura degli oggetti dopo un certo numero di giorni, mesi o anni di funzionamento. Un oggetto fatto per durare a lungo, secondo i produttori, uccide il mercato. L’obsolescenza percepita è ancora peggio, perché mediante la pubblicità ed i mass media, i produttori ci inducono a comprare nuovi oggetti, perché quelli che abbiamo, anche se perfettamente funzionanti, sono improvvisamente diventati vecchi, fuori moda. E a proposito di moda, quest’ultima fa la parte del leone nell’indurci a gettare il vecchio per il nuovo. Per non parlare della pubblicità, che ha l’evidente scopo di farci sentire infelici, se non entriamo in possesso di tutto ciò che viene messo in mostra e che, inesorabilmente, verrà gettato poco dopo per altre novità. Tutto questo folle consumismo comporta gravissime ripercussioni sia sull’ambiente, che sulle persone. Produrre continuamente nuove merci comporta la ricerca ed il consumo di materie prime, per le quali si arriva sempre più spesso a scatenare nuove guerre. Basta pensare alle guerre, che le multinazionali si fanno in Congo, attraverso le etnie locali, per appropriarsi del coltan, un preziosissimo minerale utilizzato nella costruzione dei cellulari, che peraltro vengono dismessi dopo pochi mesi dal loro acquisto. La produzione sempre più spinta di merci comporta poi esagerati consumi energetici, quindi consumi di carburanti fossili ed il ricorso all’energia nucleare, con le tragiche conseguenze delle guerre per il petrolio e delle possibili esplosioni delle centrali nucleari, come nel caso di Cheobyl e di Fukushima. Il rovescio della medaglia dell’iperproduzione di merci è poi l’enorme produzione di rifiuti, che stanno ormai invadendo tanto la terra, quanto il mare. Per eliminare queste montagne di rifiuti spesso vengono costruiti inceneritori, le cui velenose esalazioni sono causa di tumori e di gravi malattie respiratorie e cardiocircolatorie nelle popolazioni, che vivono nelle zone limitrofe. Le ripercussioni sulle persone sono altrettanto gravi, perché grazie alla pubblicità viene creata, nei soggetti psicologicamente più deboli, una vera e propria dipendenza dallo shopping, che non si differenzia molto da altre forme di dipendenza, per cui si giunge ad acquistare cose inutili in modo compulsivo, per colmare in realtà un vuoto esistenziale. La sensazione indotta da questo mercato globalizzato è che, nella società attuale, le persone abbiano valore solo finché possono essere consumatori. Una volta perso il loro potere d’acquisto possono essere loro stesse trasformate in merci (pensiamo al traffico d’organi, alle nuove forme di schiavitù, agli anziani spostati da un ospizio all’altro, come pacchi postali). Non è forse il caso di dire «no» a tutto questo, cambiando i nostri stili di vita e riducendo i consumi?

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




Cana (22) «Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»

Il racconto delle Nozze di Cana (22)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)»
Parte prima

Il versetto 2 del capitolo 2 di Gv è molto importante dal punto di vista narrativo perché si colloca sul primo livello del racconto e vuole darci una informazione decisiva, molto più importante di quella contenuta nel versetto precedente, che parla di un matrimonio dove «c’era là anche la madre»; capiremo il motivo più avanti. Il vangelo di Giovanni inizia con il grande prologo (Gv 1,1-18) in cui si descrive non la nascita carnale, come fanno i Sinottici (Mt 1-2 e Lc 1-2), ma la «preesistenza» del Lògos, considerato in se stesso, cioè nella sua eternità che però si relativizza nel mondo in cui «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). Poi prosegue con l’attività di Giovanni il battezzante che culmina nel battesimo nel Giordano (cf Gv 1,19-34) e prosegue con la presentazione dei discepoli di Giovanni, che sono curiosi di conoscere chi è Gesù fino al punto che alcuni lo frequentano e infine lo seguono (cf Gv 1,35-51).
Prepararsi a un ingresso
Per tutto il capitolo primo del quarto vangelo, Gesù appare nello sfondo, dapprima come invisibile nella condizione di «Lògos» e poi nella storia come figura incerta, non definita: è un assente presente. Tutto il capitolo primo, infatti, è solo una preparazione all’ingresso ufficiale di Gesù che viene a inaugurare la sua attività di rabbi itinerante, portatore di una novità e un senso nuovo. Gesù infatti entra in scena, anzi irrompe nel racconto evangelico in Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli». Ecco il primo passo della rivelazione nuova della nuova alleanza che, a sua volta, è ancora preceduto da Gv 2,1, che ci offre due informazioni circostanziali, cioè secondarie, per predisporci più profondamente e intimamente al solenne ingresso di Gesù nella storia della salvezza.
L’autore indugia a lungo, parte da lontano, quasi avesse timore di precipitare gli eventi e rallenta la scena perché vuole mettere in contrasto due presenze e due funzioni: da una parte lo sposalizio e la madre, dall’altra il Figlio con i discepoli. Il greco usa il verbo aoristo indicativo passivo, che in italiano corrisponde al passato remoto passivo: «Fu chiamato/invitato anche Gesù». È la prima notizia importante che l’autore vuole comunicarci dall’inizio del vangelo. Qualcuno potrebbe obiettare che anche in Gv 2,1 c’è un aoristo indicativo medio che in italiano si rende sempre con il passato remoto. Anche qui il verbo dovrebbe indicare la linea principale della narrazione: «Nel terzo giorno uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea» (Bibbia-Cei 2008: «vi fu»). L’obiettore avrebbe ragione se non fosse per il fatto che il passato remoto di Gv 2,1 non è a inizio di frase, ma in greco è collocato esattamente dopo «sei» parole e quindi perde il valore di narrativo verbo principale, cioè non si colloca nella linea primaria del racconto che avrebbe mantenuto, se fosse stato collocato all’inizio della frase. La notizia dello sposalizio pertanto è di natura secondaria e si pone sullo stesso piano di quella che descrive la presenza della madre per la quale si usa il verbo all’indicativo imperfetto: «C’era là la madre».  
L’importanza della lingua e delle parole
Dal punto di vista linguistico, il passato remoto «avvenne», posto dopo sei parole e l’imperfetto «c’era» hanno lo stesso valore temporale, perché le due notizie hanno lo scopo di preparare l’esplosione del primo verbo principale assoluto che fa entrare solennemente in scena Gesù come agente principale: «eklêthē de kài ho Iēsoûs – fu chiamato poi anche Gesù»: è questa l’affermazione solenne e principale a cui l’autore vuole arrivare. Tutto il capitolo primo è una preparazione per questo ingresso che è l’inizio formale del Nuovo Testamento. Sia l’informazione che a Cana si stava celebrando uno sposalizio sia quella che lì c’era anche la madre servono a circostanziare, a spiegare, a rendere più chiara e anche contrastante la presenza di Gesù: le due notizie sono cioè a servizio dell’irruzione di una presenza che nessuno poteva immaginare.
Poiché questo è un punto importante per capire il racconto di Cana, facciamo un esempio, forse più evidente, tratto dai primi tre versetti della Genesi con cui si apre la Bibbia. Se prendiamo le traduzioni in italiano noi leggiamo così:

«1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu» (Gen 1,1-3).
Da questo testo così tradotto, emerge che le informazioni principali sono tre: «Dio creò il cielo e la terra»,  «Dio disse» e «la luce fu»; invece Gen 1,1-2 è solo circostanziale per spiegare le condizioni dell’intervento di Dio perché la vera notizia è «disse Dio». La traduzione ordinaria, anzi banale e letterariamente anche piatta e senza sentimento, travisa il testo ebraico e snatura anche il senso del messaggio teologico, perché l’autore sacerdotale che ci informa sulla creazione, in verità vuole mettere in evidenza e in modo forte e solenne che la creazione avviene attraverso la «Parola» e non con azioni materiali per cui è molto importante che la prima parola narrativa del testo arrivi con Gen 1,3 con l’energico e dirompente: «Disse Dio». Solo in Dio la Parola diventa Fatto e per questo al «disse Dio» corrisponde una esecuzione immediata: «E fu luce». Non è un caso che in ebraico si usa il verbo «’amàr – dire» che nella forma sostantivata «dabàr» significa tanto «detto» quanto «fatto». Per esprimere questa impostazione che solo la linguistica può mettere in evidenza, è necessario, nel rispetto del testo ebraico, tradurre in questo modo:

«1Quando “nel principio del-Dio-creò-il cielo-e-la-terra” 2e la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque, 3disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Il punto di partenza del racconto è Gen 1,3 e deve essere messo in evidenza perché tutto il resto, cioè le quattro informazioni che formano il contesto dei vv. 1-2, potrebbero non esserci e il racconto filerebbe lo stesso dal punto di vista della narrazione principale.
L’autore del quarto vangelo usa lo stesso sistema: prepara il terreno, narra le circostanze, espone le condizioni, crea il contesto per portarci al momento iniziale che coincide emozionalmente con il primo incontro con la persona del Signore Gesù, sulla cui identità tutto il vangelo si interroga: «Chi è Gesù?». Anticipiamo la risposta: Gesù è lo Sposo dell’alleanza nuova, perché egli giunge a Cana, terra pagana (cf Mt 4,15), per annunciare la nuova alleanza, come Israele giunse nel deserto ai piedi del Sinai per ricevere l’alleanza nelle tavole di pietra. Un grande evento sta avvenendo davanti a noi e noi abbiamo il privilegio di essere protagonisti insieme ai discepoli che sono la sorgente dei nuovi credenti.
Uno schema di linguistica testuale
Se consideriamo il testo greco dal punto di vista della linguistica testuale, cioè della narrazione come l’ha concepita l’autore e delle informazioni che intende darci, ci accorgiamo subito che la presenza della madre è una notizia complementare, secondaria, che serve come informazione di supporto per mettere in evidenza la linea principale del racconto che è scandita dai verbi al passato remoto o dal presente indicativo (spesso usato nel racconto come «presente storico», cioè al posto del passato remoto, come vedremo). Usando però il presente, l’autore rende ciò che comunica immediatamente contemporaneo al lettore che così è più coinvolto anche emotivamente. Se proviamo a sistemare in forma grafica questa struttura teologica, mettendo a sinistra la linea narrativa principale e in rientro, più a destra, le frasi secondarie con un verbo finito, abbiamo il seguente schema:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «1E nel terzo giorno, quando uno sposalizio             avvenne in Cana della Galilea ed era
        la madre di Gesù là,    
2allora fu chiamato/invitato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio.    
Allo stesso modo se usiamo lo schema per l’esempio che abbiamo preso dalla Genesi, vediamo il seguente schema, che è copia perfetta di quella del vangelo:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «Quando “nel principio del-Dio-creò-il     
        cielo-e-la-terra”, e la terra era informe
        e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso
        e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque,
3disse Dio:         “Sia la luce!”. E fu luce ».    

Se dallo schema di Gv 2,1-2 che abbiamo presentato, togliamo il versetto 1, il senso del racconto scorre pieno perché la notizia che interessa è che Gesù fu invitato. Per capire la portata di questo invito, al lettore si foiscono alcune notizie di corredo che servono ad ambientare l’azione e a metterla in contrasto con le altre due notizie: l’occasione di un matrimonio e la madre di Gesù che era già presente «prima» dell’arrivo di Gesù. Traduciamo il testo come abbiamo fatto per l’esempio della Genesi, al fine di fae capire i problemi di linguistica che ci permettono di cogliee il senso profondo:

«Nel terzo giorno, mentre a Cana di Galilea si celebrava uno sposalizio e c’era la madre sua, fu invitato alle nozze anche Gesù insieme ai suoi discepoli».
Discepoli, non apostoli
Tutti comprendono subito che l’intento dell’autore è mettere in contrasto e stridore le nozze già in corso e la presenza della madre da una parte con l’arrivo e la presenza di Gesù con i suoi discepoli dall’altra. Per la prima volta infatti, dal vangelo di Giovanni, veniamo a sapere che Gesù ha alcuni discepoli perché nel capitolo precedente non è detto da nessuna parte, mentre sappiamo che alcuni discepoli di Giovanni il battezzante vanno da Gesù e s’interessano alla sua vita (cf Gv 1,35-51). È interessante questa osservazione perché l’autore parla di «discepoli – mathētài» e non di «apostoli – apòstoloi», termine che per altro Gv nel vangelo non usa mai tranne una volta (cf Gv 13,16), a differenza degli altri Sinottici, specialmente Luca per il quale invece è un termine abituale (cf Lc 6,13; 9,10; 11,49; 17,5; 22,14; 24,10).
Il vocabolo «discepolo» in tutto il NT ricorre almeno 266 volte di cui 77 volte solo nel vangelo di Giovanni, cioè quasi un terzo. L’uso di questo termine è una spia che l’evangelista si colloca sul versante della storia, perché intende raccontarci non una riflessione, ma un «fatto», perché il termine «apostolo» è di uso postpasquale, mentre il discepolo è una realtà storica molto diffusa al tempo di Gesù, che pullulava di rabbi seguiti da discepoli: il termine «apostolo» pertanto appartiene alla funzione del dopo pasqua che i discepoli riceveranno dal Cristo risorto (cf Brown, Giovanni, 127).
In questo modo è evidente che il personaggio principale è Gesù e che entra per la prima volta in scena con la solennità quasi di un ingresso trionfale. La frase infatti mette bene in evidenza che sposalizio e madre sono momenti di contorno alla figura centrale di Gesù e, come vedremo fra poco, diventa il peo attorno a cui tutto ruota. È questo il punto centrale del racconto: come il Lògos ha fatto irruzione nella Storia, diventando «carne» cioè fragilità e debolezza, così ora Gesù di Nàzaret entra nella storia di Israele alla guida di un popolo rinnovato, simboleggiato dai «discepoli». In questo modo l’autore mette in evidenza per contrasto un altro fatto: la madre era già «nello» sposalizio che appartiene al tempo dell’AT.
L’arrivo di Gesù è uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Ciò che è «prima» era una preparazione, perché quello che accade «dopo», cioè adesso, è una novità che dà inizio a una svolta irreversibile. La madre vive e agisce «dentro» le antiche nozze perché appartiene all’alleanza sinaitica, simbolo ed emblema di Gerusalemme, «vedova» dello sposo. Nel racconto non si fa alcun accenno a Giuseppe che probabilmente era già morto, per cui la madre è «veramente vedova», senza sposo, in attesa della redenzione del suo popolo.
Gesù è il Messia che entra nelle nozze del popolo d’Israele, le nozze dell’alleanza del Sinai che sono state tradite innumerevoli volte. Egli non appartiene a queste nozze perché «è chiamato/invitato», è solo un ospite che non viene dal passato, ma giunge dal futuro, insieme ai suoi discepoli che assumono la simbologia del nuovo popolo nuziale che si prefigura nei Gentili che lo accoglieranno, a differenza dei «suoi» che lo rifiuteranno (cf Gv 1,11), mentre Gesù viene a portare «una nuova ed eterna alleanza» (Ger 31,31) che non avrà mai fine. La madre rappresenta la sposa/popolo che ha finito il vino del patto e della speranza, vedova e con i figli lontani dal cuore della Toràh, anche se pieni di precetti e di osservanze e rituali. Gesù invece viene da un «altro mondo», il mondo del Padre che lo ha «mandato alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,24).
Bisogna stare attenti quando leggiamo la Scrittura perché in essa anche «uno iota» ha 70 significati che non devono essere lasciati cadere nella banalità o peggio nel vuoto (cf Mt 5,18). Per questo è necessario prestare attenzione anche alla collocazione delle singole parole del testo se vogliamo cogliere l’intenzione dell’autore. Quanto abbiamo espresso nello schema non è un capriccio, ma è provato da altri elementi che lo stesso autore ci suggerisce, perché per introdurre Gesù nella scena della storia della nuova alleanza non usa un verbo qualsiasi, ma lo prende in prestito dalla Bibbia greca della LXX, quando presenta Mosè che «il Signore chiamò/convocò» sul monte Sinai e che abbiamo già illustrato nella 7a puntata (MC 9/2009, p. 21) e che riprenderemo in parte per comodità.

Paolo Farinella
 (22 – continua)

Paolo Farinella




«Ti dico che sei malato»

Le multinazionali del farmaco (seconda ed ultima puntata)

La lobby delle case farmaceutiche ha mille facce. Dagli articoli pseudo-scientifici, alla sperimentazione su popolazioni dei paesi «poveri», alla modifica dei parametri di salute. Per arrivare alle campagne di vaccinazione inutili e dannose.
Occorre una maggior indipendenza dei medici ma anche un approccio più responsabile di tutti rispetto al consumo dei farmaci.

Gli sforzi per incrementare i guadagni delle industrie farmaceutiche non si limitano solo a quanto descritto (si veda MC marzo 2011, prima puntata), già di per sé molto discutibile. Le strategie messe in atto da quella che risulta essere una vera e propria lobby del farmaco sono molteplici e decisamente illecite. Si va dai metodi più innocui, come la promozione di congressi e giornate dedicate alle varie patologie (comprese quelle che fino a qualche anno fa non erano considerate malattie come la menopausa, l’osternoporosi, l’incontinenza o la stipsi), fino a quelli un po’ più subdoli, come inviti a ristoranti prestigiosi e regali di vario tipo per i medici prescrittori dei loro farmaci. Peggio ancora, queste industrie riescono a pilotare le pubblicazioni su alcune riviste scientifiche, spesso al soldo di «Big Pharma» (la lobby farmaceutica), in modo da influenzare i medici nelle loro scelte. In pratica esse assoldano degli autori sconosciuti (i quali fanno spesso capo ad agenzie di marketing) per redigere articoli, che magnificano le qualità dei loro prodotti e mettono in cattiva luce, senza peraltro valide prove scientifiche, i prodotti concorrenti. Oppure mitigano i rischi, che l’assunzione del farmaco pubblicizzato può comportare, o ancora promuovono farmaci non adeguatamente testati. Tali articoli vengono poi sottoposti alla firma di un luminare medico, che non ha partecipato ad alcuna ricerca sul farmaco in questione, ma è disposto a sottoscrivere l’articolo, per avere una pubblicazione in più nel suo curriculum. In tal modo l’articolo acquisisce credibilità, viene pubblicato su una rivista scientifica e quindi utilizzato per pubblicizzare il proprio farmaco presso i medici curanti, che purtroppo non sempre cercano le prove scientifiche di quanto viene pubblicato.
Al fine di contrastare questa pratica, dannosa per la vera informazione scientifica, ma soprattutto per i pazienti, si è costituito un gruppo di operatori sanitari, denominato «No grazie, pago io», con omonimo sito internet, impegnato a far sì che la propaganda farmaceutica non guidi la pratica clinica.

Cavie (umane) africane
Ciò che fa veramente inorridire, però, è il comportamento delle multinazionali dei farmaci nei paesi in via di sviluppo, per quanto riguarda le sperimentazioni delle nuove molecole. Purtroppo in questi stati abbondano le persone malate e senza diritti, da sottoporre a test improponibili in Occidente. Si moltiplicano infatti le testimonianze su test clinici, che non rispettano i diritti umani più elementari, pur di arrivare a tempo di record alla commercializzazione di un prodotto. I paesi dove si è maggiormente spostata la sperimentazione delle industrie del farmaco sono quelli africani, oltre a quelli dell’Europa dell’Est e dell’America Latina.
Basta ricordare, ad esempio, quanto avvenne nel 1996 nell’ospedale di Kano in Nigeria. Nel paese africano, quell’anno vi fu un’epidemia di meningite, che uccise 15.800 persone. La Pfizer decise di sperimentare in quell’ospedale un suo nuovo antibiotico, il Trovan, senza alcun controllo da parte della Food and Drug Administration (Fda), l’ente statunitense che dà il via libera ai farmaci, ma che non ha praticamente voce in capitolo sugli esperimenti effettuati fuori dagli Stati Uniti.
Secondo la testimonianza dei medici dell’Ong Medici senza frontiere, che operavano nello stesso ospedale e curavano i malati con un vecchio, ma efficace antibiotico, il cloramfenicolo, i ricercatori della multinazionale assoldarono 200 bambini malati, somministrando il Trovan a 99 di loro ed un antibiotico già rodato di controllo (il cefotriaxone) agli altri 101.
La sperimentazione partì male e proseguì peggio, perché venne intrapresa senza il consenso scritto (obbligatorio) dei genitori, adducendo come scusa che si trattava di persone analfabete. Inoltre la prova venne condotta solo per 6 settimane, mentre negli Stati Uniti le autorità richiedono un anno di lavoro, per convalidare un nuovo farmaco.
Infine, il fatto più grave, la terapia a base del nuovo antibiotico venne mantenuta per molti giorni, senza una apprezzabile risposta da parte dei pazienti. Risultato: morirono 11 bambini e ci furono numerosi casi d’infezione, che causarono sordità, paralisi, lesioni cerebrali e cecità. A seguito di questa sperimentazione, le autorità statunitensi permisero la commercializzazione del Trovan solo per gli adulti, a causa dei frequenti danni al fegato e di alcune morti osservate anche nei paesi occidentali.
In Europa questo farmaco venne tolto dal commercio.

Scrupoli addio
La vicenda della sperimentazione del Trovan ha dimostrato che lo spostamento della ricerca farmacologica nei paesi poveri porta con sé molto spesso soprusi, scorrettezze e cattiva qualità degli studi. In queste zone ci sono più malati, quindi più cavie. Per sperimentare un nuovo farmaco, prima di metterlo in commercio, servono circa 4.000 persone. Poiché ogni giorno di ritardo, per il lancio di un nuovo farmaco, costa negli Stati Uniti 1,3 milioni di dollari alla ditta produttrice, si capisce la fretta di effettuare la sperimentazione e quindi di reclutare cavie umane nel più breve tempo possibile. Ecco quindi il vantaggio di spostare la sperimentazione nei paesi del Sud del mondo.
Non sono poi da sottovalutare i costi della sperimentazione. Secondo fonti industriali, un esperimento complesso costa alla casa farmaceutica circa 10.000 dollari per paziente nell’Europa occidentale, 3.000 dollari in Russia e meno della metà in Africa. Inoltre, parallelamente ai flagelli della malaria e della tubercolosi, l’Aids sta preparando l’Africa ad essere il laboratorio ideale per le sperimentazioni senza scrupoli.
In molte circostanze, le multinazionali dei farmaci hanno dimostrato di avere a cuore solo il loro profitto e non la salute pubblica, inducendo le associazioni mediche a modificare le linee guida e i parametri, che determinano lo stato di salute o di malattia (ad esempio abbassando progressivamente il livello dei valori normali della glicemia, della colesterolemia e della pressione arteriosa). Per cui chi, fino al giorno prima, era considerata una persona in salute, in base agli esami di laboratorio, improvvisamente si è ritrovato malato e quindi indotto ad assumere farmaci per lo più inutili, ma sicuramente non scevri di effetti collaterali. Un semplice modo per allargare il giro d’affari.

Attenti al vaccino
Spesso, inoltre, il potere di queste multinazionali è tale da convincere i politici a promuovere iniziative a livello nazionale, come le vaccinazioni di massa. Un tipico esempio del genere è rappresentato dalla vaccinazione gratuita per le ragazze adolescenti fino a 12 anni contro il carcinoma del collo dell’utero, correlato con l’infezione da «papilloma virus umano» o Hpv. Da 3 anni in Italia viene condotta la campagna vaccinale contro l’Hpv e il relativo vaccino viene somministrato dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) gratuitamente alle ragazze fino a 12 anni e a prezzo agevolato fino a 25 anni. La campagna pubblicitaria per la vaccinazione, con tanto di spot televisivi, giornate dedicate, convegni e articoli sui principali quotidiani e settimanali è stata martellante e spregiudicata, arrivando a generare sensi di colpa nei genitori contrari. Al pubblico sono però stati accuratamente nascosti alcuni dettagli della vaccinazione e cioè: 1) esistono circa un centinaio di ceppi Hpv, di cui circa 15 sono oncogeni ad alto rischio, cioè capaci di indurre tumori, ma i vaccini usati (il Gardasil della Merck Sharp & Dohme e il Cervarix della GlaxoSmithKline) sono diretti rispettivamente solo contro 4 e 2 di questi ceppi, lasciando tutti gli altri liberi di agire; 2) è gratuita solo la prima vaccinazione, ma quelle che dovranno essere eseguite a distanza di 5 anni sono a pagamento (più di 500 euro); 3) le sperimentazioni sul vaccino si sono svolte nell’arco di 5 anni, ma il tumore della cervice uterina impiega tra i 10 ed i 20 anni a svilupparsi, quindi, in effetti, non c’è stato il tempo di verificare che il vaccino funzioni veramente; 4) sono stati tenuti nascosti gli effetti avversi del vaccino, che in alcuni sfortunati casi ha provocato la morte in giovani ragazze, fino a quel momento in buona salute, e inoltre ha provocato alcune reazioni particolarmente gravi di ipersensibilità, come l’anafilassi, la sindrome di Guillan-Barrè, la mielite trasversa, la pancreatite ed episodi di tromboembolia (vedi il gruppo creato dall’autrice su Facebook «Le nostre figlie non sono cavie da esperimento»).
Vale quindi la pena di fare alcune considerazioni. Innanzitutto sarebbe auspicabile una maggiore indipendenza dei medici dalle pressioni esercitate dalle industrie del farmaco e una loro volontà di ricercare informazioni scientifiche frutto di ricerche indipendenti e non sovvenzionate dalle stesse industrie. In secondo luogo dovremmo noi stessi cambiare il nostro atteggiamento, per quanto riguarda l’uso dei farmaci, utilizzandoli quando sono effettivamente necessari, senza cadere in questa nuova forma di consumismo. Andrebbe sempre ricordato che il medico migliore non è colui, che prescrive i farmaci che vogliamo, ma quello che sa consigliarci per il meglio, dicendoci qual è il momento giusto per smettere di assumerli. Eviteremmo in tal modo di fare del male a noi stessi, dal momento che non possiamo essere certi di non andare incontro ad effetti collaterali e nel contempo non alimenteremmo un giro d’affari spregiudicato.     

Rosanna Novara Topino


Farmaci via Inteet

Da qualche anno sta diventando sempre più fiorente un nuovo mercato: quello dei farmaci via internet. Una recente indagine dal titolo «Fake medicines: a global issue» (Farmaci contraffatti: un problema globale), presentata dal gruppo socialdemocratico al Parlamento europeo ha evidenziato un aumento delle vendite di farmaci, molto spesso contraffatti, in rete. Sono infatti sempre più frequenti i siti di sedicenti farmacie on line, che esibiscono falsi sigilli di approvazione, che imitano ad esempio quello della FDA (Food and Drug Administration) o quello di PharmacyChecker, un vero sito certificatore. Per essere più convincenti, alcune farmacie on line dichiarano di avere una sede e dei magazzini, di cui riportano una foto ed i relativi indirizzi, ma una semplice indagine con Google Maps rivela facilmente l’infondatezza di tali dichiarazioni. Secondo l’indagine, il mercato dei farmaci taroccati è cresciuto del 400% dal 2005 ed inoltre sono più di 100.000 ogni anno i decessi causati dai questi farmaci. Sempre secondo questa inchiesta, il 62% dei farmaci venduti on line è contraffatto, il 95,6% delle farmacie on line è illegale, nel 94% dei siti web l’identità del farmacista non è verificabile ed oltre il 90% delle farmacie on line vende senza ricetta medicinali soggetti invece a prescrizione. In Europa almeno una persona su 5 ha già acquistato farmaci on line e gli Stati europei dove il commercio di farmaci in rete è più fiorente sono Germania ed Italia. Secondo un’altra indagine dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), la disinformazione su questo argomento, nel nostro Paese, è pressoché totale. Il 40% della popolazione, ad esempio, non sa che la vendita di farmaci on line è illegale e pensa che si possano vendere liberamente i farmaci, che non necessitano di prescrizione, il 41% non sa nulla dell’argomento e solo uno sparuto 19% è consapevole dell’illegalità di questo commercio. Inoltre il 33% degli italiani pensa che l’acquisto dei farmaci in rete sia un fatto positivo e vantaggioso. Il fenomeno dell’acquisto on line dei farmaci è particolarmente preoccupante, quando gli acquirenti sono dei minori, che spesso acquistano farmaci anoressizzanti o dopanti, in totale anonimato e senza alcuna prescrizione. In generale, l’acquisto di farmaci on line espone a gravi pericoli. I farmaci contraffatti possono essere suddivisi in 4 categorie: prodotti che contengono gli stessi principi attivi (ottenuti legalmente o illegalmente) dei farmaci originali e gli stessi eccipienti, nella giusta quantità; prodotti, che contengono le stesse componenti, ma non nella giusta quantità; prodotti, che contengono principi non attivi o altre sostanze in sé non nocive; prodotti, che non presentano gli stessi principi attivi dei farmaci originali o che contengono addirittura sostanze nocive. Inoltre i farmaci venduti on line possono risultare pericolosi per difetti del confezionamento o per una cattiva conservazione durante il loro immagazzinamento o trasporto.
Secondo l’OMS, il 7% di tutti i farmaci venduti al mondo è contraffatto, con punte del 30% in Brasile e del 60% in alcuni Stati africani. Il valore di questo commercio è stimato intorno ai 10 miliardi di euro. Gli antibiotici sono la categoria di farmaci più contraffatta, rappresentando circa il 45% del totale di questi farmaci, ma ci sono anche i falsi contraccettivi, i falsi antimalarici ed i falsi vaccini. In Europa ed in Nord America il fenomeno della vendita dei farmaci contraffatti è in forte aumento. In questo caso, i farmaci più venduti sono quelli «life-style», come Viagra, Cialis, Levitra, ma anche gli antidepressivi ed i farmaci per le patologie cardiovascolari e respiratorie.

Rosanna Novara Topino

Alla ricerca della pillola magica

Si definiscono farmaci inutili, per i quali non è dimostrata l’efficacia, oppure che sono efficaci per la cura di una determinata patologia, ma vengono spesso prescritti per altre indicazioni. Sostanzialmente possono essere ritenuti inutili tutti quei farmaci, per cui non esiste un rapporto beneficio-rischio favorevole.
Possiamo classificare i farmaci inutili in 3 categorie.
1) La prima è quella dei farmaci, per cui non esistono evidenze scientifiche circa la loro reale capacità di migliorare la qualità della vita, o la sua durata, o di diminuire i sintomi patologici. Tra questi abbiamo una pletora di farmaci di uso comune, tra cui  epatoprotettori, vasodilatatori, ricostituenti, immunomodulanti, farmaci per aiutare la memoria, farmaci anti-invecchiamento, integratori alimentari. Spesso chi fa ricorso a questi farmaci, cerca di risolvere in tal modo dei problemi, che nulla hanno a che vedere con una patologia. Basta pensare all’inutilità dei farmaci per la memoria consigliati per migliorare il rendimento scolastico, quando è chiaro che le cause di un cattivo risultato scolastico non sono certo risolvibili con un farmaco (specialmente quando tra le cause vi sono la carenza d’affetto, la disattenzione dei genitori o l’incapacità di certi insegnanti).
2) Alla seconda categoria appartengono i farmaci utilizzati per contrastare le cattive abitudini di vita. Ad esempio, i fumatori fanno spesso uso di farmaci per contrastare mal di gola , tosse, catarro, bronchite, quando è evidente che l’irritazione delle vie respiratorie è causata, in questo caso, dal fumo di tabacco e quindi basterebbe smettere di fumare. A questa categoria appartengono anche i farmaci contro l’obesità, di cui molte persone potrebbero fare tranquillamente a meno con una dieta appropriata ed una maggiore attività motoria.
3) Alla terza categoria appartengono i farmaci utilizzati in modo improprio. Tutti i farmaci hanno infatti precise indicazioni terapeutiche stabilite sulla base di sperimentazioni e regolate dalle autorità di controllo. Pertanto, il loro utilizzo per altre patologie non è opportuno, come nel caso degli antiulcerosi, spesso utilizzati per migliorare la digestione, o contro l’acidità di stomaco o per contrastare l’effetto di altri farmaci. Anche gli ansiolitici come le benzodiazepine e gli antidepressivi possono rientrare in questa categoria, perché spesso prescritti in modo del tutto inappropriato, per tenere tranquilli anziani. Tra l’altro sempre più spesso si fa ricorso a farmaci psicotropi, per tenere a bada i bambini un po’ agitati, senza cercare di approfondire il motivo dei loro disturbi comportamentali. Infine si possono ascrivere a questa categoria gli antibiotici, utilizzati impropriamente nel corso di patologie di origine virale, come l’influenza, quando è certo che tali farmaci non hanno alcuna efficacia contro i virus.
Purtroppo, complici le multinazionali dei farmaci con l’enorme mole di pubblicità per i loro prodotti, la nostra sta diventando una società medicalizzata e farmacocentrica, in cui milioni di persone pensano che esista una pillola magica per tutti i loro problemi e non si rendono conto, in tal modo, di esporsi ad inutili rischi legati ad un esagerato consumo di farmaci.

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




Cana (21) «C’era là la madre di Gesù»

Il racconto delle nozze di Cana (21)

Gv 2,1c: «[Uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea] ed era la madre di Gesù là»
(kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi)
Sapevamo già che Gesù ha relazioni parentali particolari o almeno interessanti: è il «Figlio unigenito che viene dal Padre» di cui viene a farci «l’esegesi» (Gv 1,14.17); è «il Figlio di Dio» testimoniato da Giovanni il battezzante (cf Gv 1,34) e riconosciuto da Natanaele che lo va a cercare di notte (cf Gv 1,49). Sapevamo anche che Gesù stesso si autopresenta come «Figlio dell’uomo» (Gv 1,51) e dai «vangeli dell’infanzia» sia di Mt che di Lc sappiamo anche che ha due genitori: Giuseppe e Maria che egli tratta abbastanza malamente quando ricorda loro che devono stare al loro posto: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49), non considerando l’angoscia e il dolore dei due malcapitati che credendolo scomparso si sono disperati a cercarlo. Si rivolge ai genitori contrapponendoli a un altro «Padre». Il testo di Lc è interessante perché probabilmente è la versione cristiana del rito ebraico della «Bar Mitzvàh – Figlio del Comandamento», il rito del passaggio alla maggiore età di ogni ebreo maschio al compimento del dodicesimo anno e all’ingresso nel tredicesimo. Da questo momento ogni Ebreo diventava maggiorenne e poteva leggere la seconda lettura (i profeti) nella liturgia della sinagoga. Noi ora non possiamo occuparcene.
Dalla sposa alla madre
L’autore del IV vangelo a sua volta ci informa che c’è una «madre» (cf Gv 2,1) che partecipa alle nozze: non sappiamo se come semplice invitata o come parente. Anche questa «madre» però in Gv ha una particolarità: è sempre senza nome perché non viene mai indicata ed è un altro indizio che ci costringe a salire di livello. Una precisazione è necessaria: nella letteratura Giovannea quando si parla di «madre» indica sempre Maria di Nàzaret definita secondo il costume orientale con la sua funzione (cf Gv 2.1.3.5.12; 19,25.26.27); quando si parla di «sposa» si indica invece sempre la Chiesa (Gv 3,29; Ap 18,23; 21,2.9; 22,17). È importante sottolinearlo, perché nel racconto di Cana abbiamo «la madre», ma non «la sposa», nonostante si tratti di «uno sposalizio»; bisogna intendere cosa vuole dirci l’autore.
Riguardo alla parentela, Gesù è descritto da Gv come «unigenito del Padre» (Gv 1,14.18), «Figlio di Dio» (Gv 1,34.49) e «Figlio di Giuseppe» (Gv 1,45), per cui ora abbiamo un nuovo rapporto di parentela, preludio dei tempi nuovi: inizia l’èra della mateità della Chiesa, la sposa che genera la nuova umanità, immagine del Figlio.
Dal punto di vista delle relazioni umane, c’è chi pensa che la presenza della «madre di Gesù» sia dovuta a legami di parentela. Scrive a questo proposito Raymond E. Brown: «Esiste una tradizione apocrifa che Maria fosse la zia dello sposo, che un prefazio latino dei primi del III secolo identifica come Giovanni figlio di Zebedeo» (Giovanni, I,126). Un fatto è certo: la Madre è presente alla festa di nozze; anzi «doveva» esserci (v. più sotto la spiegazione dell’uso dell’imperfetto del verbo «essere»), ma anche perché da nessuna parte si dice che era stata invitata, come invece si afferma nel versetto seguente per Gesù e per i suoi discepoli.
Se il motivo della presenza fosse stata la parentela, anche Gesù avrebbe dovuto essere trattato come parente e avrebbe dovuto essere già là. Non si capisce perché per lui l’evangelista sente la necessità di dire che «era stato invitato» (Gv 2,2), mentre non sente questa necessità per la madre. Gesù e i suoi discepoli possono essere stati invitati da qualche conoscente, come Natanaele che era di Cana, il quale poteva avere interesse che la presenza di Gesù, personaggio noto, avrebbe dato certamente lustro e importanza al matrimonio.
Il motivo però della differenza tra la madre, che è «già» sul luogo delle nozze, e Gesù, che giunge all’inizio della festa, non bisogna cercarlo nel grado di parentela o in un invito interessato, perché ci porremmo sempre al livello immediato delle banalità; bisogna invece andare oltre le apparenze e penetrare il simbolismo che Gv ha inteso esprimere.
La semplice constatazione che «la madre di Gesù era là» potrebbe essere solo una notizia di cronaca, ma in Gv nulla è scontato e infatti dietro il senso domestico di una presenza materiale a una festa nuziale come tante altre, c’è la dimensione teologica che l’autore vuole mettere in evidenza.
Abbiamo detto spesso, e lo sottolineiamo di nuovo, che Gv usa lo stile della duplicità di significato: dietro le parole materiali di uso comune si nasconde la teologia cristologica. Non si tratta più dell’importanza del senso comune delle singole parole, ma del fatto straordinario che ciascuna di esse ha «settanta significati» per affermare la ricchezza inesauribile della Parola di Dio che nessun linguaggio, nessuna parola possono pretendere di contenere.
Qui ci troviamo espressamente di fronte a una «rivelazione» della personalità di Gesù, il Figlio di Dio. Se dal Sinai scendeva una Legge pietrificata, a Cana avviene la «manifestazione», l’epifania della persona stessa di Dio che si presenta alle nozze dell’alleanza nuova, come lo sposo atteso dall’amante del Cantico dei Cantici, e questo sposo è Gesù.
Significato dell’imperfetto «era»
L’abbinamento del verbo essere con l’avverbio «era … là» è tipica di Gv, che in tutto il vangelo la usa dieci volte, di cui due nel racconto di Cana (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26). L’uso, infatti dell’avverbio locativo «là – ekêi» con il verbo «essere» al tempo imperfetto, ritorna anche in 2,6: «C’erano poi là sei giare di pietra» (Gv 2,6). Questo richiamo ravvicinato, e identico sintatticamente, è fatto apposta per creare un parallelo tra la madre e le giare:
– Gv 2,1: «Ed era la madre di Gesù là»
                (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).
– Gv 2,6: «Poi erano là sei giare di pietra»
                (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).

Il verbo «essere» al tempo imperfetto ha valore qualitativo e indica una azione continuativa e duratura nel passato e intende dire che la madre stava «là» fin dall’inizio, come dire che «c’era da sempre».
Ogni volta che l’autore del IV vangelo deve introdurre un personaggio importante con un ruolo particolarmente significativo, usa sempre il tempo imperfetto:
– Gv 2,1: «C’era la madre di Gesù».
– Gv 3,1: «C’era tra i farisei un uomo di nome
                Nicodemo».
– Gv 4,46: «C’era un funzionario del re».
– Gv 5,5: «C’era lì un uomo che da 38 anni era malato».
– Gv 11,1: «C’era un malato, Lazzaro».
– Gv 12,20: «C’erano dunque tra quelli che erano saliti
                    per il culto, alcuni greci».

L’uso dunque dell’imperfetto del verbo «essere» è costante in Gv e forma quasi uno schema di presentazione importante (cf SERRA, Le nozze di Cana, 202-204).
La madre  e le giare
La sua presenza non è casuale: non è venuta per le nozze, ma c’era già come se aspettasse quelle nozze che sono il motivo della sua attesa. Lo stesso si deve dire delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» prima ancora che le nozze iniziassero. È evidente che Gv ci vuole comunicare un simbolismo particolare sia della madre che delle giare, perché l’una e le altre non sono coreografiche, ma hanno un ruolo preciso e una funzione determinante. La madre e le giare «erano là», cioè aspettavano che finalmente avesse luogo lo sposalizio. La madre rappresenta il popolo d’Israele in attesa di essere ripreso come «sposa» dell’alleanza nuova rinnovata, perché è reduce dalle nozze dell’antica alleanza sinaitica finita in esilio, cioè in corruzione.
Le giare sono il segno visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137) che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
a) le giare sono pronte per innovare la purificazione che il popolo dovette fare ai piedi del Sinai: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
b) la madre è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre qui assume un connotato di dirompente profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino coservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio ora scorre abbondante e invade la Chiesa, l’Israele fedele, il nuovo popolo che non è sostitutivo del primo Israele, ma ne è la continuazione nel segno del compimento.

L’espressione «la madre di Gesù» è una costruzione con un soggetto (la madre) e un genitivo (di Gesù) che tecnicamente si chiama «genitivo adnominale», perché riceve senso compiuto e pieno dal nome da cui dipende (cf R. Cantarella – C. Coppola, Nozioni di Sintassi Greca, Milano 1971, § IX,II,1). Senza il nome sarebbe semplicemente «la madre di…» nessuno.
Madre, Israele e Messia
Maria è chiamata sempre «la madre di…» Gesù, espressione che ricorre ben dieci volte su undici occorrenze (cf Gv 2,1.3.5.12; 6,42;19,25[2x].26[2x].27). La sola volta in cui ricorre il termine «madre» non riferito a Gesù è nelle parole di Nicodemo, alle prese con il tentativo di rientrare da adulto nel grembo di sua madre (cf Gv 3,4). Il motivo dell’anonimato è di due ordini: la madre è conosciuta e tutti sanno chi è, ma anche perché non è importante la sua persona, ma ciò che rappresenta, il simbolo che rappresenta. Approfondiremo questo aspetto nel commento al v. 4, quando Gesù si rivolge alla «madre» con l’appellativo di «donna».
Ancora oggi in oriente presso gli Arabi, «madre di…» è titolo onorifico, perché la mateità dà alla donna un nome nuovo, facendole assumere una personalità nuova che le fa perdere il nome proprio e subordinandola all’esistenza del figlio (G. Segalla, Giovanni, 160). Nel Cantico dei Cantici, lo sposo [il re Salomone], nel giorno delle nozze, è incoronato dalla madre (cf Ct 3,11; cf Manns, Jésus 72).
A Cana la madre «era là» per incoronare il figlio, l’«amato del Padre», che con le sue nozze conclude l’alleanza annunciata dal profeta Geremia (cf Ger 31,31) e porre fine al lutto di Rachele perché inizia la nuova vita dei suoi figli che tornano dall’esilio della morte. La madre deve incoronare il figlio nel segno dell’acqua-vino e accompagnarlo fino all’ora suprema delle nozze, l’ora del sangue e dell’acqua (cf Gv 19,34) quando sulla croce sarà spremuto come l’uva matura fino a dare il suo Spirito vitale all’umanità nuova rappresentata dalla madre/nuova Eva e dal discepolo/ nuovo Adam, consegnando loro lo Spirito (cf Gv 19,30).
In questo senso, per Gv «Madre di Gesù» è un titolo cristologico, come cristologica è la prospettiva di tutta la scena. Maria, figura del popolo nuziale dell’antica alleanza, ora è presente alle nuove nozze di Dio con l’umanità, simboleggiate nelle nozze di Cana.
Maria è la personificazione del popolo d’Israele che attende lo sposo e Gesù, suo figlio, è lo sposo che giunge per «prendere possesso» legittimamente del suo popolo. Il nome del villaggio «Cana», in ebraico «Qanàh», significa «acquistare/comprare»: il luogo geografico dell’intervento di Gesù è profetico perché esprime già il valore teologico dell’azione. Non si tratta di un matrimonio di routine, ma di un evento salvifico perché il Messia viene nel mondo «per acquistare» (redimere) non più Cana, ma la «madre» che rappresenta il popolo di Israele. Rachele era rimasta sepolta sulla via di Betlemme a piangere per i suoi figli che andavano esuli in Egitto (cf Ger 31,15; Mt 2,18). A Cana invece «c’è la madre» che accoglie il Figlio/ Messia per essere nuovamente resa feconda di figli.
Madre e popolo messianico
A Cana inizia la nuova mateità nella persona della madre, «consacrata» genitrice del popolo Israele rinnovato. Questo processo troverà il suo compimento ai piedi della croce, quando non sarà più simbolo di un Israele, ormai realtà troppo esigua, ma in rappresentanza di Eva, «la madre di tutti i viventi» (Gen 3,20), riceverà dal Figlio suo, «l’amato dal Padre», la consegna del secondo figlio, «il discepolo che egli amava» (cf Gv 19,26; 20,2; 21,7.20), immagine e figura di Adamo e della nuova umanità «“ri-”creata». Ciò che comincia a Cana si perfeziona al Calvario, che è il vertice del vangelo, ai piedi della croce, là dove «l’ora» che a Cana vide «il principio dei segni» (Gv 1,11) esplode nella manifestazione/rivelazione al mondo della «gloria di Dio» nell’uomo crocifisso. Come a Cana la madre era già lì per consumare l’attesa del popolo orfano, così anche al Calvario, la madre è ancora già e sempre lì: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre …» (Gv 19,25).
Sinai, Cana e Gòlgota stanno insieme e si richiamano a vicenda: l’uno non può sussistere senza gli altri. Cana sta tra i due monti «salvifici» a fare da legame teologico. Al Sinai si celebra la nuzialità come promessa: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24,7), sintetizzato dal profeta nella formula sponsale: «Voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio» (Ger 11,4). Dal monte Sinai con le tavole di pietra discende, la volontà di Dio si essere il «Dio di Israele», l’identità di Israele, l’unità della nazione come popolo e il fondamento di questa unità che è la Toràh, la Legge come coscienza e come compito.
A Cana si compiono le nozze: lo sposo è accolto dalla madre. Cessa il lutto, finisce la vedovanza, inizia la nuova storia di Israele.
Al Gòlgota la Toràh non è più scritta sulla pietra, ma sulla carne viva del Figlio che versa il sangue della vita per dare vita all’acqua dell’umanità arsa dalla fame e sete della Parola di Dio (cf Am 8,11): «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscirono sangue ed acqua» (Gv 19,34). Come Eva uscì dal fianco di Adamo, così la nuova umanità esce dal fianco di Cristo, attraverso l’acqua del battesimo e il sangue dell’eucaristia che compiono quanto è stato visto e sperimentato a Cana con l’acqua trasformata in vino.
Il Sinai, come abbiamo già visto nel capitolo dedicato al vino, era considerato dagli Ebrei come la cantina di Dio, dove era conservata fin dalla creazione del mondo il vino messianico di cui la Toràh era la premessa e la promessa. Sulla croce il sangue di Cristo è versato tutto, consumando ogni riserva come aveva profetizzato il gesto di Cana, quando i servi riempiono le giare di pietra «fino all’orlo».
 (21 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (20) Tre villaggi per una sposa assente

Il racconto delle nozze di Cana (20)

Gv 2,1b: «[Uno sposalizio] avvenne a Cana di Galilea»
La Bibbia-Cei, ultima edizione (2008) fa spesso una scelta semplificativa nella traduzione, perché ha come obiettivo la proclamazione liturgica, e predilige quindi la comprensione immediata (orecchiabile) all’esattezza semantica del testo. Questo fatto crea problemi di notevole rilievo: da un lato esprime la coscienza che il popolo di Dio ha poca dimestichezza con la «Parola»; dall’altro rivela espressamente che si fa un uso strumentale della Bibbia che diventa così «supporto», ora della liturgia, come ieri lo fu della teologia. Sarebbe opportuno, anzi necessario, che la Bibbia fosse «incontrata» in se stessa indipendentemente dalla teologia o dalla liturgia o spiritualità. Sono queste che devono nutrirsi e «fondarsi» sulla Bibbia, non questa giustificare quelle. Se «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), noi ci troviamo non davanti a un libro, ma a una Persona che deve essere incontrata, frequentata e conosciuta.
Un esempio di questa scelta poco lungimirante è proprio Gv 2,1 che la Bibbia-Cei traduce con «Il terzo giorno “vi fu” una festa di nozze a Cana di Galilea». Dire che «vi fu» uno sposalizio significa dire una banalità, affermare il fatto in sé, neutro e senza alcuna incidenza nella vita di chi legge. Il testo della Cei guarda al fatto delle nozze come un fatto passato, occasionale, di quel tempo senza alcuna connotazione o conseguenza.
L’evangelista invece connota lo sposalizio e dice con solennità che vi sono conseguenze che ci riguardano. Il testo greco, infatti, riporta: «kài thê(i) hēmèra(i) thê(i) trìtēē gàmos eghèneto en Kanà thês Galilàias – E nel terzo giorno uno sposalizio “avvenne/accadde” in Cana della Galilea». Anche un lettore che conosce poco il greco si accorge immediatamente che il verbo «eghèneto – avvenne/accadde», in italiano un passato remoto, ha qualcosa di grandioso in sé, perché è la spia che qualcosa di nuovo e non previsto sta per accadere. Dal punto di vista della morfologia il verbo è una 3a persona singolare del tempo aoristo indicativo medio del verbo «ghìnomai – divento» che in forma impersonale si traduce con «accade/avviene». Si trova in due costruzioni: «kài eghèneto» e «eghèneto dé» che traducono l’ebraico «wayehî», espressione frequentissima nella Bibbia. Spesso è usata all’inizio di frase sia in ebraico che in greco per dare importanza narrativa alla frase che segue, che altrimenti sarebbe una frase secondaria.
Nella doppia forma l’espressione ricorre circa 60 volte nel NT (greco); si trova 619 volte nell’AT greco (versione della LXX), mentre nella Bibbia ebraica si conta 816 volte. L’espressione è pregnante, perché si trova sempre a inizio di frase compiuta e ha un valore narrativo, cioè, mette in primo piano quello che segue immediatamente, rendendolo necessario per la comprensione dei lettori o ascoltatori. Una cosa è dire: «Vi fu una festa di nozze» e altra cosa è affermare: «Avvenne uno sposalizio»; oppure, non è lo stesso dire: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse un censimento su tutta la terra» (Lc 2,1), perché è ben diverso dire o scrivere: «Avvenne che in quei giorni, un decreto di Cesare Augusto …».
La seconda forma annuncia con solennità che non si tratta di un fatto banale, ma di un evento portatore di senso e mette in guardia il lettore/uditore che qualcosa di unico e straordinario sta succedendo. Questo fatto spiega anche perché la Scrittura ne fa uso ricorrente, quasi costante: è un modo letterario per rendere imminenti, contemporanei e vivaci gli interventi di Dio che in questo modo entra nella storia con un passo che imprime cambiamenti e suscita eventi rilevanti: «Il Dio biblico imprime le orme del suo passaggio nell’argilla della nostra ferialità» (Serra, Le nozze di Cana, 191). Se lo sposalizio «storico» di Cana è un fatto banale in se stesso, non lo è più nella penna dell’autore del vangelo di Giovanni che ci avverte che quel fatto banale è portatore di un senso nuovo che bisogna scoprire.
La geografia di Dio
L’avvenimento che «accade», cioè lo sposalizio, si compie in una località geografica: Cana della Galilea, sulla cui identificazione da secoli si discute con altee posizioni. L’espressione «Cana della Galilea» nel vangelo di Giovanni ricorre 4 volte (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e viene a formare una inclusione, trovandosi sia all’inizio del vangelo (2 volte nel racconto delle nozze di Cana) sia alla fine (apparizione del risorto ai discepoli). In mezzo ritroviamo la stessa espressione «Cana della Galilea» all’inizio del racconto della guarigione del figlio del centurione romano (cf Gv 4,46), per cui potremmo dire che i primi quattro capitoli del vangelo si svolgono «da Cana a Cana», passando per Gerusalemme (cf Gv 2,13.23; 5,1), il Giordano (cf Gv 3,23), la Samaria (v. la donna dai cinque mariti + uno; cf Gv 4,4) e Cafaao (cf Gv 2,12).
È la geografia della salvezza perché senza geografia Dio non parla e non agisce: l’incarnazione e la rivelazione dell’alleanza deve avvenire nella «storia» cioè in «un luogo» che diventa sacramento dell’incontro con Dio. Nessun credente può vivere senza geografia, perché questa segna i confini della propria esperienza, unita alla storia come sviluppo degli eventi. Nessuna spiritualità è possibile al di fuori della geografia della storia individuale e di popolo perché il Dio di Gesù Cristo è «Emmanuel, Dio-con-noi», cioè Dio verificabile in un tempo e in uno spazio. Gv non cita questi luoghi per curiosità o per amore di cronaca, ma per ragioni teologiche: è il Lògos che vive «presso Dio, rivolto verso Dio, che era Dio» che opera da «Cana a Cana», che «sale a Gerusalemme», oppure «parte per la Galilea» oppure ancora si sposta «nella regione della Giudea».
È il Lògos eterno, la Sapienza esistente prima della creazione che «pianta la sua tenda» nella geografia e nella storia di Israele, il nuovo Tempio dove possiamo incontrare Dio faccia a faccia senza il terrore di dovere morire (Gen 33,31; Es 33,11).
Cana: una o tre?
Il villaggio di Cana, nel IV Vangelo, è sempre accompagnato dal complemento denominativo/specificazione «della Galilea», quasi un accorgimento necessario per distinguerlo da altre omonimie. Ancora oggi essa indica la località, custodita dai francescani e frequentata dai pellegrini che la tradizione indica come il luogo del «segno» dell’acqua trasformata in vino. Le ricerche archeologiche e gli studi delle fonti hanno però riproposto la problematica della sua identificazione, per la quale addirittura si sono ipotizzate tre località:
1- Qana: 12 km a sud-est di Tiro, di cui si parla nel libro di Giosuè, collocata nella tribù di Aser (cf Gs 19,28), nel Libano meridionale (antica Fenicia), che non ha nulla da spartire con la Cana del IV vangelo, anche se il Libano la sfrutta per motivi turistici.
2 – Kefr/Kafr Kenna: 6 km a nord di Nàzaret, a est di Sèfforis, nella regione della Galilea e che, ancora oggi, corrisponde alla Cana tradizionale.
3 – Khirbet Qana: 14 km a nord di Nàzaret nella valle di Battòf o Bet Netòfa, ai piedi del monte Asamòn.
Schematicamente si può affermare che le fonti antiche sono incerte; fino al Medio Evo i pellegrini conoscono e frequentano Khirbet Qana; dal XVII secolo i pellegrinaggi dirottano verso Kefr/Kafr Kenna, specialmente per impulso del francescano Francesco Quaresmi, uomo di grande cultura che, come responsabile della Custodia di Terra Santa, visitò tutti i luoghi scrivendo tra il 1619 e il 1626 l’opera «Historica Teologica et Moralis Terrae Sanctae Elucidatio» (Descrizione storica, teologia e morale della Terra Santa, in 2 volumi), ancora oggi considerata dagli studiosi l’opera più considerevole sui luoghi della memoria del Signore. In modo particolare, la tradizione di Kefr/Kafr Kenna si diffonde dal XIX secolo con l’edificazione di una chiesa, forse su una sinagoga preesistente. Per quest’ultima si schierano archeologi e studiosi di matrice francescana come padre Bellarmino Bagatti e il biblista, suo confratello, Emmanuele Testa1.
Secondo Eusebio di Cesarea (265-340, che riporta la testimonianza di Giulio Africano, morto nel 240)2 a 4 km a ovest da Khirbet Qana, esisteva al suo tempo un villaggio, Kaukàb, dove risiedevano ancora parenti di Gesù. Ancora oggi, è questa località a mantenere il monopolio di mèta indiscussa di pellegrinaggi identificata come la Cana delle nozze evangeliche.
Sulla identificazione archeologica, si crede che la parola definitiva sia stata detta dall’ultimo lavoro scientifico dovuto a un prete spagnolo, Júlian Herrojo3; non è un archeologo, ma ha svolto un lavoro straordinario di ricerca, analizzando criticamente tutti i testi letterari esistenti, pervenendo a una conclusione obbligata: la Cana evangelica non è quella dei pellegrinaggi abituali o Kefr/Kafr Kenna, ma è Khirbet Qana, nascosta ancora in parte sotto il terreno e che nascosta resterà, perché sarà difficile scalzare una tradizione ultramillenaria che continua a guidare i pellegrini all’altra Cana.
Fonti bibliche
L’esame delle fonti bibliche non è complicato in se stesso, ma pone qualche problema, perché l’interpretazione che ne danno i documenti posteriori di epoca cristiana non sempre sono univoci e chiari. Nell’AT il lemma «Qānāh» ricorre solo nel libro di Giosué: due volte per indicare il nome di un torrente (Gs 16.8; 17,9 che il greco della LXX traduce rispettivamente con «Chelkàna e Karàna») e una volta per indicare una località della tribù di Aser, localizzata in Libano: «La quinta parte (della terra) sorteggiata toccò ai figli di Aser… Il loro territorio comprendeva: …Cammon e Qānāh fino a Sidone la Grande» (Gs 19,25-30, qui vv. 24.25 e 28). Il nome Qānāh appare in una lista di località conquistate da Ramses II (ANET, 256; LOB, 181) e, con buona probabilità, corrisponderebbe al villaggio arabo di Qāna, 10 km a sud est di Tiro, cioè la Cana fenicia o del Libano (ABEL, Géographie II, 412), come accennato sopra. L’ortografia ebraica, Qānāh, è nota anche da una lista di località sacerdotali che, dopo la rivolta di Bar Kochba nella terza guerra giudaica (132-135), attesta la presenza a Cana della famiglia del sacerdote Eliasib (cf. GEIB, 244; DALMAN, Les Itinéraires 110). Lasciando da parte il Libano che dista non meno di 100 km dal luogo che ci interessa, restano le altre due località che sono contese dagli studiosi (v. nota 1).
Nel NT il villaggio di Cana è menzionato 4 volte e sempre nel IV vangelo (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e in tutte le 4 occorrenze, probabilmente per distinguerla dall’altra, è chiamata «Cana della Galilea».
Gv 2, 1.11: inizio e chiusura (inclusione) del racconto delle nozze di Cana.
Gv 4, 46: guarigione a distanza del figlio del centurione di servizio a Cafaao (cf Gv 4,46b).
Gv 21, 2: qui si dice che l’apostolo Natanaele è originario di «Cana della Galilea».
Nel racconto dello sposalizio di Cana, l’attenzione è centrata sulla trasformazione dell’acqua in vino: fatto così importante che l’autore sente la necessità di ricordarlo come evento quando parla della guarigione del figlio del centurione romano: «Andò di nuovo (dalla Samarìa) a Cana della Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino» (Gv 4,46). Subito dopo l’autore aggiunge che il centurione romano si trovava (in missione?) a Cana, ma viveva di norma a Cafaao, la città dove Gesù era sceso con sua madre e i suoi discepoli subito dopo le nozze (cf Gv 2,12). Gesù dunque scende a Cafaao, va in Samarìa dove incontra la donna samaritana al pozzo (cf Gv 4,1-42) e risale a Cana. Qui incontra il centurione romano che è di Cafaao: questi indizi non ci dicono dove sia Cana, ma affermano che deve essere vicina a Cafaao se si verifica questo «via-vai» frequente.
In tutti e 4 i testi, quando l’evangelista nomina la località usa sempre l’articolo individuante: non dice «Cana “di” Galilea», ma è più preciso perché non vuole sbagliare né ingannare i suoi lettori; egli parla di «Cana “della” Galilea», con una denominazione specifica che indica una località ben conosciuta nelle vicinanze di Cafaao o comunque del lago di Tiberiade. Tutte e due le località sono vicine, se consideriamo che le distanze al tempo di Gesù non erano quelle odiee che seguono vie asfaltate e tortuose, ma erano più contenute perché strade che si percorrevano a piedi o mulattiere. C’è un diario di viaggio dell’«Anonimo Piacentino» (560-594) che è interessante perché ancora nel VI secolo accenna a una liturgia rituale di due idrie usate per offrire vino e all’usanza diffusa nei luoghi santi e in tutto il mondo di scrivere i nomi di chi si vuole ricordare sul tavolo di legno:
«Da Tolemaide (Akko), lasciammo il litorale e giungemmo ai confini della Galilea, nella città di Diocesarea, in cui adorammo in molti il cestello (testo incerto) della santa Maria. Nello stesso posto c’era la sedia di quando l’angelo venne a lei. Quindi, dopo 3 miglia, giungemmo a Cana, dove il Signore partecipò alle nozze, e ci sedemmo sullo stesso sedile, dove, indegnamente, scrissi il nome dei miei genitori. Delle due idrie che sono qui, una la riempii con vino e così piena la caricai sul collo e l’offrii sull’altare e nella stessa fonte ci lavammo in benedizione» (Recensio Prior Rhenaugiensis 73) .
L’excursus letterario, archeologico e geografico che abbiamo fatto potrebbe sembrare arido ed eccessivo nell’economia di una rubrica «giornalistica», ma solo ai superficiali, perché la Parola di Dio è sempre «Parola» sia in chiesa, sia in un libro, sia in una rivista e dovunque deve essere onorata e approfondita con lo stesso zelo e ardore. La geografia non è estranea alla fede, perché è il luogo dove ciascuno di noi ha incontrato il Signore e come gli innamorati conservano memoria viva dei luoghi e tempi del primo innamoramento, anche noi dovremmo conservare «memoria innamorata» degli spazi fisici dove il Signore a ciascuno di noi «manifestò la sua Gloria». La Bibbia ci insegna come fare.
 (20 – continua)

Paolo Farinella




Cana (19) Il matrimonio al tempo di Gesù, nella Scrittura, nel Giudaismo

Il racconto delle nozze di Cana (19)

La Mishnàh (Qiddushìn – Matrimonio 1,1) insegna: «Una donna è acquistata (ebr.: qanàh;) in tre modi: con denaro, con contratto e con rapporti sessuali»; allo stesso modo si acquista uno schiavo (cf Mishnàh, Qiddushìn 3,1). È importante sottolineare il senso che gli Ebrei davano al matrimonio come «acquisto» della donna, perché la riprenderemo nell’esegesi che faremo del nome della cittadina dove «avvenne» lo sposalizio, cioè «Cana» che, etimologicamente, deriva dal verbo ebraico «qanàh» che significa «acquistare», da cui si capisce perché la Mishnàh parla di «donna acquistata».
Con le nozze la donna diventa «una proprietà» dell’uomo che, appunto, al momento di prenderla in casa, la compra versando il «prezzo» concordato alla famiglia di lei. In alcune parti, specialmente in campagna e nei villaggi c’era l’usanza che la dote versata dal fidanzato fosse corrispondente al «peso» della donna che, quindi, la famiglia faceva ingrassare l’anno di fidanzamento precedente il matrimonio. In ebraico «essere pesante» si dice «kabèd», che deriva dal sostantivo «kabòd» che vuol dire «gloria»; una persona gloriosa è una persona «pesante», cioè consistente, stabile, solida. Una persona magra, un capo, una donna, hanno poca consistenza e quindi valgono poco.
Il sogno di Dio
Fin dalla creazione il matrimonio è parte integrante del disegno di Dio, che crea un uomo e una donna perché insieme, uniti sessualmente, siano «immagine di Dio». In Gen 1,27 infatti si legge che «Dio creò Adam [= genere umano] a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: “zakàr weneqebàch” li creò», dove l’espressione ebraica significa propriamente «pungente e perforata» che apre una prospettiva straordinaria sulla personalità «nuova» che realizza il matrimonio perché è nel rapporto sessuale che si manifesta in piena compiutezza l’immagine di Dio. È qui che trova il suo compimento e la sua maturità la «chiesa domestica» (Lumen Gentium, 11) che nell’intima unione degli sposi esprime e rivela profeticamente l’unità indissolubile del Padre, del Figlio e dello Spirito1. Non solo, ma il matrimonio monogamico è un richiamo costante al matrimonio di Dio e Israele, la nazione che Dio «si è acquistata» tra tutte le nazioni della terra (cf Es 15,16; Dt 7,6; 14,2; Os 2,21-22), allo stesso modo che la Chiesa, sposa di Cristo, è stata «acquistata» con il sangue di Cristo (cf At 20,28; Ef 5,23-24.32). Sul tema della nuzialità esclusiva, è sufficiente rimandare al Cantico dei Cantici che è l’inno esplosivo dell’amore senza fine.
Nella tradizione giudaica odiea, che affonda le sue radici in quella antica del midràsh (cf Genesi Rabbà 11,9), il venerdì sera, al tramonto, quando lo Shabàt entra nel tempo e nello spazio d’Israele, il popolo radunato nella sinagoga, intona il canto «Lekhàh Dodì – Veni, Amore mio», mentre tutta l’assemblea si volta verso la porta d’ingresso per accogliere lo «Shabàt» che incede come una fidanzata, una sposa che va alle nozze, accolta dall’Israele orante come una regina. Il giorno del Signore, segnato dalla nuzialità, permea e pervade ogni respiro, il tempo, lo spazio e anche l’anelito di ogni israelita. Questa personificazione della nuzialità sabatica è antica ed è testimoniata dal Talmud di Babilonia (cf Shabàt 119a)2. Il matrimonio è talmente importante per Israele che il sommo sacerdote non sposato non poteva presiedere la liturgia del giorno di «Yom Kippùr» (ddj, Marriage, 701). Non è un caso che la tradizione giudaica chiama il matrimonio «qiddushìn – santificazione» perché in esso si santifica il Nome di Dio, creatore e tre volte Santo (cf Is 6,3). Non è solo un contratto tra un uomo e una donna, ma l’attuazione del comandamento di Dio che dona, «conduce» Eva ad Adam, il quale la riconosce «carne e osso» di se stesso (cf Gen 2,22-23).
Nulla può essere anteposto al matrimonio che ha la precedenza anche sulla sicurezza di Israele, perché la Toràh stabilisce che il giovane appena sposato è esentato anche dal dovere militare: «Quando un uomo si sarà sposato da poco, non andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico. Sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposato» (Dt 24,5; cf 20,7).
Il matrimonio evento sociale
Di norma, il matrimonio si celebra al compimento della maggiore età, che al tempo di Gesù avveniva a 12 anni compiuti (quindi all’inizio del 13°) sia per la donna che per l’uomo, comunque mai prima della pubertà (Talmud, Sanhedrìn 76b), anche se i genitori potevano promettere i figli in sposa o sposo subito dopo la nascita.
Il matrimonio non era una scelta personale, ma un evento del gruppo e pertanto era sempre combinato dai rispettivi padri (cf Gen 24,35-53; 38,6). I figli minori non potevano rifiutarsi di sposare i contraenti scelti dalle rispettive famiglie, mentre la donna maggiorenne aveva voce in capitolo e poteva anche rifiutarsi.
Al tempo del secondo Tempio, quindi anche al tempo di Gesù, in due sole occasioni i giovani potevano scegliersi la moglie tra le ragazze: nella festa popolare del 15° giorno del mese di Av (agosto-settembre) e nella festa di Yom Kippùr (Mishnàh, Taanit – Digiuno 4,8): le ragazze, tutte vestite di bianco (per evitare che le povere fossero discriminate), andavano a danzare nei vigneti sotto lo sguardo attento dei ragazzi che potevano così scegliersi la moglie.
Una volta accettata la proposta di matrimonio da parte del padre della donna o, in sua assenza del fratello più anziano, si contrattava il prezzo (la dote), il mohàr, cioè la somma che lo sposo promesso doveva pagare alla famiglia della sua futura sposa. In questo modo ella «era acquistata» e diveniva proprietà esclusiva del marito, passando dalla sottomissione del padre a quella dello sposo. La legge giudaica mette in rilievo che nel matrimonio è l’uomo che sposa la donna, non viceversa.  
Il matrimonio festa popolare
Il matrimonio si celebrava, di solito, dopo un  anno di fidanzamento (cf 1Sam 18,17-19; Mishnàh, Ketubòt 5,2) senza alcuna cerimonia religiosa, trattandosi di un evento civile che solo i libri tardivi chiamano «alleanza» (cf Ml 2,4; Pr 2,17). Lo sposalizio  era, ieri come oggi, l’occasione di una grande festa durante la quale si cantavano canti d’amore in onore degli sposi (cf Ct 4,1-7) a cui seguiva un banchetto (cf Gen 29,27; Gdc 14,10) che di norma durava sette giorni (v. sotto).
Al tempo di Gesù, il matrimonio era considerato ancora uno strumento di alleanze tra famiglie, per cui gli inviti erano fatti con molta attenzione. Alla festa potevano partecipare anche ospiti di riguardo e di passaggio perché il matrimonio era una occasione di prestigio sociale per l’intero parentado. Poiché nulla doveva essere fuori posto, un ruolo importante avevano «gli amici dello sposo» (shoshbinìm) i quali, mano a mano che arrivavano gli ospiti, presentavano allo sposo i regali portati (shoshbinùt).
I regali erano importanti: venivano in un certo senso catalogati perché in occasione del matrimonio della famiglia che portava il regalo, lo sposo che lo aveva ricevuto doveva restituirlo nella stessa entità; in caso di inadempienza si poteva esigerlo per via legale. In questo senso non si tratta veramente di un regalo di nozze gratuito e libero, ma di una vera «partita di giro» che finiva per costituire una leva potente della economia dell’epoca. Le provviste di cibo e bevande, tra cui troneggia naturalmente il vino, non rientrano tra i regali, ma appartengono alla regola della cortesia parentale o del vicinato. Il Talmùd (Babà Bathrà 144b) però, tra i doni nuziali descrive giare piene di vino o di olio.
La durata della festa nuziale è di una settimana come avviene per Giacobbe e Lia (cf Gen 29,22. 17.28) per Gedeone e la moglie filistea di Timna (cf Gdc 14,12.14-15.17). Per le nozze di Tobia e Sara, in epoca post-esilio, si fa un banchetto di quattordici giorni nella casa di Raguele e Edna genitori di Sara nella città babilonese di Ecbàtana (cf Tb 7,1; 8,19-20; 10,7: mss BA) e altri sette giorni  nella babilonese Nìnive nella casa di Tobi e Anna, genitori di Tobia (cf 11,19: mss BA). Al tempo di Gesù, la Mishnàh prescriveva sette giorni: «Se ad uno sposo si manifesta una piaga, gli si concedano i sette giorni del banchetto, sia per lui che per la sua casa e per il suo vestito» (Nega’im 3,2; cf Talmùd Nega’im 21a). Questa prescrizione posticipa la dichiarazione di impurità dello sposo, tenendo conto della figura dello sposo, della famiglia e delle spese fatte (vestito). Ecco una prova bella di legge «umana», di un principio che s’incarna nella situazione concreta di una persona e non resta astratto.
Vi è discussione sul giorno della celebrazione per motivi che sarebbe lungo spiegare in un articolo. La Mishnàh (Ketubòt 1,1) stabilisce che esso si svolga il 4° giorno, cioè mercoledì, se la sposa è una vergine; se invece è una vedova al 5° giorno o giovedì. Il motivo è pratico: il tribunale si riuniva due volte a settimana, il lunedì (2° giorno) e il giovedì (5° giorno). Se la sposa non fosse stata trovata «vergine», il marito poteva appellarsi al tribunale il giorno dopo, accusarla di adulterio e pretendee la lapidazione. Il problema, naturalmente non si pone per la vedova, che poteva sposarsi il giovedì.
Durante l’occupazione romana (dalla fine sec. I a.C. ), invalse l’uso di anticipare il matrimonio al 3° giorno, cioè al martedì perché gli invasori spesso e volentieri prelevavano la sposa la notte stessa del matrimonio e la restituivano l’indomani, esercitando lo «jus primae noctis». Per questo motivo la tradizione dice: «Per quanto riguarda la vergine che doveva sposare il mercoledì, il nemico aveva deciso che fosse consegnata prima al governatore; per evitare questa umiliazione alla fidanzata, fu stabilito che le nozze si celebrassero il martedì. Una volta introdotta, tale usanza, rimase in vigore» (Talmud babilonese, Ketubòt 3b). La stessa sentenza si trova in altri testi: «All’epoca del pericolo (= dominazione romana) invalse l’uso di sposarsi al 3° giorno (= martedì), e i saggi non vi si opposero» (Mishnàh, Ketubòt 1,1; Talmùd Ketubòt 25c).
Stabilito in modo definitivo il «terzo giorno», si volle anche trovare un senso proprio, facendo riferimento al terzo giorno della creazione, descritto nella Genesi, e che è l’unico giorno in cui Dio creatore dà due benedizioni, una alle acque che chiama «mare», una all’asciutto che chiama «terra» e per due volte dice che «era cosa buona» (Gen 1,10.12). Quale giorno migliore per affermare la fecondità del matrimonio? (cf Dej, Marriage, 703).
Il matrimonio benedizione d’Israele
La festa di nozze iniziava al mattino presto in casa della fidanzata che i parenti vestivano con l’abito nuziale e le coprivano il volto con un velo che le nascondeva anche i capelli; le amiche della fidanzata le mettevano attorno ai fianchi una cintura. Solo alla sera, finito il primo giorno di festa, l’uomo poteva togliere il velo e sciogliere la cintura che simboleggiava la sposa «oamento dell’uomo» (Gdt 9,2; Ger 2,32; Pr 12,4; Ct 3,11).
Accompagnato dai suoi familiari, invitati e amici, lo sposo si dirigeva verso la casa di suo padre, dove si svolgeva lo sposalizio e la festa conseguente. Gli amici portavano anche alcune torce per illuminare la sera, perché non di rado si faceva anche tardi, se le trattative nuziali che terminavano con un contratto (ebr. ketubàh), fossero andate per le lunghe (cf 1 Mac 9,37-39; Mt 25,5-6). Anche la fidanzata partiva dalla casa patea per dirigersi alle nozze; nel lasciare la casa patea, accompagnata dalle damigelle d’onore, custodi della sua bellezza, intonava canti di lamentazione per il dispiacere di abbandonare la sua famiglia.
Il padre dello sposo benediceva la sposa con sette benedizioni, cioè con la pienezza della benedizione che esprimeva l’augurio della fecondità. Il termine «benedizione» in ebraico è «berakàh» la cui radice (B_R_K) ha attinenza con gli organi sessuali maschili che per gli antichi trasmettevano da soli la vita, mentre la donna era solo un’incubatrice per tenere caldo e far maturare il seme maschile3.
Essere benedetti significa, quindi, ricevere la capacità generativa; una donna, infatti, senza figli è una maledizione per la famiglia e per il popolo e viene considerata alla stessa stregua di una lebbrosa. Terminata la benedizione settenaria, il fidanzato consegna alla promessa sposa un anello o del denaro, mentre pronuncia queste parole: «Ecco, ora tu sei santificata per me, secondo la religione di Mosè e di Israele» (cf Tb 7,12-14).
Il termine «santificato/a» è importante. In ebraico «santo» si dice «qadòsh» ed è un attributo di Dio, proclamato in cielo e in terra: «Qadòsh, Qadòsh, Qadòsh – Santo, Santo, Santo» (Is 6,3; Ap 4,8); anche il tempio, che simboleggia la Presenza-Shekinàh nel suo insieme si chiama «Miqdàsh – santuario» (da santità), mentre la parte intea pubblica si chiama «Qadòsh/Qodèsh – Santo», e quella più intea del tempio, separata da un velo, dove è custodita l’arca dell’alleanza, si chiama «Qadòsh haqqadashìm – Santo dei Santi» (Es 26,33).
Questa santità che promana da Dio e dal luogo della sua presenza, almeno nel senso delle parole, è trasferita anche nel matrimonio che in ebraico si dice «Qeddushìm – santificazione/consacrazione» e come tutte le realtà «santificate», al momento delle nozze la sposa diventa consacrata al marito, cioè separata da tutto il resto per essere esclusività sua.
Cana: farina scelta per un pane pregiato
Da qui nasce il senso dell’unicità e indissolubilità del matrimonio che nel NT diventerà esplicito (Mc 10,9; Mt 19,6). Il matrimonio è così importante che per la tradizione ebraica del post-esilio  cancella tutti i peccati dell’uomo e ha la precedenza sullo stesso studio della Toràh (cf Dej, Marriage, 707).
Il primo rapporto sessuale avveniva la sera del primo giorno di festa, prima ancora che il matrimonio fosse ufficializzato perché il fidanzato doveva accertare che la donna fosse veramente vergine.  A questo scopo,  gli amici dello sposo restavano fuori della stanza nuziale in attesa che lo sposo venisse fuori con «i segni della verginità» (betulìm): un panno bianco macchiato del sangue della sposa, che veniva conservato gelosamente da ogni donna. Se la sposa non era vergine veniva immediatamente denunciata al tribunale, il mattino seguente e ripudiata: l’uomo poteva esigee la lapidazione per adulterio.
Molto succintamente abbiamo descritto lo svolgersi dello sposalizio al tempo di Gesù con annotazioni, usi e scenari. In un contesto sociale centrato esclusivamente sulla figura maschile, c’è poco da discutere. Oggi non potrebbe essere più così perché la concezione della donna non è di pura appartenenza all’uomo, ma donna  e uomo, insieme, sono immagine di Dio e insieme alla pari esprimono il mistero di Dio che è Amore perché nella nostra cultura la donna è andata acquistando in secoli di lento e costante processo una parità, almeno formale, che resta comunque sempre una meta, perché mai realizzata appieno.
Tutti questi fatti estei dicono però che il matrimonio per gli Ebrei era un dovere duplice sul piano strettamente religioso: obbedire al comando di Dio che chiama la coppia alla fecondità generativa (cf Gen 1,28) e aumentare figli per la casa di Israele. Partecipare alla festa nuziale era sentito come un dovere religioso «obbligatorio» perché veniva inteso come una partecipazione all’atto creativo di Dio che associava a sé creatore, la nuova coppia chiamata a generare nuovi figli.
È logico e naturale pensare che sul matrimonio come evento sociale e fondamento del futuro di Israele si sviluppasse una teologia profonda basata sui simboli. Lo sposalizio tra un uomo e una donna diventa istintivamente il simbolo delle nozze di alleanza tra Dio e Israele. Dio è lo sposo e Israele è la sposa. I profeti utilizzeranno molto questa simbologia, specialmente il profeta Osea che addirittura ne fa una parabola della sua vita come profezia vivente dell’agire di Dio così innamorato del suo popolo che lo ama anche quando si prostituisce nell’idolatria (cf Os 1,2-3,5). L’amore di Dio è un amore senza contropartita perché egli non ama per suo interesse, ma ama perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8).
Le nozze di Cana sono state un fatto vero a cui fu invitata la madre di Gesù e probabilmente Gesù vi prese parte con i suoi discepoli perché di passaggio per la sua regione, un passaggio che come vedremo, l’autore legge in modo simbolico perché non va solo lui, ma si porta dietro «gli amici dello sposo», i suoi discepoli. Forse la famiglia degli sposi aveva un qualche rapporto di parentela con quella di Gesù. Nulla sappiamo di certo. Sappiamo solo che in queste nozze, così importanti per la vita di un villaggio ebraico del primo secolo, manca del tutto la sposa e lo sposo è citato due volte per mettere in evidenza la sua improvvida organizzazione. È evidente che Giovanni partendo dal fatto storico ordinario nella sua consuetudine, vuole portare il lettore ad un livello di senso più profondo e più grande: ad approfondire il significato simbolico delle nozze dell’alleanza che con Gesù assume un valore nuovo ed eterno (cf Ger 31,31). Crediamo che al racconto dello sposalizio di Cana si possano attribuire le parole con cui il midràsh presenta il Cantico dei Cantici:
«Un re diede a un mugnaio un moggio (= 450 litri) di frumento, e gli disse: “Ricàvane dieci staia (= 150 litri) di farina scelta. Poi toò e gli disse: “Dalle dieci staia ricàvane sei”. E Poi: “Dalle sei, ricàvane quattro”. Così il Santo – benedetto Egli sia – dalla Toràh scelse i profeti, dai profeti gli agiografi, e ultimo dopo tutti fu scelto il Cantico dei Cantici»4.
Come il Cantico, anche il racconto dello sposalizio di Cana è il succo del succo di tutta la salvezza che entra nella storia ed esprime nella sua densità il cuore stesso dell’intera rivelazione: l’amore di Dio per il suo popolo, segno dell’amore a perdere di Dio per l’umanità intera, di cui il simbolo è la relazione uomo donna, l’esperienza umana più radicale di conoscenza che esiste in natura.
(19 – segue)

Paolo Farinella

1 – Cf P. Farinella, Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli editori 2009, 37-47.
2 – Per l’approfondimento cf Dej ad «Lekhàh Dodì», 639.
3 – Cf Bibbia, parole, segreti, misteri, pp. 61-65.
4 – Cantico Zuta, 1,1; cf U. Neri, Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Roma 1987, p 54.

Paolo Farinella




Cemento, l’oro grigio

Il territorio: Una distruzione continua

Capannoni vuoti,  appartamenti vuoti (milioni!), seconde e terze case. E poi abitazioni abusive (soprattutto in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), spesso sanate con immorali condoni edilizi. L’edilizia selvaggia spacciata per «crescita economica» del Paese. Mentre si consuma il territorio italiano ad un ritmo impressionante, si deturpa irrimediabilmente uno dei più bei paesi del mondo e si prendono in giro gli italiani che vorrebbero essere onesti. Senza dimenticare che si costruisce senza considerare né il rischio sismico né quello idrogeologico. Come i quotidiani disastri sono lì a dimostrare. E allora spazio a «lacrime di coccodrillo», nuovi sprechi di denaro pubblico, nuove promesse…

Sempre più spesso, viaggiando in Italia, abbiamo la sensazione che le periferie delle città e dei grossi centri abitati si siano estese a tal punto, che talvolta diventa difficile capire dove finisce un agglomerato urbano e ne comincia un altro, se non grazie ai cartelli stradali. All’uscita da una qualunque città, l’immagine ormai più frequente non è quella suggestiva della campagna, ma quella di chilometri di costruzioni, per lo più capannoni (spesso vuoti), ma anche di interi agglomerati sorti nel giro di pochissimo tempo, dove fino a qualche anno prima c’erano prati e campi. Può capitare anche di vedere scheletri di case, la cui costruzione è iniziata e mai finita, oppure tronconi di strade, che portano a nulla, perché in corso d’esecuzione ci si è resi conto dei costi eccessivi che l’opera comportava. Si moltiplicano i centri commerciali (o i famosi outlet), i parchi di divertimento a tema, i parcheggi, le strade. Insomma si sta sempre più consumando il territorio. Al posto di prati e campi, il cemento, l’oro grigio che permette guadagni stratosferici ai costruttori ed ai politici, a scapito dell’ambiente, della qualità della vita e spesso della salute dei lavoratori dell’edilizia. Secondo il dossier di Legambiente «Un’altra casa?»(1), presentato il 15 luglio 2010, dal 1995 al 2009 sono state costruite in Italia 4 milioni di abitazioni, per un totale di 3 miliardi di metri cubi di edifici. Nel contempo, in Italia ci sono la bellezza di 5.320.288 case vuote!(2) Secondo il Movimento nazionale per lo stop al consumo di suolo(3) «non vi è angolo d’Italia, in cui non vi sia almeno un progetto a base di gettate di cemento, piani urbanistici e speculazioni edilizie, residenziali ed industriali, insediamenti commerciali e logistici, grandi opere autostradali e ferroviarie, porti ed aeroporti turistici, civili e militari».

NEL PAESE DELL’ABUSIVISMO E DEI CONDONI
In Italia, ci troviamo di fronte ad una vera e propria anomalia internazionale, a causa della mancanza di una politica per le aree urbane e per l’edilizia abitativa. Manca cioè un ministero dedicato a questi problemi, capace di monitorare e di fermare il consumo di suolo, fissando a livello nazionale un numero massimo di ettari di territorio trasformabili annualmente per usi urbani (ad esempio in Germania il limite massimo è di 10.950 ettari all’anno).
L’Italia è invece il Paese dei condoni edilizi, che inevitabilmente favoriscono l’abusivismo edilizio. Il primo condono del 1985, durante il governo Craxi, regolarizzò 230.000 abitazioni abusive, costruite nei due anni precedenti; il secondo del 1994, con il 1° governo Berlusconi, sanò 83.000 abitazioni abusive ed il terzo del 2004, con il 2° governo Berlusconi registrò 40.000 costruzioni abusive (con un incremento delle medesime, tra il 2001 ed il 2003 pari al 41%), mentre dell’introito previsto di 3,8 miliardi di euro non entrò nelle casse dello stato nemmeno un decimo. Sostanzialmente in due anni venne coperta di cemento illegale una superficie di 5,4 milioni di metri quadrati ed a fae maggiormente le spese furono le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa: la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia, dove è concentrato il 55% delle nuove case abusive. Il legame esistente tra i costruttori edili, la politica e la criminalità organizzata risale agli anni ’50 del secolo scorso.
Ne viene fatta una precisa descrizione nel libro «La colata»(4), dove si legge, ad esempio, che le associazioni criminali da sempre detengono il monopolio delle fabbriche di calcestruzzo, favorendo quindi le imprese edili peggiori ed obbligando spesso quelle, che lavorano onestamente a chiudere i battenti o ad emigrare. Leggiamo anche che nel 1995 Beardo Provenzano spedì un pizzino a  Luigi Ilardo, reggente di Cosa nostra per la provincia di Caltanisetta, in cui era evidente il suo interesse per la «cava di Riesi», che non era solo un impianto per la produzione del calcestruzzo; con questo termine, infatti, Provenzano indicava la Calcestruzzi S.p.A., azienda leader a livello internazionale, appartenente all’epoca al gruppo Ferruzzi di Raul Gardini ed oggi alla Italcementi Group. In Campania, invece è presente la camorra, con il clan dei casalesi, che, secondo le inchieste della procura di Napoli, sono legati niente meno che al sottosegretario all’Economia del quarto governo Berlusconi, cioè Nicola Cosentino, per il quale nel novembre del 2009 viene chiesto l’arresto per concorso in associazione mafiosa, arresto poi negato dalla Camera dei deputati.

RISCHIO SISMICO E RISCHIO IDROGEOLOGICO
Il rapporto di Legambiente rileva anche la pessima qualità dell’edilizia costruita negli ultimi 15 anni, come è stato purtroppo tragicamente dimostrato durante il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 dal crollo di costruzioni recenti come la Casa dello studente, e durante quello del Molise del 31 ottobre 2002, che colpì S. Giuliano di Puglia in provincia di Campobasso, dove crollò la scuola del paese, uccidendo 27 bambini ed una maestra. Purtroppo nel corso degli anni si è continuato a costruire, spesso abusivamente, senza tenere per nulla in conto la fragilità del territorio italiano. Il Centro studi del Consiglio nazionale dei geologi, in collaborazione con il Cresme ha condotto uno studio  sullo stato del territorio italiano, dal titolo Terra e sviluppo, decalogo della terra 20105, dove si legge che in Italia sono 6 milioni le persone, che vivono in zone ad alto rischio idrogeologico e 3 milioni quelle in zone ad alto rischio sismico. I cittadini, che vivono in zone a medio rischio, arrivano invece a 22 milioni. Il 10% del territorio italiano e l’89% dei comuni sono colpiti da elevata criticità idrogeologica, mentre l’elevato rischio sismico interessa quasi il 50% dell’intero territorio nazionale ed il 38% dei comuni. Inoltre, nel rapporto si legge che in Italia vi sono 1.260.000 edifici a rischio frane ed alluvioni; di questi 6.000 sono scuole e 531 sono ospedali. Della popolazione a rischio idrogeologico, il 19%, cioè oltre un milione di persone, vive in Campania, 825.000 in Emilia-Romagna ed oltre mezzo milione in ciascuna delle tre grandi regioni del Nord, cioè Piemonte, Lombardia e Veneto. Segue poi la Toscana. Il 40% dei cittadini vive invece in zone ad elevato rischio sismico e la maggior parte degli edifici residenziali è stata costruita prima dell’entrata in vigore della legge antisismica per le costruzioni del 1986. Tra le regioni a maggiore rischio sismico c’è la Sicilia, seguita dalla Calabria e dalla Toscana. Si calcola che lungo le superfici ad alto rischio sismico (come già detto, il 50% del territorio italiano) siano stati costruiti circa 6.300.000 edifici, di cui 28.000 scuole e 2.188 ospedali.
Secondo il rapporto di Legambiente, l’Italia, sulla carta, tutela il 47% del proprio territorio, ma nella pratica non vengono effettuati controlli. Ci troviamo pertanto di fronte alla totale inadeguatezza dei meccanismi di tutela sia dei beni paesaggistici, che degli aspetti idrogeologici, nonché dell’ambiente e della lotta all’inquinamento nelle aree urbane. Assistiamo ad una latitanza tanto del ministero delle Infrastrutture, che dovrebbe occuparsi delle questioni edilizie, quanto di quelli dell’Ambiente e dei Beni culturali; quest’ultimo dovrebbe occuparsi del danno provocato dall’edilizia selvaggia ad importantissimi siti archeologici(6).

CUBATURA DELLE MIE BRAME
Anziché limitare la costruzione di nuovi edifici, con ulteriore consumo del territorio, nel marzo 2009 venne proposto dal governo Berlusconi il cosiddetto «Piano casa», che aveva lo scopo di portare rimedio alla crisi economica, incentivando l’edilizia, grazie al permesso di ampliare la cubatura delle proprie abitazioni fino a 300 metri cubi (100 metri quadrati) e di elevare ogni fabbricato di 4 metri oltre il limite dettato dalle norme urbanistiche vigenti. Inoltre, secondo questo piano, sono possibili i cambi di destinazione d’uso; se si abbatte si può ricostruire più grande del 35% e non c’è più bisogno di alcuna concessione edilizia, per iniziare i lavori, ma basta produrre una segnalazione certificata d’inizio attività, che dovrebbe riguardare atti, autorizzazioni, permessi e nulla osta per eliminare ogni ostacolo o controllo per le imprese e perfino il silenzio assenso, nel caso di autorizzazioni paesaggistiche. In pratica tutte le procedure di controllo erano ridotte all’autocertificazione. Poiché le regioni rivendicarono la loro competenza in materia ed inoltre poiché nel mese di aprile 2009 si verificò il terremoto dell’Aquila, che riportò in discussione le norme antisismiche, questo decreto legge non vide la luce, così come concertato, ma venne data la possibilità ad ogni regione di legiferare sulla sua falsa riga, per cui quasi tutte le regioni vararono gli aumenti di cubatura, che, secondo i calcoli del Wwf, potrebbero portare ad un milione di stanze in più ed in qualche caso ad un effetto condono sotto mentite spoglie.

DANNI ALL’AMBIENTE E ALL’AGRICOLTURA
L’edilizia selvaggia rappresenta un gravissimo danno sia per l’ambiente, che per i beni paesaggistici e culturali. In particolare, per quanto riguarda l’ambiente, oltre a sottrarre superficie alla produzione agricola (si calcola che in 40 anni siano andati persi 5 milioni di ettari di terreni agricoli), la cementificazione dei suoli produce pesantissime conseguenze sull’ecosistema: difficoltà di ricarica delle falde acquifere, aumento dei deflussi superficiali (e quindi del rischio di alluvioni), contaminazione da inquinanti, maggiore conversione dell’energia solare in calore sensibile, diminuzione dell’evapotraspirazione (con aumento dell’«isola di calore»), asfissia del sottosuolo (cioè la conversione dell’ambiente ipogeo da aerobio ad anaerobio)(7). Quest’ultimo punto è particolarmente grave, se si pensa che il suolo impiega in media 100-200 anni, per formare un sottile strato di materiale organico stabilizzato da vegetali pionieri, ma ci vogliono circa 500 anni perché questo strato raggiunga lo spessore  di 2,5 centimetri, mentre per lo sviluppo di un suolo maturo è necessario un ulteriore millennio. È pertanto evidente che ricoprire con del cemento un suolo fertile comporta un danno irreversibile per millenni e, di conseguenza, la privazione, per le generazioni future, della base per il proprio sostentamento.

IL TURISMO E PROLIFERAZIONE DEGLI «OUTLET»
La cementificazione selvaggia danneggia anche il turismo, altro settore trainante dell’economia italiana. Basti pensare alla moltiplicazione, in molte località di villeggiatura, delle seconde (o terze!) case, lasciate vuote per buona parte dell’anno, con la conseguente riduzione di queste località a veri e propri paesi fantasma. Capita infatti che la costruzione di nuove case nei paesi turistici faccia lievitare i prezzi, inducendo spesso i residenti con reddito modesto a spostarsi in zone economicamente più accessibili. Nel contempo, i centri turistici non riescono a realizzare lo stesso guadagno che otterrebbero con meno seconde case, ma qualche struttura alberghiera in più, capace di ospitare un maggiore numero di persone per tutto l’anno. Inoltre il danno, che viene prodotto dalla cementificazione, a livello paesaggistico è spesso incalcolabile. Eppure vengono proposti e, purtroppo, spesso approvati dei progetti sempre più devastanti, come quello che prevede la costruzione di un gigantesco residence con annesso parcheggio da 2.400 posti, più piscine coperte, centro benessere, centro congressi e negozi assortiti  niente meno che sulla Marmolada, nella frazione di Malga Ciapela. Oppure come quello che prevede la costruzione di un autodromo a Roma Eur. In Italia sono sempre più numerosi i progetti per nuovi stadi (richiesti da molte società della serie A del calcio), che naturalmente vengono accompagnati dagli immancabili centri commerciali ed aree residenziali limitrofe.
A proposito di centri commerciali, crescono come funghi gli outlet, giganteschi discount delle grandi firme, dove la gente si riversa in massa, dopo avere percorso chilometri d’autostrada ed essersi sottoposta talora a code estenuanti, per assicurarsi capi firmati in sconto. Il più grande d’Italia è quello di Serravalle, in provincia di Alessandria.
Gli outlet rappresentano veramente l’apoteosi della finzione, perché vengono spesso costruiti come dei finti paesi, con case finte, il cui unico scopo è quello di ospitare negozi dalle vetrine scintillanti. Il tutto naturalmente in linea con la filosofia oggi dilagante, per cui conta molto di più l’apparire che l’essere. Ovviamente la costruzione di questi non luoghi si porta via migliaia di ettari di terreno, anche in considerazione del fatto che devono essere corredati di parcheggi e serviti spesso da nuove strade.
I sostenitori dello «sviluppo» a suon di costruzioni normalmente accampano la tesi della creazione di nuovi posti di lavoro, ma appare evidente che i posti di lavoro creati dall’apertura dei cantieri sono a breve termine, spesso in nero e caratterizzati da una scarsissima tutela della salute, come dimostra l’elevatissimo numero di incidenti nei cantieri. L’edilizia è infatti al primo posto per il numero di morti sul lavoro. È invece sempre più evidente l’equazione tra cemento e potere, dimostrata dall’apparente ineluttabilità delle «Grandi opere», che trovano d’accordo tutti i partiti, al punto che si parla di «partito trasversale degli affari».
E NEL MONDO…
Quando parliamo di grandi opere, in Italia ci riferiamo soprattutto all’«alta velocità», al «Ponte sullo Stretto di Messina», al «progetto Mose» per Venezia oppure alla costruzione di nuovi tratti autostradali. Dando invece un rapido sguardo alla situazione mondiale, vediamo che tra le grandi opere ha un posto di primo piano la costruzione di gigantesche dighe, come quella delle «Tre Gole», inaugurata in Cina nel 2006, opera faraonica definita «La Grande Muraglia del terzo millennio», perché è una delle poche opere dell’uomo visibili dallo spazio. Questa diga sbarra il corso del fiume Yangtze e la sua costruzione ha comportato lo sfollamento di 1.200.000 persone. Sono attualmente numerosi i progetti di questo genere a livello mondiale. Basti ricordare quello della diga Gibe III in Etiopia, lungo il fiume Omo, oppure quello della diga di Belo Monte in Brasile, lungo il corso del fiume Xingu, in piena foresta amazzonica, i cui lavori di costruzione sono già partiti. In entrambi i casi si tratta di progetti devastanti a livello ambientale e sociale, poiché porteranno all’alterazione irreversibile di interi ecosistemi ed all’allontanamento delle popolazioni native, per le quali i fiumi rappresentano la principale fonte di sostentamento, così come la principale via di trasporto. Le comunità locali obbligate a spostarsi andranno ad aggravare il fenomeno dell’urbanizzazione, finendo nelle periferie delle grandi città ed aumentando il livelli di disoccupazione e di povertà.
Spesso dietro la costruzione delle grandi dighe mondiali ci sono imprese italiane, come la (chiacchieratissima) Impregilo per le dighe Chixoy (Guatemala), Katse (Lesotho) e Yacuretà sul fiume Paranà tra Argentina e Paraguay, oppure la Salini Costruttori, nel caso della Gibe III in Etiopia. La Impregilo è controllata dalla Igli Spa, appartenente alle famiglie Gavio, Benetton e Ligresti e, in Italia, è impegnata nella realizzazione dell’«alta velocità» e nel progetto del «Ponte sullo Stretto di Messina» Tra i finanziatori delle grandi dighe c’è sempre la Banca mondiale e, nel caso della Gibe III, il governo italiano, che ha in corso di valutazione il finanziamento. Come troppo spessp capita, la conclusione è amara: grandi affari per pochi e povertà garantita per molti. 

Rosanna Novara Topino

NOTE
1 – L’ottimo dossier di Legambiente è scaricabile, in formato PDF, dal sito: www.legambiente.it.
2 – Legambiente su dati Istat e ministero dell’Inteo.
3 – Si veda il sito del movimento: www.stopalconsumoditerritorio.it.
4 – Garibaldi, Massari, Preve, Salvaggiuolo, Sansa, La colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro, Chiarelettere Editore, Milano 2010.
5 – Lo studio è scaricabile, in formato PDF, dal sito: www.consiglionazionalegeologi.it.
6 – Non si può dimenticare, ad esempio, la distruzione dei resti di una casa di epoca romana, rinvenuti in piazza Vittorio a Torino, durante gli scavi per costruire un parcheggio sotterraneo, che è stato portato a termine comunque prima delle Olimpiadi invernali di Torino, 2006.
7 – L’evaporazione dell’acqua da una qualsiasi superficie determina un abbassamento della temperatura della superficie stessa. Quindi, una copertura di cemento o asfalto  impedisce un’adeguata evapotraspirazione del terreno, determinando un aumento di calore. Il cemento inoltre impedisce una buona ossigenazione del terreno, per cui nel sottosuolo le specie vegetali ed animali aerobie (cioè che consumano ossigeno) sono destinate a soccombere. Progressivamente diminuirà quindi la materia organica presente nel sottosuolo, con un aumento del rischio di desertificazione.

Rosanna Novara Topino




Cana (18) Ecco il santuario della santa alleanza

Il racconto delle nozze di Cana (18)

Iniziamo in modo sistematico l’analisi del testo, cercando di assaporare parola per parola, facendole risuonare nel contesto immediato, ma specialmente in quello più ampio dell’intera Scrittura e tradizione giudaica. Gli Ebrei, quando scrivono la Bibbia, sono soliti oare con coroncine ogni singola lettera dell’alfabeto, quasi per sottolineare che non solo ogni parola, ma anche ogni singola consonante (in ebraico non esistono le vocali) è venerata come una «regina». Questo senso di rispetto per le parole è dovuto alla loro funzione: sono il mezzo con cui si esprime «la Parola» di Dio. In ebraico il termine «Davàr» ha un doppio significato, quasi opposto: «Parola e Fatto». Quando Dio parla, agisce e la sua azione è un evento, come avviene nella creazione (cf Gen 1, 6-7.9-11.14-15.24.29-30).  
Gli Ebrei ritengono che le lettere del loro alfabeto sono state create al crepuscolo tra il sesto giorno della creazione e l’inizio del primo sabato e Dio stesso le ha conservate gelosamente in vista dell’alleanza del monte Sinai, dove con esse avrebbe scritto sulla pietra le lettere di fuoco della Toràh (cf Ger 23,29; Mishnàh, Pirqè Avòt-Detti dei Padri, V,6; Talmùd Babilonese, Sanhedrin 34a). Il lettore non si meravigli se saremo pignoli, gustando e assaporando quasi ogni parola: questo sarà il segno del nostro rispetto per il Lògos incarnato, ma anche il nostro modo di «stare sulla Parola» (cf Gv 8,31) che diventa Parola studiata, meditata e pregata, adempiendo il sacrificio perfetto, come rilevano i saggi di Israele:
«Chi si dedica allo studio della Toràh, ovunque nel mondo (anche fuori Gerusalemme), sono considerati da Me (il Signore) come se bruciassero offerte al mio Nome» (Rabbì Samuel bar Nahman a nome di R. Yonathan). «Chi dedica la notte allo studio della Toràh è considerato dalla Scrittura come se avesse partecipato al sacrificio del Tempio» (R. Yohanan). Un altro rabbi, anonimo, commenta: «Senza il Tempio [= in diasporà?], come puoi ottenere l’espiazione dei peccati? Studia le parole della Toràh che sono paragonate ai sacrifici e così otterrai l’espiazione dei peccati per te» (Urbach, Les Sages d’Israël, 627-628; 950, nota 402).
Chi si accosta alla Parola di Dio deve essere predisposto a mangiarla come dice il profeta:
«“Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole”» (Ez 3,2-4).
Togliamoci i sandali dai piedi del nostro cuore (cf Es 3,5) ed entriamo nel santuario della parola del vangelo, e lasciamoci invadere e pervadere dal significato nascosto che l’evangelista ha tenuto in serbo per noi. Tralasciamo dell’espressione «terzo giorno», già abbondantemente esaminato nelle puntate precedenti (cf, p. es., MC 7/8 (2010) 25-26).
Gv 2,1b: «Uno sposalizio» – 1
Il termine «sposalizio», in greco «gàmos» al singolare, in Gv è usato solo 2 volte e solo nel racconto di Cana; si usa anche al plurale «gàmoi – nozze». In tutto il NT, oltre Gv 2, il termine è usato 7 volte al singolare (cf Mt 22,8.10.11.12; Eb 13,4; Ap 19,7.9) e 9 al plurale (cf Mt 22,2.3.4.9.10; Lc 14,8; 12,36; 16,18[2x]). Nell’AT si trova 15 volte al singolare e 3 al plurale.
Il termine «sposalizio – gàmos» nel racconto di Cana è ripetuto due volte: «Uno sposalizio avvenne…» (Gv 2,1,1); «fu chiamato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio» (Gv 2,2); le ricorrenze sarebbero però tre se si considera la variante del codice sinaitico (sec. IV): «Vino non (ne) avevano, perché era-stato-completamente-terminato il vino dello sposalizio» (Gv 2,3).
Questa insistenza «ostinata» non ha senso nel contesto generale del racconto per dire che c’era solo un matrimonio; ma acquisterebbe un significato straordinariamente forte se il riferimento fosse di natura teologica, con lo scopo di mettere in solenne evidenza il tema della nuzialità, che tra le esperienze umane è l’unica categoria che può descrivere la relazione tra Dio/Sposo e Israele/sposa e che Dio stesso ha assunto come espressione della sua relazione con Israele. La letteratura profetica è abbondantissima al riguardo (cf Os 2,16-25; Is 50,1; 54,48; 62,4-5; Ger 2,1-2; 3,1-13; Ez 16, ecc.).
Di per sé, sposalizio sarebbe un termine banale, se non fosse che Gv, nel testo greco, lo colloca in posizione centrale tra l’indicazione di tempo (terzo giorno) e di luogo (Cana di Galilea), quasi a volerlo mettere in evidenza tra tempo e spazio, due cornordinate che convergono verso «uno sposalizio»: «E il terzo giorno uno sposalizio divenne/accadde (ci fu) in Cana di Galilea» (Gv 2,1). La forma al singolare usata potrebbe significare che si tratti di un fatto proprio «singolare» per la sua unicità: in tutto il quarto vangelo non lo incontreremo più. È un evento unico e assoluto, sia nella vita di Gesù (e questo dovrà pur dire qualcosa!) sia nel vangelo (l’autore lo sottolinea).
La festa di nozze quindi ha un’importanza che supera il significato di un semplice matrimonio tra una ragazza e un ragazzo: esso piuttosto è il veicolo per un significato profondo e unico che l’evangelista vuole farci scoprire. Compito dell’esegesi è trovare questo qualcosa di più profondo, irripetibile.
Al tempo stesso dobbiamo collegare lo sposalizio unico e irripetibile di Gv 2,1 con la  prima conclusione del racconto (cf Gv 2,11), dove Giovanni stesso dice che questo fatto, ovvio per un verso e unico per l’altro, costituisce «il principio dei segni» e quindi indica qualcosa che si rinnova, come frutto di una sorgente zampillante. Se c’è un «principio», deve esserci anche una conseguenza logica di continuità, come un fiume che ha il suo «principio» nella sorgente di montagna e il suo naturale sbocco nel mare. Il «principio» non ha una valenza cronologico-temporale, ma si attesta sul fondamento dell’esistenza. Si tratta di un evento talmente unico e «singolare» che «accade» sovente. In altre parole: il significato che l’evangelista ci conduce a scoprire ha un valore permanente; lo sposalizio di cui parla non è un semplice matrimonio, ma un evento che determina una svolta decisiva, origine a sua volta degli avvenimenti della storia che si rinnova.
Il matrimonio è solo un espediente per parlare del senso nascosto di cui esso è un simbolo perché la realtà del racconto riguarda la persona stessa di Gesù, la sua natura e missione. Con il racconto di uno sposalizio reale, assunto a simbolo della nuova rivelazione che il Lògos compie per sempre, l’evangelista fa teologia per dire «chi è Gesù». Ci troviamo di fronte ad una cristologia alta.
È evidente che Gv fa riferimento allo sposalizio unico e irripetibile avvenuto nell’alleanza tra Dio e il suo popolo, Israele, celebrata in forma solenne sul Sinai e dopo più volte compromessa. È l’alleanza l’ambito che spiega perché Gesù fa irruzione «nel terzo giorno» in cui confluiscono due versanti: il versante della storia passata «già» accaduta (monte Sinai) e quella che «ancora» deve avvenire (terzo giorno della risurrezione, monte Gòlgota).
a) Tra due monti, il Sinai e il Gòlgota, un solo Nome
Lo sposalizio di Cana sta tra questi due vertici che si materializzano in due monti, Sinai e Gòlgota, per unirli tra loro in un rapporto non di causa-effetto, ma di compimento: il Sinai è la rivelazione di Dio, anticipo assoluto della manifestazione della gloria che nella crocifissione e risurrezione troverà il suo culmine e massimo splendore.
Il legame tra il Sinai/alleanza e il Gòlgota/risurrezione non è una ipotesi, perché è lo stesso Gv che lo pone in maniera forte e indiscussa. Nella narrazione della cattura di Gesù nell’orto del Getsèmani, facendo attenzione al testo greco, scopriamo sfumature di altissimo valore che purtroppo le traduzioni, compresa l’ultima della Cei (2008), non colgono, ma alle quali l’evangelista dà enorme importanza. Leggiamo il testo nell’ultima versione Cei:
«2Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.  3Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie foite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lantee, fiaccole e armi. 4Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. 5Risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era con loro anche Giuda, il traditore. 6Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra. 7Domandò loro di nuovo: “Chi cercate?”. Risposero: “Gesù, il Nazareno”. 8Gesù replicò: “Vi ho detto: sono io”» (Gv 18,2-8).
Per tre volte l’evangelista riporta l’espressione «Sono io!» e in Gv una parola o un senso ripetuto due volte contiene in sé un significato nascosto e più profondo; ripetuta tre volte deve essere un richiamo per un senso ancora più profondo.
L’espressione non è solo una risposta di identità come dire: «Eccomi qua!». Il testo greco suona esattamente così: «Egô eimì» (Gv 18,5.6.8) che non può essere tradotto semplicemente con «Sono io», che banalizza la risposta: il testo greco, che raramente usa il pronome personale con i verbi, pone «prima» il pronome e solo dopo il «verbo». L’uso del pronome di prima persona singolare, «Egô», si spiega con l’intenzione di volere mettere una forte enfasi sull’espressione e quindi nella traduzione il pronome deve precedere il verbo. In altre parole bisogna mantenere la costruzione del greco. Il traduttore accorto deve rendere la pregnanza e intensità dell’espressione «Io-Sono!», che richiama la visione di Mosè ai piedi del monte Sinai, quando contemplò lo spettacolo del roveto ardente.
Alla domanda: «Chi cercate?», soldati e guardie rispondono che essi cercano l’uomo di Nàzaret, cioè uno come loro, anzi un sovversivo che da fastidio al potere religioso e politico. Nella risposta, invece, Gesù non dice: «Eccomi qua! Sono io!», ma si presenta con le stesse parole con cui nella Bibbia greca della Lxx, Yhwh presenta se stesso a Mosè nel roveto ardente: «Egô eimì», che correttamente deve essere tradotto con «Io-Sono», è il nome greco di Dio che traduce quello ebraico «’ehyèh». Lo ammette in nota la stessa Bibbia-Cei (2008): «Tre volte Gesù risponde Sono io, espressione in cui risuona l’eco del nome divino (cfr. Es 3,14; cfr. Gv 8,24)».
Se il riferimento è dunque alla prima manifestazione di Dio ai piedi del Sinai, allora bisogna tradurlo con lo stesso criterio e stesso modo e cioè: «Io-Sono» che è il nome proprio di Dio, il sigillo con cui Mosè deve presentarsi al popolo schiavo in Egitto: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14).
b) In ginocchio davanti a Gesù come davanti a Yhwh
Un altro elemento ci aiuta in questa prospettiva; quando Mosè si avvicina troppo al monte per vedere il roveto che brucia senza consumarsi, è interdetto da Dio che si svela: «E disse: “Io-Sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6). Mosè si copre il volto (nota della Bibbia-Cei spiega come sottolineatura della «trascendenza di Dio») e cade in ginocchio, perché quel nome «Io-Sono!» è carico della trascendenza e Presenza/Shekinàh di Dio, davanti alla quale bisogna coprirsi il volto, perché chi vede il volto di Dio muore.
Nel Getsèmani avviene la stessa esperienza: soldati ed emissari dei sacerdoti (potere religioso e politico) hanno la rivelazione del Dio di Mosè nell’uomo Gesù di Nàzaret. Appena i soldati e le guardie sentono pronunciare il Nome santo, «Egô eimì – Yhwh», hanno coscienza di non trovarsi più davanti all’uomo di Nàzaret, ma di fronte al Dio del Sinai e per questo «indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6), come Mosè che deve nascondere il volto, abbassandosi fino a terra davanti a Yhwh.
Nella cattura di Gesù ci troviamo davanti a una professione di fede: soldati e guardie del tempio vanno ad arrestare Gesù e incontrano il Dio di Mosè.
Se Gesù ha parlato in aramaico deve avere detto: «’anàh denàh» che significa «Io (sono) questo»; ma poiché Giovanni sottolinea la reazione dei soldati identica a quella di Mosè, con ogni probabilità Gesù ha detto in ebraico solo il pronome «’anokî», letteralmente «Io/io(sono)»; ma se consideriamo che la forma è quella «piena», enfatica e solenne, è facile propendere che l’intenzione dell’evangelista è chiara: vuole porre Gesù, l’uomo di Nàzaret sullo stesso piano del Dio Yhwh dell’Esodo. Il testo che noi possediamo però è in greco, per cui il raffronto deve essere fatto tra il testo greco del vangelo e quello greco della Bibbia della Lxx che i primi cristiani usavano come loro Scrittura.
In questo ampio contesto che dà respiro a tutta la Scrittura, comprendiamo che non si possono più leggere i singoli episodi dei vangeli chiusi in se stessi, ma è necessario respirarli nell’ampio mare della rivelazione scritta presa nel suo insieme perché esprime un solo obiettivo, una sola promessa, una sola alleanza.
Per Gv lo sposalizio di Cana è il raccordo, quasi la cerniera che unisce l’AT con il NT, il ponte gettato dal Sinai fino al Calvario: la rivelazione di YHWH sul Sinai si compie e si consuma definitivamente sul Gòlgota, dove l’impotenza suprema del Figlio fa da specchio all’onnipotenza cosmica del Dio del Sinai. Tra i due monti che iniziano e completano l’alleanza nuziale, vi è la cittadina di Cana che offre il simbolo povero di uno sposalizio come «segnale» dell’intera storia della salvezza, o meglio della storia che si fa realmente salvezza.
Resta però anche vero il fatto che tutto parte da un  matrimonio reale tra un uomo e una donna, sebbene anonimi, e uno sposalizio in Palestina è occasione di festa per il villaggio. Ad esso è invitata la madre di Gesù. Forse Gesù è di passaggio e, come era usanza, partecipa alla festa. È probabile che sia un fatto vero, perché il matrimonio è un evento civile comune nella Palestina di Gesù e non ha alcuna valenza religiosa, anche nello svolgimento, perché tutto avviene tra la casa della sposa e la casa dello sposo. Nessun richiamo alla religione e nessun simbolo religioso è visibile in un contratto di matrimonio.
Partendo da un fatto o da un racconto, l’evangelista costruisce non la teologia del «matrimonio cristiano» che, come abbiamo già detto altre volte, è totalmente assente dal suo orizzonte, ma impone una teologia cristologica: Gesù è Yhwh che nuovamente riprende le fila dell’alleanza nuziale per portarla a compimento come aveva annunciato il profeta Geremia: «Ecco verranno giorni nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò una alleanza nuova» (Ger 31,31). Attraverso un fatto banale l’autore ci conduce in profondità a scoprire la personalità di Gesù che ha appena presentato come «Lògos» divenuto «carne» (cf Gv 1,1.14) per «compiere» le nozze del Regno.
Come si svolgeva il matrimonio al tempo di Gesù? Nella prossima puntata in una nota storica, descriveremo brevemente le modalità dello svolgimento del matrimonio e della festa che ci faranno gustare di più il valore antropologico e teologico del racconto dello sposalizio di Can. [continua – 18]

Paolo Farinella

Paolo Farinella