1. L’apostolo Paolo

4 chiacchiere con…

Iniziamo con questo numero una nuova rubrica dove idealmente cercheremo di dialogare con dei testimoni del passato che hanno lasciato tracce indelebili sui sentirneri dell’evangelizzazione. Un dialogo tra persone vissute in tempi diversi può avvenire solo con una finzione letteraria. Seguiremo pertanto questa pista, cercando di far emergere i punti di riflessione che possano servire per una migliore e incisiva animazione missionaria per i nostri giorni.

Di fronte a un gigante del Vangelo come Lei mi sento un po’ a disagio e abbastanza in difficoltà nell’affrontare certi temi.
Intanto cominciamo col darci del tu; ai miei tempi si dava del tu anche all’imperatore, mentre voi in chiesa date del tu a Dio e poi sul sagrato al primo omuncolo con qualche carica pubblica che incontrate, gli date del Lei.
Ok ricevuto, prova a raccontare – sintetizzando ovviamente – la tua vita per i nostri lettori.
Allora vediamo… Sono nato a Tarso in Cilicia (attuale Turchia centro-meridionale) nei primi anni dell’era cristiana; appartengo a una nobile famiglia ebraica che si era conquistata la mitica cittadinanza romana. Per capirci, è come se oggi un extracomunitario (come eravamo noi ebrei che vivevamo fuori d’Israele) che arriva da paesi sperduti e lontani, riuscisse ad avere non solo il permesso di soggiorno, ma anche la carta d’identità italiana! Sono stato educato secondo la ferrea disciplina dei farisei, nella rigorosa osservanza della legge mosaica e nell’assiduo studio delle scritture sotto il grande Gamaliele, fino a ottenere il prestigioso titolo di dottore della legge. Tutto in me era impregnato dall’Antica Alleanza, per questo non riuscivo a capire cosa si nascondesse dietro la nascente comunità dei discepoli di Gesù di Nazareth, che ritenevo scismatici, eretici nonché pericolosi sovversivi; per questo ero diventato uno dei loro più accaniti persecutori.
Già, ma sulla via di Damasco successe qualcosa d’imprevedibile, non è vero?
Non me ne parlare! Quell’esperienza ha cambiato radicalmente la mia vita e forse anche la tua. Perché incontrarsi con Dio è sempre un avvenimento che ti sconvolge e ti segna non solo spiritualmente ma anche fisicamente: vedi Giacobbe che uscì zoppicante e con le ossa rotte dopo un incontro ravvicinato con Lui, e anch’io rimasi cieco per un po’ di tempo.
Il nostro Dante nella sua Divina Commedia, ti definisce «gran vasello/de lo Spirito Santo» (Pd. XXI, 128) facendo riferimento alla dichiarazione che si trova negli Atti degli Apostoli a seguito della tua straordinaria conversione: «Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli» (Atti 9, 15).
Già, proprio questo è stato il copyright che mi ha riservato il Maestro; gli altri apostoli erano ebrei come me, ma erano sempre vissuti in un’ottica molto provinciale, praticamente quei pochi viaggi fuori dalla terra di Israele li avevano fatti seguendo Gesù. In più avevano la fissa che bisognasse, prima di tutto, annunciare il Vangelo al popolo di Israele; una volta convertiti gli ebrei (il che avrebbe significato farli cadere tutti da cavallo) passare poi alla seconda fase, ovvero portare la Buona Notizia a tutte le genti.
La tua strategia missionaria però non era di questo genere.
Assolutamente no! Pur essendo io più impegnato di loro nell’osservanza alla legge mosaica, ritenevo che per portare al mondo pagano, greco o romano che fosse, la meravigliosa novità di vita che Cristo ci aveva lasciato, bisognasse far saltare tutti i paletti, lacci e lacciuoli legati alla legge antica.
Ti riferisci al problema della circoncisione?
Certo, anche perché con il battesimo, sacramento iniziatico che fa di te una persona nuova e si dà a tutti, uomini e donne, liberi e schiavi, ebrei e pagani, sei trasformato radicalmente, senza nessun bisogno di altri segni che ti legano al passato.
Già, ma Pietro, Giacomo e altri non erano poi tanto d’accordo.
Difatti glielo dissi a viso aperto (oggi diremmo a muso duro), anche perché Pietro, pur avendo ricevuto il mandato di presiedere la comunità, subiva l’influsso di Giacomo, il quale, col carattere che si ritrovava (sia lui che suo fratello Giovanni furono definiti da Gesù figli del tuono, tanto erano irruenti) cercava in ogni modo di imporre una linea di evangelizzazione che non condividevo affatto.
Già, ma in quanto al carattere anche tu non scherzavi.
Quello che dovevo dire l’ho sempre detto e se chi mi stava attorno cercava di farmi dire cose diverse o intraprendere strade che non ritenevo praticabili, non stavo tanto a perdere tempo, quello che andava detto glielo dicevo in faccia e amen, atteggiamento che purtroppo avete dimenticato, tant’è vero che da voi per definire un linguaggio di chiesa si dice «curiale». Come cambia il mondo!
Sei definito l’Apostolo delle genti proprio perché da autentico missionario, sfruttando la rete delle strade imperiali di allora e del traffico via mare, tutto sommato abbastanza sicuro per l’epoca, hai percorso migliaia di chilometri per portare il Vangelo nel tessuto sociale delle pulsanti città dell’Impero. Qual era la tua strategia missionaria?
Se devo rispondere con una battuta, la mia strategia missionaria la chiamerei: implantatio ecclesiae (piantare la Chiesa); quando arrivavo in una città, facevo la visita alla sinagoga per incontrare i fratelli dell’antica alleanza e parlare loro del Vangelo di Gesù, della sua morte in croce e risurrezione e se questi mi respingevano, passavo ad annunciare la Buona Notizia alle altre genti, più aperte e disponibili. Una volta avviata e formata una piccola comunità in grado di camminare con le proprie gambe, proseguivo per un’altra destinazione.
Già, ma ad Atene, in quella città di grandi accademie culturali, non hai poi ottenuto gran che.
È vero, anche se io credo che quella frase di Luca scritta negli Atti degli Apostoli: «Ti sentiremo su questo un’altra volta» (Atti 17, 32) non necessariamente va intesa come un rifiuto, può darsi che gli ateniesi avessero bisogno di una «pausa di riflessione» per afferrare il senso più autentico del messaggio di Cristo.
Per quanto riguarda l’attività missionaria dei giorni nostri, che suggerimenti daresti.
Credo che le cose da fare siano le stesse di allora: occorrono discepoli innamorati del messaggio da comunicare, pronti ad andare fino agli estremi confini della terra (e non a rinchiudersi in recinti dorati sempre più angusti, con piccoli gruppi che se la contano tra di loro), che siano disponibili ad affrontare le nuove sfide del terzo millennio e creare autentiche comunità di vita cristiana (invece di ricercare sicurezze dal potente di tuo) che sappiano diluirsi come lievito nella massa e alla fine trasformare la società; ci siamo riusciti noi che avevamo di fronte nientemeno che l’impero romano, figuriamoci se non ce la potete fare voi.
Grazie Paolo, faremo tesoro di tutto questo.
Buon lavoro ragazzi e ricordatevi sempre che Cristo il mondo l’ha già vinto.

Mario Bandera

Mario Bandera




Cana (31): La gioia è la vera purificazione cristiana

Gv 2,6 (c): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Abbiamo già detto che Gv 2,6 è il cuore della narrazione (cf MC 9 -2009); riproponiamo per comodità lo schema dell’intero racconto di Cana per ricordare la sua struttura circolare: partendo dall’inizio e dalla fine tutto converge verso un centro, qui verso le giare di pietra, finalizzate alla purificazione, come l’arrivo al monte Sinai è finalizzato al dono della Toràh scritta su tavole di pietre, momento supremo di rivelazione che deve essere preparato degnamente attraverso la purificazione del popolo.

  2,1Cana di Galilea, nozze, madre, 2Gesù, i suoi discepoli.
  3Manca il vino; intervento della madre.
  (4)5I servitori/diaconi invitati a ubbidire.
  6Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei, collocate
  [per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri).
  (7)8I diaconi attingono (= ubbidiscono) e «conoscono».
  10Il vino buono [bello] conservato; intervento dell’architriclino.
  11Cana di Galilea, la gloria manifestata e la fede dei discepoli.
Se Gv 2,6 è il centro del racconto, dobbiamo prendere atto che il matrimonio è solo un’occasione esteriore e non l’obiettivo dell’evangelista; che la madre ha una doppia funzione: di rappresentanza del passato e di passaggio al nuovo; che i discepoli svolgono il ruolo che fu del popolo d’Israele ai piedi del Sinai e che le giare/tavole di pietra, svolta la loro funzione di purificazione, devono cedere il passo alla Toràh dello Spirito che proviene dall’umanità del Signore.
Le giare di pietra nella tradizione rituale    
Siamo di fronte a una rilettura di tutta la storia della salvezza, riproposta in chiave nuova, di fronte a una situazione completamente nuova. La novità per eccellenza è data dalla presenza del Figlio, chiave di volta sia dei segni sia del contenuto. «Il Messia entra nelle antiche nozze, nel popolo che vive sotto l’antica alleanza, ma come invitato. Non appartiene ad essa, è soltanto ospite, e così pure i suoi discepoli, che fanno gruppo con lui. La madre vive all’interno dell’alleanza antica; Gesù e i suoi no. La presenza di Gesù sta per mettere in moto la scena» (J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 138). Ecco la novità che non riguarda più la purificazione esteriore, ma l’ordine e il confine della coscienza e responsabilità morale.
Le giare sono di pietra e non di coccio; sono quindi molto preziose perché esigono una lavorazione laboriosa e lunga che le rende anche care da un punto di vista economico. Le giare sono «di pietra» e il termine greco «lìthinai» è unico in Gv (tecnicamente si dice è un hàpax legòmenon, detto una sola volta). Esse rispondono alle esigenze per la purità prescritte nel libro del Levitico, capitolo 11, dove però non si parla di materiale «di pietra», ma di «utensili di legno o di «vaso di terra» (cf Lv 11,32-33). È la tradizione giudaica che dichiara espressamente: «I vasi di pietra (kelè ‘abanìm) non ricevono impurità» (Ghemaràh del Talmud di Babilonia, Shabbàt 96a; cf anche Mishnàh, Teharòt – Cose pure, Iadaìm – Mani, I,2; Kelìm – Oggetti, X,1). Su questo punto tra i rabbini sorprendentemente non sorgono discussioni per cui si deve ritenere che fosse una tradizione abituale e pacificamente accettata da tutti fino alla distruzione del tempio nel 70 d.C.
Gli scavi archeologici dell’ultimo secolo e mezzo (1870-1970), hanno portato alla luce molti e grossi recipienti di pietra, la cui tecnica di lavorazione deve essere andata perduta per mancanza di trasmissione, dovuta alla diaspora dopo la distruzione del tempio e all’impossibilità di usare recipienti così ingombranti per la loro pesantezza (cf J. Gonzalez Echegaray, Arqueología y evangelios, Navarra 1994, 199-201).
Oggi possiamo recuperae l’uso, nonostante siano trascorsi oltre due mila anni di silenzio. Se si vuole, possiamo dire che l’archeologia dà una testimonianza indiretta della veridicità del Vangelo, quanto meno che il racconto di Cana è verosimile con gli usi e le leggi di purità in uso presso gli ebrei al tempo di Gesù.
Dalla penitenza alla gioia
L’acqua che contenevano era quella «per la purificazione dei Giudei» (katà ton katharismòn tôn Iydàiōn). In greco si usa la preposizione propria katà che esprime una relazione tra due soggetti/oggetti. Dal punto di vista delle giare si sottolinea il fine: giare per/destinate alla purificazione; se invece si vuole mettere in rilievo il secondo termine, che è «purificazione», allora si sottolinea la necessità, l’obbligo della loro presenza: giare di pietra necessarie per la purificazione. Sia l’uno che l’altro versante esprimono la funzione delle giare, sottolineata ancora di più dal fatto che erano «collocate/giacenti [per terra]». Le giare sono sei e non sette, cioè sono in numero imperfetto (= 7-1), perché indicano che l’obiettivo per cui esistono, cioè la purificazione, è per sua natura imperfetta (cf J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 141).
San Paolo esprime questo stesso pensiero dicendo che la Toràh non ha in se stessa la forza di realizzare la comunione con Dio perché il suo compito era pedagogico, di accompagnamento a Cristo: «Ma prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi e rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo» (Gal 3,23-25; cf 1Cor 4,15; Rm 4,14-15; 7,7-25).
Gesù non dà eccessiva importanza alle norme di purità; anzi, le contesta spesso e volentieri in tutta la sua vita (cf Mt 23,25-28; Mc 7,1-15; Lc 11.39), perché esse sono «di pietra»: impongono pesi che schiacciano, mentre la proposta di Gesù è un «giogo dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30).
Quando la legge, qualsiasi legge, specialmente quella morale è astratta e non tiene conto delle condizioni oggettive delle persone, è un impedimento enorme che ostacola la vita piuttosto che sostenerla. Il bisogno costante di purificazione, l’ansia, anzi l’ossessione della colpa, che oggi potremmo chiamare il senso di colpevolezza, non porta da nessuna parte, toglie solo la gioia della vita che non viene vissuta più come dono, ma come condanna. Sono le giare di pietra che stanno lì piene di acqua, pronte per la purificazione, ma inefficaci, inutili, immobili: «giacenti». Come la confessione per molti cattolici: ci si confessa sempre per ricominciare d’accapo. Questa loro inutilità è trasformata dalla presenza del Signore che le riempie di vino giornioso, perché con l’avvento del Signore Gesù è la gioia la sorgente della purificazione e dell’incontro (cf M. Morgen, Le festin des noces de Cana, 142).
Ascesi o esultanza di vita?    
Secoli di ascesi ci hanno allontanato dal cuore del Vangelo e ci hanno scaraventato nell’abisso della desolazione: la persona votata a Dio doveva entrare nell’inferno della mortificazione, della rinuncia, del sacrificio; tutto era tetro e contro Dio, tutto era peccato, e quindi bisognava confessarsi sempre, spesso: si passava la vita tra esami di coscienza e fustigazioni, tra penitenze e mortificazioni che umiliavano l’uomo «fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore… coronato» (Sal 8,6). Essere cristiani significava quasi essere ossessionati, rinunciatari, mortificati.
Gesù sostituisce l’acqua della purificazione con il vino dell’esultanza, perché il «Vangelo» è, anche etimologicamente, «una notizia che porta gioia» e allegrezza. Il «Vangelo» è la Persona stessa di Gesù che viene a sedersi alla mensa della nostra vita per celebrare con noi le nozze dell’alleanza.
In questo contesto si capisce ciò che intende l’autore della prima lettera di Giovanni: «In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,19-20), perché «Dio è Agàpē» (1Gv 4,8.16) e giudica meglio del nostro cuore, cioè della nostra coscienza (cf Rm 2,15; Ef 1,18).
La staticità immobile delle giare distese per terra emerge nitida e forte, quasi ad imprimere bene nella mente del lettore che la Toràh «di pietra» è diventata così pesante e inamovibile da schiacciare sotto il proprio peso chiunque se ne fosse fatto carico.
Il profeta Ezechiele lo aveva previsto e descritto:

«25Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, 26vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. 27Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,25-27).
Per il profeta la pietra è simbolo di un cuore senza amore, ossessionato dall’osservanza religiosa, ma incapace di amare e di respirare la libertà dei figli di Dio. È necessario un trapianto cardiaco per estirpare l’immobilità pietrificata della Toràh che si riduce a un’osservanza esteriore e sostituirla con un afflato di sentimenti (spirito) che incontra la Toràh come motivo di affetto e relazione che esigono due cuori innamorati in movimento reciproco dell’uno verso l’altro.
I rabbini del dopo esilio avevano codificato la Toràh in una serie di 613 precetti da osservare per essere un buon giudeo. È l’estensione a dismisura non tanto della legge morale, ma della ossessione per la casistica che non lascia nulla al caso o alla determinazione della libertà personale, ma tutto è previsto, stabilito e codificato.
Dalla religione dell’obbligo
alla fede dell’amore
Al tempo di Gesù l’osservanza di tutti i precetti della Torah (Sir 51,26; Ger 2,20; 5,5; Gal 5,1) erano considerati un giogo pesante da portare. Il Talmud babilonese (trattato Makkoth 23b, tradizione di Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C.) insegna che la Toràh contiene 613 mitzvòt – precetti (ebr.: Tariàg mitzvòt) dei quali 248 sono mitzvòt asèh (comandamenti positivi, prescrizioni) e sono in numero uguale ai pezzi che compongono il corpo umano (ossa, nervi, ecc.); 365 sono mitzvòt taasèh (comandamenti negativi, divieti) e corrispondono ai giorni dell’anno solare. Il senso è semplice: la Toràh deve essere osservata con tutta la persona (248 ossa, nervi, ecc.) con un impegno che deve durare tutto l’anno (365 giorni; Cf Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C. in Makkot 23b.).
Le donne erano dispensate dall’osservare i precetti negativi per lasciare loro una certa flessibilità nel loro impegno familiare, mentre erano obbligate a quelli positivi. Tuttavia esse potevano, se volevano, osservare anche i precetti negativi.
Il numero 613 si ricava dalla ghematrìa: la parola Toràh in ebraico (T_W_R_H) ha un valore numerico di 611 (400+6+200+5), a cui devono aggiungersi i due pronomi personali con i quali Dio si presenta nel consegnare l’intera Toràh a Mosè sul Sinai (Es 20,2-3; Dt 5,6-7). La somma di 611+2 dà il risultato di 613.
I farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi perché incapace di osservare tutti i precetti prescritti. Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh per scoraggiarlo (Talmud, Berakot 30b).
Il giogo però indicava anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh che equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (Cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud, Shabàt 127a).
Giovanni nel prologo parla di «Lògos» al singolare, che è una magnifica contrapposizione all’inflazione delle «parole» che dominava il suo tempo. La «pienezza del tempo» si caratterizza per il fatto che la Parola per eccellenza, la Toràh, la creazione e i comandamenti non sono altro che anticipi, prolessi dell’unica Parola che è il Figlio di Dio, il quale non ha più bisogno di molte parole per manifestare il volto di Dio; ma ora è lui stesso, il Figlio prediletto, che diventa Parola. Per questo sul monte Tabor, la voce celeste ordinerà di ascoltarlo (cf Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35).
In questo contesto si situa la necessità di una purificazione costante, a motivo della quale le case dovevano essere attrezzate con recipienti di acqua, come attesta anche l’evangelista Marco:

«1Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate, – 3i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie, oggetti di rame -, 5quei farisei e scribi lo interrogarono: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”» (Mc 7,1-5).
Anche l’autore della celeberrima Lettera dello pseudo-Aristea (sec. II a.C.) che narra la leggenda della traduzione in greco della Bibbia ebraica, osserva che i settanta sapienti mandati da Gerusalemme in Egitto, quotidianamente «secondo poi la consuetudine dei Giudei… dopo essersi lavate le mani nel mare» (Lettre d’Aristée …232), compivano la purificazione prescritta. Lo stesso facevano gli Esseni di Qumran: prima di pranzo «immergono/bagnano il corpo in acqua fredda e dopo questa purificazione» prendono posto alla comune «mensa considerata come un luogo santo» (Flavio Giuseppe, GG II,8,5).
Le giare di pietra
profezia dell’umanità di Dio
La purificazione è essenziale nell’ebraismo perché ogni azione e luogo può contaminare e rendere inabili al culto liturgico, a celebrare lo Shabbàt e la preghiera. In Marco, che abbiamo appena citato, i farisei rimproverano Gesù perché «alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate» (Mc 7,2). Gli stessi Giudei, prima della festa di Pasqua salgono a Gerusalemme per purificarsi e potere essere adatti alla celebrazione: «Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi» (Gv 11,55) e quando chiedono la condanna di Gesù da parte di Pilato «non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28).
Gesù porta un’altra logica perché non è più la purità legale o rituale che conta, ma la purezza del cuore, cioè la trasparenza della coscienza che si nutre della Parola di Dio, cioè del Lògos, cioè di Dio stesso: «Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,3).
La purificazione avviene attraverso l’acqua, tema centrale in tutto il quarto vangelo: il capitolo quarto descrive l’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe; tra i due si instaura un duetto sull’acqua che dà sete e sull’acqua che disseta per la vita eterna attraverso la parola di Gesù Messia (cf Gv 4,10.26); il cieco alla piscina di Betzatà deve immergersi nell’acqua agitata dall’angelo (cf Gv 5,1-7); il cieco nato deve lavarsi alle acque di Sìloe (cf Gv 9,7) e l’umanità nuova nata sotto la croce, rappresentata dalla madre e dal discepolo, sono lavati dall’acqua e dal sangue sgorgati dal costato di Cristo (Gv 19,26.34). Le giare di pietra, inutili alla purificazione che si apprestano a contenere il vino giornioso dell’alleanza, ora sono profezia dell’umanità di Dio.

Paolo Farinella

(31 continua).

Paolo Farinella




Star male da mangiare

Cause e conseguenze dell’obesità

Al problema della fame nel mondo si aggiunge l’obesità, che tocca un miliardo di persone.
Nei paesi ricchi ma anche in quelli poveri.
L’Italia è al primo posto in Europa per persone in sovrappeso. Le cause sono quello che mangiamo e il nostro modo di vivere. E l’obesità scatena una lunga serie di malanni.

Da sempre la fame nel mondo assilla l’umanità e tuttora muoiono di fame complessivamente più di 7,6 milioni di bambini in età prescolare ogni anno. Eppure a questo problema, ben lontano dall’essere risolto, se ne è aggiunto un altro, insospettatamente presente ovunque, anche nei paesi in via di sviluppo: l’obesità.
Secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), il numero di persone in sovrappeso nel mondo è di oltre un miliardo (di cui 300 milioni francamente obese), decisamente superiore a quelle che soffrono la fame, cioè 925 milioni (rapporto Fao del 2010). Una vera e propria epidemia.
Oltretutto l’Oms stima una crescita dell’obesità del 50% nei prossimi 10 anni. In alcuni paesi occidentali, come gli Stati Uniti, si calcola che solo una persona su tre sia normopeso, ma troviamo dati preoccupanti anche in Messico, Egitto e Sudafrica con più della metà degli adulti in sovrappeso, cioè con indice di massa corporea (Imc) pari o superiore a 25. L’Imc è il rapporto tra il peso espresso in chili e  il quadrato dell’altezza espressa in metri. Negli stessi paesi un quarto della popolazione è obesa (Imc pari o superiore a 30). In quasi tutti i paesi dell’America Latina, in buona parte del Medio Oriente e del Nord Africa almeno un quarto degli adulti è sovrappeso. Ormai iniziano a fare i conti con questo problema anche paesi molto poveri come l’Uganda e la Nigeria.

Situazione Italia
Secondo i dati del ministero della Salute, l’Italia è al primo posto in Europa, con il 36% delle persone in sovrappeso. Un altro dato allarmante dell’Oms riguarda il tasso d’incremento dell’obesità infantile, che è in continua crescita. Complessivamente i bambini rappresentano la metà degli individui stimati in sovrappeso ed in particolare 40 milioni di loro sono clinicamente obesi nel mondo. Nel nostro paese, secondo un’indagine promossa dal ministero della Salute e condotta tra i bambini di 9 anni, in alcune città campione di Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Campania, Puglia e Calabria, il 23,9% è in sovrappeso ed il 13,6% è obeso. Questa indagine inoltre ha evidenziato una maggiore prevalenza dell’obesità nelle città del Sud (16% a Napoli), rispetto a quelle del Nord (6,9% a Lodi).
Il problema dell’obesità si è ovunque acuito negli ultimi 20 anni, complici la sempre maggiore disponibilità di cibo e le innovazioni tecnologiche, che ci evitano una buona parte dei lavori faticosi.
Ma se questa situazione è più facilmente comprensibile nei paesi ricchi, viene da chiedersi cosa stia succedendo in quelli più poveri. In questo caso possiamo parlare di «transizione alimentare», cioè il passaggio dalla denutrizione all’iperalimentazione avvenuto in meno di una generazione. Chi si reca attualmente in paesi come Messico, Cina, India, Filippine può osservare situazioni molto diverse rispetto ad una ventina di anni fa: è aumentato enormemente il consumo di bibite, i ragazzini passano molte ore davanti alla tv, gli adulti si spostano sempre più in motorino anziché a piedi e il cibo viene comperato al supermercato, dove abbondano dolcificanti, oli di semi e cai a basso costo, conseguenza del business agroalimentare.
Inoltre è aumentata l’urbanizzazione. Peraltro si riscontra un aumento dell’obesità anche nelle aree rurali. Il Messico è forse il paese in via di sviluppo più colpito dall’epidemia di obesità: nel 1989 le persone in sovrappeso erano meno del 10% della popolazione, mentre l’obesità conclamata era praticamente inesistente. In un’indagine nazionale del 2006, il 71% degli uomini ed il 66% delle donne sono risultati in sovrappeso o obesi, una situazione molto simile a quella riscontrata negli Stati Uniti.
Sicuramente, tanto nei paesi meno sviluppati che in quelli ricchi, l’obesità prevale tra le persone povere e con un basso livello di istruzione.
Parallelamente alla crescita del numero degli obesi, in Messico è cresciuto quello degli individui ammalati di diabete di tipo 2 (o dell’adulto), che fino a 15 anni fa era pressoché inesistente, mentre ora ne soffre quasi un sesto della popolazione.

Tutti i mali dell’obesità
La situazione messicana rispecchia quella a livello mondiale: agli inizi del 2000 c’erano circa 170 milioni di individui affetti da diabete di tipo 2, mentre si prevedono 366 milioni di malati nel 2030, secondo l’andamento attuale. L’obesità, oltre che al diabete di tipo 2, risulta associata a una pletora di ulteriori problemi sanitari (che si riscontrano sempre più spesso anche tra gli obesi in età giovanile) come il rischio di sviluppare  aterosclerosi, disordini neurodegenerativi, patologie dell’apparato respiratorio, alcune forme di cancro, sindrome metabolica (intesa come un complesso di condizioni legate all’obesità).
La sindrome metabolica è direttamente correlata a un aumentato rischio cardiovascolare, la principale causa di morte tra gli obesi. Certamente per l’insorgenza del diabete di tipo 2 è importante la predisposizione genetica, tuttavia vi sono parecchie evidenze che lo stile di vita e in particolare l’obesità svolgono un ruolo cruciale.
È emblematica, in tal senso, la storia degli indiani Pima, originari del Messico e migrati circa 2000 anni fa in Arizona, dove riuscirono a rendere fertile una zona desertica. Questa popolazione è geneticamente predisposta al diabete di tipo 2, tuttavia vivendo per secoli con una dieta ricca di fibre e di carboidrati complessi e povera di grassi, è riuscita a vivere a lungo priva della malattia. Agli inizi del ´900 gli americani colonizzarono quella zona, deviarono il corso di un fiume e resero nuovamente desertica l’area occupata dai Pima, che vennero risarciti dal governo americano con foiture di zucchero, farina e lardo. Le abitudini alimentari di questa popolazione variarono bruscamente, con il risultato che essi si ritrovarono con la più elevata prevalenza mondiale di diabete di tipo 2, in associazione all’obesità, cioè l’85% della popolazione. Analizzando gli indiani Pima rimasti in Messico, con le antiche abitudini alimentari, la prevalenza del diabete è risultata di poco inferiore al 10%.
Del resto, l’obesità favorisce un’alterazione del normale funzionamento del segnale dell’insulina, a livello cellulare, che si traduce nell’insulino-resistenza caratteristica del diabete di tipo 2. L’insulina è un ormone ipoglicemizzante prodotto dalla porzione endocrina del pancreas. Tale ormone stimola le cellule ad assumere il glucosio dal sangue (da cui la riduzione della glicemia) e a utilizzarlo per la produzione dell’energia utilizzata nelle molteplici funzioni cellulari.
È stato rilevato che l’80% dei pazienti diabetici è obeso e che la correlazione tra le due patologie è ancora più forte quando l’obesità è di tipo addominale. Entrambe le patologie risultano associate ad un incremento della disponibilità alimentare e ad una riduzione dell’attività fisica.

Problemi di comunicazione
L’organismo umano è programmato per fare fronte alle scarsità alimentari, per cui non è capace di rispondere adeguatamente a disponibilità praticamente illimitate di fonti caloriche, né all’enorme risparmio energetico derivante dall’utilizzo di macchinari, che ci evitano i lavori più faticosi. Il nostro corpo immagazzina l’energia in eccesso nel tessuto adiposo, che sarebbe meglio considerare come «organo adiposo» poiché capace di produrre ormoni propri, in particolare la leptina, una molecola che informa il cervello sul contenuto in grasso delle cellule adipose. L’informazione giunge all’ipotalamo, una parte del cervello che presenta il «centro della sazietà» e il «centro della fame». Altre informazioni importanti per la regolazione del livello energetico giungono al cervello da stomaco, fegato ed intestino.
È probabile che nelle persone obese esista un difetto di comunicazione tra gli organi suddetti e il cervello, con conseguente attivazione del «centro della fame».
Certamente l’enorme diffusione dei supermercati tanto nei paesi ricchi, quanto in quelli poveri ha reso facilmente disponibili in grande quantità e a costi relativamente bassi bevande dolcificate, cibi industriali, cibi di origine animale e oli di semi, cioè sostanzialmente alimenti ad alta densità energetica. Poiché il corpo umano regola l’appetito in base al volume di cibo introdotto, piuttosto che in base alle corrispondenti calorie, è evidente che la grande disponibilità di cibi altamente calorici è già di per sé un primo passo verso la diffusione dell’obesità.
Quest’ultima, secondo il rapporto Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) Obesity and the economics of prevention: fit not fat (2010) comporta una riduzione della  vita di 8-10 anni per una persona gravemente obesa, e il rischio di morte prematura aumenta del 30% ogni 15 chilogrammi di peso in eccesso.
L’obesità comporta degli elevati costi sociali. Sempre secondo il rapporto citato, nei paesi dell’Ocse (a cui appartiene anche l’Italia), l’eccesso di peso è responsabile dell’1-3% della spesa sanitaria (5-10% negli Stati Uniti), ma questa spesa è destinata a salire con l’aumento delle patologie correlate all’obesità.
Spesso quest’ultima è caratterizzata dalla presenza di fame compulsiva, una sorta di dipendenza dal cibo del tutto simile a una tossicodipendenza.
Sia in un caso che nell’altro è stato infatti osservato un aumento dei livelli serici di dopamina dopo avere assunto il cibo o la droga. La dopamina è un neurotrasmettitore che conferisce una sensazione di benessere ed è coinvolta nei meccanismi di ricompensa e di motivazione comportamentale. Quindi il cibo, in particolari circostanze, può rappresentare una droga e, per giunta, non solo legalizzata, ma necessaria per la sopravvivenza, per cui diventa molto più difficile stae alla larga.
Fortemente responsabile dell’impennata dell’obesità mondiale è il cosiddetto «cibo-spazzatura» (i vari fast food, snack, preparazioni alimentari industriali, che ci fanno risparmiare tempo in cucina), particolarmente ricco di zuccheri semplici e di grassi saturi, e povero di frutta, di verdura e di cereali integrali. L’industria alimentare fa affari d’oro, grazie alla pubblicità martellante e al basso costo di questo tipo di cibo, il cui valore nutrizionale, inteso non soltanto come apporto calorico, bensì di vitamine, di oligoelementi, di grassi polinsaturi (utili per contrastare l’aterosclerosi) come gli omega-3, è decisamente molto basso.
Tra l’altro va detto che un target molto importante della pubblicità di prodotti alimentari sono i bambini al di sotto degli 8 anni, nei quali viene creata una vera e propria dipendenza psicologica dai cibi ad alto contenuto di grassi e di zuccheri, in modo da indirizzae le scelte future.
Secondo uno studio apparso su Nature, gli alimenti ricchi di grassi e di zuccheri creano la stessa dipendenza del fumo. Si intuisce, in tutto questo, l’enorme giro d’affari dell’industria alimentare prima e di quella farmaceutica dopo. E naturalmente di quella pubblicitaria.
Per contrastare l’obesità, in attesa di conoscere meglio i meccanismi biochimici, che ne sono alla base, valgono i vecchi buoni consigli del medico: alzarsi da tavola con ancora un po’ di appetito e fare gioalmente un po’ di attività fisica (lasciamo a riposo l’auto e l’ascensore, per esempio). E poi diamo la preferenza a frutta, verdura, cereali e grassi polinsaturi vegetali o presenti nel pesce grasso, piuttosto che a carne, grassi saturi di origine animale, zuccheri raffinati e pane bianco.

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




Cana (30): Storia d’Israele in sei giare di pietra

«I giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro:
sono infatti i precetti della Legge che studiano»  (Targum Ct 5,15)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Le giare distese per terra sono in numero di «sei» e ciascuna può contenere «due/tre» metrète. Se si moltiplica 2×3 si ha ancora il risultato di sei. Che significato hanno questi numeri, ammassati tutti nello stesso versetto? Perché le giare sono «sei» e non cinque o quattro o tre? Perché non si parla genericamente di «alcune giare», ma si specifica esattamente che sono «sei»? Perché, invece, la loro capienza non è precisa, ma oscilla tra «due o tre» misure che se moltiplicate tra loro fanno sempre «sei»?
Proviamo a scoprirlo interrogando il vangelo di Giovanni che, come ormai sappiamo, gioca con il doppio senso delle singole parole, obbligandoci a non fermarci mai alla superficie, cioè al senso ovvio delle parole. Quando poi si tratta di numeri bisogna essere ancora più circospetti, perché in ebraico, cioè nella mentalità semita, i numeri corrispondono alle lettere dell’alfabeto e quindi possono assumere significati particolari, applicando una delle leggi dell’esegesi giudaica che è la «ghematrìa» o «scienza dei numeri» (su questo argomento cf P. Farinella, Bibbia, Parole, segreti, misteri 49-60).

Il numero «sei» nel vangelo di Giovanni
Il numero «sei», che è molto importante nell’economia del racconto delle nozze di Cana, in tutto il vangelo di Giovanni ricorre 7x (x sta per «volte»):
1.    È ripreso all’inizio del racconto di Cana dove si dice: «Nel terzo giorno vi fu uno sposalizio a Cana di Galilea» (Gv 1,1) che, come spiegato a lungo, corrisponde al «sesto giorno» della prima settimana di Gesù descritta da Giovanni nel cap. 1°, perché segue il triplice «il giorno dopo… il giorno dopo… il giorno dopo», cadenzato come un ritornello (Gv 1,29.35.43).
2.    È ripetuto in Gv 2,6 per indicare il numero delle giare: «Vi erano là sei giare di pietra».
3.    È ripreso nell’incontro con la Samaritana al pozzo di Giacobbe dove Gesù arriva «circa l’ora sesta» (Gv 4,6). Purtroppo ll’ultima traduzione della Bibbia-Cei (2008) traduce con un banale «era circa mezzogiorno», spezzando in un sol colpo tutta la pregnanza di quell’«ora sesta», evocativa della storia del mondo e della storia di Israele. Peccato, perché così si priva il popolo di Dio di una parte importante della rivelazione.
4.    Nello stesso incontro, Gesù dice alla Samaritana che ha «cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito» (Gv 4,18), per cui siamo di fronte a una donna che ha avuto «sei mariti».
5.    La settimana prima della passione inizia con il riferimento ai «sei giorni prima della Pasqua».
6.    La proclamazione della regalità di Gesù da parte di Pilato davanti al popolo d’Israele avviene «circa l’ora sesta» (cioè mezzogiorno) (Gv 19,14).
7.    Gesù muore nel giorno della «Parascève», cioè il giorno precedente la Pasqua ebraica, quindi il venerdì, cioè il «sesto giorno» (Gv 19,31.42).
In questo contesto, che riguarda tutto il vangelo, il numero «sei», come spesso abbiamo sottolineato, ha un chiaro, formale riferimento ai «sei giorni» che precedono il fatto di Cana (prima settimana di predicazione pubblica di Gesù) descritti in Gv 1, ai «sei giorni» prima della Pasqua dell’ultima settimana di Gesù, descritti in Gv 12ss., ai «sei giorni» del Sinai, nei quali Israele «è creato» come popolo e ai «sei giorni» della creazione come narrata in Genesi 1.

Il numero «sei»
ritma le tappe della storia religiosa
Se ciò è vero, allora Cana è parte di un processo che abbraccia tutta la storia di Israele e tutta la storia di Dio. A Cana non si consuma un banale matrimonio, ma si rinnova la creazione dell’universo, simboleggiato nel vino; a Cana si rinnova l’alleanza del Sinai, rappresentata dalla madre; a Cana si anticipa la Pasqua come compimento non solo della vita terrena di Gesù, compresa tra due «sei giorni» (settimana iniziale e settimana finale), ma anche come compimento della speranza di Israele, purificato non più dall’acqua antica, ma dal sangue del Figlio che dona la sua vita per il mondo nuovo, abitato da Giudei e da Greci, da Ebrei e da Romani (cf Gv 19,23-25).
Nella puntata 17a «Simbologia del terzo giorno» in MC dicembre 2010, abbiamo accennato alla questione del numero «sei» e ad essa rimandiamo. Qui ci accingiamo ad approfondire più dettagliatamente, senza ripetere quanto detto. Sia il giudaismo antico che tutta la tradizione giudaica (dal Targum Ct al Talmud) come pure la tradizione cristiana antica, hanno interpretato «le sei giare» come simbolo delle «sei età/epoche» in cui sarebbe diviso il mondo, dall’inizio della creazione alla venuta di Gesù Cristo, il cui schema, con modulazioni diverse, si avvicina al seguente:
1a età:  da Adamo a Noè;
2a età:  da Noè ad Abramo;
3a età:  da Abramo a Davide;
4a età:  da Davide all’esilio di Babilonia;
5a età:  dall’esilio di Babilonia a Giovanni il Battista;
6a età:  da Giovanni Battista a Gesù con la sua nascita,       morte e risurrezione.
(Poiché è impossibile dare conto di tutti i testi e autori, per chi volesse approfondire in modo esaustivo queste tematiche, appena sussurrate, consigliamo di A. Serra, Nato da Donna Gal 4,4, 141-191; Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 128-133).
A chi potrebbe scuotere la testa davanti a queste applicazioni, che, ce ne rendiamo conto, sembrano molto lontane dal testo che siamo soliti leggere in una qualsiasi traduzione, quello che possiamo dire è semplice: il contesto culturale, letterario e religioso, in cui si muove l’autore è questo ed è dentro di esso che bisogna cercare i riferimenti che a noi sfuggono perché, come abbiamo già sottolineato molte volte, abbiamo perso ogni riferimento al mondo giudaico, limitandoci a leggere il vangelo in latino.
Ancora oggi, infatti, il testo ufficiale della Bibbia nella Chiesa cattolica non è il testo ebraico/greco, ma il testo latino della «Neo vulgata»: ci pare che tutto sia detto. D’altra parte, i Padri della Chiesa leggevano l’Antico Testamento in chiave cristologica e andavano alla ricerca di riferimenti «tipologici» da mettere a confronto tra loro, evidenziando come Gesù fosse il «compimento» di tutta la storia patriarcale.
Tutto l’Antico Testamento veniva letto come «profezia», nel senso di anticipazione velata, di Cristo (vedi il vangelo di Mt, in cui questo rapporto «profetico» è costante e ricercato: Mt 1,22; 2,5.15.17; 3,3; 4,1, ecc.; cf Gv 12,38).

Il numero perfetto
che esprime l’imperfezione creata
Nel racconto di Cana, il riferimento così preciso alle «sei giare» pronte per la purificazione e che su ordine di Gesù saranno riempite d’acqua, hanno una prima e diretta connessione simbolica ai «sei giorni» della creazione, che avviene appunto in «sei giorni» (Gen 2,2 secondo la versione greca della LXX), quando tutto emerge dalle acque «covate» dalla «ruàch» di Dio (Gen 1,2). A questa conclusione ci porta anche l’annotazione, strana in un racconto se non avesse un obiettivo preciso, che ogni giara conteneva «due o tre» metrète.
In riferimento alla creazione, lo scrittore ebreo di cultura greca, Filone di Alessandria (20 a.C. – 50 d.C.) spiega che il numero «sei» è il primo numero «perfetto». Esso, infatti, dopo il numero 1 che è il punto di partenza della numerazione, è il primo numero perfetto perché è uguale alla somma delle parti che lo compongono che sono: la metà (6:2 = 3), il terzo (6:3 = 2) e il sesto (6:6 = 1).
Il «sei» dunque è la somma di 1+2+3 = 6, ma è anche il prodotto della moltiplicazione di 2×3 = 6, cioè del numero pari (il 2) e del numero dispari (il 3), per cui nel «sei» si comprendono e si fondono insieme il dispari e il pari che, secondo lo stesso Filone e la scuola dei Pitagorici, esprimono il maschio (il numero dispari) e la femmina (il numero pari).
Lo stesso riferimento alle giare che contengono «2 oppure 3» metrète ci riportano allo stesso risultato: 2×3 = 6. Tutto ruota attorno a questo numero che sintetizza molti pensieri e riflessioni nel mondo giudaico e cristiano. In questo senso la creazione doveva avvenire in «sei giorni» perché questo numero è il primo numero perfetto, in quanto esprime il senso profondo di tutta la creazione che nasce dal congiungimento di maschio e femmina (Gen 1,27; cf Filone, De opificio Mundi, 13; Legum allegoriae I,3).

Il numero «sei» è il simbolo dei giusti
Il Targum Ct 5,15 aggiunge un elemento importante. Descrivendo il corpo dell’innamorato, l’autore del Cantico dei cantici dice: «Le sue gambe, colonne di marmo (ebraico: shèsh), posate su basi d’oro puro». Poiché in ebraico il numero sei è «shèsh», il Targum così traduce: «E i giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro: sono infatti i precetti della Legge che studiano» (cf anche i Midràshim Nm Rabbàh 10,1 a 6,2 e Ct Rabbàh 5,15.1). In ebraico dunque la stessa parola «shèsh» significa tanto «sei» (numero) quanto «marmo», che il Targum identifica con il «mondo», sorretto dalle colonne del Cantico dei cantici che sono i giusti: essi, infatti, stanno solidi sui precetti della Toràh, che è pertanto il fondamento del mondo intero.
Una tradizione giudaica attestata nel Talmud (Sanhedrin 97a-b; Souk 45b) afferma che ogni generazione è tenuta in piedi da «36» giusti, i cui meriti, a loro insaputa, garantiscono la Shekinàh sulla terra; anzi la presenza di un solo giusto garantisce la sopravvivenza del mondo (TB,Yoma 38b).
Mettendo insieme queste reminiscenze, vediamo allora che le «sei giare» di Cana richiamano la Toràh del Sinai come fondamento del mondo e la giustizia dei giusti che sorgono come conseguenza dell’osservanza dei comandamenti del Signore e che ne garantiscono la sopravvivenza. Poiché uno dei giusti che sorreggono le sorti del mondo è il Messia, la presenza di Gesù a Cana è la garanzia che la nuova alleanza poggia sulla solida colonna della sua persona e del suo messaggio. I giusti sono le colonne di «marmo» (Targum CT) come le giare sono «di pietra», sempre pronte a purificare la sposa/Israele prima di presentarsi al cospetto del suo Sposo/Signore.
Il numero «sei», collegandosi ai «sei giorni» del Sinai, sempre secondo Filone (Questiones in Exodum II,46), è anche il simbolo dell’elezione di Israele, popolo dell’alleanza, quell’alleanza che ora Gesù manifesta a Cana.
L’elezione d’Israele è considerata come una seconda creazione, perché lo statuto della prima fu distrutto da Adam, mentre al Sinai Israele riceve un nuovo ordine e una nuova identità, espressi nella Toràh, cioè sulla volontà proclamata e scritta di Dio. Non è un caso che la risposta d’Israele sia: «Faremo e ubbidiremo quanto il Signore ha detto» (Es 24,7), perché al Sinai ha origine «il principio» d’Israele, come nella Genesi è «il principio» delle acque e della terra (Gen 1,1).
Sul monte Sinai apparve «la gloria del Signore» (Es 24,16-17); allo stesso modo il vangelo di Giovanni comincia contemplando il «principio» del Lògos che a Cana compie «il principio dei segni» con cui «manifestò la sua gloria» (Gv 2,11).

A Cana è data la nuova Toràh che è il Vangelo   
Il rapporto tra la creazione, il Sinai e le sei giare è dato anche dal fatto che Adam è stato creato nel sesto giorno, ma sullo sfondo del giardino di Eden di cui poteva mangiare i frutti «di tutti gli alberi» (Gen 2,16); il monte Sinai è equiparato a un albero di melo che produce mele che sono le singole parole della Toràh, come insegna il Targum di Ct 2,3. Dove il testo ebraico dice: «Come un melo tra gli alberi del bosco, così l’amato mio tra i giovani. Alla sua ombra desiderata mi siedo, è dolce il suo frutto al mio palato», il Targum traduce: «Come il melo, bello e pregiato fra quegli alberi che producono frutti, è da tutti elogiato e prediletto, così il Sovrano dell’universo fu lodato dalle Creature celesti quando si rivelò sul monte Sinai, quando dette la Toràh al suo popolo. Allora ardentemente desiderai di rimanere sotto l’ombra della sua Shekinàh, perché i precetti della sua Toràh erano come profumo al mio palato».
Il Liber Antiquitatum Biblicarum 11,15 (SC 229,124, 230,113), attribuito allo (Pseudo) Filone, paragona l’albero della vita piantato al centro dell’Eden alla Toràh che Dio dona a Israele sul monte Sinai per mezzo di Mosè.
In conclusione, potremmo dire che le «sei giare» (come la madre in Gv 2,1) sono il simbolo del tempo prima di Cristo e ciascuna delle sei giare rappresenta una delle sei epoche che lo compongono fino ad arrivare al Sinai, dove inizia il tempo nuovo con il dono della Toràh.
Poiché ogni giara contiene «2 / 3» metrète, la cui moltiplicazione dà sempre «sei», significa che ogni epoca tendeva naturalmente a Cristo, come la stessa Toràh è protesa verso la sua pienezza che è il Messia Gesù di Nàzaret.
Tutte le «sei giare», infatti, sono di pietra (lo stesso materiale delle tavole) e sono giacenti per terra, in attesa del tempo nuovo, della nuova Alleanza (pronte per la purificazione).
In Giovanni 1,17 l’autore ci aveva preavvertito: «La Legge/Toràh fu data per mezzo di Mosè; ma la grazia della verità venne per mezzo di Gesù Cristo».
È in questa prospettiva che Paolo, applicando l’esegesi giudaica, nel commento a Gen 12,7, può dire: «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: “E ai discendenti”, come se si trattasse di molti, ma: E alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo». È il discendente di Abramo, anticipato nella Toràh del Sinai, che ora si rivela a Cana per annunciare la nuova Toràh, cioè il suo Vangelo, sulla cui stabilità è fondata la nuova alleanza, qui rappresentata dalle nozze di due anonimi sposi.
(30 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (29): Le giare di pietra e le tavole in pietra della legge

Il racconto delle nozze di Cana (29)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Con il v. 6 siamo arrivati al cuore del racconto dello sposalizio di Cana. Nella puntata Otto personaggi in cerca di simboli (MC 9 – 2009, pp. 20-22), presentando lo schema dell’intero racconto, che per noi è costruito a chiasmo, cioè a forma incrociata, dove si corrispondono il primo e l’ultimo elemento, il secondo e il penultimo, il terzo e il terzultimo fino a un punto centrale come al proprio cuore (per lo schema v. MC 9), abbiamo rilevato che l’autore con quello che precede e quello che segue vuole condurre il lettore a questo versetto, che è quindi la chiave più importante della narrazione.
Se questo è vero bisogna prestare molta attenzione non solo alla lettera del testo, ma alla «mens» dell’autore e cercare di capire quale messaggio vuole trasmetterci. Mettendoci in ascolto silenzioso e dinamico della Parola, cerchiamo di scoprirlo.

Dalla grammatica e sintassi …
Da un punto di vista testuale vediamo subito che la prima parte è costruita con un «ipèrbato», che è una figura letteraria per cui due termini che dovrebbero stare insieme sono interrotti da una o più parole: qui i termini «hydrìai – giare» e «kèimenai – collocate/giacenti [per terra]» sono separate dalla frase «per la purificazione dei Giudei», dando all’intero versetto un empito di suspence.
Alcuni codici antichi, sia importanti che meno importanti, eliminano il participio presente passivo «kèimenai – collocate/giacenti» per un evidente fine di semplificare e rendere il testo più scorrevole: «Vi erano poi là sei giare di pietra collocate/giacenti [per terra, pronte] per la purificazione dei Giudei». Invece l’autore, usando la costruzione che tecnicamente si chiama «perifrastica passiva», pone l’accento non sulla posizione delle giare, e cioè che erano per terra, ma sulla materia con cui sono fatte (sono di pietra) e sulla loro funzione e scopo, cioè «per la purificazione dei Giudei». La costruzione perifrastica è frequente nel quarto vangelo: cf, p. es., Gv 3,27; 6,65; 13,23; 16,24; 20,30 (cf BDR § 3522-3; M. Zerwick, Il greco 154 §362).
In altre parole, in questo modo, l’autore ci obbliga a considerare ancora una volta il rapporto che c’è tra lo sposalizio di Cana e ciò che è avvenuto ai piedi del Sinai: per ricevere la Torah, Israele tutto deve «purificarsi per tre giorni»; allo stesso modo per ricevere il compimento della Toràh, che è lo sposo-Gesù, bisogna che tutto il popolo nuovo si purifichi prima di accedere alle nozze.
Questo invito è dato in modo plastico e forte dalla presenza delle giare: «Vi erano poi là sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei»: la funzione delle giare è «permanete» perché esse non sono là occasionalmente, ma restano, anzi devono restare lì «collocate/giacenti per terra». Il loro immobilismo, quasi inerte come cadaveri, esprime la loro funzione permanente: c’è sempre bisogno di purificazione prima di accedere al cospetto di Dio.
C’è un altro elemento che ci porta alla stessa conclusione ed è l’uso della preposizione propria «katà» che noi abbiamo tradotto, semplificando, con «per». In greco questa preposizione si costruisce con il caso accusativo e indica una relazione, per cui si dovrebbe tradurre letteralmente con «in relazione alla purificazione dei Giudei», oppure «secondo la purificazione dei Giudei», oppure ancora «destinate alla purificazione dei Giudei».
Se si guarda dalla parte del soggetto, cioè le giare, la preposizione indica finalità/scopo: ci dice che le giare hanno come scopo proprio di essere sempre pronte per la purificazione dei Giudei. Se invece si guarda dal punto di vista della purificazione, cioè del complemento, allora si sottolinea la necessità della purificazione stessa. In questo senso si può anche tradurre: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, destinate la purificazione dei Giudei»; oppure: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione necessaria/obbligatoria dei Giudei».

… al significato pregnante dei simboli e parole
Ci soffermiamo su questi aspetti linguistici che a qualcuno possono apparire noiosi o pignoli, per fare notare ai nostri lettori che nella Parola di Dio, ogni sfumatura ha un senso e mai dovremmo cedere alla tentazione della superficialità o del pressappochismo. Se l’autore usa una frase piuttosto che un’altra non è per capriccio o perché ininfluente per la comprensione del testo. Quanti dei nostri lettori, infatti, nelle innumerevoli volte che hanno letto questo racconto, non hanno pensato che esso avesse come finalità di edificarci con un pensiero spirituale sul sacramento del matrimonio, mentre al contrario, prendendo lo spunto da un banale sposalizio, ci costringe a pensare all’alleanza del monte Sinai per concludere che ora davanti a noi non c’è un profeta, seppur grande come Mosè, ma c’è il Lògos in persona, il Figlio di Dio che è l’Alleanza del Padre?
Diciamo questo anche perché il Gv 2,6 che descrive le giare corrisponde nella costruzione sintattica a Gv 2,1, che abbiamo già esaminato nella puntata C’era là la madre di Gesù (MC 4 – 2011, pp. 30-32), dove avevamo già proposto il parallelo linguistico, osservando che la costruzione è tipicamente giovannea, riportando i testi di riferimento e mettendo in evidenza che la costruzione in Gv 2,1 e 2,6 è voluta espressamente dall’autore per creare un parallelo tra la madre e le giare secondo lo schema seguente:

– Gv 2,6:     «Vi erano poi là sei giare di pietra» 
    (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).
– Gv 2,1:    «Ed era la madre di Gesù là»
    (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).

Abbiamo anche messo in evidenza che la costruzione «era/erano… là», avverbio locativo + verbo «essere», si trova circa una decina di volte nel quarto vangelo (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26); per cui rileviamo che l’autore vi attribuisce una certa importanza: il tempo imperfetto del verbo «essere» ha un valore «qualitativo» nella linea secondaria della narrazione: da una parte fornisce informazioni circostanziali, cioè in più, per permettere al lettore di farsi un’idea più completa del racconto, e dall’altra ci descrive la qualità dello «stare», che non è solo una presenza occasionale, come potrebbe essere la partecipazione a un matrimonio, ma sottolinea e mette in evidenza che tale «presenza» è determinante, in quanto «doveva essere là»: quasi uno stato di necessità.
In altre parole, Giovanni informa il lettore sul contesto del racconto, offrendo dati supplementari che in questo caso mettono in relazione la madre con le giare. Dicendo che sia la madre che le giare «stavano… là», ci suggerisce l’idea che esse dovevano essere là fin dall’inizio: sia la madre che le giare rappresentano quello che «c’era da sempre», cioè tutta la storia d’Israele che s’identifica nell’alleanza data sul Sinai e scritta su tavole di pietra, come le giare sono di pietra (di questo parleremo nella prossima puntata).

Le giare, la madre, la Toràh e Israele
La madre rappresenta Israele e le giare la Toràh incisa nelle tavole di pietra che segnano la storia costante del popolo di Dio. Il tempo imperfetto, infatti, indica un’azione continuativa e duratura nel passato. In parole più semplici: con quella costruzione «era/erano… là» l’autore ci dice che sia la madre che le giare sono il passato che cedono il passo al nuovo che è Gesù. Non si tratta però di sostituzione, quasi che l’alleanza del Sinai fosse superata dall’avvento di Gesù, ma di un superamento nell’ordine della pienezza: il passato che era inerte (le giare giacciono per terra) e che non ha più speranza (manca il vino che tanto preoccupa la madre), ora può riprendere vita e attingere linfa dal nuovo perché Gesù non è «venuto ad abolire la Legge o i Profeti… ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).
Se Giovanni annette molta importanza al confronto «madre – giare», significa che le due presenze e le modalità del loro essere presenti non sono casuali: la madre non è venuta alle nozze solo perché ha ricevuto un invito, ma «era necessario» che fosse «là», perché essa è rappresentativa dell’attesa di Israele. Nella madre Giovanni condensa tutta l’attesa messianica di tutta la storia del suo popolo; ella è la personificazione di tutto Israele da cui si distingue nettamente.
Da un lato Israele, pur possedendo la Toràh, non ha accolto il Lògos (Gv 1,11), preferendo il buio della sua chiusura anche alle novità di Dio; dall’altro la madre che rappresenta l’Israele che attende si apre al nuovo, prende coscienza che manca il vino e chiede il nuovo vino del Messia, quello che inaugurerà gli ultimi tempi con una abbondanza senza misura.
Allo stesso modo deve dirsi delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» e c’erano prima ancora che le nozze avessero inizio. Anche queste hanno uno scopo, che è «la purificazione dei Giudei», ma sono inerti, tanto inerti che devono ripetere all’infinito il rito purificatorio, allo steso modo delle tavole di pietra della Toràh, che dopo essere state spezzate, devono essere riscritte e riconsegnate.
Anche le giare dicono che sono ormai inadeguate a ricevere «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) che si apre al Regno definitivo. Bisogna aprirsi al nuovo, la tradizione e le tradizioni non servono più, possono essere qualche volta un rifugio di sicurezza, ma non sono quasi mai una spinta a cogliere «il presente di Dio». A volte invece possono essere deleterie e pericolose: «Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,13).

La funzione ripetitiva delle giare
Le giare sono il simbolo visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137), che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
    a)    Le giare sono pronte per la purificazione dei Giudei, quasi un prolungamento di quanto avvenne ai piedi del Sinai, dove Dio stesso impose che il popolo si purificasse per essere pronto e degno a ricevere la Toràh: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
    b)    La madre/nuovo popolo è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre assume un connotato dirompente di profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino conservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio sta per scorrere abbondante e senza misura inaugurando i tempi del Messia.

Un dato è certo, nella prima parte del v. 6, l’attenzione deve porsi sul tema della purificazione, che quindi è una idea importante e che bisogna approfondire, entrando più intimamente nel testo, da cui scopriamo che l’aggettivo di materia «líthinai – di pietra» è esclusivo di Giovanni (in tutto il NT ricorre solo altre due volte: in 2Cor 3,3 e in Ap 9,20). Gli elementi che Giovanni mette nel versetto sono molteplici e interessanti: le giare sono di pietra, sono in numero di «sei», sono inerti perché giacciono distese per terra e sono sempre in attesa di servire i Giudei per la purificazione. Sono così importanti che anche la quantità del loro contenuto (l’acqua) è misurata: ognuna di esse è «chōroûsai – contenenti due o tre metrète».

Una misura senza misura
Il participio presente attivo femminile che concorda con le giare forma una seconda coniugazione perifrastica, qui attiva. Anche in questo caso, invece di dire che «le giare contengono due o tre metrète», l’evangelista dice che «le giare erano contenenti due o tre metrète». È evidente che l’autore con questa scelta sintattica sottolinea non la normalità, ma l’abbondanza del contenuto, perché in un certo senso prolunga le parole «erano contenenti», che richiama l’attenzione meglio e maggiormente del banale e semplice «contenevano». Nella prima forma, uno è costretto a fermarsi, nella seconda uno prende solo atto e passa avanti.
La metrèta, infatti, è una misura che indica qui una quantità considerevole (vedi riquadro), segno che le giare erano usate da molte persone. In questo contesto, però, è quasi obbligo pensare alla contrapposizione di due fatti: da una parte il vino è «poco», tanto che deve intervenire la madre, dall’altra l’acqua della purificazione è abbondante, anzi sovrabbondante. Il «poco vino» è insufficiente e sottolinea anche la povertà della condizione dei partecipanti al matrimonio, espressione dell’antica alleanza, se rimane chiusa in se stessa; dall’altra parte, «l’acqua che diventa vino» è in quantità incommensurabile e indica l’abbondanza dei tempi messianici, di cui abbiamo parlato a lungo in due puntate precedenti: Un protagonista delle nozze: il vino del Messia, MC 2- 2010, pp. 24-26) e Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza, MC 3 – 2010, pp. 22-24). 
Ancora una volta, attraverso la struttura letteraria, i particolari e i personaggi, l’autore del racconto ci riporta ai piedi del Sinai per riprendere in mano di nuovo il codice dell’alleanza e risciacquarlo nel vino delle nozze di Cana che continuano ad essere sempre  di più un «midràsh» di Es 19, mettendoci in guardia che se non ci apriamo al nuovo, simboleggiato dal «vino bello», anche noi rischiamo di chiuderci nelle nostre sicurezze di una religione di comodo, con il rischio di vanificare la Parola di Dio. Delle giare di pietra e del fatto che fossero «sei» parleremo nella prossima puntata.
(29 – continua).

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (28): Gesù il figlio di Giuseppe

Il racconto delle nozze di Cana (28)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Al versetto 5 abbiamo dedicato già le precedenti due puntate, ma è necessario dedicarvene ancora una terza e una quarta, data la pregnanza e la profondità dei rimandi che il testo impone. Non possiamo, infatti, leggere il vangelo in fretta e non dobbiamo conseguire un premio a scadenza. Bisogna prendersi il tempo necessario, quando si tratta della Parola di Dio.
L’amore esige tempo
Tutte le cose importanti hanno bisogno di tempo, di intimità profonda. Lo esige l’autore del vangelo che ci dà gli indizi giusti perché noi possiamo fare il nostro lavoro di ricerca oltre le apparenze. Una persona superficiale si ferma a osservare la funzione della madre di Gesù, che prende l’iniziativa, preoccupata della festa che potrebbe andare in crisi per la mancanza di vino. Da qui poi si parte con una speculazione sulla mediazione della Madonna che si prende cura di due poveri sposini sfortunati per non far fare loro brutta figura.
Una persona un po’ più attenta «all’ascolto» percepirà le assonanze, per cui le basta ricordare il parallelo con Giuseppe, il figlio del patriarca Giacobbe, e così affermare la continuità tra la storia di Israele e quella del Nuovo Testamento.
Tutto ciò a noi non basta. Perché la Parola è esigente «spada a doppio taglio» (Eb 4,12) che vuole solo penetrare la carne viva della fede sincera. Se siamo Uditori della Parola1, dobbiamo «rimanere» su di essa (cf Gv 8,31) e assaporarla sillaba per sillaba, lettera per lettera e «ascoltare» intimamente l’eco di tutte le parole della Bibbia, che risuonano o che richiamano o semplicemente sussurrano. L’uditore diventa profeta perché mentre ascolta mangia la Parola con lo stesso atteggiamento e la stessa disposizione del profeta Ezechiele:

«1Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele». 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: «Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo». Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: «Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole» (Ez 3,1-4).
Il dramma del nostro tempo è la superficialità che non assapora, ma tutto macina e butta via. Un amore senza tempo a sua disposizione è solo furto di un attimo di consolazione, ma il vuoto resta integro e tragico. Se l’amore di prostituzione calcola il tempo in funzione del guadagno, noi che ci troviamo davanti alla Parola, possiamo passare in fretta rincorrendo magari il nulla?  Noi credenti nel «Dio [che] è Amore» (1Gv 4,8) dobbiamo imparare a essere maestri dell’amore a perdere, quello che nasce solo dall’innamoramento che si nutre di desiderio e presenza, di progetto e attesa come di passione e fisicità. Tutto oggi è veloce e frenetico e spesso si ha la sensazione che si corra a vuoto, verso dove non si sa, in tondo o a zonzo, in omaggio a una velocità che alla fine obbliga all’immobilismo.
Oltre il significato immediato
Non basta fare un collegamento tra le parole della madre che invita a obbedire a Gesù e quelle del faraone che invita a obbedire a Giuseppe per avere «una bella immagine». Bisogna anche domandarsi perché l’autore del vangelo esige questa connessione; perché l’evangelista ci obbliga a riflettere sulla figura del patriarca Giuseppe nel contesto delle nozze di Cana, attraverso un richiamo verbale e letterario che certamente avrà da svelarci qualcosa di nuovo sulla figura di Gesù.
Matteo in tutto il suo vangelo ci presenta Gesù come nuovo Mosè e, infatti, gli fa pronunciare cinque discorsi corrispondenti ai cinque libri mosaici, cioè il Pentateuco (cf Mt 5-6; 10; 13; 18; 24-25). Nei vangeli dell’infanzia lo stesso evangelista presenta Gesù come nuovo Salomone, che attira i sapienti dell’Oriente (cf Mt 2,1-2) come il grande re d’Israele aveva attirato la visita della regina di Saba (cf 1Re 10,1; 2Cr 2,1). Luca da parte sua ci fa contemplare Gesù a cui rendono testimonianza Mosè ed Elia, in rappresentanza di tutta la Toràh e di tutta la Profezia (cf Lc 9,28-34). Giovanni ora ci mostra Gesù come nuovo Giuseppe, il patriarca «salvatore» dei figli d’Israele esuli in Egitto a causa della carestia (cf Gen 42,1-5), che non colpì solo il popolo dell’alleanza, ma fu un flagello per tutta la terra. L’Egitto così, per la lungimiranza di Giuseppe, figlio di Israele, fu la «terra promessa» dei popoli colpiti dalla carestia. Allo stesso modo il patriarca non fu solo il salvatore di Israele, ma colui che distribuì frumento e cibo a tutti i popoli, venuti a chiedere asilo e assistenza all’Egitto, espletando quindi una funzione salvifica universale, come Gesù, «il pane disceso dal cielo» che supera addirittura la manna che mangiarono i padri nel deserto (Gv 6,58; cf Es 16,35; Sal 78/77,24).
Gli evangeli non fanno cronaca, ma teologia e noi abbiamo il dovere di scendere dentro i fiumi carsici degli evangeli e lasciarci trasportare in profondità che forse non abbiamo mai sognato o abbiamo potuto solo immaginare. Per questa riflessione ci affidiamo in modo prevalente ad Aristide Serra, il più grande esegeta cattolico che ha dedicato tutta la sua vita a sviscerare la figura della madre di Gesù nel vangelo di Giovanni, esaminando, tra gli altri, il racconto delle nozze di Cana in ogni direzione, con profondità e prospettive veramente insuperabili. I testi a cui attingiamo sono diversi, ma in modo particolare ci rifacciamo a «Le nozze di Cana: Gv 2,1-12».
Giuseppe nella Bibbia
Del patriarca Giuseppe si parla in quattordici capitoli della Genesi in modo sparso, dal 30 al 50. Poi si hanno due reminiscenze nel libro dell’Esodo: al cap. 1 per giustificare la presenza degli Ebrei in Egitto e al cap. 13 per dire che Mosè, prima di partire dall’Egitto verso la terra promessa, «prese con sé le ossa di Giuseppe» (Es 13,19) per rispettare un desiderio dello stesso patriarca che, mentre da vivo fu esule in Egitto, da morto volle ritornare in mezzo al suo popolo, nella terra di Dio.
Di Giuseppe nell’Antico Testamento si parla complessivamente in otto passaggi, mentre in quarantuno passi si fa menzione dei suoi discendenti o della tribù che porta il suo nome (cf Gs 14,4;17,4;18,11 et passim). Nel Nuovo Testamento un solo passo parla, non direttamente di Giuseppe, ma della tribù che porta il suo nome.
Del grande patriarca, invece, si hanno altre testimonianze. Il diacono Stefano, prima di essere lapidato, fa una breve sintesi della storia della salvezza dal patriarca Abramo fino al re Salomone. All’interno di questa catena, vi è la figura di Giuseppe (cf At 7,9-18) che si lega a quella di Gesù in un nesso che supera la storia, per collocarsi in quell’ambito simbolico che apre a prospettive teologiche: Giuseppe è l’antesignano di Gesù Cristo attraverso le sue parole e i suoi gesti.
Anche la Lettera agli Ebrei, nella lunga galleria dei testimoni della fede, cita il patriarca Giuseppe che diede ordini agli Israeliti di portare con sé le proprie ossa, quando avrebbero lasciato l’Egitto (cf Eb 11,22).
Infine nell’Apocalisse, anche «la tribù di Giuseppe» ha dodicimila rappresentanti tra coloro che sono «segnati dal sangue dell’agnello», insieme alle altre undici tribù (cf Ap 7,8). Qui è la riprova che il Nuovo Testamento non nasce in contrapposizione all’Antico Testamento, ma si situa nel suo alveo e ne assume la linfa feconda, perché anche la Chiesa, lungi dal sostituire e soppiantare il popolo d’elezione, nasce e cresce come figlia d’Israele da cui nessuna potrà mai sradicarla.
Giuseppe sullo stesso piano di Mosè
Da parte sua Giovanni, oltre a mettere sulla bocca della madre di Gesù quasi le stesse parole del patriarca Giuseppe, poco più avanti, nel racconto della Samaritana (cf Gv 4), mette in evidenza, quasi con noncuranza che la città di Sìcar, da cui proveniva la donna samaritana, è l’antica Sìchem dei patriarchi: «Giunse così a una città della Samarìa chiamata Sìcar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe» (Gv 4,5; cf Gen 33,18-20; 48,21-22; Gs 24,32). Tra i Samaritani e i Giudei non correva buon sangue. «La donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani» (Gv 4,9).
I Giudei disprezzavano i Samaritani perché si erano contaminati con altri popoli, soprattutto sul piano religioso (cf 2Re 17,24-41; Esd 4,1-5). Ciononostante, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, anche i Samaritani avevano una venerazione altissima del patriarca biblico, posto sullo stesso piano di Mosè, fino al punto che, in alcune circostanze, si definivano «Giudei» perché si ritenevano discendenti di Èfraim e Manasse, cioè i due figli di Giuseppe (cf Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XI,8.6).
In un testo importante della tradizione samaritana, il codice «Memàr Marqàh – Parola/Insegnamento di Marco», databile tra il sec. II e IV d. C., ma che riflette insegnamenti molto più antichi, come tutti i testi che riportano la tradizione orale, si può leggere:

«Non c’è nessuno come Giuseppe il re, e non c’è nessuno come Mosè il profeta. Ambedue hanno conseguito una posizione elevata: Mosè ha posseduto la profezia, Giuseppe ha posseduta la Buona Montagna [= il monte Garìzim]. Non v’è nessuno più grande di loro due» (Testo e bibliografia in A. Serra, Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 354 n. 608).
C’è però ancora qualcosa nel quarto vangelo, il quale per ben due volte sottolinea che il rabbi di Nàzaret è «Gesù, il figlio di Giuseppe» (Gv 1,45; 6,42a). Diverse volte abbiamo detto che in Giovanni quando una parola, un’espressione, un fatto, un nome, una circostanza, ecc. ricorrono due volte è segno che l’autore ci vuole invitare a non passare oltre, ma a fermarci per cogliere il senso nascosto (senso pieno) che c’è oltre il significato ovvio e immediato. È evidente che da un punto di vista ordinario, con l’espressione «Gesù, figlio di Giuseppe» si dice che Gesù è proprio il figlio di Giuseppe, il carpentiere di Nàzaret, perché di quel nuovo rabbi che percorre la Palestina tutti conoscono «il padre e la madre» (Gv 6,42b). Questo è il senso ovvio, il significato primo, quello delle parole così come sono pronunciate e comprese. Noi diremmo il senso materiale.
Il Messia discendente di Giuseppe
Oltre questo, però, Giovanni ci dice dell’altro nel contesto della mentalità, della cultura e delle attese del tempo di Gesù, dove era viva e vigile l’attesa di un doppio Messia: uno discendente di David e l’altro «figlio di Èfraim» o anche «figlio di Giuseppe» (cf Dt 33,17; per la letteratura giudaica invece cf TJI Es 40,9.11; Targum Ct 4,5; Gen Rabbàh 75,6 a Gen 32,6; Pesiktà Rabbati 30,4, ecc.).
Dal punto di vista letterario è interessante notare anche il già citato Gv 1,45: «Filippo trovò Natanaèle [= Bartolomeo] e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, quello di Nàzaret”». L’ultima parte del versetto «quello di Nàzaret» in greco è al caso accusativo ed è una apposizione che non si riferisce a Giuseppe (complemento denominativo di specificazione e quindi collocato al caso genitivo), ma deve attribuirsi, «apporsi», al nome «Gesù», che è complemento oggetto e quindi va collocato al caso accusativo. Tradotto in modo più chiaro si direbbe: «Gesù di Nàzaret, figlio di Giuseppe».
Questa semplice annotazione di analisi logica ci dice due cose:
1° – Gesù è di Nàzaret; quindi, se ne conosciamo la città, sappiamo da dove viene: è un uomo, un rabbino che abita nella città di Nàzaret, figlio del carpentiere, è un essere umano, uno di noi.
2° – Con l’espressione «figlio di Giuseppe», l’evangelista afferma che quell’uomo, uno di noi, è anche il Messia, discendente del patriarca, che viene a convocare il suo popolo, non più per organizzarlo a superare la carestia, ma per ricevere «il pane disceso dal cielo» che è lui stesso (Gv 6,41.51.58). Mentre il patriarca dispensa il grano che aveva raccolto nei silos, Gesù dona semplicemente se stesso, senza riserve.
Poiché lo spazio a nostra disposizione per questa puntata è terminato, sarà necessario dedicarvi ancora la prossima per analizzare la figura del patriarca in rapporto sia alla sua funzione «universale» sia in rapporto in modo particolare al racconto dello sposalizio di Cana.
(28 – continua).

Paolo Farinella

Note

1 – K. Rahner, Uditori della Parola, Borla, Roma 1988.

Paolo Farinella




Nel bicchiere di James Bond

Viaggio nel mondo dell’alcol (terza e ultima puntata)

L’alcol è tossico per le cellule. È un agente tumorale. Produce assuefazione e dipendenza. Ha un effetto disinibente, ma porta alla depressione. Non è un alimento, ma fa ingrassare. Non è afrodisiaco, ma al contrario danneggia la sessualità. Non fornisce energia ai muscoli,
né calore. Vale la pena bere alcol?

L’alcol è una droga e come tale è classificato dall’Oms. In quanto droga, nel tempo l’alcol induce assuefazione (quindi bisogna aumentare la dose consumata per ottenere lo stesso effetto) e dipendenza. Secondo l’Oms, in Europa si ha il più elevato consumo di alcol al mondo (il doppio per abitante, rispetto alla media mondiale). Nel continente, l’alcol rappresenta il terzo fattore di rischio per i decessi e per le invalidità ed è il principale fattore di rischio per la salute dei giovani. Sempre in Europa, l’incidenza delle malattie riconducibili al consumo di alcolici è doppia rispetto alla media mondiale.
Dal punto di vista chimico, l’alcol è etanolo (alcol etilico) e presenta una molecola piuttosto piccola (CH3-CH2-OH), molto solubile (sia in acqua che nei lipidi) e capace di penetrare facilmente nei tessuti, entrando rapidamente nel flusso ematico e raggiungendo con esso tutti i distretti corporei. L’etanolo è una sostanza non essenziale per il nostro organismo, anzi estranea al nostro metabolismo (è uno xenobiotico). Esso è tossico per le cellule ed inoltre è un potente agente tumorale. Le bevande alcoliche non possono essere considerate un alimento, perché, oltre all’alcol etilico e all’acqua, contengono vitamine, sali minerali, proteine e zuccheri solo in tracce. L’alcol provoca un danno diretto alle cellule di molti organi, tra cui il fegato ed il sistema nervoso centrale. Pur presentando un elevato potere calorico (7 Kcal/g, inferiore solo ai grassi), l’alcol etilico non può essere utilizzato dall’organismo per fornire energia ai muscoli, ma solo per il metabolismo basale, al posto degli altri principi nutritivi come gli zuccheri ed i grassi (che sono pertanto sottoutilizzati), per cui può essere considerato una delle cause del sovrappeso. Dopo essere stato assunto, l’alcol viene presto assorbito, senza bisogno di digestione, in parte nello stomaco (20%) ed in parte nel duodeno, cioè nel primo tratto dell’intestino tenue (80%), dopodiché passa direttamente in circolo. La velocità di assimilazione è variabile e dipende da vari fattori, tra cui lo stato di replezione (pienezza) dello stomaco: essa aumenta infatti a stomaco vuoto ed inoltre se, contemporaneamente, si assumono bevande gassate, se gli alcolici sono ad alta gradazione ed in caso di gastrite. L’assimilazione è invece più lenta se lo stomaco è pieno e se i cibi ingeriti sono ad alto contenuto di grassi. Una volta assimilato, l’alcol raggiunge tutti i distretti corporei in tempi diversi: in 10-15 minuti raggiunge il fegato, il cervello, il cuore ed i reni; dopo circa un’ora arriva ai muscoli ed al tessuto adiposo, dove tende a concentrarsi.

Il FEGATO E LE SUE «FATICHE» 
In quanto sostanza tossica, l’alcol etilico deve essere metabolizzato dal fegato, per ridue la nocività. Il metabolismo consiste nell’ossidazione completa dell’alcol, che viene trasformato in acetaldeide, grazie all’enzima epatico alcol-deidrogenasi (Adh), per una quota tra il 90%-98%, mentre il resto viene eliminato attraverso l’urina, le feci, il latte materno, il sudore e l’aria espirata. Il fegato è capace di metabolizzare l’alcol in quantità di 7 g/ora, quindi l’alcol in eccesso può continuare a circolare liberamente, andando a danneggiare tutte le cellule, i tessuti e gli organi con cui viene a contatto. L’acetaldeide derivante dall’ossidazione dell’alcol si unisce alla dopamina, formando tetraidrosochinoline, che sono degli oppiacei. Inoltre l’alcol può essere metabolizzato anche da altri enzimi epatici, responsabili del metabolismo di alcuni farmaci. I diversi meccanismi di metabolizzazione dell’alcol entrano in azione in tempi diversi, a seconda della quantità di alcol ingerito, quindi il fegato si abitua a smaltie quantità sempre maggiori (aumento della tolleranza). Tutto ciò non è però privo di conseguenze: in primo luogo il fegato è sottoposto all’azione tossica di sempre maggiori quantità di alcol, che finiranno con il danneggiare le sue cellule, gli epatociti, fino a causare steatosi epatica, epatopatie acute e croniche o cirrosi epatica. Inoltre, può venire accelerato anche il metabolismo di alcuni farmaci (tra cui gli ormoni e le vitamine), di cui è perciò necessario aumentare le dosi, per ottenere lo stesso effetto. I bevitori possono sviluppare delle patologie anche gravi, causate dalla carenza di tali farmaci metabolizzati troppo velocemente (ad esempio, polineuropatie, malnutrizione, problemi sessuali). Come abbiamo visto, dall’ossidazione epatica dell’alcol si formano delle sostanze oppiacee, che al pari dell’eroina, della morfina e del metadone agiscono sul sistema dopaminergico e sul sistema oppioide endogeno, provocando un forte stimolo motivazionale al consumo, per ottenere gratificazione. L’azione di queste sostanze si esplica particolarmente sull’asse ipotalamico-ipofisario, inducendo un’alterata produzione di melatonina, l’ormone del sonno, ed inoltre di ormone adrenocorticotropo (Acth) e di β-endorfine, interferendo quindi su tutti i settori neuroendocrini. Questo spiega la ridotta capacità di fare fronte agli stress, da parte dei forti bevitori, al pari dei consumatori di oppiacei. Inoltre l’alcol, come i barbiturici, fa parte dei depressori non selettivi del sistema nervoso centrale. Si tratta di sostanze capaci di indurre (a dosi crescenti) delle alterazioni comportamentali progressive, che vanno da un effetto ansiolitico e disinibente, ad uno sedativo-ipnotico, fino al coma ed alla morte per depressione dei centri cerebrali regolatori della respirazione e della funzione cardiocircolatoria. Poiché, inoltre, l’alcol stimola la liberazione di dopamina, l’astinenza da esso porta ad una drastica riduzione di tale sostanza, che è associata al piacere ed all’euforia, per cui il soggetto va facilmente incontro ad anedonia (incapacità a provare piacere) ed a disforia (alterazione dell’umore), caratteristiche dell’astinenza da altre sostanze come la morfina, la cocaina, le anfetamine e la nicotina. Si instaura perciò una vera e propria dipendenza fisica, che può portare ad una crisi d’astinenza, con agitazione ed irritabilità. Nei casi di grave intossicazione alcolica, l’improvvisa interruzione dell’uso dell’alcol (come può verificarsi, per esempio, in concomitanza con un ricovero ospedaliero per qualsiasi motivo) può portare a sintomi molto gravi come agitazione, febbre, disidratazione, allucinazioni visive ed uditive, crisi convulsive finanche alla morte nei casi estremi, se la persona non viene trattata con un’adeguata terapia. Questo quadro prende il nome di delirium tremens ed è dovuto al fatto che l’alcol inibisce la normale produzione, da parte dei neuroni, di acido gamma-amino-butirrico o Gaba (sostituendosi ad esso), un potente antagonista dell’adrenalina, che è un neurotrasmettitore ad azione fortemente eccitante. Nel momento in cui si interrompe bruscamente l’assunzione di alcol e mancando contemporaneamente la sintesi del Gaba da parte dei neuroni messi, per così dire, a riposo dall’alcol, l’adrenalina in circolo, non più controllata da alcun antagonista, può svolgere liberamente la sua funzione eccitante, provocando la sintomatologia del delirium tremens. Oltre alla dipendenza fisica, si può instaurare anche una dipendenza psicologica (craving), cioè l’intenso ed irrefrenabile desiderio di assumere bevande alcoliche, per potere provare gli effetti piacevoli, che ne derivano, oppure per allontanare quelli spiacevoli, conseguenti all’astinenza. L’alcolismo provoca alterazioni metaboliche (iperuricemia, ipertrigliceridemia, ipofosfatemia) e l’inibizione del sistema immunitario. Quindi, tra le altre cose, il forte bevitore è una persona che può ammalarsi più facilmente, perché le sue difese risultano indebolite.

TANTE CREDENZE DA SFATARE
Bisogna, tra l’altro sfatare alcune credenze, perché l’eliminazione dell’alcol non è favorita né da una doccia fredda, né dall’attività fisica e nemmeno dall’assunzione di caffè, come molti pensano. Ciò vuole dire che chi svolge attività faticose non elimina più velocemente l’alcol, rispetto ad una persona sedentaria. Ma questi non sono i soli luoghi comuni. Ad esempio, comunemente di pensa che l’alcol favorisca la digestione, ma in realtà la rallenta e causa un alterato svuotamento dello stomaco. Spesso, poi, si sente dire, da chi ama bere, che il vino fa buon sangue, ma il consumo di alcol può essere responsabile dell’insorgenza di varie forme di anemia, come ad esempio quella sideroblastica, caratterizzata da un’alterata produzione dei globuli rossi, come conseguenza della carenza di vitamina B12 o di folati dovuta alla scarsa alimentazione, che spesso è presente nell’alcolista. Inoltre l’alcol diminuisce l’aggregazione piastrinica, quindi fluidifica il sangue ed aumenta il rischio di emorragie e, come già visto sopra, determina un aumento dei grassi nel sangue. Probabilmente, chi pensa che l’alcol faccia buon sangue è indotto in errore dal fatto che le persone dedite al consumo di alcolici spesso presentano il volto rubicondo, per via della vasodilatazione periferica provocata dall’alcol.
Erroneamente qualcuno pensa che l’alcol aiuti a combattere il freddo, ma, come abbiamo già visto esso causa solo vasodilatazione periferica, che dà una temporanea sensazione di calore e che, però, nel contempo porta ad una dispersione del calore interno con raffreddamento del corpo e rischio di assideramento, quando ci si trovi esposti a freddo intenso.
Un altro errore, in cui molti cadono è quello di considerare l’alcol una specie di afrodisiaco capace di favorire le relazioni sessuali. Addirittura, in certe culture, si associa la capacità di reggere bene l’alcol, cioè la tolleranza, ad un’immagine di virilità. Molto spesso anche le pubblicità di alcolici (ed il cinema) trasmettono un’idea di questo tipo: basta pensare a quante volte abbiamo visto immagini di donne affascinate da uomini, che stanno sorseggiando un superalcolico. La realtà, però, è ben diversa. L’alcol, infatti, ha un effetto soprattutto inibitorio sul sistema nervoso ed inoltre il consumo di grandi quantitativi di alcolici compromette severamente tutto il circuito della sessualità, con danni talora permanenti sia nell’uomo che nella donna. Gli uomini, che consumano alcolici in dosi elevate possono infatti andare incontro ad impotenza, sterilità e perdita dei caratteri sessuali secondari maschili (riduzione della peluria e della massa muscolare), rischiando nel contempo di acquisire un carattere di tipo femminile, cioè la ginecomastia, ovvero un abnorme aumento delle mammelle. Le donne invece possono andare incontro a sterilità ed a problemi mestruali. Inoltre non bisogna dimenticare che l’effetto disinibente dell’alcol può portare a trascurare, durante un rapporto sessuale, quelle norme precauzionali, che proteggono dal rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. Peraltro, sotto l’effetto dell’alcol si ha una diminuzione della percezione del rischio in generale, nonché delle sensazioni di dolore e quindi si tende ad assumere comportamenti, che possono essere dannosi per sé stessi e per gli altri. Inoltre non dimentichiamo che l’effetto disinibente dell’alcol lascia ben presto il posto, dopo un’iniziale euforia, ad uno stato depressivo.
C’è poi chi è convinto che l’alcol possa aiutare in caso di shock, ma anche questo è un errore perché, come già detto, l’alcol provoca la dilatazione dei capillari, determinando un minore afflusso di sangue agli organi interni, tra cui il cervello.
Qualcuno pensa che l’alcol dia forza, ma invece esso attenua solo il senso di affaticamento e di dolore, senza quasi alcun apporto energetico per i muscoli.
Contrariamente a quello che qualcuno pensa, l’alcol non toglie la sete, ma invece tende a disidratare, poiché blocca l’ormone antidiuretico, quindi fa aumentare la diuresi e la sensazione di sete.
Che dire poi del fatto che qualcuno pensa che bere birra aiuti le neo-mamme a fare più latte? Come già detto, bevendo alcolici in gravidanza e durante l’allattamento, l’alcol passa direttamente al bambino, che non ha la possibilità di metabolizzarlo, subendone tutti gli effetti dannosi. Per produrre latte in quantità sufficiente al fabbisogno del bambino basta bere acqua ed avere un’alimentazione nutriente.

Rosanna Novara Topino


Rosanna Novara Topino




Cana (26) La «donna» sacramento dell’abbandono credente

Il racconto delle nozze di Cana (26)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»
[lèghei hē mêtēr autoû toîs diakònois: Hò ti an lèghēi hymîn poiêsate]

Per capire questo versetto in tutta la sua portata è necessario ritornare indietro brevemente per sottolineare ancora il pensiero di fondo che stiamo cercando di dimostrare: il racconto delle nozze di Cana è un midràsh (commento attualizzante) del racconto dell’alleanza di Es 19. Come il Sinai fu «l’inizio» di Israele in quanto nazione, perché l’alleanza lo costituisce «popolo» a tutti gli effetti, così Cana è per l’autore «il principio» del nuovo popolo che nasce dall’antico. La madre di Gesù è il simbolo dell’Israele/sposa dell’alleanza nuova, che aspetta la redenzione del Messia, e i discepoli sono la premessa/promessa del nuovo popolo messianico che partecipa al banchetto nuziale, proiettato verso il futuro delle genti.
Il paradosso: prima fare e poi ubbidire
Sappiamo che l’evangelista vuole mettere in parallelo Mosè e Gesù: il primo come mediatore, il secondo come autore dell’alleanza. L’alleanza annunciata da Gesù non è un’altra alleanza, diversa da quella del Sinai, ma è la continuità di essa, anzi ne è lo sviluppo naturale. Con buona pace dei fautori della «teologia della sostituzione» che ancora oggi, dopo il concilio Vaticano II, propugnano ancora che la Chiesa è subentrata a Israele, eliminandolo dalla storia di salvezza, iniziata con l’esodo. La Chiesa è «dentro» Israele, da cui si discosta perché porta a compimento la sua fede in Gesù Messia.
È evidente che nel v. 5 la frase importante è: «Quello che vorrà dirvi, fate[lo]», che immediatamente richiama quanto gli Ebrei dicono ai piedi del Sinai, prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!». Il confronto tra i testi è sorprendente, si direbbe che Giovanni copia direttamente dalla Bibbia ebraica (non dalla versione greca della LXX che traduce in modo diverso, come vedremo):

Es 19,8 (cf 24,3)           Gv 2,5
Quanto il Signore          Quello che [egli = Gesù]
ha detto,                        vorrà dirvi
noi [lo] faremo               fatelo

Da una parte c’è Yhwh che ordina, dall’altra c’è Gesù che deve essere obbedito, per cui Gesù è posto dall’autore sullo stesso piano di Yhwh. Un modo per porre l’accento discretamente sulla divinità del figlio di Maria? Non possiamo spingerci oltre, ma il quarto vangelo non è nuovo a questo metodo (cf, per es., Gv 18,4-5). Questo parallelo, quasi fotocopia, tra i due testi si colloca all’interno del più generale confronto tra il Sinai e Cana:

Es 19,11.9                        Gv 1,11
Il terzo giorno                    Il terzo giorno
Yhwh rivelò                       Gesù rivelò
la sua gloria a Mosè         la sua gloria
e il popolo                         e i suoi discepoli
credette anche in lui         credettero in lui

Anche qui Gesù non è posto sullo stesso piano di Mosè, ma al livello di Yhwh perché Gesù nella nuova alleanza che ha in Cana il suo «principio» ripete e rinnova esattamente quello che Yhwh ha fatto e ha detto sul Sinai. Lo scenario è lo stesso, e i temi sono identici: il terzo giorno, la rivelazione, la gloria, il popolo/discepoli, la fede.
La madre impregnata del passato
Su tutti questi temi però quello che domina è quello della «obbedienza»: a Yhwh nel Sinai e a Gesù a Cana. L’obbedienza qui è espressa con due verbi «faremo» e «credettero». Da ciò possiamo rilevare che «obbedire» non è un atteggiamento passivo di sottomissione, ma una scelta attiva di adesione a una alleanza, a un progetto da realizzare («faremo») che si basa su un rapporto di intimità e di confidenza reciproca («credettero»). C’è una differenza tra i due testi: al Sinai il popolo ascolta il Signore e crede in lui, ma anche in Mosè; a Cana i discepoli/nuovo popolo ascoltano e credono in Gesù.
Il raffronto tra Mosè e Gesù, come spesso abbiamo detto, non è mai alla pari: a Cana Gesù supera notevolmente il grande condottiero, perché l’evangelista lo colloca sempre allo stesso livello del Signore. Infatti al Sinai non parla Yhwh, ma Mosè che riceve da Dio le parole da riferire al popolo nella sua funzione di mediatore; a Cana non c’è mediatore perché Gesù parla e agisce direttamente.
Le parole della madre di Gesù non sono una novità, ma riecheggiano una storia lunga e articolata, pro-vengono dal cuore della storia di Israele che si esprime in varie circostanze. Riportiamo solo qualche esempio: la risposta di Israele è così importante che la Bibbia la ripete quasi uguale tre volte (Es 19,8; 24,3.7). Dopo Mosè, il suo «attendente» Giosuè [in greco è sinonimo di Gesù – Yoshuà], prima di entrare e prendere possesso della terra promessa, rinnova l’alleanza a Sìchem in modo simile: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce» (Gs. 24,24).
La madre di Gesù è Israele
A Cana ci troviamo di fronte a un evento che non si può ridurre a un semplice matrimonio di circostanza. L’autore infatti con questo racconto ripropone, rinnova e celebra «il fatto» più importante di tutta la storia di Israele, quello che è la sorgente della sua stessa esistenza come «popolo/sposa di Yhwh», l’esodo, letto nella sua duplice valenza storica: di liberazione dalla schiavitù e di costituzione di una comunità ordinata e organica, l’assemblea di Israele nata dall’alleanza del Sinai.
Le parole del Signore dette tramite Mosè e la risposta del popolo detta tramite gli anziani, costituiscono la formula sponsale che sancisce le nozze definitive d’amore e di obbedienza. A Cana è la madre che in rappresentanza dell’Israele antico, introduce il nuovo invitandolo a entrare nel circuito salvifico del suo popolo che ora esce dal suo particolarismo e si apre al mondo intero. Sono infatti presenti i discepoli, dodici secondo la tradizione, un numero simbolico delle dodici tribù d’Israele, costituite da Giosuè prima dell’ingresso in terra promessa (cf Gs 14-19; Es 24,4; 28,21; Gen 49,28; Sir 44,23):

«3Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte,
dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai
agli Israeliti: 4“Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto
all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho
fatto venire fino a me. 5Ora, se darete ascolto alla mia
voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me
una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è
tutta la terra! 6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e
una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti.
7Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro
tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore.
8Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore
ha detto, noi lo faremo!”» (Es 19,3-8).

L’obbedienza incondizionata che il popolo di Israele mette in atto, secondo la versione greca della LXX ha dell’inaudito perché il popolo accetta di coinvolgersi nell’avventura di Dio prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza che esprime il sentimento di abbandono tipico dell’innamoramento. Chi è innamorato non ragiona, ma «si butta», non fa calcoli, ma ama, non teme le conseguenze, ma sperimenta l’inatteso con trasporto e abbandono fiduciosi. «Faremo e ascolteremo» infatti esprime non l’ubbidienza a un ordine ricevuto, ma la libera e spontanea adesione della volontà che rende la scelta ancora più importante.
La tradizione giudaica, commentando questo comportamento di Israele, arrivava a paragonarlo al melo del Cantico dei cantici, dove l’amante donna dice del suo innamorato: «Come un melo fra gli alberi del bosco, così l’amor mio tra i giovani» (Ct 2,3). Il Talmud babilonese, a nome di Rabbì Chama figlio di Rabbì Chanina (260 ca.), commenta: «Perché gli Israeliti sono paragonati a un melo? Per insegnarti che come il melo mette fuori il frutto prima delle foglie, così anche i figli d’Israele dissero “faremo” prima di “ascolteremo”» (TB, Shabbat 88a).
Lo stesso testo del TB riporta l’insegnamento di Rabbì Simai (210 ca.) che immagina come nel momento della professione di fede di Israele che si abbandona al Signore, senza alcun calcolo, «seicentomila angeli del servizio scesero a deporre due corone sopra ogni membro del popolo eletto: l’una come premio del “fare” e l’altra dell’”ascoltare”» (in A. SERRA, Le nozze di Cana, 314).
Si capisce perché immediatamente prima (cf Gv 2,4), Gesù si rivolge alla madre con l’appellativo di «donna», assolutamente inconsueto in un dialogo tra madre e figlio. Anche Gesù sa che la madre non è la sua madre naturale, ma a Cana è il simbolo della sposa/Israele che qui svolge il ruolo di mediazione che al Sinai fu proprio di Mosè. Ella si indirizza ai «diaconi/servi», ma è come se parlasse per se stessa e per tutto Israele: «Quello che egli eventualmente vi dirà, noi dobbiamo farlo». Non un semplice invito esortativo, ma una constatazione obbligante: non possiamo esimerci da «quello che egli dirà» perché la sua parola è creatrice, prima di trasformare l’acqua in vino trasforma le persone che vi sono coinvolte assumendo un ruolo preciso: non sono servi dipendenti di un padrone per svolgere lavori di fatica, ma diventano «diaconi», ministri di una comunità che si appresta a celebrare le nozze con il suo Signore.
La madre di Gesù è la sposa fedele
Se l’evangelista fa dire alla madre di Gesù la stessa professione di fede del popolo d’Israele, ci sembra logico pensare che egli voglia porre una relazione tra i due e forse anche una identificazione. Nella letteratura profetica e sapienziale, Israele è spesso identificato con l’immagine della «donna» che il quarto vangelo usa cinque volte, e sempre a una svolta nella vita di Gesù: qui a Cana, con la donna samaritana (Gv 4,21), con la donna adultera (Gv 8,10), dalla croce di nuovo alla madre con «Donna, ecco tuo figlio» (Gv 19,26) e, infine, con Maria di Magdala (Gv 20,15), cinque pietre miliari che segnano la salvezza che si fa storia nell’immagine della «donna», figura del nuovo credente nella comunità nuova. L’uso di questo appellativo è anche diffuso nell’At e basta leggere i profeti (Os 1-3; Ger 2,2; 31,4.15; Ez 16,8; 23,4) o anche la letteratura extra-biblica (Il Targum del Ct; Sal-LXX 86,5; Apocalisse di Baruc 10,7; IV libro di Esdra 9,38-10,57; Qumran: 1QH III,3-12, ecc.).
Luca esporrà questa idea sviluppando il tema della «Figlia di Sion» del profeta Sofonia e applicandola a Maria nel saluto dell’angelo che annuncia il «vangelo della nascita» non a Maria di Nàzaret in quanto singola persona, ma a lei, espressione della «Figlia di Gerusalemme» cioè Israele (cf Lc 1,28; Sof 3,14).
Anche Luca non chiama Maria con il suo nome, ma la descrive come «piena di grazia – chekaritomēnē» che corrisponde alla qualifica di «graziosa» come Giuditta (Gdt 11,23), come Ester (Est 2,7), come la donna del Cantico (Ct 1,5; 6,4), come Susanna (Dn 13,31), come Sara, moglia di Tobia (Tb 6,12).
Anche Matteo tocca il tema in chiusura del suo vangelo, quando Gesù sul monte di Galilea si accomiata dai suoi e lascia loro il suo testamento per il futuro:

«16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul
monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro,
si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e
disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla
terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli
nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”» (Mt 28,16-20).

Al Sinai, Israele impegna se stesso nel professare la propria fede indiscussa in Yhwh; a Cana la madre di Gesù crede preventivamente per sé, in quanto Israele, e per i diaconi, in quanto Chiesa; in Matteo la professione di fede diventa la missione da portare in tutto il mondo fino alla fine della Storia. Il rapporto tra gli eventi non è casuale, perché in Matteo Gesù non incontrerà i discepoli «da qualche parte», ma esattamente «sul monte che Gesù aveva loro indicato» (Mt 28,16), così come Dio incontrerà il futuro popolo liberato non in un deserto senza vita, ma «su questo monte» dove Dio è già presente e aspetta una massa di schiavi che trasformerà in popolo a cui darà la carta costituente, la Toràh, cioè la coscienza di essere comunità.
Anche nell’esodo, il monte è indicato da Yhwh stesso a Mosè come segno di liberazione e di libertà: «Rispose: “Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”» (Es 3,12).
Israele sul monte Sinai dovrà «servire» Dio, secondo il testo ebraico («’abad») e «fare un servizio liturgi-co», secondo il greco della LXX («latrèuō»). In Mt abbiamo gli stessi atteggiamenti: i discepoli «si prostrarono» (in greco: proskynèō) in un gesto di servizievole adorazione liturgica.
Al Sinai, Israele si consacra in una professione di fede senza ambiguità; in Mt è il Signore che prospetta la loro fede futura che assume la forma della missione universale, «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).
Al Sinai Dio è con il condottiero Mosè: «Io sarò con te» (Es 3,12), sul monte di Galilea è Gesù che assicura la sua perenne Shekinàh/Dimora/Presenza: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Al Sinai, Dio dichiara la ragione del suo intervento: «Voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra!» (Es 19,5), mentre in Matteo è Gesù che dichiara: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Anche in Matteo come in Giovanni, la figura e l’opera di Yhwh sono appannaggio personale di Gesù di Nàzaret, ora risorto.
Alla luce di queste finestre che si aprono davanti ai nostri sguardi per la nostra contemplazione della parola di Dio in tutta la sua ampiezza, possiamo dire che il mandato missionario non consiste in altro che nell’invitare tutti i popoli «a fare e obbedire quanto il Signore ha ordinato»: il Signore dell’esodo e Gesù di Nàzaret.
Tutto questo può realizzarsi solo in un modo, sull’esempio della madre di Gesù: testimoniare con la pro-pria vita, la propria parola, la propria speranza che come discepoli crediamo veramente nella Persona di Gesù e accettiamo la sua Parola come criterio di vita prima ancora che come conoscenza razionale.
È in fondo quello che avviene nella celebrazione dell’Eucaristia che è il «luogo» privilegiato dove l’Assemblea di Dio «fa tutto quanto il Signore ha detto», memoriale perenne dell’esodo di Gesù, lungo tutto il cammino della Storia.
(26- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (27) Ubbidire è imitare

Il racconto delle nozze di Cana (27)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Riprendiamo il versetto cinque che abbiamo iniziato ad analizzare nella puntata precedente, dove abbiamo visto che il rapporto tra Sinai e Cana è intenso e profondo, ma non si esaurisce, perché l’autore del vangelo vuole portarci a spaziare anche nella storia prima dell’esodo: la storia dei patriarchi, che è come il preambolo all’epopea dell’Esodo e quindi anche premessa della rivelazione di Gesù Cristo «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).

«Vergine madre, figlia del tuo Figlio»
Dopo la risposta di Gesù («Donna, che c’è tra te e me», Gv 2,4) che abbiamo spiegato a lungo, la madre non si rivolge a Gesù per supplicarlo di intervenire, ma ai «diaconi». Ella sa di non avere alcun potere sul figlio, perché da questo momento mutano i rapporti precedenti e la relazione di sangue lascia il passo a quella della fede: «Che c’è tra me e te?». O meglio, il rapporto naturale madre-figlio si trasforma, arricchendosi, nel rapporto tra Figlio e madre/figlia, tra il Signore e la Chiesa. La fede, infatti, non elimina la natura, ma, inglobandola, la trasforma: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,33-35). Solo Dante Alighieri, ispirato dallo Spirito Santo, ha colto la profondità di questa relazione unica: «Vergine madre, figlia del tuo Figlio» (Par. XXXIII,1).
Le parole che la madre rivolge ai diaconi/servi sono prese alla lettera dalle parole che il faraone di Egitto rivolge al suo popolo all’inizio della siccità che durerà sette anni. Al popolo che ha fame e chiede da mangiare, il faraone non dà pane, ma un invito ad andare oltre di lui. L’onnipotente faraone si mette in seconda fila e lascia il posto a Giuseppe, l’ebreo schiavo divenuto governatore, che aveva previsto la carestia e aveva indicato la soluzione per superarla (Gen 41,53-57).
La madre conosce la Scrittura e, forse, è a Giuseppe che volge lo sguardo del cuore quando garantisce alla parente Elisabetta che il Signore «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). La madre non è il faraone, ma la voce di un popolo affamato del Messia e della sua liberazione, è la figlia di Israele che geme nella morsa della fame, dell’emarginazione e dell’impurità cultuale; la madre è il simbolo dell’abbandono desolato in cui versa il suo popolo:

«6Dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore…7Gerusalemme ricorda i giorni della sua miseria e del suo vagare… 9 e nessuno la consola… 11Tutto il suo popolo sospira in cerca di pane; danno gli oggetti più preziosi in cambio di cibo, per sostenersi in vita… 17Gerusalemme è divenuta per loro un abominio… 19cercavano cibo per sostenersi in vita. 20Guarda, Signore, quanto sono in angoscia; le mie viscere si agitano, dentro di me è sconvolto il mio cuore» (Lam 1,6.7.9.11.17.19.20).
La figura di Giuseppe è l’àncora di salvezza che viene in soccorso dal passato e indica la prospettiva futura. Davanti alla madre che invoca i giorni della salvezza per il suo popolo, ora c’è il nuovo patriarca Giuseppe, «colui che aggiunge/aumenta» e che inaugura il nuovo tempo, il «kairòs» dell’abbondanza senza fine, come il patriarca antico salvò Israele dalla carestia, salvando l’Egitto dalla fame: «Tutta la terra d’Egitto cominciò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli egiziani: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà”» (Gen 41,55). L’autore di Genesi ci tiene a sottolineare che «Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone, re d’Egitto» (Gen 41,46). Anche Gesù ha circa la stessa età quando la madre invita i servitori a ubbidirgli.
Purtroppo nella lingua italiana non si coglie il nesso stretto tra le parole, che invece per l’autore ha un’importanza capitale, perché fa vedere e sentire il rapporto stretto tra le parole dette e le idee e i personaggi che stanno dietro.
A questo scopo, per rendere più comprensibile il testo e per farlo gustare in tutta la sua profondità, riportiamo lo schema in greco della LXX, traslitterato, con relativa traduzione (il testo ebraico della Genesi dice esattamente il contenuto letterale del testo greco):

Come può vedere anche chi non conosce il greco, dalla trascrizione emerge che la corrispondenza tra i due testi è totale: siamo certi che l’autore metta «apposta» le parole del faraone in bocca a Maria.
Nella colonna 2a la particella dell’eventualità (an/ean) esprime indeterminatezza e quindi apertura a ogni evenienza (le due forme an o ean sono equivalenti): «Qualunque cosa vorrà dirvi, fatelo».
Nella colonna 3a si ha lo stesso verbo (lègō – dire) con due radici diverse perché le due forme sono di tempi differenti: in Gv si ha il presente congiuntivo attivo (lèghēi – nell’eventualità che dica), mentre in Genesi si ha l’aoristo (un tempo proprio del greco) congiuntivo dello stesso verbo.

Il bacio dell’ubbidienza
Le somiglianze tra i due testi, oltre a quelle letterali, sono di contenuto: a Cana manca il vino, in Egitto manca il pane; in Egitto è il faraone, cioè il capo assoluto che indica Giuseppe come la soluzione del problema; a Cana è la madre, in rappresentanza di Israele, che indica Gesù come la soluzione per risolvere la mancanza del vino messianico e dare corpo all’alleanza.
Da una parte il faraone, come abbiamo già accennato, pur essendo il capo assoluto dell’Egitto, dichiara la sua impotenza di fronte alla fame di pane e invia il suo popolo da Giuseppe, riconoscendone così l’autorità indiscussa; dall’altra parte la madre, rinviando i servi/diaconi da Gesù, preparandoli ad ogni evenienza, in quanto rappresentante del popolo d’Israele fedele all’alleanza sinaitica, invita tutti a riconoscere l’autorità indiscussa di Gesù, il solo che possa aprire la nuova alleanza e sfamare e dissetare il nuovo popolo, la Chiesa, che è la casa di tutti i popoli.
Lo studioso Frédéric Manns (L’Évangile, 102) sostiene che nel testo di Genesi, manca il tema dell’«obbedienza» e quello della «rivelazione», espliciti invece nel testo di Esodo: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!», che in Es 24 si trasforma in «noi faremo e ubbidiremo» (Es19,8; 24,3). Giovanni mette in evidenza – continua Manns – che l’alleanza nuova è basata sull’obbedienza alla Parola di rivelazione portata da Gesù.
La corrispondenza, quando si applica la tecnica del midràsh, non deve necessariamente essere espressa al millesimo, ma può anche essere allusiva, anche se riteniamo che nel testo di Gen 41,55 il tema dell’obbedienza non è solo implicito, ma abbastanza evidente. Inviando il popolo da Giuseppe, con l’invito esplicito «fate quello che vi dirà», è evidente che il faraone sottende il tema di «ubbidire» all’uomo che dovrà cornordinare i sette anni di siccità, specialmente se si tiene conto delle parole che egli pronuncia davanti alla sua corte, appena Giuseppe finisce di spiegare i sogni: «38Il faraone disse ai ministri: Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?… 40Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo» (Gen 41,38.40).
La traduzione di questo versetto non esprime l’intensità dell’ebraico; il confronto con la versione greca della LXX serve a dare al lettore anche il senso armonico dell’immaginazione linguistica: il testo ebraico di Gen 41,40 dice letteralmente: «Tu stesso sarai il governatore della mia casa e sulla tua bocca ti bacerà tutto il mio popolo»; la versione greca della LXX invece traduce, interpretando (come fa il midràsh): «Tu sarai [governatore] sulla mia casa e alla tua bocca obbedirà tutto quanto il mio popolo» (anche la Vulgata traduce dalla LXX).
Il IV vangelo, come tutto il NT, dipende dalla Bibbia greca della LXX, per cui il tema dell’obbedienza è evidente. Baciare sulla bocca qualcuno in occidente significa avere intimità e quindi reciprocità di dipendenza. L’espressione biblica invece è propria della cultura egiziana faraonica ed esprime l’idea di una dipendenza totale e significa «al tuo comando»: al comando di Giuseppe tutto il popolo egiziano deve prostrarsi, bocconi a terra, pronto a obbedire senza alcuna remora.
Quanto al secondo tema, quello della rivelazione, riteniamo che sia il faraone con tutta la sua autorità solenne a «manifestare» Giuseppe come «il salvatore» dell’Egitto, colui che impedirà al popolo di morire di fame e di sete; e lo stesso Giuseppe si manifesta: «Giuseppe partì per visitare l’Egitto» (Gen 41,46) per mostrarsi a tutto il paese e dare ordini e prepararsi in vista della carestia. Attraverso Giuseppe l’Egitto e lo stesso faraone sanno che non è Giuseppe «il salvatore», ma il Dio di Israele perché «non io, ma Dio darà la risposta» (Gen 41,16).
Giuseppe e Gesù sono «pieni dello spirito di Dio»: come il faraone vide lo spirito di Dio su Giuseppe (cf Gen 41,38), anche Giovanni Battista vede scendere lo Spirito di Dio su Gesù (cf Gv 1,32).
Citando le parole del faraone, la madre di Gesù, o meglio l’Israele fedele all’alleanza, vuole mettere espressamente in rapporto Giuseppe e Gesù, presentando quest’ultimo come il nuovo patriarca che si prende cura della fame e della sete, cioè della vita del popolo. In ebraico Giuseppe si dice «yasàph» e vuol dire «Dio aggiunge/aumenta» e in questa circostanza Giuseppe, il patriarca, aumenta il pane e fa arretrare la carestia. Gesù in ebraico si dice «Joshuà» e significa «Dio è salvezza». Nel loro risultato finale i due nomi s’incontrano, perché ambedue sono la salvezza dei rispettivi popoli: danno la vita.
Come tutto il popolo di Egitto deve schierarsi agli ordini di Giuseppe, ora a Cana i servi/diaconi devono eseguire tutto quello che Gesù dirà loro di fare.

Ubbidire è imitare nella testimonianza
Non solo i servi/diaconi, ma anche la madre di Gesù non sa quello che egli farà; infatti l’invito ai diaconi è fatto nella forma dell’eventualità («qualunque cosa vorrà dirvi»). I servi somigliano ai discepoli che partecipano alla lavanda dei piedi, ma non sanno quello che egli fa, fino al punto che Gesù stesso deve chiarirlo per due volte:

«7Rispose Gesù [a Simon Pietro]: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”… 12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,7-15).
L’episodio citato si trova all’inizio della seconda parte del vangelo di Gv, esattamente nel «libro dell’ora», quello della rivelazione definitiva sulla croce, che è il trono della gloria del Messia. Si usa sempre lo stesso verbo di Cana «poièō – io faccio/opero/creo». Se consideriamo l’insieme del vangelo, possiamo concludere che l’invito della madre non è solo quello di ubbidire senza condizione, «fate quello che vi dirà», ma anche di «fare quello che lui stesso fa», cioè di imitarlo come Gesù medesimo richiede: «Vi ho dato l’esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).
Non basta ubbidire, bisogna imitare. Senza imitazione l’obbedienza può essere alienazione, deresponsabilità. Nessuno può abdicare da se stesso, creato «a immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,27). Ubbidire imitando è il modo per mettere sempre più a fuoco l’immagine divina che c’è in ciascuno di noi e mantenerla sempre nitida e trasparente.
A questo punto si può aprire un capitolo sull’obbedienza religiosa vincolata anche con un voto: il monaco, la suora, il religioso sono chiamati non a rinunciare alla loro volontà, ma a conformarla a quella del Signore, imitandolo nelle scelte e nell’impegno della vita: cosa farebbe Gesù se fosse adesso, qui e ora presente e al mio posto? Qui sta il cuore dell’alleanza sia del Sinai che di Cana: è la rivelazione e la manifestazione dell’esempio che si fa profezia di evangelizzazione.
Oggi nella Chiesa abbondano le parole, le esortazioni, le prediche, estrapolate dalla vita e per questo sono parole deboli, fragili e di conseguenza vuote. Domina il principio di autorità che si basa sull’obbedienza passiva e senza intelligenza: bisogna obbedire perché lo dice chi comanda. Il fondamento della fede in questo contesto non è la persona di Dio o la sua Parola rivelata, ma il culto della personalità, che in termini biblici è idolatria peccaminosa.
La vera profezia del Regno, il vero «vangelo dell’alleanza» si esprime nella testimonianza della vita, nella profezia dell’esempio, che s’impone da se stesso prima ancora di esigere una spiegazione. L’esempio/testimonianza prima della parola è l’esatta incarnazione del principio dell’alleanza dell’Esodo: «Faremo prima e obbediremo dopo».
Fare quello che egli dice e compiere quello che egli fa è la sintesi perfetta della fede adulta e libera, perché ciascuno dei credenti diventi a sua volta «Dabàr», una parola ebraica molto importante nella logica biblica. Essa ha due significati, apparentemente contrapposti, ma intimamente connessi e identici. Significa «parola/detto», ma ha anche il senso di «fatto/evento». È ciò che avviene nella creazione: «Dio disse… E così avvenne» (Gen 1, passim). In Dio mai la Parola è separata dall’evento, perché Dio parla agendo e agisce parlando. In lui parola e azione s’identificano.
A Cana obbedienza, rivelazione e testimonianza sono sinonimi, perché sono l’anticipo e la premessa dell’evento degli eventi: «Il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la Parola diventa Pane, il Pane rivela la fragilità di Dio che è il «luogo» privilegiato, l’arca dell’alleanza dell’incontro con gli uomini e le donne, i fragili dell’umanità.
(27- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Quando le donne bevono

Viaggio nel mondo dell’alcol (seconda puntata)

 In Italia, ci sono 13mila alcoliste e 24mila donne ricoverate ogni anno a causa dell’alcol.
Tra le consumatrici ci sono ragazze sempre più giovani (l’alcol contro l’inibizione), ma anche donne anziane (l’alcol contro la solitudine).  Occorrerebbe sapere che l’organismo femminile smaltisce l’alcol con maggiore difficoltà rispetto a quello maschile ed è quindi più soggetto a patologie o problematiche alcol-correlate.E per una donna in gravidanza i rischi sono ancora maggiori.

Tra i miei ricordi di bambina c’è quello di una donna del mio stesso quartiere, a Torino, che per la sua dedizione all’alcol veniva soprannominata, senza troppi giri di parole, la ciuca, termine che in dialetto piemontese significa «ubriaca». Si trattava peraltro di una povera donna, che cercava di dimenticare con l’alcol le proprie peripezie familiari. Tuttavia quell’immagine di ebbrezza, che spesso si portava addosso, era servita a stigmatizzarla impietosamente. A quei tempi, le donne che si ubriacavano erano messe all’indice dalla società. A dispetto di questo modo di pensare, nel giro di qualche decennio, l’immagine della donna che beve alcolici è stata non solo accettata dall’opinione pubblica, ma addirittura vista come uno dei segni dell’emancipazione femminile, insieme all’abitudine di fumare.

IN CONTINUO AUMENTO LE DONNE BEVITRICI
Del resto, a rafforzare quest’immagine hanno contribuito sia il cinema, che la televisione. Come non ricordare la fortunatissima serie televisiva Dallas degli anni ‘80, in cui i protagonisti, uomini e donne, non perdevano mai l’occasione di bere un drink? L’abitudine di bere alcolici, nel corso degli ultimi anni, si è talmente diffusa tra le donne, che, secondo l’Oms, l’Europa presenta il più alto numero di bevitrici al mondo. Come già visto nella precedente puntata (MC novembre 2011), il vecchio continente detiene il primato mondiale del consumo di bevande alcoliche. Per quanto riguarda l’Italia, secondo le indagini annuali  multiscopo dell’Istat relative a Stili di vita e condizioni di salute, attualmente il 67% delle donne consuma bevande alcoliche, contro il 43% degli anni ’80 (la percentuale maschile è dell’86,6%). Ovviamente l’incremento del numero di consumatrici di alcolici ha portato ad un aumento delle patologie e delle problematiche alcol-correlate tra le donne. Si stima, infatti, che il 9,4% degli uomini ed il 19,2% delle donne ecceda le quantità di alcol considerate a minore rischio, rappresentando quindi la porzione di individui potenzialmente a rischio. Nel conteggio sono peraltro considerati anche gli alcol-dipendenti, che comunque vi contribuiscono in maniera molto limitata, cioè 0,9% gli uomini e 0,4% le donne. La percentuale dei consumatori a rischio riceve un grosso contributo dal numero delle consumatrici, che presentano una probabilità  di ammalarsi doppia rispetto a quella dei soggetti di sesso maschile. Per quanto riguarda la distribuzione dei consumatori a maggiore rischio di patologie alcol-correlate, per i differenti target di popolazione, si è visto che l’incidenza del rischio aumenta con l’età in entrambi i sessi e presenta i valori più elevati nella fascia tra i 65-74 anni, a cui fanno seguito i valori registrati per l’intervallo tra i 45-64 anni. Per le donne, in Italia, il picco di consumo problematico di alcol si colloca attualmente tra i 35 ed i 44 anni. Del resto è questa la fascia d’età, che può presentarsi come la più critica per il sesso femminile poiché possono esserci timori per la perdita della giovinezza, oppure per la riduzione della fertilità e della capacità procreativa. Può essere presente un senso di frustrazione per la mancata realizzazione di progetti giovanili oppure la vita sentimentale può risultare insoddisfacente, o addirittura distrutta dalla rottura di un legame importante. In questi casi, il ricorso all’alcol rappresenta un modo per sfuggire, sia pure temporaneamente, alla propria realtà. Tutte queste sono forse le motivazioni più classiche, che spingono le donne a bere. Certamente non sono le sole. In particolare, per quanto riguarda le bevitrici adolescenti, che bevono prevalentemente birra e superalcolici fuori dal contesto domestico e che concentrano il consumo o l’abuso soprattutto  nei fine settimana, il ricorso all’alcol ha una funzione disinibente che permette una maggiore disinvoltura nelle relazioni. In questo caso l’alcol viene visto come mezzo per farsi accettare dal gruppo dei coetanei, anch’essi dediti all’alcol. Da qui il sempre più elevato numero di casi di binge drinking tra gli adolescenti. In particolare, per quanto riguarda le ragazze, si è rilevato che, in Italia, il 10% si ubriaca almeno una volta all’anno, consumando più di 5 bevande alcoliche in un’unica occasione (binge drinking), mentre per i ragazzi la percentuale sale al 22,1%.

PERCHé ALLA DONNA FA PIù MALE
La conseguenza dell’aumento del consumo di bevande alcoliche tra le donne è rappresentata dalla diffusione delle patologie alcol-correlate nel genere femminile. Attualmente sono circa 13.000 le alcoliste in trattamento, presso le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale, mentre, secondo i dati più recenti, sono circa 24.000 all’anno i ricoveri di donne negli ospedali italiani, per cause attribuibili al consumo di alcolici.
Ma perché le donne sono più vulnerabili all’alcol rispetto agli uomini? Assumendo medesime quantità di alcol, a parità di condizioni, la concentrazione di alcol nel sangue (Bac, Blood alcohol concentration: il termine scientifico dell’alcolemia) è più elevata nelle donne che negli uomini. Il motivo è che l’organismo femminile ha in primo luogo una capacità dimezzata di smaltire l’alcol ingerito, perché la dotazione dell’ADH (alcoldeidrogenasi, un enzima epatico) è la metà di quello maschile ed in secondo luogo la donna ha una minore massa corporea e una quantità inferiore di liquidi totali con una conseguente minore capacità di diluizione dell’alcol. Questo vuole dire che le donne raggiungono l’intossicazione acuta da alcol, cioè lo stato di ebbrezza, assumendone quantità inferiori rispetto a quelle necessarie per raggiungere lo stesso stato nell’uomo.

I PERICOLI  DURANTE LA GRAVIDANZA
In Italia, le linee guida nutrizionali raccomandano che una donna adulta ed in buona salute non superi mai la quantità giornaliera di 1 o al massimo 2 bicchieri di una qualsiasi bevanda alcolica. Nel caso che il rischio possa estendersi a terzi, come durante la gravidanza, è da evitare anche il consumo moderato di alcol. Non dimentichiamo che un bicchiere contiene circa 12 g di alcol e che richiede, più o meno, un paio d’ore per essere completamente smaltito.
Qual è il motivo, per cui le linee guida nutrizionali vietano di assumere bevande alcoliche in gravidanza? Il motivo risiede nel potere teratogeno dell’alcol, cioè nella sua capacità di causare malformazioni fetali. Organi vitali come il cuore, il cervello, lo scheletro, per citae alcuni, si formano molto precocemente durante la gestazione, cioè tra i 10-15 giorni dopo il concepimento, quindi è fondamentale smettere di bere già quando si sta programmando la gravidanza, senza attendere che sia iniziata. Le donne che bevono abitualmente (mediamente 3 o più bicchieri al giorno) presentano un’aumentata frequenza di aborti, soprattutto nel terzo trimestre di gravidanza. Questo fatto probabilmente è dovuto all’azione tossica esercitata dall’alcol sul feto, anche nel caso dell’assunzione di dosi modeste (come 2 bicchieri nella gravidanza avanzata). L’alcol è in grado di attraversare la placenta e di raggiungere il feto, che non possiede enzimi capaci di metabolizzarlo, per cui ne subisce gli effetti dannosi a livello cerebrale e dei tessuti in formazione. Dato il suo potere teratogeno, l’alcol interferisce sui normali processi di sviluppo fisico, provocando malformazioni, e sullo sviluppo intellettivo, causando ritardo mentale, in maniera più o meno grave, a seconda delle quantità assunte dalla gestante. Inoltre elevate quantità di alcol assunte durante la gravidanza determinano carenze vitaminiche, con gravi ripercussioni sullo sviluppo del nascituro. Il primo ed il terzo trimestre di gravidanza sono i periodi più rischiosi, per quanto riguarda i danni provocati dall’alcol sul feto. Il bambino, nato spesso prematuro, può presentare condizioni generali variabili: dalla presenza di sintomi o disturbi definiti alcolici, fino ad una conclamata «sindrome feto-alcolica» (Fas) irreversibile e progressiva. Quest’ultima è caratterizzata dalla presenza nel bambino sia di sintomi fisici, che di disturbi neurologici e neuropsicologici. I sintomi fisici si manifestano soprattutto a carico della testa, del volto, dello scheletro e del cuore. La testa può presentare microcefalia; nel volto possono essere presenti pieghe agli angoli degli occhi, fessure oculari strette, strabismo, naso corto e piatto, labbro superiore assottigliato e vermiglio, solco naso-labiale allungato ed appiattito, fronte stretta ed allungata. Può essere presente ipoplasia del nervo ottico. Per quanto riguarda lo scheletro, si manifesta un ritardo marcato nell’età ossea media, che si traduce in una statura inferiore alla media, in un ridotto peso corporeo ed in una ridotta circonferenza cranica. Spesso sono presenti malformazioni cardiache, soprattutto a carico del setto ventricolare. Le disfunzioni neurologiche e neuropsicologiche presenti nella «sindrome feto-alcolica» sono rappresentate da disturbi del sonno, riflesso della suzione ridotto, ritardo dello sviluppo mentale, deficit intellettivo, disturbi dell’attenzione e della memoria, disturbi della motricità fine, iperattività ed impulsività, disturbi dell’eloquio e dell’udito. Non tutte le gestanti con un forte consumo di alcol sono destinate a partorire un neonato affetto da Fas. La percentuale di neonati con Fas varia tra il 30-40% delle gestanti forti bevitrici. I fattori di rischio, che possono influenzare la comparsa o meno della Fas, sono molteplici: la quantità di alcol consumato durante la gravidanza, la tipologia del consumo di alcol (cronico od occasionale), l’intensità dell’esposizione, il periodo dell’esposizione, l’interazione con altre sostanze (tabacco, droghe, medicinali), fattori alimentari, predisposizione genetica, condizioni di vita, ceto sociale, livello d’istruzione e stato civile della madre. Le donne fertili e sessualmente attive, che consumano più di 7 bevande alcoliche alla settimana, in caso di gravidanza rischiano di avere un figlio con deficit cognitivi, intellettivi e psicosociali. E la probabilità di danneggiare il feto aumenta all’aumentare dell’alcol assunto. I bambini, la cui madre ha consumato almeno 80 g di alcol puro al giorno, sono ad alto rischio. Tuttavia, anche il consumo di alcolici abbondante, ma sporadico può rappresentare un serio pericolo per il feto, dato che l’alcol può essere dannoso in ogni momento della gravidanza. Certamente i difetti congeniti più gravi si manifestano a seguito dell’esposizione all’alcol durante il primo trimestre di gravidanza, cioè nel periodo della formazione degli organi vitali. È stato rilevato che più di 12 drinks alla settimana aumentano il rischio di una nascita prematura e sottopeso. I fenomeni appena descritti possono riguardare tanto i figli di donne bevitrici in gravidanza, quanto quelli di donne, che si sono astenute dal bere durante la gestazione, ma che prima bevevano. Inoltre è stato dimostrato che i figli di donne, che hanno continuato a bere alcolici in gravidanza presentano una maggiore frequenza, in età adulta, di problematiche alcol-correlate ed una più frequente predisposizione al deficit cognitivo consistente in una memoria ridotta. Recentemente è stato condotto uno studio, da parte dell’Istituto superiore di sanità, per rilevare la percentuale dei neonati esposti all’azione dell’alcol, durante la gestazione. Per ottenere questo dato, è stata valutata la presenza nel meconio, cioè nelle feci delle prime 48 ore di vita del neonato, di etilglucuronide, un marcatore dell’esposizione all’alcol durante la vita fetale. Lo studio è stato effettuato su 607 neonati ed è emerso che il 7,6% di loro presentava un’esposizione all’alcol. Attualmente sono pochissimi gli studi di questo tipo. Uno di essi, condotto a Barcellona, ha rivelato un’esposizione all’alcol nel 45% dei neonati. È evidente che questo problema è stato finora molto sottovalutato.
Per quanto riguarda la sfera riproduttiva femminile, l’alcol può essere responsabile della minore produzione di ormoni femminili e di insufficienza ovarica, che si manifesta con irregolarità mestruali (fino alla scomparsa del ciclo), presenza di cicli anovulatori ed infertilità.
L’abuso di alcolici tra le donne le rende, tra l’altro, maggiormente a rischio di subire violenze sessuali, poiché in stato di ebbrezza risultano più indifese.

ANZIANI: ALCOL, MEDICINE  E SOLITUDINE
Un altro tipo di consumo problematico dell’alcol è quello riguardante le persone anziane e in particolare le donne anziane che in gioventù non hanno ricevuto alcuna educazione al consumo di alcolici. Queste persone spesso bevono in un contesto domestico, mantenendo nascosta l’abitudine per timore di riprovazione da parte dei familiari, per cui le problematiche alcol-correlate sono riscontrate tardivamente. Nelle bevitrici anziane sono spesso frequenti episodi di compromissione della sfera neurologica e psichica, come difficoltà motorie, disturbi della memoria e comportamenti insoliti. Spesso gli anziani assumono farmaci di vario tipo e le donne, mediamente, consumano quantità di farmaci maggiori degli uomini tra prodotti ormonali, antidolorifici, prodotti per ridurre i grassi nel sangue, sedativi, prodotti contro l’insonnia e la depressione. L’associazione tra farmaci ed alcolici dovrebbe essere assolutamente bandita, ma spesso le persone anziane, specialmente se sole, non ne tengono conto o probabilmente non lo sanno, rischiando così l’effetto di pericolose interazioni.
Da quanto appena descritto, appare evidente la necessità di affrontare al più presto a livello educativo il problema dell’alcolismo femminile (e dell’alcolismo in generale, data la sua sempre maggiore diffusione tra i giovani), viste le gravi implicazioni a livello sociale (aumento dei costi sanitari, cause legali, assenze dal lavoro per malattia) e considerato il ruolo occupato dalla donna sia nell’ambito familiare, che sociale.
Si dovrebbe pensare a lezioni mirate sia in ambito scolastico che in ambito sanitario (ad esempio, con pubblicazioni prodotte dal ministero della Salute e rese facilmente reperibili presso il proprio medico curante o presso le farmacie).
Oltretutto non dobbiamo dimenticare che gli effetti dell’alcol, a differenza di quelli del fumo, si manifestano subito, non dopo anni. Quindi, questa estensione dell’abitudine di consumare alcolici rappresenta un serio pericolo sociale, purtroppo già attuale. Una donna bevitrice può generare figli malati, ma quand’anche i figli nascessero sani, che esempio potrebbero ricevere da genitori alcolisti?

Rosanna Novara Topino


Rosanna Novara Topino