Restrizioni e ostilità

Studi e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 02

Il 70% della popolazione mondiale vive in paesi con forti limitazioni di credo e di culto.
Dal Laos al Kazakistan, dal Pakistan all’Egitto, dalla Nigeria a Cipro, nel mondo gli episodi di vessazioni nei confronti di individui o gruppi religiosi sono numerosi. La libertà di religione è limitata da restrizioni governative e ostilità sociali crescenti. E neppure l’Europa ne è immune. Regno Unito e Francia, ad esempio, vedono aumentare pregiudizi, atti discriminatori e misure illiberali.

L’11 maggio scorso due sacerdoti cristiani si sono presentati in questura, convocati per un interrogatorio dalle autorità distrettuali di Phin, nella provincia di Savannakhet, nel Sud Est del Laos. Le autorità hanno contestato ai due l’utilizzo di case private come luoghi di culto. Dopo un’ora d’interrogatorio i sacerdoti sono stati rilasciati con l’ordine di staccare le croci dalle pareti estee di quegli edifici e di non divulgare il messaggio cristiano che stava portando alla conversione diversi laotiani di quelle zone.
L’episodio raccontato da Human Rights Watch for Lao Religious Freedom è emblematico della situazione descritta dal rapporto dell’United States Commission on Inteational Religious Freedom (Uscirf): «Il governo laotiano limita la pratica religiosa attraverso atti giuridici e impunità […]. I funzionari provinciali violano la libertà di religione con detenzioni, sorveglianza, molestie, confische di proprietà, spostamenti e rinunce forzate alla fede».

KAZAKISTAN
Negli ultimi mesi diversi lanci dell’agenzia «AsiaNews» hanno raccontato di ripetuti atti istituzionali volti a restringere la libertà di religione in Kazakistan. Solo tra febbraio e fine aprile 2012, in tre diverse regioni del paese, la polizia ha fermato Testimoni di Geova, Battisti e Hare Krishna, minacciandoli di punizioni esemplari per le manifestazioni pubbliche della loro fede. A fine aprile le autorità hanno chiuso l’ultimo luogo di culto della minoranza musulmana ahmadi ad Almaty, capitale commerciale del paese. I cristiani metodisti sono stati al centro di una serie d’ispezioni da parte di funzionari amministrativi. Un decreto emanato a marzo dal governo stabilisce regole ferree per l’introduzione nel paese di libri e materiali religiosi, e assegna alla pubblica sicurezza il potere di controlli, sequestri e arresti.

CIPRO
Era la fine di aprile quando a un vescovo e a un sacerdote della chiesa ortodossa di Cipro è stato negato il permesso di recarsi a celebrare la messa nei territori del Nord amministrati dai turchi-ciprioti. L’ambasciata di Cipro a Roma – secondo «Vatican Insider» – ha dichiarato che «ridurre la libertà religiosa dei cristiani residenti nei territori occupati da parte delle forze armate turche rientra nel disegno strategico di Ankara di completare la “pulizia etnica” iniziata nel 1974». Alcuni gruppi religiosi del Nord hanno riferito il monitoraggio delle loro attività da parte delle autorità cipriote turche, percependolo come atto intimidatorio. Anche nella parte sud dell’isola tuttavia si registrano episodi di restrizione della libertà religiosa. I turchi ciprioti non possono accedere ad alcuni cimiteri e moschee, la comunità buddista ha difficoltà a ottenere i permessi per la costruzione di un luogo di culto proprio, i Bahai devono seppellire i propri morti nei cimiteri per stranieri perché gli altri sono generalmente destinati ai soli gruppi religiosi riconosciuti, la comunità ebraica non riesce a ottenere l’allacciamento all’acqua per il proprio cimitero da parte del comune di Laaca, né un terreno per la costruzione di una sinagoga.

CRISI IGNORATA
Quelle descritte sono solo tre delle molte situazioni in cui la libertà religiosa viene limitata in giro per il mondo.
Organizzare assemblee religiose pacifiche, parlare del proprio credo, o cambiarlo, possedere e distribuire letteratura religiosa, inclusa la Bibbia e altre scritture sacre, educare i propri figli secondo gli insegnamenti e le pratiche della propria fede sono atti spesso vessati, proibiti e puniti.
I governi violano la libertà religiosa con restrizioni di vario genere e con l’omissione di prevenzione o di repressione delle discriminazioni e delle violenze sociali.
Cristiani, Musulmani, Induisti, Buddisti, Ebrei, e i membri di tutti i gruppi religiosi, non solo quando sono una minoranza nel proprio paese, si trovano a subire ingiustizie e limitazioni.
«L’anno scorso, mentre la crisi economica riempiva i giornali, un’altra crisi di portata equivalente passava inosservata – denuncia l’Uscirf nel suo rapporto riguardante il periodo aprile 2011-febbraio 2012 -. Nel paesaggio globale il fondamentale diritto umano alla libertà di religione ha subito crescenti attacchi. In misura allarmante, le libertà di pensiero, coscienza, religione o credo sono state ridotte, spesso tramite minacce alla sicurezza e sopravvivenza di persone innocenti».

CRESCENTI ATTACCHI
Lo scenario descritto dall’Uscirf, le notizie apprese dai mezzi d’informazione e dalle organizzazioni che nel mondo monitorano la situazione della libertà religiosa, confermano il trend di crescita delle restrizioni descritto in modo articolato e approfondito da un altro studio pubblicato nella seconda metà del 2011.
Il rapporto, intitolato Rising Restriction on Religion (Crescenti restrizioni sulla religione) del Pew Research Center’s Forum on Religion & Public Life, prende in considerazione il triennio 2006-2009 mettendo in confronto i dati dei diversi anni per valutare l’evoluzione della libertà religiosa nel tempo, attraverso l’uso di due indicatori: le restrizioni governative, quindi le politiche istituzionali dei diversi paesi, e il livello di ostilità sociale nei confronti delle diverse espressioni religiose.
I risultati dello studio indicano che circa il 70% della popolazione mondiale vive in paesi con forti limitazioni di credo e di culto.
Le restrizioni religiose tra il 2006 e il 2009 sono aumentate in 23 paesi (12%) sui 198 indagati, diminuite in 12 (6%), e sostanzialmente stabili nei restanti 163. Poiché parecchi dei paesi in cui si è registrato un aumento delle restrizioni sono molto popolosi, esse hanno colpito una percentuale di popolazione mondiale più larga rispetto alla percentuale del numero di paesi: oltre 2,2 miliardi di persone, circa una persona su tre al mondo (il 32%). Solo l’1% della popolazione mondiale vive in paesi nei quali le condizioni sono migliorate. Tra i 25 paesi più popolosi del mondo (che complessivamente contano il 75% della popolazione globale) le restrizioni sono cresciute in 8: in Cina, Nigeria, Russia, Thailandia, Regno Unito e Vietnam l’aumento è dovuto primariamente all’accresciuta ostilità sociale, mentre in Francia ed Egitto l’aumento è dovuto principalmente a misure restrittive prese dai rispettivi governi.
Delle 5 regioni geografiche del mondo, quella comprendente Medio Oriente e Nord Africa è la regione con la più alta proporzione di paesi (il 30%) che hanno registrato un incremento delle restrizioni. Tra questi l’Egitto, insieme all’Indonesia, è il paese con punteggi più alti per entrambi gli indicatori (restrizioni governative e ostilità sociale).
L’Europa è invece l’area geografica con la più alta proporzione di paesi che hanno visto aumentare in modo significativo l’ostilità sociale. Cinque dei dieci paesi che ne hanno registrato l’aumento sono europei (Bulgaria, Danimarca, Russia, Svezia, Regno Unito), 4 asiatici (Cina, Mongolia, Thailandia e Vietnam), 1 africano (Nigeria).
Tra il 2008 e il 2009 il numero di paesi i cui governi hanno compiuto uccisioni, violenze fisiche, incarcerazioni, allontanamenti da casa, danneggiamenti o distruzioni di abitazioni o luoghi di culto è salito da 91 a 101. Sono 142, circa tre quarti del totale, i paesi in cui uccisioni, atti di violenza, diffamazione, conversioni forzate, sparizioni, sono stati perpetrati da privati cittadini singoli o organizzati.
Gruppi terroristici legati alla religione sono stati attivi nel 2009 in 74 paesi.
Tra il 2006 e il 2009 si sono registrate vessazioni a livello sociale o governativo ai danni di cristiani in 130 paesi, e di musulmani in 117. In 75 paesi sono stati segnalati atti vessatori nei confronti di Ebrei, nonostante essi rappresentino meno dell’1% della popolazione mondiale. Ai danni di Buddisti in 16 paesi e di Induisti in 27. Questi due gruppi religiosi si trovano però molto più concentrati in determinate aree, molto popolose, del pianeta. In 84 paesi si sono verificati attacchi nei confronti di altri gruppi quali Sikh, Zoroastriani, Bahai, Rastafariani e tribali.
Dallo studio sembra emergere che i paesi in cui esistono restrizioni alte alla libertà religiosa tendano con più facilità ad aumentarle, mentre viceversa alcuni paesi con restrizioni basse tendono a diminuirle.

DA EST A OVEST, DA NORD A SUD, E VICEVERSA
In Egitto, uno degli epicentri della primavera araba, le autorità continuano a perseguitare e carcerare i cittadini accusati di blasfemia e permettono ai media ufficiali di esortare alla violenza contro i membri di minoranze religiose. Nel paese vige un clima d’impunità riguardo agli attacchi contro i Cristiani copti e le loro chiese.
Altri attori governativi negli ultimi mesi – quelli presi in esame dall’ultimo rapporto dell’Uscirf – hanno represso il diritto alla libertà religiosa. La teocrazia iraniana ha perseguitato tramite diversi mezzi, tra cui l’imprigionamento, le minoranze bahai, cristiane, zoroastriane e musulmane sufi. In Cina, l’anno passato è stato il peggiore degli ultimi 10 per i Buddisti tibetani e i Musulmani della regione autonoma Xinjiang Uygur.
L’assenza di prevenzione e l’omissione di punizione della violenza sulle minoranze religiose è uno degli strumenti che gli stati utilizzano per reprimere la libertà religiosa. In Nigeria, paese con un tasso elevato d’impunità, la violenza ha raggiunto il picco di 800 morti, 65.000 sfollati, chiese e moschee distrutte nei soli tre giorni successivi alle elezioni presidenziali. Almeno altre 35 vittime si sono contate in una serie di bombardamenti cornordinati di chiese durante il giorno di Natale. Nel Pakistan, le leggi sulla blasfemia e altre misure discriminatorie, quali le disposizioni anti Ahmadi, hanno creato un’atmosfera tendente alla violenza cronica, peggiorata dall’omissione del governo di portare davanti alla giustizia i responsabili dell’assassinio di Shahbaz Bhatti, ministro federale cristiano per le minoranze e attivista da lungo tempo in favore della libertà religiosa.
Assieme alla circolazione di materiali di propaganda dell’estremismo religioso che partendo dall’Arabia Saudita interessa Medio Oriente, diverse zone di Africa, Asia ed Europa, la cultura dell’impunità ha rinforzato gruppi terroristi come Boko Haram in Nigeria e i Taliban in Afghanistan e Pakistan.
In gran parte del Medio Oriente le comunità cristiane presenti in quei territori da 20 secoli hanno iniziato a diminuire di numero.
I più vessati sono generalmente i membri di minoranze religiose, ma non sono rari i casi di restrizioni subite dai membri dei gruppi maggioritari.
Quando le violazioni non sono esercitate direttamente con la violenza, intervengono intricate reti di leggi, norme e regolamenti discriminatori che impongono carichi insostenibili alle comunità e ai loro aderenti, rendendo assai difficile, e a volte minacciando, la loro esistenza.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




Cana (33): «Gustate e vedete come è buono il Signore»

Il racconto delle nozze di Cana (33)

Gv 2,8-10: 8E dice loro: «Adesso cominciate ad attingere e continuate a portae all’architriclìno.
9Come poi l’architriclìno gustò l’acqua divenuta vino – e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori, loro che avevano attinto l’acqua -, l’architriclìno chiama lo sposo 10e gli dice: «Chiunque prima mette il vino “eccellente” (lett. «vino bello») e, quando sono ubriachi, il peggiore; tu hai custodito il vino “eccellente” fino ad ora».

Nella puntata precedente abbiamo volutamente omesso l’ultima parola di Gv 2,8 dove per la prima volta interviene un nuovo personaggio, fin qui assente: l’architriclino (gr.: architrìklinos) che la Bibbia Cei (2008) traduce con la circonlocuzione «colui che dirige il banchetto». Questo personaggio ritorna altre due volte nel testo greco di Gv 2,9, mentre la Bibbia-Cei (2008) ne elimina una, lasciandola sottintesa, modificando così la portata voluta dall’autore. Dice la Bibbia-Cei: «Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse».
Dice il testo greco: «Come poi l’architriclino gustò l’acqua… l’architriclino chiamò lo sposo e gli disse», ripetendo per la terza volta il riferimento esplicito al personaggio che è l’architriclino.
Più volte abbiamo detto che la traduzione Cei privilegia non l’esegesi, ma l’immediata comprensione perché la Bibbia viene «ascoltata» prevalentemente nella liturgia. Per questo motivo, sceglie una traduzione immediata, «orecchiabile» in italiano, ma in molti casi a danno della particolarità del testo e quindi, secondo noi, della sua stessa comprensione che non è quello che appare, come in questi versetti di Giovanni.
Usi per il matrimonio ebraico
La figura del personaggio «architriclino» è citata tre volte di seguito in due versetti (cf Gv 2,8-9). Sappiamo che quando Gv ripete due volte una parola o un nome vuole richiamarci ad andare oltre il testo scritto, a un senso più profondo, nascosto e impegnativo. Cerchiamo di immergerci nel profondo del pensiero dell’autore per scoprire chi è l’architriclino e quale significato abbia.
Le nozze ebraiche si svolgevano di norma in casa del padre dello sposo e duravano alcuni giorni, anche una settimana. Il matrimonio avveniva il terzo giorno, cioè il martedì, perché nel terzo giorno Dio crea due cose: le acque del mare e la terra e per due volte «vide che era cosa buona» (Gen 1,10.12): il martedì quindi è il giorno della doppia benedizione, della duplice fecondità del mare, che produce i pesci, e della terra, che produce alberi e frutti.
Un secondo motivo per cui il matrimonio si celebra il martedì (terzo giorno) consiste nel fatto che il quarto giorno, cioè il mercoledì, si riuniva il tribunale a cui si poteva presentare eventuale accusa di non-verginità della donna e dichiarare subito invalido il patto nuziale. Durante la prima notte di nozze, gli amici dello sposo vegliavano fino all’alba, quando le lenzuola sporche di sangue erano esposte con orgoglio al pubblico come prova della verginità della donna, la quale le conservava per tutta la vita.
La festa del matrimonio era complessa; svolgendosi in casa del padre dello sposo, occorreva un’organizzazione sostenuta per fare fronte all’approvvigionamento delle vettovaglie per molti ospiti e per diversi giorni. Il compito del responsabile delle nozze, che l’evangelista qui chiama «architriclino», era delicato perché doveva calibrare le necessità e fare in modo che tutti potessero mangiare, bere e divertirsi senza problema.
Gli sposi erano separati dagli invitati e stavano sotto un baldacchino: la sposa oata come una regina e lo sposo come un re, assisi sul trono regale del matrimonio, simbolo delle nozze tra Dio e Israele. Uomini e donne erano separati e stavano in spazi distinti con servizi indipendenti, per cui non si capisce come la madre e suo figlio abbiano potuto dialogare tra loro, dovendo stare in ambienti diversi e distinti, a meno che non si accetti l’ipotesi che ci troviamo di fronte a un aneddoto, cioè a un midràsh, con finalità teologiche, e quindi non di fronte ad un fatto storico.
Un personaggio nuovo e il suo simbolo
Il richiamo alla figura dell’architriclino, nominato tre volte in appena due versetti, nel contesto del racconto, indica una figura usuale nel matrimonio ebraico di famiglie abbienti che si potevano permettere un’organizzazione e una festa nuziale di grande partecipazione. In questo senso la sua presenza ci dice soltanto che le nozze erano di una famiglia benestante; la figura del responsabile delle nozze quindi, se ci trovassimo davanti alla cronaca di un fatto, avrebbe un valore narrativo senza un particolare significato: c’è un matrimonio di una famiglia benestante con molti invitati e necessita un organizzatore della festa che si protrae per giorni.
Nell’intenzione dell’autore del vangelo, però, il fatto storico cede il passo al valore simbolico, che esige da noi una particolare attenzione. Crediamo sia importante, infatti, sottolineare ancora una volta che in tutto il racconto, la sposa non è nemmeno menzionata, mentre lo sposo è citato una sola volta (cf Gv 2,9) e solo per essere rimproverato, mentre l’architriclino è nominato tre volte di seguito (cf Gv 8-9). Non può assolutamente essere una casualità. Dietro vi è una intenzione specifica, che il lettore deve scoprire su indicazione dello stesso Gv che lascia l’indizio delle tre citazioni. 
Sul valore simbolico dell’architriclino diverse sono le posizioni degli esegeti. Alcuni (Mateos-Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 143; F. Manns, L’Evangile, 103) partono dall’analisi filologica e accostano «architriclino» al sostantivo «àrchōn-capo/responsabile», che nel IV vangelo ricorre 4 volte (cf Gv 3,1; 12,31; 14,30; 16,11) e una volta in Ap 1,5, con cui si fa riferimento alle autorità giudaiche. Il riferimento dunque sarebbe a «capi dei giudei-àrchōntes» (cf Gv 3,1; 7,26.48) o anche al «sommo/i sacerdote/i-archierèus» (cf Gv 11,47.51; 18,10.13.15.16.19.22.24.26.35; 12,10; 19,15.21) a cui si collegano di solito anche i «farisei» che fanno parte dei «capi» (cf Gv 7,32.45; 11,47.57; 18,3).
In questo contesto e nell’economia del racconto, l’architriclìno rappresenterebbe i responsabili del popolo che si sono dimostrati inadatti a cogliere la novità dell’alleanza e la svolta intervenuta con l’ingresso di Gesù nelle nuove nozze rinnovate a Cana. I capi assaggiano il vino eccellente, ma non sanno di dove proviene e, fatto ancora più grave, non sanno leggere il suo significato. Essi si fermano alla banalità dell’evento come appare ai loro occhi ciechi.
Bibbia e giornale, Parola e vita
Il vino estratto dalle giare di pietra, vino «eccellente» (in greco è kalòs: «vino bello»), non è dato direttamente al popolo, ma per primo viene offerto ai capi, a coloro che hanno il compito di constare gli eventi e sancire l’intervento di Dio (cf Lc 17,14) per il semplice fatto che avevano gli strumenti adeguati per «vedere» Dio operare nella storia: essi, infatti, «ascoltano» la Parola e «verificano» i fatti, gli eventi; hanno quindi i due strumenti principi per il discernimento profetico: gli eventi della storia e i criteri della Parola o, come direbbe Karl Barth, il giornale e la Bibbia. Eppure, pur essendo così privilegiati, sono inadeguati e anche inadempienti, perché si fermano alla superficie delle cose: ai fenomeni appariscenti e non sono capaci di scendere nel pozzo profondo della realtà per incontrare le correnti della vita e le dinamiche dello Spirito. Sono talmente tronfi di se stessi e della loro funzione, anzi ubriachi del loro ruolo, che identificano il loro stesso pensiero, limitato e limitante, con la volontà di Dio.
Gli architriclini sono chiamati non a contrabbandare il loro volere con quello di Dio, ma a riconoscere il vino eccellente, portato dai diaconi e attinto alle giare della vita e delle circostanze. Dio è il miracolo permanente che sta nelle pieghe dell’ordinario più usuale e bisogna avere ascolto fine e sguardo attento per coglierlo oltre il consueto e il banale: non si valuta infatti una opinione, ma si contempla l’evento straordinario della salvezza che si fa storia. Compito dell’autorità non è comandare, ma «ascoltare» la Presenza di Dio dovunque essa si nasconda e dovunque voglia riposare.
L’architriclino del racconto, invece, si limita a osservare che vi è stata una variazione di programma, lo scambio nell’ordine della presentazione dei vini: ha assaggiato il vino eccellente, ma non ha gustato né ha assaporato la novità di quel vino, né si è chiesto come mai fosse capitato proprio lì. Per lui quel vino che pure chiama «eccellente», doveva essere servito «prima», riservando a «dopo» quello scadente. Non si è reso conto che la successione tra «prima e dopo» è saltata, perché quando Dio interviene, non è più il tempo, il «chrònos», a regolare gli eventi, ma solo e unicamente il «kairòs», cioè l’occasione propizia che porta novità e cambiamento.
Se l’architriclino rappresenta i «capi/sommi sacerdoti», egli come questi, non solo non sa riconoscere il senso del vino nuovo, ma vuole impedire che il «secondo vino», cioè Gesù, entri nell’otre del «primo vino» che è quello dell’alleanza del Sinai, perché «non [è] venuto ad abolire la Legge o i Profeti…, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Per la religione ufficiale il passato è inamovibile, è sicurezza, è l’utero del caldo riposo dove ci si può crogiolare in attesa del nuovo che non arriverà mai, perché cuore, occhi e gusto sono tutti fermi e imbalsamati in un tempo addietro, senza vita e senza prospettiva: una fotocopia sbiadita di qualcosa che non saprà mai suscitare gli spasmi dell’amore che vive di attesa e di sospiri, di paura e di speranza. Bloccati nel passato, vivono del passato, fuori del presente, morti al futuro.
Oltre il passato, l’oggi
L’architriclino «e i capi del popolo sanno che Dio ha parlato a Mosè, e questo basta loro per restare suoi discepoli» (cf Eraldo Tognocchi, Le nozze di Cana, 168). Per essi è fuori di ogni logica che vi possa essere qualcuno più grande di Mosè, sebbene lo stesso profeta lo abbia previsto: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15). Anche la Parola di Dio viene vanificata dai cultori del passato che così mettono una ipoteca sulla stessa volontà salvifica di Dio, riducendola a mero strumento di esercizio di potere: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9). Gesù stesso dunque distingue tra una tradizione «vostra» e il «comandamento», perché aveva già previsto che gli uomini di chiesa avrebbero sacrificato volentieri il secondo sull’altare della presunzione della prima perché dimentica sempre che ogni tempo è tempo di Dio.
Un’altra posizione, sempre sulla linea della simbologia, è espressa dallo studioso Xavier Léon-Dufour (Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, I,308), secondo il quale, l’architriclino è una figura positiva, il cui compito è constatare che finalmente è arrivato il «vino eccellente» e le parole allo sposo, lungi dall’essere parole di rimprovero sono solo una battuta scherzosa, quasi una celia, come dire: Ah, bricconcello, hai voluto cogliere tutti di sorpresa, dando all’inizio vino scadente e portando in tavola solo alla fine vino eccellente! Ci sei riuscito, bravo! (cf Ibidem, 300). Su questo stesso versante si colloca anche Aristide Serra (Le nozze di Cana, 384-389), che riconosce il valore simbolico del personaggio, ma lo colloca sulla linea dello «stupore/sorpresa» e non già su quella dell’incapacità, che è conseguenza dell’ignoranza di quanto è accaduto: l’architriclino, «il maestro (o incaricato) di mensa, constata, si direbbe con lieta sorpresa, che il vino offerto alla fine, da lui “gustato”, è di qualità superiore, e non sembra biasimare lo sposo per questo. Semplicemente, egli “non sa da dove venga” quella sorpresa. La sua meraviglia rimane senza risposta» (Ibidem, 384). Serra poi nella nota 667 (p. 384) mette in relazione Gv 2,9-10 con Eb 6,4-5 che usano gli stessi vocaboli nello stesso senso e con lo stesso scopo:

Sia in Gv che in Eb si trovano tre pensieri espressi: il verbo gèuō-io gusto; l’aggettivo kalòs-bello/buono/ eccellente e la parola di Dio, rhêma theoû, esplicita in Eb e simboleggiata nel vino in Gv. A. Serra conclude la nota con il riferimento a 1Pt 2,3 che ricorre alla metafora del latte per indicare la stessa Parola di Dio. In conclusione lo stupore dell’architriclino non è altro che l’anticipo di tutti gli altri «stupori» che s’incontrano nel vangelo di fronte ai «segni» operati da Gesù, suscitando così la domanda sulla sua persona e sulla sua identità: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (Gv 6,42; cf Mt 13,54-57; Mc 4,41; 6,1-6; Lc 5,21).
Quale Dio per quale Umanità?
Le due interpretazioni simboliche non si escludono né sono alternative, semmai si integrano, perché da un lato è vero che gli «architriclini-sommi sacerdoti e capi» non sono stati all’altezza della novità che la storia portava e dall’altra è pure vero che «anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga» (Gv 12,42). Da un lato, quindi, c’è l’incapacità di cogliere la novità da parte di un’autorità, lenta per sua natura e anche paurosa di aprirsi al nuovo, che è sempre una incognita di destabilizzazione del potere acquisito, e dall’altra c’è lo stupore/meraviglia che nasce dal «gusto» di un vino mai assaggiato prima. C’è la coscienza, ma non è avvertita perché si ferma al dato e non va oltre.
Gesù non è rappresentabile con l’immagine pietistica del «sacro cuore», bonaccione e melenso con gli occhi stralunati come se fosse reduce da un party a base di cocaina o con i capelli biondi intrisi di brillantina al gel per farlo apparire più come un hippy ante litteram che come un ebreo-palestinese, assolato e olivastro. Tutto ciò serve ad alienare e a estrapolare il senso di Dio dalla realtà e trasferirsi in un limbo nebuloso di spiritualismo separato dalla vita e dalla storia, disincarnando la sua incarnazione, trasformata in un accidente di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Al contrario, Gesù porta lo scisma e, dove arriva, impone una scelta e, infatti, dovunque va esercita un magistero che esige una risposta: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,45); sulla stessa linea il vangelo apocrifo di Tommaso: «Gesù disse, “Ho appiccato fuoco al mondo, e guardate, lo curo finché attecchisce… Forse la gente pensa che io sia venuto a portare la pace nel mondo. Non sanno che sono venuto a portare il conflitto nel mondo: fuoco, ferro, guerra”» (Vangelo Tommaso nn. 10 e 16).
Di conseguenza, nel popolo molti lo accolgono con entusiasmo, altri lo rifiutano con consapevolezza (cf Gv 7,43; 10,19); lo stesso avviene tra i farisei (cf Gv 9,16) e tra i soldati del tempio che arrivano a disobbedire agli ordini ricevuti perché «mai un uomo ha parlato così!» (Gv 7,46). Da qui attraverso il misterioso personaggio dell’architriclino giunge fino a noi la domanda a cui non possiamo sfuggire: chi è Gesù per me? Oggi, adesso e qui?
(33 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




INCONTRI RAVVICINATI (Malattie sessuali – 1)

LE «MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE» (prima
parte)
A causa
della delicatezza del tema, le «Malattie sessualmente trasmesse» (Mst) sono un’emergenza
mondiale poco conosciuta. Ma i numeri
parlano chiaro: 340 milioni di nuovi casi ogni anno e di questi
111 milioni riguardano
giovani sottorni 25 anni. Aids escluso.

PREMESSA

La mia passata esperienza di ricercatrice in campo medico e
quella attuale di insegnante di scuola superiore e di madre di una ragazza di
17 anni mi hanno convinta della necessità di proporre il delicato argomento
delle «Malattie sessualmente trasmesse» (Mst) alla redazione di MC, che ha
accettato, concordando sulla necessità di offrire soprattutto ai giovani, ma
anche ai meno giovani una maggiore informazione e di conseguenza una maggiore
consapevolezza dei rischi, che potrebbero correre durante eventuali «incontri
ravvicinati».

Una delle emergenze meno conosciute, ma più temibili, che
caratterizza il panorama sanitario attuale a livello mondiale è la diffusione
delle «Malattie sessualmente trasmesse» (Mst) o veneree. È opinione comune,
specialmente tra i giovani, che, a parte l’Aids, queste malattie siano ormai
retaggio del passato. Purtroppo i dati dell’«Organizzazione mondiale della
sanità» (Oms) rivelano una situazione diametralmente opposta. Ci sono infatti
circa 340 milioni di nuovi casi all’anno al mondo di Mst escluso l’Aids e, di
questi, 111 milioni riguardano giovani sotto i 25 anni. Nei paesi più poveri,
gli adolescenti colpiti da queste malattie sono l’85%. Si stima che ogni anno
un adolescente su quattro di età compresa tra 13 e19 anni contragga una Mst
attraverso un rapporto sessuale.

OLTRE LA «STORICA» SIFILIDE

Accanto alle malattie veneree tradizionali, o
di prima generazione – la sifilide o lue, la gonorrea, il linfogranuloma
venereo e l’ulcera molle -, le nuove conoscenze in campo microbiologico e
clinico hanno permesso l’individuazione di oltre 20 diversi agenti eziologici
(vedi Glossario), tra batteri, virus, protozoi e parassiti, responsabili
di circa trenta Mst, che vengono definite di seconda generazione. Le Mst di
prima generazione sono quelle storiche, mentre quelle di seconda generazione
hanno fatto la loro comparsa nel ventesimo secolo. Sono infatti emersi nuovi
agenti infettanti.

Le cause sono molteplici. Una di esse è
l’aumento delle terapie antibiotiche non mirate, che possono avere creato una
selezione o una mutazione dei ceppi responsabili in passato di altre malattie.
Un’altra causa potrebbe essere la mobilità delle popolazioni. Basta pensare
alla sifilide portata in Europa probabilmente dai marinai di Cristoforo Colombo
e diffusasi con una prima epidemia a Napoli nel 1495, a seguito della discesa
dell’esercito francese guidato dal re Carlo VIII. Il ritorno verso nord
dell’esercito diffuse la malattia prima in tutta l’Italia e poi in tutta Europa,
fino a giungere in Oriente. La malattia venne denominata ovunque «mal francese»,
tranne in Francia, dove venne chiamata invece «mal napolitain». Tra gli agenti
responsabili delle nuove Mst sono stati individuati il Trichomonas vaginalis,
la Chlamydia trachomatis, il Mycoplasma spp, l’Herpes simplex
virus
(Hsv) di tipo 1 e 2, una notevole varietà (oltre 100) di tipi di Papilloma
virus umani
(Hpv), i virus dell’epatite B e C, oltre a quello dell’Aids
(Hiv). Al di là del quadro clinico presentato dalle singole Mst, più o meno
grave a seconda del tipo (si va dalle perdite mucose alle ulcere genitali,
all’edema inguinale, al dolore intenso all’addome inferiore ed alle infezioni
oculari neonatali), un aspetto molto preoccupante di queste malattie è
rappresentato dalle loro conseguenze e complicanze, che limitano fortemente la
capacità riproduttiva. Tra queste ricordiamo la malattia infiammatoria pelvica
(Mip o Pid cioè «pelvic inflammatory disease», vedi Glossario),
la sterilità tubarica, l’ipofertilità sia maschile che femminile, la gravidanza
ectopica (Glossario), l’endometrite (Glossario) post-partum, il
parto pretermine, le stenosi uretrali, l’aborto, la morte pre e perinatale,
l’oftalmia neonatorum e la sifilide congenita, causata dalla
trasmissione verticale da madre a feto. È perciò di importanza fondamentale
prevenire l’insorgenza e la diffusione delle Mst, perché altrimenti
aumenteranno sia il numero dei malati, che quello delle  persone sterili. Inoltre alcune di queste
infezioni possono alla lunga causare l’insorgenza di tumori, come quello da
Hpv, che è responsabile del carcinoma della cervice uterina, oppure le epatiti
virali, che possono provocare l’epatocarcinoma (o carcinoma del fegato).

L’AVANZATA DEL CONDILOMA

È evidente come le cure di queste malattie e
delle loro complicanze possano incidere pesantemente sulle risorse finanziarie
del Sistema sanitario nazionale (servono 400 euro a persona, in Italia, solo
per curare la condilomatosi da Hpv, una delle manifestazioni meno gravi).
Attualmente in Europa le Mst rappresentano le infezioni più diffuse dopo quelle
respiratorie e sono tornate all’ordine del giorno dei sistemi sanitari europei
a seguito dell’elevata incidenza nei nuovi paesi membri, cioè quelli dell’ex
blocco sovietico. Secondo l’Ufficio regionale europeo dell’Oms, l’incidenza
delle Mst nei paesi dell’est europeo è mediamente 100 volte superiore a quella
dei paesi occidentali (da 62,8-164,1 su 100.000 persone a 1,46 su 100.000). In
Russia nel 1990 c’è stata un’epidemia di sifilide, che ha iniziato a declinare
solo nel 1998, ma che ha portato ad un aumento della sifilide congenita. Nei
paesi occidentali, dagli anni ’70 al 2000, si è osservato un progressivo
aumento delle Mst virali, come le patologie da papilloma virus umano (Hpv), da Herpes
simplex
1 e 2 (Hsv), da virus dell’immunodeficienza umana, o Aids (Hiv) e
delle epatiti B e C, mentre sono diminuiti i casi di Mst classiche di origine
prevalentemente batterica (sifilide, gonorrea, linfogranuloma venereo, ulcera
molle, granuloma inguinale). Tra le Mst virali, i condilomi acuminati (vedi Glossario)
da Hpv sono al primo posto per numero di visite e diagnosi. Si stima che 20
milioni di statunitensi abbiano già contratto questa infezione e che ogni anno
vi siano 5 milioni di nuovi casi. La stessa situazione è presente in Europa,
dove i condilomi acuminati rappresentano un terzo delle diagnosi di Mst.

Se le Mst di prima generazione hanno
presentato un progressivo calo fino al 2000, fin quasi a scomparire in Europa e
negli Stati Uniti, dal 2000 in poi la situazione si è ribaltata e attualmente
queste patologie mostrano nei paesi occidentali, Italia compresa, una
recrudescenza soprattutto nelle grandi città metropolitane e tra le categorie
di popolazione a maggiore rischio di contagio, come gli omosessuali, chi fa
sesso a pagamento ed i migranti. Queste attuali riemergenze di patologie, che
sembravano ormai debellate, sono correlabili con i rapidi cambiamenti dei
comportamenti sessuali, come un sempre maggiore ricorso a pratiche sessuali a
rischio ed un sempre minore uso del preservativo, anche tra gli individui
portatori di Hiv conclamato (Glossario). Diversi studi hanno dimostrato
che l’aumento della diffusione delle Mst è relazionabile con l’aumento dei casi
di Aids e, viceversa, come i malati di Mst siano a maggiore rischio di
contrarre anche l’Aids.

I FATTORI DI RISCHIO

I fattori di rischio per le Mst sono
molteplici. Al primo posto c’è la promiscuità sessuale, cioè l’elevato numero
di partners, soprattutto nei casi di rapporti occasionali. Abbiamo poi
la coinfezione con Hiv, oppure una precedente storia di Mst. Sicuramente tra i
fattori di rischio c’è un’informazione carente, che purtroppo riguarda fasce
sempre più ampie di popolazione, nonché il mancato utilizzo di mezzi di barriera
nei rapporti a rischio.

Ci sono delle condizioni predisponenti alle
Mst sia biologiche, che comportamentali. Tra le prime c’è la giovane età, in
quanto i giovani hanno i tessuti genitali ancora immaturi, quindi più ricettivi
verso i patogeni, inoltre molto spesso non hanno ricevuto un’adeguata
educazione sanitaria, il che comporta un significativo calo della percezione
del rischio d’infezione ed infine accedono poco ai servizi sanitari, per questo
tipo di problemi. Le donne sono più suscettibili, per la complessità
dell’apparato genitale femminile, nel quale i patogeni hanno una maggiore
probabilità di stabilirsi. Infine sono a rischio di contrarre una Mst i
soggetti che presentano uno stato di immunodeficienza, prodotto – ad esempio –
da tossicodipendenza e alcolismo, che comportano un abbassamento delle difese
immunitarie nonché riduzione della lucidità e, con essa, dell’attenzione verso
i rapporti a rischio. Per quanto riguarda le modalità di contagio, questo può
verificarsi sia in rapporti omo, che eterosessuali, ma per molte Mst esiste,
come già visto, anche quello da madre a feto. La sintomatologia è variabile, a
seconda della Mst, ma è anche possibile la completa assenza di sintomi e di
lesioni visibili, pur essendo presente la malattia e, soprattutto, la
possibilità di trasmetterla. È infatti possibile che il soggetto sia un
portatore sano (Glossario), oppure che si trovi nel periodo di latenza
della malattia. In questi casi c’è completa assenza dei sintomi, ma la persona
può infettare il partner, nel quale la malattia può invece manifestarsi. Questo
avviene tipicamente nell’Aids e nell’epatite B e C, malattie virali che
peraltro non si trasmettono solo con i rapporti sessuali, ma anche tramite la
contaminazione con sangue o con liquidi organici infetti (trasfusioni, ferite
con strumenti non adeguatamente sterilizzati, ecc.). Si ritiene che il 10-20%
della popolazione maschile ed il 75% di quella femminile con infezione da Chlamydia
trachomatis
rimanga asintomatico, il che comporta la facile trasmissibilità
dell’infezione durante i rapporti sessuali non protetti ed il mancato ricorso
alle cure mediche. Il decorso asintomatico tuttavia non esclude le complicanze
a lungo termine. Si registra, ad esempio, la comparsa della malattia
infiammatoria pelvica (Mip, vedi Glossario) nel 15% delle adolescenti
infette da Chlamydia non curate, con il rischio di andare incontro a
lesioni tubariche ed a sterilità.

Mentre in passato le Mst erano più spesso
associate alla prostituzione ed alle immigrazioni di popolazioni alla ricerca
di migliori condizioni di vita, attualmente queste malattie si correlano anche
al turismo sessuale, un fenomeno in continua crescita (MC ne ha parlato più
volte
), con un business che ogni anno fattura circa 5 milioni di
dollari e che coinvolge uomini, donne e bambini. Le aree maggiormente
interessate da questo fenomeno sono l’Asia, l’America Latina e l’est europeo.
Secondo il rapporto Unicef del 2006 sulla condizione dell’infanzia nel mondo,
il Brasile, il Messico, la Thailandia e la Cina sono i paesi con il più alto
traffico e sfruttamento dei minori, mentre l’Italia è risultata al primo posto
tra i paesi europei per il turismo sessuale. Tra l’altro questo fenomeno non è
più ad esclusivo appannaggio maschile, ma si sta diffondendo anche il turismo
sessuale femminile.

IL «PAPILLOMA VIRUS» E L’«HERPES SIMPLEX»

In Italia la diffusione delle Mst è valutata
da un sistema di sorveglianza attivo presso l’Istituto superiore di Sanità,
sulla base delle diagnosi effettuate da una rete di centri specialistici
pubblici (la notifica della diagnosi delle Mst è obbligatoria). Sulla base dei
dati raccolti da questo sistema emerge che il 90% dei pazienti è eterosessuale,
che oltre il 40% dei pazienti sono donne, che circa il 15% non è italiano e che
il 21,4% ha già avuto almeno una Mst in passato. L’età del primo rapporto
sessuale risulta essere inferiore a 16 anni nel 38,5% dei casi e spesso questi
ragazzi hanno dichiarato di avere avuto più di due partners. Inoltre, dalle
loro dichiarazioni emerge che il 51,8% fa regolarmente uso del preservativo,
mentre il 48% non sempre, poco o per nulla. Tra le malattie batteriche o
protozoarie più diffuse ci sono la Chlamydia trachomatis, il Trichomonas
vaginalis
e la gonorrea, ma, come visto, sono in aumento i casi di sifilide.
Tra le malattie virali più diffuse si registrano, oltre l’Aids e le epatiti B e
C, gli Herpes simplex 1 e 2 ed i papilloma virus (questi ultimi da soli
causano un terzo di tutte le Mst virali mondiali). Per quanto riguarda i
papilloma virus (Hpv) – responsabili sia dei condilomi acuminati, che del
tumore della cervice uterina – è stata avviata una controversa campagna
vaccinale, di cui parleremo nella prossima puntata.

Con riferimento alla diffusione nel mondo
delle Mst, la maggior parte delle patologie si manifesta nell’Asia meridionale
e sud-orientale, seguita dall’Africa sub-sahariana e dall’America latina e
caraibica. Nei paesi in via di sviluppo, le Mst e le loro complicazioni sono
tra le prime cinque classi di malattie, che comportano il ricorso della
popolazione adulta alle cure mediche. Questo ha una notevole rilevanza dal
punto di vista economico, poiché tali cure da sole assorbono il 17% della spesa
sanitaria di questi Paesi. La patologia più diffusa in questi Paesi è l’Herpes
simplex
2, la causa più frequente di ulcere genitali. Nell’Africa
sub-sahariana ne sono affetti il 30-80% delle donne ed il 10-50% degli uomini.
Nel sud America la percentuale è del 20-40% nelle donne, in Asia del 10-30%
della popolazione totale. L’Herpes simplex 2 ha un ruolo importante nel
contrarre l’Aids. Lo dimostrano i dati della Tanzania, dove si riscontra la
coinfezione nel 74% degli uomini con questa Mst e nel 22% delle donne.

INFORMARE ED EDUCARE

Come si evince da questi dati, le Mst sono
uno dei problemi principali di salute pubblica a livello mondiale ed il
controllo della loro diffusione è una delle priorità dell’Oms. In particolare,
per quanto riguarda i giovani, è fondamentale monitorare la diffusione delle
Mst tra gli adolescenti, effettuando test di screening nelle scuole per
patologie ad altissima diffusione, come la Chlamydia. È altresì
fondamentale informare/educare i ragazzi, poiché l’informazione è la pietra
miliare nella riduzione delle Mst. Quando infatti si parla di queste malattie, è
facile incorrere in due grossi errori. Il primo è pensare che in questa
categoria rientri solanto l’Aids; il secondo errore è ritenere che, se i media
non affrontano questo argomento per un certo tempo, voglia dire che le Mst sono
diminuite o sono state addirittura debellate. L’informazione dovrebbe invece
giungere a tutti e ai giovani in particolare in modo corretto e capillare, sia
a livello scolastico, sia attraverso i mezzi di comunicazione. Ed è proprio in
quest’ottica, che su MC appare questo articolo, cui seguirà un secondo con la
descrizione delle principali Mst e delle loro complicanze.

Rosanna
Novara Topino

(fine prima parte)
 
GLOSSARIO

Agente eziologico: gli agenti eziologici o patogeni sono
i fattori, che causano malattia. Possono essere singoli o molteplici. In questo
caso si parla di malattia multifattoriale. Tra i principali agenti eziologici
di malattie infettive abbiamo i virus, i batteri, i funghi, i protozoi ed i
parassiti.

Clinica: metodologia medica basata sull’esame diretto del
paziente e sulla cura non chirurgica delle varie patologie.

Condiloma acuminato: viene anche chiamato verruca
genitale. Si tratta di una o più escrescenze o protuberanze causate dal virus
del papilloma umano (Hpv). È una delle più comuni Mst. Si possono avere più
condilomi raggruppati, che ricordano una cresta di gallo o un cavolfiore. La
localizzazione è prevalentemente sugli organi genitali, sull’inguine e sulle
cosce. Solitamente non causano dolore. Si trasmettono principalmente attraverso
il contatto sessuale con una persona infetta e possono comparire anche dopo
settimane o mesi dal rapporto.

Endometriosi: malattia cronica originata dalla presenza
anomala del tessuto che riveste la parete intea dell’utero, detta endometrio
in altri organi, come ovaie, tube, peritoneo, vagina, intestino. Ogni mese il
tessuto endometriale impiantato in sede anomala va incontro a sanguinamento
sotto l’influsso degli ormoni, che regolano il ciclo mestruale, esattamente
come l’endometrio vero e proprio. Tale sanguinamento porta ad un’irritazione
dei tessuti circostanti, con formazione di tessuto cicatriziale e di aderenze.

Gravidanza ectopica: gravidanza extrauterina, che si
svolge in una sede diversa dall’utero. Possiamo avere gravidanze tubariche,
tubo-ovariche, ovariche, addominali, come conseguenza del mancato impianto
dell’embrione nella cavità uterina, per diversi motivi. Il rischio di
gravidanza ectopica è maggiore nelle donne meno giovani e nelle nullipare, che
hanno avuto aborti plurimi. La gravidanza ectopica non diagnosticata o
riconosciuta tardi può complicarsi fino all’esito letale. L’emorragia intea
può provocare shock emorragico oppure una grave anemia.

Lesioni tubariche: lesioni alle tube di Falloppio, che
possono essere causa di sterilità, a seguito dell’ostruzione delle tube stesse,
con conseguente impedimento del trasporto degli ovociti. Viene inoltre a
mancare un ambiente adatto alla fecondazione. Le cause possono essere varie.
Tra queste abbiamo infiammazioni, infezioni, interventi chirurgici addominali
seguiti da aderenze dei tessuti, endometriosi.

Malattia infiammatoria pelvica: questa espressione indica
generalmente un’infezione ed infiammazione degli organi superiori dell’apparato
genitale femminile. L’infezione può interessare l’utero, le tube, le ovaie.
All’interno di questi organi possono formarsi cicatrici, che possono provocare
sterilità, gravidanze ectopiche (voce corrispondente), dolore pelvico cronico,
ascessi. Sono più a rischio le donne con una Mst, ma anche le giovani sotto i
25 anni, per relativa immaturità dei tessuti genitali. Tra gli altri fattori di
rischio ci sono le lavande vaginali ed i dispositivi anticoncezionali
intrauterini (Iud).

Neuropatia: patologia che colpisce il sistema nervoso
periferico (i nervi), ad eccezione del nervo olfattivo e di quello ottico. Può
essere localizzata in uno o più nervi. Si possono avere deficit positivi da
irritazione (aumento della funzionalità) o negativi (diminuzione). Tra i
deficit sensitivi abbiamo le parestesie ed i dolori urenti distali, le
anestesie della cute correlate a deficit motori, le atrofie e le ipotonie
muscolari dolenti alla pressione, l’assenza di riflessi propriocettivi, ecc.

Portatore sano: persona affetta da un agente eziologico,
senza i segni clinici della malattia, ma con possibilità di infettare gli
altri. Tipico è il caso dei portatori sani del virus Hiv dell’Aids e delle
epatiti B, C e D. Questa condizione dipende dalle difese immunitarie della
persona, in questo caso particolarmente forti.

Sieropositivo: persona che presenta un agente eziologico
nel sangue e negli altri liquidi organici. Sia le persone con malattia
conclamata, che i portatori sani sono sieropositivi, quindi infettivi per gli
altri. Sono altresì infettivi anche coloro che si trovano nel periodo di
latenza della malattia e coloro, che, pur essendo clinicamente guariti, per un
certo tempo rilasciano ancora i virus. La guarigione definitiva dalla malattia
si ha quando si raggiunge la sieronegatività (laddove possibile).

R.N.T.

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Rosanna Novara Topino




(Cana 36) «A mezzanotte si alzò un grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)

«A mezzanotte si alzòun grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)


«La nuova Gerusalemme… pronta come una sposa»   (Ap 19,7 e 21,25)


Gv 2,9d-10: «L’architriclìno… chiama lo sposo 10e gli
dice: “Chiunque all’inizio/dapprima offre il vino ‘bello’/eccellente e quando
[tutti] sono ubriachi, quello scadente; tu, [invece] hai voluto conservare il
vino ‘bello’/eccellente fino ad ora”».

Siamo alle battute finali del racconto delle nozze di Cana,
che ci ha svelato una prospettiva nuova, proiettata verso il contesto della
storia già accaduta, ma che deve ancora avvenire in maniera compiuta. Giunti
alla fine prendiamo atto che, come abbiamo detto più volte, non vi è cenno alla
sposa che è la grande assente del racconto. Ma la sua assenza è ingombrante,
perché parla più ancora che se fosse presente: la finalità del racconto, nell’ottica
dell’autore, non è la cronaca di un matrimonio o la santificazione anticipata
dello sposalizio cristiano, come se Gesù stesse istituendo «il sacramento»
nuziale; al contrario, l’obiettivo specifico, che ora dovrebbe essere certo per
noi che abbiamo vissuto questo percorso insieme a tutti i personaggi del
racconto, è il rinnovo dell’alleanza del Sinai nella persona di Gesù, il vero
sposo, atteso dall’umanità.

In mezzo a voi c’è uno che non conoscete

Per la terza volta consecutiva in due versetti, l’autore
nomina l’«architriclino», il responsabile organizzativo dei rifoimenti per la
festa perché tutto si svolga senza problemi. Egli però non è riuscito a gestire
«l’evento», perché è stato travolto dalla mancanza di vino, di cui non si è
nemmeno accorto, perché ha provveduto «la madre».

Nell’ottica dell’evangelista, costui non è un organizzatore
qualsiasi; egli, al contrario, è il rappresentante ufficiale dell’«archierèus/capo
dei sacerdoti», cioè dell’autorità ufficiale d’Israele, che avrebbe dovuto garantire
la realizzazione dell’alleanza, mentre invece si è affaccendata in tutt’altro
(cf Gv 18,13). Finalmente troviamo lo «sposo», che è una figura secondaria,
quasi inutile, anzi inesistente, se non fosse per l’incidente del vino mancato,
che «l’autorità» presente interpreta in maniera banale come un errore di
organizzazione. Quando l’autorità manca di prospettiva, finisce sempre per
essere un ostacolo. Ad andare più in profondità, però, scorgiamo che
l’«architriclino», senza nemmeno rendersene conto, dice due cose importanti:

a) il vino nuovo, quello che viene dopo, è superiore a
quello che c’era prima: è eccellente;

b) manifesta la sua sorpresa per la superiorità del vino
nuovo, quasi a volere dire che in tutta la sua vita non ne aveva assaggiato uno
come questo. Nonostante questa constatazione e il suo «stupore», egli non
riesce ad andare oltre: l’espressione che rivolge allo sposo, «fino ad ora»,
lascia intendere che ci troviamo di fronte a due epoche, a due tempi, a due
mondi: il mondo «fino ad ora» e il mondo che comincia da «adesso in poi». Egli
non si rende conto della presenza di Gesù e dell’azione da lui compiuta, per
cui non si apre al fatto nuovo accaduto sotto i suoi occhi, che spacca in due
la storia e il tempo, in «prima di Cristo» e «dopo di Cristo».

Per l’autorità religiosa il «nuovo» è prigioniero del
passato, una integrazione nella continuità della tradizione per cui nulla
cambia, anche se tutto si trasforma. Oggi si direbbe «l’ermeneutica della
continuità» che spiega certamente una linea teologica o, se si vuole, anche
religiosa, nel senso di dare sicurezze e tranquillità a chi magari soffre di
cuore e non vuole scomporsi più di tanto, restando fermo al calduccio
dell’utero materno. Per questa logica, però, nulla può succedere di decisivo e
dirompente, perché tutto deve avvenire in forma programmata e lineare.

La storia, come la vita, mai è lineare, ma è sempre protesa
verso il futuro, con andamento in parte lineare, in parte storto, in parte
aggrovigliato e a volte anche senza senso. È l’esperienza che ognuno di noi fa
ogni giorno e non si capisce perché questo criterio debba valere per ciascuno
di noi e non può valere per la storia degli eventi, considerata in sé.

L’uomo religioso creò Dio sua immagine e somiglianza

Con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù opera una
rottura: c’è un prima e c’è un poi, esattamente come prima c’era l’acqua e dopo
c’è il vino: non si può fare finta che gli eventi debbano adattarsi a noi;
semmai siamo noi che dobbiamo entrare nel cuore degli avvenimenti per scoprire,
lì, il comandamento di Dio. Quando vogliamo interpretare i «kairòi – le
occasioni» di Dio con i nostri criteri, non dovremmo mai dimenticare il monito
di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono
le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le
mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri»
(Is 55,8-9).

Spesso, anche noi, come l’architriclino del racconto,
vogliamo insegnare a Dio il suo mestiere e pretendiamo che agisca secondo i
nostri canoni e le nostre mentalità. La Bibbia, la Parola ci è data non per
fae una lettura spirituale, ma per imparare a conoscere la «mens» di Dio e
inserirci in essa per sposarla, condividerla e praticarla.

A volte si ha l’impressione che i credenti, e anche gli
addetti specifici alla vita religiosa, dicano di credere in «un Dio a loro
immagine e somiglianza» e non nel Dio di Gesù Cristo, il quale è venuto a
rivoluzionare ogni sistema religioso che pretende di incatenare Dio in schemi
precostituiti. Ci fermiamo, come l’architriclino, solo a un «assaggio» e non
siamo in grado di andare oltre, perché abbiamo paura di oltrepassare il confine
che ci siamo imposto. Invece di alzarsi in piedi, abbandonando la comodità
oziosa del banchetto, e chiedere ai presenti che cosa fosse quella novità,
perché sconvolgeva la «tradizione» usuale, si limita a chiamare lo sposo per
dargli un buffetto sulla guancia. Non si accorge che lo Sposo è un altro e non
si rende conto che ben altre nozze si stanno celebrando, né prende coscienza
che un tempo è finito e tutti, lui e noi, siamo entrati in un’altra dimensione.

L’autorità che avrebbe dovuto guidare il popolo in attesa
alla scoperta dei «segni dei tempi» per cogliere la Shekinàh – Dimora/Presenza
del Signore, resta seduto al suo tavolo ad assaggiare il vino, comunque arrivi,
facendo perdere anche ai presenti «la novità» della presenza eccezionale e
decisiva del Signore: «Stolti e ciechi! Voi … trasgredite il comandamento di
Dio in nome della vostra tradizione?» (Mt 23,17; 15,3).

Cana, il simbolo della nuova alleanza

Solo a questo punto, in Gv 2,10, dopo ben 10 versetti,
riusciamo a capire, come per uno squarcio, che ci troviamo di fronte a un
evento straordinario, inaspettato: lo sposo non è il pover’uomo rimproverato
dall’autorità per avere fatto male i conti, ma è un Altro, è colui che è
annunciato nella notte alle vergini sia stolte che prudenti, cioè a tutta la
comunità: «A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”»
(Mt 25,6). Egli ha in mano la chiave del Sinai, la cantina in cui è custodito
il vino del Messia e finalmente lo distribuisce all’umanità invitata a
partecipare alle nozze dell’alleanza.

Solo ora scopriamo che «Cana» è un simbolo, un richiamo
appena velato che ci rimanda a una realtà ben più significativa e corposa:
l’irruzione di Dio nella storia che ora si compie nella persona del Signore
Gesù. Per questo la «madre», in rappresentanza di Israele, può chiedere al
Figlio di dare finalmente questo vino, perché i figli da lungo tempo ne sono
privi; il suo «vino-non-hanno-più» non è la mesta constatazione di un disagio
momentaneo a un matrimonio di amici, ma l’anelito di tutte le attese e speranze
d’Israele, degnamente rappresentato dalla «madre» che funge anche da sposa,
anzi da vedova, che apre le porte di Sion ai figli lontani, invitandoli a
ritornare da ogni esilio, dolore, smarrimento e sedersi alla mensa delle nozze,
perché «è il Signore!» (Gv 21,7).

Finalmente scopriamo il ruolo dei personaggi: la «madre» è
la sposa d’Israele in attesa del suo Signore e il Figlio svolge il ruolo dello
Sposo atteso, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quello rivelatosi sul
monte Sinai al profeta Mosè che, nella funzione di «amico dello Sposo»,
consegnò in nome di Dio a Israele radunato intorno al monte le tavole nuziali
del patto d’amore.

Di fronte alla scoperta del vino «bello», superiore a quello
già esistente, tutto cambia e tutto acquista un senso nuovo. Possiamo con
certezza dire che tutto il racconto è un simbolo per metterci in guardia, per
dirci di fare attenzione al vero Sposo che è presente e che rischiamo di non
riconoscere se ci fermiamo alle apparenze del gusto e dell’ovvio. Ora ci appare
anche chiaro perché, immediatamente dopo il racconto del «segno di Cana»,
Giovanni il Battezzante presenta Gesù come lo Sposo (cf Gv 3,25-30), riservando
per sé la funzione tipica dell’uso giudaico di «amico dello sposo». In questo
modo vediamo Giovanni Battista come l’antitesi perfetta dell’architriclino:
questi non si accorge nemmeno dello Sposo che inaugura gli «ultimi tempi» del
compimento nel segno del vino «bello»; il Battista invece ha coscienza di
esistere solo per indicare agli altri, al mondo, chi è lo Sposo atteso,
accettando per sé la funzione di paraninfo, cioè di amico, impegnato a
preparare le nozze senza fine (cf Gv 3,39).

La sposa è chiunque crede che Gesù è il Signore

A questo punto è necessario uscire dal simbolismo per
entrare nel cuore dell’annuncio. Gesù è stato «chiamato» alle nozze, come Mosè
è stato «chiamato» in cima al monte Sinai. Gesù si presenta «per» le nozze con
i suoi discepoli. Alcuni di questi gli erano stati mandati da Giovanni il
Battista, quando nel capitolo precedente aveva indicato «l’Agnello di Dio» e
due erano voluti andare a «vedere» dove Gesù abitasse, fermandosi fino alle ore
16 (cf Gv 1,35-39), cioè l’ora in cui nel tempio di Gerusalemme, il sommo
sacerdote (archierèus) uccideva l’Agnello, versando il suo sangue come sangue
dell’alleanza tra Dio e Israele.

Se Gesù è lo Sposo e Giovanni il Battista «conduce» i
discepoli a lui, con cui poi si fermano insieme alla «madre» alle nozze, fuori
metafora, ecco la realtà: Gesù è lo Sposo e i discepoli con la madre sono la
sposa, cioè il popolo d’Israele nella nuova versione della comunità ecclesiale.
In altre parole, la madre e i discepoli sono il modello di coloro che credono,
il «segno» visibile della nuova Chiesa che riprende in mano e nella vita
l’alleanza del Sinai, affinché guidata dal nuovo Mosè, Gesù, possa
intraprendere il nuovo pellegrinaggio verso il regno.

Chiunque crede diventa la sposa. Ecco perché nel racconto
non può essere presente una sposa qualsiasi: perché sono sufficienti la madre,
gli apostoli e tutti coloro che sul loro esempio crederanno nel Figlio che apre
i tempi nuovi e i cieli nuovi dell’alleanza nuova. Questa idea si trova anche
nell’Apocalisse, che appartiene alla letteratura giovannea, ed è descritta come
sposalizio tra l’Agnello/Sposo e Gerusalemme/sposa: «Sono giunte le nozze
dell’agnello; la sua sposa è pronta… vidi la città santa, la nuova
Gerusalemme, scendere, da Dio, pronta come una sposa adoa per il suo sposo»
(Ap 19,7 e 21,2).

Dio, senza passato né tradizioni

Da un punto di vista strettamente esegetico, possiamo
rilevare che l’espressione di Gv 2,10 da noi tradotta con «chiunque», e da
altri con «tutti», alla lettera sarebbe «ogni uomo» (pâs ànthrōpos). Noi preferiamo il senso
indeterminato per due motivi: indica una consuetudine di tradizione, quindi
anonima e può coinvolgere ciascuno, cioè «chiunque»; in secondo luogo, si
determina in modo più forte il contrasto tra l’indeterminatezza della tradizione
di «chiunque» e la personalizzazione estrema del «tu» con cui l’architriclino
si rivolge allo sposino: «tu, [invece]». Ci troviamo quindi di fronte a uno
schema letterario di forte contrasto teologico: «chiunque – tu». Chiunque è il
passato, la tradizione, la consuetudine, l’usanza; potremmo dire l’abominevole
«si è sempre fatto così», che tarpa le ali a qualsiasi afflato di novità in
nome della pigrizia e grettezza. Tu, invece, è un appello alla coscienza
individuale che s’immerge nella storia, ne coglie il senso appena velato e lo
svela in tutto il suo spessore, senza paura del nuovo e dell’imponderabile che
nasconde nel suo grembo il seme di Dio.

Sì, possiamo dirlo: Dio non ha tradizioni da difendere,
perché egli è sempre nuovo e parla ogni giorno la lingua del momento,
altrimenti parlerebbe inutilmente. Dio non ha passato, perché egli è «il Fine»,
quello che Teihallard de Chardin chiamava «il Cristo, il punto omèga», colui
che attrae a sé tutto e tutti dalla prospettiva della fine e del compimento.

Conservare per scoprire sempre più

Il verbo usato dall’architriclino «tetêrēkas» (in greco, perfetto
indicativo alla seconda persona singolare) è preceduto dal pronome rafforzativo
«sy – tu» che in greco potrebbe essere omesso. Se però c’è, come qui, acquista
forza e valenza più forti e profonde; come abbiamo visto, quel «tu» è
essenziale e necessario perché si contrappone al «chiunque» dell’inizio del
versetto. Non si tratta più di interpellare lo sposino improvvido, ma il
lettore, cioè «tu» che leggi, che accetti l’invito di partecipare alle nozze,
di condividere la fede della madre e dei discepoli e quindi di volere fare
parte della nuova comunità, che è la Chiesa.

Essa, sulla scia di Israele, popolo di Dio, nasce sulle
falde del monte Sinai, ma giunge ai piedi del monte Calvario, il monte della
rivelazione, la rivelazione dell’«ora», l’ora della discesa non più della
Toràh, ma dello Spirito di Dio che porta a pienezza la Toràh e la forza di
adempierla: «Reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).

Il verbo «terèō
– custodisco/conservo» al perfetto indica un’azione passata, i cui effetti
continuano nel presente. La forma italiana «hai custodito», al passato
prossimo, che è troppo povera, anche perché il perfetto greco ripete una parte
del tema («te-te»), che in qualche modo deve essere percepito anche nel suono
oltre che nel concetto. Ci pare che, in questo passo, la forma più corretta
possa essere: «Tu hai continuato a conservare/custodire». All’inizio di questa
puntata, riportando il versetto nel titolo, abbiamo tradotto con «tu (invece)
hai voluto conservare», dove si mette in evidenza la volontà che persegue
l’atto della conservazione, come se fosse un progetto in fase di esecuzione e
quindi continuativo.

Ci troviamo di fronte a un comportamento simile a quello del
servo che ha ricevuto «un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi
nascose il denaro» (Mt 25,8) in attesa che gli eventi maturassero. Qui è
evidente che l’autore vuole farci capire che è finito il tempo dell’attesa,
individuato in quel «fino ad ora», segno di uno spartiacque e di un cambiamento
di scena e di tempo. «Ora» comincia un tempo «altro»: quello che troverà
compimento sulla croce, la vera Cana dove si celebra lo sposalizio tra Dio e
l’umanità e dove viene distribuito a piene mani il vino della vita di Cristo;
il sangue del suo costato è dato fino all’ultima goccia: «Subito ne uscì sangue
e acqua» (Gv 19,34). Acqua e sangue, esattamente come a Cana, che vide l’acqua
trasformata in vino.

L’accenno alla nuova economia sacramentale ci pare evidente
perché la prospettiva è quella della vita donata senza riserva con uno scopo
puntuale, perché tutti quelli che vogliono «abbiano la vita e l’abbiano in
abbondanza» (Gv 10,10).

(36 – continua)

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Paolo Farinella




(Cana 37) Cana di Galilea e i luoghi del cuore innamorato

«Mio Signore e mio Dio!»
(Gv 20,28) Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in
Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi
discepoli» (Tàutēn
epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs
en Kanà tês Galilàias kài ephanèrōsen
tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài
autoû
).

Tecnicamente, Gv 2,11 conclude il racconto del «segno di
Cana», anzi del «principio dei segni in Cana della Galilea», il racconto delle
nozze dove i personaggi svolgono ruoli che hanno significati «altri», rispetto
a una lettura superficiale. Manca la sposa, mentre lo sposo appare solo per
essere rimproverato; assume una funzione importante, anche se negativa,
l’architriclino che pur partecipando a una occasione unica (kairòs), non è in
grado, come spesso accade all’autorità ufficiale, di cogliere la portata
profetica e cristologica dell’evento: è presente «fisicamente» alle nozze, ma
il suo cuore è distratto dalla differenza superficiale tra i «due vini». Con
questo versetto redazionale, prima conclusione del narratore, veniamo a sapere
qual è stato lo scopo del racconto, perché è l’autore stesso che ce lo comunica
affinché possiamo custodirlo come un momento importante.

Il testo difficile

Dal punto di vista della critica testuale, cioè della ricostruzione
del testo greco attraverso i papiri e gli altri manoscritti più antichi, il
versetto ha tre varianti importanti: il testo che noi riportiamo è attestato
dalla maggioranza dei manoscritti sia maggiori che minori. Considerata la
natura divulgativa del nostro studio tralasciamo le due varianti che hanno un
cambiamento di posizione tra le prime due parole (prima variante) e la
sostituzione di un aggettivo con un altro (seconda variante) che ci
porterebbero a considerazioni troppo tecniche per chi non è attrezzato
scientificamente. Ci limitiamo a dire che le due varianti, anche se la seconda
è molto antica, sono «miglioramenti stilistici» e quindi cercano di
«aggiustare» il testo.

Noi scegliamo, secondo la migliore regola esegetica, il
testo più difficile, certamente più vicino all’originale. Per capire il senso
di questo versetto, che, a nostro parere, è il più importante di tutto il
brano, bisogna soffermarsi sulle singole parole, dove sono collocate, e,
infine, sul loro significato nel contesto di tutto il vangelo di Giovanni prima
e di tutta la Bibbia in secondo luogo.

Abbiamo già anticipato che il versetto è di mano del
redattore finale, che così rivela il suo pensiero sul significato di quanto
precede: solo ora veniamo a sapere che nel racconto di Cana vi è un concentrato
fantastico di teologia giovannea. In questo versetto, infatti, troviamo cinque
parole che esprimono cinque temi che attraversano tutto il vangelo di Giovanni,
costituendone la spina dorsale: «Principio (richiama l’archètipo)/segno-segni/manifestare/gloria/credere».

Centellinare la Parola respirandola

Chi pensava di leggere un racconto edificante, arrivato al
versetto 11 deve ricredersi e ricominciare daccapo, centellinando parola per
parola, respiro per respiro. Normalmente le traduzioni vanno per le spicce,
come la Bibbia-Cei (1974): «Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di
Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui»; la
nuova edizione (2008) cerca di aggiustare, ma senza osare troppo: «Questo, a
Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua
gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Si vede dietro la fatica di fare
concordare il testo greco con un significato accessibile a prima vista, ma non
sempre è possibile. Tentativi lodevoli, ma insufficienti.

La Bibbia-Cei (2008) aggiunge anche una nota al versetto per
spiegare ulteriormente che: «Questo… fu l’inizio dei segni: non solo il primo
dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca
tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria)
di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose
(che Giovanni preferisce chiamare segni)».

Tutte le traduzioni, anche in altre lingue, che qui
risparmiamo, si fermano alla grammatica tradizionale greca secondo la quale il
primo verbo, «epòiēsen –
fece», essendo un tempo aoristo, deve tradursi con il passato remoto o in
alcuni casi anche con il passato prossimo.

Verbi e traduzioni «diaconi» della Parola

Le versioni Cei rendono «fece» con «fu» e «diede», sempre al
tempo aoristo/passato remoto, esattamente come gli altri due verbi: «ephanèrēsen-manifestò» (Gesù) ed «epìsteusan-credettero»
(i discepoli). Noi invece pensiamo che sia meglio applicare la linguistica
testuale che guarda la funzione dei verbi (la parte più importante in un
testo), scopriamo allora che il loro significato dipende dal posto in cui essi
sono collocati e quindi bisogna valutare di volta in volta. Nel nostro caso,
vediamo che «epòiēsen –
fece», il primo aoristo, è preceduto da un pronome dimostrativo «tàutēn – questa», il quale a sua
volta è riferito a «archên – principio» che in greco è femminile: «Tàutēn epòiēsen archên».

Abbiamo quindi la seguente costruzione greca: «Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs» che tradotta, fuori dal contesto, in se
stessa, alla lettera e mantenendo le stesse posizioni delle parole che hanno in
greco, suona: «Questo fece (il) principio dei segni Gesù in Cana di Galilea».

La parola «inizio», usata dalla traduzione della Cei, è
fuorviante perché esprime un valore temporale, mentre al contrario «principio»
richiama una prospettiva globale e senza tempo. Le nozze di Cana non sono solo
il «primo» segno cronologico, ma il «segno fondamentale», quello che apre gli
occhi della fede verso ciò che accadrà da cana a Gerusalemme.

Il versetto 11 è composto da tre frasi o proposizioni,
perché vi sono tre verbi, che però non sono sullo stesso piano: il primo «epòiēsen – fece» è preceduto da un
altro termine, cioè dal pronome dimostrativo «tàutēn questa/questo», per cui il verbo, pur essendo
al tempo aoristo, che è il tempo primario della narrazione, è declassato a
tempo secondario. Gli altri due, invece, mantengono la struttura narrativa primaria,
che è propria del greco, e infatti sono preceduti tutti e due dalla
congiunzione «kài – e», che è uno dei segnali greci per indicare il verbo
aoristo nella posizione importante e quindi deve essere tradotto con il passato
remoto: «kài ephanèrēsen…
kài epìsteusan – e manifestò/rivelò… e cominciarono a credere». Alla luce di
queste osservazioni, la traduzione del versetto «deve» essere la seguente:

«Mentre faceva questo principio dei segni,
manifestò Gesù in Cana di Galilea la sua gloria
e cominciarono a credere in lui i suoi discepoli». 
La fede ha un principio e un inizio

L’autore intende porre l’accento su «manifestò» e
«cominciarono a credere»: le due informazioni che vuole comunicare al lettore,
perchè le più importanti e fondamentali di tutto il racconto. A differenza
dell’architriclino, rappresentante della religione ufficiale, che è cieco e
sordo, il lettore deve essere pronto a cogliere e «vedere» la manifestazione,
cioè la rivelazione di Gesù nella trama degli eventi ordinari che in se stessi
possono apparire insignificanti, mentre sono portatori di un senso nascosto e
nuovo che solo chi è predisposto sa cogliere. Per questo, ed è il secondo
messaggio, i discepoli «cominciarono a credere», perché la fede è conseguenza
di una visione e di una esperienza.

Traduciamo il terzo verbo «kài epìsteusan» con «cominciarono
a credere» e non con «credettero» perché pensiamo che l’aoristo greco, qui,
abbia valore «ingressivo», cioè descrive l’inizio di un’azione che è in cammino
e che sarà lungo prima di giungere al suo compimento. D’altra parte Gv parla di
«l’inizio dei segni» e ci sembra esagerato dire che i discepoli «credettero» al
primo colpo, senza alcun processo o elaborazione. Anch’essi si aprono al «vino
nuovo» interrogandosi sui fatti, come Cana, e si affidano all’alleanza del
Sinai che ritrovano e rinnovano nella persona di Gesù. D’altra parte, in
Giovanni, la figura del «discepolo/discepoli» oltre al significato dei seguaci
«storici» di Gesù, ha il significato del «discepolo-tipo», cioè del credente di
ogni tempo che s’incontra con la personalità di Gesù di Nàzaret il «rivelatore»
del Padre.

Non miracolo, ma segnale per non smarrirsi

Nello studio della Bibbia nel suo insieme o di un brano o di
un versetto non si può andare subito al significato «spirituale» per cogliee
subito il frutto. La Parola di Dio rifugge dalla fretta, pressappochismo,
superficialità e spiritualismo. Essa esige spazio, tempo, studio prolungato,
sapore, gusto… in una parola, la Bibbia esige «perdere tempo» come l’amore.

Come i nostri lettori avranno percepito, se hanno avuto la
pazienza di arrivare a questo punto, la riflessione sul versetto undici non è
conclusiva, ma è tutta centrata sulle questioni letterarie e in parte anche
sintattiche. Qualcuno potrebbe dire che sono superflue; se così fosse, passi
pure avanti, anzi ad altro, perché la Bibbia non fa per lui: legga fumetti o
faccia enigmistica. Noi riteniamo che la Bibbia debba essere assaporata nella
sua struttura letteraria, grammaticale e sintattica: più l’approccio è
scientifico e più si riesce a penetrare, attraverso il significato ordinario
delle parole comuni, il senso nascosto che lo Spirito può svelare a coloro che
lo cercano per le vie indicate dall’autore e quindi dallo stesso Spirito, e più
nutre l’anima.

Quando «si legge» la Bibbia o si riflette su un brano della
Scrittura, alla fine bisogna essere «stanchi» perché ascoltare, studiare e
vivere la Parola è lavorare nel e per il Regno di Dio. Altre volte abbiamo già
detto che per i rabbini ebrei, lo studio della Parola di Dio equivaleva al
sacrificio compiuto nel tempio di Gerusalemme. Sarebbe lo stesso per noi dire
che equivale alla celebrazione comunitaria dell’Eucaristia. Ecco perché è
necessario «stare sul» versetto 11, perché da esso dipende la comprensione di
tutta la narrazione. Vogliamo evidenziare la grandezza e la lungimiranza del
redattore finale che, scegliendo le frasi e mettendole in un certo ordine, ha
pensato a noi che le avremmo lette oggi, domani, sempre. Prendiamo in esame la
frase in se stessa, fuori del suo contesto, per approfondie il senso
cristologico. L’autore ha posto in greco il pronome dimostrativo «questo»
all’inizio di frase, cioè in posizione enfatica, di rilievo, addirittura prima
del verbo che così è relegato in seconda linea. Il pronome dimostrativo «tautēn – questa/questo» concorda per
attrazione con «principio» che in greco è femminile e in italiano è maschile.
In questo modo, l’autore ingloba tutto ciò che precede e comprende l’intero racconto.
Tutto quello che è avvenuto a Cana di Galilea è «un principio», cioè il
fondamento, la prospettiva, la chiave di lettura di tutto ciò che segue.

Non è casuale che l’autore nel IV vangelo non usi mai il
termine «miracolo», ma sempre e solo il lemma «segno». Non si tratta, infatti,
di descrivere interventi superiori, ma di indicare la direzione della fede
verso cui incamminarsi: bisogna stare attenti ai «segni» e i «miracoli» sono
«segnali» per non smarrirsi.

Anche la geografia segna la via di Dio

Quanto abbiamo appena detto, lo constatiamo anche dalla
citazione geografica «in Cana di Galilea». L’espressione nella morfologia greca
si analizza come due complementi: a) di stato in luogo (in Cana) e b) genitivo
corografico (di Galilea). Questo genitivo, in greco, vuole sempre l’articolo «della
Galilea», che in italiano però non si mette e quindi non diciamo, alla lettera,
«in Cana della Galilea», ma correttamente traduciamo con «Cana di Galilea».

L’espressione «Cana di Galilea» l’abbiamo già incontrata nel
primo versetto, Gv 2,1, quando l’autore ci ha dato la prima informazione: «Nel
terzo giorno uno sposalizio avvenne in Cana di Galilea». Se la stessa frase è
all’inizio e poi anche alla fine, concludiamo che l’intero racconto è uniforme;
esso, infatti, è contenuto – si dice tecnicamente – in una «inclusione», cioè
tra due espressioni uguali che formano una specie di cerchio che racchiude
tutto l’insieme. Siamo partiti da Cana di Galilea e siamo arrivati a Cana di
Galilea e andando avanti nella lettura del vangelo, la incontriamo ancora in Gv
4,46, all’inizio del racconto della guarigione a distanza del figlio del
funzionario regio. È lo stesso autore che connette i due racconti di Cana per
cui è evidente che c’è un legame profondo che bisogna rilevare: «Venne quindi
di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua (in) vino. E c’era un
funzionario regio il cui figlio era malato in Cafàao». La stessa espressione
ritroviamo alla conclusione del vangelo (Gv 21,2): «Erano insieme Simon Pietro
e Tommaso, detto “gemello”, e Natanaele, che era di Cana di Galilea e i figli
di Zebedeo e altri due dei suoi discepoli». La vita pubblica di Gesù si apre a
Cana, passa per Cana e termina a Gerusalemme, ma con la citazione di Cana di
Galilea: un modo letterario per dirci due cose.

La prima riguarda il «segno» di Cana che così riguarda tutto
il vangelo: in altre parole, non si può capire il vangelo in tutta l’integrità
se non si capisce «il principio dei segni» avvenuto a Cana. Il secondo riguarda
noi, lettori: la geografia è parte integrante della salvezza e della fede. I
luoghi, infatti, e i posti dove avviene ciò che ci riguarda non sono
indifferenti ed è nostro obbligo ritornare, come in pellegrinaggio, ai luoghi
dove abbiamo vissuto e «visto» e «manifestato» a noi e ad altri ciò che abbiamo
capito, intuito, desiderato, promesso.

Un pellegrinaggio giornioso

Spesso noi andiamo in pellegrinaggio ai santuari, a volte
con l’illusione di incontrare Dio, senza renderci conto che vi sono anche altri
«luoghi» importanti e altri «santuari» necessari per noi:

dove abbiamo incontrato l’amore,
dove abbiamo dato il primo bacio,
dove abbiamo concepito il figlio/a,
dove abbiamo sognato un ideale,
dove abbiamo percepito la chiamata,
dove abbiamo fatto la promessa di fede o matrimonio,
dove abbiamo pianto,
dove avremmo voluto morire,
dove abbiamo riso spensieratamente,
dove abbiamo incontrato un amico/amica,
dove abbiamo preso qualcuno per mano,
dove abbiamo asciugato lacrime di dolore,
dove abbiamo condiviso lacrime di gioia,
dove ci siamo abbandonati alla pateità di Dio,
dove abbiamo ricevuto un regalo inatteso,
dove abbiamo spezzato il pane dell’amicizia,
dove abbiamo ritrovato quanto avevamo smarrito,
dove abbiamo mutato la disperazione in pacificazione,
dove abbiamo vissuto la Shekinàh come Abramo,
dove abbiamo assaggiato il vino nuovo di un nuovo progetto
di vita con Dio,

dove abbiamo deciso di dare la nostra vita a perdere senza
chiedere in cambio nulla. Sorge spontanea una domanda: «Qual è la mia Cana di
Galilea dove ho visto e vissuto le nozze dell’alleanza?». Ritornare «al
principio» significa ritornare ad assaporare «il vino messianico», quello che
porta con sé il sapore dell’eternità e resta per sempre. Da principio alla
fine.

(37 – continua)

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Paolo Farinella




(Cana 34) Sapere dove si sta

«[L’architriclino] non sapeva di dove è [il vino] … Gesù, sapendo che era venuta la sua ora» (Gv 2,8; 13,1)

Gv 2,9: «Come poi l’architriclìno gustò l’acqua divenuta vino – e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori …».

Qualunque sia la simbologia dell’architriclino, che abbiamo trattato nella puntata precedente, la figura non è superflua, ma ha un significato nell’economia del racconto giunto a conclusione. è strano, infatti, che il quadretto nuziale non si chiuda in un clima festoso «in cui vissero tutti felici e contenti», ma resti nella perplessità del responsabile delle nozze che constata, anche se solo superficialmente, la diversità del vino perché non sapeva che veniva dall’acqua trasformata: «e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori, loro che avevano attinto l’acqua» (Gv 2,9).
Tra banalità e kairòs
Questo personaggio che l’evangelista cita ben tre volte in appena due versetti, è chiuso nello sbalordimento del suo stesso stupore e, pur provenendo dalla tradizione giudaica, non si accorge di nulla, «non sa» il «dove» del «vino bello». L’unica cosa che sa fare è confabulare umoristicamente con lo sposo, chiamato in causa solo a questo scopo. Al contrario «lo sanno» i diaconi/servitori», cioè coloro che erano alle dipendenze dell’architriclino. Egli rappresenta i responsabili della religione, l’autorità, e senza esagerare, possiamo anche dire, il sinedrio, cioè coloro che formalmente rappresentavano la volontà di Dio. «Tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo» sanno tutto sull’arrivo del Messia, sanno perfino che deve nascere a Betlemme, lo annunciano a Erode e ai magi (cf Mt 2,4-6), ma sono estranei ai movimenti di Dio, come se vivessero in un altro mondo. Sono talmente abituati a praticare la religione del dovere che si dimenticano della vita dove Dio esplode e si rende presente. Si ribaltano veramente i ruoli: quelli che dovevano sapere non sanno e quelli che non erano obbligati, invece, sanno: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).
Un nuovo mondo sta cominciando, il mondo di Dio, capovolto in rapporto a quello della religione ufficiale che si ferma alle apparenze, alle convenienze, agli usi e tradizioni e perde di vista il cuore degli eventi, la loro origine, ma anche il loro senso. Chiusi nel principio uterino del «si è sempre fatto così» (per cui non c’è altra novità che il proprio passato), chiudono anche Dio nella prigione della propria mentalità meschina e retriva e lo incatenano alle micro prospettive della loro gretta vista che non sa mai oltrepassare il confine dell’ovvio e del consueto. Se l’architriclino fosse stato permeabile al dubbio o quanto meno all’interrogativo, di fronte a un fatto nuovo, qui «il vino bello» dato alla fine del banchetto, si sarebbe domandato come ciò potesse accadere e perché. Non si sarebbe semplicemente rassegnato, limitandosi a dare un buffetto allo sposo, ma avrebbe indagato fino a incontrare il «kairòs» della sua vita, fino a incontrare l’evento nuovo per eccellenza, Gesù, lo Sposo atteso che ha mutato l’acqua in vino.
Il povero sposo, vera figura occasionale e insignificante, colui che sarebbe dovuto essere insieme alla sposa, il protagonista della festa, invece, interpellato sembra di stare lì «a sua insaputa», in funzione pleonastica alla dinamica del racconto: c’è solo per permettere all’architriclino di stupirsi, banalizzando se stesso e la stessa figura dello sposo. La sua presenza fugace nel finale ha quasi lo scopo di mettere in risalto la sua assenza che ha dominato tutto il racconto. Lo sposo è altrove, anzi è un Altro.
Sapere, conoscere e vedere
L’evangelista sottolinea in un inciso che l’architriclino «non sapeva da dove» venisse il vino «bello». Il tema «sapere/non sapere» è caratteristico di Gv e ha sempre attinenza con la personalità di Gesù, la sua missione, la sua natura e il suo rapporto con il Padre, che diventa la discriminante della sua relazione con la religione ufficiale e con il «sapere» comune della religione che si ferma alla superficialità.
Per almeno 121 volte ricorrono nel IV vangelo il verbo «òida – conosco/so» e derivati. A questo verbo bisogna prestare attenzione perché esprime un universo semantico di straordinaria portata anche teologica.
Si tratta di un verbo irregolare perché nel NT si trova solo in alcuni tempi: il perfetto secondo indicativo (che ha valore di presente: «conosco/so»); il piuccheperfetto secondo indicativo (che ha valore di imperfetto: «conoscevo/sapevo»); l’imperativo nelle sole seconde persone («sappi – sappiate»); il congiuntivo presente, escluse le terze persone («che io sappia»); l’infinito («sapere») e il participio (sapendo).
Il verbo si forma dalla radice «[e]id-» da cui proviene il tempo aoristo del verbo «horàō – io vedo», da cui deduciamo che c’è corrispondenza tra «sapere/conoscere» e «vedere». La conoscenza, cioè la sperimentazione di un fatto, di una persona, di un evento, di un sentimento è la visione di essa a un livello profondo: contemplare e sperimentare, vedere e toccare sono la stessa cosa perché procedono dalla stessa fonte che è la conoscenza vissuta, la sapienza. Mai, infatti, nella Bibbia la conoscenza e la sapienza sono eventi astratti, avulsi dall’esperienza, al contrario, essi sono la centralità dell’esistenza che si snoda tra visione e sperimentazione, tra contemplazione ed evento visibile. Conoscere è vedere la realtà nella sua essenza interiore e intima. Non a caso in ebraico il verbo «yadàh – conoscere» indica anche l’atto sessuale tra uomo e donna: la sperimentazione vitale che è l’amore vissuto è l’atto di conoscenza più profondo della esperienza umana.
L’architriclino «non sapeva» perché era perduto nella superficialità di un evento nuovo che non ha saputo leggere, gustare, vedere e assaporare in tutta la sua pregnanza e sapienza. Egli si limita ad assaporare il gusto ovvio, ma non riesce ad andare al «senso» di quel gusto «bello» che avrebbe dovuto aprirgli le porte del cuore alla comprensione della storia antica che pur conosceva, come vedremo. Egli è fermo all’epidermide di ciò che appare e non s’interroga sul gusto interiore che quel vino porta in sé come messaggio-anticipo di un tempo nuovo. Non sapendo gustare la novità che cambia il corso di quello sposalizio, egli perde di vista e gusto anche il suo passato e la storia da cui proviene. Le apparenze non solo spesso ingannano, ma sovente, molto sovente, sono la negazione della verità e della stessa realtà che vorrebbero svelare.
«Sapere», discriminante della salvezza
Due capitoli più avanti, al bordo del pozzo di Giacobbe, una donna di Samaria, estranea e nemica, pur nella diffidenza del momento si lascia interrogare dall’uomo nuovo che le sta di fronte e accetta di dialogare con lui, lei samaritana con un giudeo e per giunta uomo: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa» (Gv 4,25). La donna considerata reproba è proietata verso il Messia che ancora non vede, è pronta ad accoglierlo, a differenza dell’architriclino, emblema dei responsabili della religione ufficiale, che invece si ostina nella sua chiusura: «Non sapeva di dove veniva». Anche il paralitico alla porta delle Pecore, guarito sulla parola di Gesù «non sapeva chi fosse» (Gv 5,13); ma quando, poco dopo lo incontra e lo riconosce, corre dai capi Giudei a riferire di «sapere chi è» ed essi invece di cogliere l’evento di novità, tramano persecuzione contro di lui perché si fermano a difendere «il sabato» (Gv 5,14-18). Gli uomini di qualsiasi chiesa sono più interessati a salvare lo «status quo» delle loro istituzioni che generalmente si identificano con i loro privilegi, piuttosto che aguzzare la vista per cogliere «i segni» di un tempo nuovo che avanza e non torna mai indietro.
Pure il cieco nato dapprima non sa di dove sia Gesù che lo ha guarito (cf Gv 9,12), ma di un fatto è certo: egli ha sperimentato, ha visto che prima «ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9,25). I capi vorrebbero convincerlo che Gesù è un peccatore, ma egli sta fermo sull’unica conoscenza di cui dispone: la sua esperienza contro la quale nessun ragionamento, nessun principio religioso può avere la meglio perché egli da quaranta meno un anno era cieco e ora ha di nuovo la vista. Egli stesso è la prova che la sua conoscenza di Gesù non può fermarsi all’apparenza e alle esigenze della religione, ma va oltre l’inimmaginabile: se lo ha guarito ci deve essere qualcosa di grande che sfugge a lui, ma sfugge in modo drammatico anche «ai Giudei», a coloro cioè che avrebbero dovuto indirizzarlo a leggere l’evento vissuto e a dargli un nome. Essi invece, che si credono sapienti perché «gestiscono Dio» e s’illudono di conoscerlo solo perché conoscono a memoria i passi della Scrittura, «non sanno» nulla di Dio: si può essere efficienti uomini di religione ed essere al tempo stesso lontani da Dio perché religione e Dio sono incompatibili. La religione esige la pratica, Dio richiede la fede. La religione si nutre di rituali ripetitivi e morti, la fede vive di conoscenza e gusto dell’esperienza di Dio. La religione è esteriore, Dio vive e si rivela solo nell’intimità del profondo. Lo stesso avviene per Marta di fronte alla morte del fratello Lazzaro (cf Gv 11,22.24).
a) Frequenza e pratica non danno garanzie
«Anche Giuda il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli» (Gv 18,2). La consuetudine non è motivo sufficiente di conoscenza: si può frequentare lo stesso luogo per una vita, si può «andare» sempre in chiesa, si può «dire» da una vita il breviario, si può stare da una vita e oltre in un monastero, in un convento, in una parrocchia, si può essere cioè consuetudinari abituali e fedeli, praticanti a orario fisso, ma ciò non significa che si sperimenta colui che «sta in quel luogo». Per conoscere «quel luogo» come «tòpos», cioè come spazio di incontro e di esperienza bisogna aprirsi all’inverosimile e all’imponderabile, essere disposti a lasciarsi abitare dal «kairòs – evento propizio» per potere assaporare la Shekinàh che viene a posare la sua dimora in mezzo a noi. In questo contesto, pregare è illimpidirsi lo sguardo per vedere e vedere è abituarsi a sperimentare per giungere a una comunione fisica che immerga nella contemplazione di eventi e fatti inauditi e anche sperimentati. Se davanti a noi passa il calice del vino «bello» e ci limitiamo a dire che è «molto buono», senza cogliee la personalità di chi quel vino ha portato, allora possiamo anche essere specialisti, tecnici della religione, senza necessariamente sapere cosa significhi essere credenti nel e col cuore. Si può essere religiosi aridi, ma mai credenti senza sentimento.
b) Il desiderio del «mio Signore»
Maria di Màgdala è un esempio della fede che si consuma nell’esperienza/conoscenza: ai due personaggi misteriosi che stanno a guardia del sepolcro vuoto, confessa «non so dove l’hanno posto … il mio signore» (Gv 20,13). Il suo desiderio di conoscenza del «luogo» non è legata al «posto», ma esclusivamente alla sua relazione con il «mio Signore». In questa affermazione affettiva c’è l’esperienza di un’intimità assoluta che esprime lo strazio di non sapere dove sia l’amato. Maria è la donna del cantico che cerca disperata il suo amato e impazzisce finché non lo avrà trovato. è il suo cuore a essere senza «luogo» perché privo del suo amore: «Il mio Signore». Il dolore è così intimo e profondo che anche la presenza di Gesù «in piedi» dietro di lei non è sufficiente perché, quando il cuore è desolato dall’assenza dell’amato o dominato dal desiderio di trovarlo perché carico di paura per averlo perduto, si perde la cognizione del tempo e della conoscenza, della speranza e della stessa esperienza: «Non sapeva che fosse Gesù» (Gv 20,14).
c) Non rassegnazione, ma pienezza di vita
Anche Gesù nel quarto vangelo è esperto di conoscenza/sapienza perché il fondamento della sua esperienza e della sua visione è il Padre che testimonia per lui (cf Gv 5,32; 8,14), essendo «il luogo» fondamentale e intimo della propria identità. Il Padre è «il dove» del Figlio (cf Gv 7,28) che non ammette menzogna perché la relazione di vita è fondata sulla verità e sulla Parola (cf Gv 8,55; 12,50) che si esprime nella missione (cf Gv 7,28). Gesù, sapendo ciò che c’è nel cuore di ciascuno (cf Gv 2,25) sa anche chi è aperto alla fede che porta al discepolato e chi si chiude in sé fino al tradimento che oscura ogni conoscenza perché accentrato sull’interesse proprio (cf Gv 6,64; 13,11.18).
Egli conosce/sa anche riconoscere i figli di Abramo (cf Gv 8,37) in vista della conoscenza delle necessità del popolo di Dio che ha fame e deve essere sfamato (cf Gv 6,6), pur conoscendo la possibilità dello scandalo che non elimina, ma mette in conto perché lo conosce e quindi lo previene (cf Gv 6,61).
Egli conosce/sa anche l’ora suprema della sua morte che s’identifica nel tempo dell’unità col Padre che esprime la totalità dell’amore «fino alla fine», per cui conoscenza e sapienza s’identificano nell’amore e nella relazione esperienziale col Padre (cf Gv 13,1.3).
Gesù conosce gli eventi della sua vita e non si lascia vivere da ciò che accade, ma ciò che avviene diventa il teatro della sua coscienza e della sua consapevolezza: è lui che guida gli avvenimenti che accadono e non li subisce mai passivamente (cf Gv 18,4). Anche in punto di morte, egli non perde la sua consapevole conoscenza, ma proprio per questo «sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura» (Gv 19,28), effonde il suo Spirito come in una nuova creazione (cf Gv 19,30). La sua conoscenza/sapere qui raggiunge il suo vertice e spalanca le porte alla Scrittura, cioè al criterio di valutazione della vita e degli eventi che la costellano. Anche la morte acquista senso perché sottomessa alla conoscenza del compimento della Scrittura, diventando così «pienezza» di vita.
L’acqua vino di Cana
e l’acqua sangue del Nilo
C’è un abisso con l’atteggiamento dell’architriclino che, se si fosse lasciato interrogare dal «vino bello» giunto sulla sua tavola, avrebbe scoperto che esso portava «il vangelo» della novità e, invece di dedicarsi a commentare l’ovvio, si sarebbe interessato a capire «il perché e il modo» di ciò che è accaduto. Forse avrebbe chiamato «i diaconi» e avrebbe chiesto informazioni supplementari e allora, scoprendo che l’acqua era stata trasformata in vino, non gli sarebbe stato difficile riandare, con la memoria storica dell’esperienza di fede d’Israele, al «principio» della storia, quando il suo popolo poté sperimentare l’irruzione di Dio assistendo al mutamento dell’acqua del Nilo trasformata in sangue: «Prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta» (Es 4,9). L’acqua/sangue del Nilo è anticipo di un altro sangue: quello che avrebbe salvato la vita degli Ebrei, chiusi nelle loro capanne, mentre l’angelo della morte passava nella notte di Pasqua, facendo strage di primogeniti in terra d’Egitto (cf Es 11,4-7). Avrebbe saputo e capito che il «segno» antico era solo prefigurazione del segno nuovo e questi diventava la chiave per capire ciò che stava per cominciare e proiettarlo in un significato storico salvifico di portata universale. Con le nozze di Cana infatti comincia un tempo nuovo, il tempo del Regno, il tempo del Messia.
L’architriclino, nonostante presieda lo sposalizio, vive invece avulso dalla Parola di Dio vissuta come appello alla coscienza e alla conoscenza, perché è impantanato nella quotidianità della religione come bisogno gratificante per cui non riesce a vedere oltre il confine della sua esperienza piccola e insignificante che banalizza anche il «Mistero» di Dio e la rivoluzione del suo «Vangelo». Seduto al banchetto con compagni di ubriacatura, si limita a chiamare lo sposo e rilevare che nella sala nuziale è entrato un vino «altro», di cui però lui non riesce a percepire la personalità e il senso. Ancora una volta, ieri come oggi, Dio passa, si ferma e compie «segni» travolgenti, ma la religione della tradizione e dell’ovvio usuale non se ne accorge, lasciandolo passare invano.
 (34 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Il sostegno a distanza pilastro della cooperazione

Cooperando…

«Mi piacerebbe fare qualcosa per quelle persone nel Terzo mondo a cui manca tutto, a cominciare dal cibo. Ma con tutti questi progetti, associazioni, organizzazioni e campagne non ci si capisce niente. E poi chissà che fine fanno i miei soldi. Se adotto un bambino a distanza magari farò solo qualcosa di piccolo, ma almeno sono certo che quel bambino potrà studiare, mangiare, curarsi se si ammala e che per lui qualcosa cambierà davvero».

È certamente successo a tanti di sentire parole come queste pronunciate da un familiare, da un amico o da un conoscente. E, a tanti, è successo di essere addirittura chi le pronunciava, se è vero, come rileva un recente studio dell’Agenzia per il Terzo Settore, che sono oltre due milioni gli italiani coinvolti nel sostegno a distanza. Un moto istintivo come quello di andare in aiuto di un bambino genera, sommato a milioni di altri gesti simili, un movimento di risorse pari a cento milioni di euro all’anno: un quarto dell’intero ammontare annuo delle iniziative di solidarietà e cooperazione internazionale.
Questo è il quadro tratteggiato dalle fonti ufficiali, in realtà, la galassia del sostegno a distanza appare più complessa e variegata. Lo studio dell’Agenzia per il Terzo Settore, infatti, si riferisce a 111 organizzazioni no-profit italiane considerate più rappresentative, ma non tiene conto delle numerosissime realtà, spesso missionarie, che sono comunque attive nel sostegno a distanza. Secondo il Forum permanente del Sostegno a distanza (ForumSaD), infatti, le organizzazioni che si occupano di SaD sarebbero oltre 400 e raccoglierebbero circa 360 milioni di euro. A prescindere dalla quantificazione precisa, comunque, si tratta certamente di cifre in grado di dare un impulso decisivo al settore della solidarietà internazionale.

Una panoramica del SaD
«Sostegno a distanza» (SaD) è il termine usato per riferirsi a quelle iniziative di solidarietà attraverso le quali un donatore garantisce con il suo contributo periodico la sussistenza, l’istruzione e l’assistenza sanitaria a una persona o a un gruppo di persone. I contributi sono veicolati dalle diverse associazioni, Onlus e Ong, che fanno da ponte fra chi dona e chi riceve. La definizione «adozione a distanza» è largamente utilizzata nel linguaggio comune per riferirsi al SaD, ma a livello istituzionale non si parla di adozione poiché quest’ultima ha una valenza giuridica e sociale che il sostegno a distanza non ha.
Quella del sostegno a distanza è una declinazione della solidarietà ormai consolidata anche in Italia, sebbene abbia avuto origine all’estero: Save the Children, il colosso inglese della cooperazione internazionale, ha avviato questo genere di attività fin dagli anni Trenta del XX secolo; oggi l’organizzazione che gestisce il numero più elevato di adozioni è World Vision, con quattro milioni di bambini che hanno beneficiato, direttamente o indirettamente, del sostegno a distanza, seguita da Compassion inteational, con 1,2 milioni di bambini beneficiari. Compassion è una realtà significativa anche nel nostro Paese, dove gestisce, grazie alla sua sede italiana, oltre quindicimila adozioni. Ma la palma di autentico gigante delle adozioni a distanza in Italia va certamente ad ActionAid che, con i suoi oltre ottantasette mila SaD, distacca l’Avsi, secondo colosso, di più di cinquantamila unità. Il contributo richiesto dalle organizzazioni di SaD ai donatori si aggira intorno ai 300 euro annuali e in genere comprende le spese per la frequenza scolastica, per il cibo e per le eventuali cure mediche. Molte organizzazioni prevedono una trattenuta sulla donazione per i costi di gestione; le quote sono variabili e arrivano a un massimo del 25%.

Come è cambiato il sostegno a distanza
Pioniere delle adozioni a distanza in Italia è il Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime), che ha avviato le prime iniziative nel 1969. Da allora questa forma di solidarietà ha cominciato a diffondersi fino all’impennata degli anni Novanta, in cui si è assistito a un vero e proprio boom. Molte organizzazioni (fra le quali anche MCO) hanno a quel punto avvertito l’esigenza di dotarsi di strutture e personale adeguati per gestire quella che stava diventando una mole enorme di materiale e informazioni da trasmettere ai donatori perché questi continuassero ad avere la certezza della massima trasparenza nell’utilizzo dei fondi. Tuttavia, con l’istituzionalizzazione e l’affermazione, specialmente all’estero, di vere e proprie multinazionali dell’adozione, hanno cominciato a sorgere i primi casi di mala gestione dei fondi.
Una bordata al mondo delle adozioni a distanza arrivò, nel 1998, dai risultati di un’inchiesta di tre anni condotta da alcuni giornalisti del Chicago Tribune. Dopo aver constatato le dimensioni che il fenomeno stava assumendo negli Stati Uniti (fra il 1992 e il 1996 gli americani avevano donato più di 850 milioni di dollari solo alle quattro più grandi organizzazioni statunitensi), i reporter del Chicago Tribune – senza rivelare la loro professione – iniziarono a sostenere a distanza dodici bambini appartenenti ai programmi delle quattro ong e si recarono poi nei paesi di residenza dei bambini per verificare di persona i benefici ricevuti dai piccoli. Accanto a risultati positivi e dimostrazioni di effettiva trasparenza, i giornalisti scoprirono anche una serie di gravi distrazioni di fondi: in un feroce articolo dal titolo Instancabili campagne di false promesse (Relentless campaigns of hollow promises), i reporter documentarono episodi nei quali le organizzazioni avevano accettato migliaia di dollari per bambini che erano morti da anni, in alcuni casi anche scrivendo a nome dei piccoli lettere false, o avevano usato il denaro destinato ai bambini per acquistare computer o pagare lezioni di ballo o, ancora, avevano negato i farmaci antimalarici ai bambini nel programma di sostegno con la scusa che fornire assistenza sanitaria avrebbe creato dipendenza nei beneficiari. Lo scandalo che ne seguì contribuì certamente a spingere il mondo delle organizzazioni attive nel SaD a dotarsi di criteri, linee guida e principi che regolamentassero in maniera rigorosa la gestione dei fondi e i meccanismi di rendicontazione nei confronti del donatore.

L’oggi: nuove consapevolezze
Questa maggior tensione verso la trasparenza non ha purtroppo impedito che si ripetessero episodi di utilizzo improprio dei fondi SaD, anche da parte di organizzazioni italiane, ma ha certamente contribuito a creare una maggior consapevolezza nel donatore di quelli che sono i mezzi a sua disposizione per verificare il buon operato dell’ente al quale ha scelto di destinare i fondi.
Di più: la riflessione scaturita dagli scandali ha portato il mondo della cooperazione a confrontarsi con una serie di pro e contro delle adozioni a distanza.
Un documento del DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale britannico) riassume in modo molto efficace questi pro e contro. Da un lato, si legge nel documento, il SaD ha dalla sua una serie di grandi vantaggi:
– innanzitutto permette di «dare un volto a questioni complesse» suscitando nel donatore la volontà di comprendere le problematiche del luogo in cui vive il bambino «adottato» e verificando grazie al contatto con il bambino i progressi reali;
– inoltre aiuta a stabilire un legame non solo con il singolo bambino ma anche con la sua comunità, che viene così coinvolta attivamente;
– infine, poiché il SaD dura di solito fino alla conclusione degli studi del bambino sostenuto, è possibile per le organizzazioni inserire l’intervento in un arco temporale più ampio e graduale che permette maggior programmazione e sostenibilità.
D’altro canto, è anche vero che il SaD implica spesso costi amministrativi elevati (si pensi alla necessità di raccogliere foto e lettere e inviarle ai donatori) e che risolve solo problemi immediati come l’accesso all’istruzione e al cibo o l’acquisto di vestiario, senza però riuscire a influire su problemi più ampi come la lotta all’HIV o la regolamentazione del commercio internazionale, che sono fra le principali cause della povertà. Infine, capita che il SaD finisca per essere il nome che si dà a quello che in effetti è lo sviluppo comunitario e che i fondi delle adozioni finiscano per mescolarsi ad altre donazioni per sostenere progetti a beneficio di tutta la comunità invece di essere diretti solo al bambino «adottato». Da questo punto di vista, tuttavia, negli ultimi anni si è registrata anche una maggior consapevolezza da parte dei donatori rispetto al fatto che il sostegno isolato e riservato solo a un bambino perde parte del suo significato se il contesto circostante non partecipa dei benefici.

I Missionari della Consolata e il SaD
I Missionari della Consolata fanno adozione a distanza fin dai primi tempi della loro attività missionaria in Kenya, anche se in quei tempi non si chiamava certamente così. Il cosiddetto «Collegio dei Principini» a Fort Hall, l’orfanotrofio per bambini nella fattoria del Mathari, le prime scuole per ragazze (completamente gratuite), gli orfanotrofi in varie missioni, erano possibili solo grazie al sostegno continuo dei benefattori. Per questo ogni anno, a gennaio, puntualmente, l’allora bollettino «La Consolata» presentava la foto di bambini che ringraziavano i benefattori per la loro generosità.
La diocesi di Marsabit, fin dalle sue origini ha investito tantissimo nella scuola creando una rete incredibile di asili in tutti i villaggi raggiunti, con scuole elementari in tutte le missioni e scuole secondarie a livello distrettuale. Migliaia hanno studiato in queste istituzioni rese possibili, soprattutto all’inizio, esclusivamente dal sostegno a distanza di tanti benefattori. Lo stesso è accaduto in tutte le nazioni africane dove sono presenti, dall’Etiopia al Congo RD, dal Tanzania al Mozambico. In America Latina in ogni missione c’erano (e ci sono) grandi collegi, dove, accanto a coloro che possono pagare, c’è un grande numero di studenti poveri aiutati da qualche progetto di sostegno a distanza organizzato dalla missione locale. Fare il nome di tutte queste iniziative è quasi impossibile. Spesso sulle pagine di questa rivista abbiamo dato spazio a racconti e relazioni che trattavano di questo argomento, dalla Familia ya Ufariji di Nairobi al progetto scolastico per gli Yanomami, dalla grande scuola negli slum di Guayaquil in Equador alle scuole nell’Etiopia.
Per anni questo è stato realizzato con uno stile semplice e famigliare, senza strutture, per poter investire il 100% di quanto ricevuto dai benefattori a vantaggio dei bambini, con una visione che teneva conto del contesto globale: non il bambino singolo, ma il bambino nella sua comunità e nella sua scuola. Questo per dei motivi molto semplici:
– un bambino in una scuola mal gestita e di scarsa qualità non ha alcun profitto;
– non si creano privilegiati: bambini con benefattori «ricchi» e bambini con benefattori «poveri», così ognuno riceve quello che è indispensabile per la scuola, per la salute e – se necessario – anche per il sostentamento fuori della scuola in caso di famiglie molto povere;
– evitare situazioni imbarazzanti, soprattutto nel caso di una corrispondenza diretta tra bambini e benefattori, con richieste di beni non necessari o scambio d’informazioni che possono creare aspettative sproporzionate nei bambini/studenti;
– ridurre al minimo i costi di gestione;
– evitare di attirare la cupidigia di autorità e politici locali, tentati di appropriarsi dei programmi di adozione a proprio vantaggio.
Questo, in molti casi, continua ancora, ma per far meglio fronte alle nuove situazioni sia nei paesi del sud del mondo che in Italia, ecco che è nata Missioni Consolata Onlus (Mco) a cui fanno riferimento tantissimi donatori e con cui cornoperano anche decine di altre Onlus o Ong impegnate nelle adozioni e legate a questo o quel missionario, a questa o quella missione.
Ve ne parleremo nella prossima puntata con un’intervista ad Antonella Vianzone, la signora che da oltre 15 anni segue questo settore nella Mco.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Santa Rosa da Lima e santa Teresa di Lisieux

4 chiacchere con…

23 agosto – 1 ottobre
Poco più di un mese separa la memoria liturgica di due donne straordinarie,
mistiche e sante, la cui vita si intreccia in modo viscerale
con l’attività missionaria della Chiesa.

Per iniziare il nostro colloquio devo fare una domanda un po’ scontata: com’è che due sante come voi che hanno passato gran parte della loro vita in preghiera e meditazione sono, una dottore della Chiesa e protettrice delle missioni e l’altra patrona delle Americhe, delle Filippine e delle Indie Occidentali?

Teresa – Vissi in un tempo (le ultime decadi del secolo XIX) in cui il progresso scientifico e tecnologico si stava imponendo prepotentemente nella società. Appresi così che era stato inventato per le case dei ricchi (sempre più grandi e sempre più alte) uno strumento meccanico chiamato ascensore, che faceva risparmiare la fatica del fare le scale. Per cui mi sono chiesta: perché io, che sono così piccola per anelare alla vetta della perfezione, non posso avere a disposizione un ascensore che mi porti fino al cielo? Scoprii ben presto che l’ascensore che mi avrebbe innalzato verso il cielo, non potevano essere che le amorevoli braccia del Signore Gesù.

Rosa – La mia è una storia un po’ diversa: nata nel ricco Perù il 20 aprile del 1586 da una nobile famiglia di origine spagnola, mi trovai ben presto inserita in una realtà che praticava soprusi e violenze di ogni genere, soprattutto nei confronti degli indios. Decisi pertanto, nella mia piccolezza, di dedicare la mia vita al Padre di tutti gli uomini, affinché attraverso la preghiera incessante si potesse arrivare a convivere nella giustizia e nella pace.

Quindi voi due, pur restando una nel monastero di Lisieux e l’altra nella sua casa di Lima, dove si era creata una nicchia personale al fine di passarvi ore di preghiera e contemplazione, siete riuscite a immettere nel motore della missione la «super» della preghiera, un’impresa veramente notevole, non c’è che dire.

Rosa – Di per sé, io non avevo solo creato un ambiente in cui isolarmi, anche se di quella nicchia avevo assolutamente bisogno per stare con il Signore. Data la posizione della mia famiglia che apparteneva alla nobiltà spagnola, avevo però allestito anche una sorta di ricovero per i bisognosi, in particolar modo per quelli di origine india. A differenza di Teresa io non entrai in convento ma, avendo avuto la possibilità di leggere gli scritti di Santa Caterina da Siena, decisi di fae il mio modello di vita, vivendo fino in fondo l’amore per Cristo, per la Chiesa e per i fratelli indios.

Teresa – Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia dove la fede trasudava da ogni poro della pelle dei miei famigliari, mamma e papà, in particolare papà, che furono degli autentici maestri di vita spirituale per me, tanto che nel Carmelo di Lisieux entrarono altre mie sorelle. Tutto ciò mi aiutò a scoprire che la scala della perfezione non era tanto quella di una dura ascesi da vivere attraverso laceranti mortificazioni, ma bastava vivere la gioia quotidiana nella consapevolezza che il Signore mi avrebbe presa tra le sue mani innalzandomi verso il cielo.

Però entrambe siete passate in quella prova straordinaria che San Giovanni della Croce definisce come: «La notte oscura».

Teresa – Si è vero, l’abbandono totale a Dio è una scelta radicale e anche se io ero molto giovane capii benissimo che la mia doveva essere una spiritualità dell’essere e non del fare. Più che abbandonarmi alle sicurezze delle «opere buone» intrapresi la strada dello spogliamento assoluto, consapevole di comparire alla sera della vita davanti a Dio con le mani vuote, ma anche avendo ben presente l’insegnamento del grande mistico Giovanni della Croce il quale dice che «alla fine della vita saremo giudicati sull’amore». Abbandonarmi a Dio ha significato per me abbracciare il mondo e vivere intensamente la missione della Chiesa.

Rosa – Anch’io sono passata dalla prova della notte oscura che durò ben quindici anni, nella cella di due metri quadrati che mi ero costruita nel giardino di casa mia, dove trascorrevo gran parte delle mie giornate in contemplazione del Signore, cercavo di offrire a Lui tutte le necessità e i bisogni della gente della mia terra. In modo particolare di coloro che subivano la conquista degli spagnoli attraverso soprusi e violenze di ogni genere. Gli indios che erano emarginati e vilipesi, mi aiutarono a capire e a scoprire più radicalmente il mistero della Croce di Cristo. Devo dire anche che quando i calvinisti olandesi assaltarono la città di Lima, corsi ad abbracciare il Tabeacolo per difenderlo dall’assalto degli invasori. Questo a significare che il mondo della contemplazione vive gli stessi drammi e le stesse sofferenze della popolazione dentro la quale le comunità sono inserite.

Quindi si può dire che per vivere da autentici missionari a volte bisogna fare come San Paolo o San Francesco Saverio, a volte invece come voi, in quanto ciascuno può partecipare allo sforzo missionario attraverso l’offerta della propria preghiera affinché il Vangelo sia annunciato a tutte le genti.

Rosa e Teresa – Per essere autentici missionari non occorre fare grandi cose; più semplicemente bisogna saper fare in modo grande le piccole cose di ogni giorno e la Missio Ad Gentes si vive non solo andando lontano, ma avendo il coraggio di andare e pregare per i “lontani”, che il più delle volte vivono poco distanti da noi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Chiamati a libertà

Studi e fatti sulla libertà religiosa nel mondo

«Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13). «Il XX secolo – e l’ancor giovane XXI – sembrano segnati da una tragica contraddizione: essere il tempo del riscatto e della proclamazione dei diritti, ma essere anche il tempo in cui i diritti fondamentali possono essere ancora calpestati» (Maria Francesca Davì).

Dichiarazioni sulla libertà
La Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta a Parigi, il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dopo aver sottolineato come «tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti», negli articoli 18-21 sancisce il diritto alla libertà di pensiero e di opinione, di fede e di coscienza, di parola e di associazione. Essa costituisce la base di molte conquiste civili ed è l’orizzonte ideale di molte Costituzioni nazionali, tra cui la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, confluita nel 2004 nella Costituzione europea.
L’articolo 18 della Dichiarazione è esplicito nel sottoscrivere l’importanza della libertà religiosa. «Ogni individuo – si legge – ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti».
Oggi il diritto alla libertà religiosa è pertanto tutelato dalla maggior parte delle legislazioni degli stati modei e, in sede internazionale, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
In Italia tale diritto viene enunciato in modo ampio dalla Costituzione all’articolo 19, dove si mette in risalto che ogni persona ha diritto di professare la propria fede, di comunicarla ad altri e di praticarla in pubblico e in privato. È però un diritto che va collegato ad altri principi costituzionali, in primo luogo al principio di eguaglianza che vieta qualsiasi discriminazione a causa della religione professata, come recita l’articolo 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge».
L’Accordo di revisione del Concordato del 1929, concluso tra l’Italia e la Santa Sede nel 1984, ha poi eliminato il principio della religione cattolica come religione di stato, rafforzando in tal modo il principio di laicità nel nostro ordinamento costituzionale. Questo principio va inteso non come indifferenza verso il fenomeno religioso, ma come eguale distanza nei confronti di tutte le confessioni. Viene cioè riconosciuta la piena autonomia delle confessioni diverse dalla religione cattolica e il loro diritto di organizzarsi.
Il principio stabilito dall’articolo 8 rappresenta perciò uno dei pilastri dell’ordinamento giuridico italiano. Esso si basa sulla constatazione dell’esistenza del pluralismo delle confessioni religiose e sulla libertà religiosa riconosciuta a tutte le confessioni. A questo fine, come è affermato nella Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione dell’aprile 2007, «l’Italia favorisce il dialogo interreligioso e interculturale per far crescere il rispetto della dignità umana e contribuire al superamento di pregiudizi e intolleranze».
La libertà religiosa s’innesta, dunque, nel grande albero dei diritti umani, della libertà e della dignità dell’uomo. In altre parole la libertà è l’ambito dentro cui ha origine e si attua la libertà religiosa. Ne è un aspetto fondamentale e irrinunciabile. Nell’affermarla o negarla, molto dipende dal valore che diamo alla libertà senza fraintendimenti o limitazioni dettati da pregiudizi o ideologie. «Possiamo essere liberi solo se tutti lo siamo», scriveva il filosofo Georg Hegel; «La mia libertà finisce dove comincia la vostra», gli ha fatto eco Martin Luther King. Perché la libertà è come l’aria, se l’aria è viziata si soffre e ci si ammala; se l’aria manca o è insufficiente, si soffoca e si muore.

La lettera ai Galati di Paolo
Il problema della libertà è intimamente connesso anche con la fede cristiana. Per san Paolo i cristiani sono per definizione «chiamati a libertà» (Gal 5, 13), e l’azione salvifica di Gesù viene definita liberazione o redenzione. La lettera di Paolo ai cristiani della Galazia può infatti essere considerata un inno alla libertà. Cristo ci ha liberati da ogni schiavitù «perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5, 1).
L’azione dello Spirito, scrive Paolo, è sorgente di libertà e ha per fine l’amore. Si tratta dell’amore di Cristo riversato nei nostri cuori dallo Spirito, che sconfigge il potere del nostro egoismo. In tal modo il cristiano raggiunge la vera libertà e di conseguenza la liberazione dal dominio della legge. L’uomo che si lascia guidare dallo Spirito è al di sopra della legge, e compie liberamente ciò che la volontà divina chiede.
Il tema della liberazione è centrale nell’esperienza ebraico-cristiana e quindi in tutta la Sacra Scrittura. Gesù è annunciato nei Vangeli come colui che porta la liberazione (Lc 4, 18.21). Gli apostoli la considerano definitiva (Gv 8, 36) e nelle dichiarazioni successive è specificata come liberazione dal peccato, dalla morte eterna, dal dominio di satana e dal male, dalla schiavitù della carne e dalla legge. La liberazione da queste schiavitù ha avuto con Cristo una manifestazione nuova, aperta a promesse definitive. Dio, facendosi conoscere per mezzo di Cristo come liberatore e salvatore, ha così dimostrato il suo vero volto all’uomo e nello stesso tempo l’uomo è uscito dalla sua alienazione e ha ricuperato il suo rapporto diretto e liberante con Dio. Senza questo rapporto con Dio che libera, la fede cristiana è morta e mortificante, si perde in pratiche alienanti e pagane ed è priva di forza interiore e missionaria. Il termine di questo cammino di liberazione è l’amore, la capacità di amare e di volere il bene di tutti gli uomini.

Il Concilio Vaticano II
Tuttavia, il cammino verso la libertà, specialmente in questi ultimi secoli, non è stato un cammino esclusivo dei cristiani, la cui fede anzi da varie parti è stata accusata di essere un impedimento alla libertà. L’illuminismo ha parlato di libertà al di fuori e anche contro la società cristiana del tempo. La sinistra hegeliana, e in particolare Marx, ha sostenuto che la religione è una forma di schiavitù e di alienazione e quindi non può presumere di parlare e guidare alla libertà. Nietzsche ha prefigurato nel «superuomo» l’ideale della persona libera da ogni infantilismo religioso. Freud e la psicanalisi hanno indicato la via di un’autentica liberazione che porta l’uomo alla maturità e lo purifica da quei processi inconsci che lo inducono alla religione.
Per la Chiesa del tempo questi modi di intendere la libertà sono stati degli scossoni, che hanno stimolato nuovi studi e approfondimenti. Se ne è reso conto il Concilio Vaticano II, che nella costituzione Gaudium et Spes ha riconosciuto come «a ragione i nostri contemporanei tanto tengono e ardentemente cercano» la libertà (n. 17) da anelare «a una vita interamente libera, degna dell’uomo» (n. 10). Il Concilio ha però anche ammesso che molti aspirano a «una vera e propria liberazione dell’umanità dai soli sforzi umani» (n. 10), secondo processi laici e secolari di liberazione, senza alcun riferimento alla fede cristiana e a volte in aperta contestazione ad essa.
La Chiesa, portatrice dell’annuncio liberatore di Cristo, non sempre, lungo la sua storia ha favorito il cammino dell’umanità verso forme ampie e condivise di libertà. Essa si è trovata a ostacolare quei movimenti religiosi e culturali che a partire dai secoli centrali del medioevo perseguivano nuove mete di libertà, lontane dalle sue strutture religiose. In questi ultimi secoli non solo si è opposta all’illuminismo antireligioso, al marxismo ateo e ad altri orientamenti culturali modei, ma ha anche contrastato le conquiste di libertà che essi hanno attuato nella società e negli individui, creando gravi problemi di coscienza in molti cristiani.
Questa tendenza è stata ufficialmente rotta dal Vaticano II, ma le premesse risalgono molto indietro nel tempo. L’atteggiamento di opposizione dei cristiani ai processi laici di liberazione dell’uomo era infatti venuto progressivamente attenuandosi, fino alla «Dichiarazione sulla libertà religiosa» della Dignitatis Humanae, emanata il 7 dicembre 1965 da Paolo VI unitamente ai Padri conciliari. Pur avendo avuto una larga risonanza positiva nell’opinione pubblica, la Dichiarazione fu contestata all’interno stesso del Concilio da alcuni padri conciliari come pericolosa per la fede cristiana.
La Dichiarazione conciliare, nel proemio, è esplicita nel riconoscere che il numero «di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabilità personale» sono notevolmente aumentati, «mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive». Tale esigenza di libertà «riguarda soprattutto i valori dello spirito e in primo luogo il libero esercizio della religione nella società» (n. 1). «Il contenuto di tale libertà è che gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsiasi potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente e pubblicamente, in forma individuale o associata». Inoltre il Concilio dichiarava che «il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione» (n. 2). Lungo la storia della Chiesa non c’era mai stata una presa di posizione così netta sulla libertà religiosa come appunto quella della Dignitatis Humanae.

Gli incontri di Assisi
A questi principi si sono ispirati sia Paolo VI, sia Giovanni Paolo II nell’esercizio del loro pontificato. Ad Assisi, luogo d’incontro e di dialogo tra culture e religioni, nel 1986 Giovanni Paolo II convocò la prima giornata di preghiera per la pace, alla quale furono invitati i rappresentanti delle principali religioni del mondo, dimostrando in tal modo come poteva essere concretamente vissuta e attuata la libertà religiosa, attraverso cioè il dialogo tra le religioni e la preghiera. L’iniziativa del papa suscitò grande scalpore, e non mancarono coloro che denunciarono il rischio che l’incontro di Assisi trasmettesse un messaggio per cui tutte le religioni sono più o meno buone e lodevoli, e che perciò suscitasse scandalo tra i fedeli, perché poteva implicare errori come l’indifferentismo, l’agnosticismo e il sincretismo religioso.
Ma anche di fronte a tali contestazioni Giovanni Paolo II non desistette dal suo impegno apostolico di convocare ad Assisi una seconda giornata interreligiosa per la pace il 24 gennaio 2002. In continuità con quest’ultimo e a vent’anni da quello del 1986, se ne è tenuto un altro il 4-5 settembre 2006, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. «Ripetere Assisi – ha ricordato durante l’incontro mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Tei-Nai-Amelia – vuol dire irrobustire e affinare l’arte dell’incontro, che richiede pazienza e audacia», e «rende possibile la convivenza anche nella diversità» contro ogni fanatismo e fondamentalismo religiosi.
Per il card. Paul Poupard, allora presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, presente all’incontro, «tre sono le sfide» che chiamano oggi in causa ogni credente:
– «approfondire la propria tradizione religiosa, non in maniera selettiva, ma nella piena fedeltà ad essa»;
– «incontrare i fedeli di altre religioni in uno spirito di reciproco rispetto, fiducia e amicizia»;
– infine, «combattere insieme per la promozione della dignità di ogni persona».
Il cardinale ha naturalmente ammesso che il dialogo tra religioni diverse non è sempre facile, ma che è importante non abbandonare la speranza. Ha inoltre precisato che il dialogo «non è e non deve essere considerato come un segno di debolezza da parte del credente. La ragione dell’impegno nel dialogo interreligioso non è l’ignoranza o l’insoddisfazione verso la propria religione. Al contrario, ci si avvicina a un altro credente perché si è fermamente radicati nella propria tradizione religiosa».

Il quarto incontro di pace ad Assisi
L’annuncio di un quarto incontro ad Assisi è arrivato a sorpresa nel 2011, all’Angelus di una domenica di aprile, nel momento in cui Benedetto XVI «dialoga» con la moltitudine dei fedeli in Piazza San Pietro. L’incontro interreligioso dedicato alla pace e al dialogo si è svolto il 27 ottobre 2011 in occasione del venticinquesimo anniversario dell’incontro del 1986 con Giovanni Paolo II. L’invito era stato rivolto a tutti i rappresentanti delle principali religioni del mondo, ma – ha osservato il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di stato Vaticano – l’invito potrebbe essere esteso anche ai non credenti. Quello di invitare ad Assisi «alcune personalità del mondo della scienza e della cultura che si definiscono non religiose – ha affermato il cardinale – non è solo per il fatto che la costruzione della pace è una responsabilità di tutti, credenti e non credenti, ma, più profondamente, perché siamo convinti che la posizione di chi non crede o fatica a credere, possa svolgere un ruolo salutare per la religione in quanto tale, per esempio nell’aiutare a evidenziae possibili degenerazioni o inautenticità che allontanano da Dio».
Il quarto incontro di Assisi è stato preceduto da un importante messaggio di Benedetto XVI per la giornata mondiale della pace del 2011, celebrata come tutti gli anni il 1° gennaio. «Anche l’anno che chiude le porte – ha scritto il papa nel suo messaggio – è stato segnato, purtroppo, dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosi». «In tale contesto ho sentito particolarmente viva l’opportunità di condividere con voi alcune riflessioni sulla libertà religiosa, via per la pace». «Infatti – ha continuato il papa – risulta doloroso constatare che in alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi».
Il papa si riferiva con queste parole a quanto è accaduto e continua ad accadere dall’India al Medio Oriente, dall’Africa all’America, dove molti cristiani hanno perso la vita a causa della loro fede (25 nel 2010, 26 nel 2011). Il nome forse più conosciuto è quello di mons. Luigi Padovese, assassinato in Turchia il 3 giugno 2010, come qualche anno prima, il 5 febbraio 2006, don Andrea Santoro. Ma il papa richiama l’attenzione anche su ciò che sta accadendo nel nostro mondo occidentale, dove la religione subisce una crescente emarginazione. La religione, qualsiasi religione, viene sempre più considerata estranea alla società modea, se non addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedire la sua influenza nella vita pubblica e sociale. «Agendo così – osserva il papa – non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche le radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni».
Il messaggio di Benedetto XVI è una risposta forte e perentoria all’intolleranza religiosa, al radicalismo, alla violenza, poiché, secondo il papa, i diritti alla libertà religiosa, riconosciuti e sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sono oggi nuovamente minacciati da atteggiamenti e ideologie che ostacolano in ogni modo la libera professione della religione.
Nella libertà religiosa – ha scritto il papa – trova, infatti, espressione la specificità della persona umana ed è alla sua luce che si comprendono l’identità, il senso e il fine della persona. «Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana» ha affermato; inoltre ha ancora ricordato che la libertà religiosa è la via della pace, senza la quale è impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura.
Malcolm X, il leader afroamericano assassinato nel 1965,  diceva che «non si può separare la pace dalla libertà, perché nessuno può essere in pace senza avere la libertà». Nel suo messaggio il papa ricorda alle grandi religioni e a noi come ora, «nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multietniche e multiconfessionali», tutti possiamo costituire un fattore di unità e di pace, di dialogo fra tutte le religioni, dialogo che sta molto a cuore a papa Benedetto XVI in vista del bene comune e della pace nel mondo.

Giampietro Casiraghi


Gianpietro Casiraghi




Cana (32): Non schiavi ma amici a servizio

Il racconto delle nozze di Cana (32)

Gv 2,7-8: 7Dice loro Gesù: «Riempite di acqua le giare!» e le riempirono fino all’orlo.
8E dice loro: «Adesso cominciate ad attingere e portatene all’architriclìno».
Essi quindi portarono.

Ci siamo fermati per tre puntate di seguito su Gv 2,6, che è il cuore del racconto. Tutto il brano converge su questo versetto, da cui apprendiamo che le giare sono di pietra, sono giacenti e infine hanno senso unicamente in vista della purificazione; sono anche inattive perché vuote. Le giare sono di pietra come le tavole della Toràh, pesanti come le prescrizioni dei 613 precetti, senza forza interiore come un pedagogo senza alunni. Esse sono espressione di una religiosità inflazionata ed esteriore, con uno scopo ormai perduto per strada: la purificazione resta l’obiettivo, ma è impossibile da raggiungere perché sono vuote. Ancora una volta il versetto ha l’intento di condurre il lettore al contesto del Sinai, «il principio» di Israele come popolo in un mondo e in una speranza nuovi (la terra promessa).

La possibilità e la realtà
C’è ancora un’indicazione, apparentemente secondaria, che indica la «portata» delle giare: due o tre metrète ciascuna, di cui abbiamo parlato abbondantemente nelle puntate precedenti e nelle due dedicate al vino (febbraio e marzo 2010). Qui richiamiamo solo il senso di fondo: la misura metrète corrispondeva a circa 38,88 litri di liquido, per cui moltiplicando per due si ha una capienza di 77,76 litri e per tre si ha una capacità di 116,64 litri ciascuna; le sei giare insieme dunque potevano contenere liquidi tra 466,56 e 699,84 litri, una cifra enorme. L’evangelista ci avverte che stiamo per assistere a qualcosa di insperato, perché la penuria espressa dalla madre che constata la mancanza di vino ora sta per trasformarsi in una sovrabbondanza senza limiti: «Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20).
È ovvio che questi numeri non sono da intendersi alla lettera, ma nel loro significato simbolico di «quantità considerevole», di sovrabbondanza incontenibile. La quantità in eccesso contrasta con la penuria di vino con cui ha inizio lo sposalizio. Nel regime di alleanza antica, «venne a mancare il vino»; con l’arrivo del Signore/Messia Gesù non solo la misura è colma, ma l’abbondanza è così tanta che c’è spazio e possibilità per chiunque voglia entrare nella nuova alleanza, che ora ha inizio come riscatto di quella antica, che non viene abolita, ma totalmente rinnovata, perché riportata alle sue condizioni originarie, quando ai piedi del Sinai, il popolo, «tutto» il popolo di Israele nascente, si purificò per due giorni per essere pronto a ricevere la Toràh come codice d’identità e prospettiva di libertà.
Gv 2,6 ci dice che le giare «erano contenenti» una quantità straordinaria di acqua, ma non ci dice se erano piene o vuote; ci dice solo la possibilità della quantità, non che fossero già piene. Avere la possibilità non significa contenere la realtà: uno ha la capacità e la possibilità di scalare la montagna, ma finché non si mette in movimento e comincia a salire, la montagna resterà solo un desiderio irrealizzato.
Gv 2,7 fa un passo avanti. Il comando del Signore, «Disse loro Gesù: “Riempite le giare di acqua”», toglie il velo e manifesta la verità: le giare sono realmente vuote. Esse potevano offrire una quantità di acqua senza misura, invece erano inutili perché «vuote», incapaci di rispondere anche al desiderio di purificazione. Sono là, ma sono come morte, senza vita e senza acqua, cioè senza significato e prive di speranza futura.

La religione giace per terra
La struttura dei due versetti è basata sullo schema letterario «comando/esecuzione» o «ordine/realizzazione»: Gesù ordina e gli addetti eseguono. In questo schema si usa due volte il verbo «ghemìzō-io riempio». Al comando di Gesù: «Riempite», i servi/diaconi: «Riempirono». All’ordine seguente: «Portate» corrisponde l’esecuzione: «Portarono».
Nel testo greco per il primo comando si usa un imperativo aoristo, che è un’azione senza tempo, puntuale, in quanto la si descrive finita in se stessa nello stesso istante in cui è enunciata. L’aoristo greco infatti non mette in relazione un «prima» e un «poi» o una qualità dell’agire; esso esprime semplicemente l’azione e l’imperativo espone un comando chiuso, una volta per sempre, perentorio: «Riempite», come a dire «riempite una volta per tutte», cioè definitivamente. Si tratta di un’azione unica e non ripetitiva.
Per la prima esecuzione da parte degli incaricati si usa sempre il tempo aoristo, ma questa volta il modo indicativo con valore narrativo: «Essi poi riempirono», collocato in posizione enfatica, cioè preminente, perché descrive l’azione compiuta dai servitori sulla linea principale del racconto, che noi rendiamo in italiano con il passato remoto: «Riempirono». Questo ci dice che l’azione dei servitori è essenziale alla comprensione del racconto nel suo insieme, perché ciò che fanno (riempire le giare e portare il loro contenuto) è sullo stesso piano di ciò che opera Gesù.
Per l’autore è importante l’azione dei servi/diaconi anche perché si trova rafforzata dalla preposizione impropria «èōs – fino», seguita a sua volta da un avverbio «ànō – sopra/in alto/in cima», che in italiano rendiamo con «fino all’orlo» per dare l’idea dell’abbondanza traboccante.
Il verbo «ghemìzō» significa «riempio» un recipiente vuoto, come i canestri riempiti dagli apostoli di pane avanzato (cf Gv 6,13), oppure la spugna «riempita» (impregnata) di aceto e offerta a Gesù morente (cf Mc 15,36), come la sala del convito che «si riempie» di tutti gli esclusi che rimpiazzano gli invitati che non si sono presentati (cf Lc14,23; vedi anche per altre circostanze Ap 8,5; 15,8; Mc 4,37). Questo verbo mette in evidenza la drammaticità della realtà: le giare che avevano un compito sublime di purificazione per preparare all’incontro con il Dio dell’alleanza, erano non solo deposte per terra e quindi inerti, senza forza, ma anche vuote di quell’acqua che è sorgente di santità rituale.
Nel momento in cui Gesù entra in scena per svelare il progetto nuovo del Padre, trova una situazione devastata e povera, trova la desolazione: il vuoto e l’abbandono. Si celebrano le nozze di finzione perché non manca solo il vino della presenza del Messia, ma anche l’acqua obbligatoria per ogni atto liturgico.
Lo sposalizio a cui partecipa anche la madre che si preoccupa di una sposa mai nominata e di uno sposo quasi inesistente, tutti appartenenti al mondo precedente che è il mondo della religione «giacente per terra», senza anima e senza prospettiva (senza vino), protagonisti di una religione che è finzione senza valore, un «sacramento» della religiosità delle anime morte. Il rito svuotato della vita è solo una rappresentazione del nulla.

L’ubbidienza creativa del servizio
La Chiesa, «sacramento» della relazione storica tra Dio e il mondo (Lumen Gentium 1), diventa un’inutile giara di pietra quando si ostina a difendere il passato come modello del futuro, senza rendersi conto che il vino nuovo del Messia non può essere contenuto in otri vecchi (cf Mc 2,22). Spesso si ha l’impressione che chi dovrebbe guidare il popolo di Dio verso il Regno, il quale è sempre davanti a noi, preferisce giacere per terra, inerte a difendere l’esistente che non c’è più, ma di cui ci si illude, immaginando una religione dei «valori», un sentimento di vaghezza religiosa dal sapore civile, in cerca di alleanze spurie, che la rendono sempre più «vuota», importante agli occhi del mondo del potere, ma inutile agli occhi del Dio incarnato, il quale cammina al passo dell’umanità con fatica e con speranza. Giovanni nel racconto delle nozze di Cana ci dà una chiave di lettura per essere anche oggi sulla stessa lunghezza d’onda del Gesù descritto negli eventi dello sposalizio. L’ordine che egli dà è colto ed eseguito non dai «servi», ma dai «diàkonoi – diaconi».
In greco «servo» si dice «doûlos» e indica uno stato di sottomissione, di bassezza, di inferiorità e quindi di appartenenza a qualcuno come proprietà. La Bibbia-Cei nella versione del 1974 traduceva infatti con «servi», mentre la nuova traduzione Cei (2008) cerca di rendere il termine greco e traduce con «servitori», che è un passo avanti. Crediamo che avrebbe potuto fare uno sforzo maggiore e tradurre alla lettera con «diaconi», rendendo il testo greco nello splendore semantico del termine che evoca un mondo liturgico, quasi ci trovassimo nel tempio di Gerusalemme.
L’evangelista infatti evoca realmente una dimensione quasi liturgica, comunitaria: c’è il Messia che porta la novità di Dio e c’è la comunità-sposa senza vino e senza sposo; gli addetti della religione non possono portare nemmeno l’acqua, perché le giare sono vuote e quindi non si può accedere alla presenza di Dio. Dio e il suo popolo sono estranei l’uno all’altro: un muro di impurità li separa. Il popolo si consola con un vino scadente che, per giunta, finisce presto e coloro che dovrebbero rimediare (architriclìno, responsabili) sono inattivi, privi di forze, di fantasia, di potere e di autorità. Essi sanno solo meravigliarsi che la realtà non corrisponde ai loro desideri e sono sempre pronti a rimproverare, mai disponibili a mettersi in discussione: «Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!» (Lc 11,46).
Entra in scena Gesù e tutto si muove: la madre si mette da parte, lo sposalizio prende vita, le giare si riempiono d’acqua «fino all’orlo», i servi diventano diaconi/servitori di culto e liturgia, il vino dell’alleanza ridona la vita. Il monte Sinai è di nuovo in mezzo, nel cuore dell’umanità che è in cerca di senso.
I diaconi si rendono forse conto che sta per succedere qualcosa di nuovo, per lo meno d’insolito, e vanno oltre l’ordine ricevuto. Gesù aveva detto loro di riempire le giare, ma essi le riempiono «fino all’orlo» e l’evangelista lo mette in risalto; essi prendono l’iniziativa «collaborativa», si assumono la responsabilità di partecipare interpretando il comando oltre le parole: i diaconi vanno allo spirito del comando e non si fermano alla lettera, «perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2Cor 3,6).
La loro ubbidienza è responsabilità, non pedissequa accondiscendenza passiva, che si ripiega su se stessa e si nasconde davanti all’ubbidienza formale deresponsabilizzante. Essi, i diaconi della nuova alleanza, ubbidiscono alla Parola, ma con atteggiamento libero ed eseguono con fantasia. Per usare una iperbole, si può dire che peccano per eccesso (cioè per sovrabbondanza d’amore), non per difetto (cioè per atteggiamento di grettezza) e questa è la caratteristica degli uomini e delle donne liberi che vivono la relazione con Dio e con gli esseri umani con amore e per amore.

Il discepolo supera la lettera e s’immerge nello spirito
Usando il termine «diàkonos – diacono/servitore» e non «dûlos – servo/schiavo», Giovanni pone lo schema «comando – esecuzione» sul piano della relazione affettiva, ristabilendo così una dimensione emotiva e sentimentale della liturgia, che non può essere solo eseguire dei riti «come prescritti», ma una esultanza di gioia per un rapporto d’amore.
È sufficiente osservare la celebrazione delle «Messe» (volutamente non diciamo «Eucaristia», termine troppo impegnativo!) ormai, con buona pace del Concilio Vaticano II, ridotte a pure pratiche di pietà, spesso individuali e di prammatica: bisogna «dire la Messa» tutte le mattine, mezz’ora e via; la domenica, massimo tre quarti d’ora, altrimenti la gente si stufa e non viene più; nella celebrazione si va avanti per forza d’inerzia e, via una Messa, avanti l’altra: una a ogni ora e a ciascuna sono presenti fisicamente una manciata di praticanti.
La Chiesa in questo modo è ridotta a una stazione di servizio, in cui l’atto d’amore travolgente che è memoriale dell’atto d’amore totale di Dio, rinnovo dell’alleanza per il mondo, dono permanente del monte Sinai nel cuore della storia, presenza del Calvario e del risorto incuneato nel cuore del Regno, atteso eppure già sperimentato, il Cristo spappolato sulla croce… tutto nel tritacarne di una Messa anonima, trascinata, cantilenata, abitudinaria, macinata con trascuratezza, velocità, come una qualsiasi pratica di pietà individuale!
«Disse ai diaconi», espressione forte di chi ha saputo distinguere tra «servitù e amicizia»: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Nel vangelo di Giovanni spesso Gesù si rivolge ai suoi discepoli, o ai discepoli ipotetici che ne accetteranno l’avventura, con parole di grande stima e dignità: «Se uno mi vuol servire (diaconêi) mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo (diàkonos). Se uno mi serve (diaconêi), il Padre lo onorerà» (Gv 12,26). La terminologia non è di dipendenza, ma di sequela: Gesù non è alla ricerca di schiavi e la Chiesa non è una massa anonima di gente che deve solo ubbidire; Gesù instaura relazioni di vita, basate sul discepolato («mi segua»), dove lui ha una proposta e i diaconi/amici la condividono, partecipando con la propria adesione libera e matura. Oggi si parlerebbe di «cristiani adulti». Come le pecore seguono «il Pastore bello» per ascoltare la sua voce, così gli amici/diaconi si mettono al servizio di Gesù perché il vino dell’alleanza possa arrivare a tutti gli invitati alle nozze, cioè a tutta l’umanità.

Il servo esegue, il diacono ama
I diaconi di Cana, esercitano la loro diaconìa ubbidendo creativamente al comando di Gesù: «L’obbedienza dei diakonoi di Cana a Gesù è il prototipo della diakonia nuova che d’ora in poi dovrà caratterizzare i discepoli di Gesù» (De la Potterie, Le nozze messianiche [1986], 101). In altre parole, i diaconi delle nozze di Cana non sono coreografici, cioè funzionali al racconto, ma figure centrali e anche simboliche, profetiche, perché essi anticipano già all’inizio del vangelo quello che saranno i discepoli, quando giungeranno a scoprire l’«ora» suprema della croce, della morte/esaltazione. Allora «il discepolo e la madre» si riceveranno reciprocamente perché dati in affido l’uno all’altra dall’alto e custodiranno il segreto di Dio che è l’amore senza condizione, l’amore senza contraccambio, cioè il servizio, la diaconìa motivata solo ed esclusivamente dall’amore a perdere.
Il servo è esecutore materiale e resta tale, perché è costretto a ubbidire esteriormente senza adesione del cuore: il servo non è obbligato ad amare il padrone che lo sfrutta. Al contrario, il diacono è il custode della parola e del comando del Signore, che accoglie con disposizione interiore di ascolto e di venerazione, perché sa che quella parola non è indirizzata a lui, ma attraverso di lui deve andare a quelli che verranno dopo: il diacono/amico è il depositario del mistero d’amore di Dio che egli deve spezzare per tutte le genti; egli sperimenta in sé quello che deve offrire a coloro ai quali è mandato perché il profeta può annunciare solo ciò che ha prima sperimentato e vissuto.
Solo nel contesto dell’amore libero e liberante si possono esprimere l’amicizia e la diaconìa che esigono come presupposto la disposizione interiore di accoglienza e di condivisione.
(32 continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella