Cana (19) Il matrimonio al tempo di Gesù, nella Scrittura, nel Giudaismo

Il racconto delle nozze di Cana (19)

La Mishnàh (Qiddushìn – Matrimonio 1,1) insegna: «Una donna è acquistata (ebr.: qanàh;) in tre modi: con denaro, con contratto e con rapporti sessuali»; allo stesso modo si acquista uno schiavo (cf Mishnàh, Qiddushìn 3,1). È importante sottolineare il senso che gli Ebrei davano al matrimonio come «acquisto» della donna, perché la riprenderemo nell’esegesi che faremo del nome della cittadina dove «avvenne» lo sposalizio, cioè «Cana» che, etimologicamente, deriva dal verbo ebraico «qanàh» che significa «acquistare», da cui si capisce perché la Mishnàh parla di «donna acquistata».
Con le nozze la donna diventa «una proprietà» dell’uomo che, appunto, al momento di prenderla in casa, la compra versando il «prezzo» concordato alla famiglia di lei. In alcune parti, specialmente in campagna e nei villaggi c’era l’usanza che la dote versata dal fidanzato fosse corrispondente al «peso» della donna che, quindi, la famiglia faceva ingrassare l’anno di fidanzamento precedente il matrimonio. In ebraico «essere pesante» si dice «kabèd», che deriva dal sostantivo «kabòd» che vuol dire «gloria»; una persona gloriosa è una persona «pesante», cioè consistente, stabile, solida. Una persona magra, un capo, una donna, hanno poca consistenza e quindi valgono poco.
Il sogno di Dio
Fin dalla creazione il matrimonio è parte integrante del disegno di Dio, che crea un uomo e una donna perché insieme, uniti sessualmente, siano «immagine di Dio». In Gen 1,27 infatti si legge che «Dio creò Adam [= genere umano] a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: “zakàr weneqebàch” li creò», dove l’espressione ebraica significa propriamente «pungente e perforata» che apre una prospettiva straordinaria sulla personalità «nuova» che realizza il matrimonio perché è nel rapporto sessuale che si manifesta in piena compiutezza l’immagine di Dio. È qui che trova il suo compimento e la sua maturità la «chiesa domestica» (Lumen Gentium, 11) che nell’intima unione degli sposi esprime e rivela profeticamente l’unità indissolubile del Padre, del Figlio e dello Spirito1. Non solo, ma il matrimonio monogamico è un richiamo costante al matrimonio di Dio e Israele, la nazione che Dio «si è acquistata» tra tutte le nazioni della terra (cf Es 15,16; Dt 7,6; 14,2; Os 2,21-22), allo stesso modo che la Chiesa, sposa di Cristo, è stata «acquistata» con il sangue di Cristo (cf At 20,28; Ef 5,23-24.32). Sul tema della nuzialità esclusiva, è sufficiente rimandare al Cantico dei Cantici che è l’inno esplosivo dell’amore senza fine.
Nella tradizione giudaica odiea, che affonda le sue radici in quella antica del midràsh (cf Genesi Rabbà 11,9), il venerdì sera, al tramonto, quando lo Shabàt entra nel tempo e nello spazio d’Israele, il popolo radunato nella sinagoga, intona il canto «Lekhàh Dodì – Veni, Amore mio», mentre tutta l’assemblea si volta verso la porta d’ingresso per accogliere lo «Shabàt» che incede come una fidanzata, una sposa che va alle nozze, accolta dall’Israele orante come una regina. Il giorno del Signore, segnato dalla nuzialità, permea e pervade ogni respiro, il tempo, lo spazio e anche l’anelito di ogni israelita. Questa personificazione della nuzialità sabatica è antica ed è testimoniata dal Talmud di Babilonia (cf Shabàt 119a)2. Il matrimonio è talmente importante per Israele che il sommo sacerdote non sposato non poteva presiedere la liturgia del giorno di «Yom Kippùr» (ddj, Marriage, 701). Non è un caso che la tradizione giudaica chiama il matrimonio «qiddushìn – santificazione» perché in esso si santifica il Nome di Dio, creatore e tre volte Santo (cf Is 6,3). Non è solo un contratto tra un uomo e una donna, ma l’attuazione del comandamento di Dio che dona, «conduce» Eva ad Adam, il quale la riconosce «carne e osso» di se stesso (cf Gen 2,22-23).
Nulla può essere anteposto al matrimonio che ha la precedenza anche sulla sicurezza di Israele, perché la Toràh stabilisce che il giovane appena sposato è esentato anche dal dovere militare: «Quando un uomo si sarà sposato da poco, non andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico. Sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposato» (Dt 24,5; cf 20,7).
Il matrimonio evento sociale
Di norma, il matrimonio si celebra al compimento della maggiore età, che al tempo di Gesù avveniva a 12 anni compiuti (quindi all’inizio del 13°) sia per la donna che per l’uomo, comunque mai prima della pubertà (Talmud, Sanhedrìn 76b), anche se i genitori potevano promettere i figli in sposa o sposo subito dopo la nascita.
Il matrimonio non era una scelta personale, ma un evento del gruppo e pertanto era sempre combinato dai rispettivi padri (cf Gen 24,35-53; 38,6). I figli minori non potevano rifiutarsi di sposare i contraenti scelti dalle rispettive famiglie, mentre la donna maggiorenne aveva voce in capitolo e poteva anche rifiutarsi.
Al tempo del secondo Tempio, quindi anche al tempo di Gesù, in due sole occasioni i giovani potevano scegliersi la moglie tra le ragazze: nella festa popolare del 15° giorno del mese di Av (agosto-settembre) e nella festa di Yom Kippùr (Mishnàh, Taanit – Digiuno 4,8): le ragazze, tutte vestite di bianco (per evitare che le povere fossero discriminate), andavano a danzare nei vigneti sotto lo sguardo attento dei ragazzi che potevano così scegliersi la moglie.
Una volta accettata la proposta di matrimonio da parte del padre della donna o, in sua assenza del fratello più anziano, si contrattava il prezzo (la dote), il mohàr, cioè la somma che lo sposo promesso doveva pagare alla famiglia della sua futura sposa. In questo modo ella «era acquistata» e diveniva proprietà esclusiva del marito, passando dalla sottomissione del padre a quella dello sposo. La legge giudaica mette in rilievo che nel matrimonio è l’uomo che sposa la donna, non viceversa.  
Il matrimonio festa popolare
Il matrimonio si celebrava, di solito, dopo un  anno di fidanzamento (cf 1Sam 18,17-19; Mishnàh, Ketubòt 5,2) senza alcuna cerimonia religiosa, trattandosi di un evento civile che solo i libri tardivi chiamano «alleanza» (cf Ml 2,4; Pr 2,17). Lo sposalizio  era, ieri come oggi, l’occasione di una grande festa durante la quale si cantavano canti d’amore in onore degli sposi (cf Ct 4,1-7) a cui seguiva un banchetto (cf Gen 29,27; Gdc 14,10) che di norma durava sette giorni (v. sotto).
Al tempo di Gesù, il matrimonio era considerato ancora uno strumento di alleanze tra famiglie, per cui gli inviti erano fatti con molta attenzione. Alla festa potevano partecipare anche ospiti di riguardo e di passaggio perché il matrimonio era una occasione di prestigio sociale per l’intero parentado. Poiché nulla doveva essere fuori posto, un ruolo importante avevano «gli amici dello sposo» (shoshbinìm) i quali, mano a mano che arrivavano gli ospiti, presentavano allo sposo i regali portati (shoshbinùt).
I regali erano importanti: venivano in un certo senso catalogati perché in occasione del matrimonio della famiglia che portava il regalo, lo sposo che lo aveva ricevuto doveva restituirlo nella stessa entità; in caso di inadempienza si poteva esigerlo per via legale. In questo senso non si tratta veramente di un regalo di nozze gratuito e libero, ma di una vera «partita di giro» che finiva per costituire una leva potente della economia dell’epoca. Le provviste di cibo e bevande, tra cui troneggia naturalmente il vino, non rientrano tra i regali, ma appartengono alla regola della cortesia parentale o del vicinato. Il Talmùd (Babà Bathrà 144b) però, tra i doni nuziali descrive giare piene di vino o di olio.
La durata della festa nuziale è di una settimana come avviene per Giacobbe e Lia (cf Gen 29,22. 17.28) per Gedeone e la moglie filistea di Timna (cf Gdc 14,12.14-15.17). Per le nozze di Tobia e Sara, in epoca post-esilio, si fa un banchetto di quattordici giorni nella casa di Raguele e Edna genitori di Sara nella città babilonese di Ecbàtana (cf Tb 7,1; 8,19-20; 10,7: mss BA) e altri sette giorni  nella babilonese Nìnive nella casa di Tobi e Anna, genitori di Tobia (cf 11,19: mss BA). Al tempo di Gesù, la Mishnàh prescriveva sette giorni: «Se ad uno sposo si manifesta una piaga, gli si concedano i sette giorni del banchetto, sia per lui che per la sua casa e per il suo vestito» (Nega’im 3,2; cf Talmùd Nega’im 21a). Questa prescrizione posticipa la dichiarazione di impurità dello sposo, tenendo conto della figura dello sposo, della famiglia e delle spese fatte (vestito). Ecco una prova bella di legge «umana», di un principio che s’incarna nella situazione concreta di una persona e non resta astratto.
Vi è discussione sul giorno della celebrazione per motivi che sarebbe lungo spiegare in un articolo. La Mishnàh (Ketubòt 1,1) stabilisce che esso si svolga il 4° giorno, cioè mercoledì, se la sposa è una vergine; se invece è una vedova al 5° giorno o giovedì. Il motivo è pratico: il tribunale si riuniva due volte a settimana, il lunedì (2° giorno) e il giovedì (5° giorno). Se la sposa non fosse stata trovata «vergine», il marito poteva appellarsi al tribunale il giorno dopo, accusarla di adulterio e pretendee la lapidazione. Il problema, naturalmente non si pone per la vedova, che poteva sposarsi il giovedì.
Durante l’occupazione romana (dalla fine sec. I a.C. ), invalse l’uso di anticipare il matrimonio al 3° giorno, cioè al martedì perché gli invasori spesso e volentieri prelevavano la sposa la notte stessa del matrimonio e la restituivano l’indomani, esercitando lo «jus primae noctis». Per questo motivo la tradizione dice: «Per quanto riguarda la vergine che doveva sposare il mercoledì, il nemico aveva deciso che fosse consegnata prima al governatore; per evitare questa umiliazione alla fidanzata, fu stabilito che le nozze si celebrassero il martedì. Una volta introdotta, tale usanza, rimase in vigore» (Talmud babilonese, Ketubòt 3b). La stessa sentenza si trova in altri testi: «All’epoca del pericolo (= dominazione romana) invalse l’uso di sposarsi al 3° giorno (= martedì), e i saggi non vi si opposero» (Mishnàh, Ketubòt 1,1; Talmùd Ketubòt 25c).
Stabilito in modo definitivo il «terzo giorno», si volle anche trovare un senso proprio, facendo riferimento al terzo giorno della creazione, descritto nella Genesi, e che è l’unico giorno in cui Dio creatore dà due benedizioni, una alle acque che chiama «mare», una all’asciutto che chiama «terra» e per due volte dice che «era cosa buona» (Gen 1,10.12). Quale giorno migliore per affermare la fecondità del matrimonio? (cf Dej, Marriage, 703).
Il matrimonio benedizione d’Israele
La festa di nozze iniziava al mattino presto in casa della fidanzata che i parenti vestivano con l’abito nuziale e le coprivano il volto con un velo che le nascondeva anche i capelli; le amiche della fidanzata le mettevano attorno ai fianchi una cintura. Solo alla sera, finito il primo giorno di festa, l’uomo poteva togliere il velo e sciogliere la cintura che simboleggiava la sposa «oamento dell’uomo» (Gdt 9,2; Ger 2,32; Pr 12,4; Ct 3,11).
Accompagnato dai suoi familiari, invitati e amici, lo sposo si dirigeva verso la casa di suo padre, dove si svolgeva lo sposalizio e la festa conseguente. Gli amici portavano anche alcune torce per illuminare la sera, perché non di rado si faceva anche tardi, se le trattative nuziali che terminavano con un contratto (ebr. ketubàh), fossero andate per le lunghe (cf 1 Mac 9,37-39; Mt 25,5-6). Anche la fidanzata partiva dalla casa patea per dirigersi alle nozze; nel lasciare la casa patea, accompagnata dalle damigelle d’onore, custodi della sua bellezza, intonava canti di lamentazione per il dispiacere di abbandonare la sua famiglia.
Il padre dello sposo benediceva la sposa con sette benedizioni, cioè con la pienezza della benedizione che esprimeva l’augurio della fecondità. Il termine «benedizione» in ebraico è «berakàh» la cui radice (B_R_K) ha attinenza con gli organi sessuali maschili che per gli antichi trasmettevano da soli la vita, mentre la donna era solo un’incubatrice per tenere caldo e far maturare il seme maschile3.
Essere benedetti significa, quindi, ricevere la capacità generativa; una donna, infatti, senza figli è una maledizione per la famiglia e per il popolo e viene considerata alla stessa stregua di una lebbrosa. Terminata la benedizione settenaria, il fidanzato consegna alla promessa sposa un anello o del denaro, mentre pronuncia queste parole: «Ecco, ora tu sei santificata per me, secondo la religione di Mosè e di Israele» (cf Tb 7,12-14).
Il termine «santificato/a» è importante. In ebraico «santo» si dice «qadòsh» ed è un attributo di Dio, proclamato in cielo e in terra: «Qadòsh, Qadòsh, Qadòsh – Santo, Santo, Santo» (Is 6,3; Ap 4,8); anche il tempio, che simboleggia la Presenza-Shekinàh nel suo insieme si chiama «Miqdàsh – santuario» (da santità), mentre la parte intea pubblica si chiama «Qadòsh/Qodèsh – Santo», e quella più intea del tempio, separata da un velo, dove è custodita l’arca dell’alleanza, si chiama «Qadòsh haqqadashìm – Santo dei Santi» (Es 26,33).
Questa santità che promana da Dio e dal luogo della sua presenza, almeno nel senso delle parole, è trasferita anche nel matrimonio che in ebraico si dice «Qeddushìm – santificazione/consacrazione» e come tutte le realtà «santificate», al momento delle nozze la sposa diventa consacrata al marito, cioè separata da tutto il resto per essere esclusività sua.
Cana: farina scelta per un pane pregiato
Da qui nasce il senso dell’unicità e indissolubilità del matrimonio che nel NT diventerà esplicito (Mc 10,9; Mt 19,6). Il matrimonio è così importante che per la tradizione ebraica del post-esilio  cancella tutti i peccati dell’uomo e ha la precedenza sullo stesso studio della Toràh (cf Dej, Marriage, 707).
Il primo rapporto sessuale avveniva la sera del primo giorno di festa, prima ancora che il matrimonio fosse ufficializzato perché il fidanzato doveva accertare che la donna fosse veramente vergine.  A questo scopo,  gli amici dello sposo restavano fuori della stanza nuziale in attesa che lo sposo venisse fuori con «i segni della verginità» (betulìm): un panno bianco macchiato del sangue della sposa, che veniva conservato gelosamente da ogni donna. Se la sposa non era vergine veniva immediatamente denunciata al tribunale, il mattino seguente e ripudiata: l’uomo poteva esigee la lapidazione per adulterio.
Molto succintamente abbiamo descritto lo svolgersi dello sposalizio al tempo di Gesù con annotazioni, usi e scenari. In un contesto sociale centrato esclusivamente sulla figura maschile, c’è poco da discutere. Oggi non potrebbe essere più così perché la concezione della donna non è di pura appartenenza all’uomo, ma donna  e uomo, insieme, sono immagine di Dio e insieme alla pari esprimono il mistero di Dio che è Amore perché nella nostra cultura la donna è andata acquistando in secoli di lento e costante processo una parità, almeno formale, che resta comunque sempre una meta, perché mai realizzata appieno.
Tutti questi fatti estei dicono però che il matrimonio per gli Ebrei era un dovere duplice sul piano strettamente religioso: obbedire al comando di Dio che chiama la coppia alla fecondità generativa (cf Gen 1,28) e aumentare figli per la casa di Israele. Partecipare alla festa nuziale era sentito come un dovere religioso «obbligatorio» perché veniva inteso come una partecipazione all’atto creativo di Dio che associava a sé creatore, la nuova coppia chiamata a generare nuovi figli.
È logico e naturale pensare che sul matrimonio come evento sociale e fondamento del futuro di Israele si sviluppasse una teologia profonda basata sui simboli. Lo sposalizio tra un uomo e una donna diventa istintivamente il simbolo delle nozze di alleanza tra Dio e Israele. Dio è lo sposo e Israele è la sposa. I profeti utilizzeranno molto questa simbologia, specialmente il profeta Osea che addirittura ne fa una parabola della sua vita come profezia vivente dell’agire di Dio così innamorato del suo popolo che lo ama anche quando si prostituisce nell’idolatria (cf Os 1,2-3,5). L’amore di Dio è un amore senza contropartita perché egli non ama per suo interesse, ma ama perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8).
Le nozze di Cana sono state un fatto vero a cui fu invitata la madre di Gesù e probabilmente Gesù vi prese parte con i suoi discepoli perché di passaggio per la sua regione, un passaggio che come vedremo, l’autore legge in modo simbolico perché non va solo lui, ma si porta dietro «gli amici dello sposo», i suoi discepoli. Forse la famiglia degli sposi aveva un qualche rapporto di parentela con quella di Gesù. Nulla sappiamo di certo. Sappiamo solo che in queste nozze, così importanti per la vita di un villaggio ebraico del primo secolo, manca del tutto la sposa e lo sposo è citato due volte per mettere in evidenza la sua improvvida organizzazione. È evidente che Giovanni partendo dal fatto storico ordinario nella sua consuetudine, vuole portare il lettore ad un livello di senso più profondo e più grande: ad approfondire il significato simbolico delle nozze dell’alleanza che con Gesù assume un valore nuovo ed eterno (cf Ger 31,31). Crediamo che al racconto dello sposalizio di Cana si possano attribuire le parole con cui il midràsh presenta il Cantico dei Cantici:
«Un re diede a un mugnaio un moggio (= 450 litri) di frumento, e gli disse: “Ricàvane dieci staia (= 150 litri) di farina scelta. Poi toò e gli disse: “Dalle dieci staia ricàvane sei”. E Poi: “Dalle sei, ricàvane quattro”. Così il Santo – benedetto Egli sia – dalla Toràh scelse i profeti, dai profeti gli agiografi, e ultimo dopo tutti fu scelto il Cantico dei Cantici»4.
Come il Cantico, anche il racconto dello sposalizio di Cana è il succo del succo di tutta la salvezza che entra nella storia ed esprime nella sua densità il cuore stesso dell’intera rivelazione: l’amore di Dio per il suo popolo, segno dell’amore a perdere di Dio per l’umanità intera, di cui il simbolo è la relazione uomo donna, l’esperienza umana più radicale di conoscenza che esiste in natura.
(19 – segue)

Paolo Farinella

1 – Cf P. Farinella, Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli editori 2009, 37-47.
2 – Per l’approfondimento cf Dej ad «Lekhàh Dodì», 639.
3 – Cf Bibbia, parole, segreti, misteri, pp. 61-65.
4 – Cantico Zuta, 1,1; cf U. Neri, Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Roma 1987, p 54.

Paolo Farinella




Cana (18) Ecco il santuario della santa alleanza

Il racconto delle nozze di Cana (18)

Iniziamo in modo sistematico l’analisi del testo, cercando di assaporare parola per parola, facendole risuonare nel contesto immediato, ma specialmente in quello più ampio dell’intera Scrittura e tradizione giudaica. Gli Ebrei, quando scrivono la Bibbia, sono soliti oare con coroncine ogni singola lettera dell’alfabeto, quasi per sottolineare che non solo ogni parola, ma anche ogni singola consonante (in ebraico non esistono le vocali) è venerata come una «regina». Questo senso di rispetto per le parole è dovuto alla loro funzione: sono il mezzo con cui si esprime «la Parola» di Dio. In ebraico il termine «Davàr» ha un doppio significato, quasi opposto: «Parola e Fatto». Quando Dio parla, agisce e la sua azione è un evento, come avviene nella creazione (cf Gen 1, 6-7.9-11.14-15.24.29-30).  
Gli Ebrei ritengono che le lettere del loro alfabeto sono state create al crepuscolo tra il sesto giorno della creazione e l’inizio del primo sabato e Dio stesso le ha conservate gelosamente in vista dell’alleanza del monte Sinai, dove con esse avrebbe scritto sulla pietra le lettere di fuoco della Toràh (cf Ger 23,29; Mishnàh, Pirqè Avòt-Detti dei Padri, V,6; Talmùd Babilonese, Sanhedrin 34a). Il lettore non si meravigli se saremo pignoli, gustando e assaporando quasi ogni parola: questo sarà il segno del nostro rispetto per il Lògos incarnato, ma anche il nostro modo di «stare sulla Parola» (cf Gv 8,31) che diventa Parola studiata, meditata e pregata, adempiendo il sacrificio perfetto, come rilevano i saggi di Israele:
«Chi si dedica allo studio della Toràh, ovunque nel mondo (anche fuori Gerusalemme), sono considerati da Me (il Signore) come se bruciassero offerte al mio Nome» (Rabbì Samuel bar Nahman a nome di R. Yonathan). «Chi dedica la notte allo studio della Toràh è considerato dalla Scrittura come se avesse partecipato al sacrificio del Tempio» (R. Yohanan). Un altro rabbi, anonimo, commenta: «Senza il Tempio [= in diasporà?], come puoi ottenere l’espiazione dei peccati? Studia le parole della Toràh che sono paragonate ai sacrifici e così otterrai l’espiazione dei peccati per te» (Urbach, Les Sages d’Israël, 627-628; 950, nota 402).
Chi si accosta alla Parola di Dio deve essere predisposto a mangiarla come dice il profeta:
«“Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole”» (Ez 3,2-4).
Togliamoci i sandali dai piedi del nostro cuore (cf Es 3,5) ed entriamo nel santuario della parola del vangelo, e lasciamoci invadere e pervadere dal significato nascosto che l’evangelista ha tenuto in serbo per noi. Tralasciamo dell’espressione «terzo giorno», già abbondantemente esaminato nelle puntate precedenti (cf, p. es., MC 7/8 (2010) 25-26).
Gv 2,1b: «Uno sposalizio» – 1
Il termine «sposalizio», in greco «gàmos» al singolare, in Gv è usato solo 2 volte e solo nel racconto di Cana; si usa anche al plurale «gàmoi – nozze». In tutto il NT, oltre Gv 2, il termine è usato 7 volte al singolare (cf Mt 22,8.10.11.12; Eb 13,4; Ap 19,7.9) e 9 al plurale (cf Mt 22,2.3.4.9.10; Lc 14,8; 12,36; 16,18[2x]). Nell’AT si trova 15 volte al singolare e 3 al plurale.
Il termine «sposalizio – gàmos» nel racconto di Cana è ripetuto due volte: «Uno sposalizio avvenne…» (Gv 2,1,1); «fu chiamato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio» (Gv 2,2); le ricorrenze sarebbero però tre se si considera la variante del codice sinaitico (sec. IV): «Vino non (ne) avevano, perché era-stato-completamente-terminato il vino dello sposalizio» (Gv 2,3).
Questa insistenza «ostinata» non ha senso nel contesto generale del racconto per dire che c’era solo un matrimonio; ma acquisterebbe un significato straordinariamente forte se il riferimento fosse di natura teologica, con lo scopo di mettere in solenne evidenza il tema della nuzialità, che tra le esperienze umane è l’unica categoria che può descrivere la relazione tra Dio/Sposo e Israele/sposa e che Dio stesso ha assunto come espressione della sua relazione con Israele. La letteratura profetica è abbondantissima al riguardo (cf Os 2,16-25; Is 50,1; 54,48; 62,4-5; Ger 2,1-2; 3,1-13; Ez 16, ecc.).
Di per sé, sposalizio sarebbe un termine banale, se non fosse che Gv, nel testo greco, lo colloca in posizione centrale tra l’indicazione di tempo (terzo giorno) e di luogo (Cana di Galilea), quasi a volerlo mettere in evidenza tra tempo e spazio, due cornordinate che convergono verso «uno sposalizio»: «E il terzo giorno uno sposalizio divenne/accadde (ci fu) in Cana di Galilea» (Gv 2,1). La forma al singolare usata potrebbe significare che si tratti di un fatto proprio «singolare» per la sua unicità: in tutto il quarto vangelo non lo incontreremo più. È un evento unico e assoluto, sia nella vita di Gesù (e questo dovrà pur dire qualcosa!) sia nel vangelo (l’autore lo sottolinea).
La festa di nozze quindi ha un’importanza che supera il significato di un semplice matrimonio tra una ragazza e un ragazzo: esso piuttosto è il veicolo per un significato profondo e unico che l’evangelista vuole farci scoprire. Compito dell’esegesi è trovare questo qualcosa di più profondo, irripetibile.
Al tempo stesso dobbiamo collegare lo sposalizio unico e irripetibile di Gv 2,1 con la  prima conclusione del racconto (cf Gv 2,11), dove Giovanni stesso dice che questo fatto, ovvio per un verso e unico per l’altro, costituisce «il principio dei segni» e quindi indica qualcosa che si rinnova, come frutto di una sorgente zampillante. Se c’è un «principio», deve esserci anche una conseguenza logica di continuità, come un fiume che ha il suo «principio» nella sorgente di montagna e il suo naturale sbocco nel mare. Il «principio» non ha una valenza cronologico-temporale, ma si attesta sul fondamento dell’esistenza. Si tratta di un evento talmente unico e «singolare» che «accade» sovente. In altre parole: il significato che l’evangelista ci conduce a scoprire ha un valore permanente; lo sposalizio di cui parla non è un semplice matrimonio, ma un evento che determina una svolta decisiva, origine a sua volta degli avvenimenti della storia che si rinnova.
Il matrimonio è solo un espediente per parlare del senso nascosto di cui esso è un simbolo perché la realtà del racconto riguarda la persona stessa di Gesù, la sua natura e missione. Con il racconto di uno sposalizio reale, assunto a simbolo della nuova rivelazione che il Lògos compie per sempre, l’evangelista fa teologia per dire «chi è Gesù». Ci troviamo di fronte ad una cristologia alta.
È evidente che Gv fa riferimento allo sposalizio unico e irripetibile avvenuto nell’alleanza tra Dio e il suo popolo, Israele, celebrata in forma solenne sul Sinai e dopo più volte compromessa. È l’alleanza l’ambito che spiega perché Gesù fa irruzione «nel terzo giorno» in cui confluiscono due versanti: il versante della storia passata «già» accaduta (monte Sinai) e quella che «ancora» deve avvenire (terzo giorno della risurrezione, monte Gòlgota).
a) Tra due monti, il Sinai e il Gòlgota, un solo Nome
Lo sposalizio di Cana sta tra questi due vertici che si materializzano in due monti, Sinai e Gòlgota, per unirli tra loro in un rapporto non di causa-effetto, ma di compimento: il Sinai è la rivelazione di Dio, anticipo assoluto della manifestazione della gloria che nella crocifissione e risurrezione troverà il suo culmine e massimo splendore.
Il legame tra il Sinai/alleanza e il Gòlgota/risurrezione non è una ipotesi, perché è lo stesso Gv che lo pone in maniera forte e indiscussa. Nella narrazione della cattura di Gesù nell’orto del Getsèmani, facendo attenzione al testo greco, scopriamo sfumature di altissimo valore che purtroppo le traduzioni, compresa l’ultima della Cei (2008), non colgono, ma alle quali l’evangelista dà enorme importanza. Leggiamo il testo nell’ultima versione Cei:
«2Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.  3Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie foite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lantee, fiaccole e armi. 4Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. 5Risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era con loro anche Giuda, il traditore. 6Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra. 7Domandò loro di nuovo: “Chi cercate?”. Risposero: “Gesù, il Nazareno”. 8Gesù replicò: “Vi ho detto: sono io”» (Gv 18,2-8).
Per tre volte l’evangelista riporta l’espressione «Sono io!» e in Gv una parola o un senso ripetuto due volte contiene in sé un significato nascosto e più profondo; ripetuta tre volte deve essere un richiamo per un senso ancora più profondo.
L’espressione non è solo una risposta di identità come dire: «Eccomi qua!». Il testo greco suona esattamente così: «Egô eimì» (Gv 18,5.6.8) che non può essere tradotto semplicemente con «Sono io», che banalizza la risposta: il testo greco, che raramente usa il pronome personale con i verbi, pone «prima» il pronome e solo dopo il «verbo». L’uso del pronome di prima persona singolare, «Egô», si spiega con l’intenzione di volere mettere una forte enfasi sull’espressione e quindi nella traduzione il pronome deve precedere il verbo. In altre parole bisogna mantenere la costruzione del greco. Il traduttore accorto deve rendere la pregnanza e intensità dell’espressione «Io-Sono!», che richiama la visione di Mosè ai piedi del monte Sinai, quando contemplò lo spettacolo del roveto ardente.
Alla domanda: «Chi cercate?», soldati e guardie rispondono che essi cercano l’uomo di Nàzaret, cioè uno come loro, anzi un sovversivo che da fastidio al potere religioso e politico. Nella risposta, invece, Gesù non dice: «Eccomi qua! Sono io!», ma si presenta con le stesse parole con cui nella Bibbia greca della Lxx, Yhwh presenta se stesso a Mosè nel roveto ardente: «Egô eimì», che correttamente deve essere tradotto con «Io-Sono», è il nome greco di Dio che traduce quello ebraico «’ehyèh». Lo ammette in nota la stessa Bibbia-Cei (2008): «Tre volte Gesù risponde Sono io, espressione in cui risuona l’eco del nome divino (cfr. Es 3,14; cfr. Gv 8,24)».
Se il riferimento è dunque alla prima manifestazione di Dio ai piedi del Sinai, allora bisogna tradurlo con lo stesso criterio e stesso modo e cioè: «Io-Sono» che è il nome proprio di Dio, il sigillo con cui Mosè deve presentarsi al popolo schiavo in Egitto: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14).
b) In ginocchio davanti a Gesù come davanti a Yhwh
Un altro elemento ci aiuta in questa prospettiva; quando Mosè si avvicina troppo al monte per vedere il roveto che brucia senza consumarsi, è interdetto da Dio che si svela: «E disse: “Io-Sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6). Mosè si copre il volto (nota della Bibbia-Cei spiega come sottolineatura della «trascendenza di Dio») e cade in ginocchio, perché quel nome «Io-Sono!» è carico della trascendenza e Presenza/Shekinàh di Dio, davanti alla quale bisogna coprirsi il volto, perché chi vede il volto di Dio muore.
Nel Getsèmani avviene la stessa esperienza: soldati ed emissari dei sacerdoti (potere religioso e politico) hanno la rivelazione del Dio di Mosè nell’uomo Gesù di Nàzaret. Appena i soldati e le guardie sentono pronunciare il Nome santo, «Egô eimì – Yhwh», hanno coscienza di non trovarsi più davanti all’uomo di Nàzaret, ma di fronte al Dio del Sinai e per questo «indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6), come Mosè che deve nascondere il volto, abbassandosi fino a terra davanti a Yhwh.
Nella cattura di Gesù ci troviamo davanti a una professione di fede: soldati e guardie del tempio vanno ad arrestare Gesù e incontrano il Dio di Mosè.
Se Gesù ha parlato in aramaico deve avere detto: «’anàh denàh» che significa «Io (sono) questo»; ma poiché Giovanni sottolinea la reazione dei soldati identica a quella di Mosè, con ogni probabilità Gesù ha detto in ebraico solo il pronome «’anokî», letteralmente «Io/io(sono)»; ma se consideriamo che la forma è quella «piena», enfatica e solenne, è facile propendere che l’intenzione dell’evangelista è chiara: vuole porre Gesù, l’uomo di Nàzaret sullo stesso piano del Dio Yhwh dell’Esodo. Il testo che noi possediamo però è in greco, per cui il raffronto deve essere fatto tra il testo greco del vangelo e quello greco della Bibbia della Lxx che i primi cristiani usavano come loro Scrittura.
In questo ampio contesto che dà respiro a tutta la Scrittura, comprendiamo che non si possono più leggere i singoli episodi dei vangeli chiusi in se stessi, ma è necessario respirarli nell’ampio mare della rivelazione scritta presa nel suo insieme perché esprime un solo obiettivo, una sola promessa, una sola alleanza.
Per Gv lo sposalizio di Cana è il raccordo, quasi la cerniera che unisce l’AT con il NT, il ponte gettato dal Sinai fino al Calvario: la rivelazione di YHWH sul Sinai si compie e si consuma definitivamente sul Gòlgota, dove l’impotenza suprema del Figlio fa da specchio all’onnipotenza cosmica del Dio del Sinai. Tra i due monti che iniziano e completano l’alleanza nuziale, vi è la cittadina di Cana che offre il simbolo povero di uno sposalizio come «segnale» dell’intera storia della salvezza, o meglio della storia che si fa realmente salvezza.
Resta però anche vero il fatto che tutto parte da un  matrimonio reale tra un uomo e una donna, sebbene anonimi, e uno sposalizio in Palestina è occasione di festa per il villaggio. Ad esso è invitata la madre di Gesù. Forse Gesù è di passaggio e, come era usanza, partecipa alla festa. È probabile che sia un fatto vero, perché il matrimonio è un evento civile comune nella Palestina di Gesù e non ha alcuna valenza religiosa, anche nello svolgimento, perché tutto avviene tra la casa della sposa e la casa dello sposo. Nessun richiamo alla religione e nessun simbolo religioso è visibile in un contratto di matrimonio.
Partendo da un fatto o da un racconto, l’evangelista costruisce non la teologia del «matrimonio cristiano» che, come abbiamo già detto altre volte, è totalmente assente dal suo orizzonte, ma impone una teologia cristologica: Gesù è Yhwh che nuovamente riprende le fila dell’alleanza nuziale per portarla a compimento come aveva annunciato il profeta Geremia: «Ecco verranno giorni nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò una alleanza nuova» (Ger 31,31). Attraverso un fatto banale l’autore ci conduce in profondità a scoprire la personalità di Gesù che ha appena presentato come «Lògos» divenuto «carne» (cf Gv 1,1.14) per «compiere» le nozze del Regno.
Come si svolgeva il matrimonio al tempo di Gesù? Nella prossima puntata in una nota storica, descriveremo brevemente le modalità dello svolgimento del matrimonio e della festa che ci faranno gustare di più il valore antropologico e teologico del racconto dello sposalizio di Can. [continua – 18]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cemento, l’oro grigio

Il territorio: Una distruzione continua

Capannoni vuoti,  appartamenti vuoti (milioni!), seconde e terze case. E poi abitazioni abusive (soprattutto in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), spesso sanate con immorali condoni edilizi. L’edilizia selvaggia spacciata per «crescita economica» del Paese. Mentre si consuma il territorio italiano ad un ritmo impressionante, si deturpa irrimediabilmente uno dei più bei paesi del mondo e si prendono in giro gli italiani che vorrebbero essere onesti. Senza dimenticare che si costruisce senza considerare né il rischio sismico né quello idrogeologico. Come i quotidiani disastri sono lì a dimostrare. E allora spazio a «lacrime di coccodrillo», nuovi sprechi di denaro pubblico, nuove promesse…

Sempre più spesso, viaggiando in Italia, abbiamo la sensazione che le periferie delle città e dei grossi centri abitati si siano estese a tal punto, che talvolta diventa difficile capire dove finisce un agglomerato urbano e ne comincia un altro, se non grazie ai cartelli stradali. All’uscita da una qualunque città, l’immagine ormai più frequente non è quella suggestiva della campagna, ma quella di chilometri di costruzioni, per lo più capannoni (spesso vuoti), ma anche di interi agglomerati sorti nel giro di pochissimo tempo, dove fino a qualche anno prima c’erano prati e campi. Può capitare anche di vedere scheletri di case, la cui costruzione è iniziata e mai finita, oppure tronconi di strade, che portano a nulla, perché in corso d’esecuzione ci si è resi conto dei costi eccessivi che l’opera comportava. Si moltiplicano i centri commerciali (o i famosi outlet), i parchi di divertimento a tema, i parcheggi, le strade. Insomma si sta sempre più consumando il territorio. Al posto di prati e campi, il cemento, l’oro grigio che permette guadagni stratosferici ai costruttori ed ai politici, a scapito dell’ambiente, della qualità della vita e spesso della salute dei lavoratori dell’edilizia. Secondo il dossier di Legambiente «Un’altra casa?»(1), presentato il 15 luglio 2010, dal 1995 al 2009 sono state costruite in Italia 4 milioni di abitazioni, per un totale di 3 miliardi di metri cubi di edifici. Nel contempo, in Italia ci sono la bellezza di 5.320.288 case vuote!(2) Secondo il Movimento nazionale per lo stop al consumo di suolo(3) «non vi è angolo d’Italia, in cui non vi sia almeno un progetto a base di gettate di cemento, piani urbanistici e speculazioni edilizie, residenziali ed industriali, insediamenti commerciali e logistici, grandi opere autostradali e ferroviarie, porti ed aeroporti turistici, civili e militari».

NEL PAESE DELL’ABUSIVISMO E DEI CONDONI
In Italia, ci troviamo di fronte ad una vera e propria anomalia internazionale, a causa della mancanza di una politica per le aree urbane e per l’edilizia abitativa. Manca cioè un ministero dedicato a questi problemi, capace di monitorare e di fermare il consumo di suolo, fissando a livello nazionale un numero massimo di ettari di territorio trasformabili annualmente per usi urbani (ad esempio in Germania il limite massimo è di 10.950 ettari all’anno).
L’Italia è invece il Paese dei condoni edilizi, che inevitabilmente favoriscono l’abusivismo edilizio. Il primo condono del 1985, durante il governo Craxi, regolarizzò 230.000 abitazioni abusive, costruite nei due anni precedenti; il secondo del 1994, con il 1° governo Berlusconi, sanò 83.000 abitazioni abusive ed il terzo del 2004, con il 2° governo Berlusconi registrò 40.000 costruzioni abusive (con un incremento delle medesime, tra il 2001 ed il 2003 pari al 41%), mentre dell’introito previsto di 3,8 miliardi di euro non entrò nelle casse dello stato nemmeno un decimo. Sostanzialmente in due anni venne coperta di cemento illegale una superficie di 5,4 milioni di metri quadrati ed a fae maggiormente le spese furono le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa: la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia, dove è concentrato il 55% delle nuove case abusive. Il legame esistente tra i costruttori edili, la politica e la criminalità organizzata risale agli anni ’50 del secolo scorso.
Ne viene fatta una precisa descrizione nel libro «La colata»(4), dove si legge, ad esempio, che le associazioni criminali da sempre detengono il monopolio delle fabbriche di calcestruzzo, favorendo quindi le imprese edili peggiori ed obbligando spesso quelle, che lavorano onestamente a chiudere i battenti o ad emigrare. Leggiamo anche che nel 1995 Beardo Provenzano spedì un pizzino a  Luigi Ilardo, reggente di Cosa nostra per la provincia di Caltanisetta, in cui era evidente il suo interesse per la «cava di Riesi», che non era solo un impianto per la produzione del calcestruzzo; con questo termine, infatti, Provenzano indicava la Calcestruzzi S.p.A., azienda leader a livello internazionale, appartenente all’epoca al gruppo Ferruzzi di Raul Gardini ed oggi alla Italcementi Group. In Campania, invece è presente la camorra, con il clan dei casalesi, che, secondo le inchieste della procura di Napoli, sono legati niente meno che al sottosegretario all’Economia del quarto governo Berlusconi, cioè Nicola Cosentino, per il quale nel novembre del 2009 viene chiesto l’arresto per concorso in associazione mafiosa, arresto poi negato dalla Camera dei deputati.

RISCHIO SISMICO E RISCHIO IDROGEOLOGICO
Il rapporto di Legambiente rileva anche la pessima qualità dell’edilizia costruita negli ultimi 15 anni, come è stato purtroppo tragicamente dimostrato durante il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 dal crollo di costruzioni recenti come la Casa dello studente, e durante quello del Molise del 31 ottobre 2002, che colpì S. Giuliano di Puglia in provincia di Campobasso, dove crollò la scuola del paese, uccidendo 27 bambini ed una maestra. Purtroppo nel corso degli anni si è continuato a costruire, spesso abusivamente, senza tenere per nulla in conto la fragilità del territorio italiano. Il Centro studi del Consiglio nazionale dei geologi, in collaborazione con il Cresme ha condotto uno studio  sullo stato del territorio italiano, dal titolo Terra e sviluppo, decalogo della terra 20105, dove si legge che in Italia sono 6 milioni le persone, che vivono in zone ad alto rischio idrogeologico e 3 milioni quelle in zone ad alto rischio sismico. I cittadini, che vivono in zone a medio rischio, arrivano invece a 22 milioni. Il 10% del territorio italiano e l’89% dei comuni sono colpiti da elevata criticità idrogeologica, mentre l’elevato rischio sismico interessa quasi il 50% dell’intero territorio nazionale ed il 38% dei comuni. Inoltre, nel rapporto si legge che in Italia vi sono 1.260.000 edifici a rischio frane ed alluvioni; di questi 6.000 sono scuole e 531 sono ospedali. Della popolazione a rischio idrogeologico, il 19%, cioè oltre un milione di persone, vive in Campania, 825.000 in Emilia-Romagna ed oltre mezzo milione in ciascuna delle tre grandi regioni del Nord, cioè Piemonte, Lombardia e Veneto. Segue poi la Toscana. Il 40% dei cittadini vive invece in zone ad elevato rischio sismico e la maggior parte degli edifici residenziali è stata costruita prima dell’entrata in vigore della legge antisismica per le costruzioni del 1986. Tra le regioni a maggiore rischio sismico c’è la Sicilia, seguita dalla Calabria e dalla Toscana. Si calcola che lungo le superfici ad alto rischio sismico (come già detto, il 50% del territorio italiano) siano stati costruiti circa 6.300.000 edifici, di cui 28.000 scuole e 2.188 ospedali.
Secondo il rapporto di Legambiente, l’Italia, sulla carta, tutela il 47% del proprio territorio, ma nella pratica non vengono effettuati controlli. Ci troviamo pertanto di fronte alla totale inadeguatezza dei meccanismi di tutela sia dei beni paesaggistici, che degli aspetti idrogeologici, nonché dell’ambiente e della lotta all’inquinamento nelle aree urbane. Assistiamo ad una latitanza tanto del ministero delle Infrastrutture, che dovrebbe occuparsi delle questioni edilizie, quanto di quelli dell’Ambiente e dei Beni culturali; quest’ultimo dovrebbe occuparsi del danno provocato dall’edilizia selvaggia ad importantissimi siti archeologici(6).

CUBATURA DELLE MIE BRAME
Anziché limitare la costruzione di nuovi edifici, con ulteriore consumo del territorio, nel marzo 2009 venne proposto dal governo Berlusconi il cosiddetto «Piano casa», che aveva lo scopo di portare rimedio alla crisi economica, incentivando l’edilizia, grazie al permesso di ampliare la cubatura delle proprie abitazioni fino a 300 metri cubi (100 metri quadrati) e di elevare ogni fabbricato di 4 metri oltre il limite dettato dalle norme urbanistiche vigenti. Inoltre, secondo questo piano, sono possibili i cambi di destinazione d’uso; se si abbatte si può ricostruire più grande del 35% e non c’è più bisogno di alcuna concessione edilizia, per iniziare i lavori, ma basta produrre una segnalazione certificata d’inizio attività, che dovrebbe riguardare atti, autorizzazioni, permessi e nulla osta per eliminare ogni ostacolo o controllo per le imprese e perfino il silenzio assenso, nel caso di autorizzazioni paesaggistiche. In pratica tutte le procedure di controllo erano ridotte all’autocertificazione. Poiché le regioni rivendicarono la loro competenza in materia ed inoltre poiché nel mese di aprile 2009 si verificò il terremoto dell’Aquila, che riportò in discussione le norme antisismiche, questo decreto legge non vide la luce, così come concertato, ma venne data la possibilità ad ogni regione di legiferare sulla sua falsa riga, per cui quasi tutte le regioni vararono gli aumenti di cubatura, che, secondo i calcoli del Wwf, potrebbero portare ad un milione di stanze in più ed in qualche caso ad un effetto condono sotto mentite spoglie.

DANNI ALL’AMBIENTE E ALL’AGRICOLTURA
L’edilizia selvaggia rappresenta un gravissimo danno sia per l’ambiente, che per i beni paesaggistici e culturali. In particolare, per quanto riguarda l’ambiente, oltre a sottrarre superficie alla produzione agricola (si calcola che in 40 anni siano andati persi 5 milioni di ettari di terreni agricoli), la cementificazione dei suoli produce pesantissime conseguenze sull’ecosistema: difficoltà di ricarica delle falde acquifere, aumento dei deflussi superficiali (e quindi del rischio di alluvioni), contaminazione da inquinanti, maggiore conversione dell’energia solare in calore sensibile, diminuzione dell’evapotraspirazione (con aumento dell’«isola di calore»), asfissia del sottosuolo (cioè la conversione dell’ambiente ipogeo da aerobio ad anaerobio)(7). Quest’ultimo punto è particolarmente grave, se si pensa che il suolo impiega in media 100-200 anni, per formare un sottile strato di materiale organico stabilizzato da vegetali pionieri, ma ci vogliono circa 500 anni perché questo strato raggiunga lo spessore  di 2,5 centimetri, mentre per lo sviluppo di un suolo maturo è necessario un ulteriore millennio. È pertanto evidente che ricoprire con del cemento un suolo fertile comporta un danno irreversibile per millenni e, di conseguenza, la privazione, per le generazioni future, della base per il proprio sostentamento.

IL TURISMO E PROLIFERAZIONE DEGLI «OUTLET»
La cementificazione selvaggia danneggia anche il turismo, altro settore trainante dell’economia italiana. Basti pensare alla moltiplicazione, in molte località di villeggiatura, delle seconde (o terze!) case, lasciate vuote per buona parte dell’anno, con la conseguente riduzione di queste località a veri e propri paesi fantasma. Capita infatti che la costruzione di nuove case nei paesi turistici faccia lievitare i prezzi, inducendo spesso i residenti con reddito modesto a spostarsi in zone economicamente più accessibili. Nel contempo, i centri turistici non riescono a realizzare lo stesso guadagno che otterrebbero con meno seconde case, ma qualche struttura alberghiera in più, capace di ospitare un maggiore numero di persone per tutto l’anno. Inoltre il danno, che viene prodotto dalla cementificazione, a livello paesaggistico è spesso incalcolabile. Eppure vengono proposti e, purtroppo, spesso approvati dei progetti sempre più devastanti, come quello che prevede la costruzione di un gigantesco residence con annesso parcheggio da 2.400 posti, più piscine coperte, centro benessere, centro congressi e negozi assortiti  niente meno che sulla Marmolada, nella frazione di Malga Ciapela. Oppure come quello che prevede la costruzione di un autodromo a Roma Eur. In Italia sono sempre più numerosi i progetti per nuovi stadi (richiesti da molte società della serie A del calcio), che naturalmente vengono accompagnati dagli immancabili centri commerciali ed aree residenziali limitrofe.
A proposito di centri commerciali, crescono come funghi gli outlet, giganteschi discount delle grandi firme, dove la gente si riversa in massa, dopo avere percorso chilometri d’autostrada ed essersi sottoposta talora a code estenuanti, per assicurarsi capi firmati in sconto. Il più grande d’Italia è quello di Serravalle, in provincia di Alessandria.
Gli outlet rappresentano veramente l’apoteosi della finzione, perché vengono spesso costruiti come dei finti paesi, con case finte, il cui unico scopo è quello di ospitare negozi dalle vetrine scintillanti. Il tutto naturalmente in linea con la filosofia oggi dilagante, per cui conta molto di più l’apparire che l’essere. Ovviamente la costruzione di questi non luoghi si porta via migliaia di ettari di terreno, anche in considerazione del fatto che devono essere corredati di parcheggi e serviti spesso da nuove strade.
I sostenitori dello «sviluppo» a suon di costruzioni normalmente accampano la tesi della creazione di nuovi posti di lavoro, ma appare evidente che i posti di lavoro creati dall’apertura dei cantieri sono a breve termine, spesso in nero e caratterizzati da una scarsissima tutela della salute, come dimostra l’elevatissimo numero di incidenti nei cantieri. L’edilizia è infatti al primo posto per il numero di morti sul lavoro. È invece sempre più evidente l’equazione tra cemento e potere, dimostrata dall’apparente ineluttabilità delle «Grandi opere», che trovano d’accordo tutti i partiti, al punto che si parla di «partito trasversale degli affari».
E NEL MONDO…
Quando parliamo di grandi opere, in Italia ci riferiamo soprattutto all’«alta velocità», al «Ponte sullo Stretto di Messina», al «progetto Mose» per Venezia oppure alla costruzione di nuovi tratti autostradali. Dando invece un rapido sguardo alla situazione mondiale, vediamo che tra le grandi opere ha un posto di primo piano la costruzione di gigantesche dighe, come quella delle «Tre Gole», inaugurata in Cina nel 2006, opera faraonica definita «La Grande Muraglia del terzo millennio», perché è una delle poche opere dell’uomo visibili dallo spazio. Questa diga sbarra il corso del fiume Yangtze e la sua costruzione ha comportato lo sfollamento di 1.200.000 persone. Sono attualmente numerosi i progetti di questo genere a livello mondiale. Basti ricordare quello della diga Gibe III in Etiopia, lungo il fiume Omo, oppure quello della diga di Belo Monte in Brasile, lungo il corso del fiume Xingu, in piena foresta amazzonica, i cui lavori di costruzione sono già partiti. In entrambi i casi si tratta di progetti devastanti a livello ambientale e sociale, poiché porteranno all’alterazione irreversibile di interi ecosistemi ed all’allontanamento delle popolazioni native, per le quali i fiumi rappresentano la principale fonte di sostentamento, così come la principale via di trasporto. Le comunità locali obbligate a spostarsi andranno ad aggravare il fenomeno dell’urbanizzazione, finendo nelle periferie delle grandi città ed aumentando il livelli di disoccupazione e di povertà.
Spesso dietro la costruzione delle grandi dighe mondiali ci sono imprese italiane, come la (chiacchieratissima) Impregilo per le dighe Chixoy (Guatemala), Katse (Lesotho) e Yacuretà sul fiume Paranà tra Argentina e Paraguay, oppure la Salini Costruttori, nel caso della Gibe III in Etiopia. La Impregilo è controllata dalla Igli Spa, appartenente alle famiglie Gavio, Benetton e Ligresti e, in Italia, è impegnata nella realizzazione dell’«alta velocità» e nel progetto del «Ponte sullo Stretto di Messina» Tra i finanziatori delle grandi dighe c’è sempre la Banca mondiale e, nel caso della Gibe III, il governo italiano, che ha in corso di valutazione il finanziamento. Come troppo spessp capita, la conclusione è amara: grandi affari per pochi e povertà garantita per molti. 

Rosanna Novara Topino

NOTE
1 – L’ottimo dossier di Legambiente è scaricabile, in formato PDF, dal sito: www.legambiente.it.
2 – Legambiente su dati Istat e ministero dell’Inteo.
3 – Si veda il sito del movimento: www.stopalconsumoditerritorio.it.
4 – Garibaldi, Massari, Preve, Salvaggiuolo, Sansa, La colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro, Chiarelettere Editore, Milano 2010.
5 – Lo studio è scaricabile, in formato PDF, dal sito: www.consiglionazionalegeologi.it.
6 – Non si può dimenticare, ad esempio, la distruzione dei resti di una casa di epoca romana, rinvenuti in piazza Vittorio a Torino, durante gli scavi per costruire un parcheggio sotterraneo, che è stato portato a termine comunque prima delle Olimpiadi invernali di Torino, 2006.
7 – L’evaporazione dell’acqua da una qualsiasi superficie determina un abbassamento della temperatura della superficie stessa. Quindi, una copertura di cemento o asfalto  impedisce un’adeguata evapotraspirazione del terreno, determinando un aumento di calore. Il cemento inoltre impedisce una buona ossigenazione del terreno, per cui nel sottosuolo le specie vegetali ed animali aerobie (cioè che consumano ossigeno) sono destinate a soccombere. Progressivamente diminuirà quindi la materia organica presente nel sottosuolo, con un aumento del rischio di desertificazione.

Rosanna Novara Topino




Cana (17) Simbologia del terzo giorno

Il racconto delle nozze di cana (17)

Abbiamo ripetuto tante volte che l’espressione «terzo giorno» con cui inizia il racconto di Cana corrisponde al «sesto giorno» del Sinai, giorno della consegna della Toràh ad Israele e tramite Israele a tutti i popoli. Il valore del numero «6» è importante nella Bibbia e nel vangelo di Giovanni per cui ne diamo qualche indicazione essenziale.

Perfezione imperfetta del n. «6»
Nel giardino di Eden, Àdam è creato nel giorno sesto: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza … E Dio creò l’uomo a sua immagine …”. E fu sera e fu mattina: sesto giorno» (Gen 1,26.27.31). Il giorno «6» è dunque il giorno dell’uomo, dell’umanità. Secondo il criterio biblico, il giorno «6» è calcolato in rapporto al giorno della pienezza e della totalità che è il giorno «7», giorno in cui «tutto è compiuto» e Dio si riposa: da questo punto di vista il giorno dell’uomo è «7 – 1 = 6». Se il giorno sesto è il giorno della pienezza dell’umanità, esso però è inferiore alla totalità divina, espressa nel «giorno settimo» perché giorno della perfezione di Dio meno qualcosa. L’uomo non può mai competere con Dio perché sono somiglianti, ma non sono sullo stesso piano: creatore e creatura, ma non «amiconi». Il giorno «6» tende, cammina, è indirizzato naturalmente al «giorno 7°» che è il suo fine e il suo approdo. Il compimento dell’uomo è Dio che si esprime nella pienezza di se stesso e attrae a sé l’uomo per sua natura per dare senso al bisogno di «compimento/pienezza» a cui l’uomo aspira.
Il numero «sei» quindi è il numero della perfezione imperfetta del mondo creato e dell’uomo che del creato è il vertice cosciente per questo è anche l’inizio del genere umano, perché nel giorno «6» l’umanità nasce e si rapporta con se stesso (Eva), con le creature (animali) e con le cose (terra). È l’idea di generazione e di origine, come spiega Filone di Alessandria (sec. I d.C.) nelle sue opere (De opificio mundi, 13-14 e Legum Allegoriae I,3; De Specialibus Legibus II,58; A. Serra, «Vi erano là sei giare…» in Nato da Donna 145-147).
Alla nostra mentalità occidentale il ragionamento di Filone potrebbe non interessare o apparire troppo contorto, eppure se vogliamo capire la Bibbia dobbiamo percorrere questi sentirneri che ci portano alla comprensione di mondi nuovi e modi diversi di lettura. Secondo Filone, dopo il numero «1» che è l’unità iniziale e quindi ha un valore a se stante, il numero «6» è il primo numero perfetto;  infatti se si scompone il «6» si ha: la metà che è 3; un terzo che è 2 e un sesto che è 1. Ne consegue che il «6» è uguale alla somma della sua metà (3), del terzo (2) e del sesto (1): 6 = 3+2+1. Lo stesso pensiero sviluppa sant’Agostino nel sec. V d.C., segno che questo approccio con la Scrittura è rimasto costante nella Chiesa dei primi secoli:
«A causa della perfezione del numero 6 si narra nella Scrittura che queste opere sono state condotte a perfezione in 6 giorni che sono il medesimo giorno ripetuto 6 volte. La ragione non è che a Dio fosse necessario uno spazio di tempo […]. La ragione è invece che mediante il 6 è stata indicata la perfezione del creato. Il numero 6 infatti è il primo ad essere compiuto dalle proprie parti, cioè la sesta, la terza parte e la metà, che sono l’uno, il due e il tre e che addizionati danno il 6 […]. E in esso Dio ha compiuto le sue opere. E per questo non si deve trascurare il significato aritmetico. A chi riflette con attenzione appare evidente quale valore abbia in molti passi della sacra Scrittura. Non per caso è stato detto a lode di Dio: Hai disposto tutte le cose nella misura, nel numero e nel peso» [Sap 11,21; cf Is 40,12; Gb 28,25] (Sant’Agostino, La città di Dio, XI,30).

Il n. «6» aspira al riposo del giorno
«settimo»
Il numero «6» è perfetto anche perché è il prodotto della moltiplicazione di 3 x 2 perché il 2 è il primo dei numeri pari e il 3 il primo dei numeri dispari. Una regola comunemente accettata presso i Giudei, compreso Filone, era la convinzione che i numeri dispari fossero numeri maschi e quindi buoni, mentre quelli pari fossero femmine e quindi cattivi  (cf E. Testa, Il simbolismo dei Giudei-Cristiani, 227). Il numero «6» contiene sia l’elemento maschile che quello femminile e quindi porta in dotazione il bene e il male. Ecco perché era conveniente che l’umanità fosse creata al «sesto giorno»: nascendo dall’accoppiamento tra maschio e femmina essa portava in sé il germe del bene e del male, intimamente mescolati come il grano alla zizzania della parabola evangelica (cf Mt 13,24-30).
Per questi motivi i kabalisti (cf Tiqouné Zohar 6) spiegano il motivo per cui la prima parola della Bibbia è «berešit – nel principio» (Gen 1,1). In ebraico è formata da «6» consonanti che essi dividono in due parole, giocando sulle assonanze con il verbo «barà – creò» e «shit» che richiama «shesh – sei» e quindi traducono: «creò il sei». Non solo, ma Dio crea l’universo e l’uomo in sei giorni. «Si comprende forse perché allora tutta la struttura del tempo ebraico è basata sull’esistenza di questo numero perfetto, il «6». Il mondo è creato in sei giorni. Poi segue lo Shabat. Lo schiavo lavora sei anni e il settimo acquista la libertà. Anche la terra può essere lavorata per sei anni, ma al settimo deve riposare (è la chemità). Il mondo creato durerà sei mila anni, e il settimo millennio inaugurerà il tempo messianico, ecc.» (M.A. Quaknin, Mystères de la kabbale, 361).
Donando la Toràh al «sesto giorno» (che come abbiamo visto corrisponde al «terzo» in base al computo complessivo, Dio consegna all’umanità il codice di discernimento, cioè la coscienza per decidere e scegliere tra bene e male, quella coscienza che Àdam ed Eva non seppero gestire. Ora la capacità di discernimento è contenuta entro i confini della «Legge» che non è una serie di norme da osservare o vietate, ma il binario di marcia verso il compimento del «settimo giorno», il giorno del riposo di Dio, cioè il giorno della perfetta somiglianza fallita nella creazione e ora rimandata nel contesto della storia. Sul numero «6» vi è una letteratura immensa sia nella letteratura apocrifa (cf P. Sacchi, Apocrifi dell’AT, vol. I, UTET, Torino 1981, 239-240; M. Erbetta, Apocrifi del NT. Vangeli I/2, Marietti, Torino 1981, 280-281) che nella patristica (cf p. es. Giustino, Dialogo con Trifone, 81, ecc.).

A Cana si riapre il tempo dell’amore
Nelle nozze di Cana, da una lato si precisa che è «il giorno terzo» che corrisponde al sesto della prima settimana di Gesù e dall’altro si mettono in bocca a Gesù le parole oscure che solo alla fine del vangelo troveranno luce e significato: «Non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4). Gesù si trova nel «sesto giorno», il giorno dell’uomo e della storia, ma ancora non è giunto il suo «settimo giorno», il giorno del suo riposo nella morte donata come offerta pura di obbedienza al Padre che vuole che il mondo sia salvo (cf Gv 3,17). La pienezza cercata da Gesù è la sua immersione nella volontà del Padre (cf Lc 22,44), recuperando così la disobbedienza dei progenitori che al Padre avevano preferito le lusinghe del serpente (cf Gen 3).
Tutta questa simbologia serve a mettere in connessione stretta sia dal punto di vista teologico che emozionale il Sinai e la creazione, rapporto che Giovanni prolungherà con «il principio» dell’attività di Gesù, il nuovo Sinai da cui non scende più la Toràh di pietra, ma il Volto e il Nome del Padre (cf Gv 1,18).
Le nozze di Cana sono così l’ingresso in questo vortice di Presenza e di salvezza che Dio sparge a piene mani sul mondo, davanti al quale il Figlio è venuto a dichiarare aperti ancora una volta i termini dell’alleanza nuziale. Nulla è perduto perché ora Dio è di nuovo in mezzo al suo popolo per riprendere le fila di quella alleanza sinaitica che non può andare perduta, perché Dio è fedele a se stesso e alle sue promesse. Il patto di Dio è eterno e poiché ha sedotto Israele, lo ha sedotto per sempre; per questo a Cana si riaprono i giorni delle nozze e l’oscura cittadina della Galilea quasi pagana, diventa il nuovo monte Sinai, testimone di una nuova «manifestazione/rivelazione»: le nozze etee tra il Dio di Abramo e di Mosè e il popolo santo, qui rappresentato dalle giare di pietra e dalla Madre che vuole assaporare il gusto del vino nuovo del tempo del Messia.

Cana: il «principio» della nuova bellezza
Il Targum e il Midrash al Cantico dei Cantici (Tg 2,3.5; Ct R 2,3.2; 2,3.5; 8,5.1; TB Shabbat 88a) descrivono il Sinai come l’albero che produce mele, cioè le parole della Toràh che sono «desiderabili per acquistare saggezza» (Gen 3,6) e dolci al palato della Sposa/Israele (cf Ez 3,3). Anche lo pseudo Filone (Liber Antiquitatum Biblicarum 11,15 [SC 229, 124; 230, 113]) paragona l’albero della vita dell’Eden alla Toràh che Dio dona a Mosè sul Sinai. Nell’Eden Eva fu sedotta dal serpente e disobbedì al creatore, scoprendosi nuda nella sua opacità; al Sinai invece la sposa/Israele, si lascia sedurre solo dal suo Sposo/Dio e si veste dell’obbedienza alla sua Parola: «Quanto il Signore ha detto, noi faremo e obbediremo» (Es 19,8; 24,3.7). La bellezza perduta da Eva, la cui nudità deve essere coperta da pelli di animali morti (cf Gen 3,21) viene recuperata da Israele/Sposa che diventa «la più bella delle donne» (Ct 1,8; 5,9; 6,1).
Anche il vangelo di Giovanni dà importanza al numero «6»: nel capitolo 1 descrive la prima settimana di Gesù che culmina nel «sesto giorno», che corrisponde al «terzo giorno» quando avviene lo sposalizio di Cana (Gv 2,1). Nello stesso racconto al v. 6 troviamo «sei giare di pietra» che esamineremo a suo tempo; in Gv 4,6 l’incontro con la Samaritana avviene «circa l’ora sesta»; la stessa Samaritana ha avuto cinque mariti e il sesto «non è tuo marito»; a Betania, Maria sorella di Lazzaro e Marta compie l’unzione di Gesù con l’olio «sei giorni prima della Pasqua» (Gv 12,1); Gesù viene consegnato alla morte di croce «circa l’ora sesta» (Gv 19,14) e infine Gesù consegna lo Spirito, morendo nel «giorno della Parascève» (Gv 19,31), alla vigilia del sabato, cioè nel sesto giorno (cf Gv 19,31.42).
È evidente che Giovanni vuole inserire il «terzo giorno» di Cana all’interno di un tessuto simbolico che dia al fatto una dimensione nuova e nello stesso tempo molto più ampia di quanto non possa essere un semplice e banale matrimonio.
In tutti questi passaggi c’è un disegno interiore, una spiritualità intima che lega eventi e fatti lontani con un filo rosso invisibile, che lo Spirito Santo può condurre e interpretare, perché a noi giunga il sapore dell’evento per eccellenza, il «compimento» che non ha più bisogno di pienezza: il Lògos eterno che assume il volto, la voce e la vita di Gesù di Nàzaret, «l’uomo nuovo» di cui parla San Paolo venuto a pacificare i due popoli, l’ebraico e il greco (Ef 2,15; cf anche 4,24).
A Cana si compie definitivamente la tipologia tra Adamo e Cristo, nuovo Adamo (1Cor 15,45; 22) perché mentre il primo fu causa della distruzione della prima alleanza cosmica, il secondo invece ha invitato tutta l’umanità alle nozze nuove della nuova giustizia, quella che cerca il Regno di Dio che è già storia e promessa insieme.
[continua – 17]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (16) Le nozze di cana, il futuro è dietro di noi

Il racconto delle nozze di cana (16)

L’indicazione temporale che apre il racconto di Cana è preciso e delimitato: «E nel terzo giorno» (Gv 2,1). Per comprenderne la portata straordinaria è necessario percorrere il passaggio logico degli eventi e non solo cronologico. Questa indicazione di tempo, così puntuale, come abbiamo più volte osservato, è la conclusione della prima settimana di attività di Gesù, descritta nel capitolo primo e culminante nella festa nuziale di Cana e, nello stesso tempo, è un preciso riferimento alla prima settimana della creazione, con cui Dio inizia la sua attività al di fuori di sé, come è descritta nel capitolo primo del libro della Genesi. Aggiungiamo che in Gv la prima settimana di attività pubblica di Gesù è strettamente connessa anche all’ultima settimana della sua vita terrena, che culmina nella crocifissione (Gv 12,1-19,42). Abbiamo dunque tre settimane da connettere e armonizzare: quella iniziale di Gesù, quella della creazione e quella conclusiva di Gesù. È questo legame che ora ci accingiamo a esaminare e che ci impegnerà anche per la prossima puntata.

Una lettura a ritroso per scoprire Abramo
Il punto di partenza della storia di Israele non è la Genesi, ma l’Esodo. La storia del popolo scelto da Dio non inizia con la creazione, in Adamo, ma in Egitto, dove Israele è schiavo. Qui Dio interviene con Mosè attraverso una epopea di liberazione che nei secoli successivi sarà descritta in termini enfatici, facendo di questo intervento il vero «atto creativo» con cui inizia la storia della salvezza. L’esodo è il punto di partenza, storico e teologico insieme, perché segna «la genesi» di Israele, l’origine di tutto, anche di quello che «avviene prima»: i Patriarchi e la creazione stessa. Dopo l’esodo che si compie nella fantasmagorica traversata del Mare Rosso, degna di una rappresentazione cinematografica «kolossal», l’altro punto assoluto, fulcro centrale di tutta la vita sia di Israele che di ogni singolo israelita, è l’arrivo al Monte Sinai, scenario adeguato e solenne per una mirabile manifestazione, con tutti gli ingredienti della spettacolarità: vi partecipa infatti la natura tutta con tuoni, lampi, fulmini e nubi.
Qui viene consegnata la Toràh / la Legge come coscienza di identità che deve significare il senso profondo che essa esprime: il segno dell’alleanza sponsale tra Dio liberatore e Israele liberato. Da questo momento tutto acquista senso perché l’esodo e in particolare il Sinai diventano la chiave interpretativa di tutta la storia, sia quella futura (cosa ovvia), ma anche quella passata, di cui si sono perdute le tracce nella notte dei tempi, essendo sopravvissuti solo alcuni vaghi ricordi. L’epopea dell’esodo rimette tutto in movimento: il passato (chi sono i patriarchi?) e il futuro (quale terra promessa?).
Se guardiamo solo verso il passato, scopriamo che Israele ha compiuto un’opera di ricostruzione meticolosa e logica. L’esodo pone domande essenziali. Perché Dio ha liberato Israele dalla schiavitù dell’Egitto? Perché Dio ha voluto dare una Legge proprio a Israele tra tutti i popoli esistenti, anche molto più significativi? In altre parole, cosa c’era prima dell’esodo e del Sinai? Qual è il senso del presente, cioè di ciò che accade al Sinai?
La risposta è ovvia: Dio ha dato la Legge a Israele per essere fedele alla promessa che aveva fatto ad Abramo. Inizia così un processo di ricognizione storico-teologica alla ricerca dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe per scoprire le fondamenta  del proprio presente e la prospettiva del futuro. La figura del primo patriarca comincia a uscire dalla nebulosità del passato e si proietta maestosa e nobile sul futuro di Israele: egli diventa la prima pietra «angolare» che dà senso all’esodo, nello stesso momento in cui l’esodo dà un nome e un volto al patriarca fondatore. È un cammino a ritroso, alla ricerca delle proprie origini. L’esodo in sé sarebbe poca cosa se non fosse «una promessa» di un Dio, diverso da tutti gli altri «dèi» conosciuti; al contrario, esso è la conclusione del cammino di una «parola» detta nella notte dei tempi che non si è smarrita, ma è diventata un fatto: la parola di Dio ad Abramo ora «si fa carne» e diventa esodo, liberazione.

Alla ricerca di Àdam
Non basta. Cosa c’era prima di Abramo? Proiettando ancora una volta la luce dell’esodo all’indietro, come un faro che illumina il cammino, Israele scopre che prima di Abramo, c’era Adamo che diventa così la coice ancora più ampia della storia della salvezza. Dal padre di Israele al padre dell’umanità. Il processo avviene dal particolare all’universale. Riflettere sull’esodo come evento fondativo significa visitare il proprio passato per cogliere la direzione del futuro e il senso del presente. La liberazione dall’Egitto e la Toràh del Sinai non sono frutti anonimi fuori stagione, ma sono la conseguenza matura di un lungo percorso che è iniziato nella notte dei tempi, anzi nel cuore di Dio. Prima ancora di creare il mondo, Dio aveva pensato Israele come suo popolo ed è per realizzare questa «elezione» che ha creato il mondo, poi ha chiamato Abramo, Isacco e Giacobbe perché «costruissero» il popolo che Dio avrebbe convocato per mezzo di Mosè ai piedi del Sinai per consegnare la Toràh, il codice dell’alleanza da portare a tutti i popoli della terra.
Alla fine si ha questo schema teologico: Dio ha creato l’universo per collocarvi l’umanità, che a sua volta diventa la coice dove avviene la promessa ad Abramo e agli altri patriarchi che diventano così la premessa all’evento principe dell’esodo che culmina nel dono della Toràh come garanzia dell’alleanza sponsale tra Dio e il suo popolo Israele. Il passaggio logico è: Mosè, Abramo, Àdam, non viceversa. Ciò spiega perché nella coscienza di Israele, l’esodo e la creazione non sono mai separati, ma sono i due aspetti complementari dell’intervento di Dio che ha creato il cosmo, formato Àdam e l’umanità, chiamato Abramo, un politeista pagano, solo per amore di Israele, «inventato» da Dio stesso come partner sponsale a cui dona in dote la Toràh, che non è solo una «legge», ma il sigillo dell’alleanza e della prosperità nuziale. Tutta la storia, da Àdam a Mosè ha senso solo se proiettata verso lo scopo e l’obiettivo che è il monte Sinai, il monte dove «nel terzo giorno» Dio consegna se stesso nella forma di Toràh, cioè di «Parola che si fa carne» (cf Gv 1,14) al popolo che ha scelto tra tutti i popoli.

I figli garanzia dei genitori
Narra la tradizione giudaica che Dio prima di Israele interpellò tutti i popoli della terra ai quali offrì in dono la Toràh che tutti rifiutarono per un motivo o per l’altro. Quando giunse infine ad Israele, egli non volle nemmeno sapere ciò che vi era scritto perché l’accettò senza condizioni o riserve.

«Prima di donarla agli Israeliti, l’Onnipotente offrì la Toràh a ogni tribù e nazione del mondo perché nessuno potesse dire: “Se il Santo benedetto avesse voluto darcela noi l’avremmo accolta”. Si recò dai figli di Esaù e chiese: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”, risposero quelli. – “Non uccidere” (Es 20,13). – “E tu vorresti privarci della benedizione impartita al nostro padre Esaù, cui è stato detto: ‘vivrai della tua spada?’ (Gen 27,40). Non vogliamo la Toràh”. – Allora il Signore l’offrì alla stirpe di Lot dicendo: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non commettere adulterio” (Es 20,14). – “Proprio da atti impuri siamo nati! Non vogliamo la Toràh”. Allora il Signore chiese ai figli di Ismaele: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non rubare” (Es 20,15). – “Vorresti forse portarci via la benedizione impartita a nostro padre, cui fu detto: ‘La sua mano sarà contro tutti’ (Gen 16,12)? No, non vogliamo affatto la Toràh”. Così fece con tutti gli altri popoli, i quali parimenti rifiutarono quel dono dicendo: “Non possiamo rinunciare alla legge dei nostri antenati, non vogliamo la tua Toràh, dalla al tuo popolo Israele”. – Per questo Egli – benedetto sia il suo Nome – andò infine dagli Israeliti e disse: “Accettate la Toràh?” – Risposero: “Che cosa contiene?”. – “Seicentotredici precetti”. Quelli risposero a una sola voce: “Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo”»(1).

Israele prima mette in pratica la Toràh e solo dopo se ne domanda la ragione. La risposta degli Israeliti è disarmante e totale: (ebr.) «‘asher dibèr Adonai nÈhassèh wenishmà’», che la LXX traduce con «Panta hòsa elàlesen Kýrios poiêsomen kài akousòmetha – Tutto quello che il Signore ha detto, faremo e ascolteremo». Prima si fa e poi si ascolta. È importante mettere in evidenza la risposta di Israele che non s’impegna soltanto a eseguire le parole del Signore, ma accoglie la Toràh prima ancora di conoscee «il peso». In questo atteggiamento di Israele vi è l’entusiasmo dei discepoli che sono affascinati dall’avventura e si buttano con tutta la loro generosità senza calcolare le conseguenze che è il comportamento degli innamorati. Solo in questo contesto «personale» si può spiegare il Midrash (Midrash Ct rabba 1,4; Midras Tehilliìm/Salmi a 8,76-77) che narra di Dio che dopo avere dato la Toràh a Israele resta ancora perplesso e chiede un garante supplementare. Israele risponde dando a garanzia i propri figli, cioè il suo futuro che Dio accetta come pegno:

«Fu così che il popolo portò le mogli con gli infanti al petto e quelle gravide i cui corpi l’Eteo rese trasparenti come vetro. Poi Dio si rivolse a tutti i piccoli con queste parole: “Ecco, sto per dare la Toràh ai vostri padri, siete disposti a impegnarvi perché l’osservino?”. Ed essi risposero: “Sì”… I bambini nel ventre risposero a ogni comandamento positivo con “si” e a ogni comandamento negativo con “no”. L’Eteo diede dunque la Toràh a Israele con la fideiussione dei suoi bambini; ecco perché tanti ne muoiono quando il popolo non la osserva»(2).

Dall’esodo al Sinai per giungere a Cana
Da questa prospettiva, scopriamo che l’evangelista Giovanni è intriso di questa storia, quando scrive il suo vangelo. Collocando lo sposalizio di Cana alla fine della prima settimana di attività di Gesù e all’inizio del suo ministero pubblico, automaticamente costringe ogni credente che conosce la Bibbia a leggere nel racconto un chiaro nesso tra Sinai e Genesi e, a maggior ragione ora nel Nuovo Testamento, tra Sinai, Genesi e «Principio» del «Lògos», che si rivela e si manifesta non più su una montagna del deserto, ma nel Vangelo che assume il volto e la figura di Dio stesso. Con questo racconto l’autore ci costringe a fare lo stesso cammino a ritroso che fece il popolo d’Israele quando formò il suo pensiero teologico e lo sistemò in un organico sistema di sintesi della sua fede.
Su questo rapporto tra Genesi-Esodo-Cana, l’esegeta italiano Aristide Serra, che di fatto ha dedicato l’intera sua vita al racconto delle nozze di Cana, espone una complessa ricerca documentata nel suo ultimo volume «Le nozze di Cana» (Edizioni Messaggero di Padova nel 2009), specialmente alle pp. 110-179. Serra esamina i capitoli 19-24 di Esodo, che egli definisce «come il vangelo dell’Antico Testamento», data «l’importanza sicuramente eccezionale» (p. 119), perché attinente alla rivelazione del Sinai, che ha per oggetto l’alleanza del Signore con Israele. Dall’ampia riflessione giudaica su questo evento fondativo, egli si sofferma sulla «articolazione della settimana», che ha per protagonista la consegna della Toràh e che ha attinenza con la settimana della creazione, evidenziando così un valore cosmico anche all’evento del Sinai.
In Gen 1,3-2,3 i giorni della prima settimana in assoluto, quella della creazione, si susseguono in modo monotono e lineare, scanditi dal ritornello: «E fu sera e fu mattino: giorno primo … secondo giorno … terzo giorno … quarto giorno … quinto giorno … sesto giorno (Gen 1,5.8.13.19.23.31). Nel racconto del Sinai invece si ha un ritmo diverso che esaminiamo a partire dal testo di Es 19:

«1Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto, nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai…
10 Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti 11e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo.
16 Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore».

Su questo testo la letteratura giudaica (targumìm e testi rabbinici) fanno lunghe e minuziose dissertazioni, inquadrando la rivelazione del Sinai in schemi  cronologici di sei, di sette e anche di otto giorni (cf A. Serra, Le nozze di Cana, 97-102 che riporta anche una ampia e accurata bibliografia di testi). In base a questi calcoli il ritmo della scansione della settimana sarebbe il seguente. Il terzo mese del calendario ebraico è il mese di Siwàn (che corrisponde a maggio-giugno). A partire dall’inizio di questo mese, come descrive dettagliatamente il Targum dello pseudo Gionata(3), si contano i giorni con la seguente progressione:

1 giorno:    Gli ebrei giungono al deserto del Sinai (TJ I a Es 19,1-2).
2 giorno:    Mosè sale sul monte e scende (TJ I a Es 19,3-8).
3 giorno    Il Signore preannuncia la sua venuta a Mosè (TJ I a Es 19,9).
4 giorno:    Ordine del Signore a Mosè di purificare il popolo «oggi e domani» e di tenersi pronti per il «terzo giorno», il giorno della Teofania (TJ I a Es 19,10-15).
5 giorno:    Corrisponde al «domani» del punto precedente.
6 giorno:    Corrisponde al «terzo giorno» del punto precedente: Dio si rivela, consegna la Toràh a Mosé che fa avvicinare il popolo ai piedi del monte per consegnargli «le dieci parole» (TJ I a Es 19,16-25).

Nel racconto della Genesi, al sesto giorno è creato Àdam e Eva, cioè la prima umanità; al Sinai al «sesto giorno» che, come abbiamo visto, corrisponde al «terzo giorno», è creato Israele che acquista la identità di «sposa» e nelle nozze di Cana «al terzo giorno» Gesù manifesta la sua gloria. È evidente che in questa progressione cronologica il giorno più importante è «il terzo», il giorno in cui Dio manifesta se stesso sia al Sinai che a Cana e questo «terzo giorno» del Sinai-Cana corrisponde al «giorno sesto» della creazione dove la prima coppia prende vita e contempla in assoluto il volto del Dio creatore                       [continua – 16]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (15) Le nozze di Cana, oltre le nozze di Cana

Il racconto delle nozze di Cana (15)

Nelle puntate precedenti, iniziando il commento dell’espressione «E nel terzo giorno» mettemmo in relazione la settimana della creazione di Gen 1 e la settimana che descrive Giovanni 1, elencando i singoli giorni e gli eventi che vi accadono. Abbiamo detto che lo schema dell’una e dell’altra settimana non è cronologico, ma teologico. In altre parole, non bisogna chiedersi «che cosa è avvenuto?», ma «che cosa l’autore vuole insegnare?». La prima domanda esige una risposta puntuale dal punto di vista storico-scientifico; la seconda, invece, attende una risposta di «valore»: qual è il senso di ciò che l’autore scrive e perché scrive in questo modo? Le due settimane, infatti, sono portatrici di un contenuto che va oltre la banalità dell’accaduto cronologico.
Se non entriamo nella prospettiva globale della Scrittura come sfondo, principio e fine di ogni singolo passo, di ogni singola parola, finiremo sempre per leggere la Bibbia a spizzichi, piccoli aneddoti edificanti senza sale e senza senso, buoni solo per occupare un po’ di tempo distratto durante la celebrazione della messa.

Se va male, il celebrante usa quel testo, preso come capita, per imbastire esortazioni morali o invettive contro il mondo che nulla hanno da spartire con il testo e la rivelazione. Il sale perde il suo sapore (cf Lc 14,34-35) e la lucerna diventa opaca (cf Mt 5,15), inutile per illuminare la strada e per dare senso al percorso. Il fuoco bruciante della Parola di Dio ridotto a misero scaldino della nostra ignoranza.

Una Biblioteca per la Parola
La Bibbia non è un libro scientifico in senso tecnico, ma un libro di salvezza, in senso teologico; lo aveva capito bene Galileo Galilei, che all’inquisizione che lo condannava per le sue ipotesi «eretiche» sulla subalteità della terra nei confronti del sole, diceva: «La Bibbia non ci insegna come è fatto il cielo, ma come andare in cielo». È compito della scienza dirci «come è fatto il cielo», mentre è compito della fede che emerge dalla Scrittura, dirci «come andare in cielo». Non bisogna cercare a tutti i costi una sovrapposizione tra scienza e fede perché le due prospettive viaggiano su binari diversi e non necessariamente devono combaciare perché hanno metodi e strumenti d’indagine diversi. È importante che la fede non voglia prevaricare sulla scienza e questa su quella.
Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum, forse il documento più bello tra i sedici conciliari, ci sostiene e rafforza in questa convinzione e in questo metodo perché con la sua autorevolezza magisteriale ci garantisce che è così (sottolineature nostre).

«Poiché… tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto “tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 3,16). Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (=autori) abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario… che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere e ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani. Perciò, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede» (Dei Verbum, nn. 11 e 12).

Cinque custodie e una biblioteca
Per capire la lunga citazione del concilio, che con questo testo ha operato una vera rivoluzione negli studi biblici, è necessario fare un passo avanti sul modo con cui noi leggiamo le sacre Scritture. Quando prendiamo in mano una Bibbia, abbiamo davanti un libro che cominciamo a sfogliare dalla prima pagina in avanti. Ben presto ci stanchiamo e lasciamo perdere perché quello che leggiamo ci sembra anacronistico, irreale, fantasioso; ma molto più spesso lasciamo perdere perché non capiamo.
Tutto ciò è inevitabile perché noi pretendiamo di leggere con le nostre categorie mentali di «oggi» un libro scritto con criteri diversi e categorie mentali che si snodano in un arco di 1.600 anni. Vi si trovano autori diversi che scrivono in tempi diversi, con linguaggi diversi e con metodi e generi letterari diversi. Se vogliamo capirci qualcosa, dobbiamo entrare «nel» mondo della Bibbia e abitarlo, imparandone i linguaggi, le trame narrative o poetiche, disceendo i diversi livelli di storicità e le tecniche di trasmissione che l’hanno portata fino a noi.
Quando prendiamo in mano la Bibbia, dobbiamo avere la consapevolezza che di fatto abbiamo davanti non «un libro», ma una intera «biblioteca» composta da 73 libri, di cui 46 dell’Antico Testamento, quasi tutti in ebraico e 27 del Nuovo Testamento, tutti in greco.
Questa «biblioteca» è complessa, con sezioni, scaffali, generi diversi e ogni volume può essere opera di un singolo, ma molto spesso è frutto dell’apporto di tanti autori, di norma anonimi, che bisogna imparare a conoscere nella loro personalità, nei luoghi di vita, nella loro storia e formazione. Per fare questo bisogna interrogare molte scienze: le lingue antiche in cui furono scritti i singoli libri, la letteratura del tempo corrispondente, se esiste, e poi la poesia, la storia, la geografia, l’archeologia, la musica, le usanze proprie non solo dell’autore di ogni libro, ma anche dei popoli vicini.
Bisogna imparare i metodi per tramandare insegnamenti e scritti e tutto ciò che in qualsiasi modo può interessare e aiutare la comprensione di un testo e di un autore. Non basta leggere la Bibbia, bisogna anche sapere «come» leggerla e da dove cominciare.
Chi legge la prima pagina della Genesi, non può limitarsi a ripetere noiosamente: «E fu sera e fu mattino: giorno primo… secondo… sesto», senza sapere che il primo racconto della creazione con cui si apre la Bibbia è quasi la «ouverture» musicale del primo libro che è «la Genesi». Esso contiene tutti i temi del libro e non è affatto noioso, ma ha un andamento liturgico, ieratico.
Su questo racconto viene proiettata la solennità liturgica del tempio di Gerusalemme su cui si misura la creazione. Il creato è il tempio in cui celebra la liturgia della vita nascente a cui le schiere celesti rispondono, come nel tempio, con il ritornello salmodiante «fu sera e fu mattino» e «Dio vide che era cosa buona». Dio è il sommo sacerdote che distende il cielo come la tenda del tempio, raccoglie le acque come quelle del catino per la purificazione, separa gli esseri viventi, come fa il sacerdote con le vittime sacrificali, benedice le creature come il sacerdote fa nel tempio con il popolo partecipante.
Il racconto della creazione è la trasposizione della liturgia del tempio a livello cosmico e universale, esattamente come fa Giovanni che proietta la nascita di Gesù di Nàzaret a livello del «Lògos» eterno che «è presso Dio». Nulla può essere di più stridente se è vera la convinzione di Natanaele: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46).
Quanti lettori, a una immediata lettura, sanno che il racconto della creazione di Gen 1 è stato pensato verso il sec. VI a.C. a Babilonia, durante l’esilio, e tramandato per circa un secolo oralmente fino al 444 a.C., quando fu raccolto in un rotolo/libro? Esso è il racconto più recente, che però viene messo «in principio» proprio per la sua natura liturgico-sacerdotale, finalizzata alla difesa della settimana, culminante nel giorno di «shabàt», che è il vero obiettivo della narrazione.
Quanti lettori sanno che, al contrario, il racconto della creazione, riportato nei capitoli 2-3 di Genesi che parlano del serpente, dell’albero, di Adamo e della costola, è invece il racconto più antico, databile al sec. IX-X a.C. e posto in secondo piano perché ha una prospettiva e un andamento diversi dal primo?
Il libro della Genesi contiene dunque due racconti di «creazione», che non hanno un senso storico (nel senso moderno del termine), ma sono una proiezione della storia di Israele a livello cosmico (Gen 1) e a livello universale sul piano dell’umanità (Gen 2-3). Gli Ebrei lo indicano con la prima parola con cui inizia: «Bereshit – In principio»; la Bibbia greca detta Lxx in greco, invece, la indica con il suo contenuto: poiché tratta delle «origini» del mondo, dell’uomo e dei patriarchi, dà al racconto il titolo di «Genesi». Questo volume di 50 capitoli, a sua volta, è messo insieme ad altri 4 rotoli/libri che prendono il nome di «Pentateuco – Cinque custodie» (dal gr. penta – cinque e thêke- – custodia/fodero) cioè cinque libri.

La nuzialità oltre le apparenze
È possibile che i nostri lettori siano impazienti di arrivare alla spiegazione diretta e immediata del testo delle nozze di Cana. La loro impazienza è comprensibile perché sono stati educati a «sentire» pezzi di Bibbia, letti durante la Messa e ai quali non si presta eccessiva importanza, perché considerati «una cosa che bisogna fare», ma che forse si vorrebbe abolire perché «allunga» inutilmente la Messa.
A ciò si deve aggiungere che spesso l’omelia non aiuta, ma aggrava le cose per la sua superficialità e perché il testo biblico viene preso «a pretesto» per una predica morale, travisando così il senso del testo e la mente dell’autore che lo ha scritto. Il popolo cristiano non ha una formazione biblica, anzi ignora la Scrittura, per cui la sua religiosità è spesso acqua tiepida riscaldata che si raffredda al primo soffio di vento.
Un esempio esplicito è il racconto delle nozze di Cana. Il testo integrale è proclamato nella liturgia latina della 2a domenica del tempo ordinario dell’anno liturgico C, cioè la domenica dopo il Battesimo del Signore, che a sua volta segue immediatamente la festa dell’Epifania. La scelta della riforma di Paolo VI non è casuale, ma riprende la tradizione antica orientale, presente ancora oggi nell’Ortodossia, che in un’unica festività (Epifania) celebra quattro manifestazioni o «rivelazioni» di Gesù.
La liturgia latina ha separato i quattro momenti che sono: Natale, Epifania, Battesimo e Cana. In essi si vive una «pedagogia» salvifica e catechetica centrata sul tema dell’incarnazione, che esplode in quello centrale dell’alleanza, espressa con il tema della nuzialità.
Gli antichi, e oggi gli Ortodossi, nella festa della Epifania celebrano: la manifestazione di Gesù agli Ebrei (Natale), ai Pagani (Epifania) e all’umanità intera (Battesimo). La quarta manifestazione (Cana) è la chiave d’interpretazione per capire il senso delle prime tre: Cana non è la consacrazione delle nozze come sacramento, che è un concetto totalmente assente all’autore, ma la «ragione» per cui Dio si è manifestato agli Ebrei, ai Pagani e al mondo: stabilire l’alleanza nuova preannunciata dal Ger 31,31:

«31Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore -, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. 32Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. 33Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore -: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo».

Dire che la presenza di Gesù santifica le nozze di Cana e istituisce il sacramento del matrimonio è una mistificazione del testo, estranea al senso immediato e al contesto del racconto, che invece ha una portata profetica che abbraccia l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il profeta Geremia, infatti, parla di «alleanza nuova» che per il secolo VII a. C., ma anche per il tempo di Gesù, è una bestemmia e una eresia perché essa è messa direttamente in contrapposizione con quella antica del Sinai a cui gli Ebrei non furono fedeli. Non solo, ma il Signore dice espressamente: «Scriverò sul loro cuore» questa alleanza. Anche un cieco vi vedrebbe immediatamente un riferimento alla Legge del Sinai, scritta «sulle pietre». Tutti questi temi si trovano nel racconto delle nozze di Cana che, pensato e scritto come commento (midràsh) dell’alleanza del Sinai, porta una novità supplementare, una grande novità: la «nuova alleanza» del profeta Geremia che Gesù «manifesta» non è un’alleanza diversa che sostituisce la prima, ma è quella stessa del Sinai che in Gesù di Nàzaret diventa «nuova ed eterna».
Abituati a «sentire» solo pezzi di Bibbia e solo nella Messa, i cattolici vivono un dramma: non hanno mai una visione d’insieme della Scrittura e nemmeno dei singoli libri o autori. Il loro approccio è occasionale, la loro formazione è episodica e agiografica (raccontini edificanti) e la loro ignoranza diventa, di occasione in occasione, permanente.
Dubitiamo che chi comunemente legge il racconto delle nozze di Cana di Gv 2 metta direttamente il testo in relazione con la settimana che l’autore descrive in Gv 1 e successivamente, attraverso questa, richiami anche la settimana per eccellenza, quella della creazione, che apre la rivelazione scritta in Gen 1, cercando e trovando un nesso logico che diventa visione di salvezza, conoscenza e contemplazione del disegno di amore sponsale che la Scrittura vuole comunicare.
Solo in questa visione d’insieme ci rende conto che lo «sposalizio» è un puro «accidente», cioè un piccolo evento banale di vita quotidiana per dire e dare un grande messaggio che travalica i tempi, all’indietro, per giungere alle origini dell’umanità, passando per il monte Sinai e, in avanti, superando ogni spazio per giungere integro fino a noi per annunciare l’unica salvezza, quella che Dio ha promesso a Israele e che ora nei tempi nuovi, realizza pienamente in Gesù Cristo, lo sposo delle nuove nozze che Dio prepara per la nuova umanità.                   [continua – 15]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




CANA (14) : RILETTURA CRISTIANA DI GENESI

Il racconto delle nozze di Cana (14)

«In principio Dio creò il cielo e la terra … e in principio era il Lògos» (Es 4,20).
Dopo dodici puntate di introduzione, tralasciando tutti gli altri problemi riguardanti la critica testuale, l’analisi letteraria e gli approfondimenti relativi, che ci porterebbero a comporre un trattato solo sul racconto di Cana, crediamo utile passare all’analisi del testo che vorremmo gustare parola per parola. Per il credente, lo studio della Parola è preghiera perché diventa carne e sangue, fondamento e prospettiva di vita.
L’alfabeto della Presenza
La Parola di Dio che attraversa il nostro cuore, purificandolo e convertendolo, ritorna da dove è venuta, come la pioggia che scende dal cielo a bagnare la terra che a sua volta la restituisce al cielo in forma di vapore, di nubi e nuova pioggia. Lo descrive in modo impareggiabile il profeta Isaia:
«10Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, 11così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).
A) Studiare è sacrificio gradito
La Parola di Dio è l’alfabeto con cui parlare la lingua nuova della Presenza/Shekinàh di Dio e della fede in lui. Per gli Ebrei lo studio della Toràh dispensava sia dal lavoro che dall’osservanza dei precetti perché lo studio della Scrittura era paragonato ad un giogo impegnativo e pesante come insegna Rabbi Ne’hounia ben Hakàna che diceva: «A colui che accetta il giogo della legge, saranno risparmiati  il giogo del Regno ed il giogo delle preoccupazioni del mondo» (Pirqè Avòt/Massime dei Padri III,5). Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo, per scoraggiarlo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh (Talmud Babilonese, Berakòt 30b). Il giogo però indica anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh ed equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud Babilonese, Shabàt 127a). Gesù presenta il suo messaggio come «un giogo buono/facile [da portare] e leggero» (Mt 11,30).  Non solo, ma la tradizione giudaica va ancora oltre: lo studio della Toràh ha un valore espiatorio e sacrificale: «Colui che si dedica allo studio della Toràh è come se avesse offerto lui stesso un olocausto, una offerta o un sacrificio per la remissione della colpa» (Talmud Babilonese Menahòt 110a); oppure:  «Studiare la Toràh è più grande che salvare vite umane» (Talmud Babilonese Megillàh 16b).
B) Fare la corte a Dio
Non è sufficiente leggere la Bibbia, bisogna «re-stare» su di essa per cogliere la verità di noi e la verità di Dio: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli» (Gv 8,31) e «re-stare» vuol dire «stare saldamente ancorati» in virtù del rafforzativo «re-». Dalla lunga introduzione, i nostri lettori avranno compreso che leggere, pregare e accogliere la Parola di Dio è cosa seria ed esige tempo, intimità, fatica, pazienza. Accostarsi alla Bibbia non è leggere un racconto edificante per imparare qualcosa, ma educarsi ad un rapporto d’amore, frequentare una conoscenza d’intimità, imparare ad essere innamorati, apprendere a «fare la corte» a Dio, lasciandosi sedurre dalla Parola che è il Lògos, Gesù di Nàzaret, il Figlio del Padre (cf Ger 20,7).
Pregare stanca anche fisicamente perché lo studio impegna energie, volontà, sentimenti, fantasia, emozioni, anima e corpo. Alla Parola bisogna offrire il tempo più bello della giornata, mai gli scarti, perché è un rapporto di conoscenza e di amore che allarga il cuore ad un amore sempre più senza confini. Lo studio e la preghiera, infatti, non sono incontri fugaci di prostituzione, ma profondi aneliti d’amore vissuti in un dinamico e intimo contesto d’amore. Quando releghiamo Dio e la sua Parola ai margini del nostro tempo «per adempiere al nostro dovere», noi annulliamo il patto nuziale di alleanza, diventiamo mercenari interessati e mercanti di religione.
Il testo e la traduzione letterale
Leggiamo il testo del racconto di Cana nella duplice versione: quella della Cei (edizione 2008) e quella letterale che proponiamo noi:
Questo è il testo che, adesso, dopo la lunga e articolata introduzione, ci appare meno semplice e più armonioso di quanto non immaginassimo. A leggerlo lentamente e assaporandolo si ha la sensazione di entrare nel tessuto di una grande storia che non può essere solo un banale sposalizio anonimo: il cuore ci dice che diventiamo protagonisti di eventi cosmici che ci avvolgono nel passato per proiettarci nel futuro di un processo travolgente, dove Dio e noi camminiamo insieme e insieme viviamo una dimensione nuziale che ci apre alla relazione affettiva, fondamento di ogni relazione spirituale. Cana è il luogo del nostro sposalizio, cioè della nostra vita vissuta in chiave nuziale. Entriamo dunque nel villaggio e, seduti, al banchetto delle nozze, assaporiamo le parole del vangelo.
«E nel terzo giorno» (v. 1)
Sul «terzo giorno» abbiamo anticipato molte informazioni nella sesta puntata (luglio/agosto 2009) e nella settima (settembre 2009), in cui abbiamo cercato di collocare questa espressione nel contesto ampio di tutta la Scrittura e offrendo i motivi biblici e culturali che stanno dietro alla mentalità dell’autore. Abbiamo detto che nel «terzo giorno» della creazione vi sono due benedizioni di Dio che descrivono una doppia fecondità e quindi giorno ideale per celebrare le nozze secondo la tradizione giudaica. Le nozze di Dio con Israele avvengono ai piedi del Sinai «nel terzo giorno» che diventa così il giorno della Toràh, la dote che Dio porta alla sposa nel momento in cui «l’acquista» come sua corona e gloria. Al tempo di Gesù nel quarto giorno si riuniva il tribunale a cui si poteva fare immediato ricorso per il ripudio della sposa non trovata vergine e sposata il giorno prima, cioè «il terzo giorno».
A) Una scansione della salvezza
Abbiamo anche sottolineato che il tema del «terzo giorno» attraversa tutta la Scrittura sia del Primo che del Secondo Testamento: Abramo sacrifica Isacco, Giona è salvato dal pesce, Ester salva il suo popolo, Esdra ricostruisce il tempio. Per i profeti è il giorno della risurrezione, ma anche di condanna per gli atei che si fingono religiosi. Nel NT «terzo giorno» è espressione tecnica per indicare la resurrezione di Gesù, per cui possiamo dire che «il terzo giorno» ritma l’eternità di Dio e segna il tempo dell’uomo. Qual è il nostro «terzo giorno»? Un fatto è certo: nella nostra esistenza c’è un «terzo giorno» che segna la nostra identità e l’evento centrale che ha determinato la nostra vita. Se non prendiamo coscienza di esso e se non lo riconosciamo, noi viviamo come ubriachi che camminano a zonzo, senza una direzione e forse scambiamo i lampioni per punti di riferimento: parliamo a vuoto, mentre ci illudiamo di parlare con Dio.
B) Una formula teologica
L’espressione «E nel terzo giorno» è posta all’inizio del racconto e quindi, come si dice tecnicamente, in posizione «enfatica», cioè preminente, come se l’autore volesse che il lettore si rendesse subito conto che non si trova di fronte ad una nota cronologica, ma un evento teologico. Questa posizione di rilievo inoltre è un esplicito richiamo ai giorni precedenti, perché non si dà un «terzo giorno» senza riferirsi ai giorni precedenti che nel capitolo primo cominciano a descrivere una settimana, che è quella iniziale dell’attività di Gesù, presentata dall’evangelista come la settimana corrispondente a quella della Genesi, quando Dio «crea il cielo e la terra». Se mettiamo insieme il ritmo dei giorni descritti dall’autore scopriamo che il «terzo giorno» delle nozze di Cana corrisponde al «sesto giorno» della stessa settimana. Infatti, lo schema che propone il IV vangelo è il seguente:
1.  Gv 1,19-28: «Io non sono il Cristo»:                                 giorno uno della settimana
(Giovanni rende testimonianza e annuncia alla religione ufficiale il nuovo tempo)
2.  Gv 1,29-34: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): secondo giorno della settimana:
(Giovanni annuncia al mondo l’«Agnello di Dio»)
3.  Gv 1,35-42: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): terzo giorno della settimana:
(Un discepolo anonimo, Andrea e suo fratello Pietro sono chiamati da Gesù)
4.  Gv 1,43-51: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): quarto giorno della settimana
(Filippo e Natanaele sono chiamati da Gesù)
5.  Gv 2,1:   «E nel terzo giorno» (gr.: têi hēmèrai têi trìtēi): sesto giorno della settimana:
(Cana: rinnovo dell’alleanza del Sinai in chiave sposale)
6.  Gv 2,12: «Non molti giorni»
(gr.: oú pollàs hēemèras).
(Permanenza di Gesù, sua madre e i discepoli a Cafaao.)
C) Una nuova Genesi?
È evidente che Gv 1 e l’inizio di Gv 2 sono ritmati da questa scansione di giorni che convergono come alla loro foce naturale nel «terzo giorno» di Cana cui fa seguito l’osservazione redazionale che «rimasero non molti giorni» (Gv 2,12), che può essere letto come «un riposo» dopo la settimana impegnativa e di cui parleremo dopo per l’importanza del verbo. In questo modo avremmo uno schema settenario con sei giorni lavorativi e il settimo di riposo, costruito sul modello della settimana della Genesi, in cui per sei giorni Dio «Disse e opera» e, infine, si riposa al settimo. Il terzo giorno del nostro schema corrisponde al sesto giorno della settimana e non al settimo perché secondo il computo ebraico, il giorno si conta dalla fine di quello precedente, dal tramonto al tramonto. Su questo specifico aspetto della struttura settimanale, gli studiosi sono tutti d’accordo nel ritenere che Gv 1,19-2,12 è strutturato nello spazio di una settimana, ma moltissimi divergono nella divisione dei giorni: alcuni calcolano sei giorni, altri sette, altri otto e c’è anche chi ipotizza dieci giorni. Una minoranza di studiosi non ammette nemmeno lo schema settimanale perché secondo loro gli indizi sarebbero fragili. Noi tralasciamo queste discussioni che sono tecniche perché incomprensibili a chi non è addentro a sistemi di indagine esegetica complessa. Chi volesse però approfondire gli argomenti, può ricorrere ad un testo organico e completo di uno dei massimi esperti di Gv e specificamente del racconto di Cana a cui ha dedicato di fatto tutta la vita: Aristide Serra, Le nozze di Cana (Gv 2,1-12). Incidenze cristologico-mariane del primo “segno” di Gesù, Edizioni Messaggero, Padova 2009, pp. 560.
D) Dal «principio» primordiale al «principio»
         dell’incarnazione
A questo punto ci pare quasi ovvio dire che lo schema settimanale, all’interno del quale troviamo l’espressione «E nel terzo giorno», è uno schema teologico e non cronologico. Infatti il riferimento al racconto della creazione di Gen 1 non solo è lecito, ma è anche logico perché l’evangelista presenta l’attività di Gesù dentro uno schema settimanale per mettere in evidenza che è un’attività salvifica, una ripresa dei temi della creazione, anzi, con Gesù inizia «una creazione nuova » che trova nella «nuova alleanza» anticipata da Geremia (cf Ger 31,31) l’inizio del tempo escatologico che sia la Scrittura che la tradizione giudaica annunciano come il tempo del Messia. è anche da sottolineare che lo schema settimanale di Giovanni si apre allo stesso modo, della Genesi, con l’assoluto e solenne «In principio» che da un senso di eternità a tutto il racconto. «In principio» Dio pone mano alla creazione del cielo e della terra così come «In principio» il Lògos irrompe nel tempo della storia per farsi «carne», cioè fragilità e temporalità. In greco si trova  l’espressione «en archê» che è la traduzione con cui la LXX traduce l’ebraico «Bereshìt» di Gen 1,1. I primi cristiani usavano come Bibbia propria appunto la LXX che era quindi la loro Scrittura di riferimento per l’AT. Un altro elemento, o quanto meno un forte indizio, a cui abbiamo solo accennato, si trova nel verbo «rimasero» di Gv 2,12: dopo la settimana di Gv 1 e le nozze di Cana «nel terzo giorno» di Gv 2, Gesù, sua Madre e i discepoli si ritirano a Cafàao, dove «rimasero non molti giorni». Il verbo usato da Gv è «mènō – rimango/resto/sosto» e quindi «riposo», dove vi potrebbe essere un’eco dello «shabàt-riposo» di Dio creatore. In questo caso Gv presenta Gesù non più come la «Sapienza» che era accanto al creatore pronta ad eseguire i suoi ordini (Pr 24,1-13), ma come il «Lògos» eterno che presiede direttamente la nuova creazione che troverà il culmine nella redenzione, espressa e manifestata nella rivelazione della «gloria» che risplende sul mondo dal trono della croce. Il racconto di Cana è dunque sotto questo aspetto, una rilettura cristiana, un midràsh, della creazione di Genesi e, come abbiamo anticipato nelle puntate precedenti e come vedremo in seguito, anche e specialmente della liberazione dell’esodo e del dono della Toràh al monte Sinai.
[continua – 14]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (13) DAL TARGUM AL MIDRÀSH: ACQUA, SANGUE E VINO

Il racconto delle nozze di Cana (13)

«Tutte le acque del Nilo si mutarono in sangue» (Es 4,20).
Alle difficoltà interposte da Mosè, Yhwh pone tre «segni» (cf Es 4,9), di cui due sperimentati sul momento perché preparatori: il bastone che diventa serpente e la mano lebbrosa che guarisce (cf Es 4,2-8), mentre il terzo, che è il vero «segno», qui è solo annunciato, anzi minacciato: «Se non crederanno neppure a questi due segni (nel greco-Lxx: semêia) e non daranno ascolto alla tua voce, prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta» (Es 4,9). Si svela il mistero: l’acqua di Cana cambiata in vino è un esplicito richiamo (antìtipo) all’acqua del Nilo cambiata in sangue (tipo). Vedremo come questo segno sia determinante nella letteratura giudaica per capire il senso di quello che avverrà dopo. Ancora una volta, il rapporto «segno» di Dio e «incredulità/fede» di Mosè è messo in primo piano e bisogna capire cosa accade se si vuole scoprire il senso delle nozze di Cana che si rifanno all’alleanza del Sinai. Per cogliere la portata del racconto evangelico come midràsh è necessario partire da Es 4 e passare in rassegna i tre segni che Dio oppone all’incredulo Mosè.
1° Segno: il bastone
Il 1° segno che Dio oppone all’incredulità di Mosè che egli somma con quella degli schiavi del faraone, è il segno del bastone (Es 4,2-5) che in Oriente è l’insegna del potere, qui di Dio conferito a Mosè:
«1Mosè replicò dicendo: “Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce, ma diranno: ‘Non ti è apparso il Signore!’”. 2Il Signore gli disse: “Che cosa hai in mano?”. Rispose: “Un bastone”. 3Riprese: “Gettalo a terra!”. Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente, davanti al quale Mosè si mise a fuggire. 4Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano e prendilo per la coda!”. Stese la mano, lo prese e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. 5“Questo perché credano che ti è apparso il Signore, Dio dei loro padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”».
L’arte della magia e della trasformazione degli oggetti non deve sorprendere perché era un’attività molto diffusa in Oriente dall’Egitto a Babilonia: le corti abbondavano di maghi che dilettavano il sovrano o impressionavano il popolo con magie più o meno roboanti. In un certo senso, si potrebbe dire che era la tv del tempo. Nell’obiezione di Mosè l’autore usa tre verbi importanti «credere, ascoltare e vedere/apparire», facendo proprio il linguaggio della rivelazione di Dio. Il binomio «ascoltare/vedere» è proiettato verso il «credere» e provengono anche dalla relazione che ogni Ebreo ha con la Toràh che deve essere creduta, ascoltata e contemplata. La fede non è raziocinio, ma è visione e ascolto, cioè contemplazione ed esperienza che si consuma nell’incontro «fisico» tra il credente e il creduto. La fede cristiana parte dalla storia e arriva alla persona, anzi alla Shekinàh – Dimora/Presenza.
Il segno del bastone (1) è importante perché secondo la tradizione giudaica, esso finita la peregrinazione nel deserto, venne custodito prima nella tenda del convegno, dove era alloggiata l’arca e quando Salomone costruì il tempio sulle colline di Sion, stava nel Santo dei Santi, accanto all’arca dell’alleanza, insieme ad una bottiglia con l’acqua del Mare Rosso e un’altra con la manna. Erano i segni «visibili», i «sacramenti» degli interventi di Dio nell’atto fondativo del suo popolo Israele.
 2° Segno: la mano lebbrosa guarita
Il 2° segno che Dio, in un crescendo di intensità, oppone all’incredulità di Mosè è quello della mano che diventa lebbrosa: è un segno di conferma e di passaggio al terzo, il più importante:
«6Il Signore gli disse ancora: “Introduci la mano nel seno!”. Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: “Rimetti la mano nel seno!”. Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne. 8“Dunque se non ti credono e non danno retta alla voce del primo segno, crederanno alla voce del secondo!» (Es 4,6-8).
Anche in questo 2° segno è interessante notare come nel greco della Lxx per due volte si mettono in relazione la «fede» con il «segno» (Es 4,8). Quest’ultimo non suscita la fede, ma la svela. Al contrario della convinzione comune che vuole «il miracolo» come «prova» dell’azione di Dio o della fede. Questo modo di vedere le cose non è biblico perché la fede è figlia della Parola che instaura una relazione, e non un teorema che deve essere dimostrato. Come non si dimostra l’amore, così non si può dimostrare la fede.
3° Segno: l’acqua diventa sangue
Con il 3° segno si raggiunge l’apice del crescendo in tutta la sua gravità e drammaticità, qui solo annunciata perché «il segno» sarà operativo solo nel capitolo 7 dell’Esodo che a sua volta anticipa anche l’ultimo «colpo» che piegherà il faraone e tutto l’Egitto: la morte dei primogeniti egiziani nella notte di sangue, quando l’angelo del Signore segnerà con il sangue dell’agnello pasquale gli stipiti delle porte degli Ebrei e ucciderà i figli dell’Egitto: vita per gli uni, morte per gli altri (cf Es 12,29-34, spec. 21-24). Anche qui il rapporto è tra fede e segno, con una particolarità: qui il faraone e la sua corte non devono credere a Yhwh, ma a Mosè e alla sua voce che così viene identificato con la persona stessa di Dio (cf Es 4,9). È quello che farà anche Gv nelle nozze di Cana, dove non fa manifestare la «gloria di Dio», ma quella di Gesù.
Targum e Midràsh: il sangue dalla roccia
Del 1° e del 3° segno, anche combinati insieme, come il bastone che colpisce la roccia e ne fa scaturire sangue, si occupano sia il Targum  (traduzione in aramaico delle letture bibliche in ebraico) che il Midràsh (spiegazione della Scrittura con altri testi della Scrittura).
Il testo biblico di riferimento è il libro dei Numeri al capitolo 20 che è il seguente:
«6Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. 7Il Signore parlò a Mosè dicendo: 8“Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame”. 9Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 10Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: “Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?”. 11Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame. 12Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do”» (Nm 20,6-12).
Il Targum di Gerusalemme a Nm 20,8.11-12 (riportiamo solo i testi che ci interessano) così traduce, mettendo insieme sia la tradizione del bastone sia quella più tardiva della roccia:
«8Prendi il bastone, tu e tuo fratello Aronne. Voi due chiedete alla roccia per il grande Nome divino perché dia acqua davanti ai loro occhi. Se si rifiuta, tu solo, darai un colpo sopra la roccia con il bastone che tieni in mano. 11Mosè alzò la sua mano e colpì la roccia con il suo bastone; la prima volta fece sgorgare sangue, mentre la seconda volta uscì acqua in abbondanza e la comunità potette bere insieme al suo bestiame. 12Yhwh disse a Mosè e ad Aronne: “Giuro: poiché non avete creduto alle mie parole per santificarmi davanti …”».
Adam sempre in agguato
Il Targum di Gerusalemme e anche il Midràsh (Esodo Rabbà a Es 4, 9) dunque mettono in evidenza il binomio fede/non fede di Mosè e Aronne: mentre Dio ordina di colpire «una sola volta» la roccia con il bastone di Dio, Mosè invece colpisce «due volte» la roccia. La prima volta sgorga sangue, e l’acqua la seconda volta. Troviamo anche qui il nesso tra acqua – sangue – fede – non fede; allo stesso modo nelle nozze di Cana troviamo il rapporto tra acqua – vino – fede (della madre e dei servitori) – non fede dell’architriclino. Il Midràsh (a Es 4, 1) aggiunge un paragone: Mosè è paragonato al serpente dell’Eden che insinua in Adam il dubbio malvagio (la gelosia) nei confronti del Creatore; Mosè invece cerca di insinuare in Dio stesso il dubbio sulla fede degli Israeliti oppressi: egli calunnia il popolo di Dio e quindi non santifica il suo Nome:
«Dovresti essere colpito con il bastone che tieni in mano perché hai calunniato i miei figli che invece sono credenti, come sta scritto: “Allora il popolo credette” (Es 4,31); essi infatti sono figli di credenti come sta scritto: “Egli [Abramo] credette al Signore” (Gen 15,6). Mosè agì come il serpente che calunniò il Creatore, quando disse: “Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5). Mosè quindi sarà punito allo stesso modo del serpente che attribuì a Dio una intenzione malvagia agli occhi della prima coppia» (Midràsh, Esodo Rabbà a Es 4,1).
Dal bastone del potere alla Parola dello Sposo
Nelle nozze di Cana non c’è più Mosè con il bastone, simbolo del potere, e non c’è neanche l’intenzione di dubitare, ma vi è una realtà nuova, foriera di una grande novità: c’è l’Israele fedele che aspetta la redenzione, simboleggiata dalla madre, c’è l’Israele incredulo simboleggiato dall’architriclino e dallo sposo ignaro, c’è la disponibilità a cominciare a credere della nuova umanità simboleggiata dagli apostoli, convitati anch’essi alle nozze; ma soprattutto c’è lui, lo Sposo nascosto, che aspetta l’ora della sua Gloria, ma che è costretto dal bisogno del mondo ad anticiparla. L’acqua non si cambia in sangue minaccioso di morte, ma nel vino dell’allegria nel contesto della gioia nuziale. Il nuovo Mosè non deve battere le anfore di pietra con il bastone del potere,  ma è sufficiente una sua Parola, perché lo Sposo della nuova alleanza agisce come il Creatore: opera attraverso la Parola. Egli parla e così avviene.
È evidente che lo schema teologico dell’Esodo fa da sfondo al racconto giovanneo che ancora una volta s’interroga e interroga sul mistero della personalità di Gesù, che diventa così la chiave ermeneutica per rileggere gli eventi antichi e scoprie i sensi nascosti che portano in sé. Gesù non è venuto a soppiantare Israele perché egli è immerso nella storia e nella fede del suo popolo e ciò che compie e dice e insegna non è una sostituzione di ciò che lo precede, ma la ricchezza abbondante nascosta e portata alla luce perché il mondo intero potesse «vedere la Gloria e cominciare a credere».
Principio e compimento
L’acqua e il vino, sullo sfondo dell’acqua del Nilo che diventa sangue, acquista anche un altro simbolismo perché anticipa il valore sacramentale della morte di Gesù alla fine del vangelo, costituendo così una particolare inclusione o richiamo non solo verbale, ma tematico, passando per la consapevolezza di Gesù che, prima della lavanda dei piedi dei suoi discepoli (Gv 13,1-38), «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). L’espressione «fino alla fine» in greco si dice «eis tèlos» che raggiunge il suo apice nel momento della morte, quando Gesù prima di consegnare il suo Spirito alla nuova umanità, rappresentata dal discepolo e dalla madre, dice: «È compiuto!» (Gv 19,30), espressione che in greco ha la forma verbale del perfetto, quindi dell’azione passata i cui effetti continuano nel presente: «tetèlestai» che deriva dal verbo «telèō – io compio/porto a compimento/concludo» e da cui deriva il sostantivo «tèlos – fine». In questo modo si passa dall’«archê – principio» del prologo (Gv 1,1) e delle nozze di Cana (Gv 2,11) al «compimento» che si realizza nel servizio ai discepoli/umanità e alla «pienezza dell’ora» che si realizza nella morte di Gesù (Gv 19,30): il «principio dei segni» che avviene a Cana trova il suo compimento e il suo riposo ai piedi della croce, quando tutto «è compiuto».
Ora possono cominciare le nozze della risurrezione perché l’umanità insieme ad Israele possono correre verso lo Sposo–roccia che disseta la fame di vita perché «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). Nel racconto dell’esodo come anche nel Targum e nel Midràsh è Mosè a colpire con il bastone la roccia da cui scaturisce acqua e sangue, mentre sul Calvario è un pagano (un soldato romano) che colpisce il fianco di Dio, il quale inonda della sua grazia l’umanità intera, rappresentata dai quattro soldati romani/pagani e dalle quattro donne ebree/credenti, uomini e donne (cf Gv 19, 23-27).
Nell’AT il fatto centrale degli eventi era segnato dalla mancanza di fede del faraone e di Mosè che cerca di coinvolgere anche il popolo che ancora non conosce; nel NT inizia e cammina l’avventura della fede che comincia e finisce nella persona di Gesù di Nazaret, figlio della madre/Israele e figlio di Dio/Padre.
Con l’apertura del costato di Cristo si ritorna all’Esodo e all’acqua del Nilo mutata in sangue, con una differenza: l’acqua del Nilo insanguinata è presagio di morte, mentre la morte di Dio fa scaturire dal suo costato le sorgenti dell’acqua e del sangue dei sacramenti che come fiumi di grazia alimentano la vita che cammina verso il regno. La Storia della salvezza comincia nel «segno dell’acqua e del sangue» per la morte e si conclude nel «segno» sacramentale dell’acqua e del sangue per la risurrezione. Tra questi due estremi si colloca il racconto delle nozze di Cana che da un lato richiama e riprende il «segno» dell’esodo e dall’altro prefigura e anticipa il dono di Dio nel «segno» della morte che innaffia la vita con l’acqua e il sangue del corpo di Cristo. Ora, sì, si compie il desiderio dell’Apocalisse: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).
 [continua – 13]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (12) Un Dio «straniero» abolisce i confini

Il racconto delle nozze di Cana (12)

«Manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui» (Gv 2,11).
Abbiamo riflettuto a lungo sul significato del vino e le sue implicanze, e, senza esaurie la simbologia e i testi, ne abbiamo esaminato i più importanti. Facciamo un passo avanti proponendo l’ipotesi che il racconto dello sposalizio di Cana possa essere un midràsh cristiano della liberazione dalla schiavitù d’Egitto che, passando attraverso «i colpi» (le piaghe) e la peregrinazione nel deserto, trova nel Sinai il proprio fondamento e culmine. All’interno di questa prospettiva, possiamo dare alcune indicazioni ulteriori che ci aiutino a vedere sempre più profondamente Cana in rapporto con il Sinai, mettendo in evidenza analogie e confronti che di primo acchito non sono evidenti.
Nel «segno» di un Dio diverso
Nella mentalità e nella intenzione dell’evangelista, l’evento di Cana è connesso con la 1a delle dieci piaghe con cui Dio ha spezzato la resistenza del faraone perché liberasse Israele dalla schiavitù. La parola «piaga», in ebraico «negà‘» e in greco «plēghê», nel libro dell’Esodo è usata solo per il decimo colpo che convincerà definitivamente il faraone: l’uccisione dei primogeniti (cf Es 11,1). Per i primi nove fatti, descritti nei capitoli 7-10 del libro dell’esodo, l’ebraico usa sempre il termine «’ot» che il greco della Lxx traduce sempre con «sēmeîon» (cf Es 4,8-9.30; 7,9), lo stesso che usa Giovanni per definire lo sposalizio di Cana (cf Gv 1,11). Non si tratta come banalmente si dice di «miracoli» nel senso moderno del termine, ma di «segni» che devono accreditare il Dio di Mosè presso gli Israeliti schiavi e presso il faraone che è invitato a riconoscere la «potenza» del nuovo Dio.
Non entriamo nel merito della formazione del testo del racconto dell’esodo che è la confluenza di diverse tradizioni con riflessioni di natura teologica, scritte in epoca tardiva, ma proiettate in epoca antica da un redattore che sta riflettendo sulla «teologia della storia». Sarebbe inutile, oltre che stupido, volere cercare la spiegazione di questi «segni» in prodigi astronomici o con le scienze naturali, perché si tratta di fenomeni naturali, all’epoca conosciuti, riletti in modo iperbolico per fare risplendere davanti agli Israeliti e al faraone l’onnipotenza del Dio straniero Yhwh che vanta diritti anche dentro i confini dell’Egitto.
Nel 2° millennio a. C. la concezione della divinità era quella del «dio territoriale»: una divinità cioè non aveva poteri fuori dei confini di sua competenza. La divinità è legata alla terra, gli dèi egiziani erano impotenti in Babilonia e quelli di Assiria nulla potevano in terra di Canaan. Il loro sconfinamento era affidato alla guerra: se un popolo vinceva su un altro popolo, gli dèi di questi si sottomettevano a quelli del vincitore. Due esempi classici di «divinità territoriale» si trovano nel ciclo delle gesta di Eliseo: la donna di Zarèpta (Libano meridionale) crede in un Dio straniero annunciato da un profeta straniero che viene da oltre confine e ne riceve il beneficio della farina e dell’olio (cf 1Re 17,10-16); l’altro esempio è Nàaman, capo dell’esercito siriano, affetto da lebbra. Egli va da Eliseo che lo guarisce. Prima di ritornare al suo paese, egli chiede al profeta di potersi portare un po’ di terra d’Israele, quanta ne possono trasportare due muli. Giunto al suo paese, per potere ringraziare il Dio d’Israele che lo ha guarito, è sufficiente che salga su di essa per ritrovarsi «realmente» sulla terra d’Israele (2Re 5,1-27; Lc 4,27). Pregare su quella terra aveva, quindi, lo stesso valore che essere in Israele (è lo stesso principio che sta alla base del tappeto di preghiera dei Musulmani).
Il «segno» non è miracolo
In questo contesto, è evidente che lo scopo dei «segni» operati da Mosè è rivelare agli Israeliti e al faraone che il Dio straniero rappresentato da Mosè non conosce confini, ma è libero di agire nel deserto, nella terra di Madian quanto in Egitto. Allo stesso modo «il segno» di Cana ha lo scopo di «manifestare la gloria di Gesù», cioè la novità del suo messaggio: il Dio che egli annuncia è un Dio non straniero, ma lo Sposo che chiama alle nozze dell’alleanza l’umanità intera qui rappresentata dai discepoli che sono i garanti del «segno» di Cana di Galilea. Il rapporto con l’esodo non è solo letterario, ma riguarda anche il contenuto. Già in Es 4,9, Yhwh preannuncia che Mosè dovrà cambiare l’acqua del Nilo in «sangue» come avverrà con il 1° segno: «Con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sangue … Tutte le acque del Nilo si mutarono in sangue» (Es 7,14-24, qui 17.20). Accennare soltanto al nesso che può intercorrere tra l’acqua cambiata in vino a Cana e l’acqua cambiata in sangue in Egitto, ci fa immediatamente comprendere la portata del racconto evangelico che travalica il fatto dello sposalizio che è un semplice «accidente» di contorno.
Il parallelo più volte sottolineato tra Sinai e Cana è un dato di fatto che balza agli occhi: da una parte la Toràh rivelata e dall’altra la Gloria manifestata; al Sinai è Yhwh che parla, a Cana è il Lògos che si rivela; nell’uno e nell’altro caso domina il tema dell’alleanza in chiave nuziale. Anche il confronto «tipologico» tra Mosè e Gesù è un elemento acquisito e quasi una costante nei vangeli e specialmente in Gv che lo impone fin dal «prologo» come parametro costitutivo: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia della verità fu data per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17). Abbiamo tradotto «la grazia della verità» e non «la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Bibbia-Cei 2008) per coerenza con Gv 1,14: «E noi vedemmo la sua gloria,  gloria come di unigenito dal Padre, pieno [della] grazia della verità», dove i due termini ricorrono insieme e nell’uno e nell’altro caso sono una endiadi (1) di rafforzamento.
Da Mosè alla pienezza della verità
Al Sinai fu data «la Legge», ora a Cana è data «la grazia della verità» cioè la pienezza della rivelazione che «venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Per Paolo la Legge aveva l’obiettivo di guidare alla fede, dunque è nell’ordine dei mezzi, come la Chiesa, come i sacramenti. Per questo motivo l’apostolo la paragona ad un «pedagogo» che ha il compito di accompagnare il discepolo nel cammino di maturazione e di crescita: «Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede» (Gal 3,24-25; cf 1Cor 4,15). Ora che è arrivata «la pienezza della verità», si apre la «cella del vino» che è il monte Sinai e inizia la festa delle nozze del Lògos. La figura di Mosè come anticipazione (tipo) di Cristo (antìtipo) è importante nel IV vangelo(2).
Gv infatti lo cita 13 volte (Gv 1,17.45; 3,14; 5, 45.46; 6,32; 7,19.22 [2x].23; 8,5; 9,28.29), ma solo nella prima parte, nel «libro dei segni» e mai nella seconda parte: «il libro dell’ora» che è quella della rivelazione definitiva, della «epifania della grazia per grazia» (Gv 1,14), il cui culmine e fondamento è la morte-risurrezione di Gesù. Interessante la nota che Mosè compare solo nel «libro dei segni», come a dire che egli è nell’ordine del provvisorio e il suo compito è funzionale al profeta che verrà dopo di lui (cf Dt 18,15.18; At 3,22; 7,37). Anche dall’uso del nome e della sua distribuzione nel testo, concludiamo che Mosè apparteneva alla dimensione del mondo finito, dei «segni», ed era proteso verso il suo naturale compimento: «Il Lògos-Sarx/Cae/Fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Qui è il vertice di tutta la rivelazione.
Con la sua presenza a Cana, Gesù non rivela solo la «sua Gloria», ma svela anche il ruolo e l’importanza di Mosè nel disegno di Dio che trova nel Sinai il suo fulcro e la sua chiave di lettura: senza Gesù (antìtipo) anche Mosè (tipo) sarebbe sminuito nella sua importanza. Si potrebbe dire che il fatto di Cana è l’evento-cerniera che per Giovanni evangelista salda il cammino dell’AT con quello del NT: l’uno senza l’altro non può sussistere e l’uno diventa il senso o quanto meno il fondamento di senso dell’altro. In questo sta il principio che la Scrittura deve essere letta tutta nel suo contesto globale perché è una storia «unica» che si snoda in molte tappe e che ancora non è finita.
Principio o inizio?
Siamo convinti che il racconto dello sposalizio di Cana con il Vino che fa da protagonista d’eccellenza, sia un midràsh di tutto il racconto dell’esodo. Per capire meglio il testo del vangelo nel contesto di tutta la Bibbia, esamineremo il testo biblico, la versione della Lxx, il targum e infine il midràsh che costituiscono il materiale e l’ambiente dove nasce, si forma e si sviluppa il NT, in modo particolare il vangelo. è evidente che Gv non prende ogni singolo fatto, ma si riferisce ad alcuni di essi che diventano così emblematici e quindi tipologici. L’obiettivo a cui tende il racconto è Gv 2,11: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Così almeno la traduzione corrente, anche dell’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008), che nella nota al versetto spiega: «[Gv] 2,11 Questo … fu l’inizio dei segni»: non solo il primo dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria) di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose (che Gv preferisce chiamare segni)». Non fu solo il primo segno, ma un «modello».
Secondo noi, mantenendo l’uniformità con il prologo, Gv 2,11 non deve essere tradotto con «inizio dei segni», perché si darebbe una connotazione temporale che l’autore esclude volutamente, ma si deve tradurre così: «Questo principio dei segni fece Gesù in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui». L’evangelista, infatti, usa il termine «archê» che in Gv 1,1 tutte le Bibbie traducono correttamente con «In principio» e non si capisce perché la stessa parola qui debba essere tradotta con «inizio» dandovi una connotazione temporale, mentre in Gv 1,1 deve essere tradotta con «principio» che invece ha una valenza fondativa, cioè di senso profondo. Inoltre la frase «i suoi discepoli cedettero in lui» per noi ha un valore non compiuto, ma ingressivo perché comincia a svilupparsi, lasciando davanti a sé uno spazio per una maggiore maturazione che, secondo noi, avverrà dopo la morte/risurrezione di Gesù con l’opera del Paràcleto (cf Gv 14,26). La traduzione più consona è dunque: «I suoi discepoli cominciarono a credere a lui», cioè mettono in moto un’attitudine verso Gesù, perché la fede non è un atto acquisito una volta per tutte, ma un processo, un cammino, una maturazione.  
Dalla non-fede a «cominciarono a credere»
Il riferimento alla fede iniziale dei discepoli non è una nota folcloristica o ascetica, ma un preciso commento teologico che Gv mette in relazione con il «principio» della fede incipiente dei discepoli. Si crea così un confronto aperto tra esso e Mosè che invece è nella esperienza del roveto ardente si mostra uomo «di poca fede», cercando di svignarsela opponendo ostacoli motivati forse dalla paura (Es 3,1-15). Al «segno» (sēmêion) che Dio dà dal roveto, l’arrivo cioè al monte Sinai (cf Es 3,12), Mosè risponde con una obiezione d’incredulità: mi chiederanno chi mi manda, non si fideranno (cf Es 3,13) che diventa certezza di rifiuto, anzi opposizione dichiarata. A Dio che garantisce «ascolteranno la tua voce» (Es 3,18), Mosè risponde coinvolgendo nella sua incredulità coloro che nemmeno conosce e attribuendo loro la certezza della non-fede, ipotecando la loro fede. Egli cioè, attribuisce agli assenti atteggiamenti e sentimenti di cui lui non può disporre: «non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce» (Es 4,1). Mosè non vuole nemmeno «cominciare» a credere perché l’obiezione è una scusa per esimersi dalla sua missione. Qui è il dramma: Mosè estende la sua non-fede agli assenti. Alla fine, dopo una lunga intervista e contrattazione con Dio (cf Es 3,13-4,1), Mosè accetta il compito di tornare in Egitto a liberare gli schiavi, ma pagherà amaramente, come vedremo, questa sua incredulità.
A Cana invece, i discepoli videro la «Gloria» e «cominciarono a credere», come anche l’atteggiamento della Madre, simbolo del popolo d’Israele credente e in attesa di Dio, che si abbandona con fiducia alla parola del Figlio, nonostante la sua resistenza: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Da una parte l’incredulo Mosè che trascina nell’incredulità anche coloro che dovrebbe liberare e dall’altra la fede senza riserve della Madre-Israele e dei discepoli-Umanità. Vi è la contrapposizione di fede/non fede che nel Prologo viene individuata nel binomio luce/tenebra (cf Gv 1,5.9.11). Dio si era impegnato in prima persona con parole che avrebbero dovuto smuovere qualsiasi dubbio: la liberazione degli schiavi d’Egitto è «già avvenuta», è scontata. L’autore, infatti, mette in evidenza che Dio non è ancora intervenuto e usa i verbi del suo agire al passato [tranne il terzo], come se fossero già conclusi: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,8). Anche a Cana è Dio stesso che è convocato alle nozze: «Fu invitato alle nozze anche Gesù» (Gv 2,2) che è una annotazione strana e superflua nel contesto di un matrimonio in Palestina, a cui partecipa tutto il villaggio con parenti e amici. L’evangelista poteva/doveva omettere questa indicazione dell’invito, a meno che non avesse avuto una ragione nascosta per sottolineare la «presenza» di Gesù che non è casuale; come se dicesse che Gesù doveva e voleva andare alle nozze perché in quello scenario di sottofondo avrebbe cominciato a svelare qualcosa della sua personalità e della sua gloria, cioè della sua divinità. – [continua – 12 ]

Di Paolo Farinella

Note

(1) Endiadi
Dal Greco «hèn – una cosa / dià – per mezzo / dyòin – due», endiadi è una figura retorica con cui si esprime un concetto attraverso due o più parole: in questo caso «grazia e verità» sta per «grazia della verità» e riguarda la «rivelazione» nuova, fatta da Gesù. Mosè è legato all’alleanza del Sinai che conduce alla rivelazione definitiva del Lògos in Gesù di Nazaret (su queste questioni e temi cf F. Manns, L’Evangile de Jean, 29-30 e relativa bibliografia; v. inoltre M.-E. Boismard, Moïse ou Jésus, essai de christologie johannique, Leuven 1988, 22-46).
(2) Il Confronto tipologico
Si chiama «tipo» una figura o un personaggio o  un fatto precedente che anticipa una figura o un personaggio o un fatto successivo che invece viene chiamato «antìtipo» dal greco «antìtypon – cosa che accade dopo». Nell’esegesi biblica, un fatto del NT è «antìtipo» di un analogo fatto dell’AT o «tipo» che ne aveva dato l’anticipazione profetica: es. Gesù nel sepolcro per tre giorni è «antìtipo» di Giona che resta tre giorni nel ventre della balena e che è quindi  il «tipo». L’arca di Noè è il «tipo» del battesimo che è l’«antìtipo» (cf 1Pt 3,20-21).

Paolo Farinella




Nucleare? Di nuovo «NO grazie»

Esiste un nucleare sicuro? (prima puntata)

Come accaduto per gli inceneritori, anche per il nucleare è partita la grancassa mediatica per farli accettare senza se e senza ma. Chi è «contro», viene demonizzato. Nel nostro piccolo, noi torniamo a ribadire che i pericoli per la salute rimangono eccessivi. Senza dimenticare che il conto inevitabile – legato all’estrazione dell’uranio e allo smaltimento delle scorie – potrebbe essere pagato dal Sud del mondo. Perché l’energia nucleare è «pulita» da noi, ma «sporca» nelle case dei più deboli. Come storia insegna.

Il 10 febbraio 2010 il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo, che disciplina la localizzazione, la realizzazione e l’esercizio delle centrali nucleari per la produzione di energia elettrica in Italia. Questo decreto è stato approvato senza tenere  in considerazione il risultato del referendum dell’8 novembre 1987, in cui il 70% degli italiani si espresse contro il nucleare.
Pochi giorni dopo, negli Stati Uniti, il presidente Obama ha approvato un prestito di 8 miliardi di dollari, per finanziare la costruzione sul territorio statunitense della prima centrale nucleare dopo 30 anni dall’ultima, costruita in Georgia nel 1979. Anche questo nuovo impianto dovrebbe essere realizzato in Georgia, a Burke. La finanziaria di Obama mette a disposizione del nucleare 36 miliardi di dollari, che vanno ad aggiungersi ad altri 18,5, già in bilancio, ma ancora da spendere, per un totale di 54,4 miliardi di dollari, il che significa, considerando che la costruzione di una centrale nucleare costa circa 8-10 miliardi di dollari, che ci sono fondi a sufficienza per costruire 6 o 7 nuove centrali nucleari. Secondo la Southe Co., la società che costruirà l’impianto in Georgia, la realizzazione di quest’ultimo darà lavoro a 3.000 persone, in fase di costruzione e ad 800 in modo permanente. L’impianto foirà elettricità a 1,4 milioni di abitanti, che andrà ad aggiungersi a quella prodotta dai 104 impianti già esistenti in Usa, i quali producono il 20% dell’energia totale consumata ed il 70% di quella considerata «pulita». I sostenitori del nucleare, e tra questi lo stesso presidente Obama, infatti, considerano l’energia nucleare «pulita e sicura», al pari dell’eolica, della fotovoltaica e della geotermica. Ma è proprio così?

Effettivamente la produzione di energia nucleare non determina un aumento dei gas serra climalteranti, quindi in questo senso tale energia può essere definita «pulita». Se, però, consideriamo cosa accade nelle zone dove sono presenti ricchi giacimenti di uranio, il principale materiale utilizzato come combustibile (una volta arricchito) per le centrali elettronucleari, oppure consideriamo il problema delle scorie nucleari, ci rendiamo conto allora che definire pulita questa energia è un grave errore.
A proposito dei giacimenti d’uranio, è inquietante quanto è capitato in Niger, o nella terra dei navajo nel New Messico. In Niger, nel 2007, sono stati riscontrati livelli di radioattività fino a 100 volte superiori rispetto alla radiazione di fondo nel villaggio di Akokan, dove sorgono due miniere di uranio, gestite da società affiliate di Areva, la compagnia nucleare francese, che dovrebbe occuparsi anche della costruzione e della gestione delle centrali elettronucleari italiane. Nel 2008, l’Areva ha sostenuto di avere bonificato la zona, sotto la supervisione delle autorità nigerine (Niger Department of Mines, Ministero delle miniere del Niger).
Nel novembre 2009 è stata effettuata una spedizione di Greenpeace, con il supporto del laboratorio indipendente francese Criirad e della rete di associazioni locali Rotab (Réseau des Organisationes pour le Transparence et l’Analyse Budgetaire) e sono stati visitati sia le miniere, che i villaggi vicini. Nel dossier di Greenpeace si legge che nel villaggio di Akokan sono stati rilevati livelli di radioattività fino a 500 volte superiori, rispetto al livello di fondo, anche negli stessi punti bonificati da Areva. La contaminazione sarebbe dovuta all’idea di Areva di utilizzare gli scarti delle miniere di uranio, per costruire le strade dei villaggi, un sistema per fare sparire le scorie radioattive.
In Nord America, nel New Messico, le cose non vanno meglio. Secondo l’editoriale del 12 febbraio 2008 del New York Times, nella terra dei navajo permangono tuttora 520 siti di miniere di uranio dismesse ed abbandonate, dopo decine di anni di escavazione (sono state estratte 4 milioni di tonnellate di uranio) per procurare il materiale necessario per le armi della guerra fredda e per la produzione di energia. Restano inoltre 4 siti di lavorazione dell’uranio ed una discarica. Ancora oggi si trovano enormi mucchi di minerali di scarto, che franano. Le miniere aperte percolano pioggia contaminata nell’acqua potabile, mentre il vento solleva polvere radioattiva. In questa terra, le case sono state costruite con gli avanzi delle escavazioni.
Nel 1979, a sud della riserva, si verificò un disastro, allorquando le scorie della lavorazione dell’uranio defluirono nelle acque del fiume Puerco, che i nativi sfruttano per abbeverare il bestiame e per l’irrigazione. Il risultato di tutto ciò sono migliaia di casi di cancro nella popolazione locale ed un’età media scesa a 43 anni. E pensare che i navajo erano in passato una delle popolazioni più longeve d’America. Naturalmente le compagnie minerarie non si sono mai assunte le loro responsabilità e non hanno mai provveduto ad alcuna bonifica. Ed ora cosa succede? Il New York Times riporta che l’industria nucleare americana intende riprendere a scavare l’uranio in questi territori ed una compagnia mineraria ha già richiesto i permessi necessari per una nuova miniera in terra navajo. Le comunità navajo, in particolare quelle di Crowpoints e di Church Rock, hanno intrapreso un’azione legale contro la NRC (Nuclear Regulatory Commission), che ha autorizzato l’apertura della miniera. Il loro grido di battaglia è ora «leetso doo’da», che vuole dire «no all’uranio».

Un altro grave problema è rappresentato dallo smaltimento e dallo stoccaggio delle scorie nucleari. Secondo i dati dell’Inteational Nuclear Societes Council (INSC), ogni anno l’industria nucleare mondiale produce un volume di circa 270.000 metri cubi di scorie tra bassa, media ed alta radioattività. Si tratta di un volume abbastanza insignificante, dal punto di vista quantitativo (una centrale elettrica a carbone da 1.000 megawatt produce annualmente 400.000 metri cubi di ceneri), ma molto pericoloso dal punto di vista della radioattività. In queste scorie si trovano infatti sostanze estremamente pericolose. In particolare, quelle ad alta radioattività, rappresentate dal combustibile esausto delle centrali nucleari e dal materiale proveniente dalle centrali dismesse, contengono in media il 94% di uranio 238, l’1% di uranio 235, l’1% di plutonio, lo 0,1% di attinidi minori (nettunio, americio e curio) e 3-4% di prodotti di fissione.
Queste sostanze impiegano fino a centinaia di migliaia di anni, prima di diventare stabili. Come devono essere trattate, per essere messe in sicurezza? Queste sostanze devono essere ridotte di volume (trattamento), immobilizzate in idonei contenitori, resistenti dal punto di vista chimico, fisico e meccanico (condizionamento), stoccate temporaneamente per qualche decina di anni, in modo che si abbatta l’emissione di calore, per progressivo decadimento ed infine allocate in un sito nazionale centralizzato, per lo smaltimento definitivo. Non sempre, però, le cose vanno così.
I servizi segreti bosniaci – ad esempio – hanno scoperto un traffico di scorie e di materiali radioattivi organizzato dalle truppe francesi appartenenti alla missione di pace Nato in Bosnia-Erzegovina. Secondo il quotidiano crornato Veceji list, durante le missioni di pace Ifor/Sfor della Nato (1), grandi quantità di rifiuti radioattivi dell’industria nucleare francese sono state portate in Bosnia e gettate in tre laghi della Erzegovina, cioè i laghi Busko, Ramsko e Jablanicko. Questa attività è andata avanti per anni. In Erzegovina fu attivata un’unità speciale dell’esercito francese, interamente costituita da soldati maori provenienti dalla Polinesia francese e dalla Nuova Zelanda, con il compito di smaltire i rifiuti radioattivi. Secondo le testimonianze dell’intelligence bosniaca, tali rifiuti vennero cementati e gettati nei laghi con degli elicotteri.
Come possiamo vedere, da questi esempi, l’energia nucleare è «pulita» a casa nostra, ma «sporca» a casa degli altri, cioè nei paesi del Sud del mondo. È un po’ come quando si nasconde la sporcizia sotto il tappeto: tutto appare pulito, ma la sporcizia c’è, nascosta.

La difficoltà di trovare un sito per lo smaltimento definitivo delle scorie nucleari è un problema di non poco conto in ogni parte del mondo. In Italia, nel 2003 era stato individuato come possibile sito il comune di Scanzano Ionico, la cui popolazione si è immediatamente ribellata, per cui tuttora non si sa dove smaltire tali scorie.
Negli Usa è ancora ben lontano dall’essere realizzato il progetto, costato già 8 miliardi di dollari per gli studi preliminari del terreno, di realizzare un deposito permanente sotto il Yucca Mountain, nel Nevada meridionale, 160 chilometri a nord ovest di Las Vegas. Questo progetto prevede la costruzione di un deposito sotterraneo capace di immagazzinare 77.000 tonnellate di scorie radioattive per 10.000 anni, dal costo stimato di oltre 60 miliardi di dollari. Per il trasporto delle scorie in questo sito dovrebbero essere impiegati 4.600 fra treni ed autocarri, che percorreranno migliaia di chilometri, attraverso 44 stati (essendo le scorie attualmente dislocate in 131 depositi temporanei situati in 39 stati), con a bordo materiale estremamente pericoloso. Il solo fatto che si preveda un tempo di immagazzinamento di 10.000 anni per le scorie ad alta radioattività, cioè quelle che possono rimanere radioattive anche per 250.000 anni ed oltre, rende del tutto inadeguata questa struttura.
C’è poi il problema dell’umidità, che, per quanto modesta in questa zona, a lungo andare può determinare la corrosione dei contenitori del materiale radioattivo, permettendone la dispersione nelle falde acquifere. La difficoltà di individuare i siti adatti per depositi permanenti di materiale radioattivo è legata allo sviluppo di enormi quantità di calore, da parte di tale materiale, che potrebbe reagire con i materiali circostanti, provocando la formazione di idrogeno, altamente incendiabile ed esplosivo.
È inoltre indispensabile che il territorio ospitante non sia soggetto a movimenti tellurici. Infine, è indispensabile una sorveglianza permanente, da parte dell’esercito, per scongiurare eventuali attacchi a tali siti, il che comporta una militarizzazione delle zone interessate.

C’è da chiedersi cosa intendano i suoi sostenitori, definendo l’energia nucleare «pulita e sicura», con problemi come quelli appena accennati, al momento del tutto irrisolti. Soprattutto c’è da chiedersi come si possa definire «sicura» questa tecnologia, dopo la catastrofe avvenuta il 18 aprile 1986 a Cheobyl, che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di morte, dovuta all’insorgenza, nelle popolazioni colpite, di vari tipi di tumori e di leucemie, nonché di malattie degli apparati respiratorio, digestivo, circolatorio, del sistema endocrino e di quello immunitario, a cui si sono aggiunte gravissime patologie del sistema riproduttivo, che hanno portato ad infertilità, impotenza maschile, aborti spontanei, complicazioni della gravidanza (pre-eclampsia, distacco della placenta e anemia), nonché inibizione dello sviluppo fetale. L’incidente di Ceobyl fu la conseguenza di un mix di errori umani, compiuti durante un’esercitazione condotta senza criterio, unitamente alla tipologia dei reattori di vecchio tipo e pericolosi. Tuttavia, questo è solo il più noto e catastrofico degli incidenti finora occorsi a delle centrali nucleari, ma certamente non l’unico.
Nel 1979 a Three Mile Island, negli Usa, si arrivò quasi alla fusione del nocciolo, mentre nel 1999 un incidente analogo interessò la centrale giapponese di Tokaimura e nel 2007 vi fu uno sversamento di liquidi radioattivi in un’altra centrale giapponese, quella di Kashiwazaki Kariva, una delle più grandi e modee del mondo. Come si fa a parlare di impianti sicuri, specialmente considerando che il loro funzionamento è controllato da uomini e noi sappiamo bene che l’errore umano è sempre possibile? Come si può ben vedere, il ritorno al nucleare, ben lungi dal risolvere i problemi energetici dell’umanità (2), rischia di creare enormi problemi di sicurezza e di aumentare ancora di più il divario tra il Nord del mondo, che fruisce dell’energia ed il Sud del mondo, dove le scorie radioattive possono essere portate con qualche missione di «pace». 
(Fine prima puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Glossario
Le parole del nucleare

Attinidi: sono un gruppo di 14 elementi chimici radioattivi, con numero atomico compreso tra 89 e 103. Partendo dal capostipite attinio, la serie, in ordine di numero atomico crescente, comprende i radioattivi naturali: torio, pro-attinio, uranio ed i radioattivi artificiali, detti «transuranici» (nettunio, plutonio, americio, curio, berkelio, califoio, einstenio, fermio, mendelevio, nobelio e laurenzio).

Fissione: reazione consistente nella frammentazione di un atomo in due di massa più piccola, a seguito della collisione di un neutrone con il suo nucleo. Da questa reazione si liberano altri due o tre neutroni, che vanno a colpire altri atomi, innescando una reazione a catena, la cui velocità aumenta progressivamente e, se non viene controllata come avviene nelle centrali nucleari, porta all’esplosione atomica.

Pre-eclampsia: nota anche come gestosi, è una sindrome caratterizzata dalla presenza, singola o in associazione, di sintomi quali edema, ipertensione o proteinuria in una donna gravida.  Si parla di eclampsia quando, alla sintomatologia classica, si associano le crisi convulsive. La causa non è ancora nota, anche se sono stati individuati da più studiosi dei possibili fattori scatenanti come l’ipertensione essenziale preesistente, le patologie renali preesistenti, l’eccessivo incremento ponderale durante la gravidanza, il diabete ed i fattori immunologici. Ricerche più recenti hanno dimostrato che un elemento fondamentale nel determinismo della pre-eclampsia è rappresentato da alterazioni a carico della placenta.

Scorie nucleari: con questo termine si indica solitamente il combustibile esausto, derivante dall’attività dei reattori nucleari. Esse fanno parte dell’insieme dei rifiuti radioattivi, che comprende tre classi, in base al livello di radioattività: bassa (ad esempio, gli indumenti usa e getta, utilizzati nelle centrali nucleari e il materiale utilizzato a scopo diagnostico o nei laboratori di ricerca), media (incamiciatura del combustibile nucleare, impianti di riprocessamento) ed alta (combustibile nucleare irraggiato “tal quale”). Le scorie nucleari ad alto livello costituiscono solo il 3% del volume prodotto dalle attività umane, ma contengono il 95% della radioattività. La loro composizione, mediamente, è la seguente: 94% di uranio238, 1% di uranio235, 1% di plutonio, 0,1% di attinidi minori (nettunio, americio e curio), 3-4% di prodotti di fissione. Le scorie radioattive decadono nel tempo, ma i tempi di decadimento dei vari componenti sono molto diversi: si va dai 300 anni per i prodotti di fissione, ai 10.000 anni per gli attinidi ed ai 250.000 anni per il plutonio.
La gestione delle scorie nucleari, al fine di assicurare la massima radioprotezione per la generazione attuale e per quelle future, consta di diverse fasi: riduzione del volume; predisposizione alla fase di condizionamento (mediante evaporazione, filtrazione, ultrafiltrazione, precipitazione, flocculazione, incenerimento, supercompattazione, a seconda del tipo di rifiuti); condizionamento vero e proprio, cioè immobilizzazione in una matrice solida come il cemento, nel caso dei materiali a bassa e media radioattività e come il vetro borosilicato per i rifiuti ad alta radioattività e successivo posizionamento in idoneo contenitore; stoccaggio temporaneo di alcune decine di anni, per permettere un congruo abbattimento dell’emissione di calore, che caratterizza il decadimento radioattivo; collocazione definitiva in apposita struttura, cioè solitamente in depositi superficiali o a bassa profondità, per rifiuti di media radioattività ed in depositi costituiti da formazioni geologiche profonde, per i rifiuti ad alta radioattività.

Uranio: è un metallo bianco lucido, ad alta densità, chimicamente molto reattivo e, se si trova in stato di fine suddivisione, piroforico. Esso costituisce lo 0,0004% della crosta terrestre, quindi è un elemento abbastanza raro. I minerali, in cui si trova in diversi stati di ossidazione, sono l’uranite, la pechblenda, la bannerite, la davidite e la coffinite. Esso viene utilizzato come combustibile per le centrali nucleari e le sue riserve accertate sono tra 2 e poco più di 3 milioni di tonnellate, al mondo. In natura, l’uranio è presente in 3 isotopi differenti (hanno lo stesso numero atomico, cioè di protoni e di elettroni, ma diverso numero di massa, poiché è diverso il loro numero di neutroni): si tratta dell’uranio234, 235 e 238. Di questi 3 isotopi, l’uranio238 è il più abbondante (99% di tutto l’uranio naturale), ma non è utilizzabile come combustibile per le centrali, perché il suo nucleo non si presta alla fissione. È solo l’uranio235, che può partecipare alla reazione di fissione nucleare, ma la sua quantità nell’uranio naturale è decisamente bassa (0,7%), quindi è necessario un arricchimento per portare questo isotopo al 3%, nel materiale combustibile.

(a cura di R.Topino e R.Novara)


Roberto Topino e Rosanna Novara