Acqua per la salute (a Neisu)

Un
progetto per l’ospedale di Neisu nel Nord-Est della RD
Congo finanziato
da Water Right Foundation della Toscana.

Il
progetto «Acqua per la salute» in corso all’Ospedale Nostra Signora della
Consolata di Neisu (RD Congo) è al giro di boa: dopo sei mesi dall’inizio delle
attività, avviate nel settembre 2012, è tempo di tracciare un parziale bilancio
dell’iniziativa proposta da Mco e «Annulliamo la Distanza» alla Water Right
Foundation
e ai comuni di Calenzano e Scandicci, che hanno accolto e
finanziato il progetto.

L’intervento
prevedeva la costruzione di tre pozzi (con pannelli fotovoltaici, pompa,
cisterna e lavabi) in altrettanti dispensari periferici collegati all’ospedale
di Neisu, la sostituzione della pompa dell’ospedale e l’organizzazione di corsi
di formazione della popolazione e attività di sensibilizzazione sul corretto
utilizzo dell’acqua. Allo stato attuale, la pompa è stata acquistata, il corso
di formazione realizzato e i pozzi sono in fase di completamento. Vediamo nel
dettaglio la genesi e lo sviluppo dell’intervento.

L’Ospedale di Neisu, la forza di una rete sanitaria

Una delle caratteristiche che contraddistingue
l’Ospedale di Neisu è quella di essere il centro attorno a cui gravita una rete
sanitaria: tredici dispensari periferici, denominati centres o postes
de santé
(centri o postazioni di salute) a seconda delle dimensioni e dei
servizi offerti, fanno capo all’ospedale vero e proprio e garantiscono la
copertura capillare di un territorio difficile, privo di infrastrutture e di
collegamenti, che dall’esterno si raggiunge praticamente solo volando da Kampala,
in Uganda, e impiegando fino a una settimana di viaggio lungo i percorsi
dissestati che collegano l’Uganda alla Provincia Orientale della Repubblica
Democratica del Congo, dove si trova Neisu.

Il centro più lontano dall’ospedale si trova a oltre
sessanta chilometri dal villaggio di Neisu, in una zona totalmente priva di
strade asfaltate dove i tempi di percorrenza in 4×4 possono arrivare a intere
giornate per poche decine di chilometri. Il mezzo di trasporto più conveniente
per percorrere i laghi fangosi in cui si trasformano le strade durante la
stagione delle piogge sono le moto di piccola cilindrata, che possono seguire
la minuscola striscia di terra asciutta ai bordi della strada principale. Sono
diffuse anche le biciclette, che non di rado si rivelano le uniche ambulanze
possibili e vengono perciò riadattate con una seduta posteriore (spesso una
semplice sedia di legno legata al portapacchi) per il trasporto del paziente.

In un contesto del genere, la presenza di centri
sanitari periferici è fondamentale perché raggiungere l’ospedale centrale
richiede tempi che possono mettere seriamente a rischio la sopravvivenza del
malato. Fino all’approvazione del finanziamento da parte della Water Right
Foundation
, tre dei centri periferici non disponevano ancora di un pozzo.
Gli infermieri responsabili delle piccole strutture, dunque, erano costretti a
recarsi ai vicini fiumi per procurarsi l’acqua e dovevano poi procedere a
depurarla con metodi – come la bollitura – che richiedevano tempo sottratto
all’assistenza ai pazienti senza garantire una soddisfacente salubrità
dell’acqua. Con il completamento dei pozzi, la qualità dell’acqua e
dell’assistenza sanitaria subirà un decisivo miglioramento.

Il lavori di scavo e costruzione dei pozzi sono stati
effettuati a mano, da una squadra di operai armati di badili e picconi. A
Neisu, dove il suolo è costituito da rocce relativamente friabili di caolino,
limonite e argilla e dove basta scavare una ventina di metri per trovare
l’acqua, lo scavo manuale è certamente difficoltoso ma comunque possibile. Ciò
che invece risulterebbe impossibile è trasportare sulle strade sterrate locali
trivelle e attrezzature meccaniche per lo scavo.

L’altro intervento strutturale previsto dal progetto era
l’acquisto e installazione di una pompa per l’ospedale principale, poiché
quella in uso stava dando preoccupanti segni di cedimento. «Abbiamo subito
comprato la pompa», scrive padre Richard Larose, responsabile del progetto
all’ospedale di Neisu, «ma abbiamo preferito non installarla fino alla fine
della stagione delle piogge: non volevamo rischiare che un fulmine ce la
bruciasse subito». Certo, il problema dei fulmini si ripresenterà alla prossima
stagione delle piogge; ma evitare un danno nell’immediato e assicurare qualche
mese in più all’attrezzatura a disposizione è spesso l’unica strategia che un
missionario può mettere in atto in una zona come Neisu.


L’importanza dell’acqua pulita

Che
ci sia una relazione diretta, e fondamentale, fra acqua pulita e qualità del
servizio sanitario è ovvio: basta pensare all’importanza dell’acqua per la
pulizia e sanificazione degli ambienti e strumenti sanitari e alla quantità di
patologie (ferite da taglio o malattie sessualmente trasmissibili, solo per
fare due esempi) che vengono aggravate dalla presenza di agenti patogeni
nell’acqua utilizzata per lavarsi. È vero che la falda da cui attinge il pozzo
non è necessariamente pulita e diversi accorgimenti vanno utilizzati pur avendo
a disposizione un pozzo. Ma la probabilità che l’acqua di un pozzo si contamini
è significativamente più bassa rispetto a quella di un fiume, dove vengono
scaricati i rifiuti dei villaggi vicini e dove è possibile trovare elementi
inquinanti come le carcasse di animali.

Ciò
che è meno ovvio, invece, è che in una realtà come Neisu siano chiare e note le
regole per l’utilizzo corretto dell’acqua e per avere comportamenti
igienicamente adeguati. «La formazione sull’acqua prevista da questo progetto è
fondamentale», scriveva la dottoressa Barbara Terzi, in forze all’Ospedale di
Neisu fino al 2012. «A volte mi capita di vedere mamme che cambiano il
pannolino ai loro bambini e subito dopo danno loro da mangiare, senza lavarsi
le mani. O, ancora, c’è chi va a prendere acqua al fiume prelevandola a poca
distanza da un animale in decomposizione».

Spiegando
che certi accorgimenti possono salvare vite, sarà possibile alleggerire il
carico di lavoro dell’ospedale prevenendo malattie evitabili. A questo scopo,
sono stati coinvolti nel progetto i membri dei cosiddetti comitati di salute (Codesa)
dei villaggi dove si trovano i centri periferici. I comitati, composti da
alcuni membri delle comunità, hanno una funzione fondamentale poiché sono
l’anello di congiunzione fra struttura sanitaria e popolazione locale. Queste
persone ricevono periodicamente una formazione che permette loro di diffondere
nei villaggi conoscenze relative alle pratiche igieniche corrette e ai servizi
a disposizione presso le strutture della rete sanitaria; al tempo stesso,
operano una costante osservazione delle patologie che si manifestano nelle
proprie comunità e riferiscono al personale sanitario in modo che questo possa
intervenire il più tempestivamente possibile. Nel caso di questo progetto, i
membri dei Codesa hanno seguito un corso di formazione sull’acqua di
cinque giorni a Neisu e sono ora al lavoro per condividere con il resto della
comunità quanto hanno imparato.

Educare al valore dell’acqua: le
attività in Italia

Parte
integrante dell’iniziativa sono anche una serie di eventi pubblici in Italia il
primo dei quali è stato una conferenza stampa di presentazione del progetto che
si è tenuta a fine settembre 2012 a Calenzano; il secondo evento, realizzato a
metà ottobre durante la fiera di Scandicci, ha visto i partner del
progetto impegnati in un dibattito pubblico dal titolo «Una goccia d’acqua per
tutti», che ha registrato una buona partecipazione.

La
Water Right Foundation, come ha ricordato nel corso degli incontri uno
dei suoi referenti, Oliviero Giorgi, nasce per volontà di Publiacqua
l’azienda che gestisce il servizio idrico nel territorio dell’Ato 3 Medio
Valdao
– con il contributo degli enti locali e del mondo scientifico e
accademico. Accantonando un centesimo di euro per ogni metro cubo di acqua
consumato dagli utenti, Publiacqua ha costituito il Fondo «L’Acqua è di
tutti» e ne ha affidato la gestione alla Wrf che da anni finanzia numerose
iniziative in paesi dove l’acqua è carente o male utilizzata.

Monica
Squilloni, assessore alla Cooperazione internazionale del Comune di Calenzano e
Gabriele Coveri, suo omologo al Comune di Scandicci, hanno ribadito
l’importanza di sostenere la solidarietà internazionale e hanno sottolineato il
ruolo delle istituzioni locali italiane nel continuare a sensibilizzare i
propri cittadini a valorizzare le risorse idriche ed evitare gli sprechi. I
prossimi eventi sono previsti a fine progetto, a settembre 2013, e daranno
conto dei risultati ottenuti nel corso dei dodici mesi di attività.

Chiara Giovetti

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Chiara Giovetti




San Francesco di Sales

San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra e
dottore della Chiesa, è certamente un santo che ha realizzato nel migliore dei
modi il detto popolare: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che
con un barile di aceto». Vissuto in un tempo in cui le guerre di religione tra
i vari stati europei lasciavano tracce indelebili nelle popolazioni coinvolte
per la violenza con cui si consumavano e producevano lacerazione nelle
coscienze per motivi di fede, egli seppe arrivare al cuore degli avversari
attraverso un modo di essere e di relazionarsi, caratterizzato da uno stile
sobrio e pacato nell’esporre le sue ragioni e, soprattutto con scritti
raffinati ed eleganti, seppe guadagnarsi la stima di tutti.


Sei un santo un po’ speciale,
parlaci della tua vita.

Sono
nato in Savoia il 21 agosto 1567 nel castello di Sales, proprietà della mia
antica e nobile famiglia. Fin dalla più tenera età ho ricevuto un’accurata
educazione che ho completato con gli studi in giurisprudenza nelle Università
di Parigi e di Padova.

Quindi la tua carriera era già
definita fin dall’infanzia; in fondo un giovane ricco e nobile, laureato a
pieni voti in Università così rinomate, aveva la strada spianata per il futuro.

Infatti ritornato in patria fui subito nominato avvocato
del Senato di Chambéry, capitale della Savoia, dove però rimasi pochi anni perché
la vocazione sacerdotale, che avevo avvertito fin dai primi anni della mia
giovinezza, mi portò verso gli studi di teologia: ricevetti l’ordinazione nel
dicembre del 1593, con grande delusione dei miei familiari e di quanti si
aspettavano che seguissi le orme dei miei avi.

Se non vado errato, sei vissuto in
un’epoca caratterizzata dalle conseguenze della Riforma protestante avviata da
Lutero e da altri riformatori come Calvino, Zwingli, ecc.

È vero. Il clima sociale e religioso era quello
travagliato e tormentato del periodo tra il XVI e il XVII secolo: alla Riforma
protestante faceva seguito la Riforma Cattolica (spesso chiamata erroneamente
Controriforma). Buona parte dei principi tedeschi aveva abbracciato le idee di
Lutero, trascinando con sé le popolazioni da loro governate e, ancor peggio, i
loro eserciti.

Erano proprio tempi cupi allora?

Alcuni
avvenimenti aiutano a comprendere meglio la realtà nella quale vivevo: nel 1600
l’Inquisizione aveva mandato al rogo Giordano Bruno e nel 1622 (anno della mia
morte) iniziava il processo a Galileo. Guerre e sommosse religiose scandivano
gli anni come un doloroso rosario intriso di sangue e sofferenze. Nel 1571
avvenne la battaglia di Lepanto contro i turchi-ottomani, battaglia che
contrapponeva cristiani contro musulmani; l’anno seguente (1572) ci fu la notte
di San Bartolomeo, dove furono assassinati migliaia di ugonotti francesi (gli
storici parlano di 20-30 mila), aprendo così una ferita profonda fra i
cristiani cattolici, evangelici e riformati, il cui strascico è visibile ancora
oggi.

Come e in che misura poteva
incidere in quella realtà la tua azione sacerdotale?

Come
sacerdote cercai di testimoniare con un’irreprensibile condotta di vita e di
avvicinare tutti con una preparazione meticolosa e meditata delle omelie. Ma
visti gli scarsi frutti, passai alla pubblicazione di foglietti volanti che io
stesso facevo scivolare sotto gli usci delle case o affiggevo ai muri.

E così sei diventato patrono dei
giornalisti!

Ai
miei tempi non c’erano giornali. Fu molto apprezzato non tanto l’aver scritto
trattati in difesa della fede cattolica, ma piuttosto il fatto di stampare su
dei fogli volanti le mie riflessioni e prediche: non era come i giornali di
oggi, ma vi assomigliava. I risultati iniziali furono scarsi, ma col tempo
migliaia di calvinisti ritornarono in seno alla Chiesa Cattolica.

Nel 1602 fosti nominato vescovo di
Ginevra, caposaldo della predicazione di Calvino, come ti accolsero da quelle
parti?

Ginevra,
città di lingua e cultura francese, aveva abbracciato la fede «riformata»
predicata da Giovanni Calvino e i suoi compagni (Guglielmo Farel, Theodore
Beza, John Knox), per cui la presenza di un vescovo cattolico non era per
niente gradita. Per tutti i miei 20 anni di episcopato risiedetti ad Annecy;
come vescovo profusi il meglio delle mie energie visitando ad una ad una tutte
le 450 parrocchie, curai molto il catechismo dei fanciulli e, perché fosse
insegnato come si doveva, addestrai un discreto numero di laici creando la così
detta «Confrateita della Dottrina Cristiana».

Alla fine, anche i protestanti,
che disprezzavano i cattolici chiamandoli papisti, impararono a rispettarli:
come ci sei riuscito?

Ho
seguito il principio della 1a lettera di San Pietro: essere «sempre pronti a
rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi; ma questo
sia fatto con dolcezza e rispetto». Il modo di confrontarsi con chi non la
pensa come te deve essere improntato soprattutto alla comprensione di ciò che
l’altro vuole dire e al tempo stesso all’esposizione di ciò che porti nel cuore
con chiarezza e senza rancore, con dolcezza e tenerezza. Bisogna imparare a
dialogare non con i pugni chiusi ma con le palme aperte.

Anche i tuoi scritti, come «L’introduzione
della vita devota» e «Il trattato del divino amore», sono diventati dei
classici: ti valsero il titolo di dottore della Chiesa, ti diedero fama di
grande scrittore anche nel mondo laico.

È
vero. Nella letteratura francese la mia prosa viene additata per la vivacità
delle immagini, la ricchezza delle espressioni, la serena affabilità del
discorso; tutto ciò lo facevo per creare un dialogo proficuo con quelli che non
la pensavano come me e si erano allontanati dalla fede cattolica.

Quindi il proverbio citato
all’inizio si addice perfettamente al tuo carattere.

Direi
proprio di sì. Ma quel proverbio deve trasformarsi in stile di vita che
conquisti le persone. Proclamare la verità con una faccia scura o imporre con
coercizioni di ogni tipo la partecipazione ai riti religiosi può essere
proficuo in un primo tempo, ma alla lunga più nessuno ti segue.

Una bella lezione anche per noi,
più propensi a mostrare le difficoltà ad essere un bravo cristiano, che la
gioia dell’incontro con il Signore Gesù.

Soprattutto
in campo ecumenico, pur esprimendo il proprio pensiero, tutto venga fatto nella
gioia dell’incontro con chi la pensa diversamente. Mi sembra che, dopo secoli
di scomuniche reciproche, il cammino ecumenico intrapreso sia proprio questo,
anche se la strada è ancora lunga. Da colui che è Padre ci siamo allontanati un
po’ tutti; ora, ritornando a Lui, impariamo a vivere da fratelli che
condividono la gioia di essere figli dello stesso Padre. Papa Roncalli, che per
certi versi mi assomiglia, aprendo il Concilio ha chiesto di distinguere sempre
tra «errore ed errante»; lo stile da assumere con chi non è «dei nostri» è
proprio quello avviato dal sottoscritto, in tempi difficili, ma esaltanti dal
punto di vista del dialogo.

Come nacque l’amicizia con
Giovanna de Chantal?

A
Digione, durante una visita pastorale, incontrai una nobildonna: era appunto
Giovanna Francesca de Chantal, con la quale avviai un rapporto di sincera e
spirituale amicizia che nel tempo, attraverso una tenerissima corrispondenza
epistolare, diede i suoi frutti nella fondazione della congregazione religiosa
della Visitazione. L’idea originale alla base del nostro carisma fu di chiamare
le religiose fuori dal chiostro, nel mondo, per predicarvi la carità, senza
trascurare l’importanza della preghiera, creando nel contempo un ramo
contemplativo accanto a uno di vita attiva.

In
un tempo come il vostro si fa fatica a capire e accettare tutto questo, eppure è
proprio così; del resto io stesso curai molto le amicizie e, oltre a Giovanna
Francesca de Chantal, ebbi come figlio spirituale Vincenzo de Paoli e Madre
Angelica Aauld, oltre a molte altre persone di ogni ceto. Con tutti loro ebbi
una fitta corrispondenza epistolare.

Oltre al rapporto particolare con
i poveri, normale per un santo, curasti una forte relazione con gli
intellettuali del tuo tempo, fondando per loro addirittura un’accademia,
denominata «Florimontana», o sbaglio?

Tutt’altro! Questa mia idea di mettere insieme gli
intellettuali in una fondazione in cui potessero liberamente confrontarsi sui temi
più svariati, fu copiata nientemeno che dal cardinale Richelieu, che diede vita
alla famosa Académie française. Non bisogna mai lesinare fatiche ed
energie per costituire dei luoghi e avviare dei percorsi in cui confrontarsi.
Ai miei tempi (ma anche ai vostri!) invece di dialogare si preferisce inveire,
sbraitare e condannare; così facendo il dialogo si inaridisce e le posizioni si
irrigidiscono, tutto a scapito del rispetto reciproco e della carità
vicendevole.

Il tuo esempio fu seguito da altri
santi che, ispirandosi alla tua azione pastorale, seppero leggere i segni dei
loro tempi.

Per
Vincenzo de Paoli, che ebbi come figlio spirituale, fu abbastanza facile
seguire le mie indicazioni; ma il santo che più si ispirò al mio modo di fare,
muovendosi in un altro contesto e avendo un carisma particolare per i giovani
fu Giovanni Bosco, originario della regione italiana più vicina alla Savoia;
visti i santi «sociali» torinesi coevi a don Bosco, si può dire che l’aria di
queste zone favorisce uno stile del tutto speciale per chi vuole seguire il
cammino del Vangelo.

Per concludere che suggerimenti
dai a noi cristiani del XXI secolo?

Considerando
che avversari alla Verità ce ne sono sempre, in ogni tempo e luogo, imparate a
gestire il confronto con chi non la pensa come voi dialogando con affabilità e
rispetto: condanne e scomuniche non portano da nessuna parte; e ricordatevi
sempre che questo mondo prima di voi è stato amato fino all’inverosimile da
nostro Signore Gesù Cristo, che per salvarci tutti non ha esitato a dare la sua
vita per tutti, cattolici e calvinisti, credenti e non credenti.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Europa, Libertà sotto stress

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 07

L’attacco dell’«Inteational
religious freedom report
2012» è chiaro: «In Europa sta aumentando la
diversità etnica, razziale e religiosa. Questi cambiamenti demografici sono
talvolta accompagnati da crescente xenofobia, anti semitismo, sentimento anti
musulmano, e intolleranza nei confronti delle persone considerate “l’altro”».

La libertà religiosa nel Vecchio Continente è sotto pressione, i
casi di Russia e Bielorussia ne sono l’emblema, anche per quanto riguarda il
fenomeno delle leggi contro blasfemia e diffamazione della religione.

L’allarme
è presente fin dal titolo: «Marea montante di restrizioni riguardanti la
religione». L’ultimo rapporto del Pew Forum sulla libertà religiosa nel
mondo, uscito nell’agosto scorso con dati risalenti al 2010 è netto nel parlare
di una situazione di preoccupante peggioramento della libertà religiosa nel
mondo intero, compresa l’Europa. Un incremento significativo nel Vecchio
Continente sia delle restrizioni governative (Gri) che dell’ostilità sociale
(Shi) si è registrato in 29 dei 45 paesi che lo compongono. Grecia, Macedonia,
Ucraina, ma anche Francia, Regno Unito, Germania.

C’è più libertà religiosa in Europa che in Asia e in Medio Oriente
(si veda MC ott. e nov. 2012), ma rispetto agli europei vivono in una
libertà di credo maggiore gli abitanti dell’Africa sub-sahariana (si veda MC
ago.-sett. 2012
) e delle Americhe.

È facile immaginare che negli ultimi due anni (2011 e 2012) di
crisi economica e sociale, non indagati dal rapporto del Pew Forum, le
condizioni della libertà di credo siano ulteriormente peggiorate. Lo confermano
studi più aggioati come il «Rapporto 2012» di Acs (Aiuto alla Chiesa che
Soffre), il già citato «Inteational religious freedom report for 2011» del
dipartimento di stato Usa, l’«Annual report 2012» dell’Uscirf (United States
Commission on Inteational Religious Freedom
), le copiose notizie di
violazioni di questo diritto fondamentale, e il numero crescente di analisi,
riflessioni, interventi di studiosi, esponenti religiosi e politici di tutto il
mondo.

RUSSIA

Se nello scenario europeo sono molti i paesi che destano
preoccupazione, ce ne sono due che spiccano in modo particolare: Russia e
Bielorussia hanno entrambe un elevatissimo livello di restrizioni governative,
mentre la Russia (secondo il Pew Forum) è uno dei sei paesi nel mondo
che fa registrare il livello più alto di entrambi gli indici (di Restrizioni
Goveative e di Ostilità Sociale), l’unico in Europa. Gli altri sono Egitto,
Indonesia, Arabia Saudita, Afghanistan e Yemen.

Secondo il rapporto annuale dell’Uscirf: «Le condizioni della
libertà religiosa in Russia continuano a deteriorarsi. Il governo usa
abitualmente la legge anti-estremismo contro pacifici gruppi religiosi e
individui […]. Queste azioni, insieme alla xenofobia, all’intolleranza crescente
e all’antisemitismo, sono legate a violenze e omicidi mossi da odio religioso.
[…] Il governo russo non affronta questi problemi in modo coerente ed efficace,
favorendo un clima di impunità».

In Russia vivono circa 140 milioni di persone su un territorio
ampio 57 volte l’Italia. Benché solo il 5% della popolazione dichiari di essere
«osservante», sono almeno 100 milioni quelli che si autodefiniscono cristiani
della Chiesa Ortodossa Russa. I musulmani costituiscono la più grande minoranza
religiosa con un numero di aderenti compreso tra 16,4 e 20 milioni, la maggior
parte dei quali vive nella regione Volga-Ural, nel Caucaso del Nord, a Mosca, a
San Pietroburgo e in alcune parti della Siberia. Tra le varie confessioni
cristiane, i protestanti costituiscono il secondo gruppo dopo gli ortodossi con
circa due milioni di persone, la Chiesa Cattolica Romana il terzo con circa
seicentomila fedeli. Gli ebrei, secondo alcune stime, sono un milione, quasi
tutti concentrati a Mosca e a San Pietroburgo. I buddisti (tra uno e due
milioni) vivono principalmente nelle regioni di Buryatiya, Tuva, e Kalmykiya.

Le notizie che le varie agenzie di stampa internazionale di tanto
in tanto lanciano riguardo al tema della libertà religiosa in Russia illustrano
una situazione difficile sotto molti punti di vista, soprattutto per le
minoranze. Uccisioni di personalità musulmane nelle zone calde del Caucaso,
impedimenti alla costruzione di luoghi di culto, difficoltà di registrazione di
gruppi religiosi, negazione dei visti per visitatori religiosi stranieri,
proibizione di testi, considerati estremisti, di diversi gruppi religiosi, tra
cui i Testimoni di Geova e gli affiliati a Falun Gong, multe, sequestri di
materiali proibiti, incarcerazione per chi ne viene trovato in possesso, violenze
e vessazioni, impunità.

È Asianews a informarci sul disegno di legge contro la
blasfemia che sarà probabilmente approvato in primavera: esso propone pene
pecuniarie fino a 500mila rubli (circa 16mila dollari), e lavori forzati fino a
400 ore o detenzione fino a cinque anni per insulti pubblici alla fede,
profanazione o distruzione di oggetti religiosi.

BIELORUSSIA

Definita come l’ultima dittatura europea, la Bielorussia, pur
registrando un livello moderato di Ostilità Sociale nei confronti della religione,
è il secondo paese europeo con più elevato livello di restrizioni governative:
segno della condizione generalmente difficile delle libertà e dei diritti umani
sotto il regime di Lukashenko.

Su un territorio pari a due terzi l’Italia vivono circa 10 milioni
di cittadini bielorussi. Di questi l’80% appartengono alla Chiesa Ortodossa
Bielorussa, il 10% alla Chiesa Cattolica Romana. I rimanenti si dividono tra
non religiosi, atei, e altri gruppi religiosi: protestanti, musulmani, ebrei,
Testimoni di Geova, Hare Krishna, Baha’i, Mormoni.

Il rapporto 2012 dell’Uscirf afferma che «il potere politico in
Bielorussia è concentrato nelle mani del presidente Aleksandr Lukashenko, il
cui regime continua a perpetrare violazioni dei diritti umani. Il governo vede
nei gruppi indipendenti, comprese le comunità religiose, le sfide potenziali
per il suo dominio». E, dopo aver aggiunto che «il governo viola la libertà di
pensiero, di coscienza e di religione o le convinzioni personali attraverso
leggi e politiche intrusive», denuncia l’uso di molestie, multe, e detenzioni
contro le comunità religiose e le singole persone e l’impunità per atti di
violenza e vandalismo nei confronti dei gruppi religiosi minoritari.

Benché la Costituzione tuteli la libertà religiosa, altre leggi e
politiche generalmente applicate dal potere la limitano ostacolando e impedendo
in modo selettivo e arbitrario le attività dei gruppi religiosi diversi dalla
Chiesa Ortodossa Bielorussa.

PANORAMICA SULL’EUROPA

Per una breve panoramica sul continente che
sia in grado di dare un’idea dell’ampiezza e varietà delle violazioni (sia «istituzionali»
che «sociali») del diritto alla libertà religiosa ci affidiamo al rapporto 2012
di Acs, il quale rileva innanzitutto il fatto che negli ultimi anni i
legislatori europei hanno elaborato numerose norme, esprimendo la
preoccupazione che esse possano peggiorare le condizioni della libertà di
credo: in Francia, nel 2011, «è stato presentato il cosiddetto “Codice della
laicità” volto a regolamentare il campo della libertà religiosa. Dall’11 aprile
2011 è entrata poi in vigore la legge che vieta d’indossare il velo integrale
in pubblico, divieto stabilito anche dal governo dei Paesi Bassi sui trasporti
pubblici, negli uffici e nelle strade. La possibilità di indossare il burqa
o il niqab è stata al centro di controversie in Belgio dove preoccupa il
disegno di legge che trasforma in reato la “destabilizzazione mentale” di terzi
che rischia di spianare la strada a discriminazioni nei confronti delle
minoranze religiose». Ha fatto discutere in Svizzera il referendum che ha
imposto a larga maggioranza il divieto di costruire minareti.

Oltre a esemplificare alcuni provvedimenti
legislativi, Acs accenna a episodi di vandalismo e atti d’intolleranza nei
confronti dei cristiani in diverse città della Germania e nel Regno Unito: «Secondo
un rapporto del governo scozzese sui delitti causati da odio a sfondo religioso
nel suo territorio, nel periodo 2010-2011 ci sono state 693 imputazioni “aggravate
da pregiudizio religioso”».

Altro problema, presente soprattutto nei paesi dell’Europa
orientale, è quello della mancata restituzione delle proprietà e dei beni
confiscati alle varie comunità religiose dopo la Seconda guerra mondiale. «Tra
questi Ucraina, Romania, Slovacchia, Slovenia, Montenegro e Repubblica Ceca.
Procede con disparità la restituzione alle diverse comunità in Croazia,
giudicata colpevole dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per non aver
concesso a tre comunità religiose cristiane di godere pienamente di tutti i diritti
connessi al proprio riconoscimento, tra cui l’educazione religiosa nelle scuole
statali e il riconoscimento dei matrimoni».

Anche la diffusione di una versione intollerante dell’Islam desta
preoccupazioni in alcune aree dell’Europa, come abbiamo già visto, ad esempio,
per la zona caucasica della Russia: in Albania intimorisce la presenza di «giovani
imam formati in Turchia e in Arabia Saudita, come preoccupa la
progressiva islamizzazione di alcune aree della Bosnia-Erzegovina, a seguito di
ingenti investimenti compiuti da Iran e Arabia Saudita. Nel paese balcanico
l’identificazione “etnia-religione” genera discriminazioni sociali e
amministrative verso le minoranze, e in particolare verso i cattolici che
vivono o in zone a forte presenza islamica, o a maggioranza serbo-ortodossa.
Anche in Serbia e Kosovo, i fattori etnico e religioso sono spesso inseparabili».

LEGGI SULLA BLASFEMIA

Come già accennato per il caso della Russia,
nell’area europea è forte la tentazione di emanare leggi che ufficialmente
vorrebbero garantire la libertà religiosa e che invece rischiano di rendere più
difficile il godimento di tale diritto, soprattutto da parte delle minoranze. A
riguardo il Pew Forum ha pubblicato nel novembre scorso un’analisi che
mostra il trend mondiale ed europeo: «Diverse notizie hanno riguardato
negli ultimi mesi casi di persone perseguitate dalla giustizia dei propri paesi
con l’accusa di blasfemia: ad esempio in Grecia, un uomo è stato arrestato dopo
aver pubblicato su Facebook un post satirico nei confronti di un
monaco cristiano ortodosso». Secondo lo studio del Pew Forum il 47% dei
paesi del mondo hanno leggi o politiche che penalizzano la blasfemia,
l’apostasia o la diffamazione (il disprezzo o la critica di religioni
particolari o della religione in generale). «Dei 198 paesi studiati, 32 hanno
leggi anti-blasfemia, 20 leggi che penalizzano l’apostasia, e 87 leggi contro
la diffamazione della religione».

L’analisi puntualizza: «Nei paesi che hanno
leggi contro blasfemia, apostasia o diffamazione ci sono maggiori probabilità
di avere alte restrizioni governative sulla religione o elevata ostilità
sociale rispetto ai paesi che non dispongono di tali leggi. Ciò non significa
che queste leggi causino necessariamente un aumento di restrizioni alla
religione, ma è evidente che i due fenomeni vanno spesso di pari passo».

Per quanto riguarda in particolare le leggi che penalizzano la
bestemmia, in Europa sono presenti in otto dei 45 paesi: Danimarca, Germania,
Grecia, Irlanda, Italia, Malta, Paesi Bassi, Polonia, mentre nessun paese
possiede leggi che sanzionino l’apostasia. Le leggi contro la diffamazione
della religione invece sono più comuni: in 36 paesi su 45.

Luca Lorusso

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Luca Lorusso




Malattie di tipo virale  (Malattie sessuali – 3)

Tra le malattie sessualmente trasmesse, quelle virali sono le più
recenti, diffuse e le più pericolose. Il presente articolo conclude la serie
dedicata a questo tipo di patologie di cui si parla poco, per la delicatezza dell’argomento,
ma che sono una reale emergenza a livello mondiale.

I due precedenti articoli sono apparsi su MC 2012-11, pp. 70-73 e MC 2013-01/2, pp. 59-62.

I virus trasmissibili sessualmente
sono molteplici e alcuni di essi sono responsabili delle malattie attualmente
più diffuse e spesso a esito infausto. Tra questi abbiamo l’Hiv (Human
Immunodeficiency Virus
), responsabile dell’Aids (Acquired Immune
Deficiency Syndrome
o sindrome dell’immunodeficienza acquisita), i virus
dell’epatite virale da siero (Hbv, Hcv, Hdv principalmente), gli herpesvirus
(Hsv1 e 2), il citomegalovirus (Cmv) e i papillomavirus (Hpv).

Caratteristica comune a tutti i virus è quella di essere parassiti
endocellulari obbligati. Essi non possono essere considerati esseri viventi,
poiché per riprodursi devono penetrare in una cellula e sfruttae l’apparato
della sintesi proteica per le proteine del capside virale, cioè l’involucro
proteico che contiene il genoma virale. Quest’ultimo è costituito da Dna o da
Rna (nei retrovirus come l’Hiv). Non essendo esseri viventi, i virus non
possono essere uccisi dagli antibiotici, quindi per la cura delle patologie
virali è necessario ricorrere ai farmaci antivirali. Si tratta di solito di
farmaci che bloccano specifici enzimi virali oppure i recettori di membrana,
che permettono l’ingresso dei virus nella cellula ospite. Purtroppo non sempre
esistono farmaci efficaci, come nel caso delle patologie da citomegalovirus,
oppure può esserci resistenza ai farmaci, come in certi casi di Aids, in cui si
tenta di contenere l’infezione con combinazioni di più farmaci antivirali.

I principali virus

Vediamo ora i principali virus, che per diffondersi sfruttano,
oltre ad altre modalità, anche la trasmissione sessuale.

Il virus che più fa parlare di sé attualmente è l’Hiv, ovvero il
responsabile dell’Aids, che è stata riconosciuta come malattia a sé nel 1981. I
numeri di Hiv/Aids sono impressionanti: allo stato attuale sono più di 34
milioni al mondo le persone infettate dal virus Hiv e ci sono circa 2,5 milioni
di nuovi casi d’infezione ogni anno (dati del rapporto Unaids 2012).
Ogni anno muoiono al mondo circa 1,7 milioni di persone con Aids ed il numero
complessivo di morti a partire dal 1981 è di oltre 45 milioni. Nella classifica
mondiale del maggior numero di morti per Aids, i primi 23 posti sono occupati
da paesi africani, con in testa il Lesotho con 680 morti su 100.000 abitanti
nel 2009, tuttavia le cifre sono molto preoccupanti anche nel mondo
occidentale. Negli Stati Uniti, ad esempio, dal 1981 sono stati segnalati oltre
un milione di casi di Aids, più di 500.000 persone sono morte e attualmente
oltre un milione di persone convive con il virus Hiv.

La convivenza è resa possibile dai farmaci sopra citati, che non
sono in grado di far guarire dalla malattia, ma permettono di sopravvivere con
un’aspettativa di vita simile a quella di una persona non infetta. Purtroppo i
costi di tali farmaci continuano ad essere troppo elevati per le popolazioni
del Sud del mondo e questa, unitamente alla mancanza d’informazione sulle
modalità di trasmissione della malattia e sui mezzi di prevenzione, è una delle
cause principali dell’elevatissimo numero di malati e di morti.

Trasmissione dell’HIV

L’infezione da Hiv si trasmette attraverso tre diverse modalità:
la via ematica, la via materno-fetale e la via sessuale.

La prima modalità consiste nella trasmissione attraverso il sangue
ed è tipica delle persone dedite al consumo di droghe per via iniettiva, con
scambio di siringhe e di aghi infetti, ma può interessare anche coloro che si
sottopongono a piercing, tatuaggi e mesoterapia effettuati con aghi non
sterili. Anche le cure odontorniatriche effettuate con materiali non monouso e
non adeguatamente sterilizzati possono rappresentare un serio rischio, quindi è
opportuno evitare di ricorrere a studi odontorniatrici che offrono cure a prezzi
stracciati. Infine le trasfusioni possono rappresentare un rischio, anche se
attualmente molto ridotto grazie ai test per Hiv.

La seconda modalità è tipica delle donne sieropositive o con Aids
conclamato, che trasmettono l’infezione al feto per via transplacentare oppure
al bambino durante il parto o con l’allattamento. Il rischio per una donna
sieropositiva di trasmettere l’infezione al figlio è del 20%.

La terza via è quella dei rapporti sessuali di ogni tipo,
specialmente di quelli violenti, che possono provocare sanguinamento, e
interessa tanto gli eterosessuali che gli omosessuali. Questi ultimi sono stati
la categoria maggiormente colpita agli esordi della malattia, per la possibilità
di lesioni durante i rapporti, tuttavia l’Aids si è presto diffuso alla
popolazione eterosessuale per il carattere insidioso dell’infezione, che può
essere presente in forma inapparente, per cui la persona è infetta da Hiv e lo
può trasmettere con un rapporto non protetto, pur non presentando alcun segno
di malattia. Questo è il caso di coloro che si trovano nel cosiddetto periodo
finestra, ovvero nel periodo che intercorre tra l’ingresso del virus attraverso
le mucose, che possono essere anche integre, e la positività ai test per l’Hiv
(da poche settimane a 3 mesi). Ci sono inoltre i cosiddetti «portatori sani»,
cioè coloro che hanno contratto l’infezione da Hiv, ma che per le
caratteristiche del loro sistema immunitario riescono per un tempo anche
prolungato a controllare il virus senza sviluppare la malattia, quindi senza
alcun sintomo, ma con identica possibilità di trasmettere l’infezione. La
trasmissione avviene per mezzo del contatto con i liquidi biologici infetti e
le mucose.

Per quanto riguarda la saliva, fino a non molto tempo fa non
esistevano studi scientifici che provassero la possibilità di trasmissione del
virus attraverso i baci, data la sua modesta carica virale; tuttavia
recentemente è stato documentato un caso di trasmissione attraverso il bacio
dal Cdc (Center for Disease Control and Prevention) di Atlanta (Usa),
dovuto al fatto che la persona sieropositiva presentava gengive sanguinanti e
in tal modo ha infettato la compagna baciandola.


Il Virus HIV

L’Hiv è un retrovirus che colpisce le cellule del sistema
immunitario caratterizzate dalla proteina di superficie Cd4, cioè i macrofagi
ed i linfociti T helper. L’Hiv quindi mina le difese immunitarie
dell’ospite, che diventa suscettibile a infezioni batteriche, virali, protozoarie
o fungine, nonché a diversi tipi di tumore, spesso con esito fatale. Tra le più
comuni patologie che insorgono in pazienti affetti da Aids ci sono le polmoniti
e le tubercolosi batteriche, le encefalopatie virali, il linfoma di Burkitt, il
linfoma primario del cervello e il sarcoma di Kaposi.

Per prevenire l’infezione da Hiv è indispensabile astenersi dai
comportamenti a rischio, cioè è opportuno evitare di cambiare ripetutamente
partner o i rapporti con persone appartenenti a categorie a rischio, come
soggetti dediti alla prostituzione, oppure omosessuali o bisessuali o facenti
uso di droghe per via iniettiva. è
indispensabile l’affidabilità del partner. Nel dubbio si possono intraprendere
solo due strade, cioè l’astinenza dai rapporti sessuali oppure l’uso dell’unico
mezzo efficace di barriera, che è il profilattico usato in modo corretto ovvero
dall’inizio del rapporto (di ogni tipo). Non eliminano invece la possibilità di
contagio altri dispositivi come il diaframma, la spirale, la pillola anticoncezionale,
né pratiche come le lavande dopo un rapporto. è
evidente che la fedeltà di coppia riduce drasticamente il rischio di contrarre
questa infezione con un rapporto sessuale, sempre che uno dei due componenti
non abbia contratto l’Hiv per via ematica.

Allo stato attuale si sta assistendo a un aumento del numero di
nuove diagnosi d’infezione da Hiv anche nel Nord del mondo, in particolare
negli Stati Uniti, e pare essere terminato il declino della morbilità e della
mortalità da Aids riscontrato negli anni ’90 del secolo scorso, grazie all’uso
dei farmaci antivirali combinati. Questo fenomeno è dovuto alla grande capacità
del virus Hiv di acquisire resistenza ai farmaci grazie alla sua estrema
variabilità genetica. Quest’ultima è anche responsabile delle enormi difficoltà
incontrate nella produzione di un vaccino efficace poiché essa comporta una
continua variazione delle caratteristiche antigeniche dell’Hiv. Appare chiaro
che al momento per contrastare la diffusione di questa infezione sono indispensabili
una corretta educazione sanitaria della popolazione e l’astensione dai
comportamenti a rischio.

Epatiti

Altre infezioni molto diffuse e particolarmente gravi per la
salute umana sono le epatiti da siero causate dai virus Hbv, Hcv ed Hdv. Si
tratta di virus trasmessi con le stesse modalità del virus dell’Aids, per cui
occorre seguire le medesime precauzioni. L’epatite virale da siero può essere
acuta o cronica. L’organo bersaglio è il fegato, che nella malattia acuta può
andare incontro al blocco epatico con esito fatale. Nella cronicizzazione della
malattia, il fegato subisce una serie di sequele, che portano alla cirrosi
epatica, la quale può essere seguita da un tumore. Anche in questi casi l’esito
è di solito la morte. Attualmente più di 100.000 persone in tutto il mondo e
5.000 nei soli Stati Uniti muoiono ogni anno per le conseguenze dell’epatite B,
che può presentare la coinfezione dell’Hdv, un virus difettivo, che necessita
della presenza dell’Hbv e che aumenta la gravità del quadro clinico. Il virus
Hcv è responsabile negli Stati Uniti di almeno 25.000 nuove epatiti all’anno e
di circa 10.000 morti per cancro al fegato o cirrosi.

Oggi esiste un vaccino efficace contro l’epatite B obbligatorio in
Italia dal 1991 per i nuovi nati e per il personale sanitario, mentre non
esiste alcun vaccino contro l’epatite C. In Italia attualmente ci sono 2
milioni di persone infette da Hcv, con oltre 10.000 decessi e 3.000 nuovi casi
all’anno. L’Italia risulta essere il paese europeo più colpito da questa
infezione, soprattutto al Sud, con un record di casi in Campania, Puglia,
Calabria e Sicilia.

Occorre ricordare che per i virus dell’epatite esistono i
portatori sani, fatto che aumenta enormemente il rischio di contagio attraverso
i rapporti sessuali, lo scambio di siringhe tra i consumatori di droga, le
pratiche di piercing e di tatuaggio, che comportano l’uso di aghi
potenzialmente non sterili. Inoltre anche i virus epatitici vengono trasmessi
da madre a feto.

Herpesvirus

Gli herpesvirus di tipo 1 (Hsv1) infettano normalmente la
bocca e le labbra causando le febbri vescicolari e occasionalmente possono
infettare attraverso la saliva altre regioni del corpo, tra cui quella
ano-genitale, ma quest’ultima è prevalentemente colpita dal tipo 2 (Hsv2), con
formazione di vescicole dolorose. L’infezione può essere trasmessa al neonato
per contatto, al momento del parto e può dare quadri di diversa gravità, che
vanno dall’assenza di sintomi ad una malattia sistemica con danni cerebrali,
spesso mortale. Alle donne infette viene pertanto consigliato il parto cesareo.

Il citomegalovirus (Cmv) è uno degli herpesvirus più
diffusi, essendo presente nel 50-85% della popolazione sopra i 40 anni. Negli
individui sani l’infezione è asintomatica, ma diventa pericolosa negli
immunocompromessi come i malati di Aids o i pazienti trattati con farmaci
immunosoppressori come i trapiantati, alcuni malati di cancro ed i dializzati,
nei quali provoca polmoniti, retiniti, epatiti e gastroenteriti spesso fatali.
Il virus può essere trasmesso al feto e può arrecare gravi danni al bambino,
come la perdita dell’udito o della vista, il ritardo mentale, deficit nella
cornordinazione dei movimenti e nei casi più gravi convulsioni e morte. L’85-90%
dei neonati con infezione congenita è asintomatico, ma il 10% degli
asintomatici presenta sequele tardive, con i quadri succitati.

Altri virus

Tra i più diffusi virus sessualmente trasmessi ci sono i papillomavirus
umani
(Hpv), circa 120 ceppi virali diversi dei quali il 6 e l’11 sono a basso
rischio e responsabili di lesioni benigne, solitamente localizzate nella
regione ano-genitale, dette condilomi acuminati o creste di gallo per la tipica
forma a cresta o a cavolfiore. Esiste però una decina di ceppi tra cui
soprattutto i 16, 18, 31 e 33, che sono ad alto rischio per la loro capacità di
indurre carcinomi alla cervice uterina e alle mucose genitali maschili. La
diffusione di questi virus nella popolazione mondiale è tale che attualmente
una diagnosi su tre è di Hpv. La maggior parte delle infezioni è asintomatica,
tuttavia nei soli Stati Uniti ogni anno 6 milioni di persone contraggono l’Hpv,
circa 10.000 donne sviluppano il cancro della cervice uterina e di queste ne
muoiono circa 3.700. Attualmente sono in commercio due vaccini diretti uno
contro 4 e l’altro contro 2 dei precedenti 4 ceppi virali.

La grande campagna vaccinale fatta attualmente per questi vaccini,
caldamente raccomandati alle ragazze adolescenti, ma anche ai ragazzi, presenta
notevoli distorsioni della realtà, poiché non tiene conto del fatto che tutti
gli altri ceppi virali restano liberi di agire e probabilmente risultano
rafforzati dal blocco dei 4 succitati. Inoltre questi vaccini non sono stati
adeguatamente testati, come dovrebbe essere qualsiasi farmaco prima di essere
commercializzato, per cui non ci sono dati sulla loro reale efficacia, mentre
purtroppo sono già numerose le segnalazioni di casi avversi, con conseguenze
che in alcune situazioni hanno portato nalla morte o in gravissime neuropatie (vedi
su Facebook
: «Le nostre figlie non sono cavie da esperimento»). In compenso
il business di questo vaccino è elevatissimo, poiché è gratuito per le
adolescenti solo il primo ciclo (a carico del sistema sanitario nazionale), che
va ripetuto ogni 5 anni, con un costo intorno ai 500 euro a carico della
paziente.

Rosanna Novara Topino

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Rosanna Novara Topino




IL MONDO CATTOLICO E LA COOPERAZIONE

Nel
numero di dicembre
abbiamo raccontato il Forum Cooperazione che si è svolto lo scorso ottobre
a Milano, rilevando
fra l’altro l’assenza di una rappresentanza organizzata
e coesa delle Ong d’ispirazione cattolica e degli istituti missionari
all’evento. Eppure
il mondo cattolico s’interroga sulla mondialità e
fa cooperazione, eccome. Il «Forum Mondialità e pedagogia dei fatti in tempo di
crisi», organizzato
dalla Caritas Italiana a Roma il 14 e 15 novembre
2012, è stato anche un’occasione
per fare il punto della situazione.

«Operare
nella solidarietà internazionale per educare alla cittadinanza globale». Il
sottotitolo del forum sulla mondialità promosso dalla Caritas non lascia spazio
a dubbi: anche il modo di esprimersi testimonia l’interesse della Chiesa
cattolica per i temi affrontati dal Forum Cooperazione di Milano. La specificità
della Chiesa, dunque, sta nel trattare i medesimi problemi utilizzando
strumenti e linguaggio propri, perché quegli strumenti e quel linguaggio sono
il concretizzarsi di qualcosa di molto profondo che viene dall’umanità
realizzata nello «stare al mondo» di Gesù di Nazareth.

Che
i temi al centro del dibattito siano gli stessi rispetto al mondo «laico» lo si
è visto fin dalle prime battute del Forum Caritas, che si è aperto con la
presentazione del quarto rapporto di ricerca su finanza e povertà, ambiente e
conflitti dimenticati dal titolo «Mercati di guerra», realizzato da Caritas
Italiana
, Il Regno e Famiglia Cristiana e edito da Il
Mulino
. È un rapporto dettagliato e puntuale sui legami fra finanza,
mercati e guerra e va dritto al cuore del problema, a cominciare dal capitolo
sul cibo come elemento scatenante dei conflitti.

Che
Caritas sia una risorsa imprescindibile nell’analisi delle dinamiche odiee
non è un dato nuovo: come ha ricordato al forum don Antonio Sciortino,
direttore di Famiglia Cristiana, negli anni i rapporti Caritas sui
migranti sono stati fondamentali nel fare piazza pulita delle false
informazioni e privare di fondamento tanti pregiudizi sul fenomeno
dell’immigrazione in Italia. Semmai, aggiunge Sciortino, rivolgendosi a chi fa
informazione, è tempo di fare un passo oltre e di essere non più cronisti
distaccati ed equidistanti, ma coinvolti ed «equivicini».

Tanto
più che il cristiano, ha argomentato un altro dei relatori, Carmelo Dotolo
della Pontificia Università Urbaniana, è in una posizione privilegiata per
avvicinarsi a una realtà di crisi come quella di oggi: «Il cristianesimo»,
infatti, «è una religione della crisi»; vivere e produrre cambiamenti fa parte
del suo Dna, e far teologia è anche lo sforzo, la fatica di mettere in
relazione l’essere credenti con la realtà storico-culturale in cui si vive,
anche quando questo significa essere contro-culturali.

Un’analisi che annaspa

Nel
forum della Caritas, come in quello di Milano, non ci sono state grosse novità
per quanto riguarda l’analisi della globalità e del fenomeno della
globalizzazione: dai tempi di Dueling Globalizations, il celebre botta e
risposta fra il direttore di Le Monde Diplomatique, Ignacio Ramonet, e
l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman – era il 1999 -,
l’acqua passata sotto i ponti del pensiero politico non ha portato con sé
intuizioni decisive, fatta eccezione per qualche elaborazione che ci ha messo a
disposizione aggettivi (come il «liquido» e il «glocale» di Zygmunt Bauman) con
cui definire in modo più immediato, quotidiano e fruibile i fenomeni
contemporanei. Mentre l’analisi annaspa nella difficoltà di immaginare il
domani, l’oggi ha visto realizzarsi le profezie nefaste dei primi anni Duemila:
gli effetti devastanti della tracotanza della finanza internazionale sono
evidenti a tutti. Questo rende ancora più urgente proporre soluzioni concrete
che implicano una traduzione in linee d’azione di quella innata vocazione del
cristianesimo al cambiamento che Dotolo sottolinea.

Dalle idee ai fatti

Ma
tradurre in pratica le conclusioni teoriche è questione molto complicata; al
forum Caritas è toccato ad Antonio Nanni (Centro di educazione alla mondialità
– CEM) misurarsi con l’ingrato compito di definire il che fare. In un lungo
intervento dal titolo «Educare alla cittadinanza globale oggi, in tempo di
crisi. Obiettivi, strumenti, linguaggio», Nanni ha descritto le difficoltà
dell’azione educativa a partire dall’analisi della crisi in cui versa
l’educazione stessa. Particolarmente interessante la riflessione sui valori:
appellarsi a essi, ha detto Nanni, è paradossalmente controproducente in un
contesto come quello contemporaneo, perché aumenta la frammentazione invece di
diminuirla. Come se l’appello ai valori, un tempo potente magnete in grado di
attrarre o respingere (e quindi riordinare) fenomeni, eventi e gruppi umani,
avesse perso il suo potere su una realtà che non reagisce più, o reagisce solo
in parte. Quell’appello non più un agente ordinatore ma un’ulteriore spinta
alla separazione.

Nanni
ha poi indicato una serie di obiettivi – formulazione di un nuovo pensiero,
solidarietà e giustizia sociale, integrazione, partecipazione, global
governance
– e proposto una vera e propria «cassetta degli attrezzi» per
raggiungerli. Fra gli strumenti, la Tobin Tax, la promozione del
servizio civile volontario, la partecipazione ai Gruppi di acquisto solidale
(Gas), la definizione e la difesa dei beni comuni, la diffusione dei contenuti
di diversi documenti di riferimento (raccomandazioni del Parlamento europeo,
documentari sull’integrazione, testi del Pontificio Consiglio della Giustizia e
della Pace, eccetera), la predisposizione di eventi e spazi di condivisione
come le feste dei popoli e i centri interculturali, e molto altro.

Rispetto
al Forum Cooperazione di Milano, dove le indicazioni sull’agire sono mancate
quasi del tutto, il Forum Mondialità registra certamente un passo in avanti
nella direzione di una maggior concretezza. L’intervento di Nanni, pur non
proponendo strumenti nuovi, rappresenta un’ottima – e necessaria – raccolta e
sistematizzazione di quelli esistenti, che vanno quindi potenziati e sostenuti.

Cooperazione missionaria

Attento
all’esigenza delle comunità cristiane di declinare in modo praticabile
l’educazione alla cittadinanza globale, il forum Caritas ha poi proposto gruppi
di lavoro tematici organizzati nei quali all’esposizione di un tema da parte di
un esperto (tecnico) seguiva l’intervento di un esponente di un organismo ecclesiale
che lo declinava in termini pastorali.

Il
gruppo di lavoro «Educare alla cittadinanza globale e agli obiettivi di
sviluppo del millennio» (Campagna Beyond 2015) ha visto dunque la
partecipazione di Andrea Stocchiero (Federazione Organismi Cristiani Servizio
Internazionale Volontario – Focsiv) in veste di esperto e di don Gianni Cesena
(direttore dell’Ufficio Nazionale Cei per la cooperazione missionaria tra le
Chiese) come referente pastorale. La relazione di Stocchiero ha evidenziato
come nei paesi che hanno ottenuto maggior successo nell’avvicinarsi agli
obiettivi del millennio l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) ha avuto un ruolo
marginale. Quei paesi non stanno meglio grazie agli aiuti, ma grazie alla loro
capacità di attirare investimenti stranieri e alle rimesse dei loro cittadini
che lavorano all’estero (le rimesse sono pari a tre volte il totale dell’Aps).
Un dato, questo, che ha un peso evidentemente cruciale nel valutare l’efficacia
dell’aiuto.

L’intervento di don Gianni Cesena, infine ha proposto
riflessioni e dati sulla cooperazione missionaria e ha indicato una serie di
esempi concreti da applicare a livello di consigli pastorali parrocchiali per
valutare se e quanto i messaggi relativi all’educazione alla cittadinanza
globale sono effettivamente inseriti nelle attività delle comunità cristiane.

A proposito degli obiettivi del millennio, don Cesena ha
precisato che non sono stati formulati all’interno della Chiesa o con un suo
coinvolgimento e che pertanto traslarli nella pastorale sarebbe una forzatura.
Tuttavia, ha concluso, anche in essi è possibile riconoscere la «quota di
Spirito» che può giustificare l’impegno e la volontà di recepie alcuni
aspetti. Il suo intervento si è poi concluso con l’indicazione di due stili
missionari oggi superati: nella cooperazione missionaria, ha detto don Cesena,
non c’è più posto per «eroi e navigatori solitari» e il dono non può più essere
un gesto unilaterale ma uno scambio.

La «Quota di spirito»

Forse,
proprio a partire dall’espressione «quota di Spirito» si possono trarre lumi
per spiegare, almeno in parte, la partecipazione in sordina del mondo
missionario e delle Ong cattoliche al Forum Cooperazione di Milano. Le Ong
cattoliche sono molto spesso il braccio operativo della realtà missionaria che
le ha fondate, si tratti di un istituto, di un centro missionario diocesano o
di un gruppo di persone legate a un particolare sacerdote. Queste realtà vivono
la cooperazione allo sviluppo come uno dei tanti strumenti
dell’evangelizzazione e, in particolare, uno strumento per l’evangelizzazione
attraverso le opere sociali, che non sono le sole opere contemplate dall’agire
missionario. Per questo, l’ordine nella scala delle priorità che i religiosi
(e, di conseguenza, le loro Ong) attribuiscono a un evento come il Forum di
Milano dipende – per usare il linguaggio di don Cesena – dalla «quota di
Spirito» che i religiosi stessi scorgono nella cooperazione allo sviluppo. Se
questo è vero, rimane da chiedersi perché il mondo missionario ha giudicato la
quota di Spirito a Milano troppo ridotta per mobilitarsi e fare sentire la
propria voce.

Chiara Giovetti

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Chiara Giovetti




FRANCESCA SAVERIO CABRINI

Una santa nasce, cresce, si forma,
sviluppa la sua fede e scopre il suo carisma in terra lombarda; espressione
genuina di quella spiritualità dell’azione che diventa originale servizio per
gli emigranti italiani: erano i veri poveri del nostro paese. Negli anni
successivi l’Unità d’Italia, centinaia di migliaia di persone emigrarono alla
ricerca di un lavoro – specialmente in Nord e Sud America – per procurare da
vivere a sé e alle proprie famiglie. Per essere al loro fianco e per svolgere
meglio il suo servizio negli Usa, ella prende la cittadinanza americana, quindi
nella Chiesa è la prima cittadina statunitense a essere proclamata Santa.

Francesca, prova a presentare la
tua vita ai nostri lettori…

Sono
nata a Sant’Angelo Lodigiano il 15 luglio 1850, in una famiglia dalle solide
tradizioni cristiane. Durante la scuola per diventare maestra elementare, al
collegio del Sacro Cuore di Arluno in provincia di Milano, ho maturato la mia
vocazione religiosa, che ho coronato emettendo i voti di povertà, castità e
obbedienza nel 1874.

Fin dall’inizio, però, volevi
essere suora in un modo nuovo: consacrarti al Signore per rispondere alle
necessità dei poveri, con un carisma che rispondesse ai segni dei tempi, o
sbaglio?

No,
non sbagli. La mia giovinezza, per quanto vissuta interamente in Lombardia,
regione che oggi risulta essere il traino dell’Italia e certamente una delle
regioni dal reddito pro capite più alto del nostro paese, ai miei tempi era,
specialmente nelle campagne, una regione con una povertà diffusa e una forte
emigrazione. Vedevo giocare i bambini per strada nelle pozzanghere perché le
mamme lavoravano in filanda e i papà erano emigrati all’estero; decisi allora
di rispondere a queste sfide, fondando insieme ad alcune compagne la
congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù che si prendesse cura
di coloro che, a causa della miseria in cui vivevano, lasciavano il loro paese
alla ricerca di una vita più dignitosa. La congregazione delle Missionarie del
Sacro Cuore di Gesù è stata la prima ad affrontare l’impegno e il servizio
verso i nostri emigranti, un lavoro affidato sino ad allora a congregazioni
maschili.

Questa preoccupazione, però, non
l’avevi solo tu; altri nella Chiesa, proprio ai tuoi tempi, si aprivano al
servizio verso gli emigranti…

È
vero, mons. Giovan Battista Scalabrini vescovo di Piacenza, preoccupato dalla
partenza verso le Americhe di molte persone che svuotava intere comunità
parrocchiali, fondò più o meno in quegli anni la congregazione dei Missionari
di San Carlo Borromeo, conosciuti dal nome del loro fondatore come «Scalabriniani».
Così, per rispondere alle mutate esigenze dei tempi, nacquero in quel periodo
nuove congregazioni come quella delle Apostole del Sacro Cuore di Gesù, fondate
da suor Clelia Merloni di Forlì.

Al tuo nome, per essere
missionaria fino in fondo, hai aggiunto quello del patrono delle missioni:
Francesco Saverio…

Sì,
e ho voluto mantenerlo al maschile proprio per non togliere il copyright
di andare in tutto il mondo al servizio dei fratelli, del più intrepido e
valoroso dei missionari di tutti i tempi.

Qual è stato il tuo campo di
azione?

Nel
1889 mi recai negli Stati Uniti per prestare assistenza agli immigrati
italiani. A quei tempi il viaggio verso le Americhe durava qualche mese in nave
e confesso che l’aver attraversato l’oceano mi diede una carica indicibile:
sbarcai a New York, ma non mi fermai in quella che voi chiamate la «Grande mela»,
mi addentrai nell’interno, alla ricerca di comunità di emigranti italiani per
dare loro tutto il nostro aiuto. Devo dire che più le nostre attività si organizzavano
attorno alle comunità dei nostri emigranti, più le necessità di dare un
servizio accurato e di strutturare meglio il nostro lavoro mi portavano ad
attraversare l’oceano Atlantico: lo feci ventotto volte sui bastimenti di
allora. In più attraversai le Ande per raggiungere Buenos Aires, partendo da
Panama. Erano viaggi faticosi che avrebbero stroncato chiunque.

In un ambiente maschile come
quello dell’emigrazione italiana, qualche curiosità dovevano pur crearla delle
suore che a dorso di mulo si addentravano verso il selvaggio West di quelli che
sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America…

Non vi dico i commenti, che arrivavano specialmente dai Wasp
(White Anglo-Saxon Protestant, bianco anglosassone protestante). Però,
quando cominciammo a costruire asili, scuole e convitti per studentesse,
orfanotrofi, case di riposo, ospedali, il discorso cambiò radicalmente.
Cominciarono a rispettarci e ad aiutarci.

Con la lingua come te la cavavi?

Oltre
all’inglese, imparai anche lo spagnolo e gesticolavo una miriade di dialetti
italiani per poter comunicare con la gente della mia terra, che a mala pena
sapeva parlare l’italiano; ma nel 1909 proprio per affermare la mia
inculturazione nel nuovo continente, presi la cittadinanza americana.

Le tue iniziative benefiche e le
tue opere caritative, ben presto si svilupparono e divennero dei punti di
riferimento importanti per i nostri connazionali…

Certamente.
E mi è caro sottolineare che, dal punto di vista economico, mettevamo al primo
posto l’autogestione delle opere aperte, grazie agli aiuti che ci venivano
dati, oltre a una piccola quota, imposta a quanti tra i beneficiari lavoravano,
per il buon funzionamento di quanto avevamo realizzato per loro.

Immagino che la vostra azione
avesse molteplici sfaccettature, così pure le iniziative dovevano essere
diversificate per rispondere alle differenti esigenze legate ai problemi
dell’immigrazione.

Ti
dirò, la cosa più importante era dare ai nostri connazionali la possibilità di
esprimersi nella lingua del paese che li aveva accolti, per cui proponevamo
incessantemente corsi di lingua inglese, davamo assistenza burocratica ai nuovi
arrivati e curavamo la corrispondenza con le famiglie di origine rimaste in
Italia. Cercavamo poi di raggiungere i più emarginati e lontani logisticamente,
visitare gli infermi e quelli che finivano in carcere.

Certo che per gli americani
dell’Ottocento vedersi arrivare queste migliaia (col tempo milioni) di
disperati dall’Italia non doveva essere una cosa facile da ingoiare, seppur
bisognosi di mano d’opera, covavano in animo sentimenti di antipatia e
avversione non indifferenti, o sbaglio?

Guarda,
ti rispondo facendoti leggere una relazione dell’ispettorato per l’Immigrazione
del Congresso degli Stati Uniti d’America del 1912 che dice così:

«Generalmente
sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro
puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si
costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove
vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro
affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due
e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro,
sei, dieci, venti. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente
antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma
sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre
anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che
faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al
furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché
poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri
consumati dopo agguati in strade periferiche, quando le donne tornano dal
lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma,
soprattutto, non hanno saputo selezionare fra coloro che entrano nel nostro
paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura,
attività criminali. Propongo che si privilegino i lombardi e i veneti, tardi di
comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad
abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite, e
non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di
questa relazione, provengono da altre regioni d’Italia. Vi invito a controllare
i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere
la prima preoccupazione».

Sembra di leggere un comunicato
che riflette sentimenti di rifiuto dello straniero, del diverso presenti in
certi ambienti nostrani…

È
proprio vero che la storia è maestra di vita, ma il più delle volte essa è
inascoltata; ai poveracci che,ancora oggi varcano i mari, intraprendendo veri e
propri viaggi pericolosi per sfuggire a guerre, violenze, calamità naturali o
più semplicemente per dare un futuro dignitoso ai propri figli attraverso il
lavoro che nei loro paesi non c’è, viene negata quella dignità insita in ogni
persona umana, creata a immagine di Dio, e questo dovrebbe far riflettere.

Ieri
io, Francesca Saverio Cabrini, insieme a donne che non avevano paura di
affrontare prove e sacrifici, ho cercato di dare una risposta ai segni dei
tempi, oggi mettetevi in gioco pure voi, le occasioni non mancano. Buon lavoro
ragazzi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

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Mario Bandera




USATE LA TESTA! (Malattie sessuali – 2)

LE «MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE»
(seconda parte)
Per
evitare i seri problemi connessi alle malattie sessualmente trasmesse (Mst)
basterebbe tenere comportamenti prudenti e
conoscere le varie patologie.
Il tutto, come ricorda anche il nostro titolo, è riassumibile in una semplice
esortazione: «Usate la testa!».

Nel nostro precedente articolo abbiamo visto che la
diffusione delle «infezioni sessualmente trasmesse» sta assumendo proporzioni
preoccupanti a livello mondiale e che le loro conseguenze possono compromettere
seriamente la qualità della vita, se non addirittura la vita stessa. Le sequele
di alcune di queste patologie possono – inoltre – portare a sterilità. È perciò
indispensabile prevenire queste malattie, soprattutto perché non per tutte
esistono cure efficaci. La prevenzione si basa sull’adozione di comportamenti
prudenti, nonché sulla conoscenza di queste infezioni e delle loro conseguenze.
Pertanto, in questa seconda parte e nella prossima saranno descritte le
principali malattie sessualmente trasmesse.

Premetto che le malattie causate da batteri e da protozoi
sono curabili mediante antibiotici, che invece non agiscono sui virus, per
alcuni dei quali vengono utilizzate combinazioni di farmaci antivirali, che,
allo stato attuale, riescono a contenere l’infezione, ma non a guarirla
definitivamente. La cura va estesa alla coppia, per evitare possibili
reinfezioni. Nel caso di persone con rapporti promiscui, bisognerebbe risalire
a tutte le persone potenzialmente contagiate.

Cominciamo con il descrivere le malattie di più vecchia
data.

LA SIFILIDE

La sifilide (detta anche lue) è una malattia
batterica, il cui agente eziologico è il Treponema pallidum, una
spirocheta (vedi Glossario) molto sensibile alle condizioni ambientali,
per cui normalmente viene trasmessa da persona a persona attraverso un rapporto
sessuale. Talvolta avviene la trasmissione simultanea di sifilide e di
gonorrea, che vedremo successivamente. Delle due sicuramente è più pericolosa
la prima, che ogni anno uccide circa 100.000 persone al mondo, contro le 1.000
della seconda. Negli ultimi anni, l’incidenza della sifilide è aumentata a
livello mondiale. Basta pensare che solo negli Stati Uniti è passata da circa
6.000 nuove infezioni nel 1997 alle attuali più di 10.000. Troviamo un’analoga
situazione nel Regno Unito, in Australia, in Europa (specialmente nell’est
Europa ed in particolare in Russia), in Cina. Nell’Africa sub-sahariana, la
sifilide è responsabile del 20% delle morti perinatali. Si ritiene che circa 12
milioni di persone siano state colpite dalla sifilide nel 1999, con più del 90%
dei casi registrati nei Paesi in via di sviluppo. Si stima inoltre che questa
malattia colpisca tra le 700.000 e 1,6 milioni di donne gravide all’anno; in
questo caso è possibile la sua trasmissione transplacentare con aborti
spontanei, bambini nati morti e neonati con sifilide congenita. Le spirochete
della sifilide vengono trasmesse attraverso microlesioni, che possono
facilmente trovarsi sulle mucose genitali (nel 10% dei casi la sifilide è
extragenitale, di solito localizzata nella regione orale). Se non curata, la
sifilide si sviluppa in tre stadi successivi, l’ultimo dei quali può
concludersi con la morte del paziente per interessamento dei sistemi
cardio-circolatorio e nervoso. Il decorso della malattia, in assenza di cure,
può essere di svariati anni (fino a 20). Nel primo stadio, o sifilide primaria,
dopo un periodo di latenza variabile da 2 settimane a 2 mesi, compare nel luogo
d’infezione (di solito nelle mucose coinvolte in atti sessuali) una lesione
caratteristica detta sifiloma primario, una sorta di papula non dolorosa, che
produce un essudato contenente i batteri attivi ed infettivi.
Contemporaneamente si verifica il rigonfiamento dei linfonodi vicini. Questa
sintomatologia dura circa un paio di settimane, per poi risolversi spontaneamente.
Questo fatto spesso induce il paziente a sottovalutare le conseguenze: in
assenza di cure antibiotiche, ciò comporta la possibilità di diffusione delle
spirochete dal sito iniziale a varie parti del corpo tra cui le membrane
mucose, gli occhi, le articolazioni, le ossa, il sistema nervoso. A distanza di
diversi mesi (fino ad un paio d’anni) dalla lesione iniziale, compare quindi la
sifilide secondaria, caratterizzata inizialmente da un esantema (Glossario)
diffuso, detto roseola, seguito dalla comparsa di numerosissimi sifilomi simili
a quello primario, distribuiti ovunque e anch’essi contenenti treponemi
infettivi, con linfoadenopatia (Glossario) diffusa. Circa un quarto dei
pazienti in questo stadio va incontro a guarigione spontanea, un altro quarto non
procede verso un’ulteriore evoluzione della malattia, ma cronicizza in
un’infezione permanente, mentre la metà dei pazienti giunge al terzo ed ultimo
stadio, o sifilide terziaria, caratterizzata da iniziali lesioni cutanee
simil-psoriasiche ed eczematose, che possono trasformarsi in gomme luetiche (Glossario)
distribuite in tutto il corpo e da infezione dei sistemi cardio-circolatorio e
nervoso. L’interessamento di quest’ultimo porta spesso alla cecità, alla tabe
dorsale (Glossario) ed alla follia. La penicillina G benzatina è uno dei
più efficaci antibiotici contro la sifilide, quindi la malattia può essere
curata, a patto di una diagnosi tempestiva effettuabile mediante test di
laboratorio come il Vdrl e il Tpha.

LA GONORREA

La gonorrea o blenorragia è anch’essa una
malattia batterica causata da un diplococco, la Neisseria gonorrhoeae,
un patogeno molto sensibile alla disidratazione, alla luce solare ed
ultravioletta, che normalmente non riesce a sopravvivere lontano dalle mucose
del tratto genito-urinario. Questa malattia è molto più diffusa della sifilide,
poiché spesso si presenta in forma asintomatica, specialmente nelle donne,
quindi non viene riconosciuta. La sintomatologia della gonorrea è diversa tra
donne e uomini. Nelle donne si presenta con una vaginite spesso lieve, con
leucorrea (Glossario), non dissimile da quelle causate da altri
microorganismi, per cui può essere sottovalutata dalla donna, oppure con una
cervicite, poiché uno dei primi siti coinvolti è la cervice uterina. È però
temibile una sua complicanza, la malattia infiammatoria pelvica (Mip), che può
portare a sterilità. Si stima che circa 1/3 di donne infette vada incontro alla
Mip. Il diplococco della gonorrea può facilmente interessare anche le mucose
oculari e condurre a gravi infezioni oculari neonatali, che possono portare
alla cecità. L’infezione del neonato avviene alla nascita, durante il passaggio
nel canale del parto. Per prevenire questo pericolo, alla nascita gli occhi di
tutti i neonati vengono trattati con un unguento contenente eritromicina. Negli
uomini i sintomi più frequenti sono le uretriti ed i disturbi alla minzione, ma
possono verificarsi complicazioni per l’estensione dell’infezione batterica
all’epididimo ed alle vescichette seminali, con conseguente sterilità maschile.
In entrambi i sessi possono inoltre verificarsi proctiti e faringiti, poiché il
gonococco può colpire le mucose delle sedi anale e faringea. Inoltre le
complicanze da gonorrea non curata possono comprendere danni alle valvole
cardiache ed alle articolazioni. Fino agli anni ’80 il trattamento con
penicillina è stato il metodo d’elezione per curare la gonorrea, ma negli anni
successivi sono comparse forme resistenti a tale antibiotico (per mutazione
batterica), soprattutto a partire dal 2006, quando si è giunti al 14% di ceppi
di Neisseria resistenti, per cui si è dovuto ricorrere ad antibiotici diversi,
come il cefixime ed il ceftriaxone. Il problema della resistenza agli
antibiotici è di particolare gravità per tutte le patologie batteriche, perché c’è
il rischio (molto concreto ed attuale purtroppo) della diffusione o della
ricomparsa di malattie, che con la scoperta degli antibiotici erano state quasi
debellate o almeno curate agevolmente. Questo è il motivo per cui si raccomanda
di assumere gli antibiotici soltanto in casi di effettiva necessità ed
esclusivamente sotto il controllo medico, per scongiurare il rischio di
ritrovarsi infetti da un ceppo mutato, verso il quale non esistono cure. La
diffusione di questa patologia nel mondo rimane molto elevata per i seguenti
motivi: (1) non esiste una valida immunità acquisita, poiché vengono prodotti
anticorpi, che verosimilmente sono ceppo-specifici, quindi sono sempre
possibili nuove infezioni con altri ceppi di Neisseria nel corso della vita;
(2) l’uso dei contraccettivi orali favorisce l’attecchimento di questo
batterio, poiché riduce enormemente la produzione del glicogeno vaginale, con
conseguente aumento del pH vaginale e repentina scomparsa del lattobacillo di
Doderlein, un batterio commensale, la cui assenza favorisce l’infezione da
parte dei ceppi patogeni; (3) la possibilità che la malattia si presenti in
forma asintomatica nella donna favorisce enormemente la sua trasmissione nei
rapporti non protetti, specialmente nel caso di promiscuità sessuale.

INFEZIONI DA CLAMIDIA

La Chlamydia trachomatis (o più
comunemente clamidia) viene spesso trasmessa contemporaneamente alla gonorrea
(si stima nel 50% dei casi di gonorrea), oppure da sola e rappresenta una delle
più diffuse patologie a trasmissione sessuale. Si tratta di un microorganismo
intracellulare obbligato (che cioè svolge il suo ciclo vitale all’interno delle
cellule, comportamento tipico dei virus, piuttosto che dei batteri, che
normalmente stanno al di fuori delle cellule ed esplicano la loro azione con la
produzione di tossine). Tuttavia non è un virus, poiché presenta
contemporaneamente entrambi gli acidi nucleici (Dna ed Rna) ed inoltre risponde
agli antibiotici, a differenza dei virus. Si stima che le infezioni da clamidia
restino asintomatiche nel 70% delle donne contagiate e nel 50% degli uomini, il
che spiega l’enorme diffusione di questa patologia. Quando i sintomi sono
presenti, molto spesso si manifestano sotto forma di uretrite non gonococcica
in entrambi i sessi. In certi casi l’uretrite da clamidia può evolvere con
edema testicolare ed infiammazione della prostata nell’uomo e con infiammazione
della cervice e malattia infiammatoria pelvica (Mip) nella donna. Nelle donne
possono verificarsi gravi danni alle tube di Falloppio (vedi Glossario),
che portano alla sterilità in percentuale variabile tra il 10-40%. La clamidia
può essere trasmessa ai neonati al momento del parto ed essere causa di
congiuntivite e di polmonite neonatale. Alcuni ceppi di clamidia (in questo
caso non trasmessi con i rapporti sessuali, ma con l’acqua contaminata) sono
responsabili di una gravissima patologia oculare, il tracoma, spesso causa di
cecità. Questa patologia è diffusa in tutto il mondo, ma soprattutto in Africa,
Medio Oriente, Australia e parte dell’Asia. Il Paese più colpito è la Nigeria
(quasi metà della popolazione a rischio). Una patologia piuttosto insidiosa
data dalla clamidia è il linfogranuloma venereo, più diffuso tra gli uomini,
che tra le donne. La sintomatologia compare a circa un mese dal contagio e
consiste nella formazione di dolorose ulcere a livello degli organi genitali o
del retto, talvolta con formazione di fistole. Normalmente c’è rigonfiamento
dei linfonodi inguinali. In assenza di cure adeguate possono verificarsi
complicazioni per diffusione dell’infezione alle articolazioni, al sangue o al
cervello, con la comparsa di setticemia o di meningite. Il linfogranuloma
venereo è raro negli Stati Uniti ed in Europa (nel 2011 tuttavia è stato
registrato un focolaio di 72 casi a Barcellona soprattutto tra omosessuali già
contagiati dall’Hiv), mentre è più diffuso in Sud America ed in generale nei
Paesi tropicali. Questa patologia è curabile con antibiotici come la
doxiciclina, l’eritromicina e la tetraciclina.

ULCERA MOLLE E TRICOMONIASI

Tra le malattie batteriche sessualmente
trasmesse c’è anche l’ulcera molle o cancroide, data dall’Haemophilus ducrey,
molto raro nei Paesi temperati e frequente invece nei Paesi tropicali e
sub-tropicali, soprattutto in Africa, Sud America e Asia. La malattia è molto
contagiosa e l’infezione può propagarsi da un punto all’altro del corpo, ma non
costituisce una minaccia per la vita. Anche in questo caso possono esserci
persone del tutto asintomatiche, ma infettive e chi è contagiato da questo
batterio presenta un rischio sette volte maggiore di contrarre l’Aids. Anche in
questo caso si formano ulcere a livello dei genitali, con ingrossamento dei
linfonodi, fistole e perdite sierose o purulente.

Il Trichomonas vaginalis è un protozoo
responsabile della tricomoniasi. Esso si localizza prevalentemente nella
vagina, ma può interessare anche altri organi dell’apparato urogenitale e può
colpire sia donne che uomini. A livello vaginale provoca un innalzamento del
pH, poiché inibisce il lattobacillo di Doderlein, che invece acidifica
l’ambiente vaginale proteggendolo dai batteri provenienti dall’esterno. Nella
donna la sintomatologia va dalla vaginite con leucorrea all’alterazione del
ciclo mestruale, ai disturbi urinari, accompagnati da nausea, irritabilità,
dimagrimento, pollachiuria. Possono esserci manifestazioni emorragiche dovute
all’indebolimento dell’epitelio vaginale per carenza di estrogeni e per la
presenza del Trichomonas ed inoltre può esserci un rapporto tra questa
infezione e la sterilità poiché l’innalzamento del pH vaginale non è idoneo
alla sopravvivenza degli spermatozoi. È stata inoltre riscontrata una
correlazione altamente significativa tra la tricomoniasi vaginale e gli stati
precancerosi e cancerosi osservati nella citologia vaginale. Negli uomini il Trichomonas
provoca uretriti acute o croniche. Nel secondo caso possono esserci anche
balanite, prostatite ed epididimite. La terapia si avvale di antimicotici sia
per uso topico, che per via orale, come l’imidazolo ed il metronidazolo. La
percentuale di donne colpite varia tra il 9-20% nelle donne di origine
asiatica, tra il 20-30% in quelle di origine europea e tra il 40-70% in quelle
di origine africana. La percentuale di uomini colpiti si aggira intorno al 10%.
È opportuno ricordare che il Trichomonas vaginalis può sopravvivere 1-2
ore su superfici umide e 30-40 minuti in acqua, per cui può essere acquisito,
oltre che con i rapporti sessuali, anche attraverso l’uso di servizi igienici,
panche, saune ed asciugamani contaminati.

Le malattie viste finora sono tutte di tipo
batterico o protozoario, di solito controllabili con antibiotici. Negli ultimi
tre decenni si sono però diffuse infezioni sessualmente trasmesse – provocate
da virus come quello dell’Aids, delle epatiti virali, dell’herpes genitale e
del papilloma umano – molto più difficili da affrontare e responsabili di
milioni di decessi. Le scopriremo nella prossima puntata.

Rosanna
Novara Topino

(fine seconda parte –
continua)

GLOSSARIO

Balanite:
infiammazione della testa del glande spesso estesa anche al prepuzio. In questo
caso si dice balanopostite.

Cervicite:
infiammazione della cervice uterina.

Citologia
cervico-vaginale
(Pap Test): studio delle esfoliazioni dell’epitelio vaginale
altrimenti conosciuto come Pap Test, dal nome del suo ideatore George
Papanicolau. L’esame serve ad evidenziare lesioni citologiche precursori di
neoplasie cervicali, in modo da effettuare sia la prevenzione che la diagnosi
precoce dei tumori del collo dell’utero. Permette inoltre di evidenziare le
lesioni cervico-vaginali virali, batteriche, micotiche o protozoarie e di
valutare il clima ormonale.

Diplococchi:
tipi di batteri sferici od ovoidali (cocchi) riuniti in coppie, come il gonococco
(gonorrea) ed il meningococco (meningite).

Epididimo:
è una parte dell’apparato genitale maschile. Si tratta di un dotto di piccolo
diametro più volte ripiegato, che collega i dotti efferenti dal retro del
testicolo al dotto deferente.

Esantema:
qualsiasi eruzione cutanea con alterazione del colore della cute.

Glicogeno:
è un polimero del glucosio di origine animale analogo all’amido di origine
vegetale. Funziona da sostanza energetica di riserva.

Gomma
luetica
: processo patologico caratteristico del periodo terziario della
sifilide che si manifesta con lesioni singole o multiple, costituite da nodosità
piuttosto grosse localizzate agli arti, alla cute, alle mucose, al fegato, alle
ossa e ad altre parti del corpo. Dopo un primo periodo detto di crudezza, in
cui le lesioni si presentano dure, queste nodosità si rammolliscono e
successivamente si ulcerano liberando una sostanza filante costituita da
residui necrotici dei tessuti caduti in disfacimento.

Fistola:
comunicazione patologica tubulare tra due strutture o tra due cavità
dell’organismo o tra esse e l’esterno.

Leucorrea:
secrezione vaginale abbondante.

Linfoadenopatia:
tumefazione, cioè ingrossamento dei linfonodi. In genere si manifesta nel
collo, nelle ascelle, nell’inguine, nel torace e vicino alle clavicole. Può
manifestarsi in concomitanza di processi infiammatori, linfomi, infezioni
virali o batteriche, alterazione della produzione endocrina, neoplasie o
patologie del tessuto connettivo.

Pollachiuria:
emissione con elevata frequenza di piccole quantità di urina. Può essere
correlata a malattie della vescica, dell’uretra e della prostata di tipo
infiammatorio o neoplastico.

Proctite:
infiammazione dell’intestino retto.

Setticemia:
detta anche sepsi, è una complicazione potenzialmente letale di un’infezione.
Si verifica quando le sostanze chimiche, che entrano in circolo per combattere
l’infezione, scatenano un’infiammazione diffusa in tutto l’organismo.
L’infiammazione crea trombi microscopici, che possono impedire alle sostanze
nutritive e all’ossigeno di raggiungere gli organi. È così possibile il
verificarsi dello shock settico, con improvvisa diminuzione della pressione e
decesso del paziente.

Spirochete:
batteri a forma di spirale e dotati di flagelli alle due estremità.

Test
sierologici:
per l’identificazione della sifilide, Tpha (Treponema Pallidum
Hemoagglutination Test) e Vdrl (Venereal Disease Research Laboratories).

Tabe
dorsale:
malattia del midollo spinale conseguente all’infezione sifilitica,
dopo 5-15 anni. Rappresenta una delle manifestazioni più importanti del periodo
terziario. Questa malattia produce lesioni ai nervi radicolari, provocando la
distruzione progressiva delle radici posteriori. Prevalgono gravi disturbi
della cornordinazione dei movimenti, diminuzione o abolizione della sensibilità
profonda o tattile, con conservazione di quella termica e dolorifica.

Tube
di Falloppio:
dette anche salpingi o ovidotti, sono due organi tubulari che
collegano le ovaie alla cavità uterina, permettendo il passaggio dell’ovocita e
la sua fecondazione.

Uretrite:
infiammazione dell’uretra.

(RNT)

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Rosanna Novara Topino




(Cana 38 – ultimo) DAL MIRACOLO AL SEGNO

«Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra» (Gen 9,135)
Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in Cana di Galilea,
manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi discepoli».
(Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs en Kanà tês Galilàias
kài ephanèrōsen tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài autoû).

Ci fermiamo ancora su Gv 2,11 perché è un versetto inesauribile e pregnante. Nella puntata precedente lo abbiamo tradotto mettendo in seconda linea l’aspetto «miracolistico» (mentre faceva questo principio dei segni) e ponendo in risalto «la rivelazione» della gloria di Gesù che suscita la fede dei discepoli (cominciarono a credere in lui). Se questo, come crediamo, è il punto focale di tutto il racconto di Cana, significa che la narrazione ha come scopo e obiettivo due momenti: la manifestazione della gloria e la fede, come conseguenza della rivelazione. Di nuovo siamo proiettati nell’esodo, ai piedi del Sinai, dove il popolo per mezzo di Mosè «vide» la Gloria di Dio che suscitò la fede che si espresse nella professione: «Quanto il Signore ha detto, noi faremo e ubbidiremo» (Es 24,7).
Il Sinai è il monte principe, anzi «il principio» della rivelazione, la prima manifestazione «spettacolare» di Yhwh a cui partecipa tutta la natura con «tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno» (Es 19,16). Cana è un villaggio anonimo, dove Gesù pone «il principio» della sua personalità che si manifesta come ripresa del tema dell’alleanza che deve essere rinnovata. Sul Sinai Dio espose il suo Nome attraverso la Toràh; a Cana Gesù toglie il velo alla sua «Gloria», cioè alla sua personalità e consistenza ed esige un’adesione di fede.

Il «principio» dalla Genesi a Cana
A conclusione del racconto di Cana, quasi a darcene la chiave, Gv presenta il primo gesto pubblico di Gesù come «principio dei segni» (archên tôn sēmèiōn), cioè fondamento, radice, profondità di quanto segue. La conclusione del racconto di Cana richiama l’inizio del IV vangelo: «In principio era il Lògos» (en archêi ên ho Lògos) che a sua volta richiama il «principio» assoluto della Bibbia, la prima parola della Scrittura, in Genesi 1,1 nell’atto di Dio creatore: «Nel principio del “Dio creò il cielo e la terra”…» (ebraico: bereshìt barà ‘èlohim hashammàim we’et ha’arez; greco: en archê1 epòiēsen ho thèos ton ouranòn kài epì ghên).
Ci troviamo di fronte a tre «principi»: al fondamento della creazione, all’origine del Lògos e sua relazione col Padre, alla svolta della vita di Gesù che inaugura il Regno. Il primo «principio» genera la vita, il secondo «principio» svela la natura di Dio, il terzo rivela la persona di Gesù.
Nel primo «principio» Dio fa alleanza con il creato e il cosmo, umanità compresa; nel secondo «principio» è Dio stesso che prende dimora nella caducità creata (il Lògos carne fu fatto di Gv 1,14); il terzo «principio», di Cana, riporta il creato e l’umanità, attraverso il Lògos, all’«origine» della vita di relazione: all’alleanza garantita dalla Toràh del Sinai. Il creato fa da sfondo superbo all’azione di Dio, Israele fa da sfondo all’ingresso del Lògos nel tempo, l’anonimato di un comune sposalizio a Cana, villaggio senza storia, fa da sfondo alla rivelazione di Gesù, che inaugura, come è suo costume, la nuova logica di Dio, il quale sceglie «quello che è stolto per il mondo… quello che è debole… quello che è disprezzato… quello che è nulla» (1Cor 1,27-28).
A Cana, forse, la madre ha appreso l’esultanza dello spirito perché vi ha trovato «il principio» dell’umiltà della sua serva (Lc 1,47-48). La logica dell’incarnazione porta inevitabilmente il Figlio ad accettare radicalmente la prospettiva umana fino al punto di «svuotare se stesso» (Fil 2,7) della divinità, cioè della sua natura. Paolo infatti usa il verbo «ekènōsen» che ha il senso della privazione/mancanza/impoverimento. Nel momento in cui Gesù mette piede a Cana e dà inizio al «principio dei segni», Dio rinuncia per sempre alla sua onnipotenza per essere il Dio svuotato che può essere conosciuto solo nella rivelazione del volto del Figlio, volto umano e non più divino, volto opaco che bisogna indagare, scrutare, riconoscere e amare.

Dio è «pesante»
La «Gloria» che egli manifesta a Cana è solo un altro «principio» che si compirà alla fine del suo percorso, sulla croce, dove l’impotenza di Dio diventerà il fondamento della salvezza universale, quando Dio rinuncia per sempre a dare «spettacolo» a buon prezzo, scendendo dalla croce, per essere per sempre «uomo tra gli uomini», umano tra gli umani con la fatica di sopportare il limite, la ricerca e la morte. La «Gloria» che comincia a manifestarsi a Cana si compirà a Gerusalemme, cuore della fede e dell’alleanza di Israele che è il tempio della Città Santa.
In ebraico «Gloria» si dice «kabòd» (in greco dòxa) e l’idea originaria di fondo è «il peso», cioè la consistenza, la stabilità. Una persona è «gloriosa» se ha «peso», cioè se ha un essere consistente e solido; per questo l’orientale ama il «grasso»: la persona grassa è più pesante e ha più consistenza e quindi è più «gloriosa». La persona mingherlina è senza valore perché non ha «peso/essere», o quanto meno ne ha poco.
Gesù a Cana manifesta per la prima volta il suo «peso», cioè fa intravvedere la sua profonda personalità, che è solida e stabile perché suscita la reazione dei discepoli, che a loro volta si mettono in moto perché «cominciarono a credere».
La Gloria del Dio dell’alleanza nuova non può non manifestarsi sulla croce, quando l’ora di Gesù segna il tempo di Dio, perché «bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26). Mosè visse per poter vedere la Gloria del Dio del Sinai: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18), ma dovette accontentarsi di sentire Dio di striscio, anzi per «intuizione» perché non era ancora arrivata «l’ora della croce» che è la sola che segna la Shekinàh nuova di Dio in mezzo all’umanità:

«19Rispose: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te… 20Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. 21Aggiunse il Signore: “… 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere”» (Es 33,19-23).

Da Cana alla Croce, il desiderio di Mosè è compiuto perché, nel suo abitare in mezzo a noi, il Lògos si rende sperimentabile e palpabile (1Gv 1,1-4) e si offre alla nostra contemplazione: «…e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno della grazia della verità» (Gv 1,14). In altre parole, Cana è «il principio», cioè il punto fondamentale e iniziale della nuova rivelazione, che non si sostituisce a quella del Sinai, ma la riprende per portarla a compimento (Mt 5,17).
Si potrebbe dire che Cana è la chiave di lettura di tutto il vangelo e senza Cana non si può comprendere quello che segue. Tutte le parole, i discorsi, le azioni di Gesù riportate dal IV vangelo devono essere lette alla luce di quanto avviene a Cana dove Gesù apre la cantina del monte Sinai che custodisce il vino messianico e lo distribuisce a quanti sono disponibili per la purificazione e ricevere la nuova Toràh che non è più una coppia di pietre scritte, ma la persona stessa del Figlio che abolisce la distanza che impediva a Mosè di vedere la Gloria.
Ora chiunque può vedere la Gloria e misurae la consistenza e il peso, basta che «cominci a credere», cioè si apra all’incontro che segna «il principio» dell’alleanza nuova per dare inizio a un nuovo esodo che porterà non tanto a una terra da possedere, ma al Calvario, a un Dio che offre la sua vita come «principio e fondamento» del nuovo tempio di Dio: l’umanità stessa di Dio e di ogni creatura.

Il «segno» non è un miracolo
Abbiamo tante volte fatto riferimento al termine «segno», distinguendolo dal termine «miracolo» per evitare confusioni. Oggi, nonostante siamo nel terzo millennio, indugiamo facilmente al miracolistico, spesso banalizzando anche il comportamento di Dio che viviamo come proiezione del nostro agire. Per la nostra cultura, «miracolo» è qualcosa che avviene contro o almeno superando le leggi di natura e quando non abbiamo risposte immediate a situazioni o eventi, diciamo con superficialità «è un miracolo», per dire di cosa inattesa, improvvisa, impossibile.
Non solo, usiamo il «miracolo» e lo esigiamo come «prova». Per la beatificazione o la santificazione di qualcuno, si chiede «un miracolo» come prova che Dio è dalla sua parte. Se vogliamo entrare nella mente dell’autore del vangelo, dimentichiamo questo modo di ragionare «ragionieristico» che appartiene alla religione dell’efficienza e siamo disponibili a entrare nel mondo della fede che non chiede prove o miracoli da mostrare, ma cerca il Volto da contemplare.
L’autore del IV vangelo usa il termine «sēmèion» che vuol dire «segno», dove ricorre 17 volte: 8 volte nel racconto dell’evangelista che narra (Gv 2,11.23; 4,54; 6,2.14; 12,18.37: 20,30), 7 volte lo usano i Giudei per giustificarsi nella loro incredulità verso Gesù (Gv 2,18; 3,2; 6,30; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47) e 2 volte soltanto lo usa Gesù (Gv 4,48; 6,26). Se osserviamo bene, escluso uno (Gv 20,30), tutte le altre 16 volte il termine è utilizzato solo ed esclusivamente nella prima parte del vangelo, quella che appunto viene chiamata e distinta come «Vangelo dei segni», mentre la seconda parte è detta «Vangelo dell’ora». La prima parte del vangelo è propedeutica, è introduttiva alla seconda e ci aiuta a penetrare il momento drammatico della «morte di Dio», che paradossalmente diventa la vita degli uomini: è un atto creativo del nuovo Adam ed Eva che è il Regno di Dio, la Chiesa, la nuova Umanità.
Il «segno» non è un miracolo, tanto meno un gesto con cui si vuole dimostrare qualcosa. Se Giovanni avesse voluto parlare di dimostrazione avrebbe usato un altro vocabolario, come «dýnamis – potenza» o «tèras – miracolo/prodigio», anche perché in Gv 4,48 è Gesù stesso che rimprovera questo tipo di religiosità: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» e usa i due termini «sēmêia kài tèrata», distinguendo così le due parole anche da un punto di vista semantico.
Il «segno» è un indirizzo, un’indicazione, una direzione, un simbolo, una prospettiva, un modo di vedere e di pensare. Esso esige attenzione più che meraviglia, perché l’attenzione prestata al «segnale» deve condurre eventualmente a scelte di vita.
Se il «miracolo» ha l’obiettivo di colpire l’immaginario e lasciare storditi, per cui è indirizzato all’emotività, il «segno», al contrario, si rivolge alla coscienza e alla ragione, cioè al pensiero e quindi alla decisione.

Il segno, il segnale, la contemplazione
Il «segno di Cana» ci svela l’inganno delle apparenze: quello che sembrava non è e quello che non appariva si manifesta: lo sposo non è il malcapitato del racconto che resta senza vino, ma lo «Sposo» è Gesù, che dà inizio al tempo delle nozze dell’umanità sulla scia dell’alleanza incompiuta del monte Sinai.
Nel secondo «segno» che Gesù compie (Gv 4, 46-54) e cioè la guarigione del figlio del centurione romano «il segnale» sta nel fatto che Gesù si presenta non più come sposo, ma come il Dio creatore che dà la vita. Le nozze e il figlio del centurione sono i primi due «segni» e avvengono tutti e due «a Cana di Galilea», cioè nella regione che era considerata pagana. Un «segno» (le nozze) si compie in ambito ebraico e uno (guarigione) in ambito pagano.
Lo stesso paradigma avremo ai piedi della croce, dove «stanno» quattro donne ebree/credenti e quattro soldati romani/non credenti (Gv 19,23-25). È evidente che l’evangelista vuole mandarci «un segnale» di grande valenza: Gesù non è venuto solo per i Giudei, ma per tutti, e fin dal primo momento (Cana) nessuno ha escluso dalla sua prospettiva e dalla sua azione. Si afferma così il principio della fede universale.
«I segni» che Gesù compie hanno il compito di rivelarci le diverse angolature della complessa personalità di Gesù. Si potrebbe dire che «i segni» sono il nuovo monte Sinai che «svela» la vera natura di Gesù, il volto nuovo di Dio divenuto accessibile; per renderci più facile il cammino ci lascia indizi e segnali perché non ci smarriamo.
Un segno infatti rimanda sempre a una realtà ulteriore che non è sperimentabile e quantificabile. Nel vangelo di Giovanni sono riportati solo «sette segni», più uno verso cui convergono i primi sette, quasi a dire che essi sono sufficienti a esprimere la totalità (= il numero 7) della personalità del Signore. Basta avere la pazienza di «ascoltare» i segni e di seguie le tracce per imparare a conoscerlo.

Sette segni più uno
Il primo segno, l’acqua/vino delle nozze di Cana, è il «prototipo» di quelli che seguiranno e ci presenta Gesù come sposo nella nuova alleanza (cf Gv 3,29). Non ha ancora finito di porre «il primo segnale» del nuovo tempo nuziale, che già lo stesso Gesù sente l’esigenza di anticipare l’ultimo segno, «il segno dei segni»: la morte e risurrezione; scacciando i venditori del tempio che avevano trasformato la casa di preghiera in spelonca di latrocinio, Gesù sfida: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,18-19). Il segno/tempio di cui parla Gesù è il suo corpo, il luogo dove Dio viene annientato e dove l’umanità viene fecondata. Per questo possiamo dire che la morte e risurrezione di Gesù sono «il segno ottavo», l’ultimo, il compimento della storia della salvezza o meglio della salvezza che si è fatta storia.
Il secondo segno che svela Gesù è la guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4,46-54). Lo sposo ha fecondato la sposa e dona la vita al figlio che ne era privo.
Il terzo segno è la guarigione del paralitico, compiuta di sabato (Gv 5,1-9), atto sacrilego e bestemmia per la religione. È il segno che Dio si riappropria della sua prerogativa di creatore e non esita a sconfinare i limiti della religione.
Il quarto e il quinto segno sono la moltiplicazione dei pani e Gesù che cammina sulle acque (Gv 6,1-12). Il segno è duplice: per un verso Gesù si presenta come il creatore che nutre Adam e domina le acque della creazione, e dall’altra è colui che dà la nuova manna discesa dal cielo e attraversa il nuovo Mare Rosso per l’esodo verso il Regno di Dio. È per noi il segno dell’Eucaristia che è la sintesi dell’esperienza dell’esodo, ma anche l’anticipazione del Regno che viene.
Il sesto segno è la guarigione del cieco nato (Gv 9,1-41); siamo invitati a vedere in Gesù la «luce del mondo» per non fare la fine «dei suoi» che come le tenebre lo hanno rifiutato (cf Gv 1,3-5).
Il settimo segno è l’anticipo dell’ottavo: la risurrezione di Lazzaro dopo la sua putrefazione; erano infatti trascorsi quattro giorni dalla sua morte (Gv 11,17-44). È Gesù stesso che ne spiega il significato nel dialogo con Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (Gv 11, 25-26).
Alla fine della prima parte del vangelo (Gv 1-12), se abbiamo seguito i «segni» senza sperperarli in miracoli e prodigi, giungiamo a scoprire che «l’uomo che si chiama Gesù» (Gv 9,11) è lo stesso che sulla croce, morendo, «chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30), riportando l’umanità «al principio» della creazione, quando Adam ed Eva offuscarono lo spirito insufflato da Dio. Ora tutto è ripristinato, lo Spirito di Gesù anima ogni Adam perché scende da quella croce sulla madre e sul discepolo, su un uomo e una donna, sui soldati romani e sugli Ebrei, sull’umanità tutta. Ora veramente la nuova storia può cominciare. 

Paolo Farinella




Colorare di speranza…

Il sostegno a distanza di MCO visto da dentro

Nel numero di giugno abbiamo pubblicato la prima puntata dell’articolo in cui abbiamo descritto che cos’è e come funziona il Sostegno a distanza (SaD), mostrando il suo peso fondamentale nel comporre la cifra annuale che in Italia si destina alla cooperazione e alla solidarietà internazionale.
Abbiamo anche proposto ai lettori una breve panoramica del SaD nel nostro paese dove, accanto a giganti delle adozioni come ActionAid o Avsi, ci sono tante altre associazioni di dimensioni medie e piccole (come quelle che sostengono tanti progetti legati alle missioni della Consolata) e cornordinamenti nazionali come il ForumSad e La Gabbianella che riuniscono molte di queste realtà intorno a una carta dei principi condivisa e a dei criteri di qualità.
Abbiamo, infine, raccontato com’è cambiato il sostegno a distanza nel tempo, anche in seguito agli scandali degli anni Novanta, nell’ottica di garantire maggior trasparenza nei confronti dei donatori e superare alcuni limiti come il talvolta scarso coinvolgimento della comunità nella quale vive il bambino adottato.

Mco gestisce circa 7.000 adozioni a distanza attraverso il suo Ufficio Adozioni dove Antonella Vianzone da 15 anni segue una per una le pratiche e risponde alle richieste dei donatori.
Antonella, com’è nato il programma SaD di Missioni Consolata Onlus?
È nato come una delle attività dell’ufficio cooperazione, aperto nel 1970 da p. Mario Valli, sostituito qualche anno fa da p. Giuseppe Ramponi. Da una fase iniziale, in cui ai missionari che seguivano le adozioni sul campo non erano richieste informazioni particolarmente dettagliate, si è poi passati a una seconda fase, iniziata negli anni Novanta, in cui i donatori hanno cominciato a voler sapere di più dei bambini adottati per seguirli meglio e con maggior frequenza di contatti. Questo cambiamento è coinciso con una riorganizzazione intea, poiché i missionari che non se la sentivano di far fronte a queste nuove richieste hanno preferito rinunciare per evitare figuracce con i donatori. Le primissime adozioni sono state fatte in Kenya e in Etiopia, allargandosi poi agli altri paesi. Oggi abbiamo sostegno a distanza in quasi tutte le presenze Imc in Africa, in Brasile, in Ecuador e in Colombia. Anche la Mongolia dovrebbe entrare a pieno regime nel programma in un prossimo futuro.
Una volta avviato il sostegno a distanza, ci sono tre appuntamenti annuali nei quali il donatore viene contattato: a Natale e Pasqua quando, insieme agli auguri, gli vengono mandate alcune notizie del bambino, e un terzo momento in cui si informa il donatore dei progressi scolastici e della vita quotidiana del bambino in modo più dettagliato. Sono i missionari che si occupano direttamente di scrivere ai donatori in queste occasioni (aggiungendo magari anche la lettera o il disegno fatto dal bambino). In alcuni casi, inviano notizie anche più spesso delle tre volte stabilite. Devo dire che l’impegno paga: più i missionari mandano notizie, più le adozioni che gestiscono tendono ad aumentare. Anche perché spesso i nostri donatori diventano tali grazie al passaparola ed è chiaro che, se un missionario ha fama di essere puntuale e preciso, più persone si fideranno di lui.
In che cosa consiste esattamente il lavoro del tuo ufficio?
Io intervengo innanzitutto nella fase iniziale di molte adozioni, quando i donatori chiamano per avere informazioni preliminari e quando richiediamo ai missionari le garanzie necessarie ad accertarci che rispetteranno le scadenze. Inoltre mi attivo in tutti quei casi in cui, per qualche motivo, il donatore non ha ricevuto le notizie che si aspettava e chiama il mio ufficio segnalandomi il disguido. In ufficio conservo le schede e le foto di ciascun bambino perciò posso rapidamente risalire al missionario responsabile, capire le cause del ritardo e riferire al donatore.
Quante chiamate ricevi in una giornata?
Di solito sono circa dieci, che aumentano specialmente durante le feste di Natale, momento nel quale riceviamo più richieste di adozione rispetto agli altri mesi. C’è un rapporto umano costante con i donatori, che attribuiscono molta importanza al fatto di poter sentire una voce e non solo ricevere lettere e email. A volte alcuni chiamano anche solo per fare una chiacchierata… Forse questo è il nostro principale valore aggiunto: la presenza di un punto di riferimento, qualcuno che si può chiamare o anche vedere di persona, tanti donatori vengono qui in ufficio proprio per poter parlare con una persona reale.
Come hai visto cambiare il sostegno a distanza in questi vent’anni?
Alcune cose non sono cambiate molto, ad esempio la preferenza delle persone per l’adozione individuale e non per un gruppo: vogliono avere la percezione chiara che stanno aiutando un bambino preciso e seguirlo passo passo. Sta cambiando invece l’età dei donatori. Oggi ci sono più giovani che nel passato e questo è rivelatore di una positiva mentalità di solidarietà. Immutati sono la volontà e il desiderio di fare del bene.
Puoi tracciare un «identikit» del donatore?
Non c’è un profilo che valga per tutti. Ci sono persone che arrivano all’adozione dopo un’esperienza personale dolorosa. Allora l’adozione diventa un modo positivo di reagire al dolore vissuto, donandosi a qualcuno nel bisogno. Ci sono delle famiglie che la vivono come momento educativo nei confronti dei propri figli per aiutarli alla sobrietà e condivisione e per insegnare loro il rispetto di altri popoli e culture. Molti sono anche i benefattori anziani che così si sentono ancora utili. Ci sono anche molte scuole che promuovono adozioni per stimolare i bambini all’accoglienza del lontano e alla solidarietà con i poveri del mondo. Ci sono poi donatori che hanno richieste molto particolari e altri che semplicemente dicono di «dare a chi ha più bisogno».
Ci sono richieste difficili da soddisfare?
Sì, ci sono richieste impossibili. A volte – anche se raramente – qualcuno chiede che il bambino abbia certe caratteristiche specifiche come un certo nome o una ben precisa data di nascita. Ovviamente è quasi impossibile esaudire simili desideri. Succede anche che qualcuno mi chiami per avere informazioni su un bambino adottato trent’anni fa in una missione che è già stata consegnata al clero diocesano o al tempo di un padre che magari è già andato in paradiso. Allora devo spiegare che normalmente si seguono i ragazzi fino ai 17-18 anni, alla fine della scuola secondaria o della scuola tecnica, dopo di che diventa quasi impossibile mantenere traccia del bambino ormai cresciuto che può anche essersi trasferito in un’altra parte del paese.
Quali sono le difficoltà principali?
Le difficoltà? Beh, tante, certamente. C’è chi fa una donazione attraverso un conto corrente, senza scrivere il proprio indirizzo e poi chiama prendendomi a «male parole» perché ha fatto la donazione e non ha saputo più niente… Ma noi non avevamo proprio idea di come fare a mandare una ricevuta o una lettera di conferma. C’è chi vorrebbe notizie più regolari dell’adottato, ma il missionario non scrive molto, non manda foto o lettere. Allora è difficile spiegare che bisogna aver pazienza, che probabilmente quel missionario è preso da tanti impegni, che ci sono oggettive difficoltà di comunicazione, che ci sono missionari che scrivono solo a Natale e raramente a Pasqua, ma che comunque si prendono cura dei bambini, li seguono a scuola e fanno tutto il necessario. Spesso mi capita di dover fare l’avvocato difensore dei missionari. Ti assicuro che alcuni dei missionari fanno perdere la pazienza anche a me. So bene che tutto quello che ricevono va per i loro beneficati, ma se scrivessero qualche volta di più, faciliterebbero certamente il mio servizio.
Trovo anche difficile far capire ai donatori la scelta di alcuni missionari di «adottare» una scuola invece che singoli individui. È una scelta che viene fatta da alcuni soprattutto quando tutto il contesto sociale è molto povero e tutti i bambini hanno bisogno di aiuto. Ma dal punto di vista delle pubbliche relazioni è più difficile da spiegare, perché molti benefattori preferiscono adozioni individuali.
Oltre a queste difficoltà ci
saranno anche tante soddisfazioni…
Certo, assolutamente. A volte qualcuno chiama e dice: «Sai, stavo male, ero proprio abbattuto, ma poi è arrivata la lettera del bambino che ho adottato e mi sono sentito meglio». Oppure quando un missionario passa a visitarmi in ufficio e mi racconta di questo e di quello e di come sono aiutati i bambini e dei loro progressi. Entusiasma anche me a continuare il questo servizio.
Ci sono state disdette di adozioni a causa della crisi economica?
Sembra incredibile, ma abbiamo avuto solo due disdette in due anni… praticamente niente. Anzi, stanno perfino arrivando nuove adozioni. Pensa che ci sono persone che pur avendo perso il lavoro continuano a sostenere il bambino, magari sacrificando altre spese.
Che consiglio daresti a qualcuno che vuole fare un’adozione a distanza?
Consiglierei di vivere l’adozione come un’esperienza in cui si impara a aprire gli occhi sul mondo, senza voler nulla in cambio, di vedere il sostegno a distanza non come carità ma come uno scambio in cui si ha l’occasione di conoscere, oltreché di aiutare, un’altra persona e il luogo dove vive. Penso che il tutto possa essere riassunto davvero in questa frase: «Colora di speranza la vita di un bambino»!

Chiara Giovetti


Chiara Giovetti




3. Francesco Saverio

4 chiacchiere con…

Avere di fronte Francisco Xavier, meglio conosciuto da noi come San Francesco Saverio, significa trovarsi davanti al più missionario degli uomini intrepidi e al più intrepido dei missionari di tutti i tempi. Del resto la sua storia personale rimane forse la parabola luminosa più incisiva degli annunciatori del Vangelo. Iniziamo il nostro colloquio con lui.

Come nasce la tua vocazione missionaria?
Inizio col dire che sono un discendente di una nobile casata della città di Xavier, nella provincia di Navarra, ridotta alla miseria per la confisca di tutti i beni a opera di Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, dopo la vittoria conseguita sugli abitanti della zona che volevano una loro autonomia contando sull’aiuto della Francia. Dopo questa catastrofe per sfuggire a un futuro incerto mi rifugiai in Francia, iscrivendomi alla facoltà di teologia della prestigiosa Università della Sorbona di Parigi. Lì incontrai Iñigo de Loiola o come dite voi italiani: Ignazio di Loyola, il quale dopo essere stato ferito in battaglia, passò tre lunghi mesi immobile a letto, durante i quali leggendo diversi testi spirituali e in modo particolare il Vangelo, decise di cambiar vita. Anch’egli però desiderava accrescere la sua cultura, in quanto vivevamo tempi contrassegnati da conflitti religiosi che andavano acuendosi ogni giorno di più. Fui letteralmente conquistato dal modo di fare d’Ignazio; la sua fama di uomo d’arme convertito in discepolo mansueto di Cristo e, allo stesso tempo, il suo desiderio di combattere con le armi della ragione e dell’intelligenza gli eretici del tempo, mi attirarono sempre più nella sua orbita e con me altri giovani che sentivano il bisogno di rinnovare la Chiesa rinnovando se stessi.

Mi sembra un ottimo programma, soprattutto perché oggi molti desiderano cambiare la Chiesa senza mettersi minimamente in discussione, che avvenne dopo?
Mi tremano i polsi al solo pensarci: il 15 agosto del 1534, Ignazio, io e altri cinque giovani andammo nella chiesa di Saint Pierre di Montmartre dove ci impegnammo a vivere in povertà e castità, fondando così la Società di Gesù, in quanto volevamo essere pellegrini in Terra Santa o nel caso ciò non fosse stato possibile metterci a completa disposizione del papa.

Erano nati i Gesuiti se capisco bene.
Certo! Ignazio optò per il termine Società di Gesù in quanto due grandi santi che lo avevano preceduto, san Domenico e san Francesco, avevano dato origine a due ordini religiosi che presero il nome dei loro fondatori, Domenicani e Francescani per l’appunto. Ignazio non voleva che la nostra Compagnia fosse segnata dal suo nome, voleva che tutto riconducesse a Gesù Cristo nostro Salvatore. 

E com’è che sei finito in India, nelle Molucche, in Giappone e per un pelo non hai messo piede in Cina?
Le cose andarono così: nel 1540, Giovanni III re del Portogallo, chiese al papa, che in quel tempo era Paolo III, di inviare dei missionari per evangelizzare i popoli delle nuove colonie che i portoghesi avevano appena conquistato nelle Indie Orientali. Il Papa indicò la Compagnia di Gesù a cui affidare questo compito e sant’Ignazio scelse me come responsabile dell’attività missionaria nei nuovi territori.

Il viaggio deve essere stato lungo e faticoso immagino.
Non me ne parlare! Adesso prendete un aereo e dopo qualche ora sbarcate in qualsiasi capitale del mondo, ma a quel tempo i viaggi erano tutti via mare, con navi sospinte dal vento, io partii da Lisbona nella primavera del 1541 e arrivai a Goa in India nel maggio dell’anno successivo.

Come fu l’impatto con la realtà asiatica?
Per certi versi traumatico: a Goa vidi i portoghesi che pensavano solo a fare affari e ad arricchirsi, poco interessati all’annuncio del Vangelo. Dovetti pertanto richiamare i portoghesi a un atteggiamento più consono al messaggio cristiano e allo stesso tempo iniziai a dedicarmi ai derelitti e ai poveri che vivevano in quella città. Dopo qualche anno mi trasferii alle Molucche, dove i portoghesi avevano impiantato delle colonie e anche lì rimasi due anni.

Che traguardi raggiungesti?
Intanto cominciai a testimoniare con i miei compagni l’amore di Dio verso tutti gli uomini, a qualunque razza, lingua e popolo essi appartenessero. Venni a contatto con persone provenienti da altri paesi e mi resi conto che Goa doveva essere un trampolino di lancio verso nuovi orizzonti.

Con la lingua come te la cavavi?
Male purtroppo! Iberico di nascita parlavo sia lo spagnolo che il portoghese, essendo vissuto in Francia parlavo anche il francese e avendo fatto gli studi in latino lo conoscevo alla perfezione, me la cavavo discretamente anche con l’italiano, ma come puoi ben capire erano tutte lingue neolatine. Per parlare con la gente del posto avevo sempre bisogno di un interprete; in una città di mare non è difficile trovare al porto persone che parlano diverse lingue: lì incontrai anche alcuni giapponesi che affascinati dal messaggio evangelico mi proposero di andare ad annunciare la Buona Notizia nel loro paese, il paese del Sol Levante.
 
Quindi decidesti di partire per il Giappone. E là cosa successe?
L’incontro con la realtà nipponica modificò radicalmente il mio modo di evangelizzare: incontrai un popolo nobile e fiero e capii che Dio ci aveva già preceduti con l’azione dello Spirito. Approdato a Nagasaki, chiesi di incontrare lo Shogun, e per mostrargli in tutta povertà lo spirito del Vangelo, decisi di andare a Kyoto in veste povera e dimessa, ma non venni ricevuto. Imparai la lezione e, indossando quanto di più raffinato mi ero portato dall’Europa, chiesi di incontrare l’influente principe di Yamaguchi. Questa volta venni accolto cordialmente e ottenni il permesso di risiedere e di annunciare il Vangelo in quella città.
Ci furono conversioni?
Sì. La gente era colpita da questo Dio che poteva chiamare Padre, pieno di tenerezza verso l’umanità peccatrice, un Dio che desidera salvare gli uomini più che condannarli; negli anni che passai a Nagasaki diverse persone chiesero di essere battezzate. Feci ogni sforzo per far crescere la piccola comunità cristiana che si era formata e offrire loro un’istruzione catechistica che potesse incidere nella loro vita.

Come mai dal Giappone decidesti di partire per la Cina?
Per i Giapponesi, i Cinesi erano i maestri indiscussi di ogni scibile. Dato che i bonzi si opponevano sempre alla mia predicazione, dicendo che se la religione cristiana fosse stata vera, i cinesi l’avrebbero già conosciuta, decisi di andare in Cina per iniziare l’opera di evangelizzazione.

Però in Cina non ci sei arrivato
No! Dopo anni di intenso apostolato, di lunghi viaggi via mare, di fatiche inenarrabili, consumato anche da malattie contratte in quel periodo, ero molto debilitato, ma non per questo rassegnato a non arrivare in Cina. Riuscii ad avere un passaggio su una nave diretta a Canton, giunto però all’isola di Sancian capii che era arrivata la mia ora. Difatti lì si concluse il mio impegno missionario; negli occhi avevo l’immagine del paese a cui più di ogni altro desideravo accedere. Il mio desiderio di portare in Cina il Vangelo fu però raccolto da altri miei confratelli, tra cui il vostro Matteo Ricci, i quali qualche tempo dopo riuscirono a installarsi alla corte imperiale di Pechino, ponendo così le basi per un’azione di evangelizzazione di cui oggi vediamo spuntare i germogli.

I tempi del Signore non seguono le nostre stagioni, vero?

I suoi frutti però arrivano sempre a maturazione.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera