Dalla Signoria di Dio alla Sudditanza a Cesare | Rendete a Cesare (3)

«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

«Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei» (Gv 19,19)

Utilizzare la moneta dell’imperatore significa riconoscerne formalmente l’autorità, in cambio della possibilità di usarne i benefici per il commercio, lo scambio economico e la vita quotidiana. In questo modo chi detiene la moneta porta con sé l’immagine dell’imperatore e ne favorisce il potere. Quando vivevo in Palestina, vedendo i miei amici palestinesi che spesso manifestavano contro Israele e gli Usa, facevo loro notare una contraddizione: non era possibile contestare gli Usa, bruciandone la bandiera, vestiti con i jeans americani e calzando le scarpe nike! Nemmeno potevano andare all’assalto d’Israele con in tasca lo «shèkel», la moneta ufficiale ebraica. La prima rivoluzione deve essere morale, rifiutando i simboli del nemico, specialmente se tornano utili.

La rivoluzione di Gandhi contro il dominio inglese cominciò dal rifiuto di indossare i vestiti confezionati in Inghilterra e dal rifiuto di usare la moneta con l’effige della regina. In pochi mesi crollò l’industria tessile inglese e con essa il protettorato sull’India.

Cesare: l’idolo dei capi dei sacerdoti

Nel rispondere che l’immagine   è «di Cesare», i capi religiosi si sono condannati da soli, svelando il loro doppiogioco, fatto di compromessi e interessi: da un lato difendono la «purità» della loro religione, il cui Dio non ammette «altri dèi di fronte a me» (Es 20,3); dall’altro, essi non esitano a contaminarsi nella vita di ogni giorno, corrompendosi con l’uso della moneta come strumento di scambio per l’acquisto di beni. Nel rispondere a Gesù, infatti, essi hanno dovuto prendere una moneta dalla loro sacca, testimoniando così che non solo accettano l’autorità di un re usurpatore, ma che usufruiscono anche dei suoi benefici, senza rendersi conto delle conseguenze: usare le monete coniate da un re straniero e invasore, significa legittimare anche l’invasione della loro terra, che è terra di Dio, e dichiararsi sudditi di chi li ha privati della libertà e della loro dignità. Il procuratore romano, infatti, per affermare la suprema autorità dell’imperatore «divus Caesar», su tutto Israele, teneva in custodia la veste solenne del sommo sacerdote, il quale la riceveva dalle mani imperiali tutte le volte che era necessario; alla fine del servizio liturgico la veste doveva essere riconsegnata. Un’umiliazione totale: anche il «dio straniero d’Israele» doveva inchinarsi davanti al «divino Cesare». La risposta di Gesù è duplice. «E pertanto/di conseguenza, restituite [una volta per tutte] le cose di Cesare a Cesare» (per la morfosintassi v. la 1a puntata in MC 3, 2013, 33-34): se accettate l’autorità di Cesare, pur essendo un usurpatore dei diritti di Dio e del popolo e se ne beneficiate perché trafficate con il suo denaro che utilizzate a vostro vantaggio per i vostri affari, è vostro obbligo obbedirgli, pagando anche le tasse che la sua autorità impone, perché non fate altro che restituire a Cesare ciò che gli appartiene. In altre parole, Gesù condanna scribi e sacerdoti che, servilmente e liberamente si sottomettono a un’autorità che hanno accettato, ben sapendo che essa non avrebbe potuto imporre tributi se non ai propri sudditi che controlla e domina perché li gestisce come estranei e non come figli: «I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei? Rispose [Simone]: “Dagli estranei”» (Mt 17,25-26).

Se i Giudei utilizzano i benefici di Cesare, non possono lamentarsi se pagano il pedaggio sui servizi che l’uso della moneta comporta. Fare pagare le tasse, infatti, è un diritto di Cesare perché esse sono il «prezzo» dei servizi esercitati. Gesù, in questo modo, con una risposta lapidaria, mette sul banco degli accusati l’autorità religiosa del suo tempo perché si è posta fuori dell’autorità di Dio per passare alla sudditanza di Cesare di cui accetta il denaro come strumento sociale e comunitario. Il possesso di «quella» moneta è un’apostasia perché contravviene il comandamento del divieto delle immagini: «Non vi farete idoli, né vi erigerete immagini scolpite o stele, né permetterete che nella vostra terra vi sia pietra ornata di figure, per prostrarvi davanti ad essa; poiché io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 26,1). La conseguenza è tragica: chi accetta l’autorità di un’immagine scolpita nel bronzo che raffigura l’«idolo» Cesare, significa che ha trasmigrato dal Dio che non può essere raffigurato e che «i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere» (2Cr 6,18). La conseguenza è logica: chi usa la moneta con l’immagine di Cesare rinnega la regalità di Dio perché «un servitore non può servire due padroni» (Lc 16,2).

Amare Dio con tutto il cuore

Gesù non si lascia scappare l’occasione per richiamare i capi religiosi alla verità della loro coerenza e li invita a ritornare «al principio», cioè all’autorità di Dio da cui si sono allontanati per sottomettersi a Cesare. Egli, infatti, con la seconda parte della sua risposta, li porta di peso nel cuore dell’Eden, quando Dio inventò l’umanità, costruendola «a sua immagine e a sua somiglianza» nella prospettiva di Genesi 1,27: «e [ridate/restituite] le cose [che sono] di Dio a Dio». Gesù non ha alcun orizzonte politico con questa frase, perché il contesto in cui si muove è solo ed esclusivamente religioso, anzi teologico. Qui si tratta di antropologia teologica e non di una banale distinzione di poteri tra «Chiesa e Stato», un concetto estraneo a Gesù, almeno nella portata che noi oggi attribuiamo a esso, alla luce dei concordati pattizi.

Quando si legge la risposta di Gesù, non bisogna correre, ma avere attenzione e fare una lunga pausa tra i due imperativi uniti e separati dalla congiunzione copulativa di valore avversativo «e»: rendete a Cesare quello che gli appartiene, perché è suo di diritto (la moneta con la sua effige), e/piuttosto… [lunga pausa] convertitevi/ritornate a Dio che vi ha creato a sua immagine e somiglianza perché siete voi l’effige che rende visibile il Creatore nel mondo. È un invito a ritornare alla dignità di figli di Dio da cui essi hanno abdicato perché si sono venduti come schiavi a un’autorità illegittima. È l’appello radicale alla conversione, spezzando la confusione tra un «Cesare», che pretende di essere di natura divina, e «Dio», che esige «l’immagine» del suo popolo come segno visibile della sua presenza nel creato. Cesare si faceva chiamare «Divus» per cui accettarne l’autorità e trafficare con il suo denaro che lo raffigura, è un atto di ribellione al Creatore perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. L’Ebreo che vi si sottomette contravviene al precetto tassativo di non farsi idoli (Es 20,4; Dt 4,16): «Gli idoli delle nazioni sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono; no, non c’è respiro nella loro bocca» (Sal 135/134, 15-17).

L’opposizione che Gesù pone tra Cesare e Dio è di natura religiosa, non politica. Si tratta di scegliere tra due regalità: quella del Dio creatore e liberatore oppure quella di Cesare imperatore. È una scelta tra due prospettive di vita: da una parte sta Dio che crea a sua immagine per la libertà e dall’altra sta Cesare che con la sua immagine conia un impero di schiavitù. È in gioco la scelta radicale della vita tra il Dio che regna in Israele e Cesare che occupa illegalmente la terra d’Israele. Cesare non può pretendere l’adesione interiore, che, invece, scribi e sacerdoti gli concedono, usando la sua moneta. Non si tratta della gestione del potere tra due ordini diversi, ma dell’opposizione radicale tra due irriducibili: o Dio o Cesare. Non è in gioco «una parte» ma «tutta» l’esistenza perché riguarda due mondi: quello di Dio che stipula l’alleanza con i figli di Abramo e Cesare che impone le tasse ai sudditi che vivono in Palestina.

Nota di attualità. Questo brano è un appello alla Chiesa in ogni tempo, e, nella Chiesa, specialmente a chi esercita il servizio dell’autorità perché stia sempre attento nella scelta delle cose che riguardano questo mondo. Il cristiano vive il mondo con distacco perché il suo cuore è teso al Regno di Dio. Ricchezza, potere, successo, denaro non sono obiettivi primari e nemmeno secondari, perché l’impegno del credente è di avere sempre coscienza di essere custode e garante del giardino di Eden che deve consegnare alle generazioni future, fino alla fine del mondo. Quando l’autorità religiosa si rapporta con i potenti della terra, mai deve dimenticare le parole di Gesù che mette sull’avviso di non tradire mai l’immagine di Dio per nessun interesse, perché Dio vien prima di tutto: è lui e solo lui che bisogna amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Il resto viene dal maligno.

Ritorno al principio: l’uomo «immagine di Dio»

Quella di Gesù è una risposta ad hominem, cioè puntuale, connessa alla domanda con cui argomentano «scribi e sommi sacerdoti» (cf Lc 20,19).

Nota STORICA. Gli scribi erano i letterati dell’epoca, coloro che spiegavano la Scrittura al popolo, che davano indicazioni di vita e di condotta, che dirimevano interrogativi d’interpretazione della Parola di Dio; cioè svolgevano la funzione di maestri. Il sommo sacerdote era uno solo e svolgeva il compito di capo del sinedrio, composto da settanta membri comprendenti sacerdoti, anziani e scribi. Il sommo sacerdote emerito vi partecipava di diritto. Al tempo di Gesù vi era il sommo sacerdote Caifa, eletto nell’anno 18 dal procuratore romano Valerio Grato e rimasto in carica fino al 36. Egli era subentrato al suocero, Anna (o Anano o Ananiah) che pertanto era membro attivo del Sinedrio. Per questo il vangelo parla di «sommi sacerdoti».

Come massima autorità in Israele essi avrebbero dovuto avere il discernimento per valutare le «cose di Dio», avendone gli strumenti adeguati che sono la Scrittura e la tradizione dei padri. Invece, non solo inducono il popolo nell’errore, ma essi stessi si rendono colpevoli perché, contravvenendo agli insegnamenti della Toràh, si adeguano a portare monete con l’effige dell’imperatore. La risposta di Gesù non è pacifica e superficiale e tanto meno si può ridurre a una pronuncia sulla legittimità del potere o dell’autorità. Gesù non dice se l’autorità di Cesare è lecita o illegittima, se ha diritto o no. Egli si limita a prendere atto della situazione descritta dall’immagine della moneta: «Di chi è questa immagine»? La questione in gioco è molto più radicale e parte da un dato di fatto: scribi e sacerdoti sono coinvolti nel riconoscimento di un’immagine che non è quella di Dio. Di fronte all’inchiesta che fa Gesù, essi affermano e confermano che quella immagine è «di Cesare». Gesù non ha dubbi perché essi sanno quello che fanno: Preso atto che voi state parlando di Cesare, il romano, ebbene io vi dico: dategli quello che gli appartiene; ma a voi dico io, di mia iniziativa: ritornate a Dio che vi ha creato come sua immagine. Nelle parole di Gesù si trovano due risposte.

  1. a)    Una diretta (ad hominem) alla constatazione ovvia di scribi e sommi sacerdoti che l’immagine è di Cesare, per cui se essi stessi dicono che «è di Cesare», allora è giusto che la moneta sia restituita al legittimo proprietario perché è impropria nelle mani degli scribi e dei sommi sacerdoti.
  2. b)    La seconda parte della risposta è un’affermazione «teologica», autorevole e autoritativa di Gesù che richiama i suoi interlocutori alla «teshuvàhmetànoia» che non è solo un cambiamento di comportamento, ma un radicale capovolgimento del criterio di pensare e scegliere. La conversione cui si appella Gesù comporta una decisione esistenziale che parte dall’intimo per avviarsi verso una prospettiva di vita che abbia come orizzonte solo il Regno di Dio. È l’invito al ritorno al Dio della creazione di cui, essi, guide liturgiche e morali del popolo, hanno usurpato l’immagine rendendola impura. Usando il denaro con l’immagine di Cesare, essi hanno apostato dalla fede e hanno commesso un sacrilegio.

L’immagine e il progetto di Dio

Per comprendere la risposta di Gesù bisogna rifarsi a Genesi 1,27, secondo cui Dio «creò Adam (= genere umano) a immagine di Dio (ebr.: bezelèm ‘elohim)» che la Bibbia greca della Lxx, usata dalla prima comunità cristiana, traduce con il termine «èikon» (gr: κατ΄ εικόνα θεου – kat’eikòna theû; lett.: secondo l’immagine di Dio». Con questa espressione l’autore biblico, circa cinque secoli prima di Cristo, definisce il fondamento ontologico della consistenza di Adam, inteso come genere umano, composto di uomini e donne. La persona umana, in quanto natura relazionale, è «immagine» di Dio, nel senso che «uomo-donna» è intimamente legato non nell’apparenza, ma nella sostanza. In altre parole, è il genere umano come tale che è «immagine» e, in esso, ogni individuo in quanto persona, compresi gli scribi e i sommi sacerdoti. Da tale struttura antropologica esistenziale nessuno può abdicare, pena l’inconsistenza, la morte.

Nella cultura orientale (assira, sumera, babilonese, ecc.) ogni sovrano segnava i confini del proprio regno con «statue» raffiguranti la sua «immagine»: chiunque la vedeva doveva riverirla in segno di accettazione dell’autorità del re che rappresentava. Allo stesso modo, ogni sovrano incideva la propria immagine nelle monete di uso corrente sia per farsi meglio riconoscere da chiunque ne venisse in possesso, sia per affermare il diritto della propria autorità su chiunque le utilizzasse come moneta di scambio.

Anche il Dio biblico della creazione si comporta come un re orientale: in Gen 2, secondo il racconto jahvista, egli crea con la polvere del suolo, come un vasaio o un artista della creta, la sua «statua» bifronte, Adam ed Eva, che pone nel giardino di Eden come suo luogotenente e fiduciario, come sua «Presenza». La coppia è il rappresentante di Dio nel creato perché esso, guardando l’immagine del creatore, possa essere riportato al fondamento della propria esistenza. In Gen 1, il racconto sacerdotale lo afferma espressamente come «dottrina»: l’essere umano, in quanto sessuato, è «immagine» di Dio creatore. La terra e il cosmo, cioè l’ordine della creazione, sono lo scenario di sfondo, dove Dio colloca il riferimento alla sua autorità: l’uomo-statua, richiamo permanente alla «signoria» di Dio.

L’immagine di Dio posta sulla terra non ha un compito passivo, ma riceve il potere delegato di «dare il nome» agli animali; in oriente «dare il nome» significa avere il potere di vita e di morte su ciò di cui si conosce il «nome», cioè la natura intima e profonda (Gen 2,19-20). La statua/immagine, però, ha un limite strutturale: esercita solo un potere vicario che esige l’ascolto e la tensione all’altro. Gen 2,15 è esplicito a riguardo: «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» secondo la traduzione del greco della LXX. L’ebraico, invece, usa due verbi straordinari: «Dio pose Adam nel giardino di Eden perché lo servisse e l’osservasse/custodisse»1. Non padroneggio, ma dipendenza umile e attenta.

Il primo verbo indica il servizio liturgico, cioè la dipendenza affettiva e vitale, per cui l’uomo compie un atto sacro da cui dipende progresso o regresso. Il secondo verbo è squisitamente giuridico perché è riservato all’«osservanza» della Toràh e dei precetti. Il rapporto che c’è tra l’uomo e le realtà terrestri è un rapporto che lega giuridicamente e costringe l’uomo ad «ascoltare» il mondo e le cose (in ebraico c’è assonanza tra «shama’ – ascoltare» e «shamàr – osservare/custodire». Da ciò nasce l’unione indissolubile tra l’individuo e l’ambiente naturale.

Liberando Israele dalla schiavitù di Egitto, Dio è diventato l’unico re e la sola autorità da cui il popolo dipende, e in esso ogni Israelita. Mosè e i profeti sono luogotenenti, intermediari portavoce. Nulla di più. L’istituto del regno non è mai attecchito in Israele e, infatti, è durato solo due secoli. Israele ha Dio come re di cui è «immagine» rappresentativa o come si direbbe oggi, garante di credibilità. La credibilità di Dio, infatti, passa attraverso la «sua immagine» che è l’uomo non in quanto maschio, ma in quanto essere vivente in relazione. Il testo ebraico usa un’espressione forte, descrittiva della natura umana: «zakàr we neqebàch = pungente e perforata» che le traduzioni rendono più poveramente con «maschio e femmina»2.

È questo il contesto in cui si svolge l’intervista tra Gesù e «gli scribi e i sommi sacerdoti». Se Gesù avesse risposto che non è lecito pagare le tasse, lo avrebbero denunciato all’autorità romana e sarebbe stato messo a morte per insubordinazione e attentato allo stato; se avesse risposto che bisogna pagare le tasse all’imperatore e al senato di Roma, lo avrebbero denunciato al popolo che odiava i Romani e i gabellieri giudei che considerava alla stessa stregua dei pagani. Nell’un caso e nell’altro Gesù sarebbe stato comunque «morto», ma senza porre la questione teologica ed esistenziale di fondo: la natura dell’umanità e la sua funzione all’interno del creato e della società.

Riconoscendosi «immagine» dell’imperatore, di cui accettano la moneta simbolo della sua autorità, essi sconvolgono l’ordine del creato, capovolgendo la natura umana e il fine dell’esistenza. Non è solo una questione banale di separazione tra poteri politici, ma la questione radicale se Dio è il Creatore e se l’uomo, nella sua natura di «pungente e perforata», ne è il segno e la presenza di garanzia nel mondo.

(continua – 3).

 1 Sull’esegesi del versetto in tutta la sua valenza cf il nostro: Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli Editore, 2008, 67-75. 2    Sull’esegesi dell’espressione in tutto lo splendore del testo ebraico, cf Ibidem, 61-65.

Paolo Farinella

 




Processo di pace: facciamo il punto

In queste pagine offriamo un quadro sintetico della situazione
di conflitto endemico tra stato e guerriglia che da anni insanguina la
Colombia. In questo contesto nel Caquetá, sta nascendo il progetto «Centri
d’incontro e ascolto» da un’idea di p. Renzo Marcolongo, missionario della Consolata
e psicologo clinico con un’esperienza di 24 anni come terapeuta e moderatore di
seminari sull’ascolto empatico.

Colombia. Sviluppo rurale,
partecipazione politica, smobilitazione, narcotraffico e diritti delle vittime
del conflitto. Sono questi i cinque temi discussi dal governo colombiano
guidato dal presidente Juan Manuel Santos e dalle Farc (Fuerzas Armadas
Revolucionarias de Colombia
) nel corso delle negoziazioni lanciate
nell’ottobre 2012 a Oslo, in Norvegia, e continuate poi con i colloqui a
l’Avana (Cuba). I colloqui hanno avuto uno stallo dopo che un momento di
tensione a fine gennaio – il sequestro da parte delle Farc di due agenti di
polizia e l’uccisione di quattro militari – ha rischiato di far saltare il
tavolo delle trattative, ma a marzo il settimo round di negoziazioni si è
svolto regolarmente. Ognuno dei cinque punti nasconde un’insidia sia per il
governo colombiano, che non può permettersi di concedere troppo, sia per i
vertici delle Farc, che non possono permettersi di ottenere troppo poco.

I protagonisti

Il
governo di Santos ha nell’estate 2014 la scadenza per presentarsi al paese con
un successo in tasca: l’anno prossimo, infatti, si svolgeranno le elezioni
presidenziali e legislative e il partito del presidente, a prescindere dalla
decisione di Santos di correre o meno per un secondo mandato, avrebbe un
fondamentale punto a suo favore nella campagna elettorale se potesse affermare
di essere stato la forza politica capace di chiudere il conflitto armato che da
oltre mezzo secolo devasta il paese.

I
rappresentanti delle Farc, dal canto loro, devono fare i conti con
l’indebolimento ormai evidente della loro forza militare, che nel corso degli
ultimi anni ha visto ridursi il numero dei combattenti dai ventimila delle prime
negoziazioni con il governo (tardi anni Novanta) ai circa ottomila della fine
del secondo mandato del presidente Alvaro Uribe (2010). Sotto la presidenza
Uribe, le Farc hanno ricevuto duri colpi dall’esercito colombiano e hanno visto
decapitata la propria dirigenza. Il 2008 è stata l’anno della scomparsa, fra
gli altri, di Pedro Antonio Marín, alias Tirofijo, capo fondatore delle
Farc. Se Tirofijo è morto di infarto, il suo successore, noto come Alfonso
Cano, è caduto invece in seguito a un bombardamento da parte dell’esercito
nella regione del Cauca. Il capo supremo è oggi il cinquantaduenne Rodrigo
Londoño, detto Timochenko, cui spetta il difficile compito di
traghettare fuori dalla clandestinità una compagine in cui fra l’altro esiste
un forte scollamento fra vertici e retrovie.

Secondo
padre Feando Patiño, missionario della Consolata colombiano, una delle chiavi
di volta per i successi dell’esercito sulle Farc è stata la superiorità
tecnologica: «Basta pensare», spiega padre Feando, «a come hanno catturato el
Mono Jojoy, capo militare e secondo nella linea di comando delle Farc, tradito
da un paio di stivali nei quali l’intelligence era riuscita a infilare un
microchip prima della consegna a Jojoy, individuando così l’esatta posizione
Gps del campo nel quale lui si trovava».

Il fantasma del Caguán

Le
attuali negoziazioni non sono le prime nella storia del conflitto fra governo
colombiano e Farc. Il precedente è rappresentato dai colloqui intercorsi fra il
1998 e il 2002 durante la presidenza di Andrés Pastrana. In quell’occasione, il
presidente decise di smilitarizzare la zona del Caguán e di svolgere lì i
colloqui, ma il processo si concluse con un pesante fallimento e con un
rafforzamento delle Farc, che approfittarono dell’assenza di controllo militare
governativo nel Caguán per far entrare grandi quantità di armi. Oggi, però, ci
sono differenze rispetto ai primi anni Duemila, differenze che possono far
pensare a una conclusione positiva dei colloqui. Nel settembre 2012, il
settimanale colombiano La Semana sintetizzava così queste differenze: «Oggi
c’è uno stato più forte da un punto di vista sia politico che militare, mentre
la guerriglia ha vertici molto indeboliti; c’è una strategia chiara per porre
fine al conflitto, strategia che include un pre-accordo e delle regole di
funzionamento; i colloqui si svolgono all’estero e non esigono la sospensione
immediata delle ostilità; infine, pesano l’influenza del defunto presidente
venezuelano Hugo Chavez e dell’accompagnamento internazionale [di Norvegia, Venezuela,
Cuba e Cile, ndr] nei colloqui e il contesto interno colombiano, a metà
di una legislatura di un governo con prospettive di rielezione».

La
scomparsa del presidente venezuelano ha aperto qualche interrogativo sul ruolo
del Venezuela nelle negoziazioni. Il successore, Nicolas Maduro, da Caracas, fa
sapere che in ossequio al giuramento fatto al suo comandante (Chavez, appunto)
il Venezuela continuerà a impegnarsi nel processo di pace colombiano. Christian
Völkel, analista dell’Inteational Crisis Group, osserva poi che per
quanto il ruolo del Venezuela sia stato importante nella fase segreta dei
colloqui, ora le negoziazioni hanno abbastanza forza in se stesse per reggersi
senza bisogno di supporti estei.

I rospi da ingoiare

Bastano
alcuni esempi per farsi un’idea della complessità della situazione. A proposito
del primo punto, relativo alla distribuzione delle terre, secondo Marco Romero,
analista della Consultoría para los Derechos Humanos y el Desplazamiento,
i colloqui dovranno trovare un punto di convergenza fra il modello di sviluppo
agroindustriale, che pare più vicino alla linea politica del governo e agli
impegni che la Colombia ha assunto con i trattati inteazionali di libero
commercio, e l’appoggio al campesinado, cioè ai piccoli agricoltori, che
le Farc indicano come prioritario.

Altro
aspetto da affrontare sarà la partecipazione politica delle Farc: una prima
difficoltà sarà di natura legale, poiché in Colombia una legge impedisce
l’entrata in politica a chi ha pendenze con la giustizia. C’è poi la questione
dei diritti delle vittime del conflitto, a sua volta strettamente legata alla
distribuzione delle terre e alle modalità della partecipazione politica delle
Farc: secondo i critici del processo, una pace davvero sostenibile non può basarsi
sull’impunità dei perpetratori delle violenze.

In
nome della pace, avverte il presidente Santos, occorrerà comunque «ingoiare
qualche rospo». Resta da vedere se la digestione di questi rospi sarà
abbastanza indolore da tenere in piedi un processo di pace che, rispetto al
precedente, sembra avere davvero il potenziale per liberare la Colombia da uno
dei suoi conflitti più sanguinosi. Anche nell’ipotesi di successo resteranno in
Colombia molti nodi da sciogliere, relativi ad esempio alla presenza dei
paramilitari e al peso del narcotraffico. Ma nessun effetto domino di
pacificazione del paese sembra possibile senza la caduta della prima tessera,
rappresentata appunto dall’accordo fra governo e Farc.

Chiara Giovetti
__________________

Arturo
Wallace
di Bbc Mundo ha sintetizzato in modo molto efficace le sfide
connesse a ciascuno dei cinque punti sul tavolo delle negoziazioni: la sua
analisi è disponibile all’indirizzo web

http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2012/10/121006_colombia_proceso_de_paz_nudos_aw.shtml 

Chiara Giovetti




Perpetua e Felicita

Perpetua
e Felicita, nobildonna cartaginese la prima e schiava/amica fedele la seconda,
sono protagoniste di un evento straordinario di testimonianza della loro fede
cristiana nella città di Cartagine del III secolo. Durante la persecuzione
dell’imperatore Settimio Severo, invitate a bruciare incenso alla statua
dell’imperatore, esse risposero con un fermo rifiuto. Il loro processo è uno
dei rari documenti pervenuti fino a noi di condanna a morte dei cristiani. Esse
sono ricordate nel canone romano dell’Eucarestia.

<!-- /* Font Definitions */ @font-face {Cambria Math"; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1107305727 0 0 415 0;} @font-face { mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} @font-face { mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} @font-face { mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; mso-fareast-Times New Roman"; mso-bidi- color:black;} p.BanderaTesto, li.BanderaTesto, div.BanderaTesto {mso-style-name:Bandera_Testo; mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; line-height:10.0pt; mso-line-height-rule:exactly; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; Times New Roman"; mso-fareast-Times New Roman";} .MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:10.0pt; mso-ansi-font-size:10.0pt; mso-bidi-font-size:10.0pt;} .MsoPapDefault {mso-style-type:export-only;} @page WordSection1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.WordSection1 {page:WordSection1;} --

Carissime, di fronte a voi che avete saputo dare la vita per essere fedeli a Cristo Signore, mi sento piuttosto imbarazzato. Volete presentarvi?

Perpetua: Sono una giovane donna, di poco più di vent’anni, sposata e madre di un bambino. Appartengo al ceto sociale più alto della città di Cartagine. Nella mia casa vivono anche diverse persone che la logica del tempo considerava schiave, ma che, dopo aver incontrato il Vangelo di Gesù e la sua straordinaria prospettiva di vita, sono diventate per me come fratelli e sorelle, a cui è la mia famiglia che ha la responsabilità di garantire una vita degna.

Felicita: Io, che nella condizione di schiava vivo presso Perpetua, mia padrona, mi sento più una persona di casa che una serva sfruttata per fare dei lavori pesanti.

E com’è che nel III secolo dopo Cristo Cartagine è una delle città più importanti del Nord Africa, parte integrante dell’Impero Romano?

Perpetua e Felicita: La posizione naturale della nostra città ne fa un punto nodale dei traffici, sia per mare che per terra, nonché base di partenza per le carovane dirette verso Sud, verso il grande deserto e allo stesso tempo è un porto strategico per il commercio con Roma imperiale, «caput mundi».

Resto stupito nel vedere che una città dell’Africa lontana da Gerusalemme abbia fra le sue mura, nel III secolo dopo la nascita del Salvatore, una fiorente comunità cristiana.

Perpetua e Felicita: Una delle cose più sconvolgenti che anche a noi stessi causa meraviglia è il constatare come il messaggio di amore e tenerezza portato da Gesù di Nazareth si sia diffuso così velocemente in tutto l’Impero Romano e in modo particolare nell’area mediterranea. Per usare le parole di sant’Agostino, un padre della Chiesa che diede lustro alla nostra terra africana: «Tre sono le cose incredibili e tuttavia avvenute: è incredibile che Cristo sia risuscitato nella sua carne, è incredibile che il mondo abbia creduto ad una cosa tanto incredibile, è incredibile che pochi uomini, sconosciuti, inermi, senza cultura abbiano potuto far credere con tanto successo al mondo, e in esso anche ai dotti, una cosa tanto incredibile!». Difficile non scorgere in questi avvenimenti il piano di Dio.

Cos’ha di così affascinante la Buona Notizia di Gesù di Nazareth da coinvolgere così tante persone e far loro cambiare drasticamente il genere di vita che conducono?

Felicita: Per noi schiavi il messaggio di Gesù di Nazareth è qualcosa di sconvolgente e meraviglioso allo stesso tempo. Nella scala sociale siamo considerati all’ultimo posto e la nostra vita è legata agli umori dei nostri padroni. Venire a sapere che puoi rivolgerti a Dio chiamandolo Padre e scoprire che la tua dignità di persona vale tanto quanto quella dell’imperatore, è sufficiente perché questo nuovo stile di vivere ti conquisti e tu non desideri altro che vivere il Suo amore dando testimonianza di ciò che ha insegnato.

Perpetua: Lo stesso discorso, anche se in maniera diversa, vale per i nobili della società dell’Impero Romano. È straordinario scoprire l’umanità di chi ti circonda e scoprire che nel mondo non conta avere tanti benefici se si ha un cuore arido incapace di accogliere la tenerezza di Dio e l’affetto del prossimo. Il messaggio del Vangelo va ben oltre le aspettative esistenti di un cambiamento, in quanto ciò che viene realmente modificato è il proprio cuore e la propria coscienza, per cui anche coloro che possiedono molto, sentono impellente e bruciante il bisogno di condividere i propri beni con altri più sfortunati di loro.

Come avvenne il vostro arresto?

Perpetua e Felicita: Durante la persecuzione, scatenata contro i cristiani dall’imperatore Settimio Severo, venne emanato un editto in cui ai governatori delle province veniva data la possibilità di «stanare» i cristiani, obbligandoli a bruciare incenso alla statua dell’imperatore, ritenuto dalla religione pagana un dio in terra. Questo per la nostra fede è inaccettabile, quindi fummo fatti sfilare davanti alle autorità romane, le quali avevano messo un braciere acceso ai piedi della statua dell’imperatore e venimmo invitati a gettare un po’ di incenso nel fuoco, attestando così lo status di divinità dell’imperatore. Ovviamente noi ci rifiutammo e fummo arrestati.

E che successe dopo?

Perpetua e Felicita: Nella disgrazia fummo fortunate; in carcere c’erano dei cristiani che alimentavano in noi la speranza, non di essere esentati dai supplizi e dai tormenti, ma di incontrare presto il Signore nel suo Regno e di stare con lui per l’eternità. E siccome noi non avevamo completato l’iniziazione cristiana, essendo ancora dei catecumeni, con noi in carcere era finito anche Satiro, il nostro catechista, il quale provvide, nelle lunghe giornate in cui aspettavamo la sentenza, a completare la nostra formazione e a battezzarci, offrendoci così quella grazia santificante e quella fortezza di spirito più che mai necessaria per affrontare quelle terribili prove che ci aspettavano.

Quali erano le condizioni del carcere?

Perpetua: Terribili! In ambienti angusti, con poca aria e luce a disposizione, erano rinchiuse molte persone, anche se tutti si mostravano gentili e disponibili verso di noi, in quanto io avevo il mio bambino ancora lattante con me, mentre Felicita contava i giorni che la separavano dal lieto evento della nascita di una creatura che aveva in grembo.

Felicita: Pur essendo rinchiusi in celle umide e malsane e con numerosi compagni imprigionati come noi per la loro fede, la mia amatissima sorella Perpetua aveva delle visioni che prefiguravano la nostra entrata nel Regno dei Cieli dopo quella terribile prova, che è paragonabile a ciò che visse Gesù sul Calvario.

E il processo come fu?

Perpetua e Felicita: Fu una farsa, era già tutto stabilito. Gli atti dei nostri interrogatori sono una delle poche pagine giunte sino a voi di come procedeva la giustizia romana verso coloro che considerava dei nemici. Agli inviti che i giudici facevano a noi affinché - vista la nostra condizione - abiurassimo la nostra fede e così ci salvassimo per rimanere accanto ai nostri figli, rispondevamo che alle nostre creature avrebbero pensato i nostri familiari, a noi premeva restare fedeli a Colui che ci aveva dato il vero senso di vivere, il significato di un’esistenza la cui fedeltà a Lui nel momento della morte ci avrebbe spalancato la porta del Regno dei Cieli.

E come vi comportaste voi?

Perpetua e Felicita: Alle domande che ci venivano rivolte rispondevamo con libertà e franchezza, non temevamo affatto il confronto con i nostri persecutori. In alcuni momenti avevamo la sensazione quasi palpabile che a parlare non fossimo noi, ma prestavamo la nostra voce alle risposte che Gesù stesso dava ai nostri inquisitori. Scoprimmo quell’atteggiamento che va sotto il nome di «parresia», ovvero quella franchezza di linguaggio che ci permetteva di rispondere a testa alta e senza remore alle domande più subdole e ai tranelli più iniqui che i funzionari dell’impero romano, ci tendevano.

Come viveste la sentenza?

Felicita: Nel momento in cui veniva pronunciata la condanna a morte che per noi fu applicata nel modo più orribile che si immaginasse a quei tempi, cioè tramite bestie feroci che ci avrebbero sbranati, il marito di Perpetua, che era ancora pagano, proruppe in alte grida invitandola a rinnegare la propria fede, ma la mia padrona, o meglio mia sorella nella fede, rimase ferma nel suo proposito di essere fedele al Signore Gesù e quindi, deposto tra le braccia del marito il suo bambino, si avviò tranquilla verso la gloria dei martiri.

Perpetua: Dopo la sentenza, nei giorni passati in carcere, in attesa che arrivasse una festa in cui ci fossero dei giochi e tra questi lo spettacolo orribile offerto alla folla di belve scatenate che si avventavano contro i cristiani, la mia cara Felicita partorì una creatura che fu affidata a una sua parente. Dopo alcuni giorni, tenendoci per mano, insieme ad altri cristiani, cantando entrammo nell’arena. Lì, guardando con occhi solo umani, si sarebbe consumato il nostro sacrificio, che noi, invece, dal punto di vista della fede, consideravamo l’incontro con il Signore Gesù, questa volta per rimane accanto a Lui per sempre.

Perpetua durante il periodo del carcere mantenne un diario in cui annotò tutto quello che stava vivendo lei e la sua schiava Felicita, ma non poté narrare l’epilogo della loro vicenda. Altri cristiani che assistettero al loro martirio scrissero, descrivendo gli ultimi istanti della loro vita, completando così la loro testimonianza di fede. Ciò che restò come documento scritto divenne un punto di forza e di edificazione. Dalla semplicità dello stile si coglie una fede diamantina e un amore sconvolgente per Gesù, certezza assoluta dei primi martiri cristiani; c’è il coraggio e la fermezza con la quale seppero affrontare i patimenti e la morte nel nome di Cristo, che, gioverà ricordare, ha assicurato ai discepoli di ogni tempo, che i persecutori e gli aguzzini possono uccidere il corpo, ma non possono nulla contro le anime, le coscienze e gli ideali che essi incarnano. Le annotazioni di Perpetua furono poi raccolte nella «Passione di Perpetua e Felicita», opera - si dice - di Tertulliano, padre della Chiesa d’Africa dei primi secoli, per essere consegnati alla memoria futura delle generazioni cristiane.

 
Don Mario Bandera
Direttore Missio Novara
Mario Bandera




Celle senza finestre

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 09
Il tema della libertà religiosa è al centro delle preoccupazioni
della Chiesa. Lo ha ribadito mons. Mamberti, segretario vaticano per i Rapporti
con gli Stati, alla XXII Sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo delle
Nazioni Unite. E intanto in diverse zone del mondo le violazioni di questo
diritto fondamentale proseguono con medesima se non aumentata forza, come
testimoniano le situazioni di alcuni paesi asiatici tra cui India, Pakistan,
Vietnam e Cina.



La situazione della libertà religiosa nel mondo è un fenomeno da
monitorare costantemente. Il quadro descritto dagli ultimi rapporti delle
organizzazioni che si dedicano allo studio delle violazioni delle libertà dei
credenti in tutto il pianeta è a tratti sconfortante, anche se non mancano
segnali di speranza.

È passato inosservato, in questo tempo eccezionale di cambiamenti
pontifici, un intervento della diplomazia della Santa Sede in seno alle Nazioni
Unite. «La Santa Sede continuerà a dare il suo contributo ai dibattiti in sede
internazionale, per proporre una riflessione essenzialmente etica ai processi
decisionali, e per aiutare a tutelare la dignità della persona umana». È quanto
affermato a Ginevra da monsignor Dominique Mamberti, segretario vaticano per i
Rapporti con gli Stati, alla XXII Sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo
delle Nazioni Unite. Mamberti ha citato le parole della Caritas in veritate
(n. 43) di Benedetto XVI riguardo ai diritti individuali: «Si è spesso notata
una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla
trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di
acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe
regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli»,
e ha esortato gli Stati a lavorare insieme, in uno spirito di dialogo e
apertura, per adottare le risoluzioni in modo consensuale, auspicando che «l’imposizione
di nuovi diritti e principi [venga] rimpiazzata dal rispetto e dal
rafforzamento di quelli già approvati». Tra le preoccupazioni della Santa Sede
al primo posto si colloca il destino delle minoranze religiose e in generale la
libertà di credo. «Il diritto internazionale – ha detto Mamberti – è piuttosto
sostanzioso a questo riguardo. Allora perché continua a essere uno dei diritti
più frequentemente e più diffusamente negati, limitati nel mondo?». Tra le
cause delle violazioni Mamberti elenca «una legislazione statale carente, la
mancanza di volontà politica, il pregiudizio culturale, l’odio e l’intolleranza»,
e infine sostiene che la chiave fondamentale per promuovere la libertà di
religione è riconoscerla come radicata nella dimensione trascendente della
dignità umana: la libertà di religione promuove l’idea di una libertà che non
si riduce all’esclusiva dimensione politica o civile, ma si pone al di là di
essa, in quanto mette un limite allo stesso stato e costituisce una protezione
della coscienza dell’individuo dal potere statale. «Quando uno stato la tutela
in modo adeguato, la libertà di religione diventa una delle fonti della sua
legittimità, e un indicatore primario di democrazia».

Pakistan: leggi blasfeme

Pakistan, India e Cina, ma anche paesi meno rappresentati sui
media inteazionali come Birmania, Myanmar, Vietnam e Cambogia, presentano
limitazioni molto pesanti alla libertà di religione.

Alessandro Speciale di vaticaninsider.lastampa.it ci
informa che «in India, continuano a crescere le leggi anticonversione, con una
lunghissima lista di attacchi alle minoranze, spesso perpetrati da gruppi
appartenenti al movimento nazionalista indù del Sangh Parivar», mentre
leggendo il rapporto 2012 di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) constata che «per
il Pakistan, il 2011 è stato un “anno terribile”, cominciato con l’omicidio a
gennaio del governatore del Punjab, Salman Taseer, proseguito il 2 marzo con
l’uccisione del ministro federale per le Minoranze, il cattolico Shahbaz
Bhatti, e passato per l’incriminazione di 160 persone in base alla famigerata
legge antiblasfemia, con casi antichi come quello di Asia Bibi […], e nuovi
come quello di Rimsha Masih che sono saliti tristemente all’onore delle
cronache mondiali».

«Prega il Signore e scrivi al presidente del Pakistan per
chiedergli che mi faccia ritornare dai miei familiari»: Asia Bibi, detenuta da
oltre mille giorni nel carcere pakistano di Sheikhupura perché cristiana, ha
scritto una lunga lettera dalla sua cella «senza finestre». Pubblicata
integralmente da «Avvenire» nel dicembre scorso, essa ha dato il via a una
campagna di raccolta firme per chiedere al presidente del Pakistan, Asif Ali
Zardari, la liberazione della donna. «Un appello – ci informa Ilaria Sesana di “Avvenire”
– cui, in queste settimane, hanno aderito più di 30mila persone. Un risultato
straordinario – prosegue Ilaria Sesana -, che ha visto coinvolti uomini e donne
di ogni età e di ogni ceto sociale. Dal Nord al Sud dell’Italia (e persino
dall’estero) sono arrivati migliaia e migliaia di messaggi per chiedere al
presidente Zardari di intervenire in favore di Asia Bibi […]. Intere famiglie
si sono mobilitate per questa iniziativa, con raccolte di firme tra amici,
familiari, nelle scuole e sul luogo di lavoro. Un grande contributo è stato
dato da decine di parroci che, oltre a impegnarsi nella raccolta di firme al
termine delle funzioni religiose, hanno portato avanti un’attenta opera di
sensibilizzazione tra i fedeli».

VIETNAM: CONTRO LE «CHIESE IN CASA»

Raccogliendo testimonianze tra la folla di piazza San Pietro il
giorno prima delle dimissioni di papa Ratzinger Asianews ha riportato le
parole di alcuni sacerdoti asiatici, tra cui quelle di p. Giuseppe, originario
di Hue, nel Vietnam centrale: «”La Chiesa del Vietnam ha bisogno di
testimonianze di vita e di fede” e Benedetto XVI è stato “un modello
e una guida” in una nazione governata da un “regime comunista che
ancora oggi limita la libertà religiosa”. È questo il primo pensiero di un
sacerdote vietnamita, confuso fra la folla che gremisce piazza San Pietro in
attesa di salutare per l’ultima volta il suo “amato Papa” che da
domani lascerà il soglio pontificio. […] “Nella nostra società –
aggiunge il sacerdote – la fede non è ancora così radicata e sviluppata, per
questo è importante promuoverla e diffonderla con l’opera di annuncio”. Il
sacerdote ricorda inoltre il notevole contributo fornito dal papa per la
ripresa dei rapporti diplomatici fra Santa Sede e Hanoi, ma resta ancora molto
da fare e “guardiamo al futuro speranzosi, mettendoci nelle mani di
Dio”».

Da un focus di Porte Aperte sul paese indocinese apprendiamo che «dal
gennaio 2013 il Vietnam ha aggiornato la propria legislazione in materia di
libertà religiosa attraverso il Decreto sulla Religione ND-92 lanciando un
messaggio molto chiaro: lo Stato ha intenzione di controllare da vicino la
diffusione della religione, in particolare del cristianesimo. Questo decreto di
fatto completa quello emesso nel 2005 e – sostiene Porte Aperte – […] se
applicato interamente […] potrebbe criminalizzare il movimento di comunità
cristiane familiari (o chiese in casa, house church), una rete di chiese
che esiste da oltre 25 anni. Anche se venisse applicato irregolarmente comunque
potrebbe rappresentare una minaccia per l’esistenza di questa importante rete
di cristiani vietnamiti». Inoltre «il decreto giustifica la pesante burocrazia
relativa alle pratiche religiose, che di fatto dimostra di considerare la
religione come una minaccia alla sicurezza nazionale e culturale».

Cina: il bastone e la carota

«ChinaAid, una grande organizzazione statunitense di
sostegno ai cristiani perseguitati – ci informa Marco Tosatti di vaticaninsider.lastampa.it
-, ha reso noto [di recente] il suo rapporto annuale sulla situazione della
libertà religiosa nelle terre governate da Pechino. E la conclusione è che la
situazione si sta deteriorando per il settimo anno di seguito. Il rapporto [sul
2012] si basa su 132 casi di persecuzione, cha hanno coinvolto 4.919 persone.
Il numero degli individui giudicati in tribunale è cresciuto del 125 per cento,
rispetto all’anno precedente; e il “tasso” di persecuzione, secondo quanto
sostengono a ChinaAid è cresciuto del 41.9 per cento se paragonato al
2011. Come è ormai triste tradizione, sono soprattutto le “chiese domestiche”,
meno controllabili, a essere nel mirino delle autorità cinesi. Ma c’è anche un
fattore congiunturale, che ha reso più dura la situazione, e cioè una volontà
precisa da parte del governo e del Partito».

«ChinaAid – prosegue Marco Tosatti – prende in esame sei
elementi: il totale delle cifre sulla persecuzione, il numero delle persone
colpite, il numero degli arrestati, il numero dei condannati, il numero dei
casi di violazioni dei diritti e il numero delle vittime di questi abusi.
Rispetto al 2011, il totale delle cifre relative alle sei categorie è cresciuto
del 13.1 per cento. E se si considerano i sette anni precedenti, si osserva che
il trend di peggioramento persiste, sulla base di un incremento annuale del
24.5 per cento per tutte e sei le categorie considerate. Secondo gli analisti
di ChinaAid, la persecuzione del 2012 non è stata solo una prosecuzione
della pratica, presente nel 2008 e nel 2009 di “prendere a bersaglio le chiese
domestiche e i loro leaders nelle aree urbane”, o di quella del 2010 di “attaccare
i gruppi di legali difensori dei diritti umani cristiani, e di usare
maltrattamenti, tortura e tattiche mafiose”, e neanche della strategia del 2011
di aumentare di intensità gli attacchi contro i cristiani e le chiese
domestiche che hanno un impatto sulla società. C’è stato un cambiamento di
strategia, e la sua ragione può essere trovata in un documento emanato dai
Ministeri della Sicurezza Pubblica e degli Affari Civili, che affrontava il
tema del completo sradicamento delle Chiese domestiche. Il documento, curato
dall’amministrazione statale per gli Affari Religiosi, indica grosso modo tre
fasi dell’operazione. La prima, dal gennaio al giugno del 2012, prevedeva
intense, complete e segrete indagini sulle chiese domestiche, in tutto il
paese, e la creazione di archivi su di esse. La seconda fase dovrebbe durare
dai due ai tre anni, e basarsi sull’eliminazione graduale delle Chiese
domestiche che sono state schedate, per giungere, in un periodo decennale, alla
completa cancellazione del fenomeno. E in effetti a questo scopo sono stati
usati vari sistemi di bastone e carota; chiusura delle chiese, invio nei campi
di lavoro dei leaders, e nello stesso tempo tentativo di convincerli a
entrare nel sistema di chiese controllato dallo Stato e dal Partito».

«Il rapporto – conclude Tosatti – si chiude però su toni
lievemente ottimistici. Il 18mo Congresso nazionale avrebbe chiuso un’epoca di
ideologia di estrema sinistra. “ChinaAid è prudentemente ottimista,
scrive il Rapporto, perché a dispetto della crescente persecuzione e dei
cambiamenti politici del 2012, la Chiesa rimane ferma, e fiorente come i cedri
del Libano e gli alberi piantati vicini alle correnti, che al tempo stabilito
danno frutti abbondanti”».

Non a caso uno degli ultimi appelli di Benedetto XVI prima della
sua rinuncia è stato in favore della Chiesa cattolica in Cina: «Raccomando alle
preghiere vostre e dei cattolici di tutto il mondo la Chiesa in Cina, che come
sapete, sta vivendo momenti particolarmente difficili».

Luca Rolandi
Gioalista di Vatican Insider

Luca Rolandi




Gratta e Perdi: Il gioco d’azzardo (prima parte)

L’Italia è uno dei primi paesi
al mondo per i giochi d’azzardo, addirittura il primo in assoluto per quelli on
line. Nel 2012, la spesa pro-capite è stata di 1.450 euro. Le entrate per le
esangui casse pubbliche sono elevate, ma – una volta sottratti i costi diretti
e indiretti dovuti ai pesanti effetti collaterali per la collettività – lo
Stato-biscazziere non è un buon affare. Nel frattempo, i malati a causa del
gioco sono in costante aumento, e sempre di più giovani.

Qualche settimana fa, mentre ero
ferma al rosso, l’occhio mi è caduto su una sala giochi, a pochi metri
dall’incrocio. Curiosamente accanto alla sala, c’era l’ufficio di una
finanziaria. Mi è venuto da pensare che quella vicinanza fosse tutt’altro che
casuale. Voltando lo sguardo ho pure notato un cartello pubblicitario che
reclamizzava una sala scommesse. Facendo un giro per la città, mi sono resa
conto che locali come questi sono sempre più diffusi e soprattutto molto
frequentati. Poi, entrata in una tabaccheria con terminale della Lottomatica,
per pagare il bollo dell’auto, mi sono ritrovata a fare la coda dietro a
diverse persone, tra cui alcuni anziani. Questi stavano scommettendo su dei
numeri (a loro dire sicuri) e poi – per non lasciare alcunché d’intentato –
prima di uscire hanno comprato anche alcuni «Gratta e Vinci». Scene sempre più
frequenti in un’Italia, che – nel giro di pochi anni – è diventata uno dei
paesi al mondo in cui si gioca di più. Basti pensare che in Europa ci
contendiamo il primato con l’Inghilterra per le giocate di tutti i tipi, mentre
siamo terzi al mondo tra i paesi dove si gioca di più e addirittura primi per i
nuovi giochi d’azzardo on line, quelli che chiunque sia dotato di un cellulare,
un computer o un tablet può fare.
Bastano una connessione ad internet, una carta di credito e la maggiore età, ma
attenzione: per attestare quest’ultima è sufficiente l’autocertificazione. Ciò
significa che qualunque minorenne può accedere a questo tipo di giochi,
dichiarando di avere 18 anni e magari usando la carta dei genitori.

NUMERI DA RECORD

Secondo un dossier sul gioco d’azzardo del mensile Valori
(febbraio 2013), nel 2012 il fatturato legale (raccolta) del gioco d’azzardo è
stato di quasi 90 miliardi di euro, con una spesa pro capite, neonati compresi,
di 1.450 euro. Si stima che in Italia circa l’80% della popolazione adulta
partecipi saltuariamente a lotterie ed a scommesse, mentre il 13% degli
italiani gioca alle lotterie ed alle slot machine quasi ogni settimana
ed il 5% due o tre volte alla settimana. Il gioco d’azzardo è diventato la
terza industria in Italia, con  5.000
aziende e 120.000 persone che vi lavorano. Visto che il gioco d’azzardo è stato
legalizzato dal governo italiano nel 1992 per risanare le casse dello Stato,
poi nel 2006 con la legge Bersani-Visco è stato concesso alle agenzie straniere
di entrare liberamente nel mercato italiano del gioco e che infine nel 2011 il
governo Berlusconi ha liberalizzato il gioco d’azzardo on line, si
potrebbe pensare che, con un fatturato del genere, ogni anno gli introiti in
tasse sui giochi siano per lo Stato una vera e propria panacea, ma non è così.
Negli ultimi otto anni infatti, il fatturato da gioco d’azzardo è
quadruplicato, mentre le entrate fiscali sono rimaste per lo più stabili, se
non addirittura in leggera flessione. Ciò è dovuto al fatto che la tassazione è
molto diversa per i vari giochi. Si va dal 44,7% per il superenalotto e dal 27%
per il classico lotto al 3% per le videolottery e allo 0,6% per i casinò
on line. Nel 2012 le entrate fiscali legate al gioco sono state di circa
8 miliardi. Nel 2004 a fronte di un fatturato di 24,8 miliardi (rispetto ai 90
attuali), le entrate fiscali da gioco furono di 7,3 miliardi. Questo fatto, se
da un lato si può spiegare con l’enorme diffusione dei giochi d’azzardo on
line, favorita da una tassazione veramente esigua, dall’altro si può spiegare
con un megabusiness legato alle macchinette dei videopoker delle
sale giochi e dei bar, che non sempre vengono collegate via modem con la Sogei
(la «Società generale di informatica», che presiede ai controlli sul pagamento
delle imposte), favorendo così i guadagni della criminalità organizzata.
Secondo il dossier «Azzardopoli» di Libera, l’associazione contro le mafie
fondata da don Luigi Ciotti, il fatturato illegale da gioco d’azzardo del 2011 è
stato di circa 10 miliardi di euro ed è stato spartito da 41 clan mafiosi.

Consideriamo inoltre che, se da un lato l’erario ha incassato 8
miliardi nel 2012, si stima che, tra costi sanitari diretti ed indiretti e
costi legati alla perdita della qualità della vita, la collettività nello
stesso anno abbia subito un danno compreso tra i 5,5 ed i 6,6 miliardi di euro,
a cui vanno aggiunti 3,8 miliardi circa per mancati versamenti dell’Iva.

IL GIOCO,
UNA DROGA SOTTOVALUTATA

È chiaro quindi che la legalizzazione del gioco d’azzardo non è
riuscita a contribuire al risanamento delle casse dello Stato. È invece
riuscita a fare aumentare enormemente i casi di ludopatia o «Gioco d’azzardo
patologico» (Gap), che colpiscono fasce sempre più estese della popolazione,
con punte di spicco soprattutto tra quelle più deboli e meno istruite. Sono
sempre più numerosi i casi di persone, che non riescono più a staccarsi dal
gioco e che arrivano a distruggere i rapporti familiari e di lavoro, perdendo
tutti i loro averi e finendo spesso col diventare vittime di usurai. Sempre più
spesso tra i malati di gioco d’azzardo si trovano persone anziane e giovani,
anche minorenni sebbene ad essi il gioco sia vietato. A questo proposito è
possibile vedere su Youtube un video del Secolo XIX, in cui è filmato un
ragazzino di 14 anni, che entra in diverse tabaccherie di Genova acquistando
dei «Gratta e Vinci» da 5 euro e sigarette, senza che i titolari delle
tabaccherie battano ciglio sulla sua minore età. Solo in un esercizio su 5 il
ragazzo non viene servito perché minorenne. Il ragazzo entra poi in una sala
giochi e riesce a giocare alle slot machine ed ai videopoker senza problemi.
Quanto visto a Genova non è certamente un caso isolato. La situazione è la
stessa in ogni angolo del nostro paese. I giovani rappresentano una categoria
particolarmente a rischio di cadere nella ludopatia, poiché tendono a misurarsi
con il mondo degli adulti per evadere dal proprio. L’opinione pubblica e i
genitori soprattutto sembrano non essersi resi ancora conto di questo nuovo
rischio, probabilmente perché pensano che i maggiori pericoli di dipendenza
possano derivare solo dal consumo di droghe, di alcolici e di tabacco. In realtà,
siamo di fronte ad un tipo di dipendenza senza droga e nel giro di pochi anni
l’aumento del gioco patologico tra i giovani ha assunto caratteristiche
allarmanti. La Polizia postale segnala un aumento delle scommesse on line
soprattutto tra i giovanissimi, tra i quali la comparsa di un comportamento
patologico nei confronti del gioco è favorita dalla facilità di accesso a
questo tipo di giochi in assoluta segretezza, dalla pubblicità che ne viene
fatta ormai su buona parte dei mass media e dalla fragilità insita nella
giovane età. Secondo Mark Griffiths della Nottingham Trent University,
la media europea dei giovanissimi giocatori è superiore a quella degli adulti
di circa 4 volte. Il motivo dell’aumento del gioco patologico tra i giovani è,
secondo Paolo Bagnare, psicologo e consulente del Tribunale di Milano,
un’espressione di disagio. Per gli adolescenti, che non si sono ancora lasciati
completamente alle spalle il pensiero infantile, la vincita facile ha effettivamente un aspetto magico. L’adolescenza è
un periodo di transizione caratterizzato da una forte fragilità, durante il
quale i giovani tendono a cercare un appoggio esterno, per supplire alla
carenza di definizione e di forza interiore. Inoltre, in questo periodo, i
giovani sono particolarmente inclini a sfidare il mondo degli adulti, ma non
sempre sono completamente consapevoli delle loro azioni. Purtroppo, in questo
caso, i giochi on line, che si trovano in internet consentono di entrare in
contatto con un’attività da adulti, che trasmette forte eccitazione e permette
di dimenticare i problemi della quotidianità, facendo entrare i giovani in una
dimensione illusoria. Scivolare nella dipendenza diventa perciò facilissimo.

INIZIATIVE CONTRO LA DIPENDENZA

Alcune associazioni cominciano a muoversi verso questa nuova forma
di dipendenza giovanile. Tra queste ci sono l’«Associazione And» di Varese,
rivolta ai giovani tra i 17 ed i 25 anni, la cornoperativa sociale «Pars» di
Civitanova Marche, per giovani maggiorenni e, nel torinese, la comunità
terapeutica «Lucignolo & Co.», struttura pubblica del Dipartimento di
Patologia delle dipendenze dell’Asl To3 di Torino.

Per valutare la diffusione del gioco d’azzardo tra i giovani in
Italia, è stato fatto uno studio esplorativo a livello nazionale secondo gli
standard adottati dall’indagine europea Espad1 (The European School Survey Project On Alcohol And Other Drugs), che
prevedeva la compilazione in forma anonima di un questionario distribuito nelle
classi di alcune scuole superiori selezionate casualmente. Nel 2000 i giovani
che hanno dichiarato di giocare con una frequenza tra «poche volte all’anno» e «quasi
ogni giorno» sono stati il 39% degli studenti italiani, ma la percentuale è
drasticamente salita nel 2009, raggiungendo il 51,6%. In generale sono i maschi
ad essere più dediti al gioco; nell’indagine condotta, pur essendo i
maggiorenni a giocare di più, tra i minorenni che giocano, quelli che hanno
riferito di avere giocato denaro almeno una volta nell’ultimo anno sono il
55,5% maschi ed il 34,6% femmine. Tra i giochi preferiti dai giovani di
entrambi i generi in pole position c’è
il «Gratta e Vinci», seguito dalle scommesse sportive e dal
lotto/superenalotto. Molto più diffuse tra i maschi sono le macchine da gioco
elettroniche. A differenza dei giocatori adulti, per i quali il denaro è quasi
sempre la molla, che spinge a giocare, per i giovani esso non è il fine ultimo
del gioco, ma il mezzo per potere continuare a giocare.

All’inizio del 2012, i Monopoli di Stato hanno intrapreso la
campagna «Giovani e Gioco», che prevedeva la distribuzione di un Dvd a 70.000
studenti, a partire da quelli della Campania, Puglia, Sicilia, Abruzzo e
Lombardia, per estendersi 
successivamente alle altre regioni italiane ed agli studenti di età
minore. Secondo diverse associazioni, tra cui Assoutenti, Libera,
l’associazione Giovanni XXIII, il Conagga (Coordinamento Nazionale Gruppi per i
Giocatori d’Azzardo), il Cnca (Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza)
ed secondo il cardinale Bagnasco di Genova, sotto le mentite spoglie di una
campagna per insegnare ai giovani a giocare in modo responsabile, c’è una vera
e propria istigazione al gioco. In questo Dvd, un giovane – che non gioca, ma
anzi telefona all’Asl se il padre trascorre tutto il tempo alle slot – viene visto come un bacchettone.
Per non parlare della frase «Evolve chi si prende una giusta dose di rischio,
mentre è punito chi non rischia mai o chi rischia troppo» contenuta nel Dvd, la
quale lascia chiaramente intendere che, per essere Ok, bisogna giocare almeno
un poco.

SOMMERSI DAGLI SPOT

Come accennato, una delle cause che spingono verso la dipendenza
da gioco sia i giovani, che gli adulti è la pubblicità dei giochi d’azzardo
fatta ormai su quasi tutti i media. Si vedono spot e pubblicità di giochi
ovunque: al cinema, in Tv, in internet sotto forma di banner e di link,
sui giornali e nei cartelloni stradali, che sempre più spesso pubblicizzano i
casinò on line gestiti da aziende private. Il mondo del gioco d’azzardo
investe in pubblicità circa mezzo miliardo di euro all’anno. Per tentare di
porre un argine a questo fenomeno, il Consiglio nazionale degli utenti (Cnu),
organismo istituito presso l’Agcom (Autorità garante per le telecomunicazioni),
nel 2011 ha proposto al governo di equiparare la pubblicità dei giochi
d’azzardo a quella del fumo, da anni bandita da tutti i media per la sua
riconosciuta pericolosità sociale. Per tutta risposta l’8 novembre 2012 è stato
convertito nella legge n. 189 il decreto-legge n. 158 o decreto Balduzzi, che
proibisce gli spot dei giochi d’azzardo al cinema, durante la proiezione dei film
per i minori, sulla stampa per l’infanzia e durante le trasmissioni Tv per gli under 18 (anche mezz’ora prima e dopo).
Inoltre tale legge prevede l’obbligo per i gestori delle sale da gioco e di
tutti gli esercizi, in cui vi sia la possibilità di giocare d’azzardo, di
esporre all’ingresso ed all’interno dei locali il materiale informativo
predisposto dalle Asl, diretto ad evidenziare i rischi correlati al gioco ed a
segnalare la presenza sul territorio di servizi di assistenza pubblici e del
privato sociale per la cura e il reinserimento delle persone con patologie
correlate al gioco d’azzardo. È inoltre vietata la possibilità, in ogni
esercizio pubblico, di giocare d’azzardo nei casinò on line. È previsto
il raddoppio dei controlli annui (saranno 10.000) destinati al contrasto del
gioco minorile, negli esercizi dove sono presenti le slot machine.
Inoltre queste potranno essere collocate solo lontano da zone sensibili come
scuole, ospedali e luoghi di culto. La pubblicità dei giochi dovrà indicare le
probabilità di vincita. Questa legge ha inoltre riconosciuto la ludopatia come
una patologia da curare presso i servizi pubblici per le dipendenze. In realtà,
purtroppo l’inserimento della ludopatia nei livelli essenziali di assistenza
non è accompagnato da una copertura finanziaria. I limiti posti dalla legge
alla pubblicità dei giochi d’azzardo sono decisamente poco incisivi perché
riguardano solo i minorenni e solo determinate forme di comunicazione. Inoltre,
sotto la pressione delle lobby del
gioco, è stato anche diminuito il limite di distanza dai luoghi sensibili,
portato dai 500 metri previsti dal decreto Balduzzi ai 200 metri della legge.
Per non parlare del fatto che ora è possibile portarsi un casinò nel cellulare
o nell’Ipod, quindi in tasca.

I PADRONI DEL BANCO

A proposito di lobby, chi sono gli azionisti principali,
che alimentano il gioco d’azzardo in Italia e quindi guadagnano sulla pelle dei
giocatori? Ecco qualche nome: De Agostini, Mediobanca, Lottomatica, Snai,
Assicurazioni Generali, Toro Assicurazioni, Ina Assitalia, Intesa Vita,
Alleanza Assicurazioni, Generali Horizon, Fata Assicurazioni, Genertel, Banca
Generali ed Emilio Silvestrini. Dobbiamo ricordare che, in questi tempi di
crisi, i giocatori che arricchiscono queste compagnie sono sempre più spesso
disoccupati e pensionati, che sperano di migliorare la loro condizione
economica tentando la fortuna ma che invece si rovinano, perché è matematico
che «il banco vince sempre».

Nella prossima puntata cercheremo di capire chi è più a rischio di
diventare vittima di ludopatia, cioè quali caratteristiche biologiche e
psicologiche presentano i giocatori compulsivi.

 
Rosanna Novara Topino
(fine prima parte – continua)

Rosanna Novara Topino




Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? | Rendete a Cesare (2)


Per leggere la prima parte

Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

Le parole svelano le intenzioni del cuore

Tenendo conto di questo quadro, vediamo il testo. Alla luce di questa panoramica contestuale che tiene conto di tutta la Scrittura, il contesto immediato dei tre Sinottici, e particolarmente in Lc, è di complotto e di tensione:

– Lc 20,19: «Gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo». È in atto una macchinazione per perseguire un fine ingiusto.

– Lc 20,20: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore». È evidente una collusione/ complicità con il potere pagano e impuro, con l’obiettivo esplicito di servirsi del potere pagano.

– Lc 20,25: «Egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”». La risposta di Gesù, tecnicamente, si configura come risposta ad hominem, cioè diretta. Egli non fa un discorso generale sulle tasse, ma riprende, strettamente parlando, la risposta da essi data: poiché l’immagine della moneta appartiene a Cesare, come essi stessi ammettono, è un suo diritto, dice Gesù, averla indietro.

Se Gesù si fosse limitato a questa prima parte, tutto sarebbe finito con un insegnamento esemplare e coerente: poiché voi vi servite del denaro di Cesare che vi offre un servizio, è giusto che vi chieda un qualche corrispettivo. Se volete contestare l’autorità di Cesare, non usate il suo denaro, cioè siate voi stessi coerenti. La novità di Gesù sta nella seconda parte della risposta, con la quale riprende quello che i suoi interlocutori avevano omesso o dimenticato: Dio. Il testo greco dice alla lettera:

«E pertanto, dunque/di conseguenza, restituite (una volta per tutte) le cose di Cesare a Cesare e (= nello stesso tempo) le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio – Ho de eîpen pròs autoús: Toìnuyn apòdote ta Kàisaros Kàisari kài ta toû theoû tōi theōi».

Le parole hanno un senso oltre le apparenze

La parola «toínyn», in greco è una congiunzione cornordinante consecutiva o conclusiva (cf Blass-Debrunner §451,9) e per questo traduciamo in modo da dare alla risposta un tono definitivo e conclusivo. In questo modo, Gesù afferma che con la loro risposta sono essi stessi a darsi la risposta. Gesù si limita a trarre la conclusione logica e coerente di quanto affermato da loro. In altre parole, la risposta di Gesù non è una sua conclusione, ma quella cui essi stessi obbligano con il loro agire e con il loro pensare.

Per la restituzione (restituite), l’evangelista usa il tempo imperativo aoristo «apòdote» che indica un’azione compiuta in se stessa, avulsa dal tempo. Non può avvenire a rate o a spizzichi perché non lascia spazio per un tempo di riflessione. Deve essere un fatto unico, conseguenza di una decisione e di una conversione radicale: «Restituite una volta per tutte».

Infine, l’espressione «le cose di Cesare» ha il genitivo di origine o di appartenenza (Blass-Debrunner §162,9 e § 266, 5a): le cose in generale, qui la moneta, che sono «già» proprietà di Cesare. In altre parole Gesù dice che il possesso della moneta romana da parte dei Giudei è illegittimo, per cui restituirla al proprietario significa restaurare l’ordine della legittimità e della verità.

La questione non riguarda le tasse, come volevano gli scribi; Gesù sposta la discussione sul possesso della moneta, da parte di chi professa una religione che impone il divieto assoluto delle immagini della divinità. Questo divieto è così grave che viene codificato addirittura nel comandamento (Es 20,3). Poiché l’imperatore si considera «dio», è grave che la sua moneta, la sua «insegna», si trovi nelle mani di chi si appella al Dio di Mosè.

Si direbbe che l’autore usi la struttura della lingua greca per affermare con più forza il senso del pensiero che vuole esprimere. È straordinario come Gesù non si fermi mai alle apparenze, ma obblighi ad andare al cuore della questione. I farisei e i capi dei sacerdoti pensavano di metterlo in imbarazzo; invece, si ritrovano davanti a loro stessi, alla loro superficialità o, ancora più grave, alla loro religione di finzione, perché parlano in nome di Dio, ma ne disattendono i comandamenti.

Contesto prossimo: il complotto

Non è sufficiente, però, tradurre le parole del vangelo, bisogna anche collocarle nel contesto immediato e prossimo, se vogliamo afferrarne il senso profondo. È quello che facciamo, osservandolo da vicino.

Il capitolo 20 di Luca si apre con due polemiche fortissime:

– Lc 20,1-8: Gesù si oppone ai «capi dei sacerdoti e gli scribi con gli anziani» (v. 1) che pretendono di limitare la sua autorità; Gesù li mette all’angolo con una domanda trabocchetto: il Battesimo di Giovanni viene da Dio o dagli uomini? Se rispondono che viene da Giovanni, corrono il rischio che la folla si ribelli, perché Giovanni aveva la fama di profeta; se rispondono da Dio, si autoaccuserebbero perché non gli hanno creduto. Non hanno più alibi. In questo modo Gesù raggiunge il suo obiettivo: li mette alle strette e con le spalle al muro. Infatti, essi si rifiutano di rispondere perché non possono.

– Lc 20,9-19: la parabola dei contadini omicidi obbliga gli uditori a trarre le conclusioni, o come si dice, la morale. Infatti, gli interessati capiscono subito: «Avevano capito che aveva detto quella parabola contro di loro» (Mc 12,12). A questo punto, non si può andare tanto per il sottile, perché uno che mette in difficoltà il sommo sacerdote, che costringe all’angolo i membri del sinedrio, che contesta la loro autorità e mette in dubbio la loro moralità di trafficanti con il denaro immondo, non può restare libero. È un pericolo per l’istituzione religiosa che si sente screditata. L’autorità non si può discutere, perché s’indebolisce e si delegittima.

I capi religiosi vogliono però umiliare Gesù a ogni costo; per loro la questione delle tasse è strumentale, perché il loro vero obiettivo è il complotto per mettere Gesù fuori gioco, in modo definitivo. Il clima da servizi segreti con spie e travestimenti è descritto da Luca 20,20, in modo impressionante e preciso: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore».

È il metodo del tranello e del fango, dell’inganno, della manipolazione della verità e realtà. C’è lo spionaggio che significa una scelta cosciente: pur di raggiungere il fine qualsiasi mezzo è lecito. L’atteggiamento e la perversione dei capi religiosi ha fatto scuola nella storia fino ai nostri giorni anche nella Chiesa. Un papa che si dimette, come Benedetto XVI, perché non è stato in grado di fermare «individualismi e rivalità» che hanno generato «le divisioni che deturpano la Chiesa», come egli stesso ha ammesso (Omelia delle ceneri, 13 febbraio 2013, in San Pietro), mettono in luce che, quando prende il sopravvento la religione d’interesse, gravi sono le conseguenze sul piano della fede; possono arrivare anche a produrre le dimissioni come ipotesi di soluzione del conflitto.

La risposta di Gesù: la coerenza nella verità

Gesù sventa il tranello e va alla radice della questione. Chiedendo retoricamente di chi è l’«immagine», come se lui non lo sapesse, sposta la riflessione sul problema radicale: quale autorità governa su Israele? In altre parole, più esplicite: chi è il «Dio» di Israele? È il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Mosè, oppure è il «divino Cesare», imperatore di Roma?

Tutti, al tempo di Gesù sapevano che gli imperatori romani, come qualsiasi altro potente, facevano imprimere la propria effige sulle monete di metallo per due motivi di ordine pratico. In un tempo senza macchine fotografiche e senza tv, un modo per farsi riconoscere era la divulgazione dei lineamenti imperiali su tutto il regno. Il secondo motivo, più politico, era di affermare la propria autorità sui propri sudditi, perché chiunque avesse usato la moneta con l’effige, di fatto ne riconosceva la legittimità e quindi si sottometteva alla sua autorità giuridica e fiscale.

I capi religiosi che avrebbero dovuto guidare il popolo, il cui re è il Dio d’Israele (cf Sal 144/143,15), invece, riconoscono l’autorità di un imperatore che non può godere di alcun diritto di governo su Israele. In questo modo essi conducono il popolo nella schiavitù di un pagano e straniero, usurpatore della legittimità di Dio. Essi sono responsabili della decadenza religiosa e della devianza etica del loro popolo perché confondono Dio con Cesare.

(continua – 2)

Paolo Farinella




Cooperazione per l’acqua

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2013 anno internazionale
della cooperazione per l’acqua e hanno incaricato l’Unesco, la loro agenzia più
multidisciplinare, di cornordinare le iniziative legate a questo tema che tocca
in modo trasversale ambiti diversi, dalle scienze naturali e sociali,
all’istruzione, alla cultura, alla comunicazione.

Obiettivo dell’Anno Internazionale, si legge
nel sito dell’agenzia Onu che si occupa dell’acqua, Un Water, è quello
di accrescere la consapevolezza sia delle aumentate possibilità di cooperazione
su questo tema sia delle sfide relative alla gestione dell’acqua. Sarà anche
un’occasione, conclude Un Water, per sfruttare il momentum, lo slancio
generato dalla Conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, nota come Rio+20
poiché si è svolta vent’anni dopo una precedente conferenza organizzata proprio
a Rio de Janeiro, in Brasile, sullo stesso tema.

A
quale momentum le Nazioni Unite si riferiscano rimane piuttosto dubbio,
visto che molti degli esponenti della società civile internazionale intervenuti
a Rio+20 hanno giudicato l’evento un flop e il documento conclusivo, intitolato
Il futuro che vorremmo, una semplice raccolta di buoni propositi priva
di qualunque rilevanza operativa e concreta. Non sono state date risposte
efficaci a gridi d’aiuto come quello di una donna mozambicana riportato da p.
Alex Zanotelli su Nigrizia nei suoi articoli da Rio: «La multinazionale
brasiliana Vale do Rio Doce – ha urlato la donna al microfono – sta costruendo
una diga nel mio paese, derubandoci delle nostre terre e delocalizzando la
nostra gente».

L’importanza
dell’acqua per la vita umana è di un’evidenza che non richiede dimostrazioni,
ma è interessante citare alcuni esempi di come la sua gestione crei diatribe
che si trasformano molto spesso in veri e propri conflitti armati. World
Water
, un progetto del pluripremiato istituto di ricerca Pacific
Institute
di Oakland, Califoia, ha stilato una lista che conta 225
conflitti legati all’acqua dal 3.000 a.C. al 2010. Il sito del Centro di
Documentazione dei conflitti ambientali
, con sede a Roma, fornisce i
dettagli di oltre sessanta conflitti in corso che riguardano la gestione
dell’acqua: deviazione di fiumi, costruzione di dighe, fumigazione di
coltivazioni illegali e altri interventi simili stanno pesantemente inquinando
le acque del globo e mettendo in discussione l’esistenza di interi popoli.

Avere a disposizione acqua pulita fa la differenza fra
vivere e morire in moltissimi contesti. Secondo Un Water, la diarrea
rimane la principale causa di malattia e morte nel mondo e nove casi di decesso
su dieci, tra quelli causati da malattie intestinali, sono dovuti alla mancanza
di acqua potabile e di igiene. Ogni venti secondi un bambino muore a causa
delle condizioni igieniche insufficienti. Lavarsi le mani con il sapone e acqua
pulita potrebbe ridurre di quasi la metà queste morti.

Altro esempio: il tracoma, infezione agli occhi diffusa
nel sud del mondo, colpisce circa quaranta milioni di persone; circa sei
milioni sono gli abitanti del pianeta oggi privi della vista a causa di questa
malattia, che si diffonde principalmente dove le condizioni igieniche sono
insufficienti per la mancanza di acqua e di sanificazione. Secondo l’Unicef,
intervenire per migliorare l’accesso a fonti idriche adeguate potrebbe ridurre
del 25% l’infezione.

Unicef ricorda poi che anche nella lotta all’HIV l’acqua
ha un ruolo cruciale: i pazienti affetti da Aids sono più suscettibili alle
malattie legate all’acqua di quanto lo siano gli individui sani e si ammalano
più gravemente per questo tipo di infezioni rispetto a persone il cui sistema
immunitario non è compromesso. Per questo è ancora più importante garantire
loro accesso ad acqua adeguata.

Molti
sarebbero gli esempi da citare per illustrare il peso decisivo dell’acqua nel
salvare vite umane o anche solo nel garantire standard di vita accettabili;
altrettanti, però, sono gli esempi di abuso delle risorse idriche che minaccia
la piena fruizione di questo bene fondamentale. Questa rivista si occupa da
anni di segnalare tali abusi, che vanno dal prosciugamento delle falde
acquifere del Kerala (India) da parte di Coca Cola Company (vedi Moiola,
Acqua del rubinetto? Sì, grazie!
, MC 6/2006) all’utilizzo di acqua nella
coltivazione di fiori per i mercati europei in paesi, come il Kenya (ma non
solo), pur afflitti con cadenza annuale da ondate devastanti di siccità
(Anataloni, La vergogna della fame, MC 9/2011).

I missionari della Consolata per l’acqua

L’accesso
all’acqua è uno dei temi portanti del lavoro dei missionari della Consolata nel
mondo e i progetti realizzati nelle missioni spaziano dai micro-interventi alle
iniziative di più ampia portata, dalla risposta alle emergenze all’ascolto
delle esigenze quotidiane delle comunità. Qui, per ragioni di spazio, ne
vediamo solo alcuni fra i più recenti e significativi.

Africa – Kenya


Il
più monumentale degli interventi legati all’acqua è probabilmente quello che da
quarant’anni fratel Giuseppe Argese porta avanti a Mukululu con il Tuuru
Water Scheme
. I numeri del sistema idrico messo in piedi da fratel Argese
con la diocesi di Meru fanno impressione: oltre un quarto di milione di persone
e oltre settantamila capi di bestiame della zona circostante la foresta di
Nyambene ricevono acqua grazie a questo enorme impianto che, con i suoi 250
chilometri di tubature, conta centinaia di punti di erogazione d’acqua e serve
dispensari, strutture sanitarie, scuole e privati. Ciò che vale la pena di
ricordare è che fratel Argese sta portando avanti i lavori – con tutte le
difficoltà connesse – per costruire la terza diga, che permetterebbe di
risolvere in maniera definitiva i problemi di siccità della zona (vedi
Anataloni, Mukululu: ricominciare, sempre, MC 1/2013). Su questo
progetto si è critto molto negli anni e c’è buona documentazione. L’iniziativa
di sponsorizzare i punti di distribuzione dell’acqua sta raccogliendo buoni
consensi. Il progetto si può sostenere anche online attraverso ilMiDono.

Meno noto è il grande lavoro delle diocesi di Marsabit e
di Maralal, perennemente alle prese con la mancanza di acqua o con la presenza
di acqua salata. Hanno scavato centinaia di pozzi, sistemato cistee per la
raccolta di acqua piovana vicino a ogni tetto di asili, scuole, centri sanitari
e missioni, piazzato mulini a vento, risanato sorgenti dividendo l’accesso del
bestiame da quello delle persone, aiutato la gente a costruire piccoli bacini
artificiali per la raccolta della pioggia, propagandato l’uso corretto
dell’acqua per vincere le malattie attraverso corsi di formazione per donne,
leader, operatori sanitari… una miriade di iniziative che hanno certo
contribuito al miglioramento della vita in una regione semi-desertica. L’enorme
diocesi di Marsabit, prima della divisione da Maralal, aveva un gruppo
specializzato per seguire esclusivamente i numerosissimi progetti sull’acqua su
tutto il territorio. Ora le due diocesi continuano l’impegno attraverso i
rispettivi Uffici dello Sviluppo.

Sempre
in Kenya, Missioni Consolata Onlus ha seguito l’anno scorso la realizzazione di
un progetto idrico – sostenuto con fondi messi a disposizione da Caritas
e da un’associazione calabrese amica – che ha premesso alla scuola secondaria
di Mukothima, nel Tharaka, di dotarsi di una fonte d’acqua per irrigare il
campo adiacente alla scuola. Grazie al campo e alla serra costruita accanto a
esso, è ora possibile coltivare frutta e verdura per la mensa della scuola e
abbattere così i costi di gestione.

RD Congo e Mozambico


In
Repubblica Democratica del Congo, presso l’ospedale Notre Dame della Consolata
di Neisu, è in corso un progetto finanziato dalla Water Right Foundation della
Toscana e da altri partner della zona dell’ATO3 Medio Valdao. Il
progetto prevede la costruzione di tre pozzi nei dispensari che fanno capo
all’ospedale e la formazione della popolazione locale sul corretto uso delle
risorse idriche e, in Italia, diverse iniziative di sensibilizzazione
sull’acqua (vedi MC 3/2013).

Ai progetti classici sull’acqua, che comprendono la
costruzione di pozzi (come quello ultimato l’anno scorso a Nseue, Mozambico), l’installazione
di cistee per le scuole e le risposte alle emergenze siccità come quella del
2012 nel nord del Kenya, i missionari affiancano ormai da diversi anni altre
iniziative che riguardano meno il fare, il costruire e si
concentrano invece più sulla formazione delle persone. Si stanno cioè
moltiplicando i progetti che, da un lato affiancano alla foitura dell’acqua i
corsi di formazione su come gestirla correttamente e, dall’altro mirano ad
aumentare nelle comunità la consapevolezza del proprio diritto all’acqua.

Obiettivo
di questa formazione è sostenere la popolazione locale nel suo tentativo di
relazionarsi con le istituzioni pubbliche locali per esigere dai propri
amministratori interventi incisivi che ampliino l’accesso all’acqua pulita.
Indicativo è stato l’esempio del Mozambico, al quale Mco ha dedicato la
campagna di Natale del 2012: i missionari della Consolata che operano nel
gigante lusofono dell’Africa meridionale hanno segnalato all’unisono e con
molta decisione l’urgenza di mettere le comunità locali in condizione di
partecipare alla crescita economica del paese, creando in esse competenze
professionali e conoscenze giuridiche attraverso le quali tentare di avere voce
in capitolo nella ripartizione delle risorse nazionali, fra cui l’acqua, che
rischiano oggi di essere invece alienate e svendute a multinazionali straniere.

America Latina


Mco
ha seguito lo scorso anno due progetti a Bahia (Regione Nordeste del
Brasile), a Monte Santo e Jaguararì. Le due municipalità si trovano nel
cosiddetto poligono della siccità, caratterizzato dal bioma della caatinga,
foresta grigia, nome che deriva dalla presenza di piante che sono per la
maggior parte dell’anno secche. Le precipitazioni sono cronicamente scarse e la
struttura geologica della zona rende molto difficile raccogliere e
immagazzinare acqua. I fiumi sono stagionali e nella maggior parte dei casi
l’acqua del sottosuolo è salina, utilizzabile per la pulizia e l’abbeveraggio
del bestiame ma inadatta al consumo umano. Nell’entroterra,
una grande parte della popolazione locale riceve acqua potabile attraverso il
cosiddetto carro-pipa (camion cisterna), un servizio fornito
dall’esercito, mentre le città sono alimentate dalla Empresa Baiana de Águas
e Saneamento
(Embasa), una società privata il cui maggior azionista è il
governo dello stato di Bahia. Il rifoimento di acqua avviene una volta al
mese.

Durante
l’estate 2012, quest’area ha sperimentato la peggiore siccità degli ultimi
quarantasette anni (vedi MC 7/2012). Per dodici mesi non ci sono state
precipitazioni e le dighe e i fiumi che, in condizioni normali, riescono a
rifoirsi di acqua durante le piogge, si sono completamente prosciugati. «La
gente di Monte Santo», scriveva all’epoca dell’emergenza p. Stanley Thinwa
Muriuki, «spende anche un’intera giornata a cercare fonti spostandosi a piedi o
a dorso d’asino per lunghe ore. I bambini, anche loro coinvolti in questo
sforzo, sono costretti a perdere le lezioni scolastiche per aiutare le famiglie
a procurarsi acqua. Gli animali, spesso unica fonte di sostentamento in una
zona dove coltivare è praticamente impossibile, sono sempre più debilitati».

Per
far fronte a questa emergenza P. Stanley e P. Vidal Moratelli hanno proposto
una serie di iniziative che Mco ha riunito in una campagna di raccolta fondi
lanciata nel corso dell’estate 2012: oltre alla risposta immediata, che
prevedeva il trasporto di acqua alle comunità attraverso camion cisterna e
taniche, i missionari hanno previsto anche la perforazione di pozzi e
l’installazione di cistee che possano, in futuro, mettere al riparo la
popolazione dai danni della siccità endemica nella zona.

Jaguararì, a circa 150 chilometri da Monte Santo,
condivide gli stessi problemi. Per questo, i padri Domingos Forte e Aquileo
Fiorentini si sono impegnati nella costruzione di cistee da installare presso
le abitazioni delle famiglie della zona in modo che possano immagazzinare acqua
durante la stagione delle piogge e far fronte così ai momenti più difficili.
Grazie al sostegno di diversi donatori, l’intervento procede in modo lento ma
costante e di recente otto nuove cistee sono state installate. «In un primo
momento sono state scelte le aree dove era più grave la mancanza di acqua»,
scriveva p. Aquileo lo scorso novembre raccontando lo svolgimento del progetto,
«per poi passare all’identificazione delle famiglie più bisognose, cioè quelle
più numerose e con presenza di bambini. Famiglie che vivono vicine hanno
accettato di condividere una cisterna. Un bel segno di condivisione». E di
cooperazione. Per l’acqua.

Chiara Giovetti
Alcuni articoli sull’acqua in MC:
C. Giovetti, Acqua per la salute, 3/2013.
J. Patias, Questione di vita o di morte, 7/2012.
L. Anataloni – S. Tavella, Come una goccia di rugiada, 9/2010.
U. Pozzoli, Acqua delle nostre brame, 5/2009.
L. Anataloni, Mukiri, l’uomo dell’acqua, 2/2008.
AA.VV., Le mani sull’acqua (dossier), 6/2006.

Chiara Giovetti




Bartolomé De Las Casas

Bartolomé De Las Casas (1484 – 1566) una delle figure più
rappresentative dell’opera evangelizzatrice e di difesa degli indios del
continente scoperto (o conquistato?) da Cristoforo Colombo, ha accettato di
colloquiare con noi sulla sua vita avventurosa e suggestiva.

Da parte mia c’è un po’ di
soggezione di fronte a una persona così carismatica, ma allo stesso tempo sono
ansioso di porti alcune domande. Innanzitutto presentati ai nostri lettori.

Sono
nato a Siviglia nel 1484. Mio padre e mio zio avevano partecipato alla seconda
spedizione di Cristoforo Colombo nel 1493. Nel 1502, all’età di 18 anni, misi
piede per la prima volta in America, sull’isola di Hispaniola (l’attuale Santo
Domingo) al seguito del governatore Nicolás de Ovando. A partire dal 1505 mi fu
assegnato in encomienda un certo numero di indios che lavoravano per me
nelle miniere e nelle terre, facendo prosperare i miei affari.

Parli di «encomienda»: per noi del
XXI secolo è un termine non facile da capire fino in fondo. Di che cosa si
trattava?

L’encomienda
coloniale, che in italiano si può tradurre con «incarico», consisteva
nell’affidare a degli encomenderos, cioè a noi spagnoli, determinati
territori abitati da un gruppo di indigeni con lo scopo di rendere fruttuosa la
terra con le nuove tecniche agricole. Gli indigeni dovevano quindi lavorare
(gratis) per noi che avevamo l’obbligo di colonizzarli e cristianizzarli. L’encomienda
fu quindi una geniale istituzione che permise alla Corona di Spagna di
consolidare la colonizzazione dei nuovi territori, attraverso l’assoggettamento
fisico, morale e religioso delle popolazioni precolombiane.

Quindi il tuo andare nelle terre
appena scoperte non era legato a motivi prettamente religiosi come portare alla
fede gli indigeni e diffondere il Vangelo?

Niente
affatto. Partii per le Americhe con l’idea di far fortuna e rimpinguare il
patrimonio di famiglia, assottigliatosi per una serie di disavventure
familiari.

Cosa cambiò la tua visione di vita
dopo aver preso conoscienza della nuova realtà?

Durante
una messa celebrata sull’isola di Hispaniola nel dicembre 1511, il frate
domenicano Antonio Montesinos pronunciò un vibrante sermone in difesa della
vita e dei diritti degli indios. La sua omelia era il risultato della
riflessione e dell’impegno di una piccola comunità domenicana, presente da poco
tempo sull’isola; una comunità che si era lasciata interrogare dalla realtà
drammatica in cui viveva e che aveva trovato il coraggio di denunciare il
comportamento dei conquistadores. Ne rimasi affascinato e colpito!

Fu lì che ebbe inizio la tua
conversione?

Direi
proprio di sì! Anzi, dirò di più: il sermone di fra’ Montesinos, in quella
terra appena conquistata dagli spagnoli, ha avviato un processo importante che
ha attraversato i secoli. Da quel giorno nell’Ordine Domenicano è nata una
riflessione in cui la figura dell’indigeno veniva vista in maniera diversa, un
cambio di prospettiva che con il tempo creò addirittura le basi della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Che effetto fecero su di te quelle
parole?

Presi
coscienza che non potevo sfruttare gli indigeni, gente che fino a pochi anni
prima viveva libera sulla propria terra e che solo alcuni decenni dopo era
assoggettata al volere dei nuovi arrivati. Vedevo sempre più deperire gli
indigeni, ammalarsi e, quello che è peggio, perdere qualsiasi prospettiva per
il futuro con un minimo di speranza per la vita loro e per i loro figli. Toai
in Europa, entrai nell’Ordine dei Domenicani, dove nel 1507 venni ordinato
sacerdote di Cristo.

Però in Europa non sei rimasto a
lungo.

Dopo
alcuni anni ritornai nelle Americhe; in quel periodo viaggiai molto: Guatemala,
Nicaragua, Cuba, Santo Domingo, Puertorico, Messico, mettendomi al servizio dei
nativi e allo stesso tempo cercando di convincere i nuovi arrivati a trattare
questi esseri umani nello stesso modo in cui trattavano i loro simili. Ma il
mio modo di fare e quello dei miei confratelli cozzava contro la sete di
conquista e di potere che avevano gli avventurieri, approdati nel nuovo mondo
al solo scopo di far fortuna e arricchirsi.

Di fronte all’insensibilità dei
tuoi compatrioti quale linea di azione hai seguito?

Nell’ottobre
1515, insieme a fra’ Antonio de Montesinos, decidemmo di ritornare in Spagna
per informare la Corona sulle ingiustizie commesse contro gli indigeni e sulle
sofferenze che essi pativano.

Foste ricevuti dal re?

Certamente.
Lo ponemmo al corrente di quello che succedeva nelle sue colonie nel nuovo
mondo. Impressionato da quanto gli esponevamo, ci fissò una seconda udienza,
purtroppo il re morì qualche mese dopo. Tutto rischiava di finire in una bolla
di sapone.

Come vi siete comportati allora?

Decidemmo
di andare nelle Fiandre per parlare col principe Carlo, diventato l’imperatore
Carlo V. Prima però incontrammo a Madrid i cardinali Francisco Jiménez de
Cisneros e Adriaan Florenszoon Boeyens, il futuro papa Adriano VI, e li
mettemmo al corrente sulla realtà creatasi nelle colonie. L’imperatore emanò
uno scritto in cui ordinava di applicare agli indigeni gli stessi atteggiamenti
riservati agli spagnoli. Il cardinal Cisneros mi nominò addirittura «protettore
degli indios» e inviò una delegazione per verificare la situazione. Dopo tali
delibere tornai in America.

E che trovasti al tuo ritorno?

Purtroppo
la delegazione, venuta a controllare le condizioni degli indigeni, si lasciò
abbindolare dai conquistadores e ne assunsero le posizioni: giudicarono
gli indigeni persone di poco conto, da trattare poco meglio degli animali.
Indignato, tornai in Spagna per informare l’imperatore di come gli spagnoli
trattavano i nativi. Purtroppo anche in Spagna stava attecchendo l’idea assurda
che gli indigeni fossero esseri inferiori agli uomini bianchi.

Non ci posso credere!

Figurati,
che un intellettuale del tempo, tale Juan Gines de Sepúlveda, sosteneva
l’inferiorità degli indios e la necessità di sottometterli per evangelizzarli.
Egli definiva i nativi americani non come uomini ma come «humuncoli»,
cioè esseri di razza inferiore. Tuttavia, i pensatori domenicani in Europa e
nelle Americhe, l’Università di Salamanca non erano d’accordo e sostenevano che
i nativi americani fossero uomini come noi, con tutti i nostri stessi diritti.

Di fronte a tali idee, che
rischiavano di compromettere tutto il lavoro che portavate avanti, non
rimanesti con le mani in mano.

Carlo
V volle che la controversia fosse discussa a livello accademico tra Sepúlveda e
il sottoscritto. Io sostenevo che gli indios americani fossero uguali a noi,
mentre Sepúlveda sosteneva che essi non avevano la stessa dignità degli
europei. La disputa si tenne a Valladolid e durò diversi mesi senza esclusione
di colpi da una parte e dall’altra, ma alla fine la spuntai e quella che era la
dottrina tradizionale della Chiesa, del pieno rispetto e piena dignità di ogni
uomo, schiavo, pagano o cristiano che fosse, alla fine trionfò. Le idee di Sepúlveda
vennero condannate e gli scritti proibiti; ma il confronto ebbe il merito di
sollevare il problema dell’evangelizzazione dei nuovi popoli.

Qual era il punto più spinoso con
cui bisognava fare i conti?

Il
punto più controverso era quello di stabilire se era giusto usare la forza per
evangelizzare i nativi oppure – come sostenevo io – se bisognava rispettare la
loro coscienza e procedere nell’annuncio del Vangelo nel pieno rispetto della
dignità della persona.

Il tuo compito era concluso in
terra di Spagna?

Direi
di sì. La Corona promulgò degli editti in cui era fatto divieto ai conquistadores
di maltrattare e obbligare gli indios ai loro voleri. Purtroppo tali leggi
furono largamente disattese! E il prezzo di questa miopia la pagate ancora
oggi.

Le tue mosse successive quali
furono?

Con
questa vittoria, teologica per un verso e morale per un altro, feci ritorno nel
Nuovo Mondo, dopo essere stato consacrato vescovo, con ben quaranta missionari,
anche loro decisi a procedere con l’evangelizzazione nel rispetto più totale
delle persone.

Come ti accolsero al tuo ritorno?

Gli
spagnoli, in virtù dell’opera di convincimento a favore degli indigeni che
avevo fatto presso la Corona, mi ricevettero con freddezza e ostilità. Il
governatore non fu molto tenero nei miei confronti: fedele al principio «promoveatur
ut amoveatur
», mi assegnò una diocesi nel territorio di Ciudad Real, in una
zona del sud-est messicano, denominata Chiapas (oggi San Cristóbal de Las
Casas).

E come operasti nella nuova sede
in Chiapas?

Come
vescovo mi adoperai subito per visitare tutti i villaggi e feci in modo che i
nativi della zona fossero trattati con umanità e rispetto. Nei sinodi che si
tenevano in quel tempo cercai di portare avanti ciò che mi stava più a cuore:
il rispetto verso quelle creature il cui destino era stato particolarmente
ingrato.

Sei rimasto in America fino alla
fine dei tuoi giorni?

Dopo
alcuni decenni di apostolato in terra messicana, ammalato, vecchio e stanco, ma
con l’indomabile ardore di sempre, feci ritorno in Spagna dove completai la
scrittura di diverse opere, sempre in difesa degli indios, la più famosa delle
quali è: Brevissimo rapporto sulla distruzione delle Indie. E in Spagna
conclusi la mia vita terrena, conservando fino all’ultimo nel cuore l’affetto e
il rispetto sconfinato per i miei indios americani.

Don Mario Bandera
Direttore Missio Novara

Mario bandera




America, il continente aperto

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 08
Continente che ospita 948 milioni di persone, l’America è l’area
geografica che fa registrare i livelli più bassi di restrizioni governative e
di ostilità sociali riguardanti la religione. Ma, come il resto del mondo,
anch’essa vede un aumento di pressione sulla libertà religiosa. Tra gli esempi
più significativi di tale aumento c’è quello degli Usa, ma anche del Messico,
di Cuba e della Colombia.

Era il 6 agosto scorso quando
l’ennesima notizia di una strage avvenuta negli Usa per mano di un «folle»
girava il mondo: sette persone morte, tra cui lo stragista, tre ferite
gravemente, decine sotto shock. Quell’episodio ne seguiva di simili, avvenuti
nelle settimane anteriori, e ne precedeva altri che avrebbero riacceso il
dibattito statunitense sulla vendita di armi. Esso però aveva una sua
peculiarità: nell’assalto il killer aveva preso di mira un tempio sikh.
«È importante notare che questo è solo uno di un numero crescente di episodi di
violenza che i sikh hanno sperimentato negli ultimi anni», dichiarava alcuni
giorni dopo il direttore esecutivo della «Sikh coalition» Sapreet Kaur. «L’assassino
sarebbe un ex militare congedato dall’esercito nel 1998, per cattiva condotta
[…] – si affrettava a informare tra gli altri Radio Vaticana -. I sikh, noti
per la barba lunga e il turbante (stimati tra i 78mila e i 500mila negli Usa,
ndr.), sono scambiati spesso per musulmani e fatti oggetto di attacchi dopo
l’11 settembre 2001». La strage quindi aveva sullo sfondo, tra i moventi, un
problema di odio religioso. Secondo i rilievi dell’Fbi sulla criminalità,
citati dal rapporto 2011 del Pew Forum, gli Usa hanno avuto più di 1.300
crimini d’odio religioso nel 2009. La maggior parte dei quali anti-ebraici (931
dei 1.303 reati, il 71%; mentre l’8% era motivato da pregiudizi anti-islamici).

Gli Stati Uniti sono uno dei 16 paesi del mondo che hanno fatto
registrare un significativo incremento di entrambi gli indici (Restrizioni
Goveative e Ostilità Sociali) durante l’anno preso in esame dal Rising
tide of restrictions on religion
, l’ultimo studio del Pew Forum
sulla libertà di religione nel mondo con dati riguardanti il 2010. Durante
quell’anno c’è stato un «aumento del numero di incidenti a livello statale e
locale nei quali membri di diverse religioni hanno incontrato restrizioni nella
capacità di praticare la loro fede». Ad esempio «incidenti nei quali agli
individui è stato impedito d’indossare un certo abbigliamento o di portare
simboli religiosi, compresa la barba, in prigioni, penitenziari e altre
strutture correzionali». Alcuni gruppi religiosi hanno incontrato anche grandi
difficoltà nell’ottenere permessi per la costruzione o per l’ampliamento di
luoghi di culto.

Per quanto riguarda l’aumento di ostilità sociale, il Pew Forum
individua tra le sue cause «un picco di attacchi terroristici di matrice
religiosa» nell’anno preso in esame. «L’incremento di ostilità sociali negli
Stati Uniti si riflette anche nell’aumento del numero di denunce di
discriminazione sul posto di lavoro».

Il continente con minori limitazioni

L’America è l’unico continente in cui il livello più alto di restrizioni governative e di ostilità
sociali non viene registrato in nessuno dei paesi che lo compongono. In media
il grado di Gri è basso (1,1). Il solo paese ad everlo alto è Cuba; mentre
altri otto ce l’hanno moderato (si veda tabella). L’America è anche
l’unico continente a non aver fatto registrare un aumento di ostilità sociali,
il cui livello in media rimane molto basso (0,4): il solo paese ad averlo alto è
il Messico; mentre altri cinque paesi fanno registrare un livello moderato (si
veda tabella
).

Spiccano quindi nel continente americano Cuba e Messico, i due
paesi toccati lo scorso anno dalla visita pastorale di Benedetto XVI. E assieme
a essi, Usa e Colombia, per avere un livello moderato in ambedue gli indici.
Tutti gli altri paesi del continente hanno i due indici a un grado mediamente
basso, o al più uno solo dei due a livello moderato.

MESSICO

Il Messico è il secondo paese al mondo, dopo il Brasile, con più
alto numero di cattolici: circa 96,3 milioni, l’84,9% della sua popolazione (i
protestanti sono l’8,3%, gli altri cristiani l’1,7%, i non affiliati ad alcun
credo il 4,7%, i membri di altre religioni lo 0,3%); e il paese americano con
minore libertà religiosa a causa del livello alto di ostilità sociali e del
livello moderato di restrizioni governative.

«La Costituzione messicana e le altre leggi e politiche
generalmente proteggono la libertà religiosa – ci informa l’Inteational
Freedom Report for 2011
-, ma ci sono alcune limitazioni a livello statale
o locale. […] Alcuni capi e autorità delle comunità locali, in particolare
nel Sud, utilizzano la religione come pretesto per conflitti legati a
controversie politiche, etniche, o relative alla terra. […] Funzionari del
governo federale e locale, spesso non puniscono i responsabili di atti di
intolleranza religiosa».

Mentre a livello istituzionale nel 2011 non si sono registrati
cambiamenti, né in positivo, né in negativo (e nel 2012 una riforma
costituzionale che ha inserito un riferimento esplicito alla libertà religiosa è
stata vista con entusiasmo da alcuni e con criticismo da altri osservatori
della libertà religiosa), a livello sociale invece ci sono state numerose
segnalazioni di abusi e discriminazioni. Mormoni, membri delle comunità
ebraiche e buddiste affermano di non trovare particolari ostacoli alla pratica
della loro religione, mentre – afferma sempre l’Inteational Freedom Report
for 2011
– invece diversi gruppi evangelici sostengono di subire frequenti
molestie. Soprattutto nelle regioni centrali e meridionali essi lamentano
l’espulsione dai loro villaggi, la perdita dei diritti di comunità e del
possesso di beni personali, percosse, minacce di morte, l’incendio delle loro
chiese e case.

CUBA

Cuba, che registra un alto livello di restrizioni governative ma
uno basso di ostilità sociali, conta 5,82 milioni di cattolici, il 51,7% della
popolazione (i protestanti sono il 5,6%, gli ortodossi lo 0,4%, gli altri
cristiani l’1,5%, i non affiliati a nessun credo il 23%, i seguaci di religioni
tradizionali il 17,4%, gli hindu lo 0,2%, e i membri di altre religioni lo
0,2%). Dopo l’apertura registrata nel corso del 2011 che aveva indotto il
Dipartimento di Stato Usa a sottolineare nel suo rapporto annuale il
miglioramento del governo cubano nel rispetto per la libertà religiosa, «anche
se restrizioni significative sono rimaste inalterate, e il Partito Comunista di
Cuba, attraverso il suo Ufficio degli affari religiosi, ha continuato a
esercitare il controllo regolamentare su molti aspetti della vita religiosa»,
le notizie che arrivano dall’isola caraibica tra fine 2012 e inizio 2013 fanno
temere una nuova ondata di restrizioni.

«Drammatico aumento di violazioni della libertà religiosa nel 2012»
intitolava un suo comunicato stampa l’organizzazione Christian Solidarity
Worldwide
a inizio 2013: «Mentre la Chiesa Cattolica riporta il maggior
numero di violazioni, per lo più riguardanti l’arresto e la detenzione
arbitraria di parrocchiani che tentano di frequentare le attività della chiesa,
anche altre denominazioni e gruppi religiosi sono stati colpiti. Chiese
battiste, metodiste e pentecostali in diverse parti del paese hanno riportato
molestie costanti e pressioni da parte di agenti di sicurezza dello stato.
Inoltre, i funzionari del governo hanno continuato a rifiutare la registrazione
di alcuni gruppi, tra cui la rete protestante del “Movimento
Apostolico”, minacciando chiusure di chiese, e chiudendo un luogo di culto
mormone […]. Uno dei casi più gravi ha riguardato il violento pestaggio di un
pastore pentecostale [che] ha subito danni permanenti al cervello. Il pestaggio
sembra essere stato orchestrato da funzionari locali del Partito comunista. A
oggi nessuna indagine a riguardo è stata effettuata».

COLOMBIA

Tra i primi 50 paesi della World Watch List, la classifica
compilata dall’organizzazione cattolica Open Doors dei paesi in cui
maggiormente vengono perseguitati i cristiani, la Colombia è l’unico del
continente americano a essere presente, figurando al 46° posto: «La Colombia –
in cui i cristiani sono il 92,5% della popolazione (cattolici 82,3%,
protestanti 10%, altri cristiani 0,1%), i non affiliati il 6,6%, e i seguaci di
religioni tradizionali lo 0,8% – […] formalmente è una modea democrazia
dove la supremazia della legge è consolidata e la libertà religiosa garantita.
Tuttavia ampie zone del paese sono sotto il controllo di organizzazioni
criminali, cartelli della droga, rivoluzionari e gruppi paramilitari – scrive Porte
Aperte
nel suo profilo del paese -. Le ricerche di Open Doors hanno
evidenziato che le organizzazioni criminali prendono di mira in particolar modo
i cristiani […]. Il crimine organizzato percepisce come una minaccia quei
cristiani che si oppongono apertamente alle loro attività, soprattutto quando
essi sono attivi in politica o in programmi sociali. […] Teme che i cristiani
inducano i membri della comunità locale o persino gli aderenti alle sue
organizzazioni a opporsi alle loro attività criminali. Nel suo rapporto 2010
l’Ong cristiana Justapaz ha riportato 95 minacce di morte o tentati
omicidi, 71 sgombri forzati, 17 omicidi, 2 sparizioni e molti casi di
sequestri, torture, pestaggi e reclutamento forzato […]».

Il 5 febbraio l’Agenzia Fides annunciava il terzo omicidio
di un prete cattolico in Colombia dall’inizio dell’anno: «Secondo l’elenco
realizzato annualmente dall’Agenzia Fides, nel 2012, per la quarta volta
consecutiva, l’America ha registrato il numero più alto di operatori pastorali
uccisi rispetto agli altri continenti. In Colombia nel 2012 è stato ucciso un
sacerdote; nel 2011 sono stati uccisi 6 sacerdoti e 1 laico; nel 2010 […] 3
sacerdoti e un religioso; nel 2009 […] 5 sacerdoti ed 1 laico».

Una sintesi continentale

La sintesi continentale del rapporto Acs (Aiuto alla Chiesa che
Soffre) 2012 sulla libertà di religione offre una panoramica frastagliata: se
in generale la situazione della libertà religiosa nel continente non è grave,
si notano passi avanti di alcuni paesi controbilanciati da passi indietro. «Se
in Argentina il 25 novembre è stato proclamato “Giornata Nazionale della Libertà
Religiosa”, in Bolivia – dove la Costituzione del 2009 riconosce la libertà di
religione – si sono verificate tensioni tra il presidente Morales e la Chiesa
cattolica» che ha denunciato la tendenza del governo «a utilizzare l’esperienza
religiosa dei nostri popoli per creare riti paralleli ai sacramenti cristiani
cattolici o ad altre espressioni popolari della fede». Rapporti Stato-Chiesa
tesi anche in Venezuela. Mentre sembra non essere legata a motivi religiosi «l’uccisione
del sacerdote cattolico don Romeu Drago, avvenuta il 19 febbraio 2011 in
Brasile, dove la Costituzione tutela pienamente la libertà religiosa […]. In
Cile si notano dei positivi passi avanti, come le informative ministeriali
sull’assistenza religiosa nei luoghi di cura e nei penitenziari, e sul rispetto
dell’uguaglianza dei culti all’interno delle aule scolastiche. Avviate,
inoltre, iniziative legislative per riconoscere i giorni sacri ai musulmani e
ai Bahá’í».

«Atti di vandalismo e violenza contro edifici religiosi, immagini
sacre e sacerdoti sono stati compiuti in Nicaragua», unico paese americano ad
aver registrato un aumento delle ostilità sociali molto significativo. «Preoccupano
in Ecuador alcune proposte di legge orientate alla limitazione della libertà
religiosa (garantita a livello costituzionale). Tra questi un progetto di legge
circolato informalmente nell’agosto del 2011 che prevedeva anche la chiusura
delle scuole confessionali e proibiva ai sacerdoti di indossare l’abito al di
fuori dei luoghi di culto». Contesto positivo invece in Paraguay, in Perù,
nella Repubblica Dominicana e in Uruguay.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


Per andare al secondo articolo su Rendete a Cesare:

Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? Rendete a Cesare (2)


(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

«Non abbiamo altro re che Cesare …Non avrai altri dèi di fronte a me» (Gv 19,15; Es 20,3)

 

800x600

800x600

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE MicrosoftInteetExplorer4 /* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:"Tabella normale";
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-priority:99;
mso-style-parent:"";
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
}
Premessa

Con MC di gennaio-febbraio 2013 abbiamo concluso il commento del racconto dello sposalizio di Cana, riportato nel vangelo di Giovanni al capitolo 2. In totale appena undici versetti che ci hanno impegnato per quattro anni, avendo iniziato nel febbraio 2009. È la prova che una vita sola non basta per leggere in profondità tutta la Bibbia o anche una parte di essa. Se fossimo solo riusciti a suscitare un po’ più di rispetto per la Parola di Dio, il nostro obiettivo, come autore e come rivista, è stato raggiunto. Di fronte ad ogni singola parola di Dio dobbiamo avere un sentimento di «ascolto» interiore perché essa non si esaurisce nel significato immediato, ma esige di scendere in profondità perché Dio è inesauribile. Se poi fossimo anche riusciti a suscitare un atteggiamento di rispetto che ci impedisce di «improvvisare», allora siamo proprio contenti e pensiamo di avere reso un servizio a noi e alla Chiesa. Il nemico più pericoloso della Scrittura è l’improvvisazione e il pressapochismo.
Ora cominciamo un nuovo ciclo. Per la verità avevo pensato anche di sospendere per un po’ questo servizio, per me molto impegnativo sotto ogni punto di vista (e anche costoso per l’aggiogamento); ne ho parlato anche con qualche amico che legge MC. Per poco non mi scomunicava, dicendomi che parlava anche a nome di altri. Ho ricevuto, infatti, segnali e suggerimenti dai nostri lettori per continuare. Li ringrazio tutti per le loro parole affettuose e riconoscenti. Mi ritengo un servo della Parola e nulla di più. Ho riflettuto molto, prima di prendere una decisione, e ora sono in grado di comunicare il mio progetto ai lettori di MC che pur non conoscendo, sono parte di me e del mio popolo con cui condivido l’Eucaristia e la ricerca di Dio.
Con la prossima primavera, dopo Pasqua, verso la fine di aprile, inizierò nella mia parrocchia di Genova una «Scuola di Sacra Scrittura», un Corso biblico organico e al contempo elementare, partendo dal presupposto che non conosciamo la Bibbia. Noi cattolici siamo soliti «sentire» la Parola di Dio quasi esclusivamente nella Liturgia, quindi in forma discontinua, ma poco sappiamo del «libro» in sé, la sua storia, il travaglio della sua formazione, i tempi della sua scrittura, dopo la sedimentazione della trasmissione orale. Molti dicono che si sono cimentati nella lettura della Bibbia, ma poi si sono dovuti arrendere perché «non ci capisco niente». È ovvio che ciò accada perché ai cattolici manca la conoscenza delle chiavi di lettura, gli strumenti storici, letterari e religiosi per capie la mentalità, il contesto storico, l’ambiente geografico e le circostanze delle varie fasi. Non possiamo leggere la Scrittura con la nostra mentalità occidentale perché è un libro, sintesi di una grande esperienza, nato in oriente e sviluppatosi in una cultura diversa dalla nostra, con linguaggi diversi dai nostri e con strumenti che bisogna conoscere. Diceva Pio XI ai seminaristi del Seminario Lombardo, già negli anni ’20 che «spiritualmente noi siamo semiti» ed è pertanto necessario acquisire una mentalità semitica, se vogliamo cogliere il senso proprio della Scrittura e dei suoi singoli libri.
Alla luce di questa premessa, sollecitato, pressato e minacciato dalla mia comunità, ho deciso di mettermi all’opera, iniziando un percorso che non so quando finirà, ma spero di riuscire ad offrire almeno gli strumenti necessari perché ciascuno possa cominciare a leggere e a pregare la Bibbia come il libro-codice della fede. Dopo una introduzione sulla composizione della Bibbia e la sua divisione, il corso prevede la lettura esegetica, centellinata, cioè approfondita dei primi 11 capitoli della Genesi, la storia dei Patriarchi nomadi da Abramo a Giacobbe, la grande epopea dell’esodo, che è l’atto fondativo di Israele come popolo, i profeti, l’esilio, la letteratura sapienziale, la preghiera sedimentata nei Salmi per giungere al dominio romano e diaspora d’Israele. In un secondo momento si passerà al Nuovo Testamento. Tutto questo esige preparazione, studio e tempo, molto tempo.
Poiché le richieste di partecipazione sono oltre ogni aspettativa, ho deciso che scriverò tutto il corso per poterlo pubblicare in un secondo momento. Per non privare i lettori di MC di questa opportunità, ho pensato che dal mese di giugno questa rubrica potrebbe ospitare il corso a puntate. Nel frattempo, per i mesi da marzo a maggio 2013, offro ai nostri lettori una lettura esegetica di un passo controverso del vangelo che spesso, anche dai vescovi, sento usare in modo maldestro e fuorviante, segno che nella Chiesa c’è bisogno non di catechismo, ma di «scuola della Parola», fatta in modo sistematico, continuo e progressivo. Spero di non essere andato fuori tema e mi auguro che i lettori di MC possano gradire questa proposta che ci impegnerà a lungo, finché il Signore ci darà la forza e la grazia di poterla realizzare. Passiamo quindi all’esegesi del testo sinottico: «Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio» (Lc 20,25).

Rendete a Cesare … rendete a Dio»

(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

Per comprendere il brano del vangelo è necessario capirne la portata, altrimenti lo si usa a sproposito, come comunemente fanno tutti, anche vescovi e cardinali, dimostrando così una strutturale «ignoranza delle Scritture» e fomentando interpretazioni che col vangelo non hanno nulla a che fare. San Girolamo già nel sec IV ci metteva in guardia: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est – L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (S. Girolamo, Commento al profeta Isaia, Prologo; citato nella Dei Verbum 25). Il testo del versetto appartiene alla triplice tradizione sinottica (in Gv è assente), segno di una tradizione attestata a cui la comunità primitiva ha attribuito molta importanza: il testo si trova in Mt 22,15; Mac 12,21 e Lc 20,17. Di solito quando si cita questo versetto lo si applica senza alcuna mediazione alla separazione tra Stato e Chiesa: CesareDio come due dirimpettai antagonisti, stabilendo una forma di idolatria perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. In questo modo si fa «eis-egesi», si mette cioè dentro il testo la nostra comprensione (o se si vuole la nostra ideologia contemporanea, che però è estranea alla Scrittura) e non «es-egesi» che invece è la scienza che estrae dal testo il senso genuino nel rispetto della «mens» dell’Autore. Proviamo a lasciarci guidare dal testo nel suo contesto per capire che cosa i sinottici (Mc, Mt e Lc) vogliono dire con l’espressione citata. Leggiamo il testo

Il testo

Da un punto di vista critico le varianti testuali, abbastanza notevoli (segno di un percorso travagliato) specialmente in Mc e Lc non sono decisive per quanto concerne il contenuto perché riguardano prevalentemente la forma. In più il versetto decisivo, cioè la risposta di Gesù, è riportato dai tre sinottici in modo uniforme con piccole varianti di tipo stilistico. Nella nostra riflessione ci facciamo guidare dal testo di Lc che meglio esprime il contesto di complotto e di tensione. Leggiamo però in forma di sinossi i tre testi, avendo presente quando si parla di «erodiani» ci si riferisce al partito di cortigiani e sostenitori di Erode, favorevoli ai Romani; e il «denaro» che Gesù chiede di vedere è il denaro d’argento di Tiberio che recava l’immagine dell’imperatore, il quale in questo modo affermava la propria autorità su chiunque avesse avuto in mano la sua moneta.

Mc 12,(12).13-17
Mt 22,15-22
Lc 20,19-26
12E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva
detto quella parabola contro di loro [contadini omicidi: cf Mc 12,1-12]. Lo lasciarono e se ne andarono.
15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 19In quel momento gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo. Avevano capito infatti che quella parabola l’aveva detta per loro.
13Mandarono da lui alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, 20Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore.
14Vennero e gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”. a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero
e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”.
21Costoro lo
interrogarono: “Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non
guardi in faccia a nessuno, ma insegni qual è la via di Dio secondo verità. 22È
lecito, o no, che noi paghiamo la tassa a Cesare?”.
15Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: “Perché volete mettermi alla prova?
Portatemi un denaro: voglio vederlo”. 16Ed essi glielo portarono.
18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. 23Rendendosi conto della loro malizia, disse: 24“Mostratemi un denaro:
Allora disse loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. 20Egli domandò loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”.
di chi porta l’immagine e l’iscrizione?”.
Gli risposero: “Di Cesare”.
21Gli risposero: “Di Cesare”.
Risposero: “Di Cesare”.
17Gesù disse loro: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. 25Ed egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”.
E rimasero ammirati di lui.
22A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono. 26Così non riuscirono a coglierlo in fallo nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.

–      Il testo di Mc 12,17 che sta alla base degli altri due (cf Mt 22,21 e Lc 20,25) tradotto alla lettera, è il seguente: «16Di chi è l’immagine (eikôn) e l’iscrizione? Ed essi risposero: “Di Cesare”. 17Gesù, quindi, disse loro: “Le cose [che sono] di Cesare restituite a Cesare, «e»  le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

–      Luca a differenza di Mc aggiunge: «E disse quindi [Gesù] a loro: “Pertanto dunque/di conseguenza ri-date/restituite le cose [che sono] di Cesare a Cesare «e» le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

Si capisce subito che la questione è solo una trappola perché qualunque risposta Gesù possa dare, lo metterebbe a mal partito: in caso di risposta affermativa, Gesù sarebbe stato additato al popolo come fautore dell’imperatore pagano; in caso di risposta negativa, poteva essere accusato presso l’autorità romana come sobillatore antigovernativo.

Osservazione morfologica: tra la prima parte e la seconda troviamo la congiunzione coordinante copulativa «kài – e» che qui ha valore fortemente «avversativo» perché Gesù intende riportare i suoi ascoltatori davanti alla loro responsabilità di avere messo sullo stesso piano «Dio» e «Cesare», cadendo così nell’apostasia. La congiunzione quindi non ha valore coordinante, ma oppositivo: non quindi «a Cesare quello che è di Cesare e (= allo stesso modo, contemporaneamente) a Dio quello che è Dio», ma «a Cesare quello che è di Cesare e (= ma al contrario, ritornate a restituire a Dio quello che è Dio», segno che i Giudei avevano confuso Cesare e Dio. Tutta la questione, come vedremo, riguarda non il potere, ma «l’immagine», cioè la propria identità in relazione al Creatore.

Una questione antica

Per capire il brano del vangelo bisogna andare indietro, ad uno scritto del sec. VII a. C. che a sua volta descrive con ogni probabilità eventi avvenuti nel sec. XIII a. C. di cui però è difficile se non impossibile stabilire la cronologia. Il testo appartiene al ciclo dei «Giudici di Israele», qui l’ultimo di essi, Samuele, a cui la tradizione biblica attribuisce due libri, il 1 e 2 Samuele che nella Bibbia ebraica corrispondo al 1 e 2 libro dei Re.

 «1Quando Samuele fu vecchio, stabilì giudici d’Israele i suoi figli. 2Il primogenito si chiamava Gioele, il secondogenito Abia; erano giudici a Bersabea. 3I figli di lui però non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto. 4Si radunarono allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. 5Gli dissero: “Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli”. 6Agli occhi di Samuele la proposta dispiacque, perché avevano detto: “Dacci un re che sia nostro giudice”. Perciò Samuele pregò il Signore. 7Il Signore disse a Samuele: “Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro”» (1Sam 8,8).

La richiesta di un re su Israele è illegittima perché il popolo scelto da Dio per la sua epopea di salvezza dovrebbe essere solo Yhwh, il Dio liberatore e creatore (cf 1Cr 16,31; Sal 93/92,1; 96/95,10; 97/96,1; 99/98,1Gv 12,13). Da questo momento comincia un tempo burrascoso per Israele e la monarchia non attecchirà mai, ma sopravvivrà solo per un paio di secoli e sarà causa di distruzione, di morte e di afflizione per tutto il popolo. Non bisogna perdere di vista questo testo quando leggiamo il racconto dello scontro tra i capi dei sacerdoti e Gesù perché di questo si tratta: stabilire chi è il re d’Israele, anzi chi è il Dio dei capi dei sacerdoti e degli scribi.

Il popolo esige un re come giudice «come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). Il popolo sa che il re lo dissanguerà, che ruberà i loro figli e li manderà in guerra, che rapirà le loro figlie per farne schiave nel suo harem, che farà solo gli interessi di sé, della sua famiglia e di coloro che lo adulano, eppure il popolo vuole un re per essere governato da un aguzzino, avverando la Parola di Dio detta per mezzo di Samuele:

«10Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. 11Disse: “Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, 12li farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. 13Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. 14Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. 15Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. 16Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. 17Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi. 18Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”. 19Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele e disse: “No! Ci sia un re su di noi. 20Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie”» (1Sam 8,10-20).

Gli anziani d’Israele chiedono al profeta un re «come avviene per tutti i popoli» e Dio li accontenta, consapevole che hanno rifiutato lui, loro liberatore e creatore. La storia di ripete, perché i loro discendenti, faranno lo stesso aggravando la situazione. Non più davanti ad un profeta, ma davanti al procuratore romano, rappresentante dell’imperatore pagano che occupa la terra santa d’Israele, essi proclamano ufficialmente di non avere altro Dio che Cesare e quindi consegnano la loro fedeltà ad un re usurpatore in sostituzione di Dio. [Continua – 1]

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE MicrosoftInteetExplorer4 /* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:"Tabella normale";
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-priority:99;
mso-style-parent:"";
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
}

Paolo Farinella