Quando l’islamofobia è buddhista

Riflessioni e fatti sulla libertà
religiosa nel mondo – 11
In Myanmar si registrano centinaia di musulmani uccisi e decine
di migliaia sfollati. Recenti episodi di vessazioni anti islam si sono
verificati in Sri Lanka. Anche la voce autorevole del Dalai Lama si è alzata
per condannare le violenze e implorare i monaci buddhisti dei due paesi, benché
non appartenenti al buddhismo tibetano: «Uccidere le persone in nome della
religione è davvero molto triste, impensabile». E il rischio di una reazione uguale e opposta in
altri paesi a maggioranza islamica cresce.

Da un anno, la violenza ha
sostituito un difficile «status quo» nei rapporti tra maggioranza buddhista e
minoranza musulmana in Myanmar. Prima ha colpito i Rohingya, minoranza etnica
che abita prevalentemente nello stato Rakhine, al confine con il Bangladesh, a
cui il governo birmano non riconosce alcuna cittadinanza, e poi le sparse ma
attive comunità islamiche di antica presenza e di piena cittadinanza. I
Rohingya, circa 800mila in Myanmar e 300mila nei campi profughi in Bangladesh,
rappresentano una delle tante «questioni» irrisolte di un paese sottoposto fino
a due anni fa a un regime militare autoreferenziale e intransigente che pare
oggi avviato verso una concreta apertura alle istanze di libertà, benessere e
diritti. I musulmani locali, in parte arrivati in Myanmar con l’esperienza
coloniale britannica, in parte convertiti dal buddhismo nei secoli scorsi, sono
oggetto di una campagna di odio che fa leva sull’islamofobia ma anche sulla
rivalità economica tra le comunità.

In modo inatteso – e nel sorprendente silenzio dei personaggi e
movimenti che stanno guidando la nazione fuori da una delle più gravi
repressioni della storia modea – la nuova realtà politica e istituzionale del
paese ha portato immediatamente in superficie tensioni latenti, ma anche un impensato
nazionalismo e la xenofobia di una parte della comunità buddhista e della
stessa leadership monastica.

Anche in Sri Lanka

Dalla parte opposta del golfo del Bengala, una situazione meno
radicale ma simile nei presupposti sta interessando lo Sri Lanka. Qui, la fine
della guerra civile nel maggio 2009, con la sconfitta della guerriglia espressa
dalla minoranza tamil, ha di fatto costretto al silenzio le voci di dialogo. Il
governo e il presidente Mahinda Rajapakse hanno, senza ormai ostacoli, perseguito
la politica del pieno potere dei singalesi buddhisti, non solo rifiutando gli
interventi estei volti ad accertare, ad esempio, gli abusi compiuti dalle
forze governative su ribelli e civili Tamil, ma anche stringendo la morsa della
censura e della «sicurezza pubblica», e allentando il controllo sul
nazionalismo estremista, il quale ha nell’identità religiosa il suo caposaldo.
Atti di intimidazione e violenze vere e proprie sono stati commessi negli
ultimi mesi soprattutto contro la consistente comunità islamica dell’isola (il
10% su 20 milioni di abitanti), ma non solo.

Buddhismo nonviolento?

Colpisce che nei due casi birmano e singalese sembri mancare un
elemento «scatenante», come sarebbe potuta essere l’infiltrazione nelle comunità
musulmane di membri militanti. Stupisce anche la partecipazione di esponenti
religiosi buddhisti, in molti casi addirittura direttamente coinvolti nelle
violenze.

Da qui nascono domande legittime sulla validità della tradizionale
opinione – diffusa soprattutto in Occidente – per cui la pratica della dottrina
buddhista, nelle sue varie forme storiche, sarebbe di per sé pacifista.

A maggior ragione impressiona l’emergere di un movimento violento
in paesi dove il buddhismo giocò in passato un ruolo essenziale nel processo
indipendentista anti britannico. E se per lo Sri Lanka si può sostenere che la
leadership
religiosa è stata imbavagliata e, soprattutto, tenuta
strettamente legata alle esigenze del potere politico e dei militari, in
Myanmar invece il clero buddhista ha cercato di essere attivo agente di
cambiamento e di democrazia, anche pagando duramente per le sue convinzioni, e
sempre mantenendo un atteggiamento nonviolento.

Vero è che l’identità nazionale in entrambi i paesi è strettamente
legata al buddhismo, e che questo ha spesso messo le minoranze, nella storia
post indipendenza, in condizioni difficili.

Gli eventi violenti degli ultimi tempi, tra l’altro, rischiano di
avere ripercussioni altrove: già oggi si registrano segnali di reazione alle
notizie che arrivano da Myanmar e Sri Lanka in paesi musulmani come Indonesia e
Malaysia.

Il Silenzio di San Suu Kyi

Uno studio sui rapporti tra organizzazione monastica, comunità
buddhista e leadership politica dei due paesi potrebbe spiegare con maggiore
chiarezza la situazione attuale, anche se comunque con ampie aree grigie.

Le recenti dichiarazioni del governo birmano di volere garantire i
diritti alla sicurezza e alla pratica religiosa della comunità musulmana (il 5%
dei 58 milioni di abitanti) contrastano con l’allargarsi delle aree di tensione
anche in regioni (come lo stato Kachin) che sfuggono in parte al controllo
diretto delle autorità centrali. Suscita meraviglia e attira critiche anche il
silenzio di Aung San Suu Kyi, spiegabile forse con la sua candidatura alle
elezioni presidenziali del 2015, o con la coerenza verso il suo impegno a
lavorare per la riconciliazione piuttosto che per la sottolineatura di fratture
già presenti nella composita società birmana. In ogni caso, pochi sembrano gli
spazi per una soluzione pacifica e duratura. Anzi, il rischio è che le violenze
si allarghino, anche davanti all’evidente impotenza della comunità
internazionale che ha – significativamente – lasciato cadere buona parte delle
sanzioni verso il governo erede del regime che per oltre 50 anni ha fatto
affondare il paese nella violenza e nella povertà.

Come sia possibile che il monaco Ashin Wirathu sia emerso come
referente del buddhismo violento e xenofobo in Myanmar, pochi lo spiegano, ma
colui che nel 2012, appena rilasciato dopo nove anni di carcere per incitamento
all’odio religioso, si era dichiarato «il Bin Laden birmano», da un anno spinge
il suo «Gruppo 969» a propagandare l’intolleranza nel paese.

La sua «campagna», orchestrata con ogni probabilità assieme ad
alcuni settori della politica e delle forze armate, cade in un vuoto di moralità
e di legittimazione dell’organizzazione monastica buddhista. Tra i 500mila
monaci ci sono infatti molti che nei monasteri hanno trovato un rifugio da
povertà, violenza, emarginazione. Giovani uomini con un’infarinatura di fede e
uno scarso bagaglio dottrinale pronti a scaricare rabbia e frustrazioni sui
bersagli loro indicati.

Rischi di contagi

Per Shwe Nya Wa, abate buddhista a Mandalay, un moderato, la
situazione segnala come qualcuno voglia accendere seri problemi nel paese per
spingere il governo a intervenire con durezza, come un tempo, e per confermare
la «debolezza» della democrazia e delle sue istituzioni già insinuata dagli
abusi di vario tenore verificatisi grazie all’eliminazione del blocco degli
investimenti stranieri che ha portato nel paese investitori istituzionali e
occasionali, pubblici e privati.

Davanti a oltre 300 morti e 140mila profughi dal giugno 2012,
appare chiaro che non solo la situazione è fuori controllo, ma è anche forte il
rischio di un «contagio» alla vicina Thailandia, anch’essa in maggioranza
buddhista, dove il conflitto in corso da tempo nel Sud tra forze di sicurezza e
ribelli indipendentisti musulmani potrebbe incentivare – se intervenisse una
spinta di carattere religioso-istituzionale – l’ostilità generale verso i
seguaci di Allah, il 4% della popolazione.

Tamil sotto torchio

In Sri Lanka nessun musulmano risulta finora vittima dell’ostilità
dei conterranei buddhisti che comunque fa sorgere preoccupazioni nella società,
oltre a reazioni nel mondo islamico. Durante la devastante guerra civile che ha
interessato il paese dal 1983, i musulmani locali hanno pagato un caro prezzo
per la loro neutralità. Soprattutto ai guerriglieri tamil. Oggi, con i Tamil
totalmente sottomessi al dominio dell’etnia singalese, i musulmani si ritrovano
sotto il giogo dei vincitori.

Vittima, in parte dei sospetti che risalgono ai tempi della
dominazione britannica, in parte degli effetti del radicalismo musulmano di
molte aree del mondo, in parte – ancora – della recente opposizione alla
macellazione secondo i dettami di purità musulmana (halal) o di piccole
rivalità locali, oggi la comunità islamica, pacifica e laboriosa, certamente
lontana delle suggestioni jihadiste, si trova sotto il tiro degli
estremisti del Bodu Sena (la Brigata buddhista), che contro i seguaci di
Maometto tiene comizi, proclama azioni di boicottaggio, condanna la prolificità
delle famiglie devote di Allah o chiama più chiaramente all’espulsione.

Il fatto che alti esponenti del governo di Colombo, e tra questi
il potente ministro della Difesa Gotabhaya Rajapaksa (fratello del presidente)
partecipino a iniziative della Brigata, come l’apertura di centri di
addestramento, e definiscano i monaci nazionalisti come destinati a «proteggere
il paese, la religione e la razza», chiarisce come il rischio di un nuovo
conflitto interno sia reale e le motivazioni del tutto pretestuose, utili solo
al nazionalismo e a chi se ne avvantaggia. Mostra inoltre la debolezza
identitaria, e la scarsa conoscenza del mondo, frutto anche di un’informazione
censurata e parziale.

Il senso di unità nazionale, incentivato da decenni di regimi
oppressivi, la dominanza storica su altre fedi, la preoccupazione per un «contagio
islamista», sia attraverso il potere dei petrodollari, sia attraverso una
volontà dell’Islam di convertire i buddhisti, contribuisce a una reazione che
non ha nelle istituzioni un freno, ma piuttosto un garante.

Stefano Vecchia
 


«Buddhismo e pacifismo»

Il principio della nonviolenza è intrinseco alla pratica
buddhista, come indicato nel Dhammapada, la raccolta di scritti che
raccoglierebbe, secondo la tradizione, l’originaria dottrina del Buddha. Il
primo sutra (aforisma) indica che «se
un uomo parla o agisce secondo un pensiero malvagio, il dolore lo segue come la
ruota segue lo zoccolo del bue che tira il carro».

Dei cinque precetti morali obbligatori per il monaco, il
primo è l’astenersi dall’uccidere esseri viventi. Strumento per raggiungere
pace interiore ed equilibrio, anche la meditazione è indicata negli antichi
testi come idonea a produrre uno stato di «consapevolezza amorevole» verso
tutti.  Storicamente, però, la religione
buddhista, che pure non si riferisce a un Dio onnipotente, a un popolo eletto e
nemmeno ha un carattere prettamente proselitistico e universalistico, ha
dimostrato di essere militante quanto l’Islam e il Cristianesimo. Le cronache
srilankesi ricordano come la dottrina del Buddha si sia affermata sull’isola
nel II secolo a.C., quando re Dutugemunu infilò sulla punta di una lancia una
reliquia del Buddha e guidò alla vittoria contro il rivale induista le sue
truppe che includevano 500 monaci. Fu un massacro, ma le cronache ricordano
come il sangue sparso sia andato a beneficio della fede oggi dominante.
Similmente sovrani indiani, khmer, birmani, thai e indonesiani giustificarono
le loro campagne belliche con la «necessità» di diffondere il buddhismo e
innalzare reliquiari in aree sempre più vaste.

In sostanza, da lungo tempo l’intransigenza dottrinale e il
rigore morale sono stati sovente espropriati nell’ecumene buddhista da
interessi diversi. Oggi fede minoritaria, posta sulla difensiva per ragioni
storiche e demografiche, il buddhismo rischia derive integraliste contrarie non
solo alle sue origini che stanno nel Buddha storico, ma anche ai suoi stessi
principi tramandati.  (S.V.)

Stefano Vecchia




Lo Yom Kippur alla corte di Strasburgo

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 15
Un avvocato napoletano di religione ebraica vede rifiutata
la sua richiesta di rinvio di un’udienza per partecipare alla festa del Yom
Kippur. E ricorre alla Corte di Strasburgo (Cedu) per il mancato rispetto del
suo diritto di culto. Un caso emblematico della difficile ricerca di equilibrio
tra diritti in conflitto. E del ruolo fondamentale che la Corte svolge nella
costruzione di una comune coscienza civile in Europa, anche sul tema della
libertà di religione. Prendendo in esame le sentenze della Cedu, possiamo
comprendere se in Europa esiste un problema di libertà religiosa e di pensiero
e, quindi, di laicità dello stato.

La Corte europea dei diritti
dell’uomo (Cedu) ha il compito di decidere se nei paesi che fanno parte del
Consiglio d’Europa e dell’Unione europea viene violata la libertà religiosa,
oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il pluralismo
religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i principi
costitutivi dell’Europa. La Cedu è sorta nel 1959 sulla base della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
.
Chiunque ritenga che tali diritti non siano stati rispettati, si può appellare
a essa. Per i casi riguardanti la libertà religiosa l’articolo della
Convenzione europea a cui fare riferimento è il numero 9 sulla libertà di
pensiero, di coscienza, di religione e di manifestare la propria fede o le
proprie convinzioni.

Costruire una comune coscienza civile europea

A livello europeo le sentenze della Cedu sono molto importanti, al
di là di quanto affermano le singole Costituzioni nazionali (le quali, essendo
tutte democratiche, riconoscono esse stesse in linea di principio le medesime
libertà). Se infatti, all’interno di un singolo paese europeo i diritti e le
libertà fondamentali venissero, per qualsiasi motivo, violati, la Cedu può
riconoscerlo grazie al suo ruolo di giudice di ultima istanza.

È per questo che la Corte svolge il fondamentale compito di
contribuire alla costruzione in Europa di una comune coscienza civile, quindi
anche riguardo alla libertà di religione.

Tra Yom Kippur e lavoro

Analizzando le sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo ci
troviamo di fronte a casi emblematici che mostrano, spesso, quanto sia
difficile trovare l’equilibrio giusto tra diversi diritti: ad esempio il
diritto di culto di un avvocato e il diritto di altre persone alla durata
ragionevole di un processo.

È il caso della sentenza emessa dalla Corte il 3 aprile 2012 che
vedeva l’avvocato napoletano di religione ebraica Francesco Sessa in
contrapposizione al governo italiano per la presunta violazione del suo diritto
di culto.

Il 7 giugno 2005 l’avvocato Sessa si presenta al giudice delle
indagini preliminari (Gip) di Forlì in rappresentanza di uno dei due querelanti
in una causa penale contro diverse banche. Il Gip titolare non può presenziare
all’udienza, e il suo sostituto, per fissare l’udienza successiva, propone due
possibili date: il 13 o il 18 ottobre. Entrambe, tuttavia coincidono con feste
ebraiche: rispettivamente lo Yom Kippur e il Succot. L’avvocato di Napoli lo fà
presente. Osservante, membro della comunità ebraica della sua città, non potrà
partecipare all’udienza di rinvio. E chiede che venga indicata una data
diversa, appellandosi alla legge del 1989 che regola i rapporti tra lo stato
italiano e l’Unione delle comunità ebraiche. Ma il giudice non tiene conto
della richiesta, e fissa l’udienza per il 13 ottobre. Anche il Gip titolare
della causa, cui l’avvocato napoletano si rivolge immediatamente, respinge la
sua richiesta di rinviare la nuova udienza. L’interessato, allora, sporge
querela contro entrambi i giudici.

Diritti o «ragioni personali»?

Arriva frattanto l’udienza del 13 ottobre e l’avvocato non si
presenta. Il Gip lo dichiara assente per «ragioni personali» e, raccolto il
parere delle parti, rigetta la sua richiesta di rinvio perché non aveva motivi
legittimi per ottenerlo. L’avvocato napoletano fa ricorso contro tale
decisione. La causa, attraversati tutti i gradi di giudizio, termina il 15
febbraio del 2008, quando il Gip di Ancona, cui era alla fine pervenuta,
l’annulla sostenendo che nessun elemento dimostrava una violazione del diritto
dell’avvocato di esercitare liberamente il culto ebraico o un attentato alla
sua dignità in ragione della sua fede religiosa.

Cedu: ultima istanza

Sessa decide quindi di fare ricorso alla Cedu. Appellandosi all’art.
9 della Convenzione per i diritti dell’uomo, sostiene che l’aver fissato
l’udienza nel giorno di una festa ebraica gli ha impedito di partecipare
all’udienza attentando al suo diritto di manifestare liberamente la propria
religione. La legge del 1989, secondo lui, l’autorizzava ad assentarsi dal
lavoro in occasione di feste ebraiche, per poter esercitare il proprio culto.

Il governo italiano, contro cui l’appello alla Cedu è rivolto,
naturalmente è di parere contrario. E sostiene che il diritto invocato dall’avvocato
di Napoli non riveste carattere assoluto. Infatti la stessa legge che regola i
rapporti dello stato con l’Unione delle comunità ebraiche prevede espressamente
che le esigenze legate a servizi essenziali dello stato prevalgano sul diritto
dell’individuo a esercitare liberamente il proprio culto. E l’amministrazione
della giustizia costituisce certamente un servizio essenziale. Inoltre
l’avvocato avrebbe potuto farsi sostituire per quella particolare giornata da
un collega, e non l’ha fatto. Egli dunque ha rinunciato a conciliare gli
obblighi religiosi legati al suo culto con le esigenze della buona
amministrazione della giustizia.

Ribadire il diritto alla libertà religiosa…

Questa causa riveste un interesse particolare per il tema della
libertà religiosa nel nostro continente, perché la Corte europea dei diritti
umani deve confrontare il caso specifico dell’avvocato napoletano con i
principi fondamentali espressi nell’articolo 9 della Convenzione: la libertà
religiosa riguarda prima di tutto il «foro interiore» delle persone, ma implica
egualmente il diritto di manifestare la propria religione sia in modo
collettivo, in pubblico e assieme a chi condivide la stessa fede, sia
individualmente e in privato. La Corte sottolinea quindi che la libertà
religiosa non è una questione solo «interiore», soggettiva e individuale. Essa
non è un fatto «privato», come un certo «laicismo» di carattere «radicale»
pretende. Ha invece anche dimensione e rilievo pubblici. E solo tutelando
entrambe queste dimensioni si può parlare di libertà religiosa.

La Corte, da un lato, sostiene, in base a queste valutazioni, che
l’avvocato di Napoli aveva tutto il diritto di partecipare alle feste della sua
religione.

…puntualizzandone i limiti

Dall’altro lato, la stessa Corte afferma che tale diritto non è
assoluto. L’articolo 9, infatti non protegge qualsiasi atto ispirato a una
religione. E per chiarirlo ricorda altri due casi emblematici, su cui si era
espressa in precedenza. Il primo riguardava un agente di servizio pubblico,
Tuomo Konttinen, Finlandese, licenziato perché non aveva rispettato i suoi
orari di lavoro per la ragione che la Chiesa avventista del settimo giorno, a
cui egli apparteneva, vieta ai suoi fedeli di lavorare il venerdì dopo il
tramonto del sole. Il secondo si riferiva a un militare turco di nome Kalac
collocato d’ufficio in pensione per motivi disciplinari, perché manifestava
idee integraliste. In questi casi la Corte aveva ritenuto che non valesse
l’art. 9 perché le misure prese non erano motivate dalle idee religiose degli
interessati ma dagli obblighi contrattuali specifici che li legavano ai loro
datori di lavoro.

Anche nel caso dell’avvocato napoletano secondo la Corte non si è
verificata alcuna restrizione del suo diritto di esercitare liberamente il suo
culto. Infatti l’interessato aveva potuto svolgere i propri doveri religiosi.
Egli avrebbe dovuto invece soddisfare comunque i suoi doveri professionali
facendosi sostituire nell’udienza da un collega.

4 a 3: la delicatezza dell’equilibrio

La sostanza della sentenza della Corte va quindi contro Francesco
Sessa: non è stato un caso di violazione del suo diritto di religione.

All’interno della Corte la decisione non è stata facile da
prendere. Dei sette membri che la costituivano, tre hanno sostenuto che si era
verificata comunque una ingerenza nei diritti dell’interessato.

In una società democratica la possibilità di ingerenza è ammessa
dalla legge quando si tratta di proteggere i diritti e le libertà altrui. In
questo caso il diritto dell’avvocato napoletano era in conflitto con il diritto
delle persone coinvolte nel processo al quale Sessa avrebbe dovuto prender
parte a godere di una buona amministrazione della giustizia e a vedere
rispettato il principio della durata ragionevole del processo. Secondo i tre
membri della corte che davano «ragione» all’avvocato, tuttavia, l’ingerenza non
aveva risposto al criterio della proporzionalità, secondo cui tra i vari mezzi
che permettono di raggiungere lo scopo legittimo perseguito, le autorità devono
scegliere quello che lede meno i diritti e le libertà. Si doveva infatti
scegliere una soluzione che permettesse di conciliare sia i diritti di libertà
religiosa dell’avvocato di Napoli sia quello di buona amministrazione della
giustizia delle parti in causa, ad esempio organizzando in modo diverso il
calendario delle udienze. In quel caso, i disagi e i problemi provocati da tale
scelta avrebbero rappresentato un modico prezzo da pagare per il rispetto della
libertà di religione in una società multiculturale. In più, secondo loro, non
esisteva alcun motivo di urgenza, dato che non erano previste misure che
privassero qualcuno della libertà. Per questo, tre giudici su sette erano del
parere che fosse stata violata la libertà religiosa di Francesco Sessa.

Fatto sta che alla fine, nonostante i tre pareri a favore
dell’avvocato di fede ebraica, la sentenza della Corte gli ha invece dato
torto. Si può non essere d’accordo. Occorre tuttavia sottolineare l’importanza
dei principi affermati dalla Corte nella sua sentenza. Il fatto stesso che essa
abbia deciso a stretta maggioranza, dimostra quanto delicata sia la questione
del rispetto del diritto alla libertà religiosa, sia nella sfera privata sia in
quella collettiva e pubblica. Esso non è, come detto, un diritto assoluto, e la
sua limitazione – possibile esclusivamente per tutelare i diritti altrui – va
considerata con grande attenzione e prudenza. La libertà religiosa, come quella
di pensiero e di coscienza, è uno dei cardini fondamentali su cui si basa una
società autenticamente laica e pluralista.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Natale, ancora Natale, ma quale Natale?

Potrebbe sembrare strano, eppure di Gesù, sul piano storico,
sappiamo poco, e quel poco che i vangeli riportano per noi è molto, anzi
tantissimo. I vangeli non sono «una storia di Gesù», ma una catechesi per chi
crede già in lui come Figlio di Dio e Messia. Di conseguenza i quattro libretti
sono un catechismo, originariamente predicato in forma orale dagli apostoli,
dai catechisti, dai predicatori e da chi aveva conosciuto Gesù (famiglia,
paesani, amici, ecc.). A distanza di 40-80 anni dalla sua morte, sono stati
messi per iscritto per due motivi: per conservare la memoria di quanto accaduto
e suscitare la fede in lui anche nelle generazioni future e per poterli usare
come «Scrittura» di compimento dell’Antico Testamento nell’Eucaristia delle
Chiese, ormai diffuse in tutto l’oriente fino a Roma.

Di
Gesù sappiamo …

Marco, il
primo degli evangelisti scrittori, non parla affatto della nascita di Gesù; in
compenso Giovanni, l’ultimo degli evangelisti scrittori, accenna all’eternità
del Lògos che per volere di Dio «s’incarna», cioè diventa uno di noi in un
preciso paese (Israele), in una determinata cultura (Giudaismo), in una
specifica religione (Ebraismo), in un tempo ben definito (fine del sec. I a.C.
e sec. I d.C.), nel cuore di specifici eventi (occupazione romana della
Palestina). Chi, invece, parla della nascita di Gesù in maniera esplicita, sono
i due evangelisti Matteo (capp. 1-2) e Luca (capp. 1-2), ma non dicono le stesse
cose perché hanno prospettive diverse e si rivolgono a comunità diverse.

Un elenco
schematico di ciò che sappiamo di Gesù, potrebbe essere il seguente:

• è nato
intorno al 6/7 a.C. (v. Box) da una ragazza-madre, appena adolescente,
di nome Miriàm/Maria;

• non si
conoscono il giorno, il mese e neanche le condizioni della nascita;

• è nato a
Betlemme, a sud d’Israele, patria di Davide da cui discende Giuseppe, il padre
legale di Gesù;

• è nato in
una zona periferica, considerata dalla religione «impura» perché abitata da
pastori;

• è stato
circonciso all’ottavo giorno dalla sua nascita ed e stato chiamato «Joshua-Gesù»
dopo 40 giorni;

• ha
trascorso la sua vita a Nàzaret, nel Nord della Palestina;

• a
compimento del 12° anno di età (inizio del 13°), nel tempio di Gerusalemme ha
celebrato il rito della «Bar-mitzvàh – Figlio del comandamento», che per gli
Ebrei è l’inizio della maggiore età (cf Lc 2,41-50);

• ha
predicato per la Palestina e anche fuori i confini per circa un anno, un anno e
mezzo, all’età di 34-35 anni;

• non
apparteneva alla casta sacerdotale, ma era un laico;

• si è
scontrato con il potere religioso e il potere politico che alla fine si sono
coalizzati e lo hanno fucciso, condannandolo a morte come «rivoluzionario»: il
Sinedrio ha emesso la sentenza di crocifissione e i Romani, nemici alleati per
l’occasione, l’hanno eseguita;

• è morto
all’età di circa 36 anni (30/33 d.C.?), la stessa età di Isacco quando fu
legato sul monte Moria per essere sacrificato (cf Gen 22,1-23);

• è risorto
da morte alle prime luci dell’alba del giorno dopo il sabato, dando inizio
all’avventura della nuova Alleanza;

• non ha
lasciato nulla di scritto, ma solo undici apostoli e altre apostole che inviò
nel mondo;

• il suo
insegnamento è stato raccolto in quattro vangeli che persone innamorate di lui
hanno scritto per i loro contemporanei e per noi che li ascoltiamo e vogliamo
tramandare a chi verrà dopo di noi.

Nota storica
sulla data di Natale

Nei sec. II-III dell’èra
cristiana in tutto l’Oriente, alla data del 6 gennaio, si celebrava una festa
generica detta Epifania (manifestazione) che inglobava tre memoriali: Natale
(manifestazione agli Ebrei), Magi (manifestazione ai Pagani) e Sposalizio di
Cana (manifestazione nel segno dell’alleanza universale). In Spagna nel sec. IV
si celebrava il Festum Nativitatis Domini Nostri Jesu Christi. San
Giovanni Crisostomo (345 ca.-407) in un’omelia sul Natale, pronunciata nel 386,
dichiarava che nella chiesa di Antiochia già da dieci anni vi era l’uso di
celebrare la Nascita del Salvatore il 25 dicembre. Anche nella chiesa di Roma,
come in quella di Milano, fin dal 336 si celebrava il Dies natalis Domini
sempre al 25 dicembre, considerato il giorno genetliaco di Gesù. Papa Liberio
nel 354 scorporò la festa in due, assegnando Natale al 25 dicembre e l’Epifania
al 6 gennaio. Nella chiesa ortodossa e armena, invece, le due feste sono ancora
accorpate al 6 gennaio (cf Dictionnaire de Spiritualité, f.
LXXII-LXXIII, Paris 1981, 385). I cristiani del Nord del mondo celebrano il
Natale in inverno, mentre i cristiani del Sud lo celebrano d’estate. Il 25
dicembre è una data convenzionale perché in relazione al 25 marzo, giorno in
cui, secondo la tradizione, nella casa di Nazaret l’Angelo annunciò a Maria il
concepimento di Gesù. Maria partorì il Figlio nove mesi dopo, cioè il 25
dicembre. è il Natale.

Il 25 dicembre è anche il
solstizio d’inverno, in cui si ha il giorno più corto dell’anno e la notte più
lunga. Sia in Oriente che a Roma questo giorno era dedicato al «dio Mitra»,
divinità di origine persiana, venerato come il «Sole Invitto». La festa,
centrata sul simbolismo della luce, ebbe una diffusione enorme nell’impero
romano tra i sec. I-III d.C., tanto che l’imperatore Diocleziano (284-305 d.C.)
dovette proclamare il dio-Mitra «sostegno del potere imperiale»,
incrementandone il culto. Durante i giorni di festa, tutto diventava lecito
perché veniva meno ogni freno inibitore e si scatenava ogni sorta di
trasgressione specialmente sessuale che si concretizzava in riti magici,
baccanali e orge, in cui avevano un posto privilegiato le «vergini» che
sacrificavano al dio della luce la loro verginità. Non di rado la festa era
occasione per vendette personali fino all’omicidio. I cristiani opposero a
queste licenziosità l’austera memoria del Lògos incarnato che nacque in una
stalla, nella povertà più estrema, fissando il Natale appositamente al 25
dicembre, compimento esatto dei nove mesi della gestazione di Maria, dal 25
marzo, giorno dell’annunciazione, equinozio di primavera. Per contrastare i riti
delle vergini che offrono la loro integrità al «dio Mitra» in baccanali
orgiastici, i cristiani esaltarono la
nascita «verginale» di Gesù, «sole che mai tramonta», offerto al mondo
da una «vergine» che si abbandona al disegno di Dio.Nello stesso periodo,
almeno da oltre due secoli, il 25 del mese di Kislèv, corrispondente a
una data tra il 15 e il 25 dicembre ca., i Giudei celebravano (ancora oggi
celebrano) la festa ebraica di Chanukkàh (= inaugurazione/dedicazione),
detta anche Chàg Haneròth (Festa dei lumi), Chàg Haurìm (Festa
delle luci) e Chàg Hamakkabìm (Festa dei Maccabei), per fare memoria
della riconsacrazione del tempio che Antioco IV dissacrò con una statua di Zeus
e che Giuda Maccabeo con la sua famiglia riconquistò nell’anno 165 a.C., ricostruendo
e riconsacrando l’altare del sacrificio. La Chiesa per non isolare i cristiani
accerchiati dal culto pagano del dio-sole/Mitra e dalla ebraica Festa delle
luci, inventò la celebrazione del Natale del Signore, il Sole che sorge e mai
tramonta. A Natale non domina solo il simbolismo della luce che contrasta il
buio della notte, ma si celebra Cristo stesso, «Luce che illumina le genti» (Lc
2,32), «Stella luminosa del mattino» (Ap 22,16), sapienza di splendore «che non
tramonta» (Sap 7,10). Celebrare il Natale in pieno inverno è anche un atto di
coraggio e di speranza, un invito a guardare oltre le apparenze: il seme appare
morto e perduto nei solchi, le giornate sono brevi e buie, il senso di morte
tutto pervade; al contrario, la nascita di un bimbo è una grande profezia che
illumina il mondo e anticipa la primavera, quando la vita danzerà e sconfiggerà
la morte in vista dell’estate che porterà la gioia del raccolto e
dell’abbondanza, simbolo di pienezza di vita.

Nota:
L’autore di uno scritto anonimo, Adversus Judaeos/Contro i
Giudei (8,11-18, CCL 2, 1954, pp. 1360-64) attribuito da alcuni a Tertulliano
(150/160-220), già nella seconda metà del sec. II, riteneva che Cristo fosse
nato il 25 marzo e fosse anche morto lo stesso giorno. Doveva essere così perché
la perfezione della natura divina di Cristo esigeva che gli anni della sua vita
sulla terra fossero anni interi senza frazioni. è evidente che siamo
in piena speculazione teologica fuori da ogni spiegazione storica. Clemente
d’Alessandria (160-240) testimoniò che i cristiani copti celebravano non solo
l’anno, ma anche il giorno della nascita del Salvatore e cioè il 25° giorno del
mese di Pachòn (15 maggio) o il 25 del mese Pharmùth (20 aprile)
e sostenne che non esisteva una tradizione univoca e condivisa sulla data
esatta della nascita del Salvatore (Stromates I, 21, PG 8,888).

Sul culto
misterico di Mitra

Il culto del
dio Mitra, raffigurato con in mano una fiaccola e un coltello, sviluppa una
forma religiosa riservata agli iniziati per cui è caratterizzato dalla
segretezza; per questo i rituali, che si chiamavano «culti misterici», si
celebravano in luoghi sotterranei, detti mitrei, cui potevano accedere
solo gli adepti, ammessi dopo prove e cerimonie che comprendevano sette gradi
per essere ammessi al mistero della conoscenza: corvo, ninfo, soldato, leone,
persiano, corriere del sole, padre. Pare che lo stesso imperatore Nerone fosse
uno di questi iniziati. Il culto di Mitra fu introdotto nel mondo greco-romano
dai pirati di Cilicia, deportati da Pompeo nel 67 a.C. in Grecia. Da qui al
seguito delle legioni romane (molti soldati erano iniziati) si diffuse
velocemente in Italia, in Dacia (Romania-Moldavia), Pannonia (parte di
Ungheria, Austria e Slovenia), Mesia (Bulgaria), Britannia e Germania.

Mitra è
circondato da «miracoli»: con il lancio di una freccia fa scaturire acqua da
una roccia, segno di vitalità e purificazione; stipula un patto con il dio
Sole, a cui è associato fino a identificarsi con esso. Anche il dio Veruna (il
greco Urano) è associato a Mitra, e insieme personificano la notte e il giorno:
Veruna castiga i malvagi (notte) e Mitra protegge la giustizia e gli uomini
onesti (giorno). Il centro del culto è la tauroctonìa (il sacrificio del
toro), simbolo della fecondità universale e sempre presente in tutti i mitrei.
Accanto al toro vi sono altre figure simboliche: il serpente che beve il sangue
del toro, lo scorpione che gli punge i testicoli (per impedire la fecondità
della terra), il cane che bevendone il sangur acquista energia e vitalità che
trasferisce alla terra perché dalla sua coda germoglia il grano (simbolo della
risurrezione della terra) e un corvo che fa da tramite tra il sole-Mitra e la
terra. Il dio Mitra è accompagnato da altre due divinità, Catèus e Cautòpates,
raffigurati sempre con le fiaccole, simbologia plastica di una trinità solare
che raffigura il ciclo quotidiano del sole all’aurora, a mezzogiorno e al
tramonto.

Il
mitraismo, pur con tante somiglianze cristiane (verginità, trinità,
luce-tenebra; sangue-vita, visione apocalittica, ecc.), fu uno dei principali
antagonisti del cristianesimo sul quale sicuramente avrebbe prevalso senza
l’apostolo delle genti, Paolo di Tarso e la sua opera di evangelizzazione e di
diffusione del Cristianesimo in forma capillare in tutto il Medio Oriente, la
Grecia, parte dell’Asia fino Roma, cuore dell’impero, segnando così il declino
del mitraismo. Il Cristianesimo, infatti, nato come «sètta giudaica», tale
sarebbe rimasto, senza l’impeto paolino che di fatto creò la religione
cristiana come «sistema» teologico e organizzativo. Il sec. I d.C. fu un secolo
di passaggio, segnato dalla decadenza di ogni sistema ideologico, morale e
religioso, frutto inevitabile della fine di un millennio e inizio di uno nuovo.
In un contesto di «pensiero debole» e di corruzione che aveva minato lo stato
in ogni suo ambito, forte era il bisogno di spiritualità e «pulizia», di aria
pulita e di rinnovamento. In questo contesto, Paolo predicò la verginità come
misura del provvisorio (il mondo sta per finire, bisogna prepararsi e restare
liberi), il matrimonio come comunità stabile e regolata, la Chiesa come
orizzonte escatologico, cioè come compagna di viaggio che stabilisce le regole
in vista della fine del mondo. Ebbe successo perché proponeva un ideale forte e
controcorrente. Gesù ne era il modello, ma la sua predicazione e le sue parole
furono adattate e adeguate alle nuove circostanze. Gesù aveva annunciato il
Regno di Dio, Paolo dava vita alle «Chiese locali»; Gesù agì da profeta, Paolo
operava da uomo dell’istituzione.

Nota:
Mitraismo e il
Cristianesimo
sono due religioni
apocalittiche: rappresentano l’eterno combattimento del bene contro il male,
dei figli della luce contro i figli delle tenebre. L’imperatore Aureliano
(270-275 d.C.) eleva il culto del Sole a religione di stato. Costantino che
deve la sua prima vittoria ai cristiani, ribalta la situazione con l’editto del
313 d.C. a favore del Cristianesimo. Giuliano l’Apostata (361-363 d.C.) cerca di
riportare in auge il culto di Mitra, ma inutilmente perché  nel 394 d.C. con la vittoria di Teodosio su
Eugenio, il Cristianesimo diventa religione di stato e i mitrei  saccheggiati e distrutti per fare posto alle
nuove chiese e basiliche cristiane. Famosi in Roma sono i mitrei del Circo
Massimo e S. Clemente ancora oggi visitabili.

Natale:
il capovolgimento di Dio

Natale per
i cristiani di routine è la festa civile del buonismo a buon mercato, risolto
in una prassi scontata di regali, odiati da chi li fa. Per chi crede, Natale è
la contraddizione di Dio che non potendo essere visto e conosciuto, decide di
farsi conoscere: egli stesso diventa esegeta di sé (Gv 1,18). A Natale Dio
spiega Dio nell’unica maniera che a noi è possibile capire: facendosi uno di
noi e rivelando il volto nascosto di Dio Padre nel volto visibile dell’Uomo. E
perché nessuno possa avere anche la minima possibilità di avere paura, sceglie
la forma più indifesa e più disarmante: il bambino. Nella cultura del tempo di
Gesù, il bambino non ha alcun titolo e conta nulla perché senza valore
giuridico; per questo egli lo assume come «metro» del Regno: «Se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei
cieli» (Mt 18,3). Non basta. Dio vuole svelarci il suo volto di bambino povero
e perseguitato, profugo, straniero, emigrante, clandestino: nessuno nel Regno
di Dio ha le carte in regola per essere accreditato, nessuno è più in regola di
un altro. Una sola condizione è necessaria: essere figli di Dio. Questo è il
Natale, questa la nostra speranza. Diventiamo anche noi esegeti di Dio,
manifestando in pieno la sua umanità, riconoscendo negli altri la loro dignità
di esseri umani e figli di Dio.

A Natale
tutto si capovolge. La logica umana non regge quella divina perché Dio è capace
di sorprenderci sempre, oltre ogni aspettativa, rovesciando i criteri e i «valori»
del mondo: all’imperatore potente, contrappone 
una ragazza inerme; a chi pretende di «contare» (censimento) l’umanità
contrappone un uomo, una donna incinta e un bambino appena nato;
all’onnipotenza della religione, contrappone la fatica di vivere la volontà di
Dio; allo splendore della reggia e del tempio, contrappone la povertà e
l’autenticità della vita. Per questo a Natale bisogna sapere e avere coscienza
che il Bambino che chiede di nascere ancora:

• è un
extracomunitario perché è un palestinese di Nazaret;

• è un
emigrato in Egitto, perché perseguitato politico e religioso fin dalla nascita;

• è vittima
delle leggi razziali e razziste delle politiche di espulsione, perché senza
permesso di soggiorno;

• è ebreo
di nascita e ricercato per essere eliminato;

• è un
fuorilegge perché clandestino e ricercato dalla polizia;

• è un poco
di buono perché figlio di una ragazza-madre, appena adolescente;

• è
oppositore del potere religioso e politico ed è ammazzato per vilipendio della
religione;

• è povero
dalla parte dei poveri e «deve» essere eliminato;

• è un
laico, credente atipico e controcorrente;

• è poco
raccomandabile perché frequenta lebbrosi e prostitute;

• è Dio
perché i suoi pensieri non sono mai i pensieri dei benpensanti (Is 55,8).

È Natale! La speranza di essere uomini e donne nuovi per
un mondo nuovo è possibile perché Natale è l’annuncio profetico che la
Resurrezione è la mèta della Storia. Anche oggi, anche adesso. Anzi è già
compiuta e noi possiamo rinascere e risorgere ogni giorno, perché Gesù non ha
bisogno di nascere di nuovo, essendo eterno, ma noi abbiamo necessità di
rinascere anche oggi a vita nuova. Questo è Natale: Dio-con-noi-Emmanuel (cf Mt
1,23). Buon Natale a tutte e a tutti i lettori e le lettrici di MC.
Paolo Farinella

Avviso importante:
Con questo articolo don Paolo Farinella sospende temporaneamente
la sua collaborazione con la rivista Missioni Consolata e, quindi, anche la
rubrica «Così sta scritto» con cui, fedelmente, ci ha accompagnati per otto
anni, dal febbraio 2005. Don Paolo ha chiesto una pausa per preparare un «Corso
biblico» che esporrà nella sua città, Genova, e che pubblicherà anche sulla
nostra rivista, molto presumibilmente dalla primavera del 2014, a partire da
maggio. Nell’attesa, lo ringraziamo e salutiamo frateamente e, su sua
esplicita richiesta, abbracciamo con affetto ciascun lettore e lettrice di MC,
nei cui confronti si sente debitore e grato perché lo hanno costretto a «stare
sulla Parola». Chi volesse, può consultare sul nostro sito www.rivistamissioniconsolata.it tutti gli articoli di don Paolo già
pubblicati, o andare sul suo sito www.paolofarinella.eu
per leggere o stampare la liturgia della domenica, cliccando prima su blog e poi su Liturgia.

 

Paolo Farinella




Uno sviluppo a tutto biogas

Produrre energia pulita con prodotti, rifiuti e residui
biodegradabili locali, liberandosi progressivamente della dipendenza dai
combustibili fossili come il petrolio e dai conflitti a essi legati, e
diminuendo i costi per i cittadini e le aziende. Non si tratta di uno slogan
che descrive il sogno a occhi aperti di un manipolo di visionari, ma di una
realtà che va prendendo forma nella vita di milioni di persone, e che getta
tutto il suo peso sulla bilancia dei temi che decidono le consultazioni elettorali.

Le
fonti di energia rinnovabili hanno oggi un peso che era impensabile solo pochi
anni fa, se è vero che nelle recenti elezioni tedesche, che hanno confermato Angela
Merkel alla guida del paese, sono state uno dei temi caldi. Quel tipo di fonti è
responsabile di ben un quinto della produzione energetica della Germania.
L’ambizioso piano tedesco per abbandonare i combustibili fossili entro il 2050
si sta rivelando più costoso del previsto per i cittadini, che si sono trovati
un aumento di circa il venti per cento sulla quota della bolletta che va a
sostenere gli incentivi alle rinnovabili (da 5,3 a 6,5 centesimi di euro per
chilowattora).

Fra queste fonti rinnovabili ci sono le biomasse che la
Direttiva Europea 2009/28/CE definisce come «la frazione biodegradabile dei
prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura
(comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie
connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile
dei rifiuti industriali e urbani». Sottoponendo una biomassa a un processo di
digestione o fermentazione anaerobica (cioè in assenza di ossigeno) è possibile
produrre biogas, composto per circa il settanta per cento da metano, che può
essere usato per la combustione (cioè ad esempio per far funzionare un
fornello) oppure, attraverso un ulteriore passaggio in un cogeneratore,
trasformato in energia elettrica. Il digestato, cioè il sottoprodotto della
digestione, può essere utilizzato come fertilizzante. Oltre al metano, il
processo di digestione produce anidride carbonica (CO2); questo,
tuttavia, non ha effetti sul riscaldamento globale poiché quella quantità di
anidride carbonica sarebbe stata prodotta comunque dalla biomassa nel suo
naturale decomporsi.

Secondo il rapporto 2012 della Iea, l’agenzia
internazionale per l’energia fondata dall’Organizzazione per la Cooperazione e
lo sviluppo economico (Ocse), i biocombustibili, fra cui il biogas,
rappresentano a livello mondiale circa il dieci per cento della produzione
totale di energia. In Italia, secondo il rapporto 2013 dell’Osservatorio
Agroenergia, a fine 2012 erano 850 gli impianti di biogas in funzione, per un
fatturato complessivo di due miliardi e mezzo di euro e un potenziale di
produzione pari a 5,6 miliardi di metri cubi l’anno. L’Osservatorio ha
calcolato che «il biometano può arrivare a coprire fino al dieci per cento del
consumo lordo di energia (scenario di “crescita accelerata”) o circa il 5%
(scenario di “crescita moderata”) al 2020». Il Consorzio italiano biogas stima
in un miliardo e mezzo di euro il risparmio che deriverebbe dal non dover
comprare gas dall’estero e ricorda che l’industria italiana del biogas dà
attualmente lavoro a circa dodicimila addetti.

Sulla carta, quindi, quella delle biomasse è
un’opportunità da non perdere per ridurre la dipendenza italiana dal gas
importato, pari a circa settanta miliardi di metri cubi l’anno. La
realizzazione pratica, tuttavia, non si sta svolgendo senza intoppi. Da un
lato, infatti, ci sono casi di successo come quello di Bertiolo, in provincia
di Udine, dove il biogas è stato ribattezzato il «petrolio verde». L’impianto
della Greenway, società che riunisce dieci aziende agricole locali,
produce oltre ottomila megawattora di elettricità in dodici mesi e ha creato un
giro d’affari di circa un milione di euro all’anno. La filiera corta, cioè
basata su operatori che agiscono in un territorio circoscritto e in contatto diretto
fra loro, è indicata dai produttori come una condizione imprescindibile per il
successo dell’iniziativa: i produttori, infatti, ricavano da circa trecento
ettari di coltivazioni locali tutta la materia prima necessaria per far
funzionare l’impianto, senza spese aggiuntive per trasporti delle materie prime
e creando un indotto importante per i piccoli paesi della zona.

Ma accanto a casi virtuosi come quello friulano, ce ne
sono altri nei quali la situazione non è così rosea: a Ponte Guerro, in
provincia di Modena, i cittadini hanno ingaggiato una lunga battaglia con Hera,
il gestore dell’impianto di biogas, esasperati dai miasmi prodotti dalla
centrale locale; il Centro Documentazione Conflitti Ambientali, nell’ambito
della campagna Green Lies (Bugie Verdi) che indaga i lati oscuri della green
economy
ha poi raccolto in un documentario le testimonianze dei cittadini
di Bondeno (Ferrara) e Mezzolara (Bologna) dai quali emerge che l’alimentazione
degli impianti a biogas previsti dal piano energetico regionale richiederebbero
seicentomila ettari di mais coltivati localmente e il conseguente
sconvolgimento dell’uso tradizionale dei terreni agricoli del ferrarese e del
bolognese.

Il documentario segnala inoltre «mancanza totale di
coinvolgimento e corretta informazione dei cittadini (…); piani di sviluppo
lontani dalle necessità e dall’esigenza dei territori e dei cittadini che lo
abitano; sistemi di incentivi sregolati che non permettono lo sviluppo graduale
e sostenibile di nuove economie locali a medio e lungo termine; assenza di
reali e efficienti misure di valutazione dei progetti, di controllo degli
impianti e del trattamento dei residui pericolosi e di future misure di
bonifiche; mancanza di conoscenza e curiosità tecnica da parte dei decisori che
avallano progetti inadatti».

Infine va considerato lo stravolgimento dei prezzi di
mercato nei casi di siccità (come è successo nel 2012) e, quindi, di scarsa
produzione, perché il bisogno di biomasse assorbe anche il prodotto vergine
destinato all’alimentazione animale e umana.

In assenza di una regolamentazione chiara e univoca e
guardando al biogas nella sola ottica del business, insomma, il rischio è
quello di trasformare una possibile occasione di crescita economica in
un’attività che danneggia il territorio. L’Energy & Strategy Group
del Politecnico di Milano, proprio partendo dall’analisi di questi rischi, ha
raccomandato di tornare al principio del chilometro zero: piccoli impianti
sostenibili alimentati da scarti agricoli e forestali locali e non da biomasse
vergini, cioè da prodotti coltivati ex-novo con lo scopo di essere
utilizzati per la produzione di biogas.

Il biogas nel Sud del mondo

Il biogas sta rivelandosi una novità dai risvolti
potenzialmente decisivi anche per le economie del Sud del mondo. Si
moltiplicano, anno dopo anno, i progetti sostenuti dalle istituzioni
inteazionali e dalle Ong con l’obiettivo di rispondere alla crescente domanda
di energia dei paesi in via di sviluppo, e diversi rapporti illustrano i
vantaggi di cui beneficia chi si è lanciato nella nuova avventura del biogas.
La Thomas Reuters Foundation riporta il caso di Parshottambhai Shanabhai
Patel, un contadino dello Stato di Gujarat, nell’India nord-occidentale, che
dal 2009 produce biogas grazie al quale fa funzionare il suo impianto di
irrigazione. Con duecento chili al giorno di letame delle sue vacche riesce a
produrre energia per otto – dieci ore e non deve più affrontare il costo, pari
a quattrocento euro l’anno, per il gasolio che alimentava la pompa. Inoltre,
soddisfatti i bisogni della propria fattoria, Patel può vendere l’energia in
avanzo agli altri coltivatori per sessanta rupie (circa un dollaro) all’ora.

Il Christian Science Monitor illustra poi
l’esempio della scuola di Gachoire, nel Kenya centrale, dove le acque reflue
delle latrine usate dagli oltre ottocento ragazzi della scuola vengono
convogliate nel digestore e convertite in gas per i fornelli della cucina. E
ancora, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), gli
scarti di un mattatornio a Dagoretti e la raccolta dei rifiuti a Kibera (due slums
di Nairobi) permettono di soddisfare, rispettivamente, il fabbisogno energetico
per il funzionamento del mattatornio e il fornello comunitario. I benefici per
l’ambiente derivano ovviamente anche dal fatto che i rifiuti animali del
macello non finiscono più nel vicino fiume (che era stato ribattezzato «il
fiume di sangue») e che la raccolta di rifiuti ha migliorato la salubrità del
quartiere.

Energypedia,
l’enciclopedia dell’energia avviata fra gli altri dall’agenzia di cooperazione
internazionale tedesca (Giz – Gesellschaft für Inteationale Zusammenarbeit),
riporta che il consumo energetico kenyano viene soddisfatto per oltre due terzi
dalla legna da ardere e dalla carbonella; la richiesta di legna sarebbe pari a
trentacinque milioni di tonnellate annue e rimane inevasa per oltre la metà.
Con questi numeri, è evidente che il rischio di deforestazione per il paese è
altissimo e il biogas può davvero rappresentare una svolta verso una soluzione
che impedisca la devastazione del patrimonio forestale del paese.

Mediamente, nei paesi in via di sviluppo, gli impianti
sono di piccole, se non piccolissime, dimensioni e vanno a sopperire alla
richiesta energetica di singole famiglie o comunità. Il rischio, nel Sud del
mondo come nel Nord, è quello delle speculazioni da parte di grandi produttori
industriali o società finanziarie.

Chiara
Giovetti

Progetto_____________________

La Fiamma di Natale

Quest’anno, la campagna di
Natale di Missioni Consolata Onlus si concentra su un tema
apparentemente poco natalizio: il biogas.

Questa volta abbiamo dato
un’interpretazione diversa del «regalare la vita» (lo slogan delle nostre
passate campagne): «preservare la vita che ci dà la Terra».

Su un pianeta che si sta
suicidando, utilizzando indiscriminatamente le risorse naturali a vantaggio di
pochi, l’attenzione per i temi dell’ambiente non può essere un lusso radical
chic
da occidentali ma un problema di tutti, ovunque. Un cittadino del Sud
del mondo ha diritto come chiunque altro a vivere in un ambiente pulito,
salubre, in un territorio non devastato da disastri ambientali provocati dalla
deforestazione e dall’inquinamento. L’energia, che permette di cucinare, di
pulire, di illuminare deve poter essere a disposizione di tutti.

Ecco perché quest’anno
abbiamo scelto di sostenere il progetto biogas di Familia ya Ufariji, a
Kahawa West, un quartiere della periferia di Nairobi.

Familia ya Ufariji
(Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di
strada fondata nel 1996 dai Missionari della Consolata. Oggi ospita sessanta
bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Da anni, Familia
ha avviato una serie di attività agricole che hanno il doppio risultato di
permettere alla struttura di contribuire al proprio mantenimento e ai ragazzi
ospitati di collaborare alle attività, apprendendo tecniche agricole che
permetteranno loro di avere una competenza professionale da utilizzare per il
proprio sostentamento.

Nella piccola fattoria di Familia
ci sono attualmente sei vacche e tre vitelli che possono fornire letame per far
funzionare un impianto per la produzione di biogas. Il gas prodotto sarà
utilizzato per integrare ed eventualmente sostituire la legna, il gas Gpl e gli
scarti del mais attualmente utilizzati per il fuoco della cucina. Un digestore
di ventiquattro metri cubi sarà sufficiente per fornire il gas a un fornello.

Padre Lorenzo Cometto e
fratel Kenneth Wekesa si occuperanno della realizzazione del progetto,
coadiuvati da tecnici locali specializzati per garantire che il piccolo
impianto sia costruito e messo in funzione nel rispetto delle norme di
sicurezza. Il costo del progetto è di 8.156 euro. Anche una piccola donazione
può servirci per acquistare le cistee, il cemento, i tubi e tutto il
materiale necessario alla realizzazione del digestore e alla sua messa in
funzione. (Chi. Gi.)

Maggiori informazioni sui dettagli del progetto sono
disponibili sul sito di Missioni Consolata Onlus:
www.missioniconsolataonlus.it

Chiara Giovetti




Santa Idelgarda di Bingen

Ildegarda nasce nell’estate del
1089 a Bermersheim, presso Alzey, nell’Assia-Renana in Germania, ultima di
dieci fratelli. Fin da bambina ha delle visioni che l’accompagneranno per tutta
la vita. A otto anni i suoi genitori, Ildeberto e Matilda di Vendersheim,
l’affidano al monastero di Disibodenberg, dove viene educata da Jutta di
Sponheim. A quindici anni emette la professione monastica e si avvia con
entusiasmo allo studio di opere patristiche e teologiche. Alla morte di suor
Jutta, intorno al 1136, Ildegarda le succede come magistra. Di salute
malferma, ma vigorosa nello spirito, si impegna a fondo per il rinnovamento
della vita religiosa del suo tempo e mantiene un intenso scambio epistolare con
personaggi di rilievo. Scrive inoltre trattati di filosofia e teologia, di
medicina, scienza e persino cosmologia; trova il tempo di comporre anche brani
musicali. Colpita da malattia nell’estate del 1179, Ildegarda si spegne in fama
di santità nel monastero del Rupertsberg, presso Bingen, il 17 settembre dello
stesso anno.

A essere sincero sono molto emozionato
nell’entrare in dialogo con una donna consacrata come te, una monaca
contemplativa, che durante la sua vita incise non poco nelle vicende ecclesiali
del suo tempo, in particolare nella sua terra, la Germania. Mi faccio forza
quindi, e ti chiedo di parlarci un po’ della tua vita.

Fin
dalla mia infanzia sono stata prescelta da Dio, che mi ha fatto dono di un
fenomeno molto particolare, ossia delle visioni celestiali che, data la mia
giovane età. Inizialmente non riuscivo a capire, ma in seguito pian piano
imparai a riconoscerle come doni del Signore affinché io mi dedicassi e
consacrassi totalmente a Lui.

I tuoi genitori come vivevano questo
fatto? Ne erano spaventati oppure tentavano di nascondere quello che tu stavi
vivendo per non suscitare troppo clamore attorno a te?

Certo
erano anche loro meravigliati di quello che mi succedeva, perciò all’età di
otto anni mi affidarono al monastero di Disibodenberg. Non appaia questo, a voi
modei, un gesto coercitivo. Ai miei tempi infatti era abbastanza normale che
sin da bambini si entrasse a far parte della comunità di un monastero. Del
resto, anche altre Sante entrarono in monastero in età piuttosto giovane, per
non dire adolescenziale.

Appartenente a una famiglia nobile e
affidata a una comunità monastica, fu abbastanza facile per te ricevere
un’istruzione di prim’ordine e nel contempo essere educata secondo le regole di
San Benedetto.

In
convento ebbi la fortuna di avere come Madre Maestra (Mater Magistra
come si diceva allora), Jutta di Sponheim, una nobile tedesca che si era
consacrata al Signore, dotata di un’intelligenza fuori dal comune e molto
addentro alle questioni teologiche, filosofiche di quel tempo. Fui presa sotto
la sua ala protettrice e grazie a lei ebbi un’istruzione di prim’ordine,
imparando ad accostarmi ai testi teologici e della nascente teologia scolastica
medioevale, che, data la presenza di personaggi di spicco miei contemporanei
come san Beardo e sant’Anselmo d’Aosta e influenze come quelle della scuola
di Chartres, cominciavano a circolare e a essere conosciuti nei circoli
accademici, nonché ovviamente in ambito religioso.

Ti piaceva studiare, addentrarti nei
meandri della Patristica e della teologia?

Molto,
in questa passione mi buttai a capofitto leggendo quasi tutti i testi dei santi
Padri in circolazione e i libri dell’enciclopedismo medioevale. Avevo una
particolare preferenza per san Dionigi l’Areopagita e il grande padre della
Chiesa, sant’Agostino di Ippona.

Con l’istruzione che hai avuto quindi non
ti deve essere costato molto scrivere anche ciò che sperimentavi durante le tue
visioni.

Di
certe cose ero piuttosto restia a parlare. Ma dopo i quarant’anni capii che i
doni che il Signore mi faceva dovevo condividerli con gli altri. Incominciai a
scrivere con particolare intensità tutto ciò che avveniva in me. Io non le
definivo visioni del cuore o della mente, ma, essendo visioni che prendevano tutto
il mio essere, fisico, psichico e spirituale, preferivo chiamarle: «Visioni
dell’anima».

Immagino che avendo tu acquisito una certa
notorietà per la santità di vita e per i trattati che hai scritto e che
cominciavano a circolare, molta gente ricorresse a te per avere dei consigli o
preziosi aiuti spirituali.

Sì.
Ma oltre a queste cose, cominciavano anche a chiamarmi a predicare nei villaggi
e nelle città. Del resto tutta la comunità civile e religiosa sentiva il
bisogno di una riforma morale del clero, dei monaci e del popolo. In questo
senso compii diversi viaggi pastorali e predicai nelle cattedrali di Colonia,
di Treviri, di Liegi, di Magonza, di Metz e di altre città.

Beh, per l’immagine che abbiamo noi del
Medioevo: quella di un’epoca triste e buia, sapere di una donna – sia pure
monaca – che predicava alla gente e al clero nelle cattedrali delle città
tedesche provoca un certo effetto.

Qualcuno
pensa che questo mio modo di fare sia l’antesignano del femminismo come lo
conoscete voi. In realtà il ruolo della donna nella Chiesa è sempre stato un
ruolo importante, anche se ha compiti diversi da quelli degli uomini. Inoltre,
all’interno dei nostri monasteri e dei nostri conventi, si provvedeva a
eleggere democraticamente i superiori, una cosa che neanche la società civile
medioevale riusciva a concepire. Questo per dire come bisogna smontare gli
stereotipi che, da un certo momento in poi, hanno fatto da padroni nella storia
della Chiesa.

Prova a sintetizzare la specificità della
tua predicazione e delle tue riflessioni teologiche che avevano tanto successo
e che ti ponevano ben al di sopra di tanti eruditi del tempo?

Cercavo
di manifestare la straordinaria armonia che esiste tra la Parola di Dio, la
dottrina cristiana che ne consegue e la vita quotidiana. Per capire sempre
meglio e sempre di più qual era il disegno che il Signore aveva su di me,
approfondivo le radici bibliche, liturgiche e patristiche alla luce della
Regola di san Benedetto, dando così origine e consistenza a una riflessione che
incideva sia nella prassi del popolo cristiano, che nella vita dei consacrati.
In questo modo, la pratica dell’obbedienza alla regola di vita del nostro
grande fondatore, san Benedetto da Norcia, faceva sì che la semplicità
dell’esistenza, l’ospitalità e la carità verso gli altri, fossero vissute come
una totale imitazione di Cristo. Proprio attraverso questa testimonianza si
riesce a lasciare traccia del mistero di Dio che agisce nella nostra vita.

Immagino che la considerazione culturale
che ti eri conquistata e la tua fama di santità abbiano richiamato discepoli –
o meglio, discepole – che volevano vivere la vita comunitaria accanto a una
persona così straordinaria, benedetta dal Signore con grazie particolari.

Quella
fu una stagione meravigliosa, le sorelle cominciarono ad arrivare e a un certo
punto diventammo così numerose che intorno al 1150 fondammo un monastero sul
colle chiamato Rupertsberg, nei pressi di Bingen, dove mi trasferii insieme a
diverse consorelle. Nel 1165, ne istituii un altro a Eibingen, sulla riva
opposta del Reno. In entrambi i monasteri fui nominata badessa, ma la mia
preoccupazione principale fu quella di curare sempre il bene spirituale e
materiale delle consorelle, che sentivo ormai figlie mie, favorendo in modo
particolare l’armonia della vita comunitaria, l’istruzione delle persone e una
pratica liturgica sempre accurata. Nei nostri monasteri davamo rilievo
all’ospitalità: accogliere cioè chi ricercava un luogo per riposare, pregare,
istruirsi e stare un po’ di tempo insieme al Signore.

Durante la tua vita sei entrata in
contatto con personaggi illustri del tuo tempo, ce ne vuoi parlare?

Ebbi
uno scambio di lettere con l’imperatore Federico Barbarossa, con il conte
Filippo d’Alsazia, con san Beardo di Chiaravalle e con il Papa Eugenio III.
L’imperatore Federico Barbarossa si pavoneggiava un po’ dicendo che lui era il
mio protettore, ma quando si schierò contro il Papa Alessandro III, nominando
ben due antipapi, io e Beardo da Chiaravalle gli scrivemmo una lettera di
fuoco per aiutarlo a riconsiderare la cosa. Devo dire che Federico accettò il
nostro richiamo e non intraprese nessuna iniziativa punitiva nei nostri
confronti.

Se non vado errato, ti sei occupata oltre
che di teologia, di politica, ecc., anche di scienza e di medicina.

Beh,
con le conoscenze del tempo, più che di scienza e di medicina, badavo al
rapporto che l’uomo, con le sue emozioni e con la sua razionalità, può avere
con la natura, perché questa è una preziosa alleata quando si tratta di guarire
dalle malattie. C’è un’energia vitale tra la creatura e il creato che sfugge a
un’esperienza empirica, ma che è profondamente vera e autentica in una
dimensione spirituale. Il rapporto, infatti, tra la persona e l’universo, è un
rapporto fondamentale che Dio stesso ha voluto. Bisogna aver cura quindi di ciò
che ci circonda. Il nostro pianeta, se trattato bene, saprà ridare il centuplo
all’uomo che ha nei suoi confronti un’attenzione tutta particolare.

Cara sant’Ildegarda, pur essendo tu una
figura di spicco del XII secolo, sei più modea di tanti nostri contemporanei.

Il
Signore, nella sua divina sapienza e benevolenza, fa in modo che le persone
considerate punti di riferimento per la loro vita cristallina non siano
soltanto ammirate da chi vive durante la loro epoca, ma siano esempio per ogni
tempo.

Sant’Ildegarda
di Bingen morì il 17 settembre 1179. Fu proclamata Santa a furor di popolo
quasi subito. Papa Giovanni Paolo II nella ricorrenza dell’ottocentesimo
anniversario della sua morte, la definì «la profetessa della Germania», una
donna «che non esitò ad uscire dal convento per incontrare, intrepida
interlocutrice, vescovi, autorità civili, e lo stesso imperatore Federico
Barbarossa». Alla santità del genio di Ildegarda, Papa Wojtyla fa cenno
nell’Enciclica sulla dignità femminile, Mulieris Dignitatem. Nel maggio
del 2012, Benedetto XVI l’ha proclamata Dottore della Chiesa.

 
Don Mario Bandera, Direttore Missio Novara

Mario Bandera




La speranza della chiesa non sta nei privilegi offerti dall’autorità civile | Rendete a Cesare (4)

«Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi le tasse, le tasse; a chi il rispetto, il rispetto» (Rm 13,7)

All’interno del contesto di fede, che emerge dalle puntate precedenti in cui abbiamo esaminato i testi biblici, si pone il problema del rapporto tra il potere politico/economico e l’ambito religioso e spirituale, rapporto che tocca sempre nervi scoperti, data la delicatezza e il rischio insito in esso, perché coinvolge la vita di ogni giorno che impone scelte e valutazioni. In questa puntata non possiamo quindi esimerci dal fare riferimento all’attualità e a quale deve essere l’atteggiamento interiore del credente, alla luce della Parola di Dio che, diversamente, rischia di restare astratta e avulsa dalla realtà.

Rito e vita sono indissolubili

L’individuo non vive sulle nuvole, ma sulla terra, dove nulla è così netto da spaccarsi con l’accetta, per cui è necessaria una vigilanza costante per non porre in atto un «sistema di confusione», una struttura di connivenze che, inevitabilmente, portano a gestire benefici e utili, smarrendo la dovuta coerenza. Non bisogna mai perdere di vista la parabola del grano e della zizzania (cf Mt 13,24-30) che «crescono insieme» fino alla mietitura; oppure la parabola della rete da pesca che raccatta ogni sorta di pesce, sia buono che cattivo (cf Mt 13,47-50).

Gesù nel vangelo non si stanca di invitare ed esortare alla «vigilanza» come condizione essenziale e previa dell’agire credente, sintetizzato nella massima riportata da Mc: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14,38). La debolezza della «carne» non è riferita alla sessualità, ma alla condizione umana in sé, alla fragilità dell’individuo e della struttura in cui vivono le persone e che inducono alla lussuria del potere che è la tentazione più satanica contro cui il credente deve combattere.

Nessuno può essere parcellizzato: in chiesa si è cristiani, nel partito si è politici, negli affari si è economisti e trafficanti, nel sindacato si è sindacali. Un individuo che è padre, e al tempo stesso figlio, amico, marito, impiegato, letterato, studioso, sportivo, volontario, non può vivere a compartimenti, ma è sempre lo stesso mentre svolge ruoli diversi. Purtroppo la realtà dei cristiani è diversa: essi separano volentieri gli ambiti della loro vita con il risultato che si ritrovano smembrati, divisi «dentro» se stessi, mentre dovrebbero essere un «tutto» in ogni istante della vita, senza distinzione di luogo, condizione e scelta.

Il battesimo consacra «figli di Dio», membri del popolo sacerdotale, profetico e regale: lo siamo realmente e lo siamo per sempre, anche quando ce ne scordiamo. Da questo dipende l’attendibilità nostra e di Dio perché se negli affari, nella politica, nel sindacato, nell’economia non portiamo il nostro «essere credenti», non serve a nulla «andare in chiesa»; anzi rischiamo di aggiungere peccato a peccato. Nello stesso tempo, non possiamo «stare in chiesa» come se questo luogo fosse avulso dalla vita che si snoda fuori, perché la preghiera e la fede senza la vita sono solo ritualità morta, droga dello spiritualismo che illude artificialmente.

O la vita dà contenuto al rito o il rito è solo scenografia che dura lo spazio di un sospiro. Ogni volta che celebriamo un’Eucaristia, compiamo l’atto più politico che esista al mondo perché diciamo che Dio si spezza come il pane e si offre come cibo, e del «Dio spezzato» noi siamo gli strumenti provvidenziali con cui si manifesta il volto di Dio, anzi la sua «immagine», che non è quella impressa sulle monete di Cesare, ma quella ben più intima e profonda del Dio creatore e padre.

Il vescovo di Recífe, dom Hèlder Cámara, un grande profeta del sec. XX, soleva dire: «Quando dico che bisogna aiutare i poveri sono un “santo”, quando dico perché esistono i poveri sono “comunista”». Se uno si limita a fare l’elemosina, magari coinvolgendo i ricchi, riciclatori ed evasori, ma senza interferire, tutti lo aiutano; se invece grida contro le ingiustizie che creano l’elemosina, contro l’evasione fiscale che ruba e depreda la collettività dei servizi primari (scuola, sanità, stato sociale), è facile che resti solo e sia tacciato di sovversivismo. Per molti cristiani, vescovi e prelati, spesso Dio è un alibi, un modo comodo per girarsi dall’altra parte e non vedere, come il sacerdote e il levita della parabola del Samaritano nel vangelo di Luca (cf Lc 10,25-37).

Quando il silenzio è complicità

Se si accettano i benefici economici (denaro, leggi su misura o peggio ancora leggi di scambio), non si può contestare lo stato o il governo di tuo, i quali hanno il diritto di emanare le proprie leggi e di pretendere che siano osservate. Lo stato può esigere obbedienza da chi usufruisce dei vantaggi della sua protezione (cf Rm 13,1-8; Tt 3,1-3; 1Pt 2,13-14). È quello che è successo in Italia negli ultimi venti anni: parte della gerarchia cattolica ha appoggiato governi e politici che sono stati (lo sono di natura) l’opposto della legalità, della moralità privata e pubblica come del «bene comune», pagando il prezzo di un silenzio assordante e l’allontanamento di molti credenti anche dalla fede. Non si può essere profeti e legati alla mangiatornia del potente, come i veggenti di corte combattuti dal profeta Amos nel sec. VIII a. C. (cf Am 7,10-16).

Persone di pensiero che non possono essere considerate «rivoluzionarie» e che hanno svolto funzioni e ruoli di prestigio all’interno della Chiesa cattolica, non esitarono, «voce che grida nel deserto», a parlare apertamente e ufficialmente di fronte «al silenzio dei vescovi». Il gesuita padre Bartolomeo Sorge, già direttore de «la Civiltà cattolica», la rivista quindicinale dei gesuiti italiani che nulla pubblica senza l’approvazione della Segreteria di Stato vaticana, direttore del «Centro Studi Pedro Arrupe» di Palermo negli anni ’80 del secolo scorso e ultimamente direttore della prestigiosa rivista «Aggiogamenti sociali» di Milano, stretto collaboratore di Paolo VI e della Cei per i convegni a cadenza decennale e uomo di grande prudenza, nel marzo del 2004 scriveva:

«Il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della situazione italiana non appare motivato. I vescovi non possono esimersi dall’illuminare le coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la Dottrina sociale della Chiesa dei programmi politici che nel Paese si confrontano. È sempre valido l’ammonimento di san Gregorio Magno: come “un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto” (in Regola pastorale, Lib. 2, 4; PL 77, 30)». (B. Sorge, Il silenzio dei vescovi sull’Italia, in «Aggiogamenti sociali», Vol. 55, n. 3, marzo 2004, pp. 161-166).

Consapevole che le sue parole sarebbero apparse forti se non dissacratorie alle orecchie degli interessati e delle persone pie di professione in qualche gruppo interessato perché connivente, egli fece ricorso all’appoggio di un vescovo e cardinale della statura e della caratura di Carlo Maria Martini, unica voce fuori del coro nel panorama della diaspora episcopale italiana. Egli il 6 dicembre 1995 (già nel millennio scorso!), in occasione della festa di Sant’Ambrogio, nel discorso alla città dal titolo C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare, disse testualmente:

«La Chiesa non deve tacere perché [in Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia. Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza».

Padre Sorge, forte di questo assist, espresse tutta la sua preoccupazione per la situazione esplosiva che si era prodotta in ambito ecclesiale.

«La necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Infatti, il silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere che tutti i modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente «democratici», si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente aderire all’uno o all’altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle singole scelte. Il sospetto che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici, si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia» (Sorge B., ivi).

Quale rapporto tra fede e politica?

Il cristiano, sia esso vescovo o semplice credente, vive nella prospettiva del Regno di Dio e sa che nella gestione delle realtà terrestri deve essere «prudente», senza cercare scorciatoie e protezioni o favori e raccomandazioni perché il suo agire è prova diretta del suo essere e della sua fede. Mai deve dimenticare che ovunque egli sta, porta sempre con sé «l’immagine di Dio», di cui è custode e responsabile.

Nessun governo sulla terra potrà mai essere «adeguato» alle esigenze del Vangelo, per questo il credente starà a casa sua all’opposizione di ogni potere come coscienza critica del diritto dei poveri e degli emarginati a partecipare alla condivisione della mensa sociale e civile della «polis». Se il credente si schiera con il «potere», qualunque esso sia, finisce per essere complice delle sue scelte e delle conseguenze che esse comportano. Ciò esige, come dice padre Sorge, profezia e lungimiranza e comporta la rinuncia ai privilegi e ai vantaggi importanti o anche irrisori che lo stato può garantire. In altre parole la separazione totale: non può esserci commistione e confusione di sorta tra la fede e la gestione immorale del potere politico ed economico.

Credere in Dio esige integrità di vita e trasparenza di pensiero che devono vedersi negli atti quotidiani e nelle scelte della vita. Su questo punto anche il magistero supremo della Chiesa, che si esprime nel concilio ecumenico Vaticano II, è inequivocabile. Insegna il concilio (sottolineature mie):

«Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell’esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre… la Chiesa… tuttavia non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (Gaudium et Spes, n. 76).

Pronti a rinunciare anche ai diritti

Il concilio invita a rinunciare addirittura ai «diritti legittimamente acquisiti» per non dare motivo di nessun dubbio o parvenza di privilegio. Oggi, invece, il privilegio è la norma e la rinuncia una chimera.

«Sembra proprio venuto il momento che la Chiesa cattolica recuperi la propria dimensione costitutiva, la dimensione escatologica. E ritrovi la forza della profezia, del coraggio, sradicando per sempre dal suo corpo quel male micidiale, il clericalismo, che ne corrode l’anima» (Svidercoschi G. F., Il ritorno dei chierici. Emergenza Chiesa tra clericalismo e concilio, Dehoniane, Bologna 2012, 10).

Queste parole hanno un peso più grave perché sono scritte da un giornalista, Gian Franco Svidercoschi, già vicedirettore de L’Osservatore Romano, coautore con Giovanni Paolo II del libro «Dono e Mistero» (1966) e autore del libro «Verso il 2000 rileggendo il concilio», commissionatogli nel 2000 dalla Santa Sede. Egli arriva a parlare «del progressivo decadimento di una certa classe episcopale, tanto nella dottrina quanto nel governo della pastorale» (Id., 27). Gli scandali che hanno coinvolto il Vaticano in questi anni, dallo Ior alla pedofilia fino alle dimissioni di papa Benedetto XVI, non solo sono sintomi, ma anche causa del degrado ecclesiale giunto ormai a livelli insopportabili.

È in questo contesto che deve essere letta la scelta di papa Francesco, «il papa venuto dalla fine del mondo», il quale con i suoi primi atti e gesti è stato eloquente e dirompente, per non dire «rivoluzionario»: non ha mai usato la «mozzetta rossa», residuo della «clamide rossa» (mantello) dell’imperatore romano che la usava come segno del suo potere regale. Rinunciando a essa, papa Francesco ha voluto distinguere il servizio del vescovo di Roma da quello del capo di stato, cioè del politico. Con un solo gesto ha detto al mondo intero: Cesare è Cesare. Dio è Dio. Vengo a voi come «immagine di Dio» non come potente tra i potenti.

Il Vangelo di per sé non pone un’opposizione tra «Cesare» e «Dio», né determina i confini tra le due sfere, né tanto meno dice che c’è una sfera d’influenza di Dio e una d’influenza di Cesare. Questo ragionamento è estraneo al pensiero di Gesù perché illogico: il regno di Dio, infatti, pur non confondendosi con il regno di Cesare, non è fuori dal territorio e dall’umanità su cui governa Cesare. Gesù non parla di separazione tra «stato e Chiesa»: questa è un’indebita conclusione estranea al testo, come se vi fossero due autorità equipollenti, distinte, ma convergenti che si dividono la torta umana. La parte spirituale alla Chiesa e la parte materiale allo stato, come si è tentato di fare nel Medioevo attraverso le investiture dei re da parte del papa, fino a quando Bonifacio VIII, nel giubileo del 1300, non pretese di assumere per sé le due funzioni (la teoria delle «due spade»).

Questo ragionamento è tipico di una concezione della società come «cristianità», in cui la visione teologica e la morale di una confessione religiosa diventano patrimonio esclusivo di quella società che le impone anche con la forza o con la semplice legge. È la prospettiva cristiana della vita e del mondo applicate alle realtà terrestri senza distinzione di sorta; in questo senso la Chiesa detta le regole e i laici le applicano come «braccio secolare» come si è manifestato nel regime di «cristianità» di stampo medievale, quando il potere religioso appaltava al potere politico parte dei propri compiti scellerati. Poiché il comandamento ordina: «Tu non ucciderai» (Es 20,13), l’Inquisizione non si sporcava le mani, ma appaltava le uccisioni al braccio secolare, così si ammazzavano lo stesso le persone, quasi sempre innocenti, ma non erano i preti a farlo materialmente. È il vero regno della confusione tra stato e Chiesa che storicamente tanti guai ha portato e alla Chiesa e allo stato.

In quanto cittadini credenti, noi abbiamo diritti e doveri che sono sanciti dalla Carta costituzionale e li dobbiamo esigere non perché credenti, ma perché cittadini. Essi, infatti, non sono una concessione benevola del governo di tuo. Al di fuori di ciò, dobbiamo essere attenti, come esige il Vangelo: se ci avvaliamo di un condono, significa che abbiamo compiuto un illecito e quindi ci collochiamo dentro un clima d’immoralità. In secondo luogo, diventiamo complici del degrado ambientale o sociale, anche se ne possiamo avere un beneficio immediato. Di conseguenza, non possiamo contestare il governo per immoralità o, in caso di disastro ambientale, gridare contro Dio o la fatalità, se per esempio abbiamo costruito abusivamente, violentando ambiente ed equilibrio ecologico. Se frodiamo il fisco, noi riduciamo i benefici dello stato sociale, rubiamo a noi stessi, alla scuola dei nostri figli, eliminiamo risorse per la sanità, e di conseguenza perdiamo il diritto di parlare di poveri e di stato inadempiente, né possiamo andare in piazza a gridare contro gli evasori perché saremmo complici.

La fede è esigente, perché impone la coerenza. Nella prossima puntata, termineremo questa lunga digressione sul rapporto tra «Cesare e Dio», riflettendo sul testo fondamentale della distinzione «Chiesa e stato» e che è Gv 18,36: «Il mio regno non è di questo mondo».

(continua – 4).

Paolo Farinella




Pedro Claver

Missionario gesuita spagnolo
originario della Catalogna, è il santo che maggiormente ha impressionato per il
suo apostolato in mezzo agli schiavi africani deportati nelle Americhe. È una
delle figure più straordinarie della prima evangelizzazione del Nuovo Mondo. Si
calcola che nella sua vita abbia battezzato più di 300 mila africani che,
strappati dalla loro terra, erano stati brutalmente riversati sulle rive del
continente scoperto da Cristoforo Colombo.

Pedro, sei una persona
eccezionale, un santo unico nel tuo genere, uomini come te sono rari e preziosi
per la testimonianza che danno ai cristiani di ogni tempo. Parlaci un po’ di
te.

Sono
nato a Verdú, una cittadina vicina a Lérida nella regione catalana del Regno di
Spagna, il 25 giugno 1581, da una famiglia di modeste condizioni. I miei
genitori volevano che conseguissi un titolo di studio per poter emergere nel
contesto della società del tempo.

Che scuole hai fatto?

Mi
iscrissi alle scuole che i gesuiti avevano aperto in diverse città della
Spagna, studiai materie umanistiche a Maiorca e mi laureai all’Università di
Barcellona, approfondendo filosofia e psicologia. Poi fui conquistato dal
carisma del nuovo ordine fondato da Ignazio di Loyola e, sull’esempio di
Francesco Saverio che era andato in India e in Giappone, decisi di farmi
missionario anch’io e di partire per i Nuovi Mondi che iniziavano allora a
essere conosciuti dagli europei.

Hai un ricordo particolare di quel
periodo?

Mentre
studiavo a Maiorca il frate portinaio del convento, fra’ Alfonso Rodriguez, un
mercante di Segovia rimasto solo per la morte di tutti i suoi famigliari, mi
indicò quale doveva essere la mia missione specifica, ovvero partire per le
Americhe. Egli incise profondamente non solo nella mia vita: con il suo modo di
fare umile e servizievole, divenne un maestro di spiritualità per tanti giovani
aspiranti gesuiti. La sua stanza era un’altra aula scolastica dove imparavamo
la spiritualità del servizio verso i più poveri e più bisognosi.

Una bella lezione di vita… e poi
come andò?

Completati
gli studi ed emessi i voti religiosi, fui mandato in America: nel 1610 sbarcai
a Cartagena, nell’attuale Colombia, in piena crescita tumultuosa e caotica.
Quella fu la terra che mi accolse e dove svolsi il mio apostolato per 44 lunghi
anni.

Cosa ti colpì di più della nuova
realtà?

Una
cosa terrificante, come un tremendo pugno nello stomaco, fu constatare di
persona come erano ridotti gli uomini dalla pelle nera, catturati in Africa e
venduti come schiavi nelle nuove colonie. Colpito da questo fatto, capii che
dovevo impegnarmi a vivere solo per queste persone, un proposito condensato nel
motto: «Aethiopum semper servus», totalmente a servizio degli «etiopi»,
come venivano chiamati a quei tempi quelli che provenivano dall’Africa.

Saresti in grado di definire
quanti schiavi arrivavano in un anno a Cartagena?

Alcuni
storici calcolano che nei secoli segnati dalla tratta degli schiavi siano stati
deportati circa 15 milioni di esseri umani. Si può dire che ai miei tempi a
Cartagena arrivavano ogni anno migliaia di schiavi africani ed erano quasi
tutti giovani, perché i razziatori non catturavano invalidi o vecchi, ma i
sani, i robusti dell’uno e dell’altro sesso.

Il
«lavoro infame» di razziare e catturare le persone nell’interno del continente
era fatto dagli arabi, di religione islamica, mentre comandanti ed equipaggi
delle flotte che trasportavano quei poveretti lungo la tratta atlantica erano
cristianissimi e cattolicissimi… Quando si tratta di far soldi le coscienze
sporche dell’una e dell’altra religione non vanno per il sottile!

In che cosa consisteva la tua
azione in favore di questi poveretti?

Quando
veniva segnalato l’arrivo di un carico di schiavi andavo loro incontro con una
mia barca in mare aperto e portavo loro cibo, soccorso e conforto e mi
guadagnavo così la loro fiducia, una cosa che mi risultava preziosa una volta
sbarcati e ammassati a Cartagena, dove potevo continuare a incontrarli e a
offrire quel poco di consolazione che potevo dar loro.

E come facevi per la lingua?

Radunai
delle persone che parlavano dialetti diversi, facendo così un gruppo di
interpreti di varie etnie che con il tempo diventarono anche dei validi
catechisti. Alla domenica soprattutto passavo gran parte della giornata con
loro, specialmente con i nuovi arrivati, andando incontro alle loro necessità e
cercando di difenderli, come potevo, dai loro oppressori.

Nel prenderti cura di queste
persone, che cosa ti stava più a cuore?

In
un ambiente pieno di sofferenza e disperazione, io davo loro speranza,
presentando loro la figura di Gesù di Nazareth. A gente che non aveva più
nulla, che aveva perso tutto, specialmente il rispetto degli altri uomini,
facevo presente quanto fosse importante non perdere la propria dignità.
Acquistai quindi la loro fiducia e molta gente incominciò a confidarsi con me e
ad avvicinarsi al Vangelo di Cristo.

Io
non lo so di preciso, ma alcuni calcolano che abbia battezzato più di 300 mila
persone, una cosa impressionante per i miei tempi, soprattutto se si calcola
che a questa gente il battesimo veniva dato dopo un cammino catecumenale e non
imposto con metodi coercitivi, come facevano gli hacienderos con gli
indigeni.

Com’era vista dai conquistatori
spagnoli
e dalle famiglie creole la tua
azione a favore di questi sfortunati dalla pelle nera?

Fui
accusato di tutto e di più: di azione incauta, di profanare i sacramenti, in
quanto li davo a creature che «a malapena possedevano un’anima» (sic!). Le
nobildonne di Cartagena si rifiutavano di entrare nelle chiese dove io riunivo
questi poveretti. Queste critiche, purtroppo, influenzarono anche alcuni miei
superiori. Ma io continuavo imperterrito per la mia strada, accettando pesanti
umiliazioni e aggiungendo penitenze rigorose per la buona riuscita delle mie
opere di carità. Sentivo dentro di me che quello che facevo rispondeva al piano
di Dio, che vuole la salvezza di tutti i suoi figli.

Nella tua azione in favore degli
schiavi eri solo o qualcuno ti aiutava?

Con
me c’era il padre Alonso de Sandoval, a cui va il merito di aver tenuto conto
per iscritto da quale porto dell’Africa erano partite le navi ed enumerato le
etnie che componevano il loro carico. Egli iniziò, e io continuai, a riscattare
alcuni schiavi di diverse lingue africane che furono di grande aiuto; un’azione
che oggi chiamano mediazione culturale.

Non ti venne mai in mente di
denunciare la schiavitù come qualcosa da abolire, perché contraria alla dignità
delle persone?

Questo
è un modo di travisare la storia: non si possono applicare i concetti di lotta
di classe agli schiavi dell’antica Roma; così pure non si possono applicare
alla mia epoca idee e concetti che sono andati maturando lungo i secoli
seguenti.

Durante
quel periodo non si facevano teorizzazioni dottrinali sul problema della
schiavitù, né denunce alle autorità per i soprusi che venivano compiuti. La
preoccupazione mia, di padre Sandoval e di altri missionari, era quella di una
totale dedizione nel quotidiano servizio agli schiavi, in un certo qual modo la
nostra era una vicinanza tesa molto più a ridare speranza e dignità che a
mettere in libertà gli schiavi.

Però in quel tempo si cominciò a
prendere coscienza dell’idea che nessun uomo potesse essere padrone di altri
uomini.

Altri
missionari avviarono il cammino della difesa giuridica degli schiavi e della
denuncia pubblica contro la schiavitù, Gesuiti, Domenicani e Cappuccini, a
Cuba, in Colombia e in Venezuela, cominciarono a denunciare con parole
durissime la schiavitù. Padre Francisco Josè de Jaca e padre Epifanio de
Moirans, scrivevano che «la schiavitù africana è ingiusta… i negri non
soltanto si rendono liberi ricevendo il battesimo; lo sono già prima per
diritto naturale. Non esiste solo l’obbligo di restituire loro la libertà, bensì,
in forza della giustizia, si deve pagare loro ciò che hanno perso durante la
schiavitù, il lavoro e i danni subiti…».

Queste prese di posizione che
influenza ebbero sulla società del tempo?

Il
Consiglio delle Indie ripudiò l’atteggiamento antischiavista dei due cappuccini
affermando che: «Senza la schiavitù dei neri le Americhe sarebbero condannate
alla rovina totale». Del resto negli Stati Uniti per abolire la schiavitù ci fu
bisogno di una guerra civile e l’ultimo paese latinoamericano che la abolì fu
il Brasile nel 1871, con la così detta «Lei do Ventre Livre», in cui non
si dava la libertà agli schiavi, ma a partire da quella data i figli degli
schiavi sarebbero nati liberi; successivamente, con la «Lei Aurea» del
1888, fu restituita la piena libertà a tutti.

Come sempre i privilegi dei più
forti prevalsero sui diritti e sulla dignità di milioni di esseri umani.

Una
logica ben radicata ai miei tempi ma non del tutto scomparsa nel vostro mondo:
con forme più sottili, la schiavitù sulle persone, la tratta degli esseri
umani, e purtroppo anche dei bambini, continuano ancora in questi giorni
nell’indifferenza generale di una società che si dice più avanzata, libera e
democratica di quella del mio tempo.

San Pedro Claver Corberó muore consumato dalla febbre e dalle
malattie l’8 settembre 1654, i suoi ultimi anni li vive offrendo la sua
condizione di persona debole e fragile al Signore per il riscatto dei suoi
figli africani. Viene canonizzato nel 1888 da Leone XIII insieme ad Alfonso
Rodriguez, il fratello portinaio di Maiorca che gli preconizzò il cammino che
doveva fare. È patrono delle missioni cattoliche tra i popoli dell’Africa nera
e degli afroamericani.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Carità? Per carità!

Due libri provocano un acceso dibattito sulla cooperazione: «L’industria
della carità» di Valeria Furlanetto e «La carità che uccide» di Dambisa Moyo.
Il primo, recentissimo, si riferisce alla cooperazione delle organizzazioni
no-profit, il secondo, del 2010, è critico sugli aiuti mandati da nazioni ed
enti inteazionali. Quando la cooperazione si riduce a carità» – non certo
quella evangelica – invece di far crescere può uccidere o mantenere nella
dipendenza.

La carità che non funziona

Feste
a base di alcol e musica cornol in mega-ville stile Califoia alle porte
di città africane martoriate dalla guerra, jeep che sfrecciano sugli sterrati
del Sud del mondo per portare i cooperanti dall’ufficio alla palestra e poi al
ristorante di lusso, bilanci non pubblicati o non trasparenti, donazioni che si
perdono per strada, milioni di euro spesi in marketing e pubblicità. E
ancora: volontari che strattonano vecchiette terremotate per trascinarle
davanti a una telecamera e farsi riprendere mentre le «aiutano»; offerte
investite in titoli azionari invece che inviate sul campo; bambini fatti
diventare magicamente orfani con un tratto di penna su un documento per darli
in adozione a ignare coppie nel Nord del mondo; organizzazioni no-profit
tramandate ereditariamente di padre in figlio come fossero aziende; manager
strapagati e accordi con i «cattivi» delle multinazionali. Il mondo della
beneficenza che Valentina Furlanetto descrive nel suo libro L’industria
della carità
, uscito nel gennaio 2013 e edito da Chiarelettere, assomiglia
più a un brutto cine-panettone che all’ambiente virtuoso dove opera «l’Italia
migliore che non teme il mondo», come l’ex ministro per la Cooperazione Andrea
Riccardi ha definito gli operatori della solidarietà internazionale al Forum di
Milano dello scorso autunno.

Criticato
ancora prima che uscisse, il libro è stato definito dai suoi (tanti) detrattori
«scientificamente inconsistente» (Stefano Zamagni, presidente della non più operativa Agenzia per il Terzo Settore), «un
pasticcio dove si mescolano tutto e il contrario di tutto» (Andrea Pinchera di Greenpeace),
«un’occasione persa» (Konstantinos Moschochoritis di Medici senza Frontiere),
solo per citare alcune opinioni. Che realtà anche molto diverse (Ong, onlus,
cornoperative, livello nazionale e internazionale, aiuti pubblici e privati)
vengano nel libro superficialmente sovrapposte e appiattite è un dato di fatto;
che lo stile dell’autrice tradisca a volte la volontà di polemizzare più che
quella di mantenere l’obiettività – tante lo occasioni in cui dice: «dovrebbe
essere così. Peccato che sia cosà» – è pure vero. Che alcuni dati
citati siano discutibili o approssimativi è indubbio. Infine, che a pagina 189
la lingua dell’Etiopia diventi l’aramaico (invece che l’amarico) fa perfino un
po’ sorridere.

Al
netto di questi tanti limiti anche chi scrive trova che il libro della
Furlanetto sia un’occasione persa, ma per motivi opposti a quelli dei critici
citati sopra: è un’occasione persa per fare autocritica. E per provare a
spiegare al pubblico come stanno le cose senza facili indignazioni, altezzosa
autoreferenzialità e quell’orribile linguaggio «sviluppese» che non solo è
sgradevole, ma anche incomprensibile ai più, vediamo in dettaglio alcuni punti.

Cose che il libro non dice

Furlanetto
non dice che il mondo del no-profit è tutto un magna-magna. Non
sono forse di cooperanti delle Ong (Viviana Salsi, Enrico Crespi, Silvana e gli
altri) le critiche più feroci al «circo umanitario» citate nel libro? Segno che
l’autrice sa che la solidarietà (o beneficenza, che però è tutta un’altra cosa;
ma su questo toeremo dopo) non consiste solo in sprechi, errori, distrazioni
di fondi, ma è fatta anche di persone e organizzazioni oneste e appassionate.
Di Medici Senza Frontiere, ad esempio, Furlanetto ricorda la serietà di cui
l’organizzazione diede prova, nel 2004, nel comunicare che i fondi raccolti per
lo tsunami avevano superato le capacità operative dell’organizzazione e
nell’offrire ai donatori di scegliere tra farsi restituire i soldi o dare
l’assenso perché fossero impiegati altrove.

Fatta
eccezione per questi contenuti, l’autrice non parla del buono e dà ampio spazio
al marcio. Ma il titolo del libro non è «Trattato sulla cooperazione», non ha
pretese di esaustività e analizza dichiaratamente un lato, o un volto, di un
fenomeno. Si trattasse anche di un Giano bifronte, se non di un poliedro a più
facce, resta chiaro che c’è almeno un altro volto e che, semplicemente,
Furlanetto non lo sta raccontando.

La
giornalista trevigiana, però, sembra sbilanciata (forse un po’ demagogicamente)
verso il lato dei piccoli donatori interessati a sapere che fine fanno i loro
soldi, mentre la sensazione è che la presenza di questo interesse da parte di
chi dona non sia sempre così scontata. Siamo sicuri che chi invia due euro via
sms dopo aver visto il viso sfigurato dal pianto di un bambino di Haiti voglia
davvero sapere, vedere, toccare con mano il fatto che quei due euro sono
diventati il riso che quel bambino sta mangiando? In Italia gli utenti iscritti
a Facebook sono ventidue milioni: possibile che chi è tecnologicamente
alfabetizzato abbastanza per scambiarsi battute su un social network con gli
amici non sia anche in grado di scrivere una mail a un’associazione per
chiedere conto dell’utilizzo dei fondi? Eppure non succede, o succede solo
molto di rado: perché? Perché spesso la solidarietà in Italia è appunto solo
carità (non nel senso usato nell’editoriale di MC 3/2013, ndr), se non
una mera reazione di pancia, non interessata a capire e conoscere quello che
sta attorno all’immagine del bambino che piange e come quell’attorno,
passaggio dopo passaggio, arrivi fino al nostro quotidiano, al carrello delle
spesa, al telefonino che compriamo, al mezzo con cui ci spostiamo.

La
misura del fallimento della solidarietà internazionale – italiana come estera –
non è solo nel saldo fra danno e utile nelle azioni compiute sul campo, ma
anche, e forse soprattutto, nei numeri irrisori di persone che le
organizzazioni sono state fin qui capaci di sensibilizzare e informare davvero.
Se ci fosse un modo semplice ed efficace per illustrare, ai donatori e al
pubblico in generale, come quello che scegliamo di comprare, mangiare, usare ha
conseguenze molto più ampie di quel che sembra e rischia di elidere i benefici
portati da una donazione, la solidarietà internazionale cambierebbe
radicalmente. Ma un modo semplice non c’è. Ed è proprio nella ricerca di un
metodo efficace che le organizzazioni di solidarietà internazionale si sono
miseramente arenate, cedendo invece a un marketing a volte pietistico
che nulla ha a che fare con lo sforzo di informare – «educare» è un termine di
cui preferiamo non abusare – l’audience esposta ai messaggi promozionali.

Cose che il libro dice

Furlanetto
parla di sprechi, di truffe e di cooperanti che in Italia pagherebbero duecento
euro per un letto in una stanza doppia alla periferia di una grande città e
invece sul campo hanno begli appartamenti con cuoco, servizio di pulizia,
autista e guardiano; di funzionari che parlano di «progetti che vendono», di
manager di Ong inteazionali che guadagnano quanto i loro omologhi delle
multinazionali, di colossi del profit che si lavano coscienza e immagine
collaborando con enti no-profit e di Ong che si prestano a questi
connubi sostenendo che in tal modo possono meglio controllare i «cattivi».

Che
faccia più notizia uno di questi eccessi di quanto lo facciano i progetti e le
realtà che funzionano non è nulla di nuovo; ciò non toglie che gli eccessi
esistano davvero e chiunque è stato nel Sud del mondo per più di una settimana
ha avuto modo di imbattersi in una o più di queste situazioni. Molte delle
critiche al libro utilizzano la formula: «È vero, la mala gestione esiste, ma
le cose che funzionano sono di più di quelle che non funzionano». Ma è anche
vero che ci sono tonnellate di campagne di promozione dei progetti e di
comunicati stampa che ci spiegano quanto bene operino le organizzazioni attive
nell’umanitario o nelle emergenze e quante belle cose facciano. Per questo le
bordate à la Furlanetto – ovviamente quando verificate, ben documentate
e equilibrate – controbilanciano quell’incensare se stesse in cui le
organizzazioni spesso finiscono per indulgere.

A
questo proposito, l’autrice insiste molto proprio sulla grande quantità di
risorse che vengono impiegate dalle Ong per marketing e promozione.
Furlanetto non è sola nell’avanzare perplessità. Il 43° World Economic Forum
di Davos, Svizzera, ha dedicato un approfondimento proprio al mondo delle Ong,
rilevando che queste appaiono sempre più perse nella burocrazia e sottolineando
che chi vince nella raccolta fondi è spesso non chi fa meglio il proprio lavoro
ma chi è più efficace nella comunicazione.

La carità che uccide

Ma
non è solo quello che non funziona che merita di essere dibattuto e il rischio
connesso alle discussioni provocate da L’industria della carità è quello
di spostare l’attenzione da temi che stanno un passo indietro (o un gradino
sopra) rispetto alla mala gestione, e cioè la riflessione sul perché, più che
sul come, della cooperazione.

Un
merito del libro della Furlanetto è quello di riprodurre in modo abbastanza
fedele il punto di vista del grande pubblico attraverso semplici scelte
lessicali: termini come «beneficenza», «carità», «generosità» e «aiuto» ci
dicono forse molto di più di quello che era nelle intenzioni dell’autrice e cioè
che nel nostro paese (e probabilmente anche all’estero) la solidarietà continua
a essere percepita più come un gesto di buoni sentimenti a senso unico che una
effettiva partecipazione a bisogni e assunzione di responsabilità che sempre di
più travalicano i confini nazionali e riguardano la comunità umana nel suo complesso.
Nei forum sulla cooperazione continuano a emergere in maniera sempre più
chiara una serie di dati di fatto che mettono in discussione il senso stesso
della cooperazione, se è vero che il più grande contributo al benessere dei
paesi del Sud del mondo viene dalle rimesse dei loro stessi cittadini emigrati
all’estero e che paesi un tempo beneficiari degli aiuti sono ora potenze
economiche in ascesa.

Non
solo. Non si era ancora spenta l’eco delle polemiche suscitate dal libro della
sociologa camerunese Axelle Kabou, E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?
– uscito in Italia nel 1995 e fortemente critico nei confronti delle élite e
delle popolazioni africane a suo parere responsabili del sottosviluppo quanto,
se non di più, dei paesi ex colonizzatori e delle istituzioni finanziarie
inteazionali – che l’economista zambiana Dambisa Moyo ha rincarato la dose
con il suo La carità che uccide.

Il
testo di Moyo, anch’esso criticatissimo, parte dalla constatazione che dopo
cinquant’anni di interventi e mille miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo
riversati sul continente nero dalle istituzioni inteazionali (Moyo non si
occupa di Ong) l’Africa sta peggio di prima e si chiede, quindi, se non sia il
momento di interrogarsi seriamente sul senso stesso di questo aiuto che ha
creato nazioni di mendicanti condannate a una perenne adolescenza economica.
Secondo l’economista zambiana, la via che l’Africa dovrebbe seguire per uscire
dalla dipendenza sarebbe quella di prendere esempio dalle economie emergenti
asiatiche, incoraggiare le politiche cinesi di investimento su larga scala in
Africa, battersi per una reale apertura al libero commercio in ambito agricolo,
promuovere la microfinanza, rendere meno costoso per gli emigrati l’invio delle
rimesse e riconoscere agli abitanti delle baraccopoli il titolo di proprietà
legale sulla casa in modo che questa possa essere usata come garanzia. Kabou e
Moyo concentrano la loro attenzione sull’Africa; ovviamente Asia e America
Latina meriterebbero una trattazione a parte dei loro problemi specifici.
Tuttavia, molte delle riflessioni sulla dipendenza creata dagli aiuti e sulla
differenza fra carità e giustizia valgono anche per continenti diversi
dall’Africa.

Ben
vengano i dibattiti provocati da libri che raccontano storie di mala
cooperazione. Quella di una comunità umana con legami sempre più inestricabili
che vive drammi globali tangibili per tutti, però, è un’altra storia e non si
racconta né si fa con un sms.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Egitto: Prima e dopo la primavera araba

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 11

Secondo le ricerche del Pew Forum è uno dei paesi al mondo in
cui maggiormente viene violata la libertà religiosa. L’Egitto ha fin dalle sue
origini modee una grande difficoltà a risolvere il conflitto tra potere
statale e potere religioso. La cosiddetta primavera araba ha sparigliato le
carte sul tavolo dando maggiore peso alle autorità religiose e alla sharia. Ma
tutto è in movimento. 

Chiunque voglia iniziare a
occuparsi di Egitto si renderà immediatamente conto che non potrà non
considerare il fattore religioso. La società egiziana in patria e in
emigrazione (ad esempio la comunità egiziana in Italia) ne è profondamente
intrisa, e questo non riguarda solo i musulmani.

In Egitto circa il 90% della popolazione è costituito da musulmani
sunniti, l’1% da musulmani shiiti, l’8-12% da cristiani, in maggioranza della
Chiesa ortodossa copta, e il restante da altre minoranze, tra le quali i
baha’i  e gli ebrei (questi ultimi
stimati dall’Inteational Religious Freedom Report stilato dal
Dipartimento di Stato degli Usa in meno di 200 individui nel 2008, e in circa
100 nel 2012).

Per quanto riguarda la comunità cristiana, nonostante la Chiesa
copta ortodossa ne rappresenti la maggioranza, è importante considerare la
presenza di altre chiese: quella cattolica (con le sue sette denominazioni:
copto-cattolica, greco-melchita, maronita, siriaca, caldea, armena e latina),
quella greco-ortodossa, e quelle anglicana ed evangelica. Uno dei problemi
posti dalla predominanza della Chiesa copta ortodossa, messo in evidenza da
Michael Fitzgerald, ex presidente del Pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso, oggi nunzio apostolico al Cairo, è il fatto che le autorità,
sia quelle del precedente regime che quelle dell’odierno governo, tendono a
vedere tutti i cristiani come copti e a considerare il loro papa Tawadros II
come loro unico rappresentante.

Altra questione posta dalle minoranze religiose riguarda la
presenza di comunità non riconosciute che si trovano private della maggioranza
dei diritti. Il caso più eclatante è quello della comunità baha’i, che a
partire dagli anni Sessanta è stata disconosciuta e interdetta, le sono stati
confiscati tutti i beni, con l’ovvia conseguenza dell’impossibilità di
costruire o mantenere propri luoghi di culto.

Secondo Elisa Ferrero, giornalista freelance, profonda
conoscitrice del contesto religioso egiziano, che abbiamo sentito proprio sul
tema della libertà di religione in Egitto, «la nuova costituzione ha radicato
l’esclusione di altre religioni. Paradossalmente ha riconosciuto maggiormente i
cristiani, dando alla Chiesa ortodossa copta la prerogativa di decidere su
alcune questioni come la famiglia, i matrimoni, l’eredità. Questo non è
piaciuto a molti cristiani che preferiscono invece uno stato laico in cui sia
effettivamente garantita la libertà di credo di tutti».

La libertà
religiosa prima della primavera araba

Gianluca Parolin, costituzionalista italiano e professore di
diritto comparato presso l’Università Americana del Cairo ci offre
un’interessante analisi della libertà religiosa in Egitto dal punto di vista
giuridico. Nel suo articolo La libertà religiosa nell’Egitto post coloniale
descrive la relazione tra politica e religione in Egitto dalle sue origini
modee a oggi, e le principali questioni (nella maggior parte dei casi ancora
aperte) relative alla libertà religiosa. Lo studioso sostiene che la stessa
creazione dell’Egitto moderno – la quale coincide con l’affermazione di
un’autorità politica il cui controllo si estende al di là dell’ambito
precedentemente ricoperto, e che «progressivamente circoscrive, assedia,
penetra ed espugna il dominio dell’autorità religiosa, incidendo in tal modo
assai profondamente sul fenomeno religioso stesso» – potrebbe essere
ricostruita seguendo la ri-articolazione dello snodo tra fenomeno religioso e
autorità politica nei decenni.

Da Muhammad ’Ali (1769-1849), colui che è ritenuto il fondatore
dell’Egitto moderno, fino alla rivoluzione del 1952, infatti, sono stati erosi
gli spazi di autonomia della religione, ed è stato delineato un sistema
giuridico con aspirazioni esclusive, ma dalla natura plurale.

Tra l’inizio dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, in
particolare, la relazione tra autorità politica e fenomeno religioso in Egitto
ha subito, secondo lo studioso, tre ri-articolazioni fondamentali. La prima ha
riguardato l’introduzione della gestione centralizzata delle fondazioni pie (waqf)
che ha sottratto alle autorità religiose l’indipendenza economica
trasformandole in «salariate» dello Stato. La seconda ha colpito la giurisdizione
dell’autorità religiosa con la creazione di giurisdizioni concorrenti che hanno
limitato l’area d’influenza del diritto confessionale. La terza ha coinvolto il
contenuto del diritto confessionale attraverso forti incursioni dell’autorità
politica, primo tra tutti nel diritto di famiglia.

La rivoluzione del 1952 ha infine portato a compimento il processo
cominciato nell’Ottocento.

Nella sua analisi Parolin evidenzia come nella seconda metà del
Novecento «l’autorità politica estende significativamente il suo controllo sul
fenomeno religioso con due operazioni di grande impatto»:

1) la giurisdizione dei giudici religiosi viene accorpata nel
sistema di tribunali statali, diventando una sezione specializzata dei
tribunali civili dello stato (pur mantenendo invariato il personale e il
diritto sostanziale applicato);

2) lo stato nazionalizza l’università al-Azhar, la maggiore
istituzione di formazione religiosa, disponendo che lo shaykh al-Azhar,
il suo vertice, venga nominato con decreto presidenziale e ridisegnando
l’impianto stesso della formazione offerta.

Primavera
Araba, trasformazioni religiose?

La situazione descritta è rimasta più o meno stabile fino agli
eventi del gennaio 2011 e alle dimissioni di Mubarak.

Diverse fonti sono concordi nell’affermare che la «rivoluzione»
egiziana sia stata portata avanti da forze diverse e che nelle proteste di
piazza Tahrir si respirasse un generale senso di unità e di orgoglio di essere
egiziani, prima che cristiani o musulmani, moderati o fondamentalisti.
Cristiani e musulmani erano insieme, «una sola mano», come titola Elisa Ferrero
il suo bel libro che descrive i giorni caldi della rivolta.

La «rivoluzione» del 25 gennaio non ha però assunto tra i suoi
temi la questione della libertà religiosa, e molti dei nodi irrisolti si sono
riproposti nei mesi successivi, soprattutto con la polarizzazione elettorale
(sia per le elezioni parlamentari sia per quelle presidenziali).

Sono due in particolare – riprendendo ancora Gianluca Parolin – le
questioni ancora aperte che continuano a generare tensioni interconfessionali:
la disciplina delle conversioni e quella degli edifici di culto non musulmani.
Per quanto riguarda il primo punto, la questione riguarda, ad esempio, i copti
ortodossi che si convertono all’islam per aggirare la severità del diritto di
famiglia copto ortodosso. Papa Shenouda, nel 2008, aveva infatti ridotto le
nove condizioni per divorziare, previste dalla legge del 1938, al solo
adulterio, spingendo molti copti alla conversione (a volte temporanea)
all’islam, per essere così in grado di annullare il proprio matrimonio. Tale
pratica ha causato spesso tensioni settarie anche gravi. Per quanto riguarda i
luoghi di culto non musulmani, da una parte l’art. 46 della Costituzione
egiziana impone «dieci condizioni» difficilmente rispettabili per la
costruzione, dall’altra la riluttanza e la discrezionalità delle autorità a
concedere l’autorizzazione, anche in presenza delle condizioni, rende il
rispetto della normativa rarissimo: la creatività dimostrata nell’aggirarla
pone, secondo Parolin, le comunità non musulmane nell’illegalità, e le espone a
rappresaglie che ciclicamente culminano in scontri con vittime e luoghi di
culto incendiati.

Oltre alle questioni legate ai «due nervi scoperti del sistema»
appena analizzati, nel dibattito pubblico dopo il 25 gennaio 2011 sono state
costanti le discussioni sul ruolo dell’islam nella vita pubblica egiziana e sul
ruolo dello stato nel fenomeno religioso. La prima delle due ha fortemente
polarizzato i processi referendari ed elettorali e si è riproposta anche in
occasione della stesura della «nuova» Costituzione. L’accesa campagna
referendaria, infatti – sempre riprendendo le analisi di Parolin – «non è stata
condotta se non sul rapporto tra islam e stato», con particolare riferimento all’art.
2 della Costituzione del 1971: «L’islam è la religione dello stato, l’arabo la
sua lingua ufficiale e i principi del diritto musulmano la fonte principale
della legislazione», anche se il pacchetto di emendamenti sottoposto a
referendum verteva su altro. Dopo il voto referendario pare che l’art. 2 sia
scomparso dal dibattito pubblico e tutte le successive bozze di Costituzione lo
hanno mantenuto fondamentalmente invariato. Questo anche perché l’art. 2 «gode
– secondo Parolin – di quella caratteristica ambiguità che fornisce alle
previsioni costituzionali di compromesso una lunga tenuta» avendo in sé diverse
possibili interpretazioni.

La polarizzazione ideologica riscontrata nella campagna per il
referendum pare essere stata presente anche nel lungo processo di elezione dei
due rami del parlamento e nelle elezioni presidenziali.

Per quanto riguarda il ruolo dello stato nel fenomeno religioso
significativo è stato il dibattito sulla riforma dell’università al-Azhar. La
sua nazionalizzazione aveva segnato l’apice della penetrazione del potere
politico nel campo religioso, oggi la Costituzione stabilisce l’indipendenza di
al-Azhar e prevede che essa revisioni tutte le leggi prima della loro
promulgazione, per controllare che non siano in contrasto con la sharia.

Il Dialogo
Interreligioso

Il 18 novembre 2012, la Chiesa copta ortodossa egiziana ha
ufficialmente insediato il suo nuovo pontefice, Tawadros II, che si trova ad
affrontare come prima sfida il confronto con l’islam politico al governo.
Proprio per questo, poco dopo la sua elezione, papa Tawadros ha dichiarato di
voler servire l’interesse del paese intero ponendo l’accento sul dialogo e
l’unità nazionale, considerando se stesso, innanzitutto, un cittadino egiziano.
Egli ha inoltre espressamente affermato di voler privilegiare il ruolo
spirituale della sua Chiesa, con particolare attenzione all’educazione dei
giovani. Così facendo è parso abbracciare la posizione di chi vuole il ritiro
della Chiesa dalla politica. Al tempo stesso, però, ha anche ribadito che i
cristiani si aspettano il pieno rispetto dei loro diritti.

Per quanto riguarda le altre Chiese cristiane, poi, proprio
quest’anno, al termine della Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani a
gennaio, è nato il Consiglio nazionale delle Chiese di cui fanno parte tutte le
cinque confessioni dell’Egitto. L’idea è che il consiglio possa contribuire a
rafforzare l’unità tra i cristiani, a lottare su alcuni temi comuni, e ad
affrontare discriminazioni e violazioni di diritti.

In conclusione possiamo dire che, se da un lato la situazione
della libertà religiosa in Egitto non ha subito grosse trasformazioni a livello
legislativo con il nuovo governo e la nuova Costituzione, dall’altro è vero che
a livello di società civile qualcosa si sta muovendo. Elisa Ferrero riconosce
infatti come «sia un po’ caduto il tabù della religione, e ci siano maggiori
confronti aperti sul tema delle minoranze (riconosciute e non) e dell’ateismo».

Viviana Premazzi
 
«Centro Culturale Tawasul»

«Il Centro culturale Tawasul è una piccola associazione nata
al Cairo nel 2006, su iniziativa di un gruppo di musulmani laici
(intellettuali, professori universitari, artisti, giudici, giornalisti, ecc.),
con lo scopo di creare uno spazio di incontro per la conoscenza reciproca fra
Europa e mondo arabo, musulmani e cristiani, che privilegiasse la relazione
diretta tra individui, piuttosto che quella tra istituzioni. Il termine arabo
Tawasul, impossibile da tradurre in italiano con una parola sola, ben esprime
l’idea ispiratrice del Centro. Esso riassume in sé, infatti, il significato di
una «continua comunicazione attraverso una relazione di amore».

Il 28 e 29 ottobre 2010, Tawasul ha ospitato il Meeting del
Cairo, un’edizione egiziana del Meeting di Rimini. Il risultato più importante
dell’incontro è stato il coinvolgimento di centinaia di giovani volontari
egiziani, musulmani e cristiani di ogni denominazione, che hanno lavorato
insieme per giorni. L’esperienza di dialogo e condivisione non si è fermata con
la fine del Meeting, ma è proseguita fino agli eventi del gennaio 2011, poiché
gli organizzatori e i volontari avevano deciso di continuare a incontrarsi
regolarmente per discutere insieme dei problemi della società egiziana e
sviluppare iniziative per contribuire alla loro risoluzione.

In seguito agli attentati contro le chiese copte di
Alessandria d’Egitto del Capodanno 2011 il Centro ha chiesto ai suoi membri e
ai volontari del Meeting del Cairo di indossare qualcosa di nero in segno di
lutto, quindi ha domandato a ciascun volontario musulmano di visitare una
chiesa del proprio quartiere per porgere le proprie condoglianze, come gesto
visibile di solidarietà. Pochi giorni dopo l’attentato, è stato poi organizzato
un concerto di musica sacra, musulmana e cristiana insieme, in segno di
riconciliazione, e alcuni suoi membri hanno partecipato alla messa di Natale
del 6 gennaio. Infine, il giorno 7 gennaio, subito dopo la preghiera del venerdì,
Tawasul ha organizzato una breve dimostrazione sul piazzale della moschea della
Luce del Cairo, occupando quel luogo in silenzio, per breve tempo, per impedire
le consuete arringhe contro i cristiani, tenute da fanatici che spesso prendono
la parola dopo la funzione.

I responsabili del Centro sono convinti che la lotta contro
il terrorismo e il fanatismo religioso non si gioca soltanto sul piano politico
e della sicurezza, ma soprattutto e fondamentalmente sul piano culturale. Molti
in Egitto l’hanno capito e stanno agendo in tal senso, meritando tutto il
nostro appoggio e la nostra collaborazione. Queste persone hanno principalmente
bisogno di visibilità e occasioni per far sentire la propria voce, poiché
troppo spesso le società civili dei paesi arabi vengono fatte scomparire dai
mezzi di informazione che prediligono la cronaca degli eventi che dividono,
nonostante siano proprio le società civili a lottare quotidianamente contro i
profeti dello scontro di civiltà». 

Tratto da Qualcosa di nero in segno di lutto di Elisa
Ferrero.

 

Viviana Premazzi




Amico

Caro Amico
L’editoriale

Chiamata
in causa esplicitamente con i suoi precisi riferimenti biblici
(Genesi 1) o in modo indiretto, la Creazione riecheggia nelle pagine
che seguono come uno dei temi principali di questo numero estivo di
amico.

Come
animali di piccola taglia che, loro malgrado, hanno dovuto cedere al
letargo invernale, siamo felici di mettere il muso fuori dalla tana
per scoprire qual è il magnifico lavoro che la primavera, insieme al
Creatore, ha preparato per l’esposizione alla luce calda del sole.

Quanti
di noi durante le settimane che verranno avranno la grazia di
lasciare smarrire lo sguardo sui prodigi plasmati dal Creatore?
Qualcuno partirà per visitare la Creazione nel suo «lato Sud», nei
volti scuri di altri paralleli e meridiani. Qualcuno parteciperà
all’evento ecclesiale giovanile più intenso degli ultimi due anni,
dalla passata edizione della Gmg di Madrid, volando fino a Rio per
incontrare il papa insieme alle meraviglie lì operate in lingua
portoghese dal Signore. Qualcuno rimarrà dove si trova, e anche là
avrà l’occasione per far emergere dalla sua quotidianità la
bellezza celata e sempre in attesa di essere svelata: anche la
Creazione quotidiana, lontana dagli eventi «notiziabili», è
Creazione amata, e amabile.


Chissà
che durante questi mesi non venga maggiormente a galla di fronte allo
sguardo di alcuni di noi anche il lato impoverito della Creazione:
oltre ai sorrisi festanti dei bambini africani, anche i meccanismi
d’ingiustizia che soffocano i sorrisi dei loro genitori, oltre
all’entusiasmo dell’abbraccio di massa sotto il Cristo Redentore
di Rio, anche lo sfinimento delle favelas o delle foreste
latinoamericane rasate a zero.

Il
20 di questo mese festeggiamo la nostra fondatrice, Maria Consolata.
Invocata con l’appellativo di Guadalupe in America Latina, è la
medesima mamma che viene consolata da suo figlio e che consola
portando Lui a chi – a volte senza saperlo – ne ha bisogno.

Consolato,
porta consolazione anche tu, con le tue fatiche e la tua limpidezza.
In qualsiasi angolo di questa meravigliosa opera modellata dalle Sue
dita, sei atteso. Parti.

Luca
Lorusso

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Luca Lorusso