Pillole «Allamano» 3: una religione che rende felici qui  


3. Amate una religione che vi offre le promesse di un’altra vita e vi rende più felici sulla terra. Se una pillola non aiuta a star bene, perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio vale anche per le pillole dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere perlomeno convinti del loro effetto benefico. La bontà di un prodotto va certificata con tanto di risultati. La pillola di questo mese parla di felicità, il fine ultimo del cammino esistenziale di ognuno. Tutti gli uomini desiderano la felicità e si sforzano di raggiungerla, anche se molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso. Esiste davvero una pillola che aiuti a essere felici, visto e considerato che molte persone non si possono, oggi, dichiarare certamente tali?


Colui che crede dovrebbe avere una risposta pronta da offrire, una soluzione in grado di soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e pronta per essere condivisa con tutti: il cammino di fede fa dire al credente che la meta agognata non può essere altri che Dio, che è lui la vera felicità. Il desiderio di Dio, per il cristiano, è scolpito a chiare lettere nel cuore dell’uomo, e Dio, da par suo, non smette un secondo di attirare a sé la sua creatura, proprio perché la vuole felice.

Chiaramente ci si trova di fronte a una difficoltà: se Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che tutti gli uomini siano felici, perché, di fatto, la cosa non si verifica? In effetti, il cristiano è convinto che non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere Dio-felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per ricevere tale regalo, l’uomo deve collaborare attraverso delle scelte che gli permettano di aprirsi alla grazia, dono gratuito di Dio. L’azione umana non è l’unica né la principale causa del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto. Questa, in poche parole, è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa la Chiesa in materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti analizza il fenomeno della «perdita del sacro» che colpisce la cristianità in generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro ai quali si rivolge, una religione dal cielo «vuoto», che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del mondo ha fatto perdere all’uomo la fiducia nella possibilità di un Dio trascendente, totalmente altro. Se Dio è felicità, secondo Galimberti, da questa felicità il mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha rescissa dalla propria storia.

Dire che la felicità risiede in Dio a un interlocutore che da Dio si è separato potrebbe significare iniziare un dialogo tra sordi che non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle catechesi e delle omelie che ascoltiamo, o dei contenuti religiosi che portiamo nelle nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato dall’alto come una verità che è inoppugnabile per chi crede, ma che lascia invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei casi, completamente indifferenti.

La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico, con un approccio pedagogico «dal basso», che tiene conto delle persone e non solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non è propriamente «farina del suo sacco», ma ha bensì un’origine addirittura papale.

La frase contenuta nella pillola di oggi, è stata scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del Kenya, datata 2 ottobre 1910. In quella lettera l’Allamano ricordava che se desideravano conseguire frutti dovevano far sì che il loro lavoro fosse: perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui di grande approfondimento, mentre è proprio a proposito dell’ultima caratteristica che il fondatore ci offre la sua pillola.

L’accento è posto sul metodo missionario: l’Allamano vuole che esso parta da un contatto ravvicinato con la gente, con i suoi bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione con il Decreto di approvazione da parte di Propaganda Fide e con le parole benedicenti di papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera citata. Con le sue parole, lodando e approvando il metodo missionario dell’Istituto, il pontefice esprimeva il seguente concetto: «Bisogna degli indigeni fae tanti uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre le promesse d’altra vita, li rende più felici su questa terra». Più felici su questa terra: prima di fare il cristiano occorre fare l’uomo, un uomo «laborioso», capace di apprezzare i «benefici della civiltà» ed essere quindi anche attratto all’amore della fede.

Un approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è quello della testimonianza. I cristiani sono chiamati a essere testimoni della loro fede come possibilità per vivere una vita felice. Come scrive Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, nel suo saggio Le vie della Felicità. Gesù e le beatitudini (Rizzoli, Milano 2010): «Noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?».

Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice dello stile di vita incarnato da Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela di Cristo è esigente, significa passare per la porta stretta e abbracciare la croce che può assumere, nel concreto, diversi aspetti: servizio, sofferenza, impegno radicale e senza compromessi, persino martirio. Ciononostante, le beatitudini, la Magna Charta del cristiano, sono, in sé, una vera e propria chiamata alla felicità.

In una società come la nostra dove l’indifferenza e il relativismo esprimono una chiara mancanza di senso nei percorsi esistenziali delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza la propria vita, nella ricerca di un perché capace di illuminare di senso il nostro agire, vivere e morire, e, una volta realizzato, portare quindi alla felicità.

Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà a essere felici. È il livello della consolazione, del mettersi, cioè, a fianco e camminare con coloro che sempre rimangono ai margini, attardati a causa del peso di esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità di fronte a qualcuno che vive una «vita di scarto» o si sente in cuor suo di sprecare la propria esistenza? Eppure sono proprio queste le persone che esigono un inizio di felicità già su questa terra. Lo esige il senso di giustizia che sta alla base di una vita serena, pacifica e, di conseguenza, felice. Il povero che non riesce a uscire dal ciclo di miseria in cui è entrato, il malato che si scontra con l’impossibilità di curare la sua infermità o di lenire la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il nodo che gli attanaglia il cuore, non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro, di ripetersi «piove sempre sul bagnato».

La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare l’impegno del cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le persone che soffrono.

La pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come placebo. Papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato molto in sintonia con questo approccio e ha pubblicato la sua prima Esortazione apostolica intitolandola «Il Vangelo della gioia». Il cristiano deve essere un uomo gioioso, felice della sua scelta, della sua vocazione e del sì detto senza ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa vita e testimoniata nel quotidiano, diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi invece aveva ormai perso la speranza di ritrovare una ragione per andare avanti.

Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il «sì» da noi dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di essere felici grazie al benessere, alla possibilità di pagare occasionali momenti di beatitudine sta venendo meno giorno dopo giorno. La crisi che l’Europa (e non solo) sta attraversando mette a dura prova la pretesa di poter eternamente difendere a costo zero l’agio e il benessere costruiti in questi anni.

Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per questo mese ci invita invece a scoprire, con le persone che incontriamo, che la felicità si costruisce insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella cattiva sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio di sole alla volta, fino a ottenere la previsione di una giornata finalmente serena.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Sant’Isidoro e la beata Maria Toribia

Isidoro nacque nei pressi di Madrid verso il 1070. In
giovane età lasciò la casa patea per andare a lavorare nei campi al servizio
di alcuni proprietari terrieri. In quel periodo parte della Spagna era soggetta
agli Almoravidi, musulmani berberi originari del Marocco. Quando questi
conquistarono Madrid, Isidoro si rifugiò a Torrelaguna dove conobbe e sposò la
giovane Maria Toribia. La loro unione fu caratterizzata dall’attenzione verso i
poveri, con i quali condividevano la loro casa, il loro cibo, i loro averi.
Isidoro morì il 15 maggio 1130 e venne canonizzato il 12 marzo 1622 da Papa
Gregorio XV, mentre Maria Toribia venne proclamata Beata nel 1697 da Papa
Innocenzo XII.


La vita di questi due sposi, laici illetterati dalla fede
adamantina, elevati agli onori degli altari e dichiarati – a furor di popolo –
patroni dei raccolti e della gente dei campi, si può riassumere in tre verbi:
lavorare, pregare, donare. Un programma di vita attualissimo ancora oggi.

Fa un po’ meraviglia
vedere due semplici laici – per giunta marito e moglie – con l’aureola della
santità, dato che da secoli siamo abituati a vedere figure di santi che sono
per lo più suore, monache, frati, sacerdoti, Vescovi e Papi. In genere i laici
venerati come santi lo sono in quanto martiri. Spiegateci come avete guadagnato
questa fama di santità pur vivendo come degli umili contadini?

Isidoro
e Maria Toribia:
La santità non consiste nel fare
grandi cose, ma nel fare in modo grande le piccole cose di ogni giorno. Noi
abbiamo cercato di fare sempre la volontà di Dio, vivendo con gioia la fede in
Cristo nella vita quotidiana.

A me risulta che
pregavate molto durante le vostre giornate.

Isidoro: È
vero, io passavo molto tempo in preghiera, non saprei quantificare le ore e i
minuti in quanto durante la mia epoca ci si regolava, specialmente nel lavoro
dei campi, con la luce del sole. Questo mio modo di fare ha suscitato l’invidia
degli altri lavoratori, i quali sono andati a dire al padrone bugie e
maldicenze sul mio conto: che avevo poca voglia di lavorare, che perdevo tempo
e guadagnavo il pane alle spalle delle loro fatiche.

Maria Toribia: Io ero piuttosto tiepida nella preghiera, ma vedendo il fervore di
Isidoro, ho capito che era mio dovere imitarlo. E devo dire che proprio
cominciando a pregare insieme abbiamo superato tante avversità, la più grande è
stata la perdita dell’unica creatura nata dalla nostra unione. Quando nostro
figlio è morto in tenera età, la sola consolazione l’abbiamo trovata proprio
nella preghiera.

Ai vostri tempi la
Spagna era in gran parte occupata dagli Almoravidi che erano di religione
islamica. I proprietari terrieri per i quali lavoravate erano anch’essi
musulmani?

Isidoro e Maria Toribia: Abbiamo lavorato sotto diversi padroni, quindi anche con dei padroni
che appartenevano a un’altra religione. Nella mia epoca, come dici tu, gli
Almoravidi dominavano la Spagna, essi erano una dinastia musulmana nordafricana
nata nell’undicesimo secolo ed era all’origine un movimento religioso di tipo
riformista che si era propagato fra le tribù berbere conquistando in pochi
decenni il Nord Africa e parte della Spagna. Il vasto impero almoravide però è
durato meno di un cinquantennio, fino all’apparizione degli Almohadi, che nel
1147 hanno conquistato parte dell’Africa mediterranea e i domini iberici.

Sotto di loro non
avevate problemi per la vostra vita cristiana, il culto o la pratica religiosa?

Isidoro e Maria Toribia: Assolutamente no, c’era da parte di tutti una grande tolleranza. Come
sempre, le cause delle guerre che si sono succedute, checché se ne dica, erano
più legate a conquiste territoriali per ampliare i propri possedimenti e
presentarsi così come dei grandi sovrani con molta terra e con molti popoli al
loro servizio.

Come praticavate la
vostra fede?

Isidoro
e Maria Toribia:
Ogni giorno partecipavamo alla
Messa mattutina e durante la giornata, in casa come nei campi, spesso
lasciavamo il lavoro per passare qualche momento di intimità con il Signore in
preghiera. Nonostante queste pause il risultato della nostra fatica era né più
né meno consistente di quello dei nostri compagni: tanti campi aravano loro,
tanti ne aravamo noi, tanti covoni mietevano loro, tanti ne mietevamo noi.
Qualcuno addirittura azzarda che grazie alla nostra vita di preghiera gli
angeli si sostituissero a noi nel lavoro dei campi.

Ho letto su di voi
queste cose: eravate molto caritatevoli verso i più poveri, ma i risultati
ottenuti non si spiegavano con la sola vostra capacità di lavoro. Attraverso la
vostra vita umile e semplice avvenivano dei miracoli.

Isidoro: Dicono anche che mentre trasportavo sulle spalle un sacco di
grano con il fondo bucato, i chicchi cadevano sulla neve, una vera manna per
gli uccellini nella stagione invernale. Arrivato al mulino, chissà come, il
sacco non aveva buchi ed era prodigiosamente pieno.

La
vostra epoca era caratterizzata da grandi condottieri come Alfonso VI il Bravo,
Re di Castiglia e di Leon che conquistò tante città; come Yusuf ibn Tashufin,
capo degli Almoravidi musulmani che sconfisse Alfonso incorporando ampie zone
della Spagna nel suo impero Nordafricano; come il condottiero dei condottieri,
Ruiz Diaz de Bivar, detto el Cid Campeador.

Isidoro
e Maria Toribia:
Noi non avevamo né spada né
cavallo. Quando aravamo la terra utilizzavamo i buoi del padrone e vicino casa
avevamo gli animali da cortile, come tutti i contadini. Quando vedevamo passare
questi cavalieri per andare a combattere, ci prendeva lo sconforto al pensiero
di quanti giovani avrebbero lasciato la loro vita sui campi di battaglia per
gli interessi di qualche potente.

Voi avevate un
rapporto ideale, quasi mistico con la terra. Ed è proprio questo amore
viscerale alla vita dei campi che fa di voi persone con molte cose da dire agli
uomini d’oggi.

Isidoro
e Maria Toribia:
Pur essendo dei semplici salariati,
contadini cioè che lavoravano la terra di un padrone, ricavavamo dalla terra ciò
che era necessario per vivere. Non come voi modei che avete inventato
addirittura il land grabbing impoverendo ancora di più i contadini dei paesi del Sud del
mondo.

Voi sapete cos’è il
land grabbing?

Isidoro
e Maria Toribia:
Dove siamo adesso vediamo delle
cose, è proprio il caso di dirlo, che non stanno né in cielo né in terra, come
appunto il fenomeno del land grabbing, ovvero l’accaparramento della terra per sfruttare intere zone di
paesi poveri, a favore dei paesi ricchi che non hanno spazio sufficiente per le
necessità alimentari delle loro popolazioni.

Infatti questo è un
problema serio, in molte parti del mondo i frutti della terra non restano alla
popolazione che li ha coltivati ma vengono dirottati a nazioni ricche come
l’Arabia Saudita o potenze industriali emergenti come l’India e la Cina che per
avere risorse alimentari per la loro gente non esitano a sfruttare e impoverire
i paesi già poveri.

Isidoro e Maria Toribia: E pensare che una migliore ridistribuzione dei beni darebbe cibo
sufficiente a tutto il pianeta.

Isidoro muore nel 1130 e lo seppelliscono
con una semplice cerimonia nel cimitero del villaggio in cui era sempre
vissuto. Qualche anno dopo la moglie lo raggiunge in paradiso. La loro tomba
diventa subito meta di pellegrinaggi e qualche decennio dopo, a furor di
popolo, il corpo di Isidoro viene esumato per essere sepolto nella chiesa
madrilena di Sant’Andrea. Inspiegabilmente lo trovano incorrotto. La sua fama
si diffonde subito in tutta la Spagna e in seguito nelle colonie spagnole.
Isidoro viene elevato alla gloria degli altari insieme a quattro stelle della
santità di ogni tempo: San Filippo Neri, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di
Loyola e San Francesco Saverio. Gente con cui, di sicuro, Isidoro e Maria
Toribia si sarebbero trovati in difficoltà a parlare durante la loro vita.
Questa santità di coppia è poco conosciuta perché la
devozione popolare ha fatto prevalere l’aspetto prodigioso e miracolistico del
marito. La popolarità che Isidoro si è guadagnato come patrono dei raccolti e
dei contadini ha finito per oscurare quella di lei che pure si è fatta santa
condividendo gli stessi ideali di generosità e laboriosità del marito,
conquistando la perfezione spirituale tra casseruole, bucati e lavori nei
campi.

Mario
Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




Francia. Il velo e gli altri simboli

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 17


Belgin Dogru, 11 anni, musulmana, viene esclusa dalla scuola per
il suo rifiuto di partecipare alle lezioni di ginnastica in cui è obbligatorio
togliere il velo. Dal suo caso nasce un forte dibattito che porta alla nota
legge francese sul divieto di esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici. I
numerosi ricorsi presentati dalla famiglia di Belgin vengono respinti. L’ultima
opzione è quella di rivolgersi alla Corte europea per i diritti umani che
vigila sulla libertà religiosa, la cui sentenza finale, emessa nel dicembre
2008, non è per nulla scontata.

Molti ricorderanno la questione del
velo islamico scoppiata anni addietro in Francia. In una città del Nord, un
giorno del 1989, due ragazze di origine marocchina si erano presentate nel loro
liceo con un foulard in testa. La cosa forse non avrebbe destato alcun problema
se il preside non avesse impedito loro di seguire le lezioni finché non se lo
fossero tolte. I mezzi di informazione fecero il resto e la notizia si diffuse
rapidamente un po’ in tutta Europa.

Una dozzina di anni dopo, altri casi
del genere hanno scatenato accese discussioni nel paese transalpino. Indossare
il velo si è trasformato da questione privata in fatto politico. Per molti
islamici, infatti, è diventato un simbolo di resistenza contro la cultura
occidentale. Sempre più frequentemente giovani figlie di immigrati maghrebini,
di nazionalità francese, hanno inteso affermare la loro appartenenza all’Islam
indossando un foulard che ne nascondesse la capigliatura.

Il caso di Belgin Dogru: a scuola senza velo

Il caso di Belgin Dogru, di cui si è
occupata la Cedu (la Corte europea dei diritti umani), è sorto in questo
contesto. Dogru, nata nel 1987 e residente a Flers, un centro di circa 16.000
abitanti della Bassa Normandia, al tempo dei fatti aveva 11 anni. Musulmana,
frequentava una scuola pubblica del paese. A partire dal gennaio 1999 ha
iniziato a presentarsi alle lezioni con i capelli coperti da un velo.
L’insegnante di educazione fisica l’ha ripetutamente richiamata, invitandola a
toglierselo perché quella tenuta era incompatibile con la pratica della sua
disciplina. La ragazza ha sempre rifiutato di obbedirgli ed è stata ogni volta
esclusa dalle lezioni. Il docente, alla fine, si è rivolto all’autorità
scolastica che, alcuni giorni dopo, ha escluso dalla scuola l’alunna per non
aver rispettato l’obbligo della frequenza.

Ricorsi respinti fino all’ultima opzione: la Cedu

Il ricorso dei genitori contro questa
decisione è stato respinto dalla commissione accademica d’appello e la ragazza
ha dovuto proseguire i suoi studi frequentando corsi per corrispondenza. Nel
frattempo, però, i genitori hanno presentato ricorso anche al tribunale
amministrativo di Caen e, dopo il rigetto di questo, alla corte d’appello di
Nantes, che lo ha respinto a sua volta. In entrambi i casi il tribunale ha
ritenuto che il comportamento di Belgin Dogru avesse creato un clima di
tensione all’interno dell’istituto e che, nonostante la ragazza avesse a suo
tempo proposto di sostituire il velo con una cuffia, l’insieme delle
circostanze avesse giustificato la sua esclusione definitiva dalla scuola. La
giovane, è stato affermato, ha oltrepassato i limiti del diritto di esprimere e
manifestare il suo credo religioso all’interno dell’istituto. Il Consiglio di
Stato, cui i genitori di Belgin hanno presentato alla fine ricorso, ha dato
loro definitivamente torto, dichiarandolo inammissibile.

A questo punto essi si sono rivolti
alla Cedu, ritenendo violata la propria libertà religiosa.

La questione, come appare chiaro,
riveste una notevole importanza. Chiama in causa infatti il valore della laicità
dello stato e quindi il rapporto tra questo e le confessioni religiose presenti
sul suo territorio. Tale questione, di primaria portata in Europa, assume un
valore tutto particolare in Francia.

Per imparare, non per fare proselitismo

Il paese transalpino, infatti, è
l’unico ad avere realizzato fin dal 1905 una piena separazione tra Chiesa e
stato. La questione del velo è stata presa come una minaccia contro tale
separazione e una negazione della laicità.

Di fronte all’estendersi delle
polemiche nel paese, e prima che il caso Dogru arrivasse alla Cedu, il
parlamento nel 2004 ha approvato una legge che bandisce i simboli religiosi
dalle scuole statali francesi. La decisione è stata presa a larghissima
maggioranza, perché hanno votato a favore sia la maggioranza (allora di
centrodestra) sia l’opposizione socialista. Il governo ha più volte
sottolineato che essa non mirava a colpire alcuna religione, ma intendeva
difendere, appunto, la laicità dello stato. «Si tratta di affermare con
chiarezza che la scuola pubblica è un luogo dove si va per imparare e non per
fare attività militante o proselitismo», ha proclamato il presidente
dell’Assemblea legislativa in occasione dell’approvazione della legge.

Dalla rivoluzione del 1789 al 1905 a oggi

Occorre tener presente che la
repubblica francese è stata costruita attorno al principio di laicità, derivato
da una lunga tradizione. È nato infatti dalla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789, in piena rivoluzione. In seguito è stato
richiamato nelle leggi di riforma della scuola del 1882 e del 1886, che hanno
istituito la scuola primaria obbligatoria, pubblica e, appunto, laica. Ma la
vera chiave di volta della laicità francese è stata, come accennato, la legge
del 9 dicembre 1905, che ha separato in modo netto la Chiesa e lo stato.
Nell’articolo 1 vi si afferma: «La repubblica assicura la libertà di coscienza.
Essa garantisce il libero esercizio del culto sotto le sole restrizioni di seguito
decretate nell’interesse dell’ordine pubblico». E nell’articolo 2 la
separazione è definita in modo preciso: «La repubblica – vi si legge – non
riconosce, né stipendia, né sovvenziona alcun culto».

Una legge, in sostanza, che ha
stabilito un vero e proprio «patto di laicità», da cui sono derivate e derivano
varie conseguenze sia per i servizi pubblici sia per i cittadini che ne
usufruiscono. Lo stato, da una parte, riconosce il pluralismo religioso e la
propria neutralità nei confronti dei culti. I cittadini, dall’altra, come
contropartita di tale «protezione» della loro libertà religiosa, devono
rispettare i luoghi pubblici condivisi da tutti. La laicità dello stato è stata
poi consacrata dall’articolo 1 della Costituzione del 4 ottobre 1958, che dispone:
«La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa
assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge di ogni cittadino senza distinzione
di origine, razza o religione. Essa rispetta ogni credo». Non c’è chi non veda
l’affinità di tale formulazione, fin nell’uso delle stesse espressioni, con
quella dell’articolo 3 della Costituzione italiana. In Italia, tuttavia, dagli
stessi principi non sono seguiti gli stessi comportamenti legislativi. Non c’è
mai stato, in particolare, un problema di uso del velo nelle scuole statali. Lo
stesso è accaduto nel resto d’Europa. Là dove la questione si è posta, come in
Germania, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Spagna, Svezia e Danimarca, è stata
risolta in modi diversi, ma senza particolari conflitti. Problemi invece si
sono avuti – e ci sono ancora – in Turchia, dopo l’avvento al governo di
Erdogan che ha rimesso in discussione quanto stabilito agli inizi del ’900 dal
regime laico di Ataturk, il primo a impedire alle donne di portare il velo
nelle istituzioni pubbliche.

Uno scontro ideologico

In Francia, invece, l’uso del velo ha
suscitato un vero scontro ideologico. Indossarlo ha assunto per i musulmani –
non per tutti, in verità: vi sono state infatti associazioni islamiche che
hanno appoggiato la legge – un significato preciso: rifiutare la laicità,
rifiutando la scuola pubblica, di seguire le lezioni di ginnastica, le lezioni
di biologia, le lezioni di musica, le lezioni di disegno e così via.

Le ragazze che vogliono indossare il
velo partono dal principio che la donna occidentale non è rispettata dall’uomo
e che loro stesse parteciperebbero a questa mancanza di rispetto se
accettassero appunto di non metterlo.

La polemica è cresciuta ancor più
dopo l’approvazione della legge. La maggioranza dei musulmani in Francia e
quelli all’estero, infatti, l’hanno intesa come un’aggressione e un rifiuto
dell’Islam, anche se la legge in realtà tratta dei simboli di ogni religione,
compresi il crocefisso e la kippah ebraica.

Si sono accese discussioni violente e
confuse. Per gli estremisti musulmani è stata l’occasione per designare la
Francia e l’Occidente come «nemici dell’Islam».

Insomma: il caso è diventato
l’emblema del confronto/scontro del modello francese di laicità con
l’integrazione dei musulmani negli spazi pubblici e, in primis, nella scuola.
Per molti cittadini francesi, l’aumento della presenza islamica minaccia i
valori dello stato, per cui occorre restaurare l’autorità repubblicana. La
scuola è diventata il terreno privilegiato di tale «risposta». La presenza
visibile in essa di segni religiosi è avvertita da molti come contraria alla
sua missione (di essere cioè uno spazio di neutralità e un luogo di risveglio
della coscienza critica), nonché una minaccia ai valori che deve insegnare, a
partire dall’uguaglianza tra uomini e donne.


Condizioni di coabitazione

Con il caso di Belgin Dogru la Cedu
si è dunque trovata a risolvere un problema giuridico, sconfinato però nel
campo politico e ideologico e gravato da implicazioni di grandissimo rilievo.
In ballo c’è la convivenza in Europa con una popolazione musulmana ormai
quantitativamente consistente. L’Islam costituisce la seconda religione del
vecchio continente. È importante rendersi conto di questo e ammettere che
l’Europa vive e continuerà a vivere con una parte della propria popolazione di
religione musulmana. Solo così si potranno definire sempre meglio l’ambito e le
condizioni di tale coabitazione.

La legge francese contro
l’ostentazione dei simboli religiosi nelle scuole, concepita con questo
spirito, è stata tuttavia raffazzonata e votata in un clima di forte tensione e
contrapposizione sociale. Così non si è riusciti a portare il confronto sui
problemi veri che si volevano affrontare: la laicità dello stato, appunto, e la
condizione della donna, la libertà della quale è tutelata e promossa
dall’ordinamento europeo. Questo secondo aspetto è a sua volta di primaria
importanza. Alcuni immigrati infatti vorrebbero che le loro donne, le loro
figlie e le loro sorelle vivessero nelle medesime condizioni dei loro
concittadini rimasti in patria, rifiutando i diritti di cui godono le donne
occidentali.

I rischi dei simboli

Di fronte alla Cedu il governo
francese ha ammesso che le restrizioni imposte alla giovane Dogru
nell’indossare il velo islamico all’interno della scuola costituivano una
limitazione del suo diritto di manifestare la propria religione. Tuttavia, ha
sostenuto, tale limitazione rispettava quanto previsto dall’articolo 9 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Essa infatti, oltre a rispondere a
necessità pratiche, come quella di dotarsi di un abbigliamento adatto
all’esercizio dell’educazione fisica a scuola, era necessaria per rispettare i
principi costituzionali di laicità e di uguaglianza tra i sessi.

Il governo tuttavia si è spinto più
in là, proprio per la forte concezione di laicità che viene sostenuta dalle
leggi francesi. Occorre anche tener conto – ha infatti osservato – delle
ripercussioni del comportamento di Belgin Dogru sugli altri alunni della sua
classe, che al tempo dei fatti avevano, come lei, undici anni, e valutare
l’impatto che un simbolo esteriore, quale il portare un velo, poteva avere
sulla libertà di coscienza e di religione di alunni in giovane età, facilmente
influenzabili. Si sarebbe potuto avere, in altri termini, un effetto di
proselitismo. Insomma, e questo è il senso della posizione del governo francese
nel dibattito di fronte alla Corte, lo stato, e le sue istituzioni come la
scuola, devono rimanere rigidamente neutrali in fatto di religione e dei suoi simboli.

La sentenza della Corte europea

La Corte, con la sentenza del 4
dicembre 2008 ha dato all’unanimità ragione al governo, condividendone le
ragioni. In più ha ricordato che la giovane Dogru e i suoi genitori, all’atto
dell’iscrizione alla scuola, avevano sottoscritto il regolamento interno
dell’istituto, impegnandosi così a rispettarlo. Esso vietava espressamente
l’uso di «simboli ostentatori che costituiscono in se stessi elemento di
proselitismo e di discriminazione». La giovane e i suoi genitori, dunque,
potevano ragionevolmente prevedere che il rifiuto di togliere il velo durante
il corso di educazione fisica e sportiva avrebbe potuto portare alla esclusione
dall’istituto per il mancato rispetto dell’obbligo di frequenza. In questo
caso, dunque, non è stata violata la Convenzione europea, e la restrizione alla
manifestazione della libertà religiosa, nei termini in cui è avvenuta, è stata
legittima, proprio perché ha avuto la finalità di preservare gli imperativi
della laicità negli spazi pubblici scolastici.

Al di là della sentenza, una questione aperta

La Francia, dove secondo le stime
ufficiali, su una popolazione di religione musulmana stimata tra i 4 e i 6
milioni, le donne che indossano il velo sono circa 2000, ha approvato nel 2011
un’altra legge che vieta l’uso del velo islamico in pubblico. Anche questa ha
suscitato la reazione della comunità islamica. La Cedu è stata nuovamente
interpellata da donne condannate in base alla nuova legge, perché ritengono che
violi la loro libertà religiosa. Entro quest’anno la Corte europea dovrebbe
esprimersi in merito. Ma al di là di questo rimane aperto il problema, che è
politico, culturale e sociale, del rapporto degli stati democratici europei con
le nuove religioni presenti oggi nel vecchio continente e, in particolare con
l’Islam. Quale sia la strada migliore per realizzare convivenza, integrazione,
dialogo, rispetto reciproco, non è certamente facile stabilirlo. L’Europa
dispone di un patrimonio preziosissimo di valori sociali, civili, liberali e
democratici, in base ai quali il problema di cui si è detto deve essere gestito
e risolto. Non si tratta di una questione solo «formale», né si può affrontarla
in termini ideologici o manichei. La laicità appartiene a tutti, «vecchi» e «nuovi»
europei, e permette a tutti di esercitare la libertà di religione. È
importante, tuttavia, rendere il più possibile omogenea, nei vari paesi, la sua
traduzione nella vita concreta delle istituzioni e della società. Quanto sarà
possibile, infatti, il perdurare di una situazione che vede il medesimo
principio di separazione tra stato, Chiesa e religioni affermato nell’Unione
europea, tradursi nelle istituzioni dei vari paesi in livelli diversi di
tolleranza nei confronti del crescente pluralismo della società contemporanea? È
una situazione in cui la Cedu ha un compito notevole da svolgere. Ma certo non
può risolverlo da sola.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Una plastica apparenza Allattamento e seno femminile (terza parte)

Nei paesi ricchi si sta diffondendo la chirurgia plastica per
recuperare l’aspetto fisico antecedente la gravidanza. Il mercato impone i suoi
diktat estetici, facendo passare l’idea che il non bello e il non giovane siano
errori da riparare. Correlato a questo fenomeno ce n’è un altro, anch’esso in
rapidissima crescita: quello del turismo medico. Così, mentre in troppi paesi
mancano medici e ospedali pubblici, in altri si profila una nuova vittoria
dell’«apparire» sull’«essere».

Anche i media ritenuti – a torto o a
ragione – più seri, sempre più spesso ci propongono immagini e servizi sulle
neomamme vip che – trascorso pochissimo tempo dal parto e dall’allattamento –
tornano in una forma fisica smagliante. Di solito vengono riportate le
dichiarazioni delle dirette interessate che dicono di passare ore e ore in
palestra e di seguire diete ferree. Non viene invece detto che molte di loro
fanno ricorso al cosiddetto Mommy
makeover («rifacimento della mamma»), una combinazione di
interventi chirurgici per rimediare ad alcuni difetti lasciati dal parto e
dall’allattamento.

Il
fenomeno del Mommy makeover è
nato negli Stati Uniti
, ma sta diffondendosi anche in Europa, Italia compresa.
Secondo un’indagine compiuta dall’American
Society of Plastic Surgeons su 1.000 neomamme il 62% si
sottoporrebbe volentieri a qualche intervento di chirurgia plastica per
recuperare l’aspetto fisico antecedente la gravidanza se i costi fossero meno
elevati. Tra gli interventi più richiesti figurano la mastoplastica additiva
(aumento del seno), la mastopessi (sollevamento del seno), la liposuzione
(rimozione del grasso in eccesso) unita all’addominoplastica (tensione della
parete addominale), e sempre più spesso la chirurgia estetica intima, la cui
richiesta è raddoppiata negli ultimi cinque anni. La pratica di quest’ultima si
è diffusa a tal punto che l’American College of
Obstetricians and Gynecologist è intervenuto indicando tali procedure
come raramente appropriate sul piano medico, e potenzialmente dannose per la
salute. Questo fenomeno rientra nella estrema diffusione, a livello mondiale,
della chirurgia plastica e della medicina estetica. Ovviamente si deve
riconoscere a questa branca della chirurgia il grande merito di permettere il
recupero estetico a persone che hanno subito gravi traumi o interventi
chirurgici distruttivi per curare tumori, o che sono state colpite da patologie
deturpanti. Tuttavia ormai ci troviamo di fronte sempre di più alla
medicalizzazione consumistica della salute, con il mercato globale che si pone
come difensore dei valori della bellezza e della giovinezza, e impone i suoi
diktat estetici. Viene fatta passare l’idea che il non bello, il non giovane ed
efficiente siano assimilabili al male, quindi da correggere. Ecco allora il
boom della elective surgery, cioè
dell’insieme degli interventi chirurgici non necessari in senso clinico, di cui
è soprattutto il paziente a sentire la necessità, e la sostituzione del
rapporto medico-malato con quello medico-persona sana. È presente in questo
fenomeno il rischio di sfruttamento del disagio psichico e sociale delle
persone più fragili, con scarso equilibrio interiore, che spesso trasferiscono
sul corpo un malessere di origine diversa. È stata infatti osservata un’elevata
rilevanza statistica di disordini mentali fra i candidati alla chirurgia
estetica, colpiti spesso da dismorfofobia corporea: malattia psichiatrica
consistente in una sensazione soggettiva di deformità fisica. Questa patologia,
secondo uno studio condotto da Hodgkinson nel 2005, viene riscontrata nel 20%
delle persone che si rivolgono a un chirurgo estetico e si manifesta con una
vera e propria dipendenza da chirurgia plastica. Secondo un altro studio
condotto da A. Napoleon su un gruppo di pazienti della Carolina del Sud,
ricoverati per un intervento di chirurgia plastica, il 25% di loro soffriva di
disturbo narcisistico, il 12% di disturbo dipendente, il 9,75% di disturbo
istrionico, il 9% di disturbo borderline
della personalità, il 4% di disturbo ossessivo-compulsivo, il 3% di altri
disturbi della personalità (antisociale, paranoide, schizotipico, ecc.). Solo
il 29% non presentava alcun disturbo della personalità. Secondo il DSM-IV (Diagnostic
and Statistical Manual of Mental Disorders), il disturbo narcisistico
di personalità si presenta con un quadro di grandiosità, mancanza di empatia,
richiesta di ammirazione, fantasie illimitate di successo, potere, bellezza e
con un comportamento arrogante e superbo. Tra le maggiori preoccupazioni di
questi pazienti ci sono i difetti legati all’avanzare dell’età e questo li
porta spesso a richiedere interventi di lifting.

Il
disturbo dipendente di personalità si presenta con una eccessiva necessità di
essere accuditi, con un comportamento sottomesso e dipendente, timore della
separazione, percezione di sé stessi come incapaci di realizzare qualcosa senza
l’aiuto degli altri. Pazienti di questo tipo ricorrono più frequentemente di
altri alla mastoplastica additiva.

Nel
disturbo istrionico è presente emotività eccessiva con ricerca di attenzione,
comportamenti seducenti, teatralità, autodrammatizzazione ed espressione
esagerata delle emozioni. Questi pazienti richiedono interventi di
mastoplastica additiva, di ingrossamento delle labbra e rimodellamento degli
occhi per allontanare la possibilità di un rifiuto.

Il disturbo borderline della personalità è
caratterizzato da instabilità delle relazioni interpersonali e dell’umore,
dall’alternanza tra gli estremi dell’idealizzazione e della svalutazione, da
un’immagine di sé perennemente instabile, da rabbia immotivata e ricorrenti
minacce, da comportamenti automutilanti. Questi pazienti separano le parti del
proprio corpo in buone e cattive, attribuendo al chirurgo il compito di
rimuovere queste ultime. Il disturbo ossessivo-compulsivo si presenta con una
eccessiva preoccupazione per l’ordine, il perfezionismo, il controllo mentale e
interpersonale, con un’attenzione estrema ai dettagli, alle regole, agli
schemi, e un’organizzazione così elevata da mettere quasi in secondo piano il
fine delle proprie azioni. Inoltre sono presenti esagerata coscienziosità,
scrupolosità e inflessibilità in tema di moralità, etica e valori. Questi
pazienti concentrano le loro richieste di interventi estetici su labbra, seno e
occhi.

Sulla
base dei dati scientifici è possibile affermare che tra i pazienti della
chirurgia estetica, quelli con qualche disturbo della personalità sono compresi
tra il 30% e il 70%. Questi dati dimostrano la necessità di una stretta
collaborazione tra chirurghi estetici e psicologi o psicoterapeuti.

La chirurgia estetica ha dimostrato di avere
effetti positivi sull’autostima dei pazienti ansiosi, mentre è risultata
inefficace nel caso dei pazienti depressi. Ed è addirittura stato riscontrato
un aumento del rischio di suicidio, soprattutto tra donne che richiedono la
mastoplastica additiva (rischio 2 o 3 volte maggiore della norma). Oltre a
questo è stato rilevato un maggior numero di casi di cancro del polmone
rispetto alla norma.

Secondo
uno studio di Koot, Peters e altri, apparso sul British
Medical Joual, che valutava il tasso di mortalità nelle donne
svedesi operate di mastoplastica additiva tra il 1965 e il 1993, le donne che
scelgono questo tipo d’intervento sembrerebbero differire dalla popolazione
generale, o dalle donne che si sottopongono ad altri interventi estetici, per
alcune caratteristiche quali lo stile di vita, l’uso o l’abuso di alcornol, il
fumo e lo stato civile, elementi che potrebbero influire sia sul rischio di
suicidio che sul cancro polmonare.

Accettare
di operare soggetti con qualche disturbo della personalità è rischioso per i
chirurghi, perché, a prescindere dal risultato ottenuto, l’intervento può
generare insoddisfazione nel paziente che non ha una percezione corretta del
proprio aspetto fisico. Non sono pochi i casi di azioni legali contro i chirurghi
che hanno effettuato gli interventi. Secondo i dati delle compagnie di
assicurazione, le richieste di risarcimento nei confronti dei chirurghi
estetici, con scarsa o nulla motivazione relativa all’esito dell’opeazione
chirurgica eseguita, si aggirano intorno al 30% degli interventi, un dato in
linea con quello relativo alla porzione di pazienti emotivi. Considerando che
in Italia, a eccezione della mastoplastica riduttiva nei casi in cui l’eccesso
di seno genera gravi difetti posturali, nessuno dei più diffusi interventi
chirurgici estetici è coperto dal sistema sanitario nazionale, se i pazienti
problematici venissero rifiutati dai chirurghi, il fatturato della chirurgia
estetica si ridurrebbe notevolmente. Si calcola che ci sarebbero mancate
entrate comprese tra i 215 ed i 502 milioni di euro all’anno solo per
interventi di addominoplastica, liposuzione e mastoplastica additiva e
riduttiva.

Secondo il più recente rapporto della «Società
internazionale di chirurgia plastica estetica» (Isaps), i paesi in cui viene
realizzato il più alto numero d’interventi di chirurgia estetica all’anno sono:
Stati Uniti (3,31 milioni), Brasile (2,52 milioni), Cina (1,27 milioni),
Giappone (1,18 milioni) e India (1,15 milioni). Tuttavia, se il numero
d’interventi viene calcolato non come valore assoluto, ma in rapporto alla
popolazione, tra i primi quattro paesi troviamo la Corea del Sud, la Grecia,
l’Italia ed il Brasile, mentre Cina ed India finiscono nelle ultime posizioni.
Gli interventi chirurgici in Asia restano i più economici in assoluto. Per una
mastoplastica additiva nel 2011 si spendevano 3.600 dollari negli Stati Uniti,
2.900 in Brasile, 2.800 in Giappone, 2.660 in Cina e 2.400 in India. Un lifting
al viso costava 3.690 dollari a New Delhi, 4.000 a Pechino, 4.700 a Brasilia e
6.450 a Washington. I paesi asiatici detengono il record delle rinoplastiche.
Tutto questo ha generato una forte espansione del turismo medico, favorito
anche dai voli low cost. A partire dal 2008,
gli incassi dei chirurghi estetici italiani hanno subito una flessione legata
non solo alla crisi economica attuale, ma anche alla tendenza sempre maggiore
degli italiani, come anche di altri pazienti europei e di quelli statunitensi,
di recarsi all’estero per sottoporsi agli interventi chirurgici più svariati,
tra cui quelli di tipo estetico e odontorniatrico. I paesi più gettonati per il
turismo medico sono Tunisia, Slovenia, Ucraina, Ungheria, Brasile, Polonia,
Romania, Argentina, Indonesia, Colombia e Repubblica Ceca. In questi paesi il
costo degli interventi chirurgici è molto ridotto, rispetto a quello di casa
nostra e si può arrivare a risparmiare fino a 2.500 euro. Spesso le cliniche
del posto contattano le agenzie di viaggio dei paesi europei più ricchi e degli
Stati Uniti per organizzare pacchetti-vacanza all
inclusive, che prevedono il volo, il soggiorno in albergo (solitamente di una
settimana) e l’intervento chirurgico. Ad esempio, nel 2011 un pacchetto
comprendente una mastoplastica additiva effettuata in Tunisia, il volo e il
soggiorno per una settimana costava 2.600 euro. Attualmente in Italia un
intervento del genere ha un costo compreso tra i 4.500 e i 6.500 euro. La
scelta di recarsi all’estero per subire interventi chirurgici estetici,
tuttavia non è sempre sicura perché, sebbene le cliniche del settore
pubblicizzino i loro interventi come privi di complicazioni, nella realtà
queste possono verificarsi, come in qualsiasi operazione chirurgica. In tal
caso è necessario un pronto intervento, che diventa difficile effettuare, se la
clinica di riferimento è all’estero e il paziente è già rientrato nel proprio
paese. E intervenire con ritardo può pregiudicare l’esito dell’operazione. Non
bisogna dimenticare che in chirurgia estetica il 50% di un intervento è
rappresentato dal post-operatorio, in cui le medicazioni sono essenziali. Le
corse al ribasso nella medicina e chirurgia estetica possono essere molto
pericolose, perché nelle offerte non si risparmia sulla parcella del medico che
esegue l’intervento, ma sulla struttura e sulle attrezzature utilizzate. Può
capitare ad esempio che certi interventi, che necessiterebbero della sala
operatoria, vengano eseguiti in ambulatori non chirurgici. Attualmente
purtroppo tre interventi su dieci in chirurgia estetica sono eseguiti per
rimediare a interventi estetici precedenti (patologia secondaria alla chirurgia
estetica).

Negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale
anche il numero di persone che acquistano i cosiddetti coupon di offerte
per interventi di chirurgia estetica a prezzi scontati, i quali si trovano
solitamente sui siti di acquisti on line. Oltre a questo tipo di offerte, sul
web si trovano sempre più facilmente fiale di filler
(sostanze usate come riempitivo) e di tossina botulinica a prezzi stracciati e
del tutto prive di controlli. Queste sostanze dovrebbero sempre essere
controllate e inoculate da uno specialista nel settore, invece chi le acquista
on line ricorre spesso al fai da te con gravi rischi sia per la propria salute,
sia per il risultato estetico.

L’American
Society for Aestetich Plastic Surgery ha rilevato un aumento dal
2002 a oggi del 12% del ricorso alla chirurgia estetica e del 22% dell’uso
della medicina estetica. Tra gli interventi in aumento ci sono la mastoplastica
additiva (+17%), la blefaroplastica, cioè il lifting delle palpebre (+17%), la
rinoplastica o rimodellamento del naso (+10%) e la mastoplastica riduttiva
(+17%). Secondo i dati Eurispes, in Italia sono aumentati gli interventi
di blefaroplastica (+22%), di mastoplastica additiva (+42%), anche se è molto
diffusa pure quella riduttiva, e del 31% i trattamenti di medicina estetica, i
più diffusi dei quali sono a base di acido ialuronico, e il lipofilling
(trapianto autologo del proprio grasso). 
Nel mondo l’intervento più richiesto è la liposuzione (19,9% di tutti
gli interventi chirurgici estetici), seguito dalla mastoplastica additiva
(18,9%) e dalla blefaroplastica (11%). Mentre, per quanto riguarda la medicina
estetica, al primo posto c’è l’iniezione di tossina botulinica (38,1%), seguita
dall’acido ialuronico (23,2%) e dalla epilazione con laser (10,9%).

L’età
delle giovani, che si sottopongono alla chirurgia estetica si abbassa
progressivamente, tanto che in Italia, nel giugno 2012, la Commissione affari
sociali del Senato ha approvato un disegno di legge che vieta gli interventi al
seno per motivi estetici su minorenni, e multa i chirurghi che non rispettano
la legge con una sanzione fino a 20.000 euro e la sospensione dalla professione
per 3 mesi.

In
tempi di crisi economica, secondo la «Società italiana di chirurgia plastica
estetica», nel 2011 in Italia, nonostante l’aumento di alcune tipologie
d’interventi chirurgici estetici di cui si è detto, c’è stato un calo
complessivo del 40% rispetto ai due anni precedenti. Sono invece aumentati i
meno costosi trattamenti di medicina estetica, oltre alle richieste di
finanziamenti per rifarsi il seno o il naso da parte di persone con scarsa
disponibilità economica che probabilmente ripongono grandi attese nel loro
aspetto esteriore.

Se il
settore della chirurgia estetica tradizionale pare avere subito una contrazione
legata alla crisi economica, non conosce crisi il settore degli interventi
chirurgici intimi, tra cui la ricostruzione dell’imene per il recupero della
verginità (1.200-2.500 euro). Questo tipo di chirurgia plastica è in costante
aumento.

Mentre nel Sud del mondo mancano medici e medicine
per curare malattie che falcidiano intere popolazioni, nel Nord del mondo si
spendono fiumi di denaro per ricostruirsi. Sorge spontanea la domanda se sia
così dignitoso apparire piuttosto che essere. Come se la vita fosse solo una
recita.

Rosanna Novara Topino
 
Chirurgia estetica / 1


La rimonta degli uomini

A ricorrere agli interventi di chirurgia plastica sono
sempre più spesso anche gli uomini. È in aumento la richiesta per interventi
contro la ginecomastia (l’eccessivo sviluppo delle mammelle del maschio, ndr),
che è spesso causata da fattori estei alteranti l’equilibrio ormonale, come i
farmaci antidepressivi o a base di digitale, la cannabis, le sostanze dopanti e
certi integratori alimentari, o che è legata a problemi di sovrappeso e di
obesità. In Italia sono inoltre richiesti anche dagli uomini interventi di
chirurgia estetica intima. Il 25% delle operazioni richieste è collegato a un
cambiamento del proprio stato civile, che si tratti di matrimonio, separazione
o divorzio. Inoltre il settore della medicina e della chirurgia estetiche è
molto soggetto a mode e tendenze passeggere capaci di condizionare l’aspetto
fisico dei pazienti, che spesso chiedono interventi per assomigliare a qualche
personaggio pubblico. Il problema di questo tipo di pazienti è che non vogliono
solo assomigliare al loro idolo, ma ne vorrebbero lo stesso stile di vita,
desiderio quasi impossibile da realizzarsi, da cui la conseguente frustrazione.

 
Chirurgia estetica / 2


Occhi a mandorla?

Già da alcuni anni è aumentata in tutto il mondo la
chirurgia estetica «etnica» per modificare i tratti esteriori distintivi e
caratterizzanti l’etnia di origine. Queste esigenze estetiche, che si rifanno
sempre al modello occidentale, non sono sentite solo dai ceti sociali più
elevati, ma anche da quelli meno abbienti, in particolare da persone che
intendono inserirsi in un paese diverso da quello di origine. Gli interventi più
richiesti sono la cantoplastica (rimodellamento degli occhi a mandorla), la
rinoplastica (la tecnica detta slump implant mira a rimpicciolire la base del
naso ed affinae la punta), la cheiloplastica (riduzione del volume delle
labbra) e le liposuzioni per il rimodellamento corporeo. Questi soggetti
purtroppo dopo l’intervento rischiano di ritrovarsi in un limbo culturale: non
riescono a inserirsi appieno nel nuovo paese e nel contempo vengono rifiutati
dalle persone della loro etnia, a cui sembrano non volere più appartenere.

Rosanna Novara Topino




Pillole «Allamano» 2: Elevatevi sopra le idee ristrette dell’ambiente


Stacco dalla parete e riprendo in mano, per sfogliarlo con calma, il calendario che quest’anno la rivista MC ha dedicato al beato Allamano. Riguardo le immagini del volto del Fondatore, vecchie fotografie che i moderni strumenti della tecnica hanno saputo ripulire dalle inevitabili tracce del tempo. Vi è ritratto Giuseppe Allamano da giovane, coi chierici, con i primi missionari partenti per l’Africa, poi uomo maturo e, infine, anziano. I dodici mesi dell’anno ripercorrono la storia di una vita sacerdotale. Io la contemplo filtrandola attraverso i suoi sguardi, tentando di mettere a fuoco il volto buono e paterno che tante testimonianze di chi l’ha conosciuto riportano con insistente piacere.

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A ben guardare, però, scorgo nelle immagini anche il piglio risoluto, deciso, di colui che è buono con sincerità, non per debolezza o convenienza. Il volto del Beato Allamano non ha nulla di debole e comunica serenità e determinazione. Non so se altri lettori siano stati attratti, sfogliando il calendario, da questa caratteristica del suo viso. Forse sono io che ci ricamo sopra eccessivamente, lasciandomi guidare dalla mia sensibilità. Può darsi, non lo posso escludere. Mi sembra in ogni caso che lo sguardo del fondatore lasci intravedere qualcosa di lui, del suo modo di essere e di intendere la vita. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, recita un antico adagio.

La pillola di questo mese non fa riferimento a una frase di Giuseppe Allamano, semmai a un atteggiamento da lui tenuto nei confronti della vita e della realtà nelle quali si è trovato a operare. A una certa fragilità fisica, cosa che gli impedì a suo tempo di essere missionario sul campo, e alle difficoltà di ogni tipo incontrate nel suo lungo ministero sacerdotale, l’Allamano opponeva una volontà di ferro, alimentata da una fiducia incrollabile nella provvidenza divina e nella presenza consolatrice e matea della Madonna. I suoi occhi trasmettono tenerezza, ma allo stesso tempo acutezza e determinazione. Se le fotografie che lo ritraggono, nel loro complesso ne collocano la figura in un tempo e in un contesto preciso, lo sguardo sembra bucare le immagini e proiettarsi al di là di esse, verso spazi che trascendono gli ambienti del torinese da cui, salvo per pochi ed eccezionali viaggi, l’Allamano non si è mai mosso. I suoi sono occhi che viaggiano, perché seguono le rotte di un cuore costantemente orientato verso luoghi da consolare, lungo tragitti mai scontati. Giuseppe Allamano ha lo sguardo profondo, vive la sua fede e il suo ministero in un’obbedienza matura e responsabile, rispettando la tradizione e l’autorità in un modo dinamico e creativo, senza mai sottomettersi alla legge del «si è sempre fatto così». Sono tantissimi gli episodi in cui prende posizione e con «delicata fermezza» va avanti per la sua strada, pronto, se lo vede necessario, a dare uno scossone allo status quo. Oggi, questo sguardo si rivolge a noi, chiamati a vivere la missione in Europa. Mi sembra di scorgere la presenza del volto dell’Allamano mentre leggo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, celebrata il 19 gennaio scorso. «La Chiesa, rispondendo al mandato di Cristo “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, è chiamata ad essere il Popolo di Dio che abbraccia tutti i popoli, e porta a tutti i popoli l’Annuncio del Vangelo, poiché nel volto di ogni persona è impresso il volto di Cristo». Che bella immagine ampia e inclusiva della missione. Missione che oggi ci spinge non soltanto ad andare, ma anche a ricevere e a essere accoglienti. Il volto di Giuseppe Allamano riflette il volto di Cristo e il suo sguardo tradisce il desiderio di farlo emergere con forza dal volto di chi incontra, vicino o lontano… anche del migrante o del rifugiato. Mi sembra di poter dire che papa Francesco sarebbe piaciuto al nostro fondatore… e viceversa. Se si fossero incontrati si sarebbero probabilmente scambiati due battute in piemontese, giusto per fare conoscenza, e poi avrebbero cercato di capire come far brillare il volto di Cristo impresso in ogni persona, partendo dalla realtà concreta in cui essa vive, ma senza lasciarsi imbrigliare. I primi mesi del pontificato di Francesco sono una testimonianza viva della bontà della pillola allamaniana di questo mese, prescritta con continuità in quasi tutti i suoi interventi, nel tentativo di plasmare una cristianità matura e responsabile, un popolo di Dio che cammina in uscita. Scrive papa Francesco nella sua recente esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano […]. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Francesco, EG n. 24). Prendere l’iniziativa senza paura può voler dire, a volte, scrollarsi di dosso l’opinione dominante. La notizia, per essere tale, è novità, e la buona notizia non sfugge a questa regola. Ecco perché, rivolgendosi ai giovani universitari la prima domenica di Avvento, papa Francesco ha ricordato loro l’impegno di essere testimoni coraggiosi di una diversa narrativa del mondo: «Se non vi lascerete condizionare dall’opinione dominante, ma rimarrete fedeli ai principi etici e religiosi cristiani, troverete il coraggio di andare anche contro corrente». Concetto chiaro, questo, anche nel pensiero spirituale di Giuseppe Allamano. L’idea dominante diventa un’idea ristretta, anche quando si certifica come figlia della globalizzazione. È il grande paradosso in cui l’umanità si dibatte e che trova i suoi accenti più acuti nella nostra cara Europa. In un mondo in cui sembra valere tutto e il contrario di tutto, in cui a livello di valori si sopravvive bene grazie al più smaccato relativismo, in realtà campa bene solo e soltanto chi si adegua a una cultura che privilegia ciò che è esteriore, facilmente e immediatamente conseguibile, veloce, apparente, provvisorio. Le logiche che, al contrario, propongono narrative differenti, impostate sul locale, sul partecipativo, sul lento ma sicuro procedere, sulla libertà di poter scegliere, sul discernimento comunitario vengono ostacolate, cassate, a volte irrise e perseguitate. La missione è ciò che aiuta il cristiano ad alzare la testa, a elevarsi sopra le mentalità ristrette e a esprimere qualcosa di inedito. La missione nasce dalla novità del Vangelo e lo porta con sé per costruire un mondo nuovo, migliore. La missione non sopporta idee dominanti perché vive sotto il dominio dello Spirito di Dio. La missione offre volti nuovi alla nostra teologia, che cessa di ristagnare quando si concede al confronto con l’altro. La missione rinnova e rafforza la fede, attraverso il dono della propria esperienza di Cristo a chi ancora non ne ha mai sentito parlare o l’ha completamente smarrito dai propri orizzonti. La missione vivifica la nostra spiritualità, perché la mette a confronto con la realtà, per non farla viaggiare a quote siderali mentre la gente cammina a lato delle strade. Quale missione, allora, in questa Europa che cambia? Quale progetto missionario per orientare la nostra azione? Quale pista da percorrere ci attende? Il dove, il come e il quando lo diranno il contesto e il discernimento che ciascuno farà alla luce della Parola di Dio e del proprio carisma. Questo discernimento sfida particolarmente proprio noi missionari, chiamati a trovare un modo significativo e attuale di essere autentici religiosi e testimoni di evangelizzazione. Ci troviamo di fronte a domande scomode che ci obbligano a una riflessione che potrà forse chiederci precise scelte di vita. Quali sono le idee ristrette che oggi condizionano i nostri ambienti e costringono noi, le nostre comunità, le nostre famiglie a vivere «imbrigliati», incapaci di essere persone «in uscita»? Quali sono queste idee ristrette che impediscono di incontrarsi con gli altri con un messaggio vero, che dica qualcosa, che abbia un minimo di senso, che susciti qualche domanda e, magari, apra uno spiraglio verso il futuro e la salvezza promessa? Cosa dobbiamo fare per elevarci al di sopra di esse, per propoe di alternative e liberanti? L’uomo che riuscì a fondare due Istituti missionari, pur restando rettore del Santuario a lui affidato e senza mai mettere piede in missione, avrebbe senz’altro qualcosa da dire. Merita ancora ritornare al calendario e provare a vedere se riusciamo a farci ispirare ancora un po’ dallo sguardo di Giuseppe Allamano. Se riuscissimo poi a vedere dove punta, noteremmo come quegli occhi dimorino a lungo sul quadro della Madonna Consolata e sul tabernacolo. Non ci conviene precorrere i tempi; queste sono altre pillole che Giuseppe Allamano ci consiglierà di prendere e, ben lo sappiamo, ogni cura deve rispettare la giusta posologia.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




L’umanitario, che noia. Ma se arriva il VIP… 

Dal concerto Live Aid del 1985 in poi, la
raccolta fondi e la sensibilizzazione passano anche attraverso la musica, il
cinema e i testimonial eccellenti. I Vip riescono a focalizzare l’attenzione su
temi spesso percepiti come noiosi e tristi: tragedie e situazioni di difficoltà
dei paesi del Sud del mondo. Una delle soluzioni più in voga per avvicinare il
grande pubblico sembra essere quella di rendere l’aiuto umanitario qualcosa di
cornol. E oggi sono tanti i Vip che fanno ottenere più visibilità alle campagne
per le quali s’impegnano. Ma a quale prezzo?

«Non andate al pub stasera, restate a casa e dateci il vostro denaro. Ci
sono persone che stanno morendo in questo preciso momento, perciò dateci i
soldi!». Era il 13 luglio del 1985 quando ai microfoni della Bbc Bob Geldof, il
musicista irlandese noto per la sua scarsa propensione a usare mezzi termini,
prorompeva rabbiosamente in questo accorato appello a favore dell’Etiopia in
emergenza carestia. In sottofondo, il bornato delle settantaduemila persone che formavano
il pubblico dello stadio londinese di Wembley accompagnava le esibizioni dei
mostri sacri del rock che si avvicendavano sul palco del Live Aid, il
concerto organizzato dallo stesso Geldof e da Midge Ure, musicista e attivista
scozzese. Il Live Aid era in qualche modo l’approdo di un percorso le
cui tappe precedenti erano state le canzoni Do They Know It’s Christmas
(sempre di Geldof e Ure) e We Are The World, del gruppo di star
statunitensi Usa for Africa.

L’unico precedente di portata e dimensioni comparabili
al Live Aid era stato il concerto per il Bangladesh organizzato dall’ex
Beatle George Harrison e dal musicista indiano Ravi Shankar nel 1971 al Madison
Square Garden di New York, al quale assistette un pubblico di quarantamila
persone e che portò donazioni iniziali per duecentoquarantamila dollari, salite
poi a quattro milioni di dollari con i proventi della vendita dell’album del
concerto.

Ma il Live Aid oscurò di gran lunga il risultato
ottenuto dal pioniere Harrison, imponendosi come uno dei momenti musicalmente
più memorabili del secolo scorso e, dal punto di vista delle donazioni,
raggiungendo nell’immediato circa cinquanta milioni di sterline, e un totale di
centocinquanta milioni aggiungendo i proventi della successiva campagna.

Una cifra colossale destinata ad aiuti umanitari alle
popolazioni del Nord dell’Etiopia afflitte da una carestia che, combinata alle
politiche agricole del governo locale, avrebbe provocato circa quattrocentomila
vittime. Le polemiche non si fecero attendere: cinque mesi dopo l’evento, un
articolo del Washington Post elencava una lunga serie di episodi di
disorganizzazione e incomprensioni fra la Fondazione Live Aid che
gestiva i fondi e le organizzazioni impegnate sul campo per alleviare le
sofferenze degli etiopi. Nel 2005, mentre Geldof stava preparando il Live 8,
un altro mega concerto di sensibilizzazione ai problemi della povertà a
vent’anni dall’illustre precedente, l’opinionista americano David Rieff scrisse
per il Guardian un articolo durissimo in cui spiegava che forse il Live
Aid
aveva permesso, come affermavano i suoi sostenitori, di dimezzare le
vittime della carestia, ma al tempo stesso aveva fornito al governo etiope – il
Derg di Menghistu Hailè Mariam – un sostegno economico che Menghistu usò
per deportare circa seicentomila persone dal Nord al Sud del paese e «villaggizzae»
(cioè riunire forzatamente in villaggi) altri tre milioni. Ufficialmente le
deportazioni e risistemazioni avevano avuto l’obiettivo di salvare la
popolazione da quella carestia che aveva ricevuto ampia attenzione dai media
inteazionali proprio grazie all’iniziativa di Geldof e Ure. In realtà, affermò
Rieff, lo scopo principale del Derg era stato quello di creare un
meccanismo di controllo capillare della popolazione e di contrastare i
movimenti di opposizione intea.

Oltre alle considerazioni riguardanti le conseguenze del
Live Aid sulla popolazione etiope, Rieff avanzava una serie di critiche
che, a ben guardare, possono essere estese anche oggi a tutti gli eventi di cui
la kermesse del 1985 è la madre. Innanzitutto, si chiedeva il
giornalista nel 2005, come si spiegava che l’Africa stesse peggio di vent’anni
prima nonostante le tante iniziative benefiche promosse da personaggi illustri?
E ancora: perché le cause della carestia etiope, che era imputabile non solo
alla natura ma a precise scelte umane (del governo di Menghistu), erano state
totalmente ignorate dagli organizzatori che avevano privilegiato, invece, una
comunicazione basata su semplicismi relativi ai concetti di bisogno, aiuto e
dovere morale?

Le campagne di successo in rete

L’avvento della rete ha offerto ulteriori strumenti alla
mobilitazione e alla sensibilizzazione. Si pensi al caso di Kony 2012.
La campagna contro il sanguinario leader del Lord Resistance Army in
Uganda, Joseph Kony, e le atrocità da lui commesse a danno della popolazione
civile e in particolare dei bambini ha mostrato come un prodotto ben
confezionato dal punto di vista video e altrettanto ben promosso attraverso i social
networks
e i testimonial d’eccezione (due fra tutti: Angelina Jolie e
George Clooney) può ottenere in breve tempo una grande esposizione mediatica.

Anche in quel caso i critici hanno insistito sul
pressappochismo delle informazioni – le operazioni dell’esercito di Kony non si
svolgevano più in Uganda da anni all’epoca della diffusione del video -, sul
fuorviante ricorso a immagini e termini che, pur in grado di coinvolgere
emotivamente lo spettatore, restituivano una visione distorta della realtà e su
come la campagna indicasse come atto umanitario l’invio di truppe statunitensi
in Uganda per «fermare Kony». Eppure, il video è arrivato nel giro di sei
giorni a cento milioni di click fra YouTube e Vimeo, due fra i
principali siti di condivisione dei video.

Italia, il «caso» Mission

Che anche nel mondo della cooperazione italiana stiano
prendendo piede in modo deciso la caccia al testimonial e la conquista
del grande pubblico attraverso una comunicazione spettacolarizzata non è una
novità. Ma Mission, il programma trasmesso in due serate lo scorso
dicembre da RaiUno, è probabilmente l’esempio che più di tutti ha generato
polemiche e sollevato dubbi tutto sommato inediti. Mission, che nelle
parole del direttore della rete Giancarlo Leone è stato «un progetto di social
tv
e non un reality show», ha portato alcuni volti noti della tv e
del giornalismo italiani (Al Bano e le sue figlie, Paola Barale, Emanuele
Filiberto di Savoia, Barbara De Rossi, Michele Cucuzza e altri) per due
settimane nei campi profughi di Giordania, Repubblica Democratica del Congo,
Sud Sudan, Ecuador e Mali allo scopo di prendere parte alle attività delle
organizzazioni umanitarie e di raccontare poi la loro esperienza in studio
commentando le riprese effettuate sul campo. Alla preparazione del programma,
alle riprese e alla trasmissione stessa hanno partecipato funzionari dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) e cooperanti dell’Ong
Intersos, il cui ruolo è stato quello di fornire ai Vip e alla Rai le
informazioni necessarie per evitare di cadere in quella che molti critici, fin
dall’annuncio dell’inizio delle riprese, avevano definito «pornografia
umanitaria». La trasmissione ha ottenuto circa due milioni e duecentomila
spettatori a puntata: un flop per la Rai, ma una mole di persone comunque
irraggiungibile per qualunque campagna di sensibilizzazione di una Ong italiana
di medie o piccole dimensioni.

Se, da un lato, c’è chi ha dato un giudizio positivo su Mission
perché ha acceso le luci su temi che i programmi di prima serata di RaiUno di
solito non affrontano, dall’altro lato molto più numerosi sono stati i critici.
Eugenio Melandri del Coordinamento Iniziative Popolari di Solidarietà
Internazionale (Cipsi) ha parlato di «marchettone natalizio». Luciano
Scalettari di Famiglia Cristiana lo ha definito «il trionfo del dilettantismo e
della noia», «un’occasione sprecata» che ha reso «protagonisti i personaggi
famosi anche se non sanno di cosa stanno parlando». Non così negativa, invece,
l’opinione espressa dal blog Info-cooperazione, punto di riferimento per
gli operatori della cooperazione in Italia, che ha definito Mission un «reportage
compassionevole, il trionfo dell’aiuto assistenziale condito da una televendita
continuativa dell’agenzia Onu per i rifugiati» ma, complessivamente, «nei limiti
della decenza».

Un bilancio

Al di là dei giudizi sulle singole iniziative, ciò che
emerge da una loro analisi è una serie di domande: ottenuta l’attenzione di
milioni di persone, che cosa ne hanno fatto i promotori degli eventi? Quali
messaggi, quali informazioni hanno veicolato? Hanno effettivamente comunicato i
temi dello sviluppo e contribuito a cambiare la percezione del grande pubblico
su di essi? L’impressione è che se l’obiettivo era raccogliere fondi da mettere
poi nelle mani di esperti e tecnici della cooperazione o della risposta alle
emergenze, il bilancio è tutto sommato positivo. Ma se lo scopo era invece
creare consapevolezza nel pubblico, i grandi eventi hanno fallito miseramente.
Il continuo ricorso a termini, immagini e ricostruzioni emotivamente
coinvolgenti ma approssimative e semplicistiche spinge a dubitare che anche
solo uno dei fruitori di queste iniziative sia oggi davvero più informato.
Sarebbe stato necessario mettere in evidenza nel programma televisivo quali
sono gli interessi e i fattori economici, politici e geostrategici che
scatenano conflitti e causano l’esodo in massa di milioni di profughi.

«L’assenza di un’analisi di questo tipo (sulle cause, ndr.)
non ha affatto aiutato i telespettatori a capire come le guerre nei vari paesi
toccati dal reality show facciano guadagnare i commercianti di armi, chi
le produce, le banche che si prestano alle transazioni della compravendita di
armi e i paesi interessati a tener vivo questo business».

«Senza questa essenziale informazione, il programma Mission
ha sollecitato il pubblico a gesti di carità ma ha ridotto l’impegno a un
buonismo sterile che serve solo a superare il nostro senso di colpa. Non è
stato capace, invece, di invitare i telespettatori a un impegno di pace, a individuare
le cause e le complicità che protraggono questi conflitti». Così ha commentato
la Federazione della stampa missionaria italiana di cui MC fa parte.

Che fare?

Resta da capire la parte più importante: perché questa
scelta di comunicazione? Il sospetto è che questo genere di messaggi ed eventi
sia preferito, semplicemente, perché è il più rapido ed efficace per la
raccolta fondi. Esso infatti non richiede un grande lavoro di analisi dei
contesti, e nemmeno uno sforzo di traduzione di quelle analisi in un linguaggio
adatto ai non addetti ai lavori capace di descrivere, spiegare e coinvolgere
senza banalizzare.

La sfida non è quella di raggiungere milioni di persone.
La vera sfida è raccontare storie comprensibili. Coinvolgenti perché più simili
alle loro di quanto non si pensi, o perché riguardano problemi che oggi non
appartengono più a una parte sola del globo, ma a tutti, seppure in misura
diversa da un paese all’altro.

Vengono in mente provocazioni come quella del «meme»
recentemente apparso su Inteet, un’immagine di un panorama africano
accompagnato dalla scritta: «Ogni sessanta secondi, in Africa, è passato un
minuto», in evidente polemica con il modo in cui spesso vengono esposti i dati
sulla mortalità e sulle malattie nel sud del mondo (i vari «Ogni sessanta
secondi in Africa la malaria uccide un bambino» e simili). Oppure ancora lo
spassosissimo video realizzato dal Fondo per l’assistenza internazionale
degli studenti e accademici norvegesi
in cui un paffuto bambino africano
che fa da protagonista per uno spot dal titolo «Salviamo l’Africa!» consola una
giovane donna europea dalle lacrime facili e discute con il regista dello spot
che lo esorta a rispettare il copione. «Dobbiamo creare impegno costruito sulla
conoscenza, non sugli stereotipi», recita la didascalia del video.

Forse, a trent’anni dal Live Aid e considerando i
risultati fin qui ottenuti dalla spettacolarizzazione della comunicazione sullo
sviluppo, gli operatori della solidarietà internazionale, che in definitiva
sono quasi sempre gli attori a cui Vip, media e pubblico in generale  devono appoggiarsi per raggiungere le realtà
di crisi, dovrebbero concentrarsi su strumenti e messaggi più simili a questi
nel ripensare le loro strategie di comunicazione.

Chiara Giovetti

3 DOMANDE A:

Elias Gerovasi,
ideatore e curatore di Info-cooperazione,
il blog degli operatori della cooperazione.

Elias, Info-cooperazione è stato una bella novità degli ultimi anni
nel panorama dell’informazione in Italia, utile non solo per tenere d’occhio i
bandi ma anche per informarsi e partecipare al dibattito sulla cooperazione.
Come è nata l’idea del tuo blog e per quali interlocutori lo hai concepito?

L’idea del blog nasce da alcune esigenze di chi lavora
nella cooperazione, conosciute attraverso il confronto con colleghi che, come
me, operano nel settore per una Ong. Tenersi informati in tempo reale sulle
opportunità di finanziamento è infatti fondamentale per chi deve trovare
quotidianamente le risorse per i progetti. Eppure le informazioni vengono
spesso riservate a cerchie ristrette per interesse sia dei finanziatori che dei
possibili beneficiari. Questo in passato ha limitato molto la competizione tra
Ong e associazioni, e ha anche ristretto le opportunità di partenariato. Poi
c’era una questione di trasparenza che ci stava a cuore: si tratta quasi sempre
di risorse pubbliche, e quindi ci deve essere massima pubblicità e trasparenza.
Fino a pochi anni fa, e forse anche oggi, era difficilissimo sapere come
venissero spesi i soldi, quali fossero, per esempio, gli esiti dei bandi
pubblici. Con il blog abbiamo voluto dare una risposta a questi bisogni e
questo è stato fortemente gradito soprattutto dagli operatori e dai volontari
di Ong e associazioni che non hanno capacità di lobby presso i donatori e le
istituzioni. Certo, abbiamo anche reso la vita più difficile a qualcun altro:
mi viene in mente l’esempio di una Fondazione che normalmente riceveva una
trentina di proposte progettuali da finanziare ogni anno e se ne è viste
arrivare oltre 600 dopo la pubblicazione del bando su Info-cooperazione.

Col passare dei mesi ci siamo resi conto che la
limitazione d’informazioni non riguardava solo le opportunità finanziarie.
Qualche migliaio di operatori del settore, infatti, sentiva una mancanza di
rappresentanza e la necessità di uno spazio di discussione. La rete ha dato
questa opportunità con lo strumento banale e semplice di un blog. Tanti
colleghi hanno iniziato a contribuire mandando suggerimenti su temi da trattare
o articoli con opinioni sugli argomenti caldi che la cooperazione si trova ad
affrontare in un periodo come quello odierno definito ormai da tutti di «crisi
di identità». Il resto si è fatto grazie al tempo e all’interesse dei lettori
che non ci aspettavamo assolutamente potessero arrivare alle cifre attuali.
Tieni conto che il blog si fa nei ritagli di tempo e nel weekend, ed è basato
sul contributo volontario, in tutti i sensi. 

Live Aid, Live 8, star di Hollywood come testimonial; qui
da noi, Lorella Cuccarini a Goma nel 2006 con Trenta ore per la vita e,
più di recente, l’esperienza di Mission. Qual è il tuo bilancio su
questo ruolo, negli ultimi trent’anni, dei grandi eventi e dei grandi
personaggi per comunicare la solidarietà internazionale?

Purtroppo anche questa dinamica è già arrivata alla sua
esasperazione. I testimonial si trovano sui cataloghi delle agenzie di Pr (Public
relations
, ndr) e comunicazione. Trovare testimonial veri e impegnati come
ai tempi di Live Aid è oggi quasi impossibile. Non credo si debba
condannare il coinvolgimento di testimonial in sé. Quando è stato fatto in modo
genuino l’ho trovato anche utile e interessante.

Ma oggi non è più così, le Ong per garantirsi un impatto
forte in termini di visibilità e raccolta fondi si affidano al marketing
e ai comunicatori che replicano su questo settore logiche commerciali molto
raffinate incontrando gli interessi dello show business e dei personaggi
noti alla ricerca di una charity da aiutare. Nel settore ambientale gli
inglesi lo chiamano green-wash, quando un’azienda inquinante sostiene
attività «verdi» per ripulire la propria immagine. Qui in molti casi si tratta
di charity-wash (ripulire la propria immagine attraverso gesti di «carità»).

Purtroppo trattandosi di una simbiosi perfetta credo che
il fenomeno sia destinato a un’ulteriore esasperazione, tanto che alcuni Vip
faranno solo questo di mestiere e alcune Ong avranno più testimonial che
volontari.

Molti, fuori dal «recinto» degli addetti ai
lavori, trovano la solidarietà e lo sviluppo temi noiosi, o tristi, o troppo
impegnativi. Secondo te è un dato di fatto che si tratti di argomenti non
facilmente comunicabili? O siamo noi operatori della cooperazione che sbagliamo
strategia e, in questo caso, che cosa dovremmo cambiare?

Che si tratti di temi tristi e impegnativi non c’è
dubbio. Ma non è vero che non siano comunicabili. Credo che il «problema madre»
del nostro settore in fatto di comunicazione sia solo uno: pretendere di
sensibilizzare l’opinione pubblica e contemporaneamente di raccogliere fondi .
O meglio, in molti casi, sensibilizzare al solo fine di raccogliere fondi.

Hai fatto l’esempio di Mission, la trasmissione
di RaiUno che ritengo abbia rappresentato in pieno questo modello diventando
un’occasione persa. Il mondo dei rifugiati è stato raccontato in modo melenso,
pietista e superficiale al solo fine di veicolare una campagna di raccolta
fondi e di fare il charity-wash della Rai. Eppure in passato mi è
capitato di vedere film o documentari e sentire canzoni che mi hanno fortemente
sensibilizzato su diversi temi legati alla povertà e alla giustizia sociale, ma
non avevano uno scopo di raccolta fondi e credo abbiano raggiunto il loro
obiettivo, quello di aprire gli occhi dell’opinione pubblica su drammi e
ingiustizie del mondo. Ritengo che la sfida di comunicare al grande pubblico,
seppur difficile, sia possibile affrontarla e vincerla soprattutto se si sta
alla larga dal fund raising.

E poi non c’è solo la Tv, pensa ai milioni di email e
lettere che ogni mese le nostre Ong recapitano ad altrettanti italiani: anche
questa è comunicazione e potrebbe essere utilizzata per veicolare qualche
contenuto.

Se ti mando una lettera con una gigantografia di un
bambino denutrito morente accompagnata da un bollettino postale dicendoti che
solo tu potrai salvare quel bimbo, voglio sensibilizzarti sulla malnutrizione
infantile in Africa o semplicemente scucirti soldi raccontandoti una storia
semplice, parziale e volontariamente drammatizzata? Anche queste sono occasioni
perse e perpetuano una comunicazione errata della povertà e dello sviluppo
globale.

Ma prepariamoci al peggio, in futuro questo capiterà
anche con la politica con l’avvento della raccolta fondi dei partiti a seguito
della progressiva abolizione dei finanziamenti pubblici. Pensa ai partiti che
dovranno convincere i cittadini a donare e firmare il 2×1000 dell’Irpef nelle
dichiarazioni dei redditi, non voglio pensare a cosa manderanno nelle nostre
caselle postali!

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Faccia da poker: il gioco d’azzardo (seconda parte)

Giocare
d’azzardo può diventare molto pericoloso. Per sé, per i propri familiari, per
la società. Come si diventa «malati di gioco»? Chi è più a rischio? Come si può
guarire?

Poker Face, faccia da poker. Il titolo della famosissima canzone
di Lady Gaga sintetizza in due sole parole gli aspetti, che caratterizzano un
giocatore incallito. Certamente si tratta di un’esagerazione, poiché
esteriormente non ci sono elementi per distinguere un giocatore da chi non
gioca, tuttavia diversi studi sociologici, psicologici e neurobiologici hanno
permesso di individuare nei giocatori compulsivi precise caratteristiche che li
distinguono da coloro che non giocano o che giocano senza dipendenza.

Più perdi, più giochi

Per conoscere meglio i comportamenti legati
al gioco ed alle altre dipendenze degli italiani, nel biennio 2007-08 è stato
condotto a livello nazionale lo studio Ipsad (Italian Population Survey on
Alcohol and other Drugs
), un’indagine statistica («di prevalenza»)
effettuata mediante la distribuzione di un questionario per raccogliere
informazioni sui comportamenti di dipendenza (addiction) nella
popolazione generale, secondo gli standard metodologici definiti dall’«Osservatorio
europeo sulle droghe e tossicodipendenze» (Emcdda) di Lisbona. In particolare
per quanto riguarda il gioco sono state raccolte informazioni sull’abitudine a
giocare denaro, sull’intensità della propensione al gioco, sul «gioco d’azzardo
patologico» (Gap, o ludopatia), secondo la scala Canadian Problem Gambling
Index Short Form
. Da questa indagine è emerso che il giocatore una
tantum
è uomo, tra i 25 ed i 44 anni, con un livello di istruzione medio
alto, vive da solo o con amici e ha un lavoro affermato (imprenditore
dirigente, ecc). Giocano meno le casalinghe, i pensionati e le persone con
figli oppure i commercianti e i liberi professionisti. Sostanzialmente è emerso
che un livello socio-economico alto è maggiormente associato al gioco
d’azzardo. Però sono le persone con un basso livello economico ad essere più
frequentemente giocatori problematici. Sono inoltre state riscontrate
significative correlazioni tra il gioco d’azzardo ed il consumo di alcol, di
fumo e/o di droghe. Inoltre il gioco è spesso associato a varie tipologie di
comportamento aggressivo e talora alla pregressa perdita di denaro o di oggetti
di valore.

Nello studio è stato chiesto alle persone
quanto disapprovino chi gioca e quanto pensino sia rischioso giocare. Si è
visto che nei giocatori è presente una minore percezione del rischio del gioco
e una minore disapprovazione.

Un fenomeno diffuso è la «rincorsa della
perdita», cioè molti giocatori problematici tornano spesso a giocare per
tentare di recuperare il denaro perso.

Per quanto riguarda la diffusione
dell’abitudine al gioco a livello nazionale, si gioca di più nel Sud Italia,
soprattutto in Molise, Campania e Sicilia, mentre le regioni in cui si gioca
meno sono risultate la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige. 

Tra i giochi, che vanno per la maggiore, le
macchine elettroniche (slot machines) rappresentano quasi la metà del
comparto dei giochi pubblici e sono seguite, come volume d’affari, dal
superenalotto, dalle lotterie istantanee e telematiche, dalle scommesse
sportive ed infine dal bingo.

Chi gioca

La partecipazione a diverse tipologie di
giochi per un giocatore è risultata essere un forte indizio di gioco d’azzardo
patologico già in atto o futuro.

Si è visto inoltre che i giochi che
foiscono un feedback immediato attraggono maggiormente rispetto agli
altri, quindi danno più facilmente dipendenza. Tra questi sicuramente vanno
annoverati i videopoker, che presentano due importanti caratteristiche: in
primo luogo, l’affrettata ripetitività del tentativo successivo, che non
consente di rielaborare il gioco precedentemente effettuato ed in secondo
luogo, l’esiguità della singola giocata, che abbassa la soglia di percezione
del danno derivante dal gioco.

Come già spiegato (Gratta e perdi,
MC, maggio 2013), un’analoga indagine, denominata Espad (European
School  Survey Project on Alcohol and
Other Drugs
: www.espad.org) è stata effettuata sugli studenti italiani
delle scuole superiori. In questo studio è stato osservato che i ragazzi con
comportamenti a rischio (uso o abuso di sostanze psicoattive, legali e non;
rapporti sessuali non protetti, ecc.), quelli che hanno avuto guai con le forze
dell’ordine o che spendono più di 50 euro la settimana senza il controllo dei
genitori, hanno maggiori probabilità di diventare giocatori problematici. Altre
caratteristiche favorenti il vizio del gioco tra i giovani sono: avere amici o
fratelli, che fanno uso di alcol e/o droghe, andare spesso in giro con amici,
giocare con frequenza col Pc ed i videogiochi, navigare in internet, uscire
spesso la sera, stare davanti alla tv più di 4 ore al giorno, avere perso più
di 3 giorni di scuola nell’ultimo mese senza motivo, essere stati coinvolti in
incidenti, avere avuto gravi problemi nei rapporti con i genitori o con gli
insegnanti, essere fumatori, avere avuto un rendimento scolastico scadente. Per
contro, sono meno a rischio di diventare giocatori i ragazzi con genitori, che
sanno con chi escono i figli, quelli che leggono per piacere, che praticano
hobbies, che si prendono cura della casa, di persone o animali, che sono
soddisfatti del proprio rapporto con i genitori e della propria situazione
finanziaria.

Il giocatore patologico

Già nel 1980 il «gioco d’azzardo patologico»
è stato inserito dall’Apa (American Psychiatric Association) nel «Manuale
statistico e diagnostico dei disturbi mentali» (Dsm lll), come una vera e
propria malattia psichiatrica classificata tra i disturbi del controllo degli
impulsi. Nel manuale successivo, il Dsm IV, per definire il giocatore
patologico vengono proposti i seguenti criteri diagnostici, dei quali almeno 5
devono essere contemporaneamente presenti: 1) il soggetto è eccessivamente
assorbito dal gioco d’azzardo (è impegnato continuamente a rivivere le passate
esperienze di gioco, a pianificare le future ed a procurarsi il denaro
necessario); 2) deve giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo
stato di eccitazione desiderato; 3) ha più volte tentato di ridurre o
interrompere il gioco d’azzardo senza successo; 4) è irrequieto o instabile,
quando tenta di ridurre o interrompere il gioco; 5) gioca d’azzardo per
sfuggire i problemi o alleviare un umore disforico (stati d’ansia, di colpa,
d’impotenza, di depressione); 6) mente ai propri familiari o al terapeuta, per
minimizzare il proprio coinvolgimento nel gioco; 7) ha commesso azioni illegali
come furto, frode, falsificazione, appropriazione indebita allo scopo di
procurarsi il denaro necessario per giocare; 8) ha messo a repentaglio o perso
una relazione importante, il lavoro, la carriera o lo studio per il gioco; 9)
fa affidamento sugli altri per alleviare una situazione economica disperata
causata dal gioco, senza peraltro essere in grado di restituire le somme
ottenute in prestito.

Dentro la malattia

Alcuni studi attribuiscono un ruolo
fondamentale all’impulsività del giocatore, sottolineando una correlazione tra
il Gap e le disfunzioni del controllo degli impulsi. Secondo altre ricerche il
Gap deve essere visto come una vera e propria dipendenza, intesa come un
assoggettamento fisico dell’individuo da parte di una sostanza, che agisce e
modifica il funzionamento chimico dell’organismo. Dato che in questo caso la
sostanza non c’è, ci troviamo di fronte ad una dipendenza senza droga. Secondo
il primo gruppo di studi, il comportamento compulsivo presente nel Gap è una
malattia con basi neuro-fisio-patologiche che colpisce persone particolarmente
vulnerabili per la presenza di fattori individuali, amplificati e slatentizzati
(fatti emergere) da fattori socio-ambientali (si pensi agli stimoli
addizionali, che vengono messi all’interno delle sale da gioco e dei casinò: le
luci, la musica, gli ambienti eccitanti, l’alcol, le evocazioni sessuali). Tra
i fattori individuali vi sono importanti modificazioni dei sistemi cerebrali
come la corteccia pre-frontale (responsabile del controllo dei comportamenti
volontari), la corteccia orbito-frontale ed il giro cingolato (responsabili con
la corteccia pre-frontale del craving, vedi Glossario), il nucleo
accumbens (sistema della gratificazione), il sistema degli oppioidi
endogeni (implicato nella regolazione dell’ansia), l’amigdala estesa
(importante drive dei comportamenti aggressivi e delle sensazioni legate
alla paura), il sistema della memoria residente prevalentemente nell’ippocampo,
che è adibito alla memorizzazione del feedback (l’effetto di un atto o
di un comportamento su colui che l’ha compiuto). Inoltre l’ippocampo è
responsabile della memorizzazione delle decisioni volontarie, della magnitudo e
della durata della gratificazione correlata allo stimolo, della magnitudo e
della durata dell’effetto derivante dal gioco sull’ansia, sulla depressione,
sulla noia e sull’aggressività. In esso vengono anche memorizzati gli impulsi
attivanti il drive emozionale; la memoria stessa può da sola attivare il
drive mediante l’evocazione di ricordi, pensieri e situazioni correlati al
gioco d’azzardo. Infine un’altra struttura molto importante implicata nel
sistema motivazionale è il talamo. Il Gap è anche legato all’importanza che uno
stimolo assume per una persona rispetto al resto. Si è visto infatti che in un
cervello, che ha sviluppato dipendenza, la salienza (importanza attribuita a un
fatto) è estremamente alta rispetto alla norma. In pratica, la persona
dipendente focalizza la sua vita quasi esclusivamente sulla ricerca dello
stimolo, che ritiene particolarmente importante o addirittura essenziale.

Oltre alle caratteristiche neurostrutturali,
l’individuo presenta un sistema cognitivo, che si modifica costantemente e si
adatta alle condizioni socio-ambientali, attraverso lo sviluppo di credenze che
sono capaci di orientare fortemente le sue scelte ed il suo comportamento. Tali
credenze, nelle persone affette da Gap, tendono a sconfinare in vere e proprie
distorsioni cognitive, che si sviluppano nel tempo e sono in grado di fissare
il comportamento, nonché di reiterare e rendere permanente la dipendenza.
Queste persone presentano perciò una minore flessibilità mentale (in
particolare nella riformulazione e nell’uso di nuove strategie cognitive) e un
ridotto grado di apprendimento su come operare scelte vantaggiose. La presenza
di una minore flessibilità delle attività cerebrali è stata documentata da
studi di elettroencefalografia, che hanno evidenziato alterazioni importanti
dell’attività cerebrale, che porterebbero a perseverare nell’attività del gioco
d’azzardo, nonostante le conseguenze negative.

Studi di risonanza magnetica funzionale
hanno inoltre evidenziato che nei pazienti affetti da Gap, durante
l’aspettativa della vincita si manifesta un’accresciuta attività del sistema di
ricompensa, mentre dopo la vincita risulta minore, rispetto alla norma,
l’attività nelle aree della gratificazione. E durante il gioco c’è una minore
attivazione delle aree di controllo. Questo sbilanciamento nei giocatori
patologici può fare continuare il gioco d’azzardo.

Le alterazioni neurobiologiche che sono alla
base del Gap sono strettamente correlate all’alterazione dei sistemi di
produzione e di rilascio di vari neurotrasmettitori: dopamina (alti livelli
post-stimolo indicano maggiore effetto gratificante del gioco, rispetto ad
altri stimoli), noradrenalina (alti livelli post-stimolo comportano
intensificazione dell’eccitazione e della ricerca di sensazioni forti),
serotonina (bassi livelli post-stimolo indicano disturbi del controllo degli
impulsi da parte della corteccia pre-frontale), oppioidi endogeni, cioè
beta-endorfine (bassi livelli post-stimolo comportano alterazioni della
ricompensa, del piacere e della sofferenza). Vari studi sperimentali hanno
dimostrato che esiste una base genetica per la disregolazione di questi
neurotrasmettitori.

Elementi neurobiologici  e colpe dello stato

Sulla base delle prove scientifiche sommariamente ricordate, è
evidente che esistono persone più vulnerabili di altre, per le loro
caratteristiche neurobiologiche, quindi a maggiore rischio di dipendenza da
gioco o da sostanze psicoattive. Tali persone dovrebbero essere particolarmente
tutelate dallo stato, che invece è quanto meno corresponsabile della loro
ludopatia, avendo deciso di rimpinguare le proprie casse con i proventi del
gioco d’azzardo.

Rosanna Novara Topino
 

Tipi di Gioco

• Slot machine
• Videopoker
• Giochi da casinò (roulette, giochi di carte, ecc.)
• Gratta e vinci, Nevada, Scopri il numero
• Scommesse sportive (su corse ippiche, partite di calcio,
golf, biliardo)
• Speculazioni sui titoli di borsa
• Keno
• Lotterie
• Bingo
• Tombola

 TIPOLOGIE DI
GIOCATORI D’AZZARDO

• Giocatore sociale: che sa governare gli impulsi
distruttivi, usa il gioco come attività ricreativa e di socializzazione.
• Giocatore problematico: usa il gioco per sfuggire ai
problemi.
• Giocatore patologico: a causa di problemi psichici gioca
per distruggere inconsciamente se stesso e gli altri.
• Giocatore patologico impulsivo/dipendente: è mosso da
impulsi irrefrenabili nell’attività di gioco. 

LE FASI DELLA PATOLOGIA

• Fase vincente:
il gioco è occasionale, con vincite iniziali, che motivano a giocare in modo
crescente, spesso grazie alla capacità del gioco di produrre piacere e di
alleviare tensioni e stati emotivi negativi.

• Fase perdente:
caratterizzata dal gioco solitario, da più denaro investito nel gioco, dalla
nascita di debiti, dalla crescita del pensiero relativo al gioco e del tempo
speso a giocare.

• Fase di
disperazione:
aumenta ulteriormente il tempo dedicato al gioco e
l’isolamento sociale conseguente. I problemi lavorativi, scolastici, familiari
ed economici si ingigantiscono e talora sono la causa di tentativi di suicidio.

• Fase critica:
nasce il desiderio di aiuto, la speranza di uscire dal problema e vengono fatti
tentativi di risoluzione dei problemi lavorativi e socio-familiari.

• Fase di
ricostruzione:
si intravedono miglioramenti nella vita familiare, nella
capacità di pianificare nuovi obiettivi e nell’autostima.

• Fase di crescita:
in cui si sviluppa maggiore introspezione e un nuovo stile di vita lontano dal
gioco.

          GLOSSARIO                                                                 

Beta-endorfine
(oppioidi endogeni): sono sostanze chimiche prodotte dal cervello e dotate di
una potente attività analgesica ed eccitante. La loro azione è simile a quella
della morfina e delle altre sostanze oppiacee. Vengono sintetizzate anche
nell’ipofisi, nel surrene e in alcuni tratti dell’apparato digerente e hanno i
loro recettori in varie zone del sistema nervoso centrale, soprattutto nelle
aree deputate alla percezione dolorifica.

Craving: è un
forte e irresistibile bisogno di assumere una sostanza (o di tenere un certo
tipo di comportamento, come nel caso del gioco). È un desiderio compulsivo, che
diventa fortissimo e irrefrenabile e, se non soddisfatto, può provocare
sofferenza psicologica e fisica, ansia, insonnia, aggressività e altri sintomi
depressivi. Può esserci anche in assenza di dipendenza fisica e può comparire
anche nel momento in cui la persona rientra in contatto con la sostanza oppure
torna in un luogo frequentato quando era dipendente.

Dopamina: è un
neurotrasmettitore della famiglia delle catecolamine. Viene prodotta in diverse
aree del cervello ed è anche un neuro-ormone rilasciato dall’ipotalamo. La sua
principale funzione come ormone è l’inibizione del rilascio di prolattina da
parte dell’ipofisi anteriore, mentre nel cervello ha un ruolo importante in:
comportamento, cognizione, movimento volontario, motivazione, punizione e
soddisfazione, sonno, umore, attenzione, memoria di lavoro e di apprendimento.
Agisce inoltre sul sistema nervoso simpatico, determinando accelerazione del
battito cardiaco e aumento della pressione sanguigna.

Drive emozionale /
amigdala:
funzione di controllo delle emozioni (in particolare della paura)
esercitata dall’amigdala, struttura facente parte del sistema limbico e
localizzata nella parte anteriore del lobo temporale mediale dei due emisferi
cerebrali.

Ippocampo:
struttura cerebrale localizzata nella parte mediale del lobo temporale e
facente parte del sistema limbico. Svolge un ruolo importante nella memoria a
lungo termine e nell’orientamento spaziale.

Noradrenalina:
detta anche norepinefrina, è un ormone sintetizzato dalla midollare del
surrene, ma è anche un neurotrasmettitore prodotto dal sistema nervoso centrale
e simpatico (fibre post-gangliari).

Serotonina: è un
neurotrasmettitore sintetizzato dai neuroni serotoninergici del sistema nervoso
centrale e delle cellule enterocromaffini dell’apparato gastrointestinale. È
principalmente coinvolta nella regolazione dell’umore, del sonno, della
temperatura corporea, della sessualità e dell’appetito. La serotonina è
coinvolta in numerosi disturbi neuropsichiatrici come l’emicrania, il disturbo
bipolare, la depressione e l’ansia. Alcune sostanze stupefacenti come le
amfetamine e l’Mdma in particolare agiscono su questo neurotrasmettitore,
inibendone l’assorbimento. Ciò comporta un accumulo di serotonina nel cervello,
dando luogo, per il tempo dell’effetto della sostanza, a uno stato di
entusiasmo e benessere.

Talamo: è una
struttura situata anteriormente al tronco cerebrale. In esso si trovano nuclei
di sostanza grigia (neuroni) e fibre nervose connesse a grandi aree della
corteccia cerebrale, che esso eccita, attivando la funzione elaborativa dei
contenuti emozionali percepiti dal sistema limbico, con cui è anche connesso.

 
ECCO CHI AIUTA
• Piemonte
Comunità Terapeutica «Lucignolo & Co.», Via Roma 30,
Rivoli (To): Tel. 011 9584849 – Fax: 011 9533056  – 
asl5.ct.rivoli@sert.piemonte.it.

Asl To3, Dipartimento «Patologia delle dipendenze», Viale
Martiri XXX Aprile, 30 Collegno (To);  Tel.
011 4017546 –  Fax: 011 4017480

• Toscana

Sert Arezzo, II Dipartimento delle Dipendenze di Arezzo c/o
, Via Fonte Veneziana 17, Arezzo; Tel. 0575 255943 – Fax: 0575 255942

• Trentino Alto Adige
Siipac, «Società italiana intervento patologie compulsive»,
Via Siemens 29, Bolzano:
Sito: www.siipac.it – E-mail: info@siipac.it

• Veneto

Sert di Mestre, Via Calabria 17, Mestre (Ve), Tel. 041
5440526/31

Sert di Castelfranco Veneto, Via Ospedale, 18 c/o Ospedale  Castelfranco Veneto (Tv) Tel. 0423 732736
La Bussola, Piazza Niello 1, Legnago (Vr), Tel. 349 5826279

• Lazio
Studio Krisis, Roma: www.studiokrisis.it

• Puglia

«Associazione Giocatori Anonimi» c/o Parrocchia San Sabino
di Bari, Tel. 333 6513285

• Sardegna

Sert Cagliari c/o Asl 8 Sardegna, Cagliari, Tel. 070
6096310-6096322

ASSOCIAZIONI

Alea, «Associazione
per lo studio del gioco d’azzardo e del comportamento a rischio».
Associazione Orthos (Siena, Milano, Trieste, Roma).

SITI WEB

• Sos azzardo:
www.sosazzardo.it 
• Associazione
giocatori anonimi:
www.giocatorianonimi.org

 

Rosanna Novara Topino




«Chiesa peregrinante verso la Gerusalemme celeste» | Rendete a Cesare 5

«Essi non sono del mondo, come Io non sono del mondo» (Gv 17,16)

Distinzione netta e separazione

Di distinzione netta e separazione efficace, non nella storia, ma nei criteri di valutazione, si parla nel racconto della passione nel IV vangelo. In Gv 18,36 davanti a Pilato, che ribadisce il suo potere politico perché ha l’autorità di giudicare e di mettere a morte, Gesù afferma: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo». Il greco usa l’espressione «hē basiléia, hē emê» che deve essere tradotta in forza del contesto e non materialmente, trasponendo solo le singole parole. «Basiléia» può significare «regno» e «regalità». Nel senso di «regno» si riferisce a un territorio in cui il «re» può esercitare la sua autorità; ma anche «il popolo» su cui la regalità si esercita, oppure la dignità regale in se stessa. Il senso da dare in ogni traduzione dipende dal contesto. Pilato crede che esista un solo «re» in tutto il mondo e quindi è preoccupato che qualcuno diverso da Cesare possa definirsi «re» in concorrenza, e per questo interroga Gesù: per valutare la portata di questa asserita «basiléia». Non può essere riferita ai Romani che riconoscono solo Cesare; resta il senso etnico, quasi razziale di Gv 18,33: «Tu sei il re dei Giudei?».

Pilato non può ammettere altra «basiléia» che non sia riconosciuta da Cesare, il quale ha già nominato Erode «re dei Giudei», cioè suo rappresentante/suddito, pur essendo estraneo al popolo d’Israele: un altro che vuole essere re, o è pazzo o è pericoloso. La domanda, infatti, è densa di preoccupazione squisitamente politica, perché l’orizzonte di Pilato è solo sul piano di quello che vede e sperimenta, non può andare oltre. In bocca al procuratore romano l’espressione può essere anche dispregiativa, mentre in bocca a un giudeo ha un valore nobile, anzi teologico perché corrisponde a «Re d’Israele» come nel grido della folla che lo acclama in Gv 12,13: «Benedetto nel nome del Signore colui che viene, il re d’Israele».

Nel contesto, però, avviene un fatto nuovo, imprevedibile: le autorità religiose giudaiche davanti all’affermazione di Gesù, inorriditi, rifiutano il Messia, «il re dei Giudei», e scelgono Cesare, un idolo con cui sostituiscono il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», il Dio dei Padri: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). Con questa scelta, cessano di essere «il popolo d’Israele» al quale era stato mandato Gesù-Messia, e diventano un popolo qualsiasi, qualificato etnicamente come «Giudei», i quali si accontentano di un re provvisorio, nuovo idolo in sostituzione del Dio del Sinai.

La differenza di regalità

Nell’intervista di Pilato a Gesù è in discussione la natura della regalità/regno di questi: se egli si dichiara «re», in che cosa si differenzia nell’esercizio della regalità da Cesare Augusto, dal faraone o dall’imperatore di Persia o Babilonia? Gli stessi soldati che l’hanno catturato e si sono attardati a divertirsi, burlandosi di lui, lo hanno fatto con gli strumenti del mestiere dei re: il mantello rosso (la clamide), la corona, seppure di spine, lo scettro e infine l’adorazione burlesca (cf Gv 19,2-3). Tutti questi ingredienti, pur in un contesto di burla, mettevano Gesù sullo stesso piano dei re ufficiali e quindi ve lo equiparavano. Questo è un punto nevralgico e decisivo per stabilire la veridicità di quanto abbiamo asserito. La distinzione tra potere politico e potere di Cristo (e di conseguenza della Chiesa) sta nell’affermazione netta e decisa di Gesù: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo/di questa natura» (Gv 18,36).

L’espressione di Gesù, tradotta alla lettera è questa: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo/ordinamento/natura (cioè: non proviene da esso; non è il mondo che dà l’origine a Gesù); se da questo mondo provenisse la regalità, quella mia, le guardie mie avrebbero lottato affinché io non venissi consegnato ai Giudei; ora, dunque, la mia regalità non è di qui [di questo posto]». Esaminiamo il senso profondo. Ci troviamo di fronte a due concetti di «regalità»:

  1. Cesare Augusto, attraverso il suo procuratore Pilato, esercita un dominio che ha usurpato. / Gesù si pone su un altro piano e non contesta Pilato, il quale invece, sentendo odore di «pericolo», indaga per scongiurare qualsiasi equivoco.
  2. Il procuratore romano, in nome di Cesare, riceve Gesù nel pretorio, cioè nel luogo simbolo del potere imperiale, da dove esercita il suo potere, sedendo «in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà» (Gv 19,13). / Gesù si è lasciato condurre e sballottare dai soldati dipendenti del tempio e ora resta in balia dei soldati romani che usano la forza e la violenza come metodo ordinario di tortura e sevizia.
  3. Cesare Augusto va fiero delle sue legioni, immagine stessa di Roma, con le quali va alla conquista del mondo per imporre il suo ordine e la «pax romana» che è sudditanza, spogliazione e tasse a favore dell’occupante. / Gesù che dovrebbe essere il prigioniero e condannato, sta in mezzo, e tutto il potere negativo (Romani e Giudei) ruota attorno a lui.
  4. Senza i soldati, Cesare è nulla e non avrebbe alcuna autorità perché il suo potere si basa solo sulla forza, cioè sull’esercito e quindi sul dominio. / Gesù è disarmato e ha due soli strumenti: la parola e il silenzio con cui fronteggia quello che si crede il potere.

Su questo ultimo punto, Gesù è chiaro e senza equivoci, perché è la sintesi di tutto: «La mia regalità non appartiene a questo ordine di cose». La prova di questa «diversità» sta nel fatto che non si presenta a Pilato con un esercito per difendere il suo diritto regale, né si oppone ai soldati con altri soldati.

Dio impotente e senza forza

Il «senso di onnipotenza» non appartiene alla logica di Gesù; egli non riconosce alla forza, tanto meno alla violenza, la dignità di strumento regale o di autorità. Egli è un re che si pone su un altro piano, un livello che Pilato non può capire e non capisce; nemmeno «i Giudei» capiscono e, infatti, fanno confusione fino ad arrivare alla falsità e all’omicidio pur di togliere di mezzo uno di cui non conoscono nulla, se non il pericolo che rappresenta per il loro potere.

Sta tutta qui la differenza: il potere del «cesare di tuo» usa la forza e la violenza e impone se stesso con le armi e la soppressione della libertà, perché occupa e domina esteriormente. Il potere di Gesù è mite, si accosta con dolcezza a ogni singola persona e si rivolge alla coscienza per svegliarla, se dorme, o per rafforzarla, se veglia. Egli rifiuta violenza e forza come strumenti di regalità fino al punto di subire violenza fino alla morte, fallendo apparentemente, ma senza mai rinnegare la propria «modalità» di essere regale. Per questo e solo per questo può essere «universale», cioè, non si assomma ai regni della terra e al tempo stesso si estende a tutti i popoli fino agli estremi confini dell’umanità (cf At 1,8), cioè fin dove c’è una persona con una coscienza attenta e attiva.

Il regno di Cristo non può essere, infatti, una gestione diretta del potere politico, economico e sociale, ma la convocazione di ogni singola persona alla corresponsabilità del servizio come dimensione del «Regno di Dio». L’autorità di Cristo non esige tassazione e imposizione di tributi, non comporta presenza fisica di dominio con strutture opprimenti. Se così fosse, avrebbe bisogno di militari per imporre e mantenere nel tempo il dominio del suo potere, la sottomissione dei popoli dominati. C’è in Luca un esempio illuminante a riguardo. Un tale ha problemi di divisione di eredità col fratello e chiede a Gesù di intervenire ma Gesù risponde: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (Lc 12,13-14). Anche questo semplice racconto è nella linea dell’esercizio del potere: Gesù ne rifiuta l’esercizio come è svolto dagli uomini, come è strutturato nell’ordinamento umano.

La coerenza di Gesù

Due fratelli non avrebbero dovuto nemmeno porsi il problema; se ricorrono a un estraneo è segno che qualsiasi intervento di qualsiasi potere non potrà più risanare la frattura che si colloca a livello interiore, nemmeno se risolve in modo equo la questione materiale dell’eredità. Al tempo di Gesù, l’eredità non poteva essere frantumata per cui solo il maggiore ereditava l’intero, mentre il fratello minore ereditava un terzo, in linea teorica, ma ricevendone l’usufrutto. Forse è il minore che si rivolge a Gesù (sulla questione v. P. Farinella, Il Padre che fu madre, Gabrielli editore). Gesù distingue nettamente tra due «mondi» o «ordinamenti» che diventano due prospettive, due opposizioni, due visioni di vita e di destino. Il mondo di Cesare è «questo mondo/ordinamento» in forza del quale egli comanda, prende, impone. La logica di Gesù non è «di questo mondo/ordinamento», cioè proviene «dall’alto» (Gv 8,23), da un’altra dimensione, cioè, da un altro progetto di vita.

Gesù non si è adeguato al mondo del suo tempo, e tanto meno alla sua logica; se fosse stato un uomo di buon senso, se si fosse preoccupato di rapportarsi con le autorità «in modo istituzionale», ne avrebbe accettato anche la logica e si sarebbe posto a livello di Cesare, ma egli viene «dall’alto» e resta in alto e non scende in basso, ma chiama chi vuole seguirlo a salire in alto: egli promuove, non mortifica e non umilia.

Cristianesimo ed egoismo non possono coesistere, così come Cristianesimo e interesse personale sono antitetici. I credenti in Cristo gestiscono il potere, ma con criteri assolutamente disinteressati, avendo a cuore i destini dei poveri e degli emarginati in forza della prospettiva delle Beatitudini di quanti la società mette al bando (cf Mt 5,1-9). È un capovolgimento totale della prospettiva. È una contestazione radicale di quanto il mondo ha acquisito come proprio «specificum». È il rifiuto intimo del modo di vedere, di giudicare e di scegliere: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo» significa che non ha come obiettivo il dominio, ma la coscienza consapevole e libera delle persone che servono i propri simili con gli stessi sentimenti di Dio, in forza del principio paolino: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2; cf Fil 2,1-8). È l’affermazione che Dio è «servo», non più onnipotente. Rifiutando l’esercito e la difesa, Gesù veste la sua nudità di non-violenza come statuto del suo essere e afferma un nuovo ordine di cui i suoi discepoli devono essere portatori sani e profeti consapevoli.

In altre parole, la distinzione tra Gesù e Cesare non è solo una questione di competenze o ruoli d’influenza, come generalmente si usa, sbagliando, l’altra espressione (date a Cesare… date a Dio), ma si tratta di premesse che esigono conseguenze coerenti. È la prospettiva stessa del potere che in Gesù si scontra con quella di qualsiasi altro potere che vuole essere «politico». Con l’affermazione netta e inequivocabile: «La mia regalità non appartiene alla logica di “questo” mondo», Gesù pone un atto politico estremo perché stravolge il concetto di potere, di organizzazione, economia, relazione tra gli individui, senso dello stato. Egli non intende spiritualizzare il suo «regno», che tra l’altro deve instaurarsi anche sulla terra e coinvolgere l’umanità intera. E dal contesto non si può evincere la contrapposizione tra cielo e terra, tra spirituale e materiale. Non significa che Gesù ci ha invitato a rivolgerci alle «cose del cielo», come una certa mistica ha interpretato esulando dal testo; al contrario, egli c’invita a piantarci nel cuore degli eventi, a essere come il Lògos, «incarnati» nella vita e nella storia, piena di contraddizioni, e di starvi con criteri di discernimento «opposti» a quelli di Cesare e di chi esercita il potere.

Gesù il politico

La prova di quanto affermiamo sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17, dove Gesù stesso equipara i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo inteso come il complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini, o un disincarnarsi dall’umano, ma un rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia e prevaricazione, del potere basato sulla forza e corruzione. In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

  1. a) il mondo geografico, ambiente materiale;
    b) il mondo come umanità;
    c) il mondo dell’incredulità;
    d) il mondo della fede.

La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo… non sono del mondo», per cui si afferma la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium 48-51). L’indole sta a significare che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio, cioè per creare le condizioni affinché tutti i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non siano ridotti a vivere da schiavi.

Un Esodo al contrario

Il compito dei cristiani e a maggior ragione della gerarchia non è quella di tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi, ma unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e fare in modo che venga distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo. Nel 2010 in Italia, il governo nelle mani di Berlusconi e di Bossi che si fregiavano a ogni piè sospinto di ispirarsi agli insegnamenti della Chiesa cattolica, regalò alla Libia 6 motovedette per pattugliare il mare contro gli immigrati e 5 miliardi per impedire che gli immigrati africani attraversassero il mare, ben sapendo che migliaia di persone sarebbero fatte morire nel deserto libico. Se quei soldi fossero stati spesi per l’integrazione ne avrebbe beneficiato l’Italia e gli immigrati e avremmo costruito un ponte di civiltà verso l’Africa che invece piange i suoi figli. Il Signore della Bibbia gettava «nel mare cavallo e cavaliere» che opprimeva i poveri facendoli schiavi, sedicenti cristiani esercitano il potere per uccidere i poveri, amati da Dio, per una manciata di voti.

Questa è la differenza: chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo», chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto». I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono sempre cristiani o credenti e poi, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e còrrei di corrotti e corruttori, immorali e amorali, siamo non più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro, il giorno 19 maggio 2013. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo, sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. A noi la scelta.

(5 – continua)

Paolo Farinella




Micro è bello (e fa bene)

Il 2 luglio del 1971 Paolo VI istituisce la Caritas
Italiana, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana per la
promozione della carità, che formalizza e lancia uno strumento di fatto
presente dal 1969: la microrealizzazione. Oggi, quarantadue anni dopo, le
microrealizzazioni portate a termine sono oltre tredicimila. Viaggio alla
scoperta di un’idea di solidarietà che continua a godere di ottima salute.

Micro azioni per macro valori

1967
– 1970: guerra del Biafra.
Le immagini e le storie di
milioni di persone colpite dal conflitto e dalla fame nella regione
sudorientale della Nigeria fanno il giro del mondo. L’entusiasmo per la
stagione della decolonizzazione – inaugurata nel 1946 in Medio Oriente da
Libano e Siria e nel Sudest asiatico dalle Filippine, mentre a Sud del Sahara
il primato spetta al Ghana di Kwame Nkrumah nel 1957 – lascia progressivamente
il posto alla presa di coscienza che nuovi drammi e crescente povertà stanno
soffocando il sogno di un’umanità pacificata e incamminata verso un avvenire di
benessere e pace per tutti dopo l’immane tragedia della seconda guerra
mondiale.

Il
Terzo mondo, termine che fino a quel momento aveva indicato quasi asetticamente
il blocco di paesi diversi da quelli aderenti alla Nato o al Patto di Varsavia,
diventa sinonimo di povertà, fame e sottosviluppo.

È
in questo contesto che sui bollettini Italia Caritas appaiono analisi in cui si
denuncia che il 30% dell’umanità dispone dell’85% delle risorse, si afferma che
«i poveri non ce la fanno da soli», che la risposta agli squilibri e
ineguaglianze può venire non solo da grandi interventi e cospicui investimenti
ma anche da piccole opere che incidano sul quotidiano e, infine, che nelle
comunità donatrici, così come in quelle riceventi, occorre un impegno politico
nutrito dalla conoscenza dettagliata delle realtà disagiate per intervenire
davvero sulle cause strutturali e non solo sui sintomi della povertà. La rete
che rende possibile la comunicazione fra le comunità è costituita da Caritas
italiana, Caritas diocesane e parrocchiali, che fanno da ponte fra i gruppi
umani coinvolti nel Nord e nel Sud del mondo e favoriscono uno scambio in
entrambe le direzioni.

La
microrealizzazione, recita il sussidio «Micro azioni per macro valori» della
Caritas (EDB, 2011), si configura come «la messa in opera, in loco, di
un’iniziativa intesa a risolvere con rapidità alcuni bisogni contingenti di una
piccola comunità» e «destinata a sviluppare sul piano umano e sociale il
livello di vita delle persone, delle comunità e quindi di tutto il territorio».
Dal punto di vista di chi dona, non si tratta di semplice «slancio emotivo e
contingente», ma di «crescita nella comprensione della carità che […] è sempre
necessaria come stimolo e completamento della giustizia». Ecco perché gli
elementi fondanti della microrealizzazione (termine sostituito progressivamente
dalla più «tecnica» definizione di «microprogetto») sono la relazione solidale
diretta fra due comunità – una, nel Sud del mondo, che chiama, e una, nel Nord,
che risponde – e l’educazione alla mondialità, che fornisce quelle informazioni
e conoscenze grazie alle quali si supera l’elemento puramente emotivo e si
percepisce la solidarietà come impegno nei confronti di altri inquilini della «casa
comune»: il mondo. Tutti siamo responsabili di tutti, scrive Giovanni Paolo II
nell’enciclica Sollicitudo rei socialis del 1987, come a voler
sintetizzare proprio questa idea.

Il
povero, dunque, non è più qualcuno che passivamente riceve aiuto e assistenza,
ma una persona che realizza la sua dignità in una comunità capace di individuare
i propri problemi, proporre soluzioni e mettersi in contatto con un’altra
comunità in grado di mobilitare le risorse necessarie per attuare quelle
soluzioni, in una collaborazione il cui obiettivo è quello di liberare dal
bisogno, di riparare la barca comunitaria e non solo di tamponare
temporaneamente una falla. Questa spinta dal basso è concepita come elemento
fondamentale anche nel determinare le scelte dall’alto: la consapevolezza dei
meccanismi alla base della povertà, da un lato, e la partecipazione attiva
all’individuazione delle soluzioni, dall’altro, hanno il potenziale di indurre
anche una serie di comportamenti diversi quanto a stili di vita e scelte
politiche dei cittadini e elettori, nel Nord come nel Sud del mondo. Nel
microprogetto, insomma,
carità e giustizia trovano la loro sintesi, sintesi che in tempi più recenti ha
cominciato a concretizzarsi anche attraverso la microfinanza, in particolare il
microcredito: questo tipo di intervento è forse quello che più di tutti
valorizza il beneficiario come persona titolare di diritti e in grado di
assumersi responsabilità di fronte alla propria comunità, che si impegna a
garantire per il singolo coprendo collettivamente i costi di un mancato
rimborso del credito. Non solo. La microfinanza porta con sé una critica
all’attuale economia disumanizzata e incurante dei diritti della persona: la
garanzia, infatti, non è data da un bene che il beneficiario mette a copertura
del credito ricevuto (ad esempio attraverso un’ipoteca sulla casa), ma viene
dal rapporto di fiducia fra il beneficiario e la comunità e fra questa e la
comunità donatrice. L’obiettivo della microfinanza è quella di permettere ai
soggetti cosiddetti non bancabili (che, cioè, non potrebbero avere accesso al
credito delle banche) di disporre comunque di un fondo con cui avviare
un’attività. Tale attività, poi, non ha il solo scopo di garantire il benessere
del beneficiario, ma di migliorare la condizione collettiva di una comunità e
di includere ulteriori persone nell’accesso al credito. La più che
quarantennale esperienza delle microrealizzazioni dimostra che sono proprio gli
anelli più deboli della catena comunitaria ad aver risposto in modo più
soddisfacente alla proposta della microfinanza e ad essee valorizzati: le
donne e i giovani emarginati.

Missioni Consolata Onlus e i microprogetti

Il
microprogetto ha un vantaggio fondamentale rispetto agli altri, più estesi e
complessi, progetti di cooperazione allo sviluppo: è concreto, immediato e più
facilmente gestibile. In un contesto come quello missionario in cui il grado di
conoscenza dei «nuovi» strumenti di solidarietà (nuovi rispetto alla più
classica forma della donazione da parte di un benefattore) varia molto da
contesto a contesto e da missionario a missionario, il microprogetto è il modo
più efficace per coniugare semplicità e rigore e per consentire alle comunità
di acquisire dimestichezza con lo strumento del progetto.

Missioni
Consolata Onlus collabora con Caritas da anni. Solo dal 2010 a oggi sono
quattordici i progetti dei missionari della Consolata che Caritas ha sostenuto
in Africa, Asia e America Latina. Ne passiamo brevemente in rassegna alcuni,
quelli che meglio permettono di illustrare i diversi tipi di intervento.

Il
progetto Emergenza zud ha permesso di assecondare lo sforzo dei
missionari nel sostenere le comunità colpite nel 2010 in Mongolia da un’ondata
anomala di gelo che aveva messo in ginocchio migliaia di persone e il bestiame
da cui queste dipendevano. Si è trattato di un tipo di intervento contemplato
da Caritas, quello appunto di risposta alle emergenze, che però riserva fin da
subito un occhio attento al «dopo» per non creare dipendenza nelle popolazioni
soccorse e per ideare fin da subito strategie di stabilizzazione post-crisi
umanitaria.

Il
progetto Avvio di un allevamento di capre a Monte Santo, Bahia
(Brasile) è un esempio di attività generatrice di reddito impeiata
sull’acquisto e distribuzione di capre a un gruppo di famiglie locali, che si
sono impegnate a fornire come contributo locale i serragli per il bestiame. Nel
medio periodo, l’intenzione è quella di passare dalla produzione di latte per
l’autoconsumo alla vendita a una cornoperativa locale che produce latticini.

Il
progetto Formazione professionale delle ragazze di Bisengo Mwambe,
Kinshasa (RD Congo) ha permesso a sessantadue ragazze congolesi di ricevere
formazione in sartoria e disporre delle macchine da cucire e della stoffa
necessarie per la pratica e la produzione, a fine corso, di manufatti per la
vendita.

Chiara Giovetti

 
L’Opinione
 


Tre domande a Francesco Carloni,


di Caritas Italiana

1. Puoi fare uno o più esempi di microprogetti «di successo»,
cioè piccoli progetti che più di altri hanno generato nella comunità ampie
ricadute innescando meccanismi di consapevolezza e volontà di elaborare autonomamente
soluzioni ai problemi della comunità stessa?

Il primo microprogetto di sviluppo, finanziato e realizzato
nel giugno del 1970, riguardava l’acquisto di materiale e attrezzatura
sanitaria per un reparto di pediatria a Maracha in Uganda; quel piccolo
intervento fu determinante per accreditare l’ospedale nel più vasto circuito
della sanità del paese. Nel 2013 l’ospedale è ancora funzionante, a pieno
regime. Da allora, senza soluzione di continuità, sono stati finanziati oltre
tredicimila microprogetti in quasi tutti i paesi e in oltre la metà delle
diocesi del mondo. Durante questo lungo percorso di cooperazione con le chiese
e le comunità locali, tanti sono stati gli ambiti di bisogno che sono stati
oggetto di microprogetto. Oltre ai tradizionali settori d’intervento, come
l’acqua, l’agricoltura, la sanità, negli ultimi anni molte delle richieste
pervenute hanno avuto come oggetto il lavoro.

Mi chiedi alcuni esempi: in Paraguay, con un finanziamento
di 3.200 euro, 15 famiglie indios trasferitesi a Ciudad del Este hanno
acquistato 10 carretti per intraprendere autonomamente la raccolta di carta e
ferro ottenendo in pochi mesi un aumento significativo del proprio reddito. In
Guinea Conacry, con 4.500 euro, 50 detenuti della prigione di Zérékoré hanno acquistato
attrezzature e materiali per avviare un laboratorio che produce sapone per il
mercato locale. In Vietnam 200 famiglie, con 5.000 euro, hanno potuto
acquistare 35 kg di semi di riso per riprendere la produzione nelle loro risaie
devastate da un tifone: la solidarietà vicendevole permette loro oggi di
congiungere la produzione per la vendita e la ridistribuzione dei semi.

2. L’educazione alla mondialità è fondamentale, specialmente
oggi, ma a volte rischia di raggiungere solo gli addetti ai lavori e chi già ha
sviluppato questo tipo di sensibilità. Che cosa si può fare per raggiungere
fasce sempre più ampie di cittadini e come la si può «raccontare» in modo che
emerga in modo comprensibile a tutti la sua rilevanza nell’oggi?

Per uscire dalla «cerchia degli addetti ai lavori» una
strada, che ritengo vincente oggi, è quella di riproporre con forza, a tutti
gli uomini di buona volontà, dei segni concreti che riportino la dimensione
della mondialità a essere trasversale e strettamente connessa alle azioni di
solidarietà internazionale e tutela dei dritti: significa costruire, proporre,
realizzare progetti «parlanti».

3. Una domanda scomoda: che cosa risponderesti a chi dice
che i microinterventi rischiano di essere delle «pezze» che tengono
faticosamente insieme nell’immediato delle realtà nel Sud del mondo? Non pensi
che richiederebbero un ripensamento molto più ampio circa le dinamiche alla
base della povertà, dell’ingiustizia, dell’esclusione e un cambio di rotta più
netto (specialmente da parte delle élites politiche locali) nella direzione di
una più equa distribuzione della ricchezza?

Rispondo che l’efficacia di un microprogetto di sviluppo
pensato, progettato e realizzato dagli stessi soggetti che si trovano in un
determinato bisogno, ha fin dalla sua fase di studio la stessa altissima
possibilità di successo di un grande progetto, che in fondo è costituito da
tanti microprogetti. La costruzione di risposte dal basso, pensate da chi ne
dovrà beneficiare, rappresenta in tutte le parti del mondo, oggi in particolar
modo, non una «pezza» ma un vestito di tessuto pregiato, il pregio derivando
dal fatto che trama e ordito sono un originale intreccio di peculiarità,
conoscenze e «voglia di fare» locali. (C. Gio.)


Chiara Giovetti




Edith Stein

Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, è
una delle figure più straordinarie, affascinanti e complesse del ‘900, sia per
la traccia indelebile che, nel solco di Edmund Husserl, ha lasciato nella
storia della filosofia, sia per la sua straordinaria avventura umana e
spirituale, che la portò dall’ateismo alla conversione radicale al
cattolicesimo e alla scelta vocazionale del Carmelo, alla conclusione della sua
esistenza nelle camere a gas di Auschwitz. Nel 1999 Giovanni Paolo II la
dichiarò compatrona d’Europa, insieme alle sante Caterina da Siena e Brigida di
Svezia.


Di fronte a una testimone così
autentica sono un po’ in difficoltà. Innanzitutto ti devo chiamare Edith o con
il nome da carmelitana, Teresa Benedetta?

Rimanendo
in ambito familiare preferisco Edith, anche perché Teresa Benedetta della Croce
è un nome molto impegnativo che suggella un cammino di ricerca della verità che
caratterizza tutta la mia vita.

Edith, dove sei nata? Da che
famiglia provieni? Com’è stata la tua infanzia?

Sono
nata il 12 ottobre 1891 a Breslavia, città della Germania nella regione della
Slesia, ultima di 11 figli di una famiglia della borghesia ebraica cittadina.
Sono nata proprio il giorno di Yom Kippur, la festa ebraica più
importante.

Mio
papà, che aveva un’impresa per il commercio del legname, purtroppo morì quando
avevo solo due anni; mia madre, rimasta sola, donna molto religiosa, caparbia e
tenace, si rimboccò le maniche e riuscì ad accudire la famiglia e a portare
avanti l’azienda. In questo suo spendersi in favore degli obblighi familiari e
delle necessità dell’impresa, non trovò il tempo necessario per infondere a noi
figli una fede vitale.

E così, fosti travolta dagli
eventi familiari e da una prospettiva di vita in cui Dio era assente?

Non
solo smarrii ogni riferimento a Dio, ma durante la mia adolescenza smisi, in
piena coscienza e con libera scelta, di cercare ogni riferimento al
trascendente, al divino, al mistero, quindi cessai di pregare.

E con la scuola come andò?

Bene,
trascorsi i miei anni di gioventù studiando senza fatica; conseguii
brillantemente la maturità, studiai assiduamente germanistica e storia, ma ciò
che mi attirava di più era la filosofia. Per questo, nel 1913 mi recai a Göttingen,
in Sassonia, per frequentare le lezioni universitarie di Husserl, il più
illustre dei filosofi tedeschi del tempo, e ne rimasi letteralmente
conquistata, conseguendo la laurea in filosofia con lui, divenni sua discepola
e sua assistente alla cattedra di filosofia, entrai a far parte inoltre dell’«Associazione
prussiana per il diritto femminile al voto».

Eri una femminista «ante litteram»!

Fatte
le debite proporzioni sì, anche se l’insegnamento di Edmund Husserl aveva il
sopravvento un po’ su tutto il mio modo di pensare.

Ma cos’è che aveva Husserl di
tanto affascinante?

Egli
attirava il pubblico illustrando un nuovo concetto di verità: l’esistenza del
mondo – secondo Husserl – veniva percepita non solo in maniera kantiana, ovvero
quello che noi chiamiamo percezione soggettiva, ma la sua filosofia portava a
una visione molto concreta della vita e della storia, definita come un «ritorno
all’oggettivismo». La conseguenza indiretta del suo modo di intendere
l’esistenza umana fu che molti studenti ritornarono alla (o scoprirono la) fede
cristiana.

Se non erro, gli anni in cui
frequentavi i corsi di Husserl coincisero con l’inizio della Prima Guerra
Mondiale.

È
vero, in quel periodo dedicai molto tempo allo studio universitario, ma lo
scoppio della guerra mi spinse a frequentare un corso di infermieristica e a
prestare servizio in un ospedale militare. Nel 1916 seguii Husserl a Friburgo,
dove conseguii la laurea con una tesi Sul problema dell’empatia,
premiata summa cum laude. Ma di fronte al dramma della guerra, a una
tragedia che toccava tanti uomini e donne, tante famiglie e tanti popoli,
cominciai a leggere per trovare il senso di tutto quello che avveniva nel mio
paese e sullo scenario europeo.

Ritornasti ancora a Breslavia
nella tua città?

Sì,
e mi misi a scrivere saggi di discipline umanistiche e a leggere
disordinatamente tutto quanto mi capitava sotto mano, che avesse in qualche modo
attinenza con la filosofia. Lessi Kierkegaard, Newmann, Ignazio di Loyola…
finché una sera in casa di amici trovai l’autobiografia di santa Teresa
d’Avila, la lessi in una notte, quando richiusi il libro dissi a me stessa: «Questa
è la verità». Qualche anno più tardi, il 1° gennaio 1922, ricevetti il
battesimo e qualche settimana dopo lo comunicai a mia madre. Mi recai a
Breslavia e non appena entrai in casa le dissi: «Mamma, mi sono convertita alla
fede cattolica». Con queste parole mi accorsi che le davo un dispiacere, ma
subito dopo ci abbracciammo piangendo lungamente.

Cosa provavi dopo questo passo,
vivendo una condizione di vita praticamente nuova.

Mano
a mano che Dio si era impossessato del mio cuore, sentivo crescere dentro di me
una forza che mi spingeva a uscire da me stessa per dedicarmi sempre più agli
altri. Un impegno questo che cercavo di svolgere pienamente in ambito
accademico.

Intanto sulla Germania calava una
luce sinistra: l’ideologia nazista che proprio in quegli anni prendeva il potere.

Avvertii
subito l’odio che i seguaci di Hitler nutrivano verso gli ebrei, e l’incessante
ripetere che la razza ariana doveva liberarsi dai corpi estranei della società
tedesca identificati soprattutto in coloro che erano di religione ebraica, mi
fece capire più che mai che dovevo rendere testimonianza non solo della mia
fede, ma anche del popolo a cui appartenevo.

Subisti conseguenze in questo
senso?

Mi
fu tolta la facoltà di insegnamento in tutte le scuole della Germania; dentro
di me avevo preso la decisione di farmi carmelitana. Andai a casa a salutare i
miei e ancora una volta l’incontro con mia mamma fu struggente e pieno di
sofferenza, in quanto lei, donna dell’antico popolo d’Israele, vedeva la figlia
sua entrare a far parte della Chiesa cattolica, una cosa che per quanto si
sforzasse di capire non gli riusciva di intendere pienamente.

Come fu il tuo ingresso tra le
carmelitane.

Il
14 ottobre 1933 entrai nel carmelo di Colonia e il 14 aprile dell’anno successivo
ci fu la cerimonia della mia vestizione. Da quel giorno la mia nuova vita fu
segnata da un nuovo nome: suor Teresa Benedetta della Croce. Il 21 aprile del
1935 presi i voti temporanei. Nel settembre del 1936 mia madre morì e avvertii
chiaramente che l’avevo al mio fianco come fedele assistente per giungere alla
meta, il cui traguardo lei aveva già superato. Il 21 aprile 1938 feci la mia
professione perpetua con voti solenni; per l’occasione feci stampare
sull’immaginetta distribuita ai presenti le parole di san Giovanni della Croce:
«La mia unica professione d’ora in poi sarà l’amore».

Un programma di vita impegnativo
di fronte all’odio contro gli ebrei che divampava in Germania e in gran parte
d’Europa, alimentato dalla propaganda nazista.

Sì!
Effettivamente i nazisti fecero di tutto per annientare il popolo di Israele,
bruciarono sinagoghe, rinchiusero gli ebrei nei ghetti e sparsero terrore fra
la mia gente. Per questo i superiori decisero che non potevo più stare in
Germania: la notte di capodanno del 1938 fui portata nel monastero delle
carmelitane di Echt, in Olanda. Lì non si respirava la tensione che c’era in
Germania, ma quando l’Olanda venne invasa dalle truppe naziste si ripresentò il
volto truce e demoniaco della svastica. Presi così coscienza che dovevo
compiere fino in fondo la volontà di Dio con una «Scientia crucis» (la
scienza della croce) che aveva caratterizzato il mio nome dal momento
dell’entrata nel Carmelo. Dal profondo del cuore pronunciavo incessantemente: «Ave,
Crux, spes unica
» (ti saluto, croce, nostra unica speranza).

A Echt ti raggiunse tua sorella
Rosa che, seguendo le tue orme, si era convertita al Cattolicesimo ed era
diventata Carmelitana.

Sì!
Ma fummo scovate dai nazisti, i quali irruppero il 2 agosto 1942 nel nostro
monastero e ci avviarono al campo di raccolta di Westerbork, da dove il 7
agosto fummo messe sul treno insieme a migliaia di altri deportati destinati
alle camere a gas di Auschwitz.

E ad Auschwitz fosti inghiottita
dall’olocausto che si compiva sul popolo d’Israele.

Giunta
ad Auschwitz mi prodigai per tutte le persone del mio popolo che erano in preda
alla disperazione e allo sconforto. Mi occupai soprattutto delle donne,
consolandole, cercando di calmarle e avendo cura dei più piccoli.

Il
9 di agosto suor Teresa Benedetta della Croce, insieme a sua sorella Rosa e a
molti altri ebrei, venne avviata alle camere a gas del campo di sterminio, dove
trovò la morte, una sorte toccata a sei milioni di ebrei e che noi oggi
ricordiamo col termine Shoah.

Ebrea
per nascita, cristiana per scelta, dopo un lungo cammino di ricerca, elevandosi
alle più alte vette della spiritualità delle due religioni che tanto avevano
inciso nella sua esistenza, è diventata esempio affascinante e luminoso per
quanti cercano la verità con amore tenace e coraggioso. Il 1° maggio 1987
Giovanni Paolo II nel duomo di Colonia, nella cerimonia liturgica di
beatificazione dichiarò che era: «Una figlia d’Israele, che durante le
persecuzioni dei nazisti è rimasta unita con fede e amore al Signore crocifisso
Gesù Cristo, quale cattolica, e al suo popolo, quale figlia d’Israele”.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera