Binomio impossibile: fondamentalismo e religione

Riflessioni e fatti sulla Libertà Religiosa nel mondo – 20
La violenza dettata dall’intolleranza sembra essere una realtà
molto diffusa nel mondo. Spesso associata alla religione, o meglio ai
fondamentalismi religiosi. Ma è lecito accostare il termine «fondamentalismo»
al termine «religione»?

Accade di frequente oggi che si
confonda il fondamentalismo con la religione. È così che conflitti nati da
questioni economiche o politiche o etniche vengono descritti come di natura
religiosa. Con questo criterio si contrappongono facilmente cristiani e
musulmani, buddisti e induisti, e altri ancora, come nei casi in cui i
cristiani divengono vittime di intolleranza e di persecuzione, ad esempio in
Nigeria, in India e in altre nazioni dell’Africa e del continente asiatico.

La violenza fa purtroppo parte di
quel fondamentalismo religioso che oggi sembra nascere soprattutto in seno
all’Islam, ma che è stato usato in passato anche nel mondo cristiano, e ancora
oggi in certi movimenti cristiani integralisti.

Il medioevo cristiano

La concezione che nel medioevo si
aveva della Chiesa e dello stato può, per esempio, spiegare la guerra scatenata
dal mondo cattolico contro i Catari, o più comunemente Albigesi, nella Francia
meridionale. Una guerra durata vent’anni, dal 1209 al 1229, che qualcuno definì
la prima crociata di cristiani contro altri cristiani, nella quale caddero
vittime non solo gli eretici, ma a volte l’intera popolazione di una città,
come avvenne a Bézier nel 1209. Il legato pontificio, alla domanda di un capo
della spedizione, pare abbia pronunciato questa orribile frase: «Uccidete,
uccidete! Dio saprà riconoscere i suoi». Il risultato di simile concezione fu
un massacro generalizzato, che si estese poi alle città di Carcassone, Pamiers
e Albi. Nel 1244 i Catari furono massacrati senza pietà anche a Montségur e
continuarono a essere messi al rogo fino alla metà del Trecento.

Ma oltre alla tragedia subita dai
Catari, possiamo citare anche le dolorose persecuzioni che colpirono il
movimento pauperistico dei Valdesi, fondato da un commerciante di Lione, Pietro
Valdo, o Valdesio, e diffuso ancora oggi nelle valli del Pinerolese e
nell’Italia meridionale.

In quel periodo storico, a causa
dell’intima compenetrazione tra l’elemento politico e quello religioso,
l’eresia non veniva considerata solo un peccato di coscienza o di fede, ma un
attentato contro la sicurezza della società. La difesa della verità sembrava
dovesse essere attuata con la violenza.

Soltanto poche persone in quel
periodo compresero il vero senso dell’insegnamento evangelico di non uccidere e
di essere invece disposti a subire la croce per testimoniare la propria fede.
Un vescovo, Vado di Liegi (980-1048), biasimò le brutali misure contro eretici
veri o presunti adottate in Francia. San Beardo di Chiaravalle, anche se
arrivò ad affermare che agli eretici spettava il rogo, condannò le persecuzioni
degli ebrei e l’uccisione di eretici a Colonia nel 1144, asserendo che la fede
deve nascere dentro il cuore dell’uomo e non mediante la costrizione.


Violenza: segno del «fallimento» della religione

Questo insegnamento fu preceduto
molto prima da alcuni cristiani delle prime generazioni. Tutti sappiamo che i
cristiani dei primi secoli furono oggetto di ostilità sanguinose. Contro quella
che oggi possiamo definire intolleranza religiosa dei primi secoli, gli
apologisti come Giustino (+165 d.C.), Tertulliano (+220 circa) e Lattanzio
(+320 circa) rivendicarono la libertà e il diritto naturale che ciascuna
persona ha di adorare le proprie divinità. La violenza è il peggior strumento
di diffusione della religione e un segno evidente del suo fallimento. Nessuna
religione infatti si difende e si propaga con la violenza.

Il Mahatma Gandhi soleva dire che «la
violenza è l’arma più debole, la nonviolenza quella più forte».

Nella premessa della sua prima
apologia in difesa dei cristiani Giustino partì dalla considerazione che lo
stato non deve lasciarsi guidare dalla violenza e dalla tirannia, ma ispirarsi
a saggezza, pietà e rispetto delle persone. Tertulliano nell’Apologetico
(n. 24) sostenne che una religione coatta e imposta è una strada aperta verso
l’irreligiosità, e aggiunse che nessuno vuole essere adorato per forza, neppure
un uomo. Infine, Lattanzio nel De divinis institutionibus (V, 20), di
fronte alla persecuzione di Diocleziano, la più cruenta di tutte, dettò un
celebre passo che non si può ignorare: «La religione si difende non uccidendo,
ma morendo; non con la crudeltà, ma con la fede… Se tu vorrai difendere la
religione con il sangue, i tormenti, il male, non la difenderai, ma la
contaminerai e la violerai».

«Perché non era uno di noi»

Il tema del fondamentalismo che usa
la violenza nel nome dell’appartenenza religiosa non può quindi essere
applicato solo al mondo musulmano o induista. Nessuna religione è immune dalla
violenza, così come dalla superstizione. La storia ci insegna che il
fondamentalismo può riferirsi a qualsiasi religione. È troppo facile dire che «il
mio Dio non è il tuo Dio, il mio è vero e il tuo no!». Sotto queste frasi si
nascondono spesso altre idee e altri interessi, etnici, economici, politici.
Oppure, più semplicemente, si nasconde una strana gelosia religiosa, cioè il
bisogno di appartenere alla religione migliore, più buona e più vera delle
altre.

Un giorno Gesù rimproverò i suoi
discepoli perché avevano visto un tale che scacciava i demoni nel suo nome e
glielo avevano proibito, «perché non era uno di noi». E Gesù disse loro: «Non
glielo proibite… Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9, 38-40).

Lo spirito di Assisi

Il pericolo dell’esistenza di una
religione non autentica è comunque sempre presente. Per questo la Parola di Dio
chiede una quotidiana conversione, di passare cioè dagli idoli vuoti e vani
all’unico vero Dio. La Chiesa del Concilio Vaticano II si è soffermata più
volte sul valore delle religioni storiche, di qualsiasi religione. Nella
Dichiarazione sulla Chiesa e le Religioni non cristiane ha sottolineato come «la
Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni.
Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei
precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da
quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio
di quelle verità che illuminano tutti gli uomini» (n. 2).

In altre parole tutte le religioni
contengono cose vere e buone; esse sono la presenza e il riflesso di quella «luce
che illumina ogni uomo» (Gv 1, 2), mediante cui Dio chiama alla salvezza.
Questa visione teologica ha conosciuto una sua meravigliosa attuazione nel 1989
ad Assisi quando, in uno straordinario incontro tra le religioni, Giovanni
Paolo II lanciò «lo spirito di Assisi»: non più le religioni una contro le altre,
ma una accanto alle altre, anzi le une che pregano Dio accanto e insieme alle
altre.

La lista dei martiri

Rimane comunque il fatto che il
fondamentalismo detto religioso produce ancora oggi violenza. I cristiani, ma
anche i musulmani, i buddhisti, e gli altri, soffrono persecuzioni a causa
della loro testimonianza di fede e di carità.

In base ai dati raccolti e pubblicati
dall’Agenzia Fides, nel 2013 sono stati uccisi nel mondo 22 cristiani,
per la maggior parte sacerdoti in cura d’anime, insieme a una religiosa e a due
laici. Il doppio rispetto al 2012 in cui ne furono uccisi 13 (e comunque un
numero che si riferisce solo a quei «martiri» che avevano incarichi ecclesiali,
e non ai molti «cristiani comuni» vessati anch’essi per la loro fede, ndr).
Scorrendo le poche notizie che si hanno di questi sacerdoti, si osserva che non
tutti possono essere definiti martiri nel senso tradizionale del termine, perché
quasi tutti sono stati uccisi in seguito a tentativi di rapina o di furto,
aggrediti in alcuni casi con efferatezza e ferocia, segno del clima di
decadimento morale, di povertà economica e culturale, che genera violenza e
disprezzo della vita umana, tutti però vivevano la loro testimonianza di fede
in un contesto di degrado umano e sociale, annunciando il messaggio evangelico
senza gesti eclatanti, ma con le opere e la loro presenza nell’umiltà della
vita quotidiana.

Il dialogo possibile

La Chiesa del Concilio condanna ogni
violenza nel nome dell’appartenenza religiosa, e non manca di continuare a
proclamare e a vivere il proprio impegno per la riconciliazione e la pace
attraverso il dialogo interreligioso e le molteplici opere di carità
evangelica, che foiscono aiuto e conforto a gente di qualsiasi religione. Lo
ha sottolineato l’appello lanciato dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma nel
febbraio 2014 in un convegno internazionale dal titolo «La religione e la
violenza», che ha visto la partecipazione di personalità delle religioni, della
diplomazia e della politica, provenienti da Europa, Asia, Africa e Medio
Oriente.

In un mondo infetto da un’epidemia di
violenza – ha sottolineato Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di
Sant’Egidio – «la diplomazia tradizionale ha bisogno di nuovi strumenti: in
primo luogo la religione, poi la politica, la cultura, la lotta al
sottosviluppo. L’intera società civile deve essere impegnata in uno sforzo di
superamento di antiche diffidenze, quando non di veri e propri conflitti, che
sono all’origine delle esplosioni di violenze e terrorismo che hanno
insanguinato il mondo all’inizio del Terzo Millennio».

Il convegno è partito da una
considerazione poco ottimista: «Negli ultimi anni la violenza religiosa è aumentata
in maniera sconvolgente» – ha detto il cardinale Walter Kasper, presidente
emerito del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani – e ciò è avvenuto
perché «gli appartenenti a tutte le religioni, compresi i cristiani, vale a
dire persone o gruppi che pretendono di agire in nome di una religione, o del
cristianesimo, sono stati o sono fautori di violenza». Dunque la religione è
insieme autrice e vittima di violenza. Eppure «la pace nel mondo non è
possibile senza pace tra le religioni» e senza che le fedi promuovano i loro
tratti comuni circa i diritti umani, la libertà religiosa, la tolleranza e il
dialogo, spezzando «il circolo vizioso della violenza che genera violenza».

A sua volta Benjamin Kwashi, vescovo
di Jos in Nigeria, ha dato una valida testimonianza dell’importanza che il
dialogo interreligioso ha nelle diverse articolazioni della società, e in
particolare tra la sua gente che vive da anni una situazione di drammatica
violenza tra musulmani e cristiani.

Ha sottolineato l’importanza del
dialogo anche Abdelfattah Mouron, vincitore delle elezioni in Tunisia e
artefice della nuova Costituzione, uno dei frutti più maturi delle primavere
arabe. «La violenza – ha affermato – normalmente precede la religione». Compito
della religione «è di recuperare la propria autonomia e di costruire la pace
alimentando cultura, valori ed educazione».

Allo stesso modo, Muhammad Khalid
Masud, membro della corte suprema del Pakistan, ha sostenuto che la religione
non fa «parte della violenza», anche se ha riconosciuto che «possa essere usata
per giustificare la violenza».

La verità aperta

Ecco quindi che il rapporto tra
religioni e violenza, tra religioni e fondamentalismo, va posto in maniera
radicalmente diversa. In un contesto di assuefazione all’uso della violenza, le
religioni hanno il dovere di purificarsi e di assumersi le proprie
responsabilità, altrimenti il fondamentalismo verrà sempre più definito
religioso, fino a qualificare qualsiasi religione come generatrice di
vessazioni e di violenza e non invece di pace.

«Chi si rifugia nel fondamentalismo è
una persona che ha paura di mettersi in cammino per cercare la verità». Lo
scrive papa Francesco in un testo tratto da La bellezza educherà il mondo,
pubblicato dalla Editrice Missionaria Italiana a un anno dalla sua elezione in
Conclave (13 marzo 2013). «La nostra verità – afferma – non sia
fondamentalista, ma aperta al dialogo».

Giampietro Casiraghi


Tags
: libertà religiosa, dialogo, fondamentalismo, religione

Giampietro Casiraghi




Pillole «Allamano» 5: Trasformare l’ambiente, non solo gli uomini


L’unica pretesa, se possiamo definirla tale, di questa serie di «pillole» consiste nel raccogliere alcune suggestioni che provengono dal nostro Fondatore e provare ad applicarle alla vita di oggi. Il tutto nella convinzione che nella profonda spiritualità di Giuseppe Allamano esistano elementi capaci di trascendere il tempo in cui sono stati vissuti in prima persona da lui e di dire qualcosa di illuminante per la missione cui siamo chiamati oggi in Europa.

Il dinamismo di un carisma, ovvero quel dono di Grazia che Dio concede a qualcuno in particolare affinché possa essere messo al servizio della comunità, si manifesta soprattutto attraverso la sua incarnazione nel vissuto quotidiano. Un carisma, infatti, si evolve quando viene assunto e trasmesso attraverso scelte concrete che lo modellano sulla realtà di cui si è protagonisti. Così è stato per i primi missionari, che hanno ricevuto una formazione speciale direttamente dalla bocca di Giuseppe Allamano, e sono stati capaci di tradurla in azione. Così è stato anche per l’Allamano che si è venuto formando lui stesso, gradualmente, con ciò che i suoi missionari gli condividevano attraverso diari, lettere e dialoghi personali. Tutto questo materiale veniva da lui nuovamente offerto, arricchito dalle sue considerazioni. Oggi, questo stile improntato a una narrazione missionaria può essere utile all’impegno diretto di ogni cristiano nell’evangelizzazione dell’Europa, ad esempio per fare distinzioni, chiarificare termini, sintetizzare esperienze passate di evangelizzazione che possono diventare maestre di vita.

«Puntate alla trasformazione dell’ambiente» è una frase che potrebbe oggi apparire ambigua e generare qualche perplessità. Nel corso della storia, in molte occasioni, l’impatto del missionario con l’ambiente in cui è vissuto o ha operato è stato giudicato in modo negativo, poco rispettoso delle culture, delle persone, ecc. In altre parole, il missionario è stato accusato di aver tradito l’ambiente nel tentativo di trasformarlo. Inutile aprire una discussione che ci porterebbe a remare in mari troppo lontani e vasti, senza il tempo e la pretesa di affrontare in poche righe quelli che sono da sempre temi molto complessi di missionologia. È molto più utile narrare storie missionarie, documentando gli innumerevoli esempi di missione «ben fatta», ma anche le esperienze negative, nelle quali l’attenzione verso l’altro, i suoi reali bisogni e la sua cultura sono stati effettivamente calpestati da un’azione inopportuna. Non per niente, una delle pillole che Giuseppe Allamano ci obbligherà ad assumere prossimamente sarà proprio quella che invita a «fare bene» il bene, e a non fidarsi solamente delle buone intenzioni.

Nella teologia cristiana, la cura dell’ambiente non si discosta da quella della persona, piuttosto la comprende. Nella sua condizione di essere creato, l’uomo è chiamato a vivere in spirito «ecologico», dove il termine ecologia va letto nella sua accezione più ampia, ovvero come scienza che regola l’insieme di relazioni tra gli esseri viventi e l’ambiente in cui vivono, nonché la qualità di tali relazioni. Si parla qui di ecologia della vita quotidiana, o di ecologia sociale.

Una casa in ordine (il termine greco οίκος, da cui deriva la parola ecologia, significa appunto casa)1 consente all’essere umano di vivere bene, in armonia con ciò che lo circonda, mentre una casa disordinata genera caos, malessere e frustrazione. Bisogna saper «vestire» il proprio ambiente, sentirlo come una seconda pelle, qualcosa che ci appartiene, ci definisce e ci realizza rendendoci felici.

La pillola di questo mese suggerisce una cosa molto semplice, che non vuole assolutamente penalizzare l’essere umano: trasformare l’ambiente significa renderlo più vicino al modello che l’uomo si propone per essere veramente felice insieme ai suoi simili. Lo sfruttamento dell’ambiente, inteso come ambiente naturale, da parte di pochi crea obbligatoriamente una disarmonia nella vita di molti, e ciò, come direbbe il racconto della creazione nel libro della Genesi, non è «cosa buona». Trasformare l’ambiente significa quindi distruggere quei meccanismi e quelle strutture che impediscono all’uomo di essere ciò che è chiamato a essere. In molti casi queste sono strutture di peccato, costruite per guadagnare e schiavizzare, sfruttare e godere, alla faccia degli altri, soprattutto di coloro che non possono scegliere, non si possono difendere e per questa ragione restano sempre ai margini, esclusi.

Giuseppe Allamano aveva ben chiaro il fatto che l’opera di evangelizzazione è tanto più efficace quanto più è in grado di incidere sull’ambiente in cui le persone sono immerse e vivono. Le Conferenze di Murang’a, organizzate nel 1904 dai primi missionari della Consolata in Kenya per pianificare la vita missionaria e scegliere le linee metodologiche da seguire, sono il frutto del continuo dialogo fra l’Allamano e i suoi missionari, e sottolineano l’intima relazione fra la persona e l’ambiente. Il metodo di evangelizzazione che nasce a Murang’a si radica nel Dna della spiritualità trasmessa dall’Allamano, e diventa la base dello stile missionario della Consolata, esportato da allora in tutto il mondo. Il tratto distintivo è l’attenzione al quotidiano delle persone: la salute, l’educazione, il modo di produrre, gestire, mantenersi grazie a un’economia sostenibile. Questi aspetti, uniti alla valorizzazione di elementi come le relazioni familiari e comunitarie, il ruolo della donna, il rispetto della persona nei suoi diritti e nella sua cultura e religione, puntano a creare comunità armoniche, felici e aperte ad accogliere il messaggio del Vangelo.

Tale metodo fondato sulla promozione umana non solo viene approvato dall’Allamano, ma viene da lui difeso con forza da critiche estee: «In passato, alcuni si permisero di criticare il nostro metodo di evangelizzazione, quasi ci occupassimo troppo del materiale con pregiudizio del bene spirituale; si diceva che bisognava predicare e battezzare e non occuparsi di altro. Ma dopo la pubblicazione del decreto di approvazione e le conferenze di Monsignore e di padre Gabriele (Filippo Perlo e suo fratello Gabriele, ndr.) mutarono parere e molti di buona fede lo confessarono».

Giuseppe Allamano ha certamente in mente le visite ai villaggi che i missionari fanno con costanza e, con esse, le opere sociali che iniziano a svilupparsi come segno di promozione umana. Si tratta di interventi che vengono però fatti con un’attenzione speciale alla cultura, alle vere esigenze della gente. Può la missione della Chiesa in Europa nutrirsi di questa intuizione profonda dell’Allamano? Credo che alcuni aspetti vadano tenuti presenti e possano aiutarci a riflettere sul senso della missione nel vecchio continente.

La missione in Europa deve cambiare perché l’Europa stessa è cambiata. Il contesto missionario di oggi è totalmente differente da quello che l’Allamano conobbe a suo tempo. Aspetti sociali, demografici, culturali, religiosi si intersecano e si aggrovigliano rendendo ogni discernimento più difficile. Ma di fronte a questa complessità occorre fornire a noi stessi una risposta chiara in merito alla nostra identità. Come fecero i primi missionari della Consolata in Kenya, occorre definire chi siamo noi oggi.

Di questi tempi, si parla molto di nuova evangelizzazione per l’Occidente, orientata a incontrare quelle fasce della popolazione ormai scristianizzate per invogliarle a «ritornare». È altrettanto certo, però, che oggi l’Europa si sta sempre più trasformando in un contesto anche di «prima evangelizzazione».

Per poter trasformare l’ambiente dobbiamo conoscerlo, e la miglior forma di conoscenza è l’incontro diretto, il contatto personale che crea empatia, e genera apertura. Giuseppe Allamano era un uomo illuminato, pretendeva dai suoi studio e applicazione perché intuiva molto bene come il contesto andasse innanzitutto capito. Lo studio delle lingue, ad esempio, era conditio sine qua non per poter andare avanti nel cammino di formazione, al punto da diventare per il Fondatore una discriminante vocazionale. L’idea di fondo era chiara: senza il possesso della lingua, strumento principale di comunicazione, come si poteva entrare in un contatto profondo con una cultura? Oggi lo stesso si potrebbe dire dei mille linguaggi che si parlano in Europa, tra cui, non ultimi, quello digitale, della comunicazione, scientifico, ecc.

Trasformare l’ambiente significa proporre un paradigma alternativo, che sia significativo, offra risposte adeguate, rappresenti una sfida al modello dominante.

Infine, trasformare l’ambiente significa dare uno spirito nuovo. Per anni il nostro continente si è attaccato all’illusione che il benessere economico potesse sopperire all’assenza di senso in cui si dibattevano e dibattono tuttora molte esistenze. Oggi, però, quell’illusione si è rivelata per ciò che era, una bolla di sapone che, scoppiando, ha infranto il nostro sogno: siamo senza soldi, ma continuiamo a doverci gestire le nostre solitudini, i nostri piccoli o grandi deserti familiari, gli effetti delle nostre morali deboli, il tutto condito dalla frustrazione di vedere chiudere attività, progetti e speranze. Stiamo mandando in cassa integrazione la nostra idea di futuro: serve uno spirito nuovo, che dia un movimento fresco e originale al continente e motivi una profonda ecologia della vita quotidiana.

La missione può fare la sua parte; del resto, si fonda su una speranza che la trascende e che rappresenta l’oggetto del suo stesso annuncio.

Qualche altra «pillola» dell’Allamano potrà aiutarci a capire e vivere meglio questo momento di trasformazione.

Ugo Pozzoli

 1) È interessante notare che in alcune cosmologie andine, come quella dei Nasa della Colombia, lo spazio dove vivono gli esseri viventi viene definito «casa piccola», in contrapposizione alla «casa grande», abitata dagli spiriti.


Tutte le 10 parole




Luce e speranza a Marandallah

Dopo una guerra civile e dieci anni di conflitto latente la Costa
d’Avorio, ex perla dell’Africa occidentale, conosce oggi una crescita economica
sostenuta. Ma la riconciliazione nazionale e il miglioramento delle condizioni
di vita della popolazione avanzano lentamente. Mentre l’ex presidente Laurent
Gbagbo resta in carcere all’Aja e l’attuale capo di stato Alassane Ouattara
affronta in patria accuse di parzialità e inefficienza, il paese si prepara a
tornare alle ue l’anno prossimo.
I missionari della Consolata lavorano a Marandallah, nel Nordovest. Attraverso
progetti di sanità e alfabetizzazione cercano di sostenere lo sforzo di un
paese che vuole rimettersi in piedi.

Zoppicando verso le
elezioni

Laurent Gbagbo resta in prigione. È questa la decisione
della prima camera preliminare della Corte penale internazionale (Cpi)
dell’Aja lo scorso 12 marzo, in risposta alla richiesta di scarcerazione
avanzata dalla difesa del ex capo di stato della Costa d’Avorio. Gbagbo,
presidente ivoriano dal 2000 al 2010, era stato arrestato nell’aprile del 2011
insieme alla moglie Simone Ehivet Gbagbo, anche lei in seguito perseguita dalla
Cpi, dopo aver dato avvio a un’ondata di violenze per il rifiuto di lasciare il
potere al suo oppositore Alassane Dramane Ouattara, detto Ado, vincitore delle
lelezioni di fine 2010. Le violenze avevano causato la morte di circa tremila
persone e la fuga di poco meno di un milione d’ivoriani che trovarono rifugio
nei paesi limitrofi o si spostarono in aree del paese meno turbolente.

La Costa d’Avorio aveva già sperimentato un quinquennio
di conflitto fra il 2002 e il 2007, durante il quale i ribelli controllavano il
Nord del paese mentre il Sud era dominato dalle forze governative. Fra i
principali motivi del contendere c’erano il controllo del mercato del cacao e i
diritti della popolazione di origine straniera insediata da decenni nel paese (vedi
dossier sulla Costa d’Avorio in MC, marzo 2007 e febbraio 2011
). Le
elezioni del 2010 dovevano mettere fine a questa situazione di tensione dopo
che il presidente e il capo dei ribelli, Guillaume Soro, avevano accettato di
convivere in un governo di transizione – con Gbagbo presidente e Soro primo
ministro – per traghettare la Costa d’Avorio fuori dall’impasse politica. Ma
subito dopo il voto, il popolo ivoriano si è visto ripiombare nell’incubo della
guerra civile.


Rifugiati, sfollati,
apolidi, stranieri: l’eterno rompicapo della politica ivoriana

A oggi, sebbene si siano registrati diversi ritorni dei
rifugiati e degli sfollati alle loro case, la situazione rimane tutt’altro che
risolta. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, a metà 2013 i
rifugiati ivoriani erano ancora centomila, due terzi dei quali nella sola
Liberia. Il timore di subire rappresaglie e vendette una volta rientrati in
patria resta il principale motivo che spinge i rifugiati ivoriani a ritardare
il loro ritorno.

Inoltre, circa settecentomila persone risultano apolidi,
cioè prive di nazionalità. Quello della nazionalità è un problema di vecchia
data nel paese, dove poco meno di sei milioni di persone, cioè oltre un quarto
della popolazione, sono immigrati provenienti dai paesi limitrofi. Una gran
parte di questi immigrati si sono stabiliti in Costa d’Avorio molti anni fa,
attirati dalle opportunità di lavoro nelle piantagioni di cacao e in altri
settori ai tempi – erano gli anni Settanta – in cui l’economia ivoriana era il
motore della sub-regione e Abidjan, la capitale economica del paese con i suoi
grattacieli e le sue tangenziali sopraelevate, era chiamata la Manhattan dei
tropici. L’esodo dai paesi confinanti è proseguito anche negli anni successivi
al periodo d’oro, ma in moltissimi casi i migranti hanno continuato fino a oggi
a vivere in un limbo giuridico che non permette loro di godere di una serie di
diritti, fra cui quello alla terra e al voto.

Nel 2013 l’annuale studio dell’autorevole Fondazione
Mo Ibrahim
, creata dal magnate delle comunicazioni anglo-sudanese Mohamed
Ibrahim per incoraggiare il buon governo in Africa, ha collocato la Costa
d’Avorio fra i dieci stati africani che hanno avuto i risultati peggiori in
campi come i diritti umani, lo sviluppo, la sostenibilità economica e la
legalità. Diversi osservatori, inoltre, cominciano ad avanzare preoccupazione
rispetto all’imminenza delle nuove elezioni, previste per l’anno prossimo: la
pacificazione fra i gruppi in conflitto sembra ancora lontana e gli oppositori
criticano il presidente Ado accusandolo di parzialità soprattutto verso i
perpetratori dei crimini del 2010-2011, dato che in prigione ci sono solo i
sostenitori dell’ex presidente Gbagbo. La commissione indipendente che dovrebbe
aggioare le liste elettorali è stata sciolta dopo le elezioni del 2010 e non è
ancora stata ricostituita.

Nonostante un altro conflitto sembri per ora scongiurato
e la crescita del Pil sia stata pari al 8,7 per cento nel 2013, la Costa
d’Avorio conserva nelle città grosse sacche di povertà, mentre nelle zone
rurali della parte occidentale del paese il conflitto e la violenza rimangono
elementi del quotidiano.

La sanità in Costa d’Avorio

Fra le presenze dei missionari della Consolata in Costa
d’Avorio c’è quella di Marandallah, un villaggio di circa quattromila abitanti
che di fatto è il punto di riferimento per oltre trentamila persone dei
dintorni. Si trova nella regione di Worodougou, nella parte centro
settentrionale del paese, a poco meno di cinquecento chilometri da Abidjan. Con
il Nord della Costa d’Avorio, Marandallah condivide un maggior svantaggio
economico rispetto al Sud del paese e una mancanza di infrastrutture che
rendono molto difficili gli spostamenti e le comunicazioni. «La situazione dei
trasporti qui è veramente critica», scrive padre João Nascimento, uno dei
missionari. «Ci si muove quasi esclusivamente su piste sterrate piene di buche
e crepe e durante le piogge tutto si complica ulteriormente». Anche energia
elettrica e acqua potabile scarseggiano, soprattutto dopo gli scontri del
decennio 2002-2011 che hanno gravemente danneggiato gli impianti di
distribuzione e le infrastrutture.

Uno studio del 2012, effettuato su un campione nazionale
di circa diecimila famiglie dal ministero della sanità e dall’istituto di
statistica ivoriani in collaborazione con diverse agenzie ed enti inteazionali,
descrive la situazione sanitaria della zona come peggiore della media
nazionale. Per quanto riguarda la salute matea, ad esempio, se nella città di
Abidjan 97 donne su cento ricevono cure e assistenza durante la gravidanza,
nella regione Nordovest, solo 75 ne beneficiano. I parti assistiti da personale
sanitario qualificato sono l’88% a Abidjan mentre nella regione di Worodougou
ad assistere le partorienti sono le levatrici tradizionali o i familiari in
almeno un caso su due. Inoltre, la pratica delle mutilazioni genitali
femminili, con tutte le sue conseguenze dannose per la salute della donna, è
presente nel Nord e nell’Ovest del paese molto di più che nelle altre zone e
tocca circa sette donne su dieci.

Il dispensario di Marandallah

Le testimonianze dei missionari sono in linea con i dati
del rapporto: «È molto difficile trovare il personale sanitario», conferma
padre Ramón Lázaro Esnaola, responsabile del Centro sanitario cattolico Notre
Dame de la Consolata (Cscndc) di Marandallah, fondato nel 2007, «perché in
pochi sono disposti a venire a vivere in un luogo dove mancano acqua e
elettricità. Mancando la corrente, poi, diventa molto più complicato anche
offrire servizi di base come le vaccinazioni: per ottenere i vaccini occorre
infatti andare a Mankono, una città che si trova a quasi settanta chilometri da
qui e, viste le condizioni delle piste sterrate, è facile immaginare quanto
tempo, energie e denaro se ne vadano per fornire un servizio così fondamentale».

Il centro è nato per sopperire alla mancanza di copertura
sanitaria nella zona: la struttura più vicina, infatti, si trova a circa
novanta chilometri, una distanza proibitiva per la maggior parte della
popolazione locale. Il Cscndc offre servizi di medicina generale, ha una
mateità ed esegue analisi di laboratorio avvalendosi del lavoro di un medico,
un infermiere, due biotecnici, un’assistente sociale, due aiuto infermiere, tre
agenti sanitari comunitari, tre addetti alle pulizie e due guardiani nottui.
Ha dodici posti letto più altri sei nella mateità e effettua oltre tremila
consultazioni all’anno, mentre la mateità segue circa 170 parti e il reparto
chirurgia esegue più di duecento operazioni l’anno. Dal 2008 le attività
relative alla lotta all’Hiv/Aids si svolgono con il sostegno tecnico di
Icap-Costa d’Avorio, l’Inteational Centre for Aids Care and Treatment
Programs
gestito dalla statunitense Columbia University e dal
governo Usa. La cura della malnutrizione avviene con il supporto della
statunitense Father Norman Gies Foudation.

Più energia alla
salute e gli altri progetti sanitari

Nel 2013, con il sostegno di Caritas microprogetti, è
stato avviato «Più energia alla salute», un intervento per l’installazione di
un sistema fotovoltaico: «A lavori ultimati», spiega padre Ramon, «grazie
all’energia prodotta con i pannelli solari non dovremo più temere i tagli di
corrente frequenti nella zona e avremo una affidabile catena del freddo:
potremo cioè far funzionare regolarmente il frigo che ci è stato donato dal
sistema sanitario nazionale ivoriano per conservare i vaccini – senza doversi
spostare sempre fino a Mankono – e anche il sangue per le trasfusioni».

Un’altra componente dell’intervento è quella di
informatizzare la farmacia del dispensario in modo da avere un controllo più
dettagliato sullo stock e prevedere meglio i tempi e le necessità per i nuovi
acquisti. «Per procurarci i farmaci dobbiamo andare fino ad Abidjan», continua
padre Ramon. «Per questo è importante programmare il viaggio sapendo con precisione
quali farmaci devono essere reintegrati. Fare i conteggi “a vista” e segnarli
su una lista cartacea non è impossibile e lo si è sempre fatto, ma il margine
di errore e il dispendio di tempo sono molto maggiori. L’uso del computer
dovrebbe ridurre il numero di viaggi e, di conseguenza, i costi per il
mantenimento del centro».

Anche a Dianra, altro centro a una cinquantina di
chilometri da Marandallah, i missionari fanno funzionare un piccolo
dispensario. L’obiettivo per il futuro è costruire anche presso il centro
sanitario di Dianra una mateità, che per ora manca. Sono invece già attivi i
servizi di formazione del personale sanitario, svolta in cornordinamento con il
centro di Marandallah, e le missioni di visita ai villaggi che hanno
un’importanza fondamentale nella prevenzione delle malattie più comuni.

L’alfabetizzazione,
strumento per superare l’odio

Secondo lo studio a campione citato prima, la situazione
della regione di Nordovest rispetto all’alfabetizzazione è problematica tanto
quanto quella sanitaria: delle persone intervistate per la raccolta dei dati
statistici, sessantasei uomini e ottantotto donne su cento non sanno leggere né
scrivere mentre ad Abidjan – presa ancora una volta come esempio «virtuoso» –
le donne e gli uomini in questa condizione sono rispettivamente il quaranta e
il diciotto per cento. Tre quarti delle donne intervistate e circa metà degli
uomini hanno dichiarato di non avere alcun titolo di studio e di non leggere
giornali né utilizzare altre fonti di informazione. I bambini che frequentano
la scuola elementare a livello nazionale sono 68 su cento, ma nel Nordovest
sono mediamente dodici in meno.

«È vero», conferma padre João, «qui l’analfabetismo è più
diffuso che altrove. È un insieme di fattori che crea questa situazione:
l’isolamento, il fatto che la popolazione locale sia in parte di origine
straniera e mai integrata e anche, a volte, un senso di apatia e di
rassegnazione».

Grazie a fondi dell’Opera di promozione
dell’alfabetizzazione nel mondo
(Opam), padre João ha realizzato il
progetto A scuola di pace all’apatam, un intervento che prevedeva la
costruzione di sei strutture tipicamente africane note anche come paillotes,
in altrettante località intorno alla missione. Ora negli apatam si
stanno svolgendo i corsi di alfabetizzazione per gli adulti e per i bambini non
scolarizzati. La prossima tappa del progetto sarà fornire alle piccole
strutture l’illuminazione con impianti fotovoltaici, perché i corsi si tengono
quasi sempre di sera, dopo la giornata lavorativa, e un’illuminazione adeguata è
indispensabile per la buona riuscita della formazione. È previsto anche
l’acquisto di una moto che permetta all’équipe di cornordinamento di visitare le
comunità.

Oltre che all’alfabetizzazione vera e propria i corsi
serviranno anche a sensibilizzare e informare su temi come diritti umani,
diritto alla terra e riconciliazione fra comunità. «Leggere e scrivere non è
indispensabile solo per poter affrontare le attività quotidiane che comportano
la lettura o la compilazione di documenti amministrativi, ma anche per essere
in grado di comprendere meglio ciò che sta accadendo nel paese», conclude padre
João. Essere più consapevoli e più informati aiuta a sentirsi parte delle
dinamiche sociali, economiche e politiche della società in cui si vive.
L’obiettivo è dissolvere a poco a poco la paura, la diffidenza e il
risentimento e ridurre l’isolamento non solo geografico ma anche culturale in
cui la popolazione di Marandallah si trova a vivere.

Chiara Giovetti




Tags: sanità, salute, dispensario, Marandallah

Chaira Giovetti




Zingaro e santo: Ceferino Gimenez Malla

Ceferino (Zefirino) Gimenez Malla detto «El Pelè», membro del popolo gitano, fin dalla sua
nascita è bollato come uno zingaro, quindi un escluso della società. Nasce in
Spagna nel 1861, forse a Benavent de Sangria, probabilmente il 26 agosto 1861.
Il caratteristico nomadismo del suo popolo gli impedisce di frequentare
regolarmente le scuole, lasciandolo quasi analfabeta. è di famiglia povera, che diventa ancor più povera quando il
padre se ne va con un’altra donna. Girando di villaggio in villaggio conosce la
precarietà tipica della vita di coloro che vivono nell’emarginazione. Fin da
piccolo impara a fare il panieraio, a intrecciare cioè cesti e canestri, che poi
vende nei villaggi. A 18 anni si sposa con il rito gitano con Teresa Jimenéz,
un matrimonio che durerà più di quarant’anni. Purtroppo la loro unione non sarà
coronata da figli, adotteranno quindi “Pepita” (Giuseppina) una nipotina di
Teresa. Ceferino è il primo zingaro a essere elevato alla gloria degli altari.

<!-- /* Font Definitions */ @font-face {Cambria Math"; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1107305727 0 0 415 0;} @font-face { panose-1:2 15 5 2 2 2 4 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-1610611985 1073750139 0 0 159 0;} @font-face { mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} @font-face {Calibri Bold Italic"; panose-1:2 15 7 2 3 4 4 10 2 4; mso-font-charset:77; mso-generic- mso-font-format:other; mso-font-pitch:auto; mso-font-signature:3 0 0 0 1 0;} /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; mso-fareast-Times New Roman"; mso-bidi- color:black;} p.BanderaTesto, li.BanderaTesto, div.BanderaTesto {mso-style-name:Bandera_Testo; mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; line-height:10.0pt; mso-line-height-rule:exactly; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; Times New Roman"; mso-fareast-Times New Roman";} .MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:10.0pt; mso-ansi-font-size:10.0pt; mso-bidi-font-size:10.0pt;} @page WordSection1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.WordSection1 {page:WordSection1;} --

Ceferino - o preferisci che ti chiami «El Pelè» come ti chiamavano tutti? -, parlaci un po’ di te.

Appartengo al popolo gitano - gli zingari -, le cui origini si perdono nelle nebbie della storia. Provenienti dall’India, ci siamo sparsi per tutta l’Europa. In Spagna siamo poco meno di un milione, la terza comunità più numerosa nel nostro continente.

Un popolo che non ha mai rinunciato ai suoi usi e costumi, soprattutto al nomadismo.

Proprio così. Pensa che il saluto ben augurante che usiamo tra di noi è lacio drom, che significa «buon cammino» o «buon viaggio», per indicare un modo di vivere in movimento, con il mondo intero come orizzonte.

Questo vostro modo di vivere vi ha causato parecchie noie, sofferenze e anche persecuzioni.

Ormai sono innumerevoli le prese di posizione legislative su (e contro) di noi. Il fatto di non essere stanziali fa di noi degli uomini liberi, poco controllabili da chi è preposto a garantire l’ordine pubblico e quindi anche temuti. In tutti i modi si cerca ancora oggi di obbligare gli zingari a diventare stanziali al pari di tutti i «payos» (termine che nella nostra lingua definisce chi non è zingaro).

L’ostilità nei vostri confronti ha avuto il suo apice con le leggi razziali di Hitler che voleva sopprimervi così come il popolo ebraico.

Vivendo in Spagna sono stato toccato solo marginalmente dal nazismo, ma l’orrore dei campi di sterminio resta una ferita sanguinante ancora oggi. Pensa che ad Auschwitz, sulla lapide che riporta i nomi dei popoli che soffrirono le pene dell’inferno, il nome del popolo zingaro non compare! Una dimenticanza non da poco.

La tua famiglia che posizione occupava?

Sono nato e cresciuto in una famiglia povera e numerosa. Le bocche da sfamare erano tante. In più mio padre a un certo punto se ne andò per vivere con un’altra donna lasciandoci nella più nera indigenza.

Nonostante ciò non sei diventato né ladro né accattone né imbroglione, come spesso e volentieri i «payos» pensano di voi.

C’è una legge fondamentale nel cuore di ogni uomo: essa dice che prima di tutto devi rispondere ai dettami della tua coscienza. La mia, fondata sulla fede cristiana e sui valori del popolo rom, mi ha sempre spinto ad agire per il bene.

Ti sei fatto la fama di uomo retto, con una autorevolezza morale tale da diventare un capo dei gitani aragonesi di Barbastro.

Proprio così, per il mio modo di fare e per i miei atteggiamenti mi trovai senza volerlo a essere un riferimento per coloro che avevano bisogno di un consiglio. Più volte sono stato chiamato a far da paciere nelle liti familiari, nelle controversie tra gitani e tra questi e gli abitanti della nostra cittadina.

Però devi ammettere che un giorno hai avuto un bel colpo di fortuna, o è stata la provvidenza? ce ne parli?

Una sera tornando a casa vidi sul ciglio della strada un uomo, per la precisione un ricco possidente della zona. Malato di tubercolosi, era svenuto e il sangue gli usciva dalla bocca. Incurante del rischio di contagio l’ho caricato sulle spalle e portato fino a casa sua. La famiglia volle ricompensarmi per quel gesto di carità e con quei soldi intrapresi un piccolo commercio di muli e cavalli.

Essendo un gitano non è difficile immaginare che quello era il tuo mondo.

Ma l’ambiente del commercio degli animali non era dei più puliti e pur cercando di essere limpido e onesto fino allo scrupolo, fui arrestato e incarcerato perché due animali che comprai risultarono rubati. Cosa più che sufficiente per accusarmi di ricettazione. La mia origine gitana e il pregiudizio razziale per cui ogni zingaro è un ladro e un disonesto, pesarono sul processo, ma alla fine riuscii a dimostrare la mia buona fede e la completa estraneità ai fatti. Fui quindi assolto con formula piena.

Perciò hai continuato la tua redditizia attività commerciale?

Sì. Avrei anche potuto diventare ricco, ma avevo, come si dice, le «mani bucate» perché soccorrevo chiunque si trovasse nel bisogno o in difficoltà, specialmente la mia gente, e facevo tutto di nascosto perché nella mia famiglia, mia moglie compresa, non condividevano la mia generosità.

Tutto ciò ti veniva dalla fede cristiana che professavi senza imbarazzo davanti a tutti.

Della mia fede non ho mai fatto mistero a nessuno, avevo sempre con me la corona del rosario e di notte mi piaceva guardare il cielo stellato facendo una specie di adorazione che consiglio a molti di fare. Contemplando il cielo e le stelle pregavo con più intensità.

La tua fede cosa ha cambiato nella tua vita?

Mi ha fatto regolarizzare la mia posizione familiare con il matrimonio religioso che ho celebrato nel 1912 con Teresa a Barbastro, dove mi sono stabilito acquistando una casa. Potendo quindi accostarmi ai sacramenti, facevo della Messa e Comunione quotidiana un punto importante della mia crescita spirituale. Mi dedicavo anche alla catechesi dei bambini sia rom sia spagnoli ed ero molto attivo nella san Vincenzo. Nel 1926 sono diventato anche terziario francescano e organizzatore dei pellegrinaggi annuali dei Rom a diversi santuari. Dal 1931 ho cominciato a partecipare regolarmente all’adorazione nottua dei «giovedì eucaristici».

Però sul tuo capo come su quello di milioni di spagnoli incombeva minacciosa la rivoluzione del 1936 che scatenò violenza, distruzione e morte, ed ebbe anche una forte connotazione antireligiosa.

La rivoluzione, cresciuta in un brodo di odio popolare e conflitto sociale dovuto alla turbolenta situazione economico-politica che viveva la Spagna in quegli anni, spinse alla radicalizzazione dello scontro tra le fazioni in lotta portando quelle d’ispirazione marxista a uccidere migliaia di religiosi.

Alla fine della guerra di Spagna si contavano più di 6800 preti e religiosi uccisi, tra questi anche tredici vescovi e oltre 200 suore di vita contemplativa. È invece impossibile avere il numero preciso dei laici, uomini e donne, uccisi per la fede. La tempesta che si abbattè in quel periodo sulla Chiesa fu una delle più feroci persecuzioni anticristiane del XX secolo.

E com’è che anche tu sei finito in carcere?

Devo dire che gli avvenimenti bellici che si susseguirono dall’inizio delle ostilità non scalfirono minimamente il mio essere cristiano, anzi. Però nel mese di luglio del 1936 difesi un sacerdote che era stato aggredito e per questo fui arrestato con lui. Perquisendomi, in tasca trovarono la corona del rosario. Quello fu più che sufficiente per sbattermi in galera accusato di ogni falsità.

Immagino che quella corona in carcere sia diventata «un’arma preziosa» tra le tue mani proprio per avvicinarti di più al Signore.

Non solo per me, ma anche per tutti i miei compagni di prigionia. Amici influenti si mossero in mio favore, vennero a trovarmi e mi garantirono l’immediata scarcerazione se solo avessi consegnato la corona del rosario e smesso di sostenere i compagni di prigionia con le mie preghiere. Ovviamente mi rifiutai, perché il rosario significava la fede in Cristo e il recitarlo con fede affidandomi alla Madre di Dio aiutava me e tutti gli altri a sopportare la brutta situazione in cui ci trovavamo.

Quando lo fucilano il 9 agosto del 1936, insieme a Florentino Asensio Barroso vescovo di Barbastro e ad altri prigionieri, l’ultimo suo grido è «Viva Cristo Re!» mentre in mano tiene alta come una bandiera la sua corona del rosario. Il giorno dopo alcuni zingari sono obbligati a scavare una fossa comune per tutti i fucilati e a buttare calce viva sui loro corpi per evitae il riconoscimento e cancellae la memoria.

A Roma il 4 maggio 1997, alla presenza di migliaia di zingari, Giovanni Paolo II lo proclama beato. Nell’omelia il papa dice: «Il beato Ceferino seppe seminare concordia e solidarietà fra i suoi, mediando anche nei conflitti che a volte nascono fra “payos” e zingari, dimostrando che la carità di Cristo non conosce limiti di razza e di cultura». Con lui è stato beatificato anche il vescovo Florentino, fucilato dallo stesso plotone di esecuzione. Di Ceferino non è rimasto niente se non lo sgualcito certificato di battesimo, che portava sempre con sé, e il rosario, segni concreti per confermare che si può essere zingari e santi secondo il monito dell’apostolo Paolo che ogni uomo si converta e viva, rimanendo nella sua cultura e tradizione.

Don Mario Bandera, Missio Novara
Tags: Ceferino, Zeffirino, zingari, santi, martiri spagnoli, martiri
Mario Bandera




Una donna su otto: Il tumore al seno 

Le patologie oncologiche / 1


Dopo quello del colon retto, il tumore al seno è la
patologia oncologica più diffusa. In Italia è la prima causa di morte per
tumore tra le donne. La sua incidenza dipende da un insieme di fattori:
ereditari, socio ambientali e comportamentali (gravidanza, alimentazione, fumo,
alcol). La buona notizia è che, negli ultimi anni, il tasso di sopravvivenza è
migliorato.

In questo tempo di crisi economica e di continui tagli alla sanità
pubblica sono in costante aumento coloro che non riescono a curarsi
adeguatamente. Questo fatto potrebbe avere conseguenze molto pesanti per chi è
costretto a fronteggiare patologie oncologiche, che tendono a essere sempre più
diffuse tra la popolazione e che – oltre a tutto ciò che comportano – hanno un
grosso impatto economico sui malati e sulle loro famiglie. Tra queste patologie
c’è il cancro della mammella, la cui incidenza è in costante aumento e i cui
costi – stimati per 2,5 anni di malattia – sono di circa 15.500 euro procapite
a carico del sistema sanitario nazionale (tra interventi chirurgici,
chemioterapia e radioterapia) e tra 24.800-28.500 euro a carico della paziente,
se si considerano i costi delle spese mediche (14% del totale di visite
specialistiche, esami di laboratorio, fisioterapia, riabilitazione, farmaci e
chirurgia plastica ricostruttiva), dei presidi sanitari (80% a carico della
paziente), dall’assunzione temporanea di persone per aiuti domestici e di una
possibile riduzione del reddito da lavoro tra il 10 ed il 40%.

Per capire meglio l’impatto sociale di questa
malattia, vediamo quali sono i suoi numeri, le sue caratteristiche e come viene
attualmente affrontata.

Secondo i dati dell’«Associazione italiana di oncologia medica»
(www.aiom.it) e dell’«Associazione italiana registri tumori»
(www.registri-tumori.it), se esaminiamo la prevalenza in Italia di questo
tumore, cioè il numero di donne malate in un determinato anno, vediamo che si è
passati da 48.200 nel 1970 a 490.000 nel 2010. Certamente questo dato è
influenzato da una diagnostica più accurata, ma l’incremento è comunque
rilevante. Attualmente è a rischio di
ammalarsi una donna su 8 (www.airc.it) e una su 50 rischia di morire per questo
tumore. Peraltro è migliorato il tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla
diagnosi, essendo passati dall’81% nel 1990 all’ 85-87% attuale. In Italia il
tumore del seno è la prima causa di morte per tumore tra le donne, mentre nella
popolazione totale è il secondo tumore più frequente, essendo primo quello del
colon retto e terzo quello del polmone. Nella popolazione femminile italiana,
il tumore del seno rappresenta ora il 28,9% di tutti i tumori, contro il 26,7%
degli anni ’90 ed il 18,4% degli anni ’80. Ogni anno ci sono circa 48.000 nuovi
casi – cifra quadruplicata dal 1970 (11.600) – e muoiono circa 13.000 donne. Le
più colpite sono le donne oltre i 64 anni (40% dei casi di tumore), mentre
abbiamo il 30% dei casi nella fascia 50-64 anni e il 20-30% dei casi sotto i 50
anni. Le donne colpite prima dei 40 anni sono il 5-7% dei casi. Si stima che le
donne attualmente malate siano circa 522.000. Anche gli uomini possono
ammalarsi di cancro al seno, sebbene molto più raramente (è a rischio un uomo
su 521), tranne in alcune regioni dell’Africa, in cui l’incidenza di questo
tumore tra gli uomini è più elevata che altrove. 

I tipi di tumore mammario sono molteplici. La maggiore frequenza di
questo tumore si riscontra nei paesi più industrializzati, con l’eccezione del
Giappone. Nell’America del Nord e nell’Europa occidentale, esso rappresenta un
cancro su 4 tra le donne, mentre in aree a basso rischio come la Cina e il
Giappone rappresenta rispettivamente un cancro su 8 ed uno su 16. I tassi di
incidenza più elevati sono quelli delle donne hawaiane (93,9 su 100.000) e
delle donne bianche statunitensi (70-90 su 100.000). Nel resto dei paesi
industrializzati tranne il Giappone, nel Sud del Brasile ed in Argentina ci
sono tassi di 60-90 su 100.000. Nell’America del Sud, tranne i paesi succitati,
e nell’Europa orientale e meridionale i tassi sono intermedi (40-60 su
100.000), nell’America centrale e tropicale del Sud, in Africa ed in Asia sono
bassi (meno di 40 su 100.000). L’incidenza di questo tumore aumenta con l’età
della donna , dai 30 ai 70 anni, con una flessione tra i 45-54 anni, cioè
nell’età della menopausa. Si possono osservare notevoli variazioni del rischio
all’interno di uno stesso paese in base a fattori sociodemografici come
l’etnia, la classe sociale, lo stato civile e la regione di residenza. Ad
esempio, in Israele l’incidenza di questo tumore è alta tra le donne ebree e
bassa tra le non ebree, mentre alle Hawaii è alta tra le hawaiane e bassa tra
le filippine. Già dal 1700, grazie alle osservazioni di Beardino Ramazzini
(1633-1714) sulle suore, si sa che questo tumore è più frequente tra le donne
nubili (50% di rischio in più), che tra quelle sposate. Inoltre è un tumore più
frequente nelle aree urbane, che in quelle rurali e tra le donne di più elevato
ceto sociale. Si capisce che i fattori ambientali sono importanti
nell’eziologia del cancro della mammella dalle variazioni del rischio nelle
popolazioni migranti, comunque influenzate dall’etnia di appartenenza. Ad esempio,
i tassi d’incidenza di questo tumore tra gli europei emigrati negli Stati Uniti
variano con relativa rapidità, diventando presto simili a quelli degli
statunitensi, mentre quelli delle popolazioni provenienti da Cina e Giappone
variano anch’essi, ma molto più lentamente. Tale differenza può essere
ascrivibile a un minore adattamento delle popolazioni orientali alle abitudini
alimentari e riproduttive statunitensi.

Diversi studi hanno evidenziato una
correlazione tra tassi di incidenza e di mortalità del carcinoma della mammella
e assunzione di grassi,  proteine di
origine animale e di calorie totali.

Alcune variazioni nell’incidenza del
carcinoma mammario sono sicuramente in relazione con il comportamento
riproduttivo, come il numero di figli per donna e l’età della prima gravidanza.
Da tempo si sospetta che un basso numero di gravidanze sia uno dei maggiori
fattori di rischio per il cancro della mammella. Uno studio compiuto da
MacMahon nel 1970 ha evidenziato che è anche importante l’età della donna alla
prima gravidanza portata a termine. Il rischio di contrarre il tumore è infatti
circa doppio nelle nullipare e nelle donne con la prima gravidanza a 30 anni e
oltre, rispetto a quelle che hanno avuto il primo figlio prima dei 20 anni.
Pare inoltre che il rischio per le donne con la prima gravidanza oltre il 35
anni sia superiore a quello delle nullipare. Altri studi hanno rilevato che
qualunque gravidanza condotta a termine prima dei 35 anni ha effetto
protettivo, mentre le altre aumentano il rischio. Inoltre l’effetto protettivo
di una gravidanza precoce si manifesta solo se essa è portata a termine, mentre
vi sarebbe un aumento del rischio in relazione all’aborto (sia spontaneo, che
procurato). Questo potrebbe volere dire che la prima parte della gravidanza
aumenta il rischio di tumore, mentre il suo completamento lo contrasta. Altri
studi sono giunti alla conclusione che anche l’allattamento può avere un
effetto protettivo, diminuendo del 50% il rischio nelle donne prima della
menopausa, ma non dopo. Sembra che un periodo critico per il rischio di
contrarre questo tumore siano gli anni immediatamente seguenti una gravidanza.
Probabilmente, oltre all’età e al numero delle gravidanze, entrano in gioco
altri fattori, come la classe sociale, le differenze culturali, le variazioni
nell’utilizzo della pillola contraccettiva. Per quanto riguarda quest’ultima,
così come nel caso della Tos (Terapia ormonale sostitutiva in menopausa), si
tratta di associazioni estro-progestiniche, che possono stimolare la crescita
di tumori endocrino-responsivi, come sono alcuni tipi di tumore mammario.
Secondo diversi studi, la pillola anticoncezionale (soprattutto nelle vecchie
formulazioni ad alto dosaggio) aumenta leggermente il rischio di questo tumore,
ma risulta protettiva nei confronti di quelli dell’ovaio e dell’endometrio.
Nelle donne che hanno assunto la pillola sembra esserci anche una diminuzione
nell’incidenza del tumore del colon, mentre aumenterebbe leggermente quella del
tumore della cervice. Le nuove formulazioni a base di estradiolo e nomegestrolo
sembrano avere minori effetti sul tessuto mammario, in termini di rischio. Un
aumento del rischio di tumore mammario è risultato essere correlato alla
terapia ormonale sostitutiva somministrata in menopausa, al fine di contrastare
gli effetti della fisiologica riduzione degli ormoni sessuali. Alcuni dati
epidemiologici hanno dimostrato un aumento del rischio di carcinoma mammario
sia a seguito della somministrazione esogena di estrogeni con la Tos, sia nel
caso dell’aumentata conversione periferica di androgeni surrenalici in
estrogeni, nelle donne obese. Dopo la menopausa, la maggiore fonte di estrogeni
è il tessuto adiposo, infatti molti studi hanno dimostrato che il rischio di
tumore mammario è superiore nelle donne in menopausa in sovrappeso oppure
obese, rispetto alle normopeso. Altri fattori che aumentano il rischio di
carcinoma mammario sono il menarca precoce e la menopausa dopo i 55 anni.
Secondo vari studi, ogni anno di ritardo nella comparsa del menarca ridurrebbe
il rischio di tumore mammario del 20%, mentre le donne che entrano in menopausa
prima dei 45 anni avrebbero un rischio inferiore del 50%, rispetto a quelle che
presentano la menopausa dopo i 55 anni.

Diversi studi hanno evidenziato che il consumo di oltre 30 grammi al
giorno di alcol è associato ad un aumento del rischio di carcinoma mammario di
1,5-2 volte, indipendentemente dal tipo di bevanda. In ogni caso i tumori
mammari ascrivibili al consumo di alcol sarebbero circa il 5% del totale. Le
radiazioni ionizzanti sono un altro fattore di rischio per questo tumore, che è
risultato elevato tra le donne sopravvissute alla bomba atomica e
all’esplosione della centrale nucleare di Cheobyl nel 1986, tra le pazienti
trattate con raggi X per una mastite post-partum e tra le pazienti sottoposte a
molteplici fluoroscopie, nel corso della cura per la tubercolosi.

Esiste una percentuale di popolazione intorno
allo 0,1-0,6%, che presenta mutazioni genetiche a carico dei geni BRCA1, BRCA2,
HER2 e p53.  Si stima che nei Paesi
occidentali, il 10% dei tumori mammari sia ascrivibile ad una o più di queste
mutazioni. Ciò significa che nelle famiglie in cui si sono verificati più casi
di tumore mammario, è consigliabile effettuare un test genetico, per
predisporre un piano di prevenzione accurato, dal momento che avere una parente
di primo grado (madre, sorella, figlia) con una storia di carcinoma mammario
aumenta il rischio di contrarre il tumore di circa l’80%, avere due parenti
colpite lo aumenta di circa 3 volte e con 3 o più parenti colpite, il rischio
diventa quadruplo, rispetto a quello della popolazione generale. La mutazione
del gene BRCA1 accresce maggiormente il rischio di tumore mammario, mentre
quella del gene BRCA2 è meno legata all’aumento di rischio del tumore mammario,
ma si correla a quelli per tumore ovarico, delle tube, di melanoma e,
nell’uomo, della prostata. La positività per mutazioni a carico del gene BRCA1
ha recentemente indotto Angelina Jolie, attrice di fama internazionale, a
sottoporsi alla mastectomia radicale bilaterale preventiva, seguita da
chirurgia plastica ricostruttiva, al fine di scongiurare l’insorgenza del
tumore, che aveva già ucciso in passato sua madre e sua sorella. L’attrice ha
inoltre annunciato che sta per sottoporsi anche all’asportazione preventiva
delle ovaie. Va detto che la mastectomia preventiva riduce il rischio di tumore
mammario al 5%, ma non lo azzera completamente, data l’impossibilità di essere
certi di avere asportato tutto il tessuto mammario (la mammella non ha confini
netti). Sebbene nessuna alternativa sia in grado di abbattere il rischio come
la mastectomia preventiva, tuttavia si possono percorrere altre strade come il
monitoraggio intensivo con mammografia e risonanza magnetica ogni anno a
partire dai 30 anni, eventualmente inframmezzate da ecografia ogni 6 mesi dopo
i 40 anni. Possono essere somministrati farmaci che bloccano gli effetti degli
estrogeni sulla mammella, come il tamoxifene, che diminuisce il rischio di
tumore al 25-40%, anche se induce una menopausa precoce. Un’altra possibile
strategia è l’asportazione delle sole ovaie, per ridurre la produzione di
estrogeni, senza modificare l’immagine corporea.

Altri importanti
fattori di rischio
per il carcinoma mammario sono gli inquinanti ambientali.
Tra questi è stata dimostrata una correlazione tra Pcb (policlorobifenili) ed
aumento del 2-4% del rischio di questo tumore. I Pcb, la cui produzione è stata
vietata negli Stati Uniti nel 1970, sono stati largamente usati in passato come
ritardanti di fiamma nelle apparecchiature elettriche e nella produzione di
materiali da costruzione come calce e veici. Purtroppo, essi sono stati
riversati come materiali di scarto in grandi quantità nei fiumi adiacenti alle
aree industriali, passando in tal modo nei pesci e da qui nel tessuto adiposo
umano e nel latte materno. Alcuni studi hanno dimostrato la correlazione tra
Pcb e forme tumorali mammarie più aggressive. Altri pericolosi inquinanti
ambientali che aumentano il rischio di cancro mammario sono gli idrocarburi aromatici
policiclici (Pca), che si ritrovano nei gas di scarico veicolari, nei cibi
grigliati ed affumicati, nel fumo di tabacco e nei fumi delle centrali
elettriche. È stata dimostrata una correlazione tra il fumo di sigaretta e
l’aumento di rischio di tumore mammario nelle donne giovani. Un altro
pericolosissimo prodotto di combustione legato a diverse forme di tumori, tra
cui quello mammario, è la diossina (liberata da inceneritori, acciaierie,
cementifici), a cui l’essere umano viene esposto attraverso il latte, il pesce
e la carne. Infine tra gli inquinanti ambientali che fanno aumentare il rischio
di tumore mammario ci sono i solventi organici usati nelle lavanderie a secco,
nei saloni di bellezza, nei negozi di macchine, per cui l’esposizione avviene
sia sul posto di lavoro, che utilizzando i prodotti di consumo. Poiché è
dimostrato il ruolo degli inquinanti ambientali nell’aumento del rischio di
tumore mammario, politiche di bonifica ambientale dovrebbero essere una priorità
assoluta di salute pubblica.

La prevenzione del tumore mammario, che viene attualmente
effettuata mediante mammografia, ecografia e autopalpazione è in realtà solo di
tipo secondario, cioè serve soltanto a individuare forme tumorali già in atto.
Ciò a cui bisogna tendere è invece prevenire la formazione del tumore con un
miglioramento dell’ambiente di vita e di lavoro, eliminando tutte quelle
sostanze o agenti fisici potenzialmente cancerogeni. 

Rosanna Novara
Topino


Il Seno

Il seno è costituito da un insieme di
ghiandole e tessuto adiposo ed è posto tra la pelle e la parete del torace. In
realtà non è una ghiandola sola, ma un insieme di strutture ghiandolari,
chiamate lobuli, unite tra loro a formare un lobo. Il tumore al seno è una
malattia potenzialmente grave se non è individuata e curata per tempo. È dovuto
alla moltiplicazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria
che si trasformano in cellule maligne. Ciò significa che hanno la capacità di
staccarsi dal tessuto che le ha generate per invadere i tessuti circostanti e,
col tempo, anche gli altri organi del corpo. Sono due i tipi di cancro del
seno: le forme non invasive e quelle invasive. Le forme non invasive sono le
seguenti: neoplasia duttale intraepiteliale (carcinoma in situ); neoplasia
lobulare intraepiteliale, entrambe con vari gradi. Le forme invasive sono: il
carcinoma duttale, quando supera la parete del dotto, rappresenta tra il 70 e
l’80 per cento di tutte le forme di cancro del seno; il carcinoma lobulare:
quando il tumore supera la parete del lobulo, può colpire contemporaneamente
ambedue i seni o comparire in più punti nello stesso seno.

Altre forme di carcinoma meno frequenti sono il carcinoma
tubulare, papillare, mucinoso, cribriforme. Hanno prognosi favorevole. (www.airc.it)

Glossario

Incidenza: numero di nuovi casi riscontrati in un anno in
un certo paese, nel mondo, ecc.
Tumore:
si intende una neoplasia, qualcosa di insorto ex
novo; puó essere benigno o maligno.
Cancro:
è una definizione generale, che riguarda ogni
tipo di tumore maligno.
Carcinoma:
è il cancro dei tessuti di origine epiteliale,
di cui la mammella fa parte, come tutte le ghiandole.
Menarca:
è il primo flusso mestruale della donna, che
rappresenta l’inizio del periodo fertile.
Nullipara:
donna che non ha mai partorito.
Mastectomia:
è l’asportazione chirurgica della mammella.
BRCA:
geni coinvolti nel tumore mammario.

tags: salute, seno, oncologia, tumore, patologie

Rosanna Novara Topino




Libertà in affanno 

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 19


La libertà di religione si conferma un diritto a rischio per
la maggioranza della popolazione mondiale. La regione più restrittiva è quella
del Medio Oriente-Nord Africa, seguita da quella dell’Asia-Pacifico. In Europa,
al terzo posto, a una crescente ostilità sociale corrisponde una crescente
pressione governativa.

Il 14 gennaio scorso è uscito il
quinto rapporto annuale del Pew Research Center1 sulle restrizioni alla libertà
religiosa nel mondo, Religious hostilities reach six-year high. I dati
riferiti riguardano l’anno 2012, che è stato il peggiore per la libertà
religiosa da quando l’organizzazione con sede in Washington DC ha iniziato a
monitorare la situazione, nel 2006-2007.

Libia post Gheddafi

È sufficiente fare attenzione alle
agenzie d’informazione riguardanti un paese come la Libia – scelto a esempio –
per trovarsi concordi con l’analisi del Pew Center che indica un
incremento molto forte delle restrizioni alla libertà religiosa in quelle terre
nel 2012, e per immaginare che, dopo quell’anno, non è probabilmente seguita
una sostanziale diminuzione.

Era il 25 febbraio quando l’agenzia Fides
pubblicava sul suo sito le dichiarazioni del Vicario apostolico di Tripoli
riguardanti il massacro di sette copti a Bengasi: «“Non si capisce bene cosa
vogliano questi fondamentalisti. Sicuramente vogliono mettersi in evidenza
spargendo il sangue di vittime innocenti. I copti ortodossi sono da tempo il
loro bersaglio, soprattutto in Cirenaica” dice […] mons. Giovanni Innocenzo
Martinelli […], commentando l’uccisione di sette lavoratori egiziani di
confessione copto ortodossa […]. Secondo fonti di agenzia, domenica 23 febbraio
i sette egiziani erano stati prelevati nelle loro abitazioni da uomini armati.
I loro corpi sono stati ritrovati il giorno successivo in una località alla
periferia della città. Le vittime sono state uccise da colpi d’arma da fuoco al
petto e alla testa. “Non sappiamo altro […]” dice mons. Martinelli. […] “Siamo
nelle mani di Dio, in queste situazioni incerte e insicure”». Agenzie
precedenti parlano di aggressioni a sacerdoti cattolici o copti ortodossi da
parte di milizie armate, di arresti ed espulsioni di decine di egiziani copti,
o di membri di comunità protestanti, in seguito ad accuse di «proselitismo», di
chiese prese d’assalto.

«In Libia due fedeli sono stati
uccisi in un attacco contro una chiesa copta ortodossa nella città di Misurata
nel mese di dicembre 2012. Questo è stato il “primo attacco [in Libia]
destinato a una chiesa dopo la rivoluzione del 2011”», scrive il Pew Center
nel suo rapporto, illustrando la crescita dell’ostilità sociale nel paese.

L’ostilità sociale nei confronti delle religioni

Per quantificare gli ostacoli
all’espressione e alla pratica religiosa nei singoli paesi, il Pew Center
usa due indicatori: l’indice delle ostilità sociali (Shi: social hostilities
index
), il quale misura gli atti contrari alla libertà di credo verso
determinati gruppi religiosi da parte della società civile, di gruppi o di
singoli; e l’indice delle restrizioni governative (Gri: govement
restrictions index
), il quale misura le azioni delle istituzioni nazionali
o locali che contrastano la religione. Lo studio statistico, avverte il Pew
Center
, tiene conto di alcuni dati e non di altri: misura gli impedimenti
alla libertà religiosa, ma non misura, ad esempio, la quantità di attività
libere e senza ostacoli, non giudica se le restrizioni siano giustificate o
meno, non valuta i processi storici, culturali, sociali che portano alle
restrizioni.

Attraverso una panoramica sul primo
dei due indici, veniamo informati del fatto che l’anno esaminato nel rapporto,
il 2012, è stato quello con i livelli più alti di ostilità sociale nei
confronti della religione mai registrato dall’inizio delle indagini nel
2006-2007. Se nel 2007 si era verificato un livello alto o molto alto nel 20%
dei 198 paesi presi in esame, nel 2011 tali livelli si erano attestati nel 29%
dei paesi, e nel 2012 nel 33%. L’aumento dell’ostilità sociale tra il 2011 e il
2012 è stato constatato in 4 delle 5 aree in cui il Pew Center suddivide
il mondo: l’unica area in cui c’è stata una lieve diminuzione è quella delle
Americhe, mentre l’incremento maggiore è stato rilevato nell’area del Medio
Oriente-Nord Africa. Quest’ultima regione, che è quella con livello medio
dell’indice di ostilità sociale più alto, nel 2012, su una scala di 10 punti,
ha fatto registrare un valore di 6,4 (nel 2011 era 5,4). In alcuni paesi della
zona l’aumento è stato molto vistoso: nella Libia di cui abbiamo già parlato
(da 1,9 nel 2011 a 5,4 nel 2012), in Tunisia (da 3,5 a 6,8), in Siria (da 5,8 a
8,8) e in Libano (da 5,6 a 7,9).

Prendendo in considerazione il mondo
intero, oltre ai quattro paesi dell’area Medio Oriente-Nord Africa, altri sette
hanno fatto registrare un aumento di due punti e più tra il 2011 e il 2012:
Mali, Messico, Guinea, Olanda, Madagascar, Afghanistan e Malawi. Nessun paese
al mondo ha avuto una diminuzione altrettanto cospicua.

L’incremento generale dell’indice è
stato dato dall’aumento molto forte di alcune forme di ostilità sociale: ad
esempio casi di individui aggrediti o sfollati dalle loro case per le loro
attività religiose (questo tipo di vessazione nel 2007 era stato registrato nel
24% dei paesi del mondo, nel 2011 nel 38%, e nel 2012 nel 47%). Il Pew
Center
riporta alcuni episodi emblematici avvenuti in diversi paesi: nel
Nord del Mali, per esempio, gruppi di estremisti islamici hanno condotto
esecuzioni, amputazioni, fustigazioni, distrutto chiese, vietato battesimi,
provocando la fuga di centinaia di cristiani verso la parte Sud del paese; «nello
Sri Lanka a maggioranza buddista alcuni monaci hanno attaccato luoghi di culto
musulmani e cristiani nella città di Dambulla nell’aprile 2012 ed è avvenuta
un’occupazione forzata di una chiesa degli Avventisti del settimo giorno nella
città di Deniyaya nell’agosto dello stesso anno per trasformarlo in un tempio
buddista».

Le restrizioni governative

Per quanto riguarda l’indice relativo
alle restrizioni governative della libertà di credo, il Pew Research Center
informa che non si sono registrati nel 2012 aumenti significativi. Restrizioni
elevate o molto elevate da parte delle istituzioni nazionali o locali si sono
verificate nel 29% dei 198 paesi presi in esame (28% nel 2011; 20% nel 2007).

Nell’ambito delle restrizioni
governative, nel 2012 rispetto all’anno precedente, i cambiamenti significativi
(almeno 2 punti su una scala di 10) sono avvenuti in due soli paesi: un grande
aumento di restrizioni in Rwanda, dove una legge di regolazione delle
organizzazioni religiose ha introdotto requisiti di registrazione molto
stringenti; e una grande diminuzione in Costa d’Avorio dove nel 2012 si sono
placate le violenze etnico-religiose postelettorali del 2011.

Il livello medio delle restrizioni
governative è aumentato in due delle cinque aree: in Medio Oriente-Nord Africa
e in Europa, mentre nelle Americhe è rimasto inalterato, e nelle altre due
regioni (Africa subsahariana e Asia-Pacifico) è diminuito. In particolare
l’Europa è stato il continente in cui le restrizioni governative sono aumentate
di più. L’area in cui invece sono diminuite di più è stata l’Asia-Pacifico.

Anche per le restrizioni governative
il Pew Center riporta alcuni episodi: parla ad esempio del caso di
Tuvalu, il cui governo centrale nel 2012 ha iniziato ad applicare una legge che
impedisce ai fedeli di religioni non riconosciute di riunirsi; della Tunisia,
in cui sono stati fatti dalle autorità pubbliche molti sforzi per rimuovere
alcuni imam che predicavano il salafismo.

I governi hanno usato atti di forza
contro gruppi religiosi o singoli fedeli in quasi la metà (il 48%) dei paesi
del mondo. Altro esempio è quello della Mauritania, il cui governo nell’aprile
2012 ha arrestato 12 attivisti anti-schiavitù con l’accusa di sacrilegio e
blasfemia per aver pubblicamente bruciato alcuni testi sacri considerati dagli
attivisti ispiratori dello schiavismo.

Uno sguardo d’insieme

Mettendo insieme i rilevamenti relativi
ai due indici, il Pew Center afferma che nel 2012 ci sono state
restrizioni elevate o molto elevate (sia sociali che governative) nel 43% dei
paesi (la percentuale più alta registrata dall’organizzazione in 6 anni). Data
la particolare popolosità di alcuni di questi paesi (Nigeria, India, Pakistan,
Egitto, Indonesia e così via) la porzione di popolazione mondiale che ha
vissuto il 2012 in un paese con livelli di restrizione della libertà religiosa
elevati o molto elevati è stata pari al 76% (5,3 miliardi di persone). Nel 2011
la percentuale era del 74%, nel 2007 del 68%.

Tra i 34 paesi con restrizioni molto
elevate (sociali o governative o entrambe) l’unico paese europeo presente era
la Russia (con entrambi gli indici al livello molto elevato). Tra quelli con
restrizioni elevate, i paesi europei erano 17, di cui tre – Bulgaria, Grecia e
Moldova – avevano entrambi gli indici al livello elevato, due avevano al
livello elevato solo l’indice di restrizioni governative, dodici avevano un
elevato indice di ostilità sociale (tra questi ultimi anche l’Italia).

Nel complesso le restrizioni, sia
sociali che governative, alla libertà religiosa nel mondo sono aumentate tra il
2011 e il 2012 almeno un po’ nel 61% dei paesi, e sono diminuite almeno un po’
nel 29%.

Vessazioni nei confronti di gruppi specifici

Un ultimo approfondimento cui vale la
pena accennare, è quello riguardante le vessazioni rivolte a specifici gruppi
religiosi.

I maltrattamenti nei confronti di
gruppi specifici possono avere una matrice sia sociale che istituzionale:
aggressioni fisiche, arresti e detenzioni, profanazione di luoghi sacri,
discriminazioni nel mondo del lavoro, dell’istruzione, delle possibilità di
accesso a un alloggio, aggressioni verbali, intimidazioni. Questo genere di
molestie si sono verificate, nel 2012, in 166 paesi su 198 studiati. Prendendo
in considerazione solo le tre religioni monoteiste, vessazioni nei confronti di
gruppi di musulmani sono state registrate in 109 paesi, nei confronti di gruppi
di ebrei in 71 paesi, verso i cristiani in 110 paesi.

Nel 2012, alcuni gruppi religiosi
avevano più probabilità di essere molestati dai governi che da gruppi sociali o
da privati cittadini, mentre altri avevano più probabilità di essere oggetto di
vessazioni da parte di individui o gruppi sociali che da parte di politiche
governative. Gli ebrei, per esempio hanno subito maltrattamenti sociali in 66
paesi, mentre hanno affrontato vessazioni governative in 28 paesi. Al
contrario, i membri di altre religioni del mondo, come i sikh e i baha’i, sono
stati molestati più volte dai governi (in 35 paesi) di quanto non lo siano
stati da gruppi o individui nella società (21 paesi).

Luca Lorusso
Note

1. Il Pew Forum (pewforum.org) è
un progetto del Pew Research Center, con base a Washington, finanziato
dalla Pew Charitable Trusts: un’organizzazione indipendente non-profit,
non governativa (Ong), fondata negli Usa nel 1948. Tutte le relazioni del
centro sono disponibili su www.pewresearch.org

Tags: libertà religiosa

Luca Lorusso




Pillole «Allamano» 4: la mansuetudine come strada di trasformazione


4. Una scelta controcorrente: la mansuetudine come strada di trasformazione


Al termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale con la Formula Uno, Beie Ecclestone, storico deus ex machina del circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua profonda delusione per l’impatto dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron, dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a tutta velocità.

In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina: è come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse parte della sua essenza. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.

Pare una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre tale convinzione con la forza ci porta a essere molto più irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro.

Chi urla forse non crede nella forza delle proprie opinioni e sente di doverle imporre con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la marmitta del loro motorino per farlo rimbombare, nemmeno avessero da dominare con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato a esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che «da cosa nasce cosa» …). «Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento – scrive Sun Tzu, nel suo celebre saggio L’Arte della guerra – ma bensì sottomettere il nemico senza combattere». Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa 2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i giorni.

È certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in particolare attraverso il taoismo (ai cui principi si ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato tutta una serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la possibilità di un’altra via, fondata su concetti completamente diversi: piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo: ciò che è morbido vince ciò che è duro, ciò che è debole trionfa su ciò che è forte. Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste idee, ed è meglio non contraddire al riguardo una cintura nera con un certo numero di Dan all’attivo.

Non dobbiamo però guardare troppo lontano per vedere ribaditi concetti analoghi. Dobbiamo bensì aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione, perché ciò che stiamo cercando non si manifesta nel rumore, nella gazzarra, nella luce accecante del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo in questo modo, lo troveremo impegnato a dare la sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non solo è possibile, ma pure gratificante.

Giuseppe Allamano fu certamente una persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese ha origine nella sua disposizione d’animo, nello stile con cui scelse di vivere la propria vita: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione». Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del Fondatore questo si verifica.

Chi suggerisce una distinzione interessante fra i due concetti è Norberto Bobbio, che alla mitezza ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che la distinzione è problematica e forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella prima una maggior profondità di significato rispetto alla seconda. Il termine mansueto è detto in primis degli animali, e solo in senso derivato è applicato agli uomini, mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti, atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre, «la mansuetudine – scriveva il filosofo torinese – è una disposizione dell’animo dell’individuo che può essere apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione dell’animo umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014, pag. 34). Sembrerebbe di leggere in Bobbio un maggior apprezzamento della mitezza intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano.

Per Giuseppe Allamano questa sottile distinzione non esiste, al punto che usa i due determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario deve essere mansueto, come lo è la pecora con il pastore, ma deve vivere la sua mansuetudine al servizio attivo del prossimo, in particolare di colui che più necessita di essere consolato. L’esempio da seguire non può essere che quello di Cristo, uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare di sé come di una persona mite: «Venite a me voi tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi diventare caratteristica anche per il discepolo di Cristo che in virtù di ciò è chiamato beato e fatto erede della terra.

Nella mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella: il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono le basi anche per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la persona buona per sé, ma la rende buona «per gli altri», esattamente come, da laico, suggeriva Norberto Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto il contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona passiva, succube, indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale», senza niente da dire, senza energie, né risorse. Al contrario, il mite affida al lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di Dio.

 

Attraverso l’immagine della mitezza, la pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare. Non serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a quanto la Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su questa virtù morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il nuovo papato ci obbliga a guardarci dentro, a cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di ascoltare di più e di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere guide illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità, per comprenderne il ritmo di marcia.

Ne «La Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come abbiamo già sottolineato, sicuramente questa affermazione nasce dall’esperienza personale, nel contatto con la gente maturato nei lunghi anni passati al Santuario della Consolata, e diventa insegnamento anche per i missionari che si trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine – sono le sue parole – (…) Quando si tratta di salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a impedirne la conversione, forse per sempre. Esaminiamo dunque noi stessi per vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470).

Scegliendo la mitezza, come Giuseppe Allamano ci insegna attraverso la sua stessa vita, i suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la strada della trasformazione. Se un giorno grazie a questa virtù saremo in grado di ereditare la terra, è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo iniziare a costruirlo poco per volta. Oggi più che mai siamo alla ricerca di una nuova narrativa che racconti storie di pace e benessere, perché è solo e soltanto su queste prerogative che vorremmo costruire la nostra esistenza di domani.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Torino, gli strumenti per non avere paura

Reportage periferie /
1

Erano gli anni
Sessanta quando cartelli affissi sulle porte degli edifici del capoluogo
piemontese avvertivano: «Non si affitta a meridionali». Nel 2014 sono ancora
tanti i torinesi che ricordano quegli anni e citano quelle scritte quasi a
sottintendere che la città ha già affrontato massicci flussi migratori e ha
saputo reagire, accogliere e integrare. Oggi basta salire su un tram come il 16
o spingersi nel quartiere Barriera di Milano per toccare con mano una città che
resta fedele alla sua lunga tradizione di accoglienza e, pur nelle difficoltà e
nelle contraddizioni, continua a cambiare volto.

Nell’inverno 2014 gli enti locali torinesi hanno siglato diversi accordi
il cui tema di fondo era la relazione con le comunità di migranti. Solo per
citare alcuni esempi, sono dello scorso febbraio l’adesione della Provincia di
Torino al protocollo d’intesa sulla prevenzione e il contrasto della tratta degli
esseri umani, e la formalizzazione della collaborazione fra la polizia
municipale e la comunità marocchina per la prevenzione dell’abbandono
scolastico, per la mediazione nei casi di conflitti tra i giovani immigrati e
per l’assistenza alle vittime di violenza domestica.

I temi relativi ai migranti hanno certamente un peso
notevole nel dibattito e nell’agenda politica della città che, sia attraverso
le istituzioni pubbliche sia con l’apporto del cosiddetto «privato sociale», si
attiva per cercare soluzioni ai problemi legati all’accoglienza e
all’integrazione delle comunità straniere. Non mancano ovviamente le polemiche
e le accuse a enti pubblici e associazioni di dare precedenza ai bisogni degli
stranieri rispetto a quelli dei torinesi. Ma in una città dove sono già
presenti le seconde generazioni, dove la crisi economica si fa sentire con tale
forza da spingere talvolta gli immigrati stessi ad abbandonare l’Italia per
rientrare nei paesi d’origine o per spostarsi in altre nazioni europee, dove le
scuole sono da anni laboratori di interculturalità, la rassicurante divisione
noi/loro è un semplicismo che fatica ogni giorno di più a descrivere la realtà.

Il lavoro dell’Upm

L’ufficio per la pastorale migranti (Upm) della diocesi
di Torino è un punto di riferimento fondamentale per le comunità straniere.
Offre numerosi servizi fra i quali lo sportello per il lavoro, le consulenze
legali, l’insegnamento dell’italiano e molti altri. Sergio Durando, direttore
dell’Upm, traccia una sintesi della situazione: «Metà dei 385 mila immigrati
del Piemonte vivono a Torino: sono 200 mila nella provincia di cui 150 mila nel
territorio comunale». Secondo il XXIII Rapporto immigrazione 2013 (vedi
articolo pag. 28) di Caritas e Migrantes, nella regione la comunità più nutrita
è quella rumena, con 137 mila presenze, seguita dalle comunità marocchina,
albanese, cinese e peruviana. Un punto di partenza per provare a mettere ordine
nel complesso insieme di fenomeni legato ai migranti, suggerisce Sergio, può
essere il tema del lavoro: il Piemonte è la regione con il più alto tasso di
disoccupazione al Nord (9,8% nel 2013); l’agricoltura dà ancora lavoro ma
ovviamente non nel contesto urbano del capoluogo piemontese, dove i settori
colpiti dalla crisi sono l’edilizia, in cui tendono a concentrarsi i lavoratori
di origine rumena, l’industria e il settore manifatturiero, nei quali le
comunità di migranti maggiormente rappresentate sono quella marocchina e quella
albanese. «Il problema occupazionale», continua Durando, «si traduce facilmente
in un problema abitativo sia per i cittadini di origine italiana che per gli
stranieri, e per i migranti la marginalità economica diventa anche giuridica,
con la perdita dei permessi di soggiorno: nel 2012 i permessi persi sono stati
maggiori dei permessi di ingresso».

Categorie speciali: rifugiati
e titolari di protezione internazionale

All’interno della comunità dei migranti ci sono poi
delle categorie speciali: i rifugiati e i titolari di protezione
internazionale. Per quanto riguarda i rifugiati, il ministero dell’interno
guidato da Angelino Alfano, nel 2013, aveva aumentato da tremila a diciottomila
il numero dei richiedenti asilo che potevano essere accolti. Ma i tempi di
accoglienza, l’arretrato, l’accumulo di richieste e la difficoltà di reale
inserimento lavorativo rendono di fatto molto difficile approfittare
dell’aumento effettuato. «A Torino le strutture occupate da rifugiati, profughi
e titolari di protezione internazionale, sono sette più una casa di religiosi»,
interviene don Claudio Curcetti, sacerdote assegnato dalla diocesi all’Upm, «e
la situazione più esplosiva è forse quella del ex Moi, il villaggio olimpico
costruito nel 2006 e attualmente occupato da circa quattrocento persone» (vedi MC
8-9/2013, pp. 59-63
). Si tratta di uomini, donne e bambini giunti in Italia
a causa della cosiddetta emergenza Nord Africa, cioè l’arrivo in massa di
migranti in fuga dai paesi del Maghreb interessati dalla guerra, a partire da
quella libica.

L’accoglienza dei rifugiati su tutto il territorio nazionale
è costata mediamente ventitremila euro a persona per circa ventimila persone,
ma gli interventi sono stati disorganizzati e approssimativi: i fondi – a
partire dal rimborso di 40 euro al giorno per rifugiato – hanno raggiunto solo
in minima parte i beneficiari, che si sono spesso trovati abbandonati, relegati
a spazi abitativi degradati e privati di un piano di rientro alla fine
dell’emergenza.

«Uno dei problemi è che le politiche nazionali in
materia di migranti sono più preoccupate della sicurezza che dell’accoglienza», continua don Claudio, «ma questo
genera enormi storture che oltretutto aumentano la tensione e l’insicurezza».
Per non parlare di costi: un «centro di identificazione e espulsione» (Cie)
costa circa 45 euro al giorno per singolo individuo trattenuto; un rimpatrio
arriva a seimila euro. Le periferie e il degrado, conclude Curcetti, sono in
fondo il fallimento di una società la cui amministrazione e la cui urbanistica
non sono state in grado di distribuire il disagio in modo da «diluirlo» nel
tessuto urbano, ma lo hanno concentrato e, in questo modo, amplificato. «Se in
un condominio o in un quartiere ci sono settanta famiglie in condizioni
economiche dignitose e trenta disagiate, le prime possono più facilmente
cercare di andare incontro ai bisogni delle seconde e aiutarle a uscire dal
disagio. Ma se le proporzioni sono invertite, come si può pensare che un trenta
per cento di persone si faccia carico dei bisogni del settanta per cento? È
ovviamente impossibile».

I Rom

La corrispondenza fra periferia e disagio si è andata
allentando negli ultimi decenni, ma resta attuale nel caso dei Rom. Dagli anni
Settanta a oggi la provenienza delle popolazioni rom presenti a Torino è
cambiata, ma le aree in cui risiedono sono rimaste le stesse: baraccopoli ai
margini della città. Gli insediamenti abusivi di Lungo Stura Lazio hanno visto,
a partire dai primi mesi del 2014, un processo di graduale sgombero nell’ambito
di un progetto che mira a coinvolgere le famiglie stesse nello smantellamento
delle baracche attraverso l’autodemolizione. Del programma fanno poi parte la
sottoscrizione da parte dei Rom di un patto di emersione, l’accettazione delle
regole di convivenza e legalità, la compartecipazione alle spese e
l’inserimento in complessi di social housing, cioè soluzioni pensate per
le categorie che, prevalentemente per motivi economici, non sono in grado di
rispondere da sole ai propri bisogni abitativi.

L’intervento di Lungo Stura Lazio, oltre ad aver
provocato le ire degli esponenti della Lega («ai Rom le case popolari, ai
torinesi la mini-imu», ha commentato un esponente torinese), suscita qualche
apprensione anche fra gli addetti ai lavori. Finora lo sgombero di un campo,
avverte uno di loro che preferisce restare anonimo, ha spesso innescato un
processo simile alla mitosi cellulare, ha portato cioè alla formazione di più
campi sparsi. Inoltre occorrerebbe sfatare alcuni miti: ad esempio il fatto che
i Rom vivono nei campi per una questione culturale quando in realtà sono i
primi a non volerli; oppure il pregiudizio per cui l’avversione al lavoro è un
tratto caratteristico dei Rom quando invece ci sono, ad esempio, casi di
ragazze assunte come badanti o colf, le quali, fra l’altro, si guardano bene
dal rivelare che vivono in un campo. In questi casi, l’inserimento lavorativo è
avvenuto al prezzo del rinnegamento della propria origine.

Molto difficoltoso appare infine ridare vigore al patto
scolastico in base al quale i Rom si erano impegnati a mandare i loro figli a
scuola: molti Rom sembrano pensare che dopo quarant’anni di presenza in Italia,
e nonostante la scolarizzazione dei bambini, per loro nulla è cambiato, perché
continuare a impegnarsi?

Imparare per non
avere paura

Se si guarda al settore dell’istruzione, la situazione
appare non meno articolata. In una scuola come la Gabelli di Barriera di
Milano, sempre a Torino, gli alunni con genitori di origine straniera sono il
settanta per cento e salgono al novanta per cento nelle prime classi. Siamo in
un borgo storico caratterizzato dalle cosiddette case di ringhiera, dove gli
affitti sono meno cari e per questo attirano famiglie a basso reddito, come
spesso sono quelle dei migranti. Lavorare in scuole come la Gabelli o la vicina
Pestalozzi richiede competenze specifiche e una professionalità avanzata che
permettano di gestire situazioni complesse come i casi delle iscrizioni ad anno
iniziato, di livelli diversi di conoscenza della lingua italiana e di
situazioni familiari molto difficili. A volte i bambini mostrano chiaramente di
non voler rientrare a casa dopo la scuola, segno questo della presenza di un
ambiente familiare teso, o spiegano di non aver fatto i compiti perché non sono
riusciti a leggere e scrivere a lume di candela, oppure ancora perché nel lungo
e freddo inverno torinese il problema principale della sera è quello di trovare
un modo di scaldarsi sotto le coperte in assenza di riscaldamento. I doveri
scolastici passano così in secondo piano anche a causa dei tagli delle utenze
elettrice, spesso abusive, che rendono ostile perfino l’ambiente domestico.

Ma i lati positivi dell’interculturalità in scuole come
queste non mancano: innanzitutto, i figli di stranieri hanno spesso sviluppato
un grado di autonomia e maturità maggiore e si rivelano più rispettosi delle
regole e più attentamente monitorati dai genitori che non i bambini italiani, i
quali vivono in quelle stesse aree degradate perché spesso appartengono a
famiglie disagiate e problematiche. I pochi italiani che decidono liberamente
di portare i figli in queste scuole, inoltre, lo fanno per una precisa volontà
di preparare i loro bambini a vivere nella Torino che verrà e sono generalmente
entusiasti dell’esperienza che i ragazzi, e loro stessi – spesso attivamente
impegnati nei consigli d’istituto – stanno vivendo.

Per quanto riguarda il doposcuola, molto attiva è
l’Associazione animazione interculturale (Asai), già protagonista fin dagli
anni Novanta dei primi e fruttuosi esperimenti di interculturalità a San
Salvario. Nella sede di via Gené, a Porta Palazzo, il «Cantiere S.O.S.» (Scuola
oltre la Scuola) offre, grazie ai suoi operatori e ai volontari, un servizio di
doposcuola ad almeno un centinaio di bambini delle elementari e medie, corsi di
italiano per minori e adulti e laboratori artistici. Un progetto in corso, spiegano
Fabrizio e Roberto, due degli educatori, è quello di giustizia riparativa (sul
tema, dossier MC 12/2013) che nasce da una collaborazione fra Asai,
Polizia municipale e Tribunale dei minori. «Nei casi di bullismo e reati minori»,
spiega Fabrizio, «la collaborazione consente l’inserimento dei ragazzi in un
percorso di servizio di riparazione alla comunità, mentre la Polizia municipale si occupa
della mediazione con la vittima». «Quello che si cerca di fare qui, attraverso
il progetto di giustizia riparativa come in tutte le altre attività con i
ragazzi» gli fa eco Roberto, «è di dare loro più strumenti per avere meno paura
di ciò che vivono giorno per giorno. Abbiamo visto miglioramenti oggettivi in
diversi casi di adolescenti problematici: se si liberano della paura cominciano
piano piano a liberarsi anche della rabbia».

Il lavoro con gli adolescenti si estende poi a quello
con la comunità. Riccardo, anche lui educatore Asai, racconta delle esperienze
di coinvolgimento dei cittadini in quartieri come San Salvario ma non solo.
L’obiettivo è creare una rete sul territorio che metta insieme le famiglie, i
commercianti, chiunque voglia spendersi per il quartiere, conoscere altre
persone e vivere una realtà più integrata. Riccardo cornordina un collettivo
interculturale di giovani musicisti che si chiama Barriera Republic: «Anche
un quartiere non facile come questo», spiega Riccardo, «è capace di generare
senso di appartenenza. Ci sono ragazzi con grandi capacità come musicisti,
videomaker, attori… Bisogna solo incanalare queste loro abilità in modo che
creino condivisione, confronto, inclusione».

Quanto agli immigrati adulti, è a loro che si rivolge
l’offerta formativa (che comprende anche corsi di italiano) del «Centro
territoriale permanente» per l’istruzione e la formazione in età adulta di
Porta Palazzo (Ctp Parini). «Stiamo sperimentando una vera e propria emergenza
alfabetizzazione che, combinata con leggi complesse e con l’aumento della
burocratizzazione, genera sempre maggior esclusione per tutti coloro, e sono davvero
tanti, che non sanno leggere e scrivere, non sono in grado di compilare moduli
o di acquisire informazioni», avverte Rocco, uno degli operatori del centro. Il
Ctp Parini ha circa duemila utenti di cui un migliaio sono frequentanti. A un
analfabeta occorrono tre o quattro anni per arrivare al livello di
alfabetizzazione A1 del quadro europeo (livello base). Molti, dopo aver
raggiunto quel livello si rendono conto di quanto importante sia lo strumento
che prima non possedevano e decidono di continuare a frequentare.

Chiara Giovetti

I missionari della
Consolata e i migranti

Dal 2013
il lavoro dei missionari della Consolata con migranti di Torino si è
intensificato: padre Antonio Rovelli, responsabile della cooperazione di Mco,
fa ora parte del team di cornordinamento dell’Upm, e padre Godfrey Msumange,
coadiuvato dai viceparroci padre Nicholas Muthoka e padre Francesco Discepoli,
è parroco di Maria Speranza Nostra, una vasta parrocchia nel cuore di Barriera
di Milano a Torino.
I missionari vi hanno iniziato il loro servizio il 20 ottobre del 2013,
giornata missionaria mondiale, e hanno cominciato ad ascoltare, osservare,
visitare le famiglie e programmare. «È un quartiere molto vario», spiega padre
Nicholas, «che ha accolto immigrati del Sud Italia e del Veneto in passato e
che ora ha visto l’arrivo di rumeni, albanesi, nigeriani, polacchi, eritrei,
marocchini, tunisini e diversi latinoamericani». «Per il momento» aggiunge
padre Godfrey «stiamo attivando, o prevediamo di attivare, servizi come lo
sportello lavoro, la distribuzione di cibo e il centro d’ascolto, oltre
all’oratorio che adesso è dedicato all’aggregazione. Ma vorremmo sviluppare
anche attività di doposcuola, corsi e laboratori».

Altra
realtà è quella di San Gioacchino a Porta Palazzo, una parrocchia con sacerdoti
nigeriani, in cui padre José Jesus Ossa Tamayo, missionario della Consolata
colombiano, segue la comunità dei latinos, i migranti provenienti
dall’America Latina. «I latinos sono ventimila in Piemonte, seimila
nella sola Torino», spiega padre Jesus, «e per guadagnarsi da vivere lavorano
spesso come badanti o facendo le pulizie. Hanno una grande fame di Dio e, al di
là della messa, si rivolgono al parroco come a un punto di riferimento per
tante cose: farsi accompagnare a un colloquio di lavoro, chiedere consigli sui
problemi di coppia». A volte le situazioni familiari e le condizioni abitative
sono molto difficili: padre Jesus racconta dell’esperienza di un’anziana che è
stata portata in Italia dai figli perché non restasse sola in patria, ma ha
problemi di mobilità che le impediscono di fare le scale e la costringono in
casa dove «piange, piange e piange, tutto il giorno. Con persone come lei»,
conclude padre Jesus «il ruolo di noi missionari è la presenza: andare e
“piangere” con lei. Ultimamente i parrocchiani si sono offerti di far costruire
un bell’altare: per loro è molto importante, è un segno di appartenenza. Lo
faremo, certo, ma ho detto loro che il primo altare a cui devono pensare è la
vecchietta che piange, o il fratello che non lavora e non ha di che nutrirsi».

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




San Giuseppe Maria Gambaro

Antonio Beardo Gambaro nasce a Galliate il 7 agosto del
1869, quinto figlio di Pacifico e Francesca Bozzola, modesti artigiani tessili.
Fin da adolescente manifesta l’intenzione di mettersi al servizio del prossimo
e del Signore, e così nell’ottobre del 1883 entra nel collegio serafico del
Monte Mesma (Ameno, Novara), retto dall’Ordine dei Frati Minori Francescani.
Nel 1986 inizia il noviziato nella famiglia religiosa che l’ha accolto e gli
vengono dati i nomi di Giuseppe Maria. Dopo aver compiuto gli studi filosofici
e teologici, il 12 marzo 1892 è ordinato sacerdote. Nel 1894 chiede ai
superiori di poter partire missionario in Cina. Nel dicembre del 1895 si
imbarca a Napoli, visita la Terra Santa e, dopo un viaggio di qualche mese, il
7 marzo 1896 sbarca a Shangai, da lì raggiunge Hen-tceu-fu, capitale della
provincia dell’Hu-nan meridionale. I primi tempi li trascorre cercando di
apprendere i rudimenti della lingua cinese, si accultura rapidamente vestendo
abiti locali. Il vescovo dell’Hu-nan Mons. Antonino Fantosati, gli affida
quindi la direzione del seminario minore di Sce-fan-tan e inizia anche un
fecondo lavoro pastorale con la gioventù della zona. Durante la primavera del
1900 accompagna il vescovo in visita ad alcune comunità del Vicariato
Apostolico. Nel mese di luglio, mentre sono in viaggio, li raggiunge la notizia
che la rivolta dei Boxer dilaga nell’Hu-nan. La residenza episcopale e diverse
opere sociali, compreso l’orfanotrofio, sono distrutte dai rivoltosi che
uccidono padre Cesidio Giacomoantonio. Incuranti del pericolo decidono di
tornare indietro, la barca su cui viaggiano è bloccata lungo il percorso. I
frati, fatti scendere a terra, sono percossi e seviziati fino a provocarne la
morte.

Carissimo padre Gambaro, a dire il vero mi metti un po’ in soggezione
in quanto, oltre ad aver coronato con la Palma del Martirio la tua esistenza al
servizio della Chiesa e del popolo cinese, sei originario di Galliate nella cui
Chiesa parrocchiale per diverso tempo sono stato viceparroco e in cui ho sempre
percepito la forza della tua presenza.

Proprio
vero, sono originario di un paese della Bassa novarese, situato sulle sponde
del Ticino, una zona che dal punto di vista agricolo è sempre stata terra di
coltivazione del riso, mentre dal punto di vista industriale per moltissimi
anni è stata un polo tessile di una certa importanza.

Non dirmi che all’origine della tua scelta missionaria per la Cina c’è
il riso, l’alimento naturale dei galliatesi, che sapevi di trovare in
abbondanza nel Celeste Impero.

A dire
il vero la scelta della Cina è stata più legata a una coscienza che si andava
sempre più accentuando nella Chiesa per quella grande e popolosa nazione dove
ancora non era risuonata la buona notizia del Vangelo. Erano i tempi in cui
mons. Guido Conforti, Vescovo di Parma, fondava l’Istituto Missionario dei
Saveriani con il compito principale di evangelizzare la Cina.

Quindi invece di innamorarti dell’Africa o dell’America Latina, sognavi
di metterti al servizio del popolo cinese per far conoscere loro il messaggio
di amore e di misericordia di Gesù.

Proprio
così. Quando discutevo sulle missioni con gli altri frati miei compagni, il mio
pensiero correva sempre verso la Cina piuttosto che verso l’Africa o altre zone
parimenti bisognose dell’annuncio del Vangelo perché pensavo e ripensavo a
quella sterminata popolazione alla quale mancava la conoscenza del messaggio di
salvezza di Gesù Cristo.

Quando sei arrivato in Cina che realtà hai trovato?

Io
arrivai a Shangai nel marzo del 1896. Qualche anno prima il Giappone aveva
invaso la Cina che era sì un grande impero, ma a causa della corruzione
dilagante, di arroganti potentati locali e della debolezza della casa
imperiale, non era più in grado di garantire ordine e tranquillità alla sua
immensa popolazione.

Se capisco bene, l’Impero di Mezzo, come allora era chiamata la Cina,
era in piena decadenza, come l’Impero Ottomano, imperi che proprio per la loro
vastità, dopo aver conosciuto secoli di splendore, cominciavano a
disintegrarsi.

A quei
tempi l’Impero cinese sotto la dinastia Manchù era in piena decadenza e alla
mercé delle potenze coloniali emergenti: inglesi, russi, giapponesi, tedeschi,
facevano a gara per spartirsi miniere e appalti per la costruzione di strade e
ferrovie e per avere concessioni territoriali in cui estendere la loro
influenza. Tutto ciò alimentava nella popolazione un astio crescente nei
confronti di quelle potenze che si traduceva in odio puro e semplice verso
tutti gli stranieri. Del resto le potenze presenti in Cina attuavano una
sistematica violazione delle millenarie tradizioni e regole di comportamento
locali, e gli occidentali, anche se compivano abusi e crimini, non venivano
perseguiti perché godevano di immunità.

L’odio e il risentimento della gente si trasformava in atteggiamenti
ostili nei confronti degli europei?

Diciamo
che con la «Guerra dell’oppio» (due conflitti, svoltisi dal 1839 al 1842 e dal
1856 al 1860) l’imperialismo europeo più bieco era stato impiantato in Cina. Da
allora la situazione era andata peggiorando. Da un atteggiamento di rifiuto si
passò in breve tempo a una violenza contro imprese e aziende estere e i loro
dipendenti, e anche contro missionari e cinesi che si erano convertiti. La
popolazione era visceralmente accomunata da un odio collettivo contro gli
stranieri, percepiti come nemici che volevano stravolgere usi e costumi del
popolo cinese.

È da lì che prese il via la rivolta dei Boxer?

Sì.
Questo termine inglese veniva usato in Cina per indicare uno che combatte a
pugni nudi, perché alcuni rivoltosi avevano una certa pratica di arti marziali,
ma mancavano totalmente di armi. I Boxer raggruppavano contadini senza terra,
artigiani, piccoli funzionari, ecc., essi vedevano con autentico terrore
l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione di linee telegrafiche e la
comparsa sui grandi fiumi della Cina di navi a vapore. Provenendo da una
famiglia di tessitori guardavo con apprensione il rifiuto che i cinesi avevano
verso i nuovi macchinari per i tessuti: filatorni, telai, ecc., loro pensavano
che tutte queste novità avrebbero tolto posti di lavoro.

Importando queste nuove tecnologie gli europei davano allora
l’impressione di voler impadronirsi della Cina.

Proprio
così. Il problema vero era che questa rivolta dal basso aveva un’ideologia
semplice e terribile allo stesso tempo: tutto ciò che non era cinese era
malefico. Anche la religione cristiana portata dai missionari che venivano
dall’Europa, venne assimilata al rifiuto totale che i cinesi avevano verso ciò
che non apparteneva alla loro cultura.

Quest’odio era solo verso gli europei o era indirizzato anche verso
quei cinesi che si erano convertiti al cristianesimo?

La
gente che aderì al messaggio cristiano pagò un prezzo altissimo, perché se gli
stranieri erano odiati in quanto stranieri, i cinesi che avevano abbracciato il
cristianesimo erano accusati di tradimento dei valori della cultura cinese.
Furono uccisi a migliaia. Man mano che le violenze e gli eccidi di convertiti
aumentavano e i dispacci delle ambasciate ai governi europei s’infittivano,
venne presa la decisione di raggruppare tutte le Legazioni Diplomatiche in un
unico quartiere e di mandare una squadra navale con dei reparti militari per la
difesa degli stranieri.

Questa misura però non ottenne il risultato previsto.

Infatti
il governo cinese già xenofobo di per suo conto, non poteva accettare la
presenza di militari stranieri armati sul proprio territorio; per questo i
crimini dei Boxer vennero tollerati e persino giustificati dalle autorità
cinesi.

Questo naturalmente ebbe un’immediata ripercussione anche nelal vostra
zona.

Certamente,
Nella nostra provincia, dopo che uccisero fra Cesidio Giacomoantonio (4 luglio
1900), iniziarono pestaggi, saccheggi e uccisioni di stranieri, missionari e
cristiani cinesi.

Con conseguenze tragiche per di voi.

Informato
di quello che stava accadendo, mons. Fantosati, il mio vescovo, nonostante
fosse conscio dei pericoli che correva, decise di ritornare nella sua sede
episcopale, io ovviamente lo accompagnai. Alla dogana di Hen-tceu-fu fummo
riconosciuti come stranieri e missionari, fatti scendere dal barcone su cui
viaggiavamo e circondati da una folla assatanata urlante e minacciosa. Fummo
immediatamente investiti da calci e pugni e colpiti con dei bastoni.

Eravate arrivati quindi alla fine della vostra vita missionaria e anche
di quella terrena.

Mentre
ci percuotevano, riuscimmo a pregare e fare il Segno della Croce, quindi ci
abbracciammo mentre i nostri carnefici si accanivano selvaggiamente su di noi.
Al culmine del nostro martirio, alcuni pagani esclamarono: «Questi stranieri
erano veramente giusti!».

Il 7 luglio 1900 i
corpi senza vita di Mons. Antonino Fantosati e di fra Giuseppe Maria Gambaro,
vengono gettati nel fiume Siang, quindi ripescati e bruciati per impedie la
sepoltura. Nel dicembre 1926 si avvia la causa di beatificazione per un gruppo
di 29 cristiani uccisi durante la rivolta dei Boxer. Il 1° ottobre del 2000,
Giovanni Paolo II eleva alla gloria degli altari 120 martiri della Cina di
tutti i tempi, tra loro, Mons. Fantosati, padre Giacomoantonio e padre Giuseppe
Maria Gambaro.

Don Mario Bandera – Direttore Missio
Novara

Mario bandera




«Più stato!», «meno stato!» Fedi e laicità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 18

Vignette satiriche in
Inghilterra e pillola del giorno dopo negli Usa. Due casi recenti che mettono
al centro il tema della laicità delle istituzioni. Da un lato c’è chi, per
difendere la fede, chiede una maggiore presenza dello stato. Dall’altro c’è
chi, sempre per garantire la libertà di credo, ne chiede una presenza minore. Come
sciogliere un nodo così centrale nella vita delle democrazie costituzionali?

Fino a che punto può spingersi la
libertà di critica e di satira nei confronti della religione? Nella società
secolarizzata esiste infatti anche questo problema che, tra gli altri, riguarda
la laicità dello stato. Lo stato laico non può avere una propria confessione
religiosa, né creare condizioni favorevoli per una a dispetto delle altre. Esso
deve garantire la libertà religiosa e di coscienza a tutti: credenti e non
credenti.

Per assicurare il rispetto di questi
principi ci sono le costituzioni, le leggi e le apposite istituzioni (come, in
Europa, la Cedu, di cui abbiamo scritto nei numeri scorsi). Rimangono tuttavia
aperti diversi problemi, tra i quali quello cui abbiamo accennato all’inizio:
la libertà, in questo caso di coscienza e di espressione, trova un limite nella
libertà degli altri? Se uno non è credente, fino a che punto può criticare la
religione senza offendere la coscienza dei credenti? È una questione emersa in
questi ultimi anni proprio nel campo dell’umorismo e della satira.

I due grandi amici «Jesus and Mo»

Tutti ricordiamo il caso delle
caricature di Maometto pubblicate il 30 settembre 2005 sul quotidiano danese Jyllands-Posten,
considerate blasfeme dai musulmani, che avevano prodotto reazioni molto
violente, morti e feriti.

Un episodio analogo ma, per fortuna,
del tutto pacifico, è accaduto qualche mese fa in Inghilterra. La mattina del 3
ottobre scorso Chris Moos e Abhishek Phadnis, studenti della London School
of Economics
, famosa università privata di Londra, si sono presentati in
aula con una maglietta che riproduceva un’immagine di «Jesus and Mo», un
fumetto umoristico celebre nel paese d’oltremanica. I due giovani, che si
dichiaravano atei, l’hanno indossata per scherzo. Il fumetto rappresenta Gesù e
Maometto come due grandi amici che si parlano dandosi del tu, e prendono in giro
in modo sarcastico il mondo religioso rappresentato da ciascuno dei due. C’è
addirittura un sito internet molto seguito che riporta tutte le vignette via
via prodotte dagli autori (jesusandmo.net *).

Lo scherzo dei due non è stato preso
bene da altri studenti, rappresentanti di associazioni e forze politiche
studentesche, che lo hanno considerato «non politicamente corretto». Hanno
ritenuto, infatti, che la vignetta fosse offensiva per cristiani e musulmani.
Cris Moos e Abhishek Phadnis sono stati quindi costretti a nascondere le loro
magliette sotto una giacca.

Censurare la censura

Il giornalista del quotidiano
londinese The Guardian, che ha raccontato l’episodio, ha criticato
pesantemente il comportamento degli studenti contrari alle magliette,
considerandolo «un altro esempio di repressione nelle nostre università». Egli
infatti lamenta che quanto accaduto nella London School non sia un fatto
isolato e che, quindi, il problema stia diventando preoccupante in Inghilterra.
Le università, sostiene, sono l’ultimo posto dove la censura dovrebbe essere
ammessa. Egli non difende i due studenti per principio, ma perché la vignetta
riprodotta sulle loro magliette non era, a suo avviso, affatto offensiva.
Questo è l’aspetto che suscita la sua preoccupazione. Per il giornalista,
infatti, non è la «provocazione» dei due amici a essere stata sproporzionata,
ma la reazione inaccettabile degli altri giovani.

Usa: assicurazione sanitaria e pillola del giorno dopo

Dall’altra parte dell’oceano, negli
Usa, si manifesta un problema che non riguarda la libertà di espressione e di
satira, ma in modo direttamente più esplicito la libertà religiosa e la laicità
dello stato. In questo caso la domanda potrebbe essere: fino a che punto le
comunità religiose possono ritenere che alcune leggi dello stato non siano
valide al loro interno?

Ne ha parlato il primo novembre
scorso il quotidiano francese Le Monde in un articolo dal titolo
emblematico: Le ambiguità della libertà religiosa americana. Vi si
racconta che il 24 ottobre Richard Mourdock, candidato repubblicano al senato
nell’Indiana, ha affermato che «la vita è un dono di Dio anche quando inizia in
una terribile condizione di violenza». Si riferiva a una questione molto
dibattuta, legata alla riforma sanitaria del presidente Barak Obama.
Quest’ultima infatti prevede l’obbligo per i datori di lavoro di offrire ai
propri dipendenti assicurazioni mediche che coprano anche le spese per la
contraccezione. E le parole di Mourdock erano indirizzate alla cosiddetta «pillola
del giorno dopo», la quale sarebbe compresa nell’assicurazione sanitaria
offerta obbligatoriamente ai propri dipendenti anche dalle università e
istituzioni religiose contrarie all’uso della pillola stessa.

Può essere certamente, come sostiene
l’autrice dell’articolo, che ci si trovi di fronte a una forzatura polemica che
trasferisce sul piano della libertà religiosa un problema, in realtà, politico.
La riforma sanitaria ha infatti scatenato negli Usa forti contrapposizioni tra
repubblicani e democratici, facendo muovere numerose associazioni, consistenti
forze economiche e sociali, e istituzioni religiose. Resta il fatto che negli
Stati Uniti, dall’11 settembre 2001 in poi, nella «destra religiosa» si sono
rafforzate le paure nei confronti di una perdita dell’«identità cristiana»
americana, minacciata, da una parte, dagli islamici e, dall’altra, dalla
secolarizzazione. Questi pericoli, da quando siede alla Casa Bianca, vengono
ricondotti al presidente Obama e alle sue politiche.

Fuori dalla vita pubblica

Nel numero di marzo 2012 del mensile
conservatore First Things era stata pubblicata una dichiarazione
congiunta di esponenti religiosi protestanti e cattolici in cui si afferma che «i
difensori dei diritti dell’uomo, ivi compresi i governanti, hanno cominciato a
definire la libertà religiosa in un modo sempre più riduttivo, riconducendola a
una semplice libertà di culto». La religione biblica, invece, secondo la
dichiarazione, ha un carattere essenzialmente pubblico e non può essere ridotta
a un fatto privato. «Non è affatto esagerato» prosegue il documento «vedere in
questi sviluppi un movimento che cerca di spingere la fede religiosa, e
soprattutto le convinzioni religiose e morali cristiane ortodosse, fuori dalla
vita pubblica». Dentro questo quadro espresso sul periodico conservatore, il
fatto che lo stato renda obbligatoria, anche da parte delle istituzioni
religiose, l’offerta gratuita di contraccezione, diventa un attentato alla
costituzione e ai diritti che essa riconosce. In particolare alla libertà
religiosa, dato che tali imposizioni entrano nel campo della liceità della
contraccezione rispetto alla quale cattolici e protestanti, pur non
condividendo la stessa valutazione generale, concordano quando ci sia da
ritenere abortivo, e quindi moralmente inaccettabile, il ricorso alla «pillola
del giorno dopo».

Ingerenze confessionali, ingerenze laiche

Cosa lega tra loro il dibattito
statunitense appena riferito e l’episodio della London School of Economics?

Apparentemente nulla. In realtà
entrambi riguardano la concezione di laicità dello stato e la libertà di
espressione. Nel caso londinese viene stigmatizzata una ingerenza «confessionale»
nella libertà di espressione personale. Nel secondo una ingerenza «laica» dello
stato nella libertà di adesione alle convinzioni religiose di alcune
istituzioni private. In tutti e due i casi è in gioco anche un altro aspetto:
quello del cosiddetto «spazio pubblico».

In esso si devono poter manifestare
liberamente le proprie convinzioni. Nessuno, ovviamente, mette in discussione
la libertà di farlo in privato. Ciò che costituisce problema è, invece, la
dimensione pubblica della propria fede religiosa o della propria valutazione,
anche critica, della fede stessa.

Non c’è dubbio, inoltre, che la fede
biblica abbia un carattere pubblico, come sostiene la dichiarazione pubblicata
dal First Things. Lo stesso vale anche, e forse ancora di più, per
l’islam. Ma tale «carattere pubblico» della fede può spingere una religione a
pretendere che la propria concezione morale entri tout court nello «spazio
pubblico» rappresentato dalle norme dello stato?

Probabilmente no. Si violerebbe,
altrimenti, la sua laicità. Ma si violerebbe la laicità dello stato anche se,
al contrario, lo «spazio pubblico» diventasse un luogo in cui la «religione non
c’è», uno spazio religiosamente vuoto (cosa che occorrerebbe verificare se
possibile, oltreché giusta), o un luogo in cui fosse possibile realizzare un’«etica
irreligiosa»: sia sotto forma di satira irrispettosa, sia sotto forma di norme
contrarie alle convinzioni religiose.

Laicità piegata ai propri fini

Non si tratta di un nodo semplice da
sciogliere.

Ci sono casi in cui le norme
contrarie alle convinzioni religiose vengono considerate legittime anche dalla «destra
religiosa», quando queste concordano con i suoi obiettivi.

Per rimanere negli Usa, dove i
problemi si presentano spesso in modo più evidente e, a volte, anche più acuto
che in Europa, dal 2010 alcuni stati come il Tennessee, la Louisiana, l’Arizona
– ma in molti altri si sta procedendo nella stessa direzione -, hanno
introdotto norme che pongono restrizioni significative alla libertà religiosa
delle comunità musulmane ed ebraiche. In queste comunità infatti operano «tribunali»
che applicano ai propri fedeli le leggi religiose, la sharia islamica e
la halakhah ebraica. Quando tali «tribunali» non garantiscono gli stessi
diritti previsti dalla Costituzione, le parti interessate possono ricorrere a
un tribunale laico. Perché in questi casi è considerata legittima l’«ingerenza»
dello stato e la restrizione della libertà religiosa?

La bussola dei diritti costituzionali

La risposta è chiara: la restrizione
del diritto alla libertà religiosa è possibile quando questa eviti la
violazione di altri diritti costituzionali.

Sono le norme costituzionali, dunque
– naturalmente delle costituzioni democratiche che riconoscono e proteggono
tutti i diritti civili e di libertà -, che debbono prevalere, perché
garantiscono a tutti i cittadini pari diritti e pari libertà. Questo deve
valere anche quando si invoca uno «spazio pubblico» in cui esprimere la propria
fede religiosa. Tale spazio dev’essere regolato dalle norme costituzionali che
valgono per tutti. È questo, propriamente, che caratterizza lo stato laico e
non confessionale.

E dell’obiezione di coscienza

Se dalle istituzioni
e dalle comunità si passa a considerare la persona, per difenderla
dall’ingerenza dello stato nelle sue convinzioni religiose e nella sua
coscienza, rimane fondamentale il diritto all’obiezione di coscienza. Ha
costituito un grande progresso civile il suo ingresso da qualche decennio tra
le leggi degli stati. Uno stato laico deve sempre prevederla quando sono in
gioco norme che possono contrastare le convinzioni morali e religiose di una
persona.

In Italia non è
stato facile raggiungere questo risultato. Molti hanno pagato prezzi elevati
perché tale diritto fosse riconosciuto. Ricordiamo il caso degli obiettori di
coscienza al servizio militare, esploso negli anni ‘70, costretti in carcere
perché non volevano indossare la divisa. La loro scelta ha reso possibile la
legalizzazione di quella forma di obiezione di coscienza. In seguito, come
noto, in Italia ne sono state riconosciute altre: ad esempio l’obiezione dei
medici alla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Per quanto
riguarda la riforma di Obama, alla fine di giugno 2012, la Corte suprema
americana l’ha dichiarata costituzionale, in particolare dove prevede l’obbligo
per tutti i cittadini di dotarsi di un’assicurazione sanitaria. Rimane però
aperta la questione che contrappone il presidente e le istituzioni religiose.
Obama ha fatto un passo indietro, cercando un accordo: «Le organizzazioni
religiose non dovranno pagare per questi servizi o provvedervi direttamente»,
ha affermato ancora nel febbraio del 2012, precisando che le istituzioni
affiliate a organizzazioni religiose non avrebbero più avuto l’obbligo di
coprire la spesa sanitaria dei dipendenti per gli anticoncezionali. Questo non
ha impedito che le arcidiocesi di New York e Washington, insieme a una
quarantina di altre istituzioni e gruppi cattolici, avviassero alcuni mesi dopo
una causa contro la riforma, sostenendo che «i progressi nella modifica della
norma non erano stati incoraggianti».

Paolo Bertezzolo

* Per correttezza abbiamo
riportato questo sito, ma se la sua qualità è rappresentata da alcune delle
vignette che abbiamo visto, non vale davvero il nostro tempo; è più frutto di
goliardia e d’ignoranza in malafede che d’intelligenza; il fatto che se la
prenda sia con Islam e Cristianesimo non contribuisce certo a renderlo almeno
dignitoso, ndr.

Paolo Bertezzolo