2. Massimiliano Kolbe

Massimiliano
Maria Kolbe nasce in Polonia a Zdunska-Wola, una cittadina nei pressi di Lodtz,
l’otto gennaio del 1894. Giovanissimo entra nell’Ordine dei Frati Minori
Conventuali e, pur ammalato di tubercolosi, svolge un intenso apostolato
missionario prima in Europa e successivamente in Asia. Durante
l’occupazione della sua patria da parte dei nazisti, nel 1941 è fatto
prigioniero e deportato ad Auschwitz. In questo campo di sterminio offre la sua
vita al posto di quella di un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. Condannato a
morire di fame, è finito con un’iniezione letale il 14 agosto 1941.


Padre Kolbe, il tuo
conterraneo papa san Giovanni Paolo II ti ha chiamato: «Patrono del nostro
difficile secolo». Si riferiva ovviamente a tutto il Novecento, secolo di
progresso ma caratterizzato da tragedie immani come le due Guerre Mondiali.
Puoi parlarci un po’ di te e della tua infanzia?

Sono nato a Zdunska-Wola, nel cuore della Polonia, l’8
gennaio 1894, i miei genitori erano ferventi cristiani. Mio papà Giulio,
operaio tessile, era un patriota che non sopportava la divisione della Polonia
di allora in tre parti dominate rispettivamente da Russia, Germania e Austria.
La nostra era una famiglia che aveva scarse risorse finanziarie e, a causa di
questo, solo mio fratello maggiore poté frequentare la scuola.

In quanti fratelli
eravate?

Eravamo cinque fratelli, ma solo tre riuscirono ad
arrivare all’età dell’adolescenza. Non potendo frequentare regolarmente le
scuole, imparai a leggere e scrivere con l’aiuto di un sacerdote e del
farmacista del paese. I Frati Minori Conventuali che conoscevano la difficile
situazione della mia famiglia proposero ai miei genitori di accogliere me e i
miei fratelli nel loro collegio.

Si può dire allora
che fin da piccolo il rapporto con i Conventuali Francescani ebbe un’importanza
fondamentale per te e per la tua famiglia.

Proprio vero. Il destino volle che un po’ tutta la
famiglia si legasse sempre di più all’Ordine dei Conventuali Francescani, sia
il papà che la mamma divennero terziari francescani e noi tre fratelli passammo
direttamente dal collegio al loro noviziato.

Una famiglia
esemplarmente francescana dunque.

Sì, ma mio fratello Francesco dopo alcuni anni lasciò la
vita religiosa per dedicarsi alla carriera militare. Prese parte alla Prima
Guerra Mondiale e, dopo essere stato catturato, morì in un campo di prigionia.
L’altro, finiti gli studi, si inserì nel mondo lavorativo.

Tu invece?

Dopo il noviziato fui inviato a Roma, dove restai sei anni
laureandomi in filosofia all’Università Gregoriana e in Teologia al Collegio
Serafico. Nella «Città Etea» venni ordinato sacerdote il 28 aprile 1918.

Che ricordi hai di quel
periodo della tua giovinezza vissuta a Roma?

Ricordo due fatti in particolare: un giorno, mentre
giocavo a pallone, cominciai a perdere sangue dalla bocca. Fu l’inizio di una
malattia, la tubercolosi, che tra alti e bassi mi accompagnò per tutta la vita.
In secondo luogo, prima di diventare sacerdote, fondai la «Milizia
dell’Immacolata», un’associazione religiosa avente per finalità la conversione
di tutti gli uomini per mezzo di Maria.

Dopo aver completato
gli studi hai fatto ritorno nella tua patria, che compiti ti furono affidati?

Pur essendomi laureato a pieni voti, a causa della mia
salute malferma che mi impediva di parlare a lungo, ero inadatto
all’insegnamento e alla predicazione. Così, una volta ritornato nella mia
Polonia, pensai di fondare un giornale di poche pagine, «Il cavaliere
dell’Immacolata», per alimentare lo spirito e la diffusione della «Milizia».

E le cose come
proseguirono?

A Grodno, una cittadina situata a 600 chilometri da
Cracovia, dove ero stato destinato dai miei Superiori, impiantai la tipografia
per la stampa del giornale con vecchi macchinari. Nel contempo con mio grande
stupore, molti giovani desiderosi di condividere una vita francescana e allo
stesso tempo di dedicarsi a una nuova forma di apostolato legata alla nascente
editoria cattolica, cominciarono a confluire nella mia comunità.

Pur nella limitatezza
dei mezzi a disposizione, la tua intraprendenza e il tuo ardore fecero il
miracolo di attirare sempre più gente accanto a te.

Effettivamente la Provvidenza ci venne in aiuto in maniera
formidabile: un conte ci donò un terreno vicino a Varsavia, e lì fondai «Niepokalanow»,
la «Città di Maria». Quello che avvenne negli anni successivi ebbe del
miracoloso. Dalle prime capanne si passò a edifici in mattoni, dalla vecchia stampatrice,
si passò alle modee tecniche di stampa e composizione, dai pochi operai agli
oltre settecento religiosi di dieci anni dopo. Il «Cavaliere dell’Immacolata»,
inoltre, raggiunse la tiratura di milioni di copie. A esso si aggiunsero altri
sette periodici.


La tua terra però ti
stava «stretta» e tu volevi spaziare su orizzonti più vasti.

Sì, nel 1930 partii per il Giappone
dove, a Nagasaki, con l’aiuto della piccola ma tenace comunità cattolica
locale, impiantai una tipografia e feci sorgere una cittadella sul modello
della «Città di Maria» che avevo lasciato in patria.

E come reagì la
comunità cattolica nipponica?

Anche in Giappone la Provvidenza fece meraviglie: la
tiratura delle nostre riviste raggiunse ben presto 18.000 copie e, pur essendo
i cattolici una piccolissima minoranza, riuscimmo a produrre dei giornali che
attiravano l’interesse anche dei giapponesi che non professavano la nostra
stessa fede.

Ma anche l’Estremo
Oriente non ti fu sufficiente, volevi allargare sempre più il tuo campo d’azione.

È vero, per conoscere maggiormente la realtà asiatica feci
un viaggio con la Transiberiana e mi misi a studiare il russo. Tra i miei sogni
c’era anche il progetto di una missione in India. Inoltre, vista la buona
tiratura dei nostri giornali, pensavo con i miei collaboratori di stamparli in
diverse lingue e diffonderli in tutto il mondo.

Ma
un’attività così intensa certamente avrà prostrato il tuo fisico considerando
anche la tua malattia.

Il poco riguardo per la mia salute portò la mia
tubercolosi a un vistoso peggioramento, perdevo sangue in maniera più
consistente e più frequentemente. I miei superiori mi imposero perciò una
visita medica approfondita. Il responso fu abbastanza crudo: i medici dissero
che mi restavano pochi mesi di vita. Decisi allora di tornare in Polonia. In
patria ebbi modo di curarmi e la salute migliorò.

Alla fine degli anni
’30 la Polonia viveva tempi difficili…

Purtroppo, dopo che Hitler ebbe annesso alla Germania
l’Austria e la Cecoslovacchia, il primo settembre 1939 le truppe naziste al
comando del generale Guderian, invasero la mia terra. Duemila aerei della
Lutwaffe bombardarono Varsavia, dando così inizio alla Seconda Guerra mondiale.

L’occupazione nazista
fu particolarmente brutale nei vostri confronti.

Secondo la loro ideologia esisteva la
razza ariana superiore a tutte le altre, e noi popoli slavi eravamo visti come
mano d’opera che doveva servire i nuovi padroni. I nazisti arrivarono ai
cancelli della nostra comunità il 19 settembre del 1939 e ci arrestarono tutti
perché il nostro giornale non era gradito al governo di occupazione.

Dove vi portarono?

Ci divisero e ci sbatterono in diverse carceri dei paesi
occupati, a volte ci spostavano senza darci nessun preavviso. Questi viaggi
avvenivano in vagoni bestiame riempiti all’inverosimile, senza servizi, con le
porte sprangate dall’esterno. Regnava fra i prigionieri un clima di
rassegnazione: tutti temevano il peggio. Ebbene io mi feci forza e intonai un
canto religioso cui subito si unirono molti altri. Questo nostro modo di fare:
cantare su carri bestiame diretti ai campi di sterminio, la ritengo una delle
forme più alte di preghiera che in quel momento potevamo fare.

Quale fu la tua
destinazione finale?

Il 28 maggio del ’41 mi trasferirono ad Auschwitz insieme
ad altri 320 compagni di sventura. Una volta arrivati in quel tristemente
famoso campo di sterminio, fui messo insieme agli ebrei perché sacerdote, e mi
diedero una casacca con il numero 16670.

Com’era la vita al
campo?

Ricordo con sofferenza gli appelli che le guardie si
divertivano a fare a tutte le ore, anche nel cuore della notte, per vedere se
qualche prigioniero era fuggito. Io venni inserito nella squadra adibita ai
lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri raccolti nelle camere a gas
e destinati al crematorio. La vita di ognuno non contava proprio nulla agli
occhi degli aguzzini di Auschwitz. Alla fine di luglio fui destinato alla
squadra addetta alla mietitura nei campi, un lavoro certamente più dignitoso di
quello che ero stato costretto a fare fino ad allora.

Quindi, pur nella
terribile condizione di prigioniero in un campo nazista, perlomeno potevi
uscire per mietere il grano.

Questo, che innegabilmente era, rispetto allo standard
della vita dei prigionieri, un vantaggio, si trasformò in un incubo quando uno
dei miei compagni riuscì a sottrarsi al controllo delle guardie e a fuggire.
Secondo l’inesorabile legge che vigeva ad Auschwitz, per ogni prigioniero che
fuggiva, altri dieci venivano destinati al bunker della morte. Ci radunarono
quindi nello spiazzo centrale e a caso i nazisti prelevarono dieci disgraziati
da sopprimere.

Chissà che tortura anche per chi non era
punito, assistere a quelle scene.

Effettivamente… una volta scelti i dieci disgraziati, vidi
uno di loro disperarsi lanciando alte grida al cielo, urlando che lui era un
papà di famiglia e che i suoi figli aspettavano la fine della guerra per
rivederlo. Presi allora la decisione di offrirmi al suo posto.

Un uomo con una forte
personalità come la tua, che aveva ottenuto risultati brillanti in ogni parte
del mondo, si ritrovava così nella condizione terribile e sublime allo stesso
tempo di offrire la propria vita per salvae un’altra.

In quel preciso istante mi sentii per un attimo un «perdente»
sotto ogni aspetto, ma subito risuonò in me la parola del Signore che diceva: «Non
c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Capii
allora che se volevo contribuire a vincere l’iniquità del peccato calato su
tutta l’Europa, era necessario donare tutto me stesso, perdermi totalmente nei
gorghi del male per ritrovare nuovamente la mia vita trasformata in Cristo.

Questo
per i nazisti non comportò nessun problema?

No, per loro dovevano essere giustiziati dieci
prigionieri, non importava chi fossero. Ci rinchiusero pertanto in minuscole
celle dove potevamo a malapena sederci. Le celle vennero poi murate. La
condanna prevedeva la morte per mancanza di cibo e acqua. Un’agonia lunghissima
che si consumava tra disperazione e atroci sofferenze. Decisi allora di
alleviare la disperazione dei miei compagni pregando ad alta voce e innalzando
canti religiosi al Signore.

E i tuoi compagni di
sventura come reagirono a questa tua iniziativa?

Alcuni unirono le loro voci alle mie preghiere e ai miei
canti, dopo alcuni giorni però i più deboli cominciarono a spegnersi. Dopo ben
quattordici giorni in quattro eravamo ancora in vita. I nazisti decisero allora
di sopprimerci con una iniezione di acido fenico. Così ebbero termine le nostre
sofferenze.

Padre Massimiliano Kolbe si spense il 14 agosto
1941, le sue ultime parole, mentre gli facevano la letale iniezione nel braccio,
furono: «Ave Maria». Insieme ai suoi compagni venne quindi gettato nel foo
crematorio e le sue ceneri si mescolarono a quelle di tanti altri sventurati.
Così finì la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo
della Chiesa polacca e universale. Papa Paolo VI lo beatificò il 17 ottobre
1971, mentre papa Giovanni Paolo II lo proclamò Santo il 10 ottobre 1982. Il
suo fulgido martirio resta una testimonianza esemplare della coerenza cristiana
vissuta in tempi e ambienti terribili.

Don Mario Bandera,
Missio Novara


Mario Bandera




Non siamo fermi al ’29

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 26

Si può scrivere in
una legge che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della
propria confessione? Oppure vietare l’uso di una lingua diversa dall’italiano
nei luoghi di culto? Una nuova legge generale sulla libertà religiosa non è,
per la politica odiea, una priorità, anche per l’oggettiva difficoltà di
sciogliere molti nodi che paiono irrisolvibili. Ne parliamo col senatore di
Forza Italia Lucio Malan.

Deputato nella XII legislatura
(1994-1996), eletto nelle liste della Lega Nord, è senatore dal 2001, prima del
Pdl e ora di Forza Italia. È stato membro della commissione affari
costituzionali fino al 2013. Nell’attuale legislatura è questore del Senato e
fa parte della commissione giustizia. È membro della giunta delle elezioni e
delle immunità parlamentari e del comitato parlamentare per i procedimenti
d’accusa. Per conto del parlamento ha svolto numerosi incarichi a livello
internazionale. È attivo anche nella Chiesa Valdese, cui appartiene.

Intervistiamo Lucio Malan, da anni
impegnato sul tema della libertà religiosa.

L’Italia oggi è una
società multiculturale e multireligiosa, molto diversa da quella del ’29 quando,
durante il regime fascista, era stata approvata la «Legge Rocco» sui «culti
ammessi» per «consentire» il libero esercizio dei culti non cattolici, dopo
aver riservato con i Patti Lateranensi una «particolare condizione giuridica»
alla religione dello stato. Nonostante sia stata modificata dalla Corte
costituzionale, per togliere le parti incompatibili con la Costituzione
repubblicana, quella legge è tuttora in vigore. Un’altra, dunque, si impone.
Lei si è molto impegnato in questa direzione. Cosa ha fatto fino a oggi il
Parlamento per rispondere a questa necessità?

«Ci sono stati diversi tentativi di arrivare all’approvazione di una
legge sulla libertà religiosa, in particolare nelle legislature 1996-2001 e
2001-2006. I governi Prodi I e Berlusconi II presentarono disegni di legge
sostanzialmente uguali fra di loro. Nel 2003 la proposta fu approvata in
commissione e approdò nell’aula della Camera, ma non andò oltre la relazione.
Nel frattempo, però, Camera e Senato dal 1984 hanno approvato undici intese1 oltre a cinque modifiche di esse. Il record è
stato nella legislatura 2008-2013, con cinque nuove intese e tre modifiche,
andando oltre l’ambito giudaico-cristiano grazie agli accordi con buddisti e
induisti».

Perché,
nonostante questo notevole lavoro, non è stata ancora approvata la nuova legge
sulla libertà religiosa?

«Perché non è sentita come una priorità e perché si tratta di cosa
molto complicata. Nella legislatura 2001-2006 il testo approvato conteneva
alcune limitazioni ispirate a questioni di sicurezza, che furono ritenute
inaccettabili da molta parte del centro sinistra. Senza quelle limitazioni
sarebbe stato il centro destra a opporsi. Inoltre la legge dell’epoca fascista,
odiosa nel titolo (“culti ammessi”), in realtà concede molto più di quanto si
crede e molti oggi avrebbero difficoltà a riapprovare le stesse norme. Ad
esempio, include la possibilità dell’ora di religione in contemporanea
all’insegnamento della religione cattolica».

Le
intese tra lo stato e le varie confessioni religiose, nonché la futura nuova
legge sulla libertà religiosa, costituiscono una crescita dei diritti e delle
libertà, nel quadro dell’attuazione piena della società democratica definita
nella Costituzione repubblicana. Alla sua base sta il principio di laicità, in
cui tutti si riconoscono. Perché allora tale principio è diventato uno dei
motivi per cui non si è riusciti ad approvare la nuova legge sulla libertà
religiosa?

«Non so se la laicità finisce per essere un ostacolo. Di certo, molti
temono una legge che includa anche gli islamici, perché nelle loro varie realtà,
potrebbe dare l’opportunità agli estremisti di usare le prerogative di
confessione religiosa per fare altro, e si sa che in gran parte dei paesi
islamici, il concetto di laicità dello stato è del tutto sconosciuto. Inoltre,
come ho detto, nessuno vuole concedere spazi e si dice: piuttosto di una
cattiva legge, meglio andare avanti così, visto che comunque la libertà
religiosa c’è e le intese funzionano».

Quali
sono le questioni principali, in ordine alla libertà religiosa, che la nuova
legge deve regolamentare?

«Si tratterebbe di attribuire a tutte le confessioni alcune
prerogative attualmente riservate a quelle che hanno stipulato l’intesa. In
realtà, molte prerogative sono già oggi garantite, come la possibilità, per i
ministri di culto, di visitare i detenuti, entrare negli ospedali non solo per
uno specifico paziente, come ad esempio un parente, e altre questioni. Già oggi
tutte le confessioni possono farlo, purché abbiano il riconoscimento della
personalità giuridica e la nomina dei ministri di culto sia approvata dal
ministero dell’interno, cosa che ultimamente è diventata problematica. C’è poi
la questione della partecipazione all’8 per mille, oggi riservata ai titolari
di intese, che sembra improbabile poter allargare a tutti. Ci sarebbe anche la
questione delle festività religiose, del riconoscimento degli istituti di
formazione dei ministri di culto, e altro ancora. In realtà, non è facile
scrivere una normativa che preveda le esigenze delle varie confessioni e tenga
conto dei problemi che ciascuna può porre alla collettività. In questo le
intese sono molto efficaci perché partono dai casi concreti e li affrontano in
termini di norma. Per fare un esempio banale: non si può scrivere astrattamente
che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della propria
confessione: teoricamente ogni giorno la Chiesa Cattolica festeggia una
ricorrenza, o uno o più santi. Parlando di prevenzione dei problemi che si
possono creare con talune confessioni, c’è chi propone di imporre nelle moschee
l’uso del solo italiano, perché l’eventuale incitamento all’odio possa essere
riscontrato più facilmente, e conosco dei musulmani che non sarebbero contrari.
Resta il problema che il Corano deve poter essere letto in arabo, che per loro è
lingua sacra. In ogni caso, non si può fae una norma generale: vuoi vietare
la messa in latino, che fino a 50 anni fa era l’esperienza comune di tutti i
cattolici, schiacciante maggioranza nel paese? Vuoi vietare agli ebrei di
leggere la Torah in ebraico, la lingua in cui per loro, e anche per noi
cristiani, è stata scritta da Mosè sotto la dettatura di Dio? Ci vuole molto
pragmatismo. Prendiamo l’aspetto delicato della circoncisione: è vero che è un
atto irreversibile praticato su bambini di otto giorni, dunque senza alcun
assenso, ma è anche vero che è tradizione antichissima, che non ha alcun
effetto negativo. Ben altra cosa sono le mutilazioni femminili, anche esse
tradizionali in certe etnie, ma del tutto inaccettabili nella nostra civiltà».

Si
può realisticamente pensare che essa sia approvata nel corso della presente
legislatura?

«No. Ma non mettiamo limiti alla Provvidenza».

C’è
chi sostiene che, a seguito della stipula delle intese con diversi culti
religiosi, sia aumentato il divario tra i diritti di questi e i diritti di
quelli che le intese non le hanno stipulate. In altri termini, mentre si opera
per realizzare una piena eguaglianza tra tutti i culti religiosi,
paradossalmente si fa crescere la disuguaglianza tra di loro. La «strada delle
intese» è davvero quella migliore da seguire? Tra l’altro, procedendo per
questa via, oggi si è finito col ritrovarci in una condizione piuttosto
complessa, tra le intese – che nascono da accordi bilaterali tra una
confessione religiosa e lo stato -, la legge del ’29 ancora in vigore e la
nuova legge che non viene avanti.

«Indubbiamente il problema c’è. Ma non dimentichiamo che la Repubblica
Italiana nasce con una diseguaglianza pregressa costituita dal Concordato, che
neppure il Partito Comunista, teoricamente ateo, tentò seriamente di abrogare.
Purtroppo c’è stato di recente un vero e proprio passo indietro con l’assurda e
incostituzionale decisione del ministero dell’Inteo di applicare un
inopportuno parere del Consiglio di Stato, il quale – per la prima volta dalla
legge del 1929 – ha indicato un limite numerico minimo di fedeli per il
riconoscimento dei ministri di culto, per di più nell’esorbitante cifra di 500,
nel presupposto, peraltro falso, che tale sarebbe il numero minimo dei fedeli
nelle parrocchie cattoliche con sacerdote residente. Orbene, in primo luogo ci
sono, proprio nella mia valle (la Val Pellice in Piemonte, ndr), comuni
sotto i 500 abitanti, la maggioranza dei quali è valdese, con tanto di
sacerdote cattolico residente. In secondo luogo, non si può imporre alle altre
le logiche della confessione maggioritaria, anche perché, per forza di cose,
mentre è facile in un territorio molto piccolo trovare 500 cattolici, non lo è
altrettanto trovare, ad esempio, 500 luterani. I luterani, che pure hanno
l’intesa, sono circa seimila volte meno numerosi dei cattolici, e dunque,
mediamente, 500 luterani saranno sparsi per un territorio seimila volte più
vasto: cosa che rende loro impossibile avere un unico ministro di culto. In
terzo luogo, spesso le confessioni minoritarie hanno dei ministri di culto che,
per mantenersi, hanno un altro lavoro, come del resto la maggioranza dei
rabbini: non si può pensare siano in grado di svolgere lo stesso lavoro di un
sacerdote cattolico a tempo pieno. In quarto luogo, la percentuale di
praticanti è spesso più alta nelle minoranze più recenti di quanto lo sia tra i
cattolici o altre confessioni storiche, nelle quali la secolarizzazione ha
prodotto effetti tra i fedeli. Ecco, eliminando questo obbrobrio, si
rimedierebbe a gran parte del problema. Basterebbe un’indicazione del ministro
dell’Inteo, o del dirigente preposto, visto che la decisione è stata di un
dirigente, e non certo una legge. Il parere del Consiglio di Stato non può
valere più della Costituzione o di una legge. Né è accettabile che una cosa
applicata senza significative limitazioni dal regime fascista (salvo il baratro
delle leggi razziste, naturalmente), venga ristretta oggi, dopo settant’anni di
democrazia».

Nella
società multiculturale italiana, di cui si parlava all’inizio, appare urgente
affrontare anche altri problemi, in particolare quello dell’immigrazione e
quello della «cittadinanza». È possibile arrivare a una piena attuazione della
libertà religiosa senza che la nuova legge venga accompagnata da altre leggi
che riguardino quelle due questioni? Libertà religiosa, immigrazione e
cittadinanza non costituiscono una trilogia che deve andare insieme?

«A mio parere le cose sono ben distinte. Le leggi sull’immigrazione si
applicano indifferentemente a cattolici, musulmani, atei e chiunque altro, com’è
giusto. E la libertà religiosa riguarda italiani, immigrati regolari e
irregolari, turisti e passanti, com’è giusto. Tutte questioni delicate, ma
distinte. Solo un paese, oltre alla Città del Vaticano, ch’io sappia, regola
l’immigrazione sulla base della religione: Israele, che definisce se stesso
come stato ebraico, ma è più facile diventare cittadino italiano per un extra
comunitario che diventare ebreo per un gentile».

Paolo Bertezzolo
Note:

1- L’articolo 8 della Costituzione stabilisce che
i rapporti delle confessioni religiose con lo stato «sono regolati per legge
sulla base di intese [accordi] stipulate con le relative rappresentanze».

Tag: libertà religiosa, Costituzione, Laicità dello stato, Intese

Paolo Bertezzolo




Milano e i migranti /2 Il valore aggiunto oltre il bisogno

Continuando la nostra
passeggiata milanese, arriviamo in via Padova, nella zona più multietnica della
città. Di seguito, visitiamo Baranzate, comune nato nel 2004 e situato proprio
a ridosso dell’area dell’Expo 2015, che oggi conta la maggiore concentrazione
di stranieri. Don
Paolo Steffano, il parroco della chiesa di Sant’Arialdo, che si trova nel
quartiere più densamente abitato del comune, ci aiuta a capire la situazione
con i suoi  problemi e i suoi segni di
speranza.

Il XXIII rapporto di immigrazione di Caritas e Migrantes (2013)
riporta una notizia apparsa sul quotidiano la Repubblica nell’agosto
dell’anno scorso: nella classifica dei cognomi più frequenti fra i residenti di
Milano, Rossi e Hu sono quasi alla pari: 4.345 i Rossi e 4.101 gli Hu. Al terzo
posto vengono i Colombo, poi Ferrari, Bianchi e Russo. All’ottavo posto si
classificano Chen e al nono Zhou che, con oltre milleseicento ricorrenze,
superano il cognome milanese per antonomasia, Brambilla, al decimo posto.
All’undicesimo posto si trova Esposito, seguito da Sala, Romano e Cattaneo. Al
ventitreesimo c’è Mohamed e al quarantacinquesimo Ahmed.

Al di là delle statistiche, in via Padova le vetrine dei
negozi parlano di un quartiere dove almeno il commercio ha in parte già
superato i confini etnici: «Alimentari africani, asiatici e sudamericani», si
legge sulle insegne di esercizi che espongono sacchetti di derrate con scritte
in quattro, cinque lingue. Dopo una camminata, verso Nord, in una delle vie più
etnicamente variegate e animate della città, fare due passi nei pochi metri del
quieto borghetto medievale di via Domenico Berra, traversa di via Padova, ha un
che di irreale. Proprio dall’altra parte dell’incrocio si imbocca via Adriano
e, dopo una manciata di passi, si comincia a intravedere la facciata gialla
della Casa della carità, un’istituzione «pensata e voluta dal cardinal
Martini proprio in questa zona di migranti per dare un chiaro segno di
accoglienza», come spiega il responsabile dell’ufficio stampa Paolo Riva.

Attualmente alla Casa della carità, che dal 2004
ha ospitato oltre millesettecento persone, risiedono gratuitamente 135 ospiti
mentre altri 138 vivono in trentuno appartamenti estei. Una giornata di
accoglienza ha un costo medio di circa quaranta euro. Presso la struttura sono
disponibili un centro d’ascolto, che l’anno scorso ha ricevuto oltre settecento
richieste d’aiuto, un servizio docce e guardaroba per le persone che non è
possibile ospitare, un centro medico e di assistenza psicologica, un’area di
assistenza legale, i servizi di formazione e avviamento al lavoro, una
biblioteca e un centro anziani. Gli utenti ai quali, in dieci anni di attività,
la Casa si è rivolta sono membri delle comunità rom, migranti, persone
senza dimora, detenuti ed ex detenuti, anziani e pazienti affetti da problemi
di salute mentale.

Ma oltre all’accoglienza e assistenza quotidiane, la
fondazione che gestisce la Casa, promuove un lavoro di riflessione sui
temi e i problemi che emergono nella realtà metropolitana. Don Virginio
Colmegna, presidente della Fondazione Casa della carità dal 2004,
sceglie Hannah Arendt, Marc Augé e Zygmunt Bauman per guidare l’interlocutore
nel percorso di approfondimento che la Fondazione sta portando avanti:
parla di «diritto di difendere i diritti» e di «vite di scarto», le vite di
coloro che il processo di globalizzazione ha spinto ai margini e ridotto a
rifiuti umani. «Serve una diversa visione strategica delle periferie», dice don
Colmegna, «che vanno guardate non come i nonluoghi dove si manifesta il
bisogno, ma come spazi di complessità e conoscenza. Il fenomeno migratorio ci
sta cambiando e, insieme all’impegno quotidiano dell’accoglienza, il lavoro
culturale è fondamentale».

Don Colmegna si sofferma su un tema particolare: su
cento persone assistite dalla Casa, quaranta sono passate dai servizi di
salute mentale. «Le sofferenze patite durante il tragitto migratorio, le esperienze
– vissute specialmente dalle donne – di devastazione nel corpo, i traumi legati
all’impatto religioso e culturale sono le principali cause dei problemi mentali
delle persone che accogliamo».

A poche decine di metri dalla Casa della carità,
via Padova comincia ad animarsi per il traffico dell’ora di punta serale; la
luce rosa di uno dei primi tramonti primaverili si diffonde sui muri della
galleria T12 Lab di via dei Transiti, dove gli artisti maliani Ousmane
Garba Kounta, Aboubakar Fofana e Sidiki Traoré espongono i loro lavori
nell’ambito della piattaforma Nomad Extreme, «un’iniziativa visionaria
dedicata ai designers che si trovano ai confini del mondo».

«Il riciclo e la valorizzazione della cultura maliana
sono alla base del mio lavoro», spiega Ousmane mentre mostra ai visitatori le
sue opere, sedie e poltrone fatte con coa bovine recuperate presso i macelli.
I lavori di Ousmane, insieme alle sculture di metallo riciclato di Sidiki e ai
manufatti di tessuti e colori naturali realizzati da Aboubakar con le tecniche
dei maestri della tradizione tessile del Mali, proiettano scorci di Sahel e di
Sahara sullo sfondo di cemento, asfalto e metallo di una metropoli del Nord del
mondo. Milano e il suo cammino multiculturale passano anche da qui.

Chiara Giovetti


Due passi a Baranzate
con don Paolo Steffano

Don Paolo Steffano è il parroco di Sant’Arialdo, la
chiesa del quartiere Gorizia a Baranzate, comune della prima cintura milanese.
Da dieci anni vive e lavora qui, nel comune d’Italia a più alta concentrazione
di stranieri. Risponde alle mie domande mentre mi fa da guida nel quartiere e
si ferma a salutare le persone, ad accordarsi con qualcuno per appuntamenti e
attività in programma, ad ascoltare storie e notizie.

Don Paolo, a
Baranzate cercavo una periferia degradata, ma a guardare la bacheca con le
attività organizzate dalla parrocchia, i murales con la scritta «Il mondo nel
quartiere», le strutture sportive e le sedi delle associazioni come Quadrivium,
non sembra poi così male. E ora io che cosa scrivo?

Don Paolo ride mentre mi fa strada nel prato vicino alla
chiesa dove gli operai stanno ultimando i lavori della parte da pavimentare: «Immaginati
come sarà questo prato nelle sere d’estate, tutto pieno di candele e di gente
che chiacchiera. Questa qui è la Svizzera di Baranzate!». Poi torna serio
mentre percorriamo la strada che costeggia la piazzetta del quartiere: «Vedi?»,
e indica le serrande abbassate dei negozi, «questi hanno tutti chiuso, non ce
la facevano ad andare avanti. Le difficoltà ci sono, e anche tante, ma tutti
insieme stiamo cercando di trovare delle soluzioni».

«Tutti insieme» significa la parrocchia, le associazioni
di quartiere, il comune, che ha regalato una macchina perché le associazioni
potessero svolgere le proprie attività, e i privati, uno dei quali ha donato
una sala da cento posti. Per mostrarmi un esempio di collaborazione
interculturale mi porta a visitare il negozio di usato per bambini gestito da
due mamme, una boliviana e una italiana.

«Non è un quartiere facile, addirittura passa per essere
invivibile. La situazione è questa: nel quartiere, che ospita una settantina di
etnie, vivono 3.800 persone su 11.800 abitanti totali di Baranzate: la
sproporzione abitativa c’è e si vede. Molti palazzi non hanno il riscaldamento,
chi può se lo fa autonomo, gli altri usano le stufette, con tutti i rischi
connessi. Il centro psicosociale segue una marea di casi, il tasso di natalità è
davvero alto ma non c’è nemmeno un pediatra. Lo spaccio di droga, specialmente
hashish e cocaina, è florido. Ora, in vista dell’Expo, hanno sgomberato un
campo nomadi e distribuito venti famiglie rom nel quartiere, il che ha
provocato parecchi scompensi».

Don Paolo,
quanto tempo ci vorrà perché io non debba più venire qui a farle tutte queste
domande per scrivere un articolo su migranti, disagio e periferie?

«Senti, mettiamola così: io sono milanese di Sant’Ambroeus,
ho il pedigree», scherza. «Quando andavo a scuola, mio padre leggeva la
lista dei miei compagni di classe e, trovando un cognome del Sud, alzava la
testa e diceva: questo qua è un terùn. Lui lo notava, com’era ovvio che
fosse, da milanese che aveva visto la sua città cambiata dai flussi migratori
dal Sud Italia. Ma per me quel nome corrispondeva semplicemente a un compagno
di giochi, non mi importava che fosse di Bari o di Palermo. Ecco, io credo che
succederà la stessa cosa. Anzi, a camminare per le strade di questo quartiere,
forse anche tu hai avuto l’impressione che sia già successo».

Chiara Giovetti

Per aiutare i progetti di MCO:

Chiara Giovetti




Juliette Colbert, marchesa di Barolo

Donna straordinaria del nostro
Risorgimento, la sua vita precorre il modo di agire dei grandi Santi sociali
del Piemonte dell’Ottocento. Nata il 27 giugno 1785 in una nobile famiglia
della Vandea francese, terra di forte tradizione cristiana, pronipote di J. B.
Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV, il Re Sole, dopo la Rivoluzione
francese entra a far parte della corte di Napoleone Bonaparte, dove conosce il
marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Se ne innamora, si sposano e vanno
ad abitare a Torino. Colpita dalla situazione di povertà ed emarginazione che
investe vasti strati della popolazione del Regno Sabaudo, comincia a farvi
fronte con intraprendenza, determinazione e… fantasia.

La devo chiamare col
suo titolo nobiliare o col più familiare Juliette?

Mi
chiami Juliette, come mi chiamava mio marito e come mi chiamavano le persone
amiche.

Bene, diamoci anche
del «tu», così l’intervista diventa più facile. Parlaci della tua infanzia
negli anni in cui si scatenava la Rivoluzione francese.

Ero
bambina quando la Rivoluzione francese si abbatté sulle nostre esistenze. La
mia famiglia, come quella di tutti i nobili, venne coinvolta nelle violenze che
si abbatterono in Vandea, dove eravamo perseguitati dai «sanculotti» non solo
in quanto nobili ma anche per la nostra fede cristiana. Per salvarci fummo
costretti a espatriare, prima in Germania, poi in Olanda e quindi in Belgio.

I tuoi genitori non
persero mai la speranza, anzi, seppero trasmetterti una fede così forte che con
il tempo si caratterizzerà nella tua vita in forme di carità e di solidarietà
veramente notevoli.

Nel
1792 ci stabilimmo insieme ad altri fuoriusciti dalla Francia a Coblenza, in
Germania, dove i miei genitori vollero che ricevessi un’educazione di
prim’ordine. Grazie quindi a maestri scelti mi formai una cultura largamente
superiore a quella delle donne del mio tempo e, se devo essere sincera, anche
alle donne del mio rango.

Rimanemmo
in esilio per dieci anni, poi, nell’aprile del 1802, Napoleone concesse
l’amnistia a quasi tutti gli esiliati. Però volle che i nobili frequentassero
la sua corte a Parigi.

E fu a corte che
incontrasti quello che sarebbe diventato tuo marito?

Proprio
così. Là mi incontrai con l’ultimo discendente di una delle più ricche e
antiche famiglie piemontesi: Carlo Tancredi Falletti, marchese di Barolo. I
suoi tratti gentili e il modo di fare mi conquistarono subito, mi innamorai di
lui e nel 1807 ci sposammo.

Dopo il matrimonio vi
trasferiste a Torino?

Carlo
desiderava a ogni costo che la mia presenza rallegrasse il palazzo della
famiglia Barolo, così ci spostammo a Torino, anche se trascorrevamo parecchi
mesi dell’anno viaggiando e ritornando spesso a Parigi.

Immagino che, vista
la vostra posizione, non vi fosse difficile incontrare personaggi di spicco
della cultura e della politica.

Questo
è vero, incontrammo molti personaggi famosi, ma solo alcuni esercitarono
un’influenza positiva sulle azioni caritative messe in atto più tardi da me e
da Carlo. Ricordo con piacere l’abate Dupanloup (Félix Antornine Philibert
Dupanloup, 1802-1878) rettore del Seminario di Parigi e grande amico di
Federico Ozanam (Frédéric Antornine Ozanam, 1813–1853) fondatore della Società di
San Vincenzo, e la marchesa Adelaide Pastoret (1766-1843) promotrice e
organizzatrice dei primi asili d’infanzia, oppure l’abate Legris-Duval (René-Michel
Legris-Duval 1765-1819) particolarmente attento al problema del recupero sociale
delle così dette «fanciulle perdute».

Nella capitale
sabauda invece conosceste altra gente che vi aiutò nel realizzare le opere di
carità che avevate programmato.

Casa
nostra era frequentata da molti nobili e intellettuali piemontesi, tra cui ricordo
con piacere soprattutto Silvio Pellico, che accogliemmo sotto il nostro tetto
dopo la dura esperienza del carcere allo Spielberg. Questi, pur avendo un’idea
della società condizionata dalla classe di appartenenza, erano desiderosi sia
di risolvere il problema dell’assistenza agli emarginati che di propugnare
riforme politiche e sociali, secondo gli ideali del Risorgimento, che
portassero all’unità d’Italia, in quel tempo frazionata e divisa.

Queste aspirazioni ti
coinvolgevano da vicino?

Proprio
così. Però la cosa che mi interessava di più non era la politica, bensì la
situazione sociale, in quanto vedevo molte persone che vivevano nella massima
povertà e indigenza. Io non volevo fare qualcosa per i poveri, ma con i poveri.
Perché per noi aristocratici offrire un po’ di denaro o di risorse materiali è
fin troppo facile, mentre invece dare la responsabilità ai poveri affinché
imparino a gestire la propria vita è molto più impegnativo e richiede un amore
vero e sincero verso di loro.

Quando iniziarono le
tue attività?

Nel
1815 mi iscrissi alla Compagnia della Misericordia dedicandomi alla
distribuzione di viveri per i detenuti di Torino. Qualche anno dopo ebbi il
permesso di entrare nelle carceri dove il contatto diretto, specialmente con le
detenute, provocò in me uno shock terribile. Vedere quelle donne, per lo più
provenienti dalle fasce sociali più emarginate, dietro le sbarre in condizioni
disumane, alimentò nei loro confronti un forte desiderio di consolarle e
affrancarle da quella situazione.

Come si svolgeva il
tuo apostolato in mezzo a queste donne che agli occhi della società del tempo
erano viste come persone non recuperabili?

Mi convinsi che oltre a operare su un piano materiale,
dovevo lavorare sull’aspetto morale. Mi fermavo a conversare a lungo con ognuna
di loro, ed esse compresero che ero loro amica. Lasciavo anche intravedere che
il mio modo di vivere era caratterizzato dalla fede cristiana. In questo modo
cercavo di gettare un seme di speranza nella loro vita. Certo, continuavano a
essere delle recluse, ma si andavano creando le condizioni affinché all’interno
del carcere ci fosse un clima più tollerabile.

Questo tuo modo di
agire ebbe dei riflessi anche in altri ambienti carcerari a Torino?

La
mia azione fra le detenute suscitò interesse in alcuni membri della casa reale.
Grazie a loro ottenni di poter riunire tutte le detenute torinesi in un unico
edificio, dove potei realizzare i miei progetti.

Spiegati meglio.

Innanzi
tutto cominciai a separare le donne che erano inquisite da quelle che erano già
state condannate. Poi, con il coinvolgimento di tutte loro, si stese un
regolamento di disciplina. Stabilimmo dei compiti quotidiani in cui tutte erano
coinvolte, dalle pulizie delle camerate ai bagni, alla cucina ecc. Non ultimo,
promossi una paziente opera di alfabetizzazione che coinvolse quasi tutte. Il
risultato più grande fu di sostituire le guardie con delle suore (le «Suore di
S. Anna», fondate col marito nel 1834), che io e il mio amato sposo promuovemmo
proprio per venire incontro a queste situazioni.

Questo fece
migliorare la vita delle carcerate?

Pensa
che qualcuno arrivò a dire che nel 1838, quando le suore andarono ad abitare
nel carcere, questo assomigliava più a un convento che a un penitenziario.
Subito dopo ci rendemmo conto di un’altra piaga sociale, quella delle ragazze
madri, o come si diceva in quel tempo, delle «fanciulle traviate».

Anche con loro
iniziaste un percorso di riscatto alternativo a quelle che erano le regole
vigenti?

Ottenni
dal governo un edificio (il Rifugio) che ristrutturammo per creare una casa
aperta a tutte le ex carcerate e alle ragazze madri, offrendo loro la
possibilità di un lavoro che le aiutasse a reinserirsi nella società. Il lavoro
non solo garantiva il loro sostentamento, ma con quello che riuscivano a
risparmiare, potevano accumulare una piccola dote da ritirare al momento di
lasciare il rifugio.

Oltre il lavoro ci
furono altri aspetti positivi legati al vostro particolare modo di vivere?

Alcune
di queste donne, avendo fatto un cammino di conversione, e saldato i conti con
la giustizia, maturarono l’idea di consacrarsi attraverso una vita di lavoro e
di preghiera. Nacque l’idea di una nuova congregazione detta delle «Maddalene»
(oggi «Figlie di Gesù Buon Pastore»), approvata dell’Arcivescovo di Torino nel
1833 e dalla Santa Sede nel 1846.

Oltre al lavoro con
le detenute, il tuo campo di attività abbracciava anche altri ambiti specifici?

Mi
occupai di lanciare in Italia gli asili d’infanzia (promossi in Francia dalla
marchesa Pastoret), dove oltre a provvedere cibo e vestiario, cercavamo di
insegnare ai bambini i primi rudimenti della scuola e del catechismo. Fondammo
anche delle scuole professionali e si diede inizio alla costruzione della
chiesa di Santa Giulia nel popolare quartiere di Vanchiglia a Torino.

Juliette, pur essendo
una nobile e un’aristocratica, la tua esistenza fu dedicata interamente ai
poveri.

Io e
il mio sposo Carlo, riversammo tutte le nostre attenzioni e il nostro affetto
sulle persone povere e svantaggiate, e questo diede un senso pieno e vero alle
nostre esistenze, perché come dice il Signore: «C’è più gioia nel dare che nel
ricevere».

Juliette Colbert, marchesa di Barolo, si spense il 19 gennaio del
1864. Il marito era morto nel 1838. La loro azione in favore dei poveri fece da
apripista ai Santi sociali piemontesi del XIX secolo, con cui era in relazione,
soprattutto S. Giuseppe Cafasso e Don Bosco. Figlia del suo tempo e
appartenente alla classe aristocratica, non venne presa molto in considerazione
dalla storiografia del Risorgimento. Il tempo però sta facendo giustizia di
questo oblio ridandoci la vera identità di Giulia Colbert: una giovane bella,
ricca, dotata di mille risorse che aveva tutto per godersi la vita e invece con
il marito si mise al servizio dei poveri. Dopo la sua morte venne costituita
l’Opera Pia Barolo, alla quale lasciò l’intero patrimonio di famiglia.
Complessivamente dedicò alle sue opere di beneficenza circa 12 milioni di lire,
una somma pari al bilancio di uno stato del tempo. Il 21 gennaio 1991 la
diocesi di Torino ha avviato la causa di beatificazione dei due coniugi.

Don Mario Bandera,
Missio Novara

Mario Bandera




Un uomo su sette

Le patologie
oncologiche / 2: Il tumore alla
prostata

Il tumore alla
prostata è la principale neoplasia che colpisce il genere maschile. Sempre più
diffusa, soprattutto nei paesi sviluppati, negli ultimi anni ha tuttavia visto
migliorare l’indice di sopravvivenza.

I tumore alla prostata è la neoplasia prevalente nell’uomo. Esso
rappresenta il 21% di tutti i tumori ed è la terza causa di morte per tumore,
dopo quelli del polmone e del colon-retto. La sua incidenza è andata
progressivamente aumentando a partire dalla metà del secolo scorso, in cui esso
era considerato estremamente raro. Oggi è la più diffusa neoplasia tra i
maschi. Le ragioni di questo incremento sono legate sia ad un miglioramento
delle tecniche diagnostiche e alla diffusione della tecnica di resezione
transuretrale, le quali permettono di scoprire i casi subclinici, che
diversamente non sarebbero riconosciuti, sia all’aumento della vita media
verificatosi nell’ultimo secolo. L’incidenza (vedi Glossario) di questo
tumore aumenta infatti progressivamente con l’età (1% sotto i 40 anni, 30%
nella fascia 45-60 anni, 95% oltre gli 80 anni). In pratica quasi tutti gli
uomini, che hanno superato gli 80 anni presentano un piccolo focolaio di cancro
prostatico. La prevalenza (vedi Glossario) di queste lesioni raddoppia
ogni dieci anni d’età, passando dal 10% in uomini di 50 anni al 70% negli
ottantenni. Il tumore della prostata è particolarmente diffuso nei paesi
sviluppati, cioè Europa Nord occidentale, Australia, America del nord (in
particolare la popolazione afro-americana presenta elevati tassi d’incidenza),
ma è di frequente riscontro anche in alcune popolazioni caraibiche e nel Nord
Est del Brasile, mentre le popolazioni asiatiche dell’India e della Cina
sembrano essee meno colpite. In Italia l’incidenza di questo tumore varia tra
il 16,9 (x 100.000 abitanti) nella provincia di Latina e il 59,1 in quella di
Trieste. Nel nostro paese vengono diagnosticati oltre 40.000 nuovi casi
all’anno, un malato ogni 7 uomini seguiti e ci sono circa 5.000 decessi (uno su
34 pazienti seguiti). Ma la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è migliorata
nel corso degli anni passando dal 66% (1990-94) al 91% attuale.

Per quanto riguarda l’eziologia di questo tumore, sono state individuate
diverse possibili cause
: la predisposizione genetica, l’età, l’influenza degli
ormoni maschili, gli inquinanti ambientali, l’alimentazione e l’Herpes virus.

La predisposizione genetica risulta evidente
sia dalla maggiore diffusione della patologia in alcune etnie, come quella
nera, che in altre ed inoltre dalla familiarità (è più a rischio chi ha avuto
un consanguineo malato per questo tumore)1.

Si ipotizza inoltre che un continuo stress
infiammatorio come la prostatite possa favorire la progressione tumorale in una
condizione già predisposta.

L’avanzare dell’età predispone alla
possibile insorgenza di qualche forma tumorale per via del naturale
abbassamento delle difese immunitarie.

Un’altra causa sono gli ormoni sessuali
maschili, cioè il testosterone ed il suo metabolita diidro-testosterone. La
prostata è una ghiandola dell’apparato riproduttore maschile situata sotto la
vescica urinaria, con la funzione di produrre il liquido prostatico, che
unitamente a quello prodotto dalle vescicole seminali, dalle ghiandole
bulbo-uretrali e dai testicoli, forma il liquido seminale. La prostata inoltre è
androgeno-dipendente, cioè si sviluppa ed è mantenuta normofunzionale dai
livelli plasmatici del testosterone. Verosimilmente questo ormone ed il suo
metabolita hanno un ruolo importante, anche se non esclusivo, nello sviluppo
del tumore prostatico, poiché questa neoplasia non si trova negli eunuchi, non
si sviluppa in ghiandole atrofiche e tende a regredire somministrando
antagonisti del testosterone, cioè estrogeni, farmaci Lhrh (che bloccano la
produzione dell’ormone da parte dei testicoli) e antiandrogeni (che impediscono
il legame del testosterone sulle cellule prostatiche).

Di
sicuro rilievo nell’eziologia del tumore prostatico sono gli inquinanti
ambientali e l’alimentazione
, come si evince osservando le variazioni nei tassi
d’incidenza nelle popolazioni migrate, tassi che in breve diventano
sovrapponibili a quelle del Paese ospitante. Per quanto riguarda gli inquinanti
ambientali, ricordiamo il cadmio, teratogeno e cancerogeno e lo zinco, capace
di determinare un indebolimento del sistema immunitario.

L’alimentazione può favorire l’insorgenza del tumore
prostatico, se particolarmente ricca di grassi e di cai rosse, che portano ad
un aumento del testosterone. Anche un consumo elevato di calcio può fare
aumentare il rischio. Al contrario, tra i fattori protettivi, oltre al consumo
di vegetali è importante inserire nella dieta la vitamina E, il selenio e
l’estratto di pomodoro che contiene il licopene, capace di ridurre i livelli
ematici di Igf-1, proteina che stimola la crescita delle cellule del cancro
prostatico .

Gli studi sul possibile ruolo di agenti infettivi quali
batteri e virus come causa del tumore prostatico hanno portato a risultati
contrastanti, poiché al momento non ci sono prove certe, sebbene sia stata
osservata la presenza di Herpes virus (trasmissibile con i rapporti sessuali)
in alcune cellule di tumore prostatico2.

La
prostata può essere interessata da una patologia benigna, premaligna o maligna
.
Tra le patologie benigne ci sono la prostatite, cioè l’infiammazione/infezione
(che può essere acuta con episodi anche in giovane età e cronica) e l’«ipertrofia
prostatica benigna», un ingrossamento della parte di prostata più vicina
all’uretra legato all’età del paziente. Si tratta di una patologia progressiva,
che comincia verso i 50-60 anni e si presenta con un aumento volumetrico della
prostata, che comprime e rende meno elastica l’uretra, determinando difficoltà
di svuotamento completo della vescica con rischio di complicanze legate alla
parziale ritenzione dell’urina.

Tra le lesioni premaligne della prostata ci sono la «iperplasia
adenomatosa atipica» (Iaa) e la «neoplasia intraepiteliale prostatica» (Pin)3. La prevalenza delle
lesioni preneoplastiche aumenta con l’età del paziente e precede di circa 5
anni l’insorgenza dell’adenocarcinoma.

Le patologie maligne della prostata (cioè le varie forme
di cancro) sono: l’adenocarcinoma dei dotti (che è sicuramente l’istotipo più
frequente, rappresentando il 95% dei casi), il carcinoma anaplastico a piccole
cellule, il carcinoma spinocellulare ed il carcinosarcoma. 

I
soggetti più a rischio
e che necessitano di un maggiore controllo sono gli
uomini a partire dai 50 anni d’età e coloro che presentano familiarità per il
cancro prostatico, per i quali è consigliabile effettuare i controlli a partire
dai 40 anni. È bene tenere presente che la presenza o l’assenza di sintomi non è
un criterio discriminatorio, perché questo tumore – in fase iniziale -non dà
una sintomatologia clinica. La diagnosi precoce si basa essenzialmente sulla
visita urologica, sull’ecografia transrettale e sulla valutazione di alcuni
parametri del sangue, in particolare del Psa4. Va detto che per porre la
diagnosi di carcinoma prostatico è sempre necessaria la biopsia prostatica, la
cui esecuzione viene decisa sulla base della visita urologica e sull’esame di
specifici parametri.

L’aggressività del tumore viene definita dal referto
istologico della biopsia, in base alla classificazione secondo Gleason (5
livelli), mentre la sua estensione viene valutata con la scintigrafia ossea, la
Tac o la Pet-Tac e la risonanza magnetica.

Le
opzioni di trattamento di un tumore prostatico allo stadio iniziale sono
: la
sorveglianza attiva o monitoraggio attivo, l’intervento chirurgico, la
radioterapia a fasci estei o la brachiterapia, la terapia ormonale e l’attesa
sorvegliata. Ciascuna di queste opzioni presenta pro e contro, quindi la scelta
va fatta valutando le rispettive conseguenze e l’età del paziente.

La sorveglianza attiva prevede regolari controlli del
Psa e biopsie della prostata, per stabilire se il cancro è stabile o in
crescita, in modo da trattare chirurgicamente o con radioterapia solo chi ne ha
davvero bisogno, poiché le forme di cancro non sono tutte aggressive allo
stesso modo. È una metodica applicata agli uomini giovani e con tumore allo
stadio iniziale, che permette loro di vivere normalmente, ma con l’incognita di
un possibile aggravamento e con il fastidio delle biopsie ripetute.

L’intervento chirurgico sulla prostata («prostatectomia»)
e sugli annessi è indicato quando il tumore è allo stadio iniziale e limitato
all’interno della capsula prostatica. È riservato alle persone che abbiano
un’aspettativa di vita di almeno 10 anni, quindi non viene eseguito in età
avanzata.

È radicale, quindi libera dal tumore completamente
(salvo eventuali future recidive), ma il paziente va purtroppo incontro al
rischio di incontinenza urinaria (20-40% dei casi) e di impotenza (80% dei
casi). Da alcuni anni, per limitare il rischio d’impotenza, diversi urologi
praticano la chirurgia nerve sparing, che conserva l’innervazione.
Tuttavia esistono limitazioni alla sua applicazione, poiché potrebbe esporre il
paziente ad un più elevato rischio di recidive. Sicuramente questo tipo di
chirurgia non può essere praticato, se il tumore supera la capsula prostatica,
perché delle cellule neoplastiche potrebbero rimanere vicino ai nervi, causando
successivamente una recidiva. La radioterapia a fasci estei o la
brachiterapia, praticata inserendo diverse fonti radioattive direttamente nella
prostata, sostituisce a tutti gli effetti l’intervento chirurgico, non presenta
i rischi di decesso correlati all’intervento, ma implica la comparsa di cistiti
durante e dopo il trattamento, possibili danni alla vescica ed al retto e,
anche in questo caso, rischio d’impotenza (30-50% dei casi).

La terapia ormonale con antagonisti del testosterone
praticata da sola non sconfigge tutte le cellule tumorali, ma può tenere sotto
controllo la malattia per mesi o anni, finché il tumore resta
androgeno-dipendente e può inoltre essere addizionata alla chirurgia e alla
radioterapia. A seconda della terapia usata ci sono effetti collaterali
variabili, che possono comprendere ginecomastia, vampate di calore, impotenza e
mancanza di desiderio sessuale. Quando il tumore non risponde più alla terapia
ormonale è ancora possibile passare alla chemioterapia. L’attesa sorvegliata
consiste nel monitoraggio con Psa dei pazienti più anziani o che hanno altri
problemi di salute per cui chirurgia o radioterapia sono controindicate. Va
detto che spesso il cancro della prostata cresce molto lentamente, al punto da
non creare problemi in un paziente già avanti negli anni. Nonostante la sua
diffusione, il tumore prostatico non è un big killer, come può essere ad
esempio il melanoma, che può uccidere in 6 mesi.

Spesso
le cure seguite per il tumore della prostata hanno quindi gravi ripercussioni
sulla vita sociale e di coppia del paziente, oltre che a livello psicologico.
In particolare, per quanto riguarda la vita di coppia dopo una diagnosi di
tumore o di altra grave patologia, è stato recentemente pubblicato uno studio
su Cancer (che ha preso in esame tumori cerebrali e sclerosi multipla),
riguardante 515 pazienti da cui è emerso che il 12% delle coppie va incontro a
separazione o divorzio, se ad uno dei coniugi viene diagnosticato un cancro. In
particolare tende a separarsi il 21% delle coppie se ad ammalarsi gravemente
(quindi non solo di cancro) è lei, contro il 3% se il malato è lui e si tratta
prevalentemente di coppie di giovani. Il cancro, da malattia della persona,
diventa quindi malattia della coppia e della famiglia, per il trauma che esso
comporta ed i gravi disagi fisici e psicologici sia del paziente, sia di chi
gli sta accanto. Purtroppo i pazienti lasciati dal coniuge vanno più facilmente
incontro a recidive, perché meno motivati a seguire le cure e i controlli con
costanza e forse perché più indeboliti a livello immunitario, a causa della
sofferenza psicologica. Va detto che, nel caso del tumore della prostata,
attualmente, dopo la terapia, è possibile fare ricorso a protesi impiantate chirurgicamente
o a trattamenti farmacologici per ovviare al problema dell’impotenza, che
purtroppo spesso mina l’autostima del paziente (inducendo talora al suicidio) e
il rapporto di coppia. Tuttavia, forse sarebbe meglio aiutare le persone a
comprendere un rapporto si basa su cose diverse dalla sessualità, che
sicuramente è importante, ma non essenziale. Quando esistono amore vero,
affetto reciproco e interessi comuni, la limitazione della sessualità è un
problema superabile, soprattutto grazie alla consolazione che c’è ancora del
tempo da trascorrere insieme, nonostante la malattia. È altrettanto importante
essere consapevoli che il proprio valore come persona è immutato, nonostante la
malattia, anzi è maggiore proprio per il coraggio dimostrato nell’affrontarla.

Rosanna Novara
Topino

Glossario
 

Adenocarcinoma / adenoma:
adenocarcinoma è un tumore maligno del tessuto epiteliale, che prende
origine dall’epitelio ghiandolare. Se il tessuto ghiandolare è anormale, ma il
tumore è benigno, si parla invece di adenoma.

Antigene: sostanza
di provenienza ambientale o formatasi all’interno dell’organismo, che può
essere riconosciuta dal sistema immunitario. Viene definita immunogena quando
stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi contro di essa. Il sistema immunitario
elimina o neutralizza qualsiasi antigene riconosciuto come estraneo o
potenzialmente dannoso.

Eziologia: in
medicina è lo studio delle cause di malattia.

Ginecomastia: anomalo
ingrossamento delle mammelle maschili. Può essere vera, quando vi sia una
eccessiva conversione del testosterone in estrogeni, o iperprolattinemia, o a
seguito di ormoni femminili, o per incapacità del fegato di smaltire gli
estrogeni in eccesso. È invece falsa, quando è semplicemente dovuta a un accumulo
di grasso: in questo caso si parla di lipomastia.

Incidenza: numero
di nuovi casi diagnosticati in una popolazione di riferimento (ad esempio,
100.000 persone) in un arco di tempo, solitamente un anno.

Licopene: appartiene
al gruppo dei carotenoidi ed è abbondante nel pomodoro. È una sostanza
lipofila, quindi viene assorbito dai grassi e ha elevate proprietà
antiossidanti. È una molecola scavenger, cioè spazzina di radicali liberi,
molecole implicate nell’insorgenza dei tumori.

Macrofagi: detti
anche istiociti, sono cellule della difesa immunitaria aspecifica, con proprietà
di fagocitosi, cioè capacità di inglobare nel proprio citoplasma detriti
cellulari e particelle estranee. Ricoprono il ruolo di cellule spazzine
dell’organismo.

Melanoma: è il
più aggressivo dei tumori della pelle, poiché utilizza sia la via ematica, che
quella linfatica per diffondere le metastasi. Può prendere origine da un neo
cutaneo, ma non necessariamente, e può formarsi ovunque. Negli ultimi anni la
sua frequenza è notevolmente aumentata rispetto al passato anche a causa della
tendenza a esporsi a lungo al sole e alle lampade abbronzanti.

Per-Tac: tomografia
assiale computerizzata a emissione di positroni.

Psa (valori e rischio tumore):
il Psa –
antigene prostatico specifico – è un «marcatore» del tumore prostatico. Si
misura attraverso un’analisi del sangue: •
0-2,5 ng/ml: rischio basso; • 2,6-10
ng/ml: rischio moderato; • oltre 10 ng/ml: rischi
elevato.

Prevalenza: la
prevalenza dei pazienti oncologici è il numero di persone che hanno
precedentemente avuto una diagnosi di tumore, nella popolazione generale. È
influenzata sia dalla frequenza con cui ci si ammala, sia dalla durata della
malattia (sopravvivenza). Tumori meno frequenti ma con buona prognosi tendono a
essere più rappresentati nella popolazione rispetto a tumori molto più
frequenti ma caratterizzati da bassa sopravvivenza.

Rna messaggero: acido
nucleico con la funzione di trasporto dell’informazione genetica dal Dna
contenuto nel nucleo cellulare ai ribosomi del citoplasma cellulare, dove si
effettua la sintesi proteica.

Scintigrafia: esame
di medicina nucleare effettuato dopo la somministrazione di un tracciante
radioattivo, che si accumula preferenzialmente nel tessuto che si intende
studiare. È utilizzata per evidenziare la presenza di metastasi tumorali
localizzate nelle ossa.

Testosterone: ormone
sessuale maschile del gruppo androgeno, prodotto principalmente dalle cellule
di Leydig dei testicoli e, in minima parte, dalle ovaie e dalla corteccia
surrenale. Nell’uomo è deputato allo sviluppo degli organi sessuali e di tutto
l’apparato genitale, nonché dei caratteri sessuali secondari come la barba, la
distribuzione dei peli, il timbro della voce e la muscolatura. Nella pubertà
interviene anche nello sviluppo scheletrico, limitando l’allungamento delle
ossa lunghe ed evitando una crescita sproporzionata degli arti.

R.N.T.

Note (tecniche)
esplicative

 

(1) In particolare, vi sarebbero tre geni coinvolti
nell’eziologia di questo tumore: il Rnasel (detto anche Hpc1), la cui mutazione
può predisporre a infezioni virali; l’Msr1, importante per la risposta che i
macrofagi possono dare agli antigeni estei e la cui mutazione predispone alle
infezioni, soprattutto batteriche; il Brca2, il cui prodotto normale è
coinvolto nella riparazione di tratti cromosomici danneggiati.

(2) Secondo un recente studio di
E. Platz pubblicato su Cancer Epidemiology, Biomarkers & Prevention
dell’«American Association for Cancer Research», la presenza di infiammazione
cronica nel tessuto prostatico benigno è associabile a un aumentato rischio di
tumore prostatico più aggressivo, anche nel caso in cui il livello del Psa
(antigene prostatico specifico) sia basso. Lo studio che ha coinvolto 18.882
pazienti ha dimostrato che quelli con il tessuto prostatico benigno infiammato
hanno probabilità 1,78 volte maggiore di ammalarsi di tumore della prostata e
2,24 volte in più che si tratti di una forma più aggressiva.

(3) Nella Iaa è evidente una proliferazione
dell’epitelio prostatico con la formazione di gruppi di neoformazioni
ghiandolari ben delimitate, senza quadro d’infiltrazione. Nella Pin, che può
essere di basso e di alto grado, si osserva una proliferazione epiteliale senza
neoformazione ghiandolare, con formazione di più strati di cellule, che
presentano alterazioni nucleari e nucleolari sempre più marcate mano a mano che
si va verso il grado più elevato e che presentano notevoli analogie con il
quadro riscontrabile nell’adenocarcinoma prostatico, la varietà più diffusa di
cancro della prostata.

(4) I parametri principali sono:
il Psa ematico, il rapporto Psa libero/Psa totale, la Psa velocity, ovvero la
velocità con cui il Psa aumenta nel tempo, il Pca3, nuovo marcatore su base
genetica (Rna messaggero), il Psma (antigene di membrana prostatico specifico)
e il Psap (fosfatasi acida prostatica specifica). Per quanto riguarda il Psa,
il marcatore più ricercato per effettuare la diagnosi, si tratta di una
glicoproteina contenuta nelle cellule epiteliali prostatiche acinari e dei
dotti sia normali, che neoplastiche. Si ritiene che in presenza di un elevato
ricambio cellulare (come avviene nei tumori) ci sia una perdita di coesione tra
le cellule epiteliali e i lumi dei dotti ghiandolari, con conseguente
immissione del Psa nel sangue.

Tags:

patologie oncologiche, indice di sopravvivenza, prostata

Rosana Novara Topino




Una primavera solo all’inizio

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 21

Le «primavere arabe»
hanno suscitato entusiasmi e retoriche che paiono oggi non completamente
giustificati. La libertà religiosa, ad esempio, sembra avee fatte le spese. L’islamologo
gesuita Samīr Khalīl Samīr ci racconta ciò che per lui è il grande passo avanti
delle rivoluzioni che dal 2011 stanno, ancora oggi, cambiando il volto
dell’area mediorientale. Nonostante le problematiche.

«Una “primavera” non consiste nei primi
frutti che si possono raccogliere, spesso acerbi e aspri, bensì nello slancio
verso la coscienza democratica che germina nella testa di milioni e milioni di
persone, in gran parte giovani». Parola di Samīr Khalīl Samīr nell’introduzione
al suo libretto Quelle tenaci primavere arabe, edito dalla Emi.

Gesuita egiziano, Samīr Khalīl Samīr è un islamologo
attento ai processi culturali e sociali dell’area mediorientale. Lo
intervistiamo per farci raccontare quanto, secondo lui, le cosiddette primavere
arabe abbiano influito sulla libertà religiosa in quella zona e, in particolar
modo, in Egitto. Secondo un recente studio del Pew Research Center,
infatti, sembra che l’effetto delle rivoluzioni sulla libertà religiosa sia
stato per lo più negativo.

Può
fare un bilancio delle cosiddette «primavere arabe» iniziate tre anni fa?

«Si
sente spesso dire che la primavera araba è diventata l’inverno arabo. Però
secondo me ciò che si è realizzato negli ultimi tre anni è un cambiamento
profondo che porterà delle conseguenze positive anche laddove niente si è
fatto, come nella penisola araba.

Che
cosa sta cambiando? Innanzitutto per la prima volta si sa che si può
protestare. E non protestare nel vuoto, ma per cambiare.

C’è
stata l’epoca delle rivoluzioni: nel ’52 in Egitto con Nasser, nel ’54 in Iraq,
nel ’58 in Siria. Tutte conseguenze di quella crisi enorme che è stata la
creazione dello stato d’Israele. Oggi la gente prende coscienza che quelle
rivoluzioni, di solito militari e autoritarie, non possono continuare, e dice:
“Grazie per ciò che si è fatto, ma adesso è troppo”.

In
Egitto fino agli anni ’50 c’era libertà a tutti i livelli, ma anche ingiustizia
sociale, perché pochi privilegiati avevano tutte le possibilità, mentre la
massa del popolo viveva con difficoltà. La rivoluzione introdotta da Nasser ha
lavorato su questo, ad esempio con le riforme agrarie. Ma politicamente ha
fatto un passo indietro. Oggi, con le primavere arabe, tutti sanno che non solo
è possibile protestare in parole, ma anche cambiare le cose».

Le
primavere arabe sono state accolte dall’Occidente con grande entusiasmo. Sembra
però che col tempo la situazione della libertà sia peggiorata, in particolare
per la libertà religiosa, che già era molto compressa.

«A
fare la rivoluzione in Egitto e Tunisia sono stati essenzialmente i giovani,
che hanno avuto un ruolo decisivo suscitando la presa di coscienza in tutta la
popolazione. Ma poi, quando si è trattato di fare un governo, non essendo
preparati alla gestione del potere, ognuno è andato su una linea diversa: in
Egitto hanno fatto più di 10 partiti.

Gli
unici organizzati per prendere il potere erano gli islamisti. I Fratelli
musulmani, creati nel ’28, hanno infatti una struttura molto disciplinata: un sistema
gerarchico nel quale ognuno obbedisce al superiore, e non sa niente di più.
Hanno un programma molto semplice, sempre uguale fin dalle origini: “L’islam è
la soluzione”. Per qualunque domanda: economica, politica, sociale, religiosa.
Non è un affare intellettuale ma emotivo. L’islam è sacro. E poi i Fratelli
musulmani si sono moltiplicati grazie al finanziamento del Qatar e, all’inizio,
dell’Arabia saudita, prendendo possesso delle moschee e spiegando alla gente
che quando l’Islam avesse preso il potere sarebbe stato il paradiso.

Ecco
perché hanno vinto le elezioni. Benché abbiano ottenuto solo il 51,7%.

E
l’Occidente ha subito detto: “Ecco! Questa è la democrazia!”. L’Occidente ha
sostenuto che Morsi rappresentava il potere del popolo. In realtà il popolo,
dopo un anno, ha visto che la situazione sociale non era cambiata. Anzi era
peggiorata, anche a causa delle regole introdotte per l’islamizzazione del
paese che hanno fatto crollare il turismo, la prima fonte di entrata per
l’Egitto, e ha reagito: “Noi vogliamo la riforma sociale, la riforma politica,
e siamo stati delusi”».

Quindi
c’è stata la nota raccolta di firme per le dimissioni di Morsi.

«I
giovani hanno ripreso il contatto con la popolazione e hanno avviato una
petizione. Dopo 11 mesi di governo, le firme raccolte per mandare via Morsi
sono state 22 milioni. Non si era mai vista in Egitto una petizione di questo
tipo. E poi, un mese dopo, la gente è scesa per strada. In Egitto, grazie a
Dio, non girano molte armi, quindi la gente non poteva fare niente se non con
l’aiuto dell’esercito. Perché dal ’52 l’esercito è il potere che va con il
popolo contro i regimi. E dunque l’esercito è venuto a sostenere il popolo, non
per fare un colpo di stato, come ho letto nella maggioranza dei giornali in
Occidente, ma per creare un governo provvisorio, retto da un magistrato che era
stato nominato da Morsi stesso come uno dei capi della magistratura. Poi ha
invitato tutti i partiti a presentarsi, e tutti hanno accettato fuorché i
Fratelli musulmani, che hanno detto: “O noi o niente”.

Io dico: “Meno male che i Fratelli musulmani hanno preso
il potere”. Perché da 90 anni si presentavano come la soluzione di tutti i
problemi, e la gente semplice ci credeva. Ma ora tutti hanno potuto finalmente
vedere che non hanno cercato di migliorare la situazione sociale, politica, ma
di islamizzare, cambiando i programmi scolastici, le strutture, la televisione,
provando a introdurre la sharia. Ecco perché secondo me c’è una presa di
coscienza: è frutto dell’esperienza! E questo è un passo avanti. Ma non abbiamo
ancora risolto i nostri problemi: ci vorrà credo almeno un decennio per
strutturare democraticamente paesi che non hanno mai praticato la democrazia».

Come
hanno reagito i Fratelli musulmani alla rimozione di Morsi?

«Il
potere islamista è simile ai regimi precedenti: cerca di imporsi. Per questo ci
sono ancora violenze. In Egitto ci sono stati attacchi contro le chiese, contro
i più deboli, quelli che non hanno potere e non cercano di prenderlo. Non c’è
nessuna giustificazione a questo se non il fanatismo che è una tendenza forte e
fondamentale negli islamisti. È un’ideologia radicale che vuole imporre
l’applicazione della religione e che non piace alla maggioranza dei musulmani.

L’ascesa
al potere dei Fratelli musulmani è stata un passo avanti dal punto di vista
della presa di coscienza che una religione può anche diventare una dittatura.
Quando sono arrivati al potere, in un mese hanno fatto da soli una nuova
Costituzione, e abbiamo dovuto votarla nel giro di una settimana. Ma come si fa
a leggere e ponderare una Costituzione in una settimana? Nessuno lo crederà, ma
l’Egitto ha il 40% di analfabeti che, per questo, seguono ciecamente il
predicatore che tocca la corda sensibile della religione».

E
in Tunisia com’è la situazione?

«In
Tunisia è andata meglio, perché lì c’è una lunga esperienza di laicità dello
stato. Nella Costituzione tunisina c’è la parità tra uomo e donna. La Tunisia è
l’unico paese islamico al mondo ad aver vietato la poligamia, che ha imposto
l’uguaglianza tra uomo e donna nell’eredità, mentre il Corano dice che la donna
deve ricevere la metà di ciò che ricevono in eredità i suoi fratelli. La
Tunisia quindi aveva già fatto ben altri passi avanti. Anche se ora si sta
riducendo la laicità, e l’islamismo si diffonde, rimane però un Islam molto più
democratico».

Tutto
ciò sembra confermare l’opinione di chi sostiene che la libertà religiosa si
sia ridotta.

«Nell’area
mediorientale e nordafricana la situazione dei cristiani oggi è più difficile
di prima. Proprio a causa di questo background islamista.

L’Islam
storicamente categorizza le persone in tre gruppi: i musulmani, che hanno tutti
i diritti e doveri. La società deve essere musulmana. All’opposto c’è l’ateo. È
inammissibile non credere. L’ateo non può vivere nella società musulmana. La
terza categoria è intermedia: sono i protetti, cioè gli ebrei e i cristiani.
Essi sono in una posizione intermedia perché credono in Dio, ma non sono
musulmani, e quindi non hanno la credenza perfetta. Per cui possono vivere
nella società musulmana, ma sottomessi.

Questo
sistema dall’Ottocento in avanti si è lasciato influenzare dall’Occidente. Oggi
la categoria dei sottomessi esiste ancora, però è meno forte.

In
Egitto una moschea si può costruire anche senza permessi, e nessuno la può
distruggere.

Per
costruire una chiesa bisogna chiedere il permesso e possono passare anche dieci
anni prima che venga data l’autorizzazione. La richiesta rischia di non
arrivare mai a conclusione, perché bloccata nell’iter burocratico da qualche
islamista. Per cui ogni tanto viene distrutta una chiesa perché costruita in
modo illegale. La discriminazione nel concreto della vita è forte. Anche
convertirsi dall’Islam al cristianesimo è impossibile. L’unico modo è emigrare».

Quindi
come vede lei la condizione dei cristiani nell’area, e come vede il loro
futuro?

«In
Nord Africa cristiani ce ne sono pochi. Ci sono alcune migliaia di nordafricani
diventati cristiani, in particolare in Algeria. In teoria non possono. Si fa di
nascosto ma con il rischio della prigione. In Arabia saudita gli apostati
vengono uccisi. Nella penisola arabica ci sono più di due milioni di cristiani:
filippini, srilankesi, indiani, etiopi, ecc. Essi non hanno il diritto di
ritrovarsi insieme neppure in privato. In Occidente nessuno dice nulla su
questa ingiustizia perché l’Arabia è ricca.

Ciò
che noi chiediamo come cristiani è di essere semplicemente dei cittadini.

Sul
passaporto egiziano, come su qualunque documento, è obbligatorio indicare la
religione. Quando ho dovuto rifare il passaporto in ambasciata a Parigi, alla
voce “religione” ho scritto “ateo”. Poi alla voce “mestiere”, “monaco”. Sono
stato subito richiamato, e l’ambasciatore mi ha chiesto: “Sa che cosa ha
scritto? Di essere monaco e ateo”. Io allora gli ho chiesto che cosa avesse a
che fare la religione con lo stato, e gli ho detto che è un affare tra me e
Dio. Poi gli ho richiamato il principio della rivoluzione egiziana nasseriana
del ’52: “La religione appartiene a Dio, la patria a tutti”. A quel punto
l’ambasciatore mi ha detto che ero troppo avanzato, che ci vuole del tempo. Io
gli ho replicato che con il suo ragionamento anche mille anni non sarebbero
sufficienti.

Tutto
questo suscita domande tra i cristiani del medio oriente. Molti mi dicono:
“Abuna, io voglio vivere e morire qui. Ma i miei figli? Devo pensare a loro. È
per questo che ho deciso di emigrare. Perché qui non si può vivere”. Io rispondo
loro che hanno ragione, ma anche che c’è un’altra possibilità: rimanere per
cambiare la società. Io sono convinto che questa è la missione dei cristiani:
come dice il Vangelo, siamo il lievito nella pasta. La storia e gli studi del
centro che ho creato a Beirut dicono che sono stati i cristiani nel corso della
storia ad aver plasmato gran parte della cultura mediorientale: sono stati il
lievito. Oggi abbiamo questa missione: diffondere lo spirito del Vangelo».

Luca Lorusso

Samir Khalil
Samir

Nato al Cairo nel ’38, Samir
Khalil Samir
è gesuita dal ’55. Ha compiuto gli studi in Francia, tra cui
un dottorato di islamistica ad Aix-en-Provence. A Roma ha fatto un dottorato in
scienze religiose al Pio (Pontificio Istituto Orientale), istituto in cui
insegna da 40 anni. Ha insegnato per 12 anni anche al Pisai (Pontificio
Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica). E insegna regolarmente altrove nel
mondo. È stato anche impegnato per sette anni in Egitto per lo sviluppo sociale
nei villaggi e nei quartieri poveri del Cairo, lanciando, tra le altre cose, un
insieme di piccole scuole per analfabeti musulmani e cristiani. Da più di
quarant’anni è impegnato a far conoscere il patrimonio culturale dei cristiani
di lingua araba, avendo essi una teologia, un pensiero essenzialmente
improntato al rapporto con i musulmani, sviluppati dall’ottavo secolo in
avanti, sconosciuto agli stessi arabi. Ha pubblicato una sessantina di libri in
questo settore, e ha creato un centro che promuove tali studi, il Cedrac, a
Beirut, città in cui vive e insegna (all’università Saint-Josef).

«Essenzialmente la grande letteratura
arabo-cristiana appartiene al Medio Evo, dall’ottavo al quattordicesimo secolo.
Sia per i musulmani che per i cristiani è il periodo aureo. È in questo periodo
che i cristiani hanno dato un contributo di prim’ordine alla cultura araba, che
quindi non è esclusivamente islamica. Dal 14° secolo in avanti è iniziata
l’epoca della decadenza, durata fino al 19° secolo, quando è nato un nuovo
“rinascimento”, di nuovo con il grande contributo dei cristiani. Il ruolo
culturale dei cristiani nel mondo arabo è grandissimo. Perciò abbiamo una
cultura comune, e su questa base possiamo costruire, proporre un progetto
condiviso».

L.L.
Egitto 2014

Nuovo presidente,
vecchi padroni

Il nuovo presidente dell’Egitto è
Abdel Fattah al Sissi, ex ministro e ufficiale dell’esercito, che si è
confermato il vero padrone del paese africano. Al Sissi si è imposto con oltre
il 96% dei suffragi, percentuale che rafforza ancora di più i dubbi sulla
democraticità delle elezioni egiziane. Queste erano state indette per il 26 e
27 maggio, ma la scarsissima affluenza ai seggi aveva indotto il Comitato
elettorale (Pec) a prolungare di 24 ore la possibilità di votare. Nonostante
questo, si è recato alle ue soltanto il 46,9% degli egiziani. Nel corso
dell’ultimo anno, il movimento della Fratellanza musulmana, che aveva vinto le
elezioni del giugno 2012, è stato dichiarato fuorilegge. Il suo principale
rappresentante, Mohamed Morsi, presidente deposto da un colpo di stato (luglio
2013), è attualmente sotto processo.

Tags: libertà religiosa, fondamentalismo, religione, primavere arabe, Egitto, Fratelli Musulmani

Luca lorusso




Pillole «Allamano» 6. Siate forti, energicie virili nell’apostolato


Poche settimane fa, un mio caro confratello portoghese mi comunicava che la madre superiora di un convento di suore contemplative gli aveva affidato il compito di preparare alcune «palestre» che potessero aiutare spiritualmente le sorelle della comunità. Associare però l’età media delle monache nonché agli acciacchi che non le risparmiano alle «palestre» che le attendevano mi ha fatto pensare che, forse, qualcosa non andava. Premetto che il confratello portoghese parla italiano in maniera pressoché perfetta, ma, pur essendo lui stesso un atleta, qualcosa mi faceva dubitare del fatto che gli fosse stato chiesto di far fare della ginnastica alle suore, e che piuttosto mi trovavo dinnanzi a uno dei tanti «falsi amici» di cui le nostre lingue neolatine sono ricche. Con il termine «palestra» in portoghese si intende infatti una conferenza e, per estensione al nostro gergo religioso, una breve giornata di ritiro e meditazione spirituale.

Ho ripensato a questo piccolo qui pro quo riflettendo sul titolo della «pillola» allamaniana di questo mese: «Siate forti, virili, energici», tutta roba da palestra, verrebbe da dire. Che il culto del fitness, del muscolo scolpito che tanto di moda va in questi giorni, sia proposto dal nostro Fondatore come modello per l’evangelizzatore? Certamente questo non è il caso … o forse sì, almeno in parte.


Oggi mi concedo qualche riga di questo articolo seduto nella cappella della nostra comunità di Yeokgok, una delle tante città satellite dell’hinterland di Seul, capitale della Corea del Sud. Sono le sei e mezza del mattino e attendo che arrivino le prime persone che parteciperanno alla messa delle 7. Già da almeno un quarto d’ora, come ogni giorno, alcune donne hanno iniziato a fare ginnastica aerobica nel giardinetto pubblico antistante. Si tratta di persone che nel giro di poche ore verranno risucchiate e triturate nel ritmo impressionante della macchina produttiva coreana, ma che non disdegnano la possibilità di perdere un po’ di tempo e un po’ di peso in un’attività fisica che permetterà loro di affrontare gli stress di un difficile quotidiano con energia e benessere. Tutte le mattine quelle donne sono lì, a fare palestra.

Quante volte mio fratello ha provato a convincermi della necessità di fare lo stesso, lui che da una vita fa e fa fare sport. La sua specialità è scalare rocce, cercando appigli infinitesimali, appoggiando i piedi sull’inesistente. Per far ciò c’è bisogno di energia, forza, ma soprattutto di grande disciplina, cosa che ti aiuta a contemplare il bello in ciò che altri vedono soltanto come inutile fatica, fino al punto da diventare un testimonial di questo benessere.

Tempo fa avevo l’occasione di passare sovente davanti a una di quelle palestre che mettono i muscoli dei propri clienti in vetrina. La miglior pubblicità la facevano proprio loro, impiegati, studenti e casalinghe, sbuffando come treni su cyclette ancorate saldamente al suolo, ma immaginariamente lanciate verso la volata finale della Parigi – Roubaix. La loro fatica e lo sforzo visibile diventavano un messaggio immediatamente percepibile: anche tu ce la puoi fare, entra, suda e starai bene.

Giuseppe Allamano sapeva che una missione esigente come quella che attendeva i suoi missionari poteva essere portata avanti soltanto grazie a un fisico capace di reggere le difficoltà di una vita spartana e a uno spirito forte, volitivo, intransigente. Soprattutto, era convinto che disporre di queste caratteristiche presupponeva una grande disciplina e tanto allenamento. Prima di lui, lo stesso san Paolo aveva detto qualcosa di simile parlando della sua missione, della volontà che lo animava a fare tutto per il Vangelo, e a farlo per tutti (cfr. 1Cor 9, 22-23). Anche lui prevedeva la necessità di un allenamento spietato: «Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9, 26-27). Chiaramente, qui c’è in gioco ben di più che il semplice benessere fisico.

E noi, non potremmo dire la stessa cosa parlando della missione che ci attende oggi? Che cosa potrebbe voler significare «essere energici, forti e virili nell’apostolato» per noi, cristiani e missionari nell’Europa attuale? Il termine «virili» a noi suona male perché sembra escludere tutte le missionarie che operano per la causa e la diffusione del Vangelo. Useremo perciò il termine nella sua accezione più vasta che comprende varie sfumature, tutte utili a chiarire il concetto che l’Allamano vuole trasmetterci: forza, maturità, risolutezza, coraggio, determinazione. Del resto, l’Allamano voleva che le sue stesse missionarie potessero avere queste caratteristiche ben marcate in modo da poter affrontare il rigore della missione dei suoi tempi con sufficiente disinvoltura.

Un missionario con queste caratteristiche è dunque un missionario capace di compiere un lavoro adesso o di essere potenzialmente in grado di poterlo fare in futuro, consapevole e convinto di ciò in cui crede, perseverante nella sua missione e con la forza fisica e spirituale sufficiente per portarla avanti.

Detto così, assumere la pillola di questo mese parrebbe un lavoro per Superman, ma non lo è. La miglior prova di questo è che ci è prescritta dallo stesso Allamano, un uomo forte ed energico spiritualmente, ma fisicamente limitato al punto da dover rinunciare ai suoi sogni missionari di gioventù per dedicarsi a un’attività che, geograficamente parlando, non si sposterà mai molto dalla sua Torino.

Giuseppe Allamano scopre un modo suo di essere missionario, con un’inventiva e una capacità di visione davvero grandi. Crea e dirige l’avventura evangelizzatrice dei suoi missionari e delle sue missionarie a partire dal Santuario della Consolata. Una volta capito e individuato il fine della sua vocazione, energia, forza, determinazione e perseveranza vengono messi completamente al servizio della missione che si concretizzerà nella fondazione di due Istituti missionari e nell’invio di tanti altri preti, fratelli e suore.

Personalmente si riserva di frequentare altre frontiere, più nascoste e a volte più insidiose, quelle che si snodano nei meandri del cuore dell’uomo. Fisicamente, la missione non lo porta lontano ma spiritualmente arriva dappertutto. L’energia che gli occorre per portare avanti tutto il suo lavoro è sempre molta. Ci vuole allenamento, perseveranza, fatica; anche il lavoro spirituale ha bisogno di ore di palestra.

Una missione così caratterizzata impedisce a coloro che la vivono di presentarsi al mondo come persone accidiose, fiacche, indecise, deboli. L’Allamano rifuggiva le mezze volontà, il non essere né caldi né freddi. La passione riscalda e il Vangelo se servito tiepido e senza sale viene facilmente lasciato nel piatto. Nessuno vuole imporre la propria fede, ma proporla con appassionata e instancabile determinazione, questo sì.

Il missionario in Europa si affaccia a un contesto culturale liquido, e al contatto con esso il rischio di trasformarsi in poltiglia o fango è più che reale. Non è facile annunciare Gesù Cristo con la forza, l’energia e la determinazione di un San Paolo senza correre il rischio di essere banalizzato, cancellato o, ciò che succede in massima parte, totalmente ignorato. In una società come la nostra dove trionfa la legge del «mi piace», dove molti sposano il relativismo pensando che sia l’unica condizione per poter essere veramente liberi, essere Vangelo non è facile: annunciare un messaggio eterno e vedersi rimossi nello spazio di un click è sicuramente un’esperienza che non fa piacere. La rapidità che il mondo d’oggi richiede per competere è sicuramente un elemento da non sottovalutare. Sono rapide e frenetiche le relazioni, lo è la routine di una famiglia, lo è il tempo che porta un giovane dalla pubertà alla noia del déjà-vu, senza più riti di passaggio a segnare una crescita graduale.

È un mondo che non va demonizzato. In fondo è la realtà in cui tutti sguazziamo. È un mondo, anzi, che richiede energie per essere capito e studiato, fortezza per sostenerne l’impatto, determinazione e perseveranza per poter offrire una narrazione differente, un messaggio basato sulla solita storia di Gesù, così vecchia e allo stesso tempo così straordinariamente nuova.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi si dedicassero senza risparmio allo studio dell’ambiente e della cultura. Quanto valga tutto ciò per la cultura Occidentale di oggi, così incredibilmente ricca e altrettanto incredibilmente sfuggente, è sotto gli occhi di tutti. La prima regola per entrare con discrezione e educazione in una cultura è quella di imparare la lingua delle persone che la vivono. Bisogna dedicarsi con energia a imparare i linguaggi della nostra società, quello dei giovani, della comunicazione, il nuovo linguaggio dei poveri.

Come «palestra» ed esercizio per temprarsi all’attività missionaria Giuseppe Allamano suggeriva anche il lavoro manuale, quello che allena alla fatica e alla costanza, insegnando nel contempo a sporcarsi le mani. Credo che questa dimensione del lavoro vada riscoperta e vissuta perché è alla base di quella straordinaria rete di gratuità e di volontariato che è stata capace di costruire solidarietà e chiesa per tanti anni e che si sta purtroppo perdendo.

Francesco, il nostro papa, si pone su questa linea energica e vigorosa. Nel magistero di Francesco si ritrovano con forza molti temi della missione di sempre, ripetuti con insistenza proprio per dare coraggio agli agenti dell’evangelizzazione: uomini e donne di ogni età, invitati a uscire con il sorriso sulle labbra dalle loro case per annunciare Gesù Cristo al mondo, con addosso il fuoco della missione, con la passione per Cristo e il suo Vangelo. Un’immagine, quella del «fuoco della missione» che appartiene al gergo di Giuseppe Allamano, tanto attuale ieri come oggi.

È interessante notare come nella prospettiva di Francesco perdano abbastanza di significato le categorie di prima o seconda evangelizzazione. L’importante è uscire e annunciare; la differenza la fa il soggetto che riceve l’annuncio. Ciò che è veramente importante è la qualità dell’apostolato, che deve essere fedele, pieno di zelo, coerente e convinto; in altre parole «forte, energico e virile», e per questo motivo bisognoso di tanta, tanta «palestra».

Ugo Pozzoli

Tutte le 10 parole




Caro Amico – 02/2014

All’inizio
di questo mese di giugno celebriamo la Pentecoste: il rombo infuocato dello
Spirito Santo che forza la porta sprangata del cenacolo.

I discepoli di Cristo sentono
disarticolarsi la museruola che serra i loro cuori. Il sudario che imbriglia le
loro lingue nell’unico idioma da loro sempre parlato si straccia.

E il flusso della Parola è
liberato dalle loro bocche e dai loro gesti per riversarsi sui popoli (Atti
2,1-11).

L’estate che si apre di fronte a
noi è un campo vasto nel quale giocare le carte affidateci dallo Spirito: in un
paese lontano, in un campo di formazione e lavoro in Italia, in un
pellegrinaggio, o in spiaggia, in montagna, nel riposo, al quale anche
siamo chiamati per gustare la bellezza del dono delle cose.

Per chi affronta le proprie
ferite con la cura della mamma Consolata, una delle carte da giocare è
certamente la consolazione, stile inconfondibile del missionario che va agli
afflitti, agli affaticati e oppressi.

Consolati, consoliamo.
Da amico
buona Pentecoste,
buona festa della Consolata,
buona estate e buona missione.
Luca Lorusso

Indice:
Editoriale
Amicomondo
Per la preghiera
Bibbia on the road
Parole di corsa
Progetto Etiopia
Missione & Missioni
Io, tu, noi

Luca Lorusso




Milano e i migranti / 1 Il valore aggiunto oltre il bisogno

Secondo il rapporto Caritas
Migrantes
del 2013, la sola provincia di
Milano conta poco meno di 360mila stranieri residenti, un numero appena
inferiore al totale di quelli che risiedono nell’intero Piemonte. La Lombardia è,
nel suo insieme, la prima regione in Italia per numero di stranieri residenti:
un milione e ventottomila persone.
Il gruppo più numeroso è rappresentato dai rumeni (137mila), seguiti da
marocchini, albanesi, egiziani, cinesi, indiani e altri. In questo numero, MC
racconta un percorso di quarantacinque chilometri fra centro e periferie della
Milano multiculturale.

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Milano, uscita della metropolitana, fermata Duomo. A metà delle scale che portano in superficie, un uomo - dai tratti potrebbe essere originario dell’Asia centrale - sta seduto con un bicchiere di carta in mano, in attesa che qualcuno vi depositi qualche spicciolo. Alle sue spalle, un maxischermo sulla facciata di marmo bianco del Duomo riproduce la pubblicità di uno smartphone. Per un attimo, un effetto prospettico crea l’illusione che l’uomo col bicchiere e il telefonino siano parte della stessa proiezione. Salendo la scale l’illusione scompare, ma la suggestione ci mette un po’ a dissolversi. La tentazione di pensare che quell’immagine sia un emblema è forte, ma Milano si muove troppo velocemente e in troppe direzioni per lasciarsi incastrare in una generalizzazione.

Tra la Fiera del Mobile, quasi una prova generale dell’Expo 2015, e la Chinatown di via Paolo Sarpi, a nemmeno un chilometro dalla storica sede del Corriere della Sera in via Solferino; fra i manifesti della Lega contro «Bruxelles che uccide» accanto alla stazione centrale, e i fogli con la scritta «Via i leghisti da San Siro» attaccati sui nomi delle vie intorno a piazzale Selinunte; fra questi frammenti di città e molti altri, c’è «la piazza»: ecco il luogo dell’incontro, delle reti di solidarietà e dei tentativi di condivisione. Ma anche lo spazio delle quotidiane tensioni, degli stili di vita difficili da conciliare, del costante viavai di persone e di culture che a volte non si fermano abbastanza per osservarsi e poi riconoscersi.

Una panoramica sulla città vista dall’Ufficio per la pastorale dei migranti

«“Fate incontrare la gente”: questo è il mio incoraggiamento per i sacerdoti che delle parrocchie». A parlare è don Alberto Vitali, dell’Ufficio per la pastorale dei migranti (Upm) della Diocesi di Milano. Quando le persone si accorgono di avere problemi comuni, come crescere i figli, trovare un lavoro, accudire un malato, continua don Vitali, diventa meno difficile capirsi e venirsi incontro. La Caritas ambrosiana si occupa della promozione umana e del sociale. «Noi ci concentriamo sul fatto che un migrante è un credente», spiega don Alberto, «e partiamo da questo presupposto per organizzare il lavoro della cappellania generale, che conta trenta realtà etniche diverse».

Il sacerdote traccia un quadro molto chiaro delle generazioni di migranti con i quali svolge il proprio lavoro: la prima generazione ha fra le sue caratteristiche un forte legame identitario con il paese d’origine, e vive nel mito del ritorno, anche se spesso è costretta a rassegnarsi al fatto che tale ritorno non avverrà mai a causa della mancanza di risorse economiche. La seconda generazione, invece, è quella della piena crisi di identità. Quest’ultima, che rimane sopita nei bambini, affiora nell’adolescenza, quando magari arrivano le prime «cotte» per un coetaneo e ci si sente rifiutati perché stranieri. Sentirsi improvvisamente diversi genera nei ragazzi un trauma non semplice da superare, e spesso si innesca una ricerca del gruppo di «uguali» nel quale sentirsi accettati. In alcuni casi, che rimangono comunque limitati, questi gruppi di uguali finiscono per essere le gang criminali giovanili di cui si sente ogni tanto parlare. «È paradossale», aggiunge don Vitali, «che in questi casi la voglia di essere “uguali” porti di fatto a unirsi a altri “diversi”». Quanto alla terza generazione, si tratta di persone completamente integrate.

A Milano, spiega Simona Beretta, anche lei in forze all’Upm e curatrice, oltre che ideatrice, del concorso di scrittura Immicreando, sono tre i tipi di enti che si occupano di migranti: il comune, la Chiesa e le associazioni e onlus, ad esempio il Naga. Non c’è una rete strutturata che unisca queste entità. Nonostante ciò, il cornordinamento funziona grazie a costanti contatti e incontri. Nelle singole realtà di quartiere, poi, la presenza di una situazione di difficoltà viene spesso gestita grazie alla comunicazione fra associazioni, parrocchie, uffici pubblici presenti in loco che si segnalano gli uni gli altri i casi di disagio e si cornordinano per dare una risposta. Quanto all’idea di periferia, a Milano occorre tenee in considerazione due tipi: quella dei comuni della prima cintura, e poi il cosiddetto hinterland. «Ma anche per Milano, come per Torino», chiarisce Simona, «la corrispondenza fra migranti e margine geografico non è automatica: basta pensare a posti come via Padova, una delle strade più multietniche della città, che comincia da piazzale Loreto, una zona tutt’altro che periferica». Che la marginalità e il disagio siano, almeno in parte, un effetto di un fallimento urbanistico è un’ipotesi che Simona non rifiuta: «Non si può dire che ci sia stato un vero e proprio progetto di ghettizzazione, ma nemmeno c’è mai stato un progetto per spezzare queste catene urbanistiche. Il resto, poi, lo ha fatto il mercato immobiliare: i prezzi più bassi nelle zone più disagiate hanno attirato, a loro volta, persone alle quali le difficoltà economiche non permettevano di vivere in zone più costose».

Caritas ambrosiana: il valore di un percorso

Il Servizio accoglienza immigrati (Sai) di Caritas ambrosiana nasce nel 2002 per fornire consulenza e orientamento a immigrati e datori di lavoro a seguito della sanatoria prevista dalla legge 189/2002 (Bossi - Fini). Si consolida poi come più ampia risposta alle problematiche migratorie a Milano, in linea con la sensibilità e le priorità dell’allora arcivescovo di Milano, cardinal Carlo Maria Martini, confermato e sostenuto poi dai suoi successori, cardinali Dionigi Tettamanzi e Angelo Scola. Al Sai, che vede la presenza continuativa e operativa di assistenti sociali, avvocati, consulenti di area legale, operatrici dell’area orientamento al lavoro e della segreteria, e la preziosa collaborazione di venticinque volontari, accedono oggi fra le sei e le settemila persone all’anno. Il Servizio offre ascolto, accoglienza temporanea, accompagnamento sociale, consulenza legale. Nelle situazioni di particolare vulnerabilità è previsto un intervento di sostegno diretto. «Ma il soddisfacimento immediato di un bisogno attraverso l’elargizione di denaro per pagare un debito o un servizio necessari all’immigrato», sottolinea il responsabile del Servizio, Pedro
Di Iorio, «è qualcosa a cui ricorriamo il meno possibile. Cerchiamo piuttosto di leggere il bisogno e condividere con la persona che si rivolge a noi l’idea di un piccolo progetto finalizzato a una possibile maggiore autonomia e miglioramento della propria situazione, un percorso durante il quale, ovviamente, ci impegniamo con possibili azioni di accoglienza, accompagnamento ai servizi territoriali e anche di piccolo sostegno economico». Pedro ci tiene molto a dare rilievo a questo aspetto: ciò che gli sta a cuore è scongiurare per quanto possibile il rischio che «il viandante, così come l’operatore sociale che fornisce il servizio, finiscano per fare del bisogno il solo codice di identificazione relazionale, tralasciando invece il valore aggiunto». Un migrante, cioè, non è solo un bisognoso, ma qualcuno cui proporre, nel territorio, percorsi di socializzazione e conoscenza.

«Nei confronti di chi cerca lavoro, Caritas non può intervenire direttamente come fosse un’agenzia interinale: il nostro ruolo è quello di aiutare la persona per un miglior posizionamento nella ricerca attiva del lavoro. Gli strumenti disponibili sono di natura formativa, di base e professionalizzante, di orientamento e informazione che la “piazza” spesso non è in grado di dare».

«Piazza» è un termine che Pedro usa spesso: la definisce il luogo del passaparola, dei network etnici, dove i migranti hanno notizia dei servizi, come quelli offerti dalla Caritas; ma è anche uno spazio frammentato, dove non sempre i canali da percorrere per far fronte alle proprie necessità sono chiari: «Per questo diventa ancora più importante far attenzione a non creare aspettative ingiustificate rispetto a qualunque bisogno che ci viene esposto e fornire ai migranti informazioni che alla gratuità uniscano la qualità».

La mole di lavoro per il cosiddetto front-office, che si occupa fra l’altro di codificare il bisogno il più rapidamente possibile, è ragguardevole: sono quindicimila all’anno le telefonate a cui gli operatori rispondono, una media di quaranta al giorno. «I richiedenti asilo/titolari di protezione internazionale rappresentano il quindici per cento del flusso complessivo di richieste che riceviamo; per il medesimo target di riferimento (protezione internazionale), a Milano il comune svolge azioni di accoglienza e accompagnamento affidate, attraverso una convenzione, alla cornoperativa Farsi Prossimo che gestisce quattro centri d’accoglienza per uomini e uno per donne. I “migranti economici” sono circa l’ottantacinque per cento: l’Italia sta diventando meno appetibile come meta per chi cerca un impiego e anche i migranti della prima ora, quelli che erano stati protagonisti di storie di successo e che oggi si trovano sempre più spesso in condizioni di precarietà, con quel che ne consegue in termini di sgretolamento delle famiglie e di impatto devastante dal punto di vista psicologico».

Oltre due terzi degli utenti del Sai hanno una situazione abitativa che nella migliore delle ipotesi consiste in un posto letto (oneroso) in coabitazione con altri connazionali. Altre volte si tratta di persone ospitate nei centri di accoglienza, come il rifugio Caritas vicino alla Stazione Centrale, o nei centri di accoglienza gestiti dal comune o da istituzioni religiose. Spesso l’alternativa è la strada o l’area dismessa. Lo scalo della stazione di Porta Romana è un esempio di quest’ultimo tipo di sistemazioni: «Dal ponte sulla ferrovia in Corso Lodi si vedono solo le passerelle dove i passeggeri aspettano i treni», racconta Pedro, «ma se cammini lungo i binari arriverai a intravedere, di notte, i fuochi accesi dalle decine, a volte centinaia, di persone che passano la notte nelle strutture dismesse dello scalo».

Quanto all’ipotesi di rientrare nei paesi di provenienza, Pedro ribadisce che nella maggior parte dei casi «da sconfitti a casa non si torna». Qualcuno sceglie comunque il recupero degli affetti anche se il prezzo è ammettere il fallimento, ma molto dipende anche dalle condizioni messe in campo dal paese di provenienza. «Ad esempio, in Perù sono attivi progetti di reinserimento degli emigrati che rientrano e questo aiuta a creare le condizioni per i rimpatri».

Via Padova, le declinazioni dell’accoglienza

Via Padova è un’arteria di oltre quattro chilometri che collega piazzale Loreto a Crescenzago. Quattro anni fa la zona fu al centro dell’attenzione dei media per l’assassinio di un giovane egiziano a opera di una banda di latinos.

Nel quartiere che si estende intorno alla chiesa di San Gabriele, nella parte di via Padova vicina a piazzale Loreto, la popolazione straniera è al quaranta per cento. «La maggioranza degli immigrati» spiega don Davide Caldirola, «proviene dall’America Latina, specialmente Ecuador e Perù, e dall’Egitto. Raramente si tratta di famiglie, spesso sono assembramenti di persone, ed è più difficile stabilire un contatto con loro».

Qui molte sono case di ringhiera, dove il contatto diretto fra condomini è inevitabile, ma gli avvicendamenti sono frequenti: gli affitti sono alti e la gente non si ferma molto. «Qualche giorno fa», riporta don Davide, «una signora mi ha detto che se fosse per lei sarebbe ben contenta di conoscere i vicini di casa, ma cambiano ogni tre settimane...».

Accanto agli stranieri, nel quartiere vivono parecchie persone anziane che si sono stabilite qui da anni e le difficoltà a conciliare le loro esigenze con quelle dei nuovi abitanti non è sempre semplice. «Non si può chiedere a un anziano di imparare l’egiziano per poter stabilire un rapporto con i vicini e a volte anche le forme un po’ chiassose di convivialità di alcuni gruppi di migranti creano disagio in persone che desidererebbero un po’ più di quiete». Sui principi della condivisione e dell’accoglienza, dice don Davide, non si può che essere tutti d’accordo; spesso, però, nel concreto, la partita della multiculturalità non si gioca sui principi ma su tanti piccoli episodi quotidiani che creano tensioni.

Come parrocchia, a San Gabriele si è scommesso su quello che don Caldirola definisce un «puntare alla normalità», assecondando cioè l’incontro che già sta avvenendo nelle nuove generazioni. «All’oratorio uno su tre dei bambini che ricevono i sacramenti ha genitori stranieri. La nostra struttura accoglie tutti i bambini, cristiani o non cristiani, perché crescano insieme e sostituiscano all’appartenenza etnica i valori dell’amicizia».

Chiara Giovetti
(1 - continua)

Tags:
migranti, accoglienza, Milano, Caritas, pastorale migranti, periferie, Via Padova
Chiara Giovetti




Carlo di Gesù (Charles De Foucauld)

Charles
De Foucauld nacque il 15 settembre 1858 a Strasburgo in Francia, visse una
giovinezza scapestrata, l’unica cosa che lo interessava era divertirsi.
Intraprese la carriera militare ma dopo pochi anni fu congedato per
indisciplina aggravata da cattiva condotta, un marchio disonorevole che lo
lasciò completamente indifferente. Incominciò a viaggiare e da audace
esploratore si addentrò in una zona sconosciuta del Marocco ricavandone notizie
interessanti che gli meritarono una medaglia d’oro dalla Società di Geografia
di Parigi. Toccato dalla fede profonda di alcuni musulmani conosciuti in
Africa, al suo ritorno in Francia ebbe una profonda crisi che lo portò a
riavvicinarsi alla fede cristiana decidendo di «vivere solo per Dio»; la sua fu
una conversione sconvolgente che gli cambiò radicalmente la vita. Entrò in un
monastero trappista e dopo alcuni anni si recò in Terra Santa per vivervi come
Gesù in povertà e nascondimento. Fece gli studi di teologia, al termine dei
quali fu ordinato sacerdote e ottenne di stabilirsi a Tamanrasset, un’oasi
sperduta nel cuore del deserto del Sahara, ove trascorse tredici anni dedicandosi
totalmente alla preghiera e all’ospitalità dei viaggiatori che vi facevano
sosta. Durante la sua permanenza in quell’ambiente, realizzò un aggioatissimo
dizionario francese – tamashek (la lingua dei tuareg), in uso ancora oggi.

Carlo, lo sai che sei
una delle figure più adamantine e originali della Chiesa del XX secolo?

Non
esageriamo adesso, sai benissimo che in gioventù ne ho combinate di cotte e di
crude. Il fatto stesso che fui congedato con disonore per indisciplina e
cattiva condotta dall’esercito francese la dice lunga sui miei trascorsi
movimentati.

Effettivamente parte
della tua vita fu segnata da intemperanze di non poco conto.

La
mia giovinezza fu segnata dal fatto che non credevo in nulla e che mi concedevo
ogni cosa desiderassi. Ma tutto ciò, paradossalmente, svuotò completamente la
mia vita di significato. Una volta congedato, partii come esploratore in
Marocco allo scopo di illustrare e descrivere zone inesplorate dell’Africa.

Fu in quell’occasione
che venisti a contatto con la fede islamica professata dagli accompagnatori dei
tuoi viaggi e dalla gente di quelle lande sperdute?

La
fede dei musulmani cominciò a far vacillare le mie laiche sicurezze tipicamente
francesi. Il vedere come quella gente semplice e umile si prostrasse cinque
volte al giorno in direzione della Mecca per rendere culto al Dio onnipotente e
misericordioso, provocò in me un’ansia di ricerca del senso della vita alla
quale forse per troppo tempo non avevo dedicato alcuna attenzione.

Fu al tuo ritorno in
Francia che la ricerca di Dio trovò il suo compimento.

È
vero, tornato nella mia patria incominciai con determinazione e insistenza a
percorrere un cammino che mi avrebbe aiutato a ritrovare la fede.

E quella tua ricerca
alla fine ebbe buon esito.

Sì,
nello stesso attimo in cui mi resi conto dell’esistenza di Dio, compresi che
non potevo fare altro che vivere per Lui, con Lui e soprattutto come Lui! Si può
dire che la mia vocazione religiosa risale al momento stesso in cui in me scoccò
la scintilla della fede.

Sei stato aiutato da
qualcuno nel tuo cammino?

Sono
grato a padre Henri Huvelin che mi accompagnò passo dopo passo nella mia
faticosa ricerca diventando un prezioso direttore spirituale. Da lui mi
confessai dopo tanto tempo e su suo consiglio decisi di recarmi nel 1888 in
Terra Santa per visitare i luoghi dove aveva vissuto Gesù.

Dove avvenne qualcosa
di importante per te…

Precisamente.
Fu proprio in quel viaggio che decisi di diventare monaco. Al ritorno in
Francia, nel gennaio del 1889 entrai nel monastero trappista di Nostra Signora
delle Nevi nella diocesi di Viviers, dove mi venne dato il nome di Alberico
Maria.

Però la tua ansia e
ricerca di Assoluto ti spingeva altrove, non è vero?

Nel
1901 fui ordinato sacerdote e il 28 ottobre dello stesso anno ritornai in
Africa e mi stabilii a Benis-Abbes, una zona situata proprio dove passava il
confine fra Algeria e Marocco. Nel 1905 mi spostai a Tamanrasset dove costruii
una piccola dimora in cui potevo fare le mie meditazioni, scrivere, contemplare
la creazione e dialogare con le persone che il Signore mi faceva incontrare.

Il silenzio e la
vastità del deserto favorivano la contemplazione del mistero di Dio?

Sì.
Passavo ore e ore contemplando quello che mi circondava, tutto ciò che vedevo e
ascoltavo, dal colore cangiante della sabbia del deserto che mutava alla luce
del sole delle diverse ore della giornata, al sibilare del vento che mi parlava
di Dio. Entrai col tempo in un rapporto intimo con Lui, vivevo una spiritualità
che andava sempre più concentrandosi sul Cristo Crocifisso e l’Eucaristia.

Se non vado errato,
cucisti sulla tua tunica bianca un cuore rosso di stoffa sormontato da una
croce.

Era
un modo silenzioso, profondamente efficace, di dare testimonianza dell’amore di
Dio e di Gesù suo figlio che aveva effuso lo Spirito dopo il sacrificio della
Croce sull’umanità intera.

Tu accoglievi ogni
persona che passava da Tamanrasset. Un modo sincero e profondo per offrire
ospitalità e dare testimonianza della tua fede cristiana.

A
tutti quelli che passavano di là, qualunque religione professassero, mi
presentavo loro come un «fratello universale». A tutti davo accoglienza e
ascolto, e cercavo di intavolare un dialogo pieno di rispetto e di
comprensione.

Oggi riflettendo sui
molteplici modi di annunciare il Vangelo, scopriamo che il tuo è quello più
congeniale per avvicinarci alle popolazioni di lingua, cultura e fede diversa.

La
testimonianza che io offrii in un angolo sperduto del deserto del Sahara non
aveva come obiettivo la conversione della gente. Era piuttosto centrata sul
fatto che, come discepolo di Gesù di Nazareth, non potevo fare altro che dare
lode al mio Dio, dare ragione della speranza e della fede che era nel mio cuore
e, come dice San Pietro, e cercare di esprimere sempre rispetto e tenerezza.

Certo, se si pensa
alle «conversioni» di interi popoli avvenute nei secoli passati con la
coercizione e la spada, c’è da restare allibiti per la disarmante semplicità
con cui hai presentato la fede in Cristo Gesù.

Quello
che apparentemente può essere ritenuta un’inutile perdita di tempo o un modo di
fare che non dà nessun risultato nell’immediato, se vissuto con amore e
dedizione, risponde invece a una potente logica evangelica, quella del seme che
muore per dare molto frutto.

Il tuo modo di agire,
il tuo carisma, hanno dato origine a una spiritualità cui si ispirano diversi
Istituti e Congregazioni che fanno della preghiera e della testimonianza
silenziosa uno dei cardini preziosi per annunciare Cristo Crocifisso.

Il
Signore edifica meraviglie servendosi della nostra povertà. Con la sua morte in
croce Gesù ha salvato il mondo. Con la pochezza degli Apostoli ha fondato la
Chiesa. È con la santità che si conquista il cielo, e la fede viene propagata.
Ricordiamoci sempre che la fede si è diffusa a macchia d’olio quando i
cristiani la celebravano nelle catacombe, mentre ha segnato il passo quando la
Chiesa era carica di ricchezze e splendori.

Oltre alla
contemplazione ti sei addentrato anche nella lettura e meditazione delle Sacre
Scritture. La tua prassi di vita ha inciso sul tuo modo di pregare?

Più
la Parola di Dio mi afferrava, più mi sentivo in sintonia con il Signore del
creato, con il Padre misericordioso che ama in maniera sconfinata tutti i suoi
figli e a lui mi abbandonavo completamente.

A mo’ di conclusione
di questa nostra intervista, puoi recitare la tua preghiera, quella che ti ha
qualificato nella Chiesa del XX secolo come un maestro di spiritualità?

Con
piacere… ripeti con me: «Padre mi abbandono a te, fa di me ciò che ti piace.
Qualsiasi cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto
tutto, purché la tua volontà si compia in me, e in tutte le tue creature: non
desidero nient’altro, mio Dio. Rimetto l’anima mia nelle tue mani, te la dono,
mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. È per me un’esigenza
di amore, il donarmi a te, l’affidarmi alle tue mani, senza misura, con
infinita fiducia: perché tu sei mio Padre».

Il
primo dicembre del 1916 l’umile dimora di Charles De Foucauld fu saccheggiata
da predoni sbandati del deserto. Gioi dopo il suo cadavere fu ritrovato
abbracciato all’Ostensorio che conteneva ancora le particole consacrate.

Benedetto
XVI l’ha beatificato il 13 novembre 2005.

 
don Mario Bandera
Missio Novara

Mario bandera