Sostituzione etnica o necessità?


Per controllare l’immigrazione clandestina, c’è (anche) «Frontex», l’agenzia europea per le frontiere e le coste. La sua azione è antitetica a quella delle Ong le cui operazioni di salvataggio sono spesso ostacolate. Se non si vuole ragionare in termini di umanità e solidarietà, il dilemma pratico è tra chi vede i migranti come un pericolo e chi li considera una necessità.

Il 10 giugno 2016, sulla frontiera fra Bulgaria e Turchia, si svolse la cerimonia di inaugurazione della «Agenzia di controllo della frontiera europea», meglio nota come Frontex. Istituita nominalmente già nel 2004, inizialmente aveva funzione di consulenza. Con l’intensificarsi del problema migratorio venne trasformata in un corpo operativo dotato di uomini e mezzi per rafforzare le attività di controllo alle frontiere già svolto dalle singole polizie nazionali.

Il controllo dell’immigrazione clandestina e il rimpatrio dei migranti irregolari sono fra le sue funzioni principali. Funzioni che, ad oggi, svolge con la disponibilità di 750 milioni di euro annui, 2.500 uomini, venticinque imbarcazioni, otto velivoli e un’ampia strumentazione di vigilanza elettronica posta lungo i tratti di frontiera più battuti dai migranti. Da qui al 2027, il progetto è di raddoppiare il bilancio di Frontex e portare il numero di addetti a 10mila unità. Con grande gioia soprattutto delle imprese di armi e strumentazione elettronica che, con Frontex, fanno molti affari. Tra esse le multinazionali Airbus (Olanda), Leonardo (Italia), Thales (Francia) che offrono elicotteri, droni, sistemi di sorveglianza, ma anche imprese minori come Glock (Austria) e Mildat (Polonia) per il rifornimento di munizioni e armi leggere. Secondo l’organizzazione Corporate europe observer, tra il 2017 e il 2019, Frontex si è incontrata con 108 imprese per discutere l’acquisto di fucili, munizioni, dispositivi aerei e marittimi di sorveglianza, rilevatori di esseri umani.

Il «curriculum» di Frontex

Fra il 2020 e il 2022, Frontex è stata oggetto di numerose inchieste da parte di organi dell’Unione europea, perché accusata da prestigiose organizzazioni umanitarie e testate giornalistiche di respingimenti illegali e violazione dei diritti umani.

Ad esempio, secondo le ricostruzioni dell’agenzia giornalistica Lighthouse reports, fra il marzo 2020 e il settembre 2021, si sono verificati ventidue casi in cui Frontex ha collaborato con la polizia greca per rimettere gli immigrati in imbarcazioni di fortuna e respingerli in Turchia. Su un altro fronte, quello del Mediterraneo sud, le organizzazioni Human rights watch e Border forensics hanno documentato che, nel 2021, Frontex ha utilizzato la sua capacità di sorveglianza aerea per intercettare le imbarcazioni che trasportavano migranti e segnalare la loro posizione alla Guardia costiera libica affinché le respingessero in Libia.

Secondo l’Oim, l’Organizzazione  internazionale per le migrazioni, nel 2021 ben 32.425 migranti sono stati respinti sulle coste libiche in aperta violazione con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, secondo la quale «Nessuno stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».

Un rapporto del 13 luglio 2023 delle Nazioni Unite conferma che in Libia «si registrano rapimenti, arresti arbitrari e sparizioni di cittadini e personaggi pubblici per mano di vari attori addetti alla sicurezza».

Onde e Ong

Un’altra strategia, ancora più subdola, utilizzata dall’Italia per ridurre gli sbarchi, è quella di lasciare i migranti in balia delle onde, ossia senza un sistema di protezione in caso di naufragio. Nel 2013 tale attività era svolta da Mare nostrum, ma con la sua chiusura non era più chiaro chi l’avrebbe svolta. Perciò il vuoto venne colmato da alcune organizzazioni umanitarie, fra cui Medici senza frontiere, Save the children, Sea eye, che si dotarono di imbarcazioni e velivoli per individuare le barche di migranti in difficoltà e trarli in salvo. Ma la scelta non piacque ai vari governi che si susseguirono, accusando le organizzazioni umanitarie di complicità con i trafficanti di esseri umani, fecero di tutto per sabotare la loro attività di salvataggio.

Il primo giro di vite si ebbe nel 2017 per mano di Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo Gentiloni e proseguì nel 2019 per mano di Matteo Salvini (oggi vicepresidente del consiglio dei ministri, ndr) che fece introdurre multe fino a un milione di euro per quelle navi che fossero entrate nelle acque territoriali italiane senza averne ottenuto il permesso. In seguito, le sanzioni vennero ammorbidite, ma l’attività di salvataggio delle Ong rimane ancora oggi fortemente osteggiata, come mostra il divieto dei salvataggi multipli introdotto dall’attuale governo Meloni, o l’abitudine di assegnare porti di sbarco molto lontani dai luoghi d’intervento.

Clandestini

Mettere piede nel territorio di un paese ricco è la prima sfida di ogni migrante che viaggia come fuggitivo. Ma subito dopo si pone il problema di rimanerci. In Italia, ad esempio, può rimanerci solo chi riceve una qualche forma di risposta positiva alla domanda di asilo (qui sopra una riproduzione del modulo, ndr) avanzata per motivi politici, sociali, razziali, sessuali.

Nel 2022 in Italia si sono registrati 120mila arrivi irregolari per l’88% via mare e il 12% via terra. Nello stesso anno sono state presentate 84mila richieste di asilo, ma quelle accolte sono state meno della metà (48%). In altre parole, due terzi degli arrivati nel 2022 non sono stati autorizzati a rimanere in Italia. E mentre alcuni sono rimpatriati con la forza, i più restano nel nostro paese come irregolari senza alcun tipo di permesso. Senza documenti, senza residenza, senza assistenza sanitaria, senza possibilità di svolgere un lavoro alla luce del sole, sono costretti a vivere come clandestini. Il loro numero in Italia è stimato in mezzo milione e sono una vera manna per caporali, imprese criminali e imprese sommerse, alla ricerca di mano d’opera che, non potendo vantare alcuna tutela legale, può essere sfruttata e tartassata in ogni modo possibile.

Intanto, in Inghilterra, il governo ne aveva studiata un’altra per sbarazzarsi alla radice dei richiedenti asilo. Aveva annunciato di avere stipulato un accordo con il Rwanda che, in cambio di denaro e altri benefici, sarebbe stato disposto a prendersi un certo numero di richiedenti asilo inviati dall’Inghilterra. Ancora una volta i migranti sarebbero stati trattati come pacchi da spedire da una parte all’altra del globo (come vorrebbe fare anche il governo Meloni con i trasferimenti in Albania, ndr). Fortunatamente, nel giugno 2023 la Corte d’appello britannica ha dichiarato il Rwanda un paese non sicuro e ha annullato la decisione del governo. Ma questo ultimo è intenzionato a rivolergersi alla Corte suprema, per cui non è ancora detta l’ultima parola.

Costruire la paura

Nel 2021, mentre in tutta Europa continuava la campagna di terrorismo per convincerci che eravamo sotto la minaccia di un’invasione migratoria che ci avrebbe sommerso, cambiando totalmente narrativa ci veniva chiesto di spalancare le nostre porte a chi fuggiva dall’Ucraina. Una disponibilità che dovevamo avere senza se e senza ma, non importa quanti ne sarebbero arrivati. Allora capimmo che non è una questione di numeri, ma di colore della pelle.

Sensazione confermata anche da altre dichiarazioni successive, come quella del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida il quale, nel corso di una conferenza sulla denatalità, affermò che «non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica».

L’esperienza con gli ucraini dimostra che, se si vuole, l’accoglienza si può fare e anche bene. Al contrario, se non si vuole, l’accoglienza non si fa e quella poca realizzata è fatta male. In Italia, di partiti che hanno incluso l’accoglienza dei migranti nel proprio programma di governo non ce ne sono, mentre ce ne sono di quelli che hanno basato la propria campagna elettorale sulla costruzione della paura verso i migranti della rotta balcanica e mediterranea. E dopo averli dipinti come dei barbari che vogliono prendersi ciò che è nostro, hanno promesso muri, blocchi navali, respingimenti. Oggi quelle forze politiche le abbiamo al governo e non potendo fermare i flussi, cercano di fare la faccia cattiva ostacolando i salvataggi e rendendo più difficile la permanenza di chi arriva (articolo a pagina 27, ndr).

Non garantiscono sufficienti strutture di prima accoglienza e organizzano quelle esistenti sempre più sotto forma di carceri; riducono e depotenziano i centri di accoglienza per richiedenti asilo; demoliscono le esperienze di accoglienza di tipo inclusivo; sguarniscono gli uffici che devono rilasciare i permessi di soggiorno. E dopo avere organizzato la disorganizzazione, gridano al caos emergenziale per alimentare nella popolazione l’avversione verso i migranti.

Anziani e forza lavoro

Una situazione non solo cinica e disumana, ma anche assurda perché il Documento di economia e finanza del 2023, redatto dal governo Meloni, afferma che  di immigrazione l’Italia ne ha bisogno come il pane, addirittura per ridurre il peso del debito pubblico.

Atteso che la popolazione anziana crescerà portandosi dietro un aumento spese, e che le nascite diminuiranno restringendo la forza lavoro, il solo modo per ridurre l’impatto del debito pubblico è tramite il lavoro degli immigrati, i soli capaci di fare aumentare Pil, contributi sociali e gettito fiscale.

Cosa va detto alla gente

Quello che dunque va fatto rispetto alla questione migratoria è un’operazione verità. Alla gente va detto che, senza migranti, la vecchia e infertile Europa è destinata al declino. Va detto che l’unico modo per salvarla è attraverso i migranti che, secondo il citato Documento di economia e finanza 2023, solo per l’Italia, dovrebbe essere nell’ordine di 280mila nuovi arrivi all’anno di qui al 2070.

Chiarito che abbiamo bisogno degli immigrati, dobbiamo fare anche scattare l’umanità che è in noi e il dovere di solidarietà a cui ci richiama la Costituzione. Per cui dovremmo organizzarci per accogliere chi fugge, per favorire una coesistenza sociale e culturale che potrebbe arricchire tutti; dovremmo creare corridoi umanitari che mettano fine alle traversate della morte; dovremmo attivare la collaborazione internazionale per mettere in salvo i migranti che si trovano intrappolati in situazioni violente come succede in Libia.

In una parola, dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza.

Francesco Gesualdi
(seconda parte – fine)

 




Dai gabbiani ai maiali


L’influenza colpisce anche gli animali, in particolare con il virus di tipo «A». Le più diffuse sono l’influenza aviaria e quella suina. In queste pagine, cerchiamo di capire le modalità di trasmissione del virus e le conseguenze sull’uomo.

Da oltre un anno si è avuta in tutto il mondo una recrudescenza dell’influenza aviaria, una malattia degli uccelli causata da un virus dell’influenza di tipo A (vedi sotto: H1N1 versus H5N1). Può essere a bassa (Lpai) o ad alta patogenicità (Hpai).

L’influenza aviaria può contagiare praticamente tutte le specie di uccelli, ma le manife-

stazioni possono essere molto diverse: dalle forme leggere a quelle altamente patogene e contagiose, capaci di causare rapidamente epidemie acute. Se la malattia è causata da una forma virale altamente patogena, può insorgere in modo improvviso e portare rapidamente a morte quasi il 100% degli animali colpiti.

Nel pollame

Tra l’estate e l’autunno 2022 in Italia si è osservato il prolungamento dell’epidemia iniziata nell’autunno 2021, che ha coinvolto diverse colonie di uccelli selvatici marini appartenenti all’ordine dei suliformi (uccelli acquatici). Il 22 settembre 2022, il Centro di referenza nazionale (Crn) per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle ha confermato la prima positività del secondo semestre per virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (Hpai, sottotipo H5N1) nel pollame e questo ha portato a un’aumento delle misure di controllo generali e specifiche.

In tutta Europa sono stati confermati nuovi casi di influenza aviaria ad alta patogenicità tra dicembre 2022 e marzo 2023, per un totale di 522 casi nei domestici e 1.138 nei selvatici.

Particolarmente rilevante è stata l’epidemia di influenza aviaria che ha colpito il gabbiano comune nel Nordest dell’Italia, in Belgio, Francia e Olanda.

Il virus responsabile di questi casi è sempre stato il sottotipo H5N1 e le analisi genetiche virali effettuate in Italia su uccelli selvatici hanno dimostrato che esso sta circolando anche nelle nostre specie stanziali. Da settembre 2022 ad aprile 2023, in Italia sono stati confermati quaranta focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità nei domestici, riguardanti in parte gli allevamenti rurali di piccole dimensioni.

Il virus H5N1, attualmente circolante tra i volatili selvatici e domestici, si è dimostrato capace di attaccare anche i mammiferi.

Tra gennaio e febbraio 2022 si sono verificati numerosi episodi di mortalità nelle colonie di leoni marini in Perù. Un focolaio è stato confermato nell’ottobre 2022 in un allevamento di visoni in Spagna, mentre in Italia, nell’aprile 2023, sono stati confermati due casi nelle volpi, dovuti probabilmente all’ingestione di volatili morti per influenza aviaria e, inoltre, cinque cani e un gatto sono stati contagiati all’interno di un allevamento avicolo rurale.

Sorveglianza aumentata

Per tale motivo, il ministero della Salute quest’anno, oltre il mantenimento della sorveglianza sugli uccelli selvatici, ha disposto la sorveglianza anche sui carnivori selvatici.

Il dispositivo del ministero prevede il rafforzamento della biosicurezza negli allevamenti avicoli nazionali, con rilevamento precoce dei casi sospetti di Hpai, che necessitano approfondimenti rapidi in laboratori ufficiali, per effettuare diagnosi differenziali nei confronti di virus influenzali. Inoltre, in caso di accertata circolazione di virus Hpai nell’avifauna, le regioni devono mettere in atto piani di sorveglianza attiva riguardanti gli uccelli acquatici presenti in aree di particolare rilevanza epidemiologica, come i siti di raduno dei volatili lungo le principali rotte migratorie.

La sorveglianza attiva prevede l’effettuazione di controlli sanitari regolari, mediante tamponi tracheali e cloacali su campioni significativi dell’avifauna acquatica per gli esami virologici o, in alternativa, mediante il prelievo di campioni di feci (dal momento che questo virus si annida nell’intestino dei volatili, ad esempio in quello delle oche).

Zoonosi e mutazioni

Perché l’influenza aviaria, che finora ha colpito prevalentemente gli uccelli e sporadicamente gli umani, è fonte di grande preoccupazione?

Perché un virus influenzale A originatosi in un volatile potrebbe trasformarsi in un agente infettivo capace di passare da una persona all’altra, dopo un eventuale passaggio in una terza specie, il maiale.

I suini, infatti, possono funzionare da serbatoio per una ricombinazione tra i virus propri, quelli aviari e quelli umani, creando dei virus ibridi capaci di passare da persona a persona. Se poi nell’essere umano, tali ibridi dovessero subire ulteriori e casuali modifiche potrebbe sempre originarsi un nuovo ceppo virale, potenzialmente potente e letale.

L’attuale influenza aviaria, data dal virus A H5N1, si è originata nel 2003 nel Sudest asiatico. Successivamente ha invaso tutta l’Asia da cui si è propagata al resto del mondo. Finora ha colpito oltre 150 milioni di volatili e si sono contate decine di vittime umane, per lo più tra gli addetti agli allevamenti e al commercio di pollame. Sebbene attualmente l’influenza aviaria sia diffusa soprattutto tra gli uccelli e solo poche decine di persone ne siano state colpite per passaggio diretto, senza una trasmissione da persona a persona, tuttavia la circolazione continua di alcuni virus dell’influenza A (H5) e A(H7) nel pollame è preoccupante per la sanità pubblica. Questi virus non solo causano forme gravi di malattia, ma hanno il potenziale di mutare e di aumentare la trasmissibilità tra le persone.

Le mutazioni del virus

La capacità di mutare è una caratteristica peculiare di tutti i virus influenzali e in particolare degli A. Essa è strettamente legata alle caratteristiche del loro genoma, costituito da Rna segmentato e suddiviso in otto frammenti. Ciò comporta la possibilità che si verifichi, in due virus che abbiano infettato contemporaneamente la stessa cellula, il fenomeno noto come riassortimento antigenico (antigenic shift), dovuto all’associazione in nuove combinazioni dei segmenti genomici di Rna appartenenti a due ceppi virali geneticamente distinti. Da questi processi di riassorbimento prendono origine i «virioni» che presentano un corredo proteico di superficie significativamente diverso da quello di entrambi i virus parentali.

Anticorpi (sistema immunitario e vaccinazione)

Gli anticorpi sono grandi proteine (a forma di Y) che aiutano a difendere le cellule dell’organismo dall’intromissione di corpi estranei come batteri e virus.

Le proteine di superficie virali sono il principale bersaglio degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario durante un’infezione naturale o a seguito di un’immunizzazione artificiale (cioè di una vaccinazione). Gli anticorpi preesistenti nell’organismo nulla possono contro le nuove forme virali.

Oltre al riassortimento antigenico, i virus dell’influenza sono caratterizzati anche dalla deriva genetica (antigenic drift) dovuta alle frequenti mutazioni nei geni che codificano per emoagglutinina (HA) e neuroaminidasi (NA). Le alterazioni delle proprietà di superficie dei virus influenzali rendono, pertanto, necessaria la produzione di nuovi anticorpi ad hoc. Questo spiega la necessità di produrre nuovi vaccini antinfluenzali ogni anno.

Nel caso dell’influenza aviaria, attualmente non esiste un vaccino specifico per uso umano. La raccomandazione è di effettuare la vaccinazione contro l’influenza stagionale, in modo da non correre il rischio di stressare oltremodo l’organismo a seguito di una coinfezione da parte di entrambi i virus. Inoltre, la riduzione delle coinfezioni riduce la probabilità che i virus possano acquisire la capacità di diffondersi da persona a persona.

Per quanto riguarda i farmaci attualmente a disposizione per il trattamento dell’influenza aviaria, alcuni farmaci antivirali (come gli inibitori della neuroaminidasi) si sono dimostrati efficaci nel ridurre la durata della replicazione virale, con miglioramento delle prospettive di sopravvivenza. Purtroppo è stata segnalata l’insorgenza di resistenza da parte dei virus ad alcuni di essi.

Carne e uova

Nell’Ue, i focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità nel pollame, causati dai sottotipi H5 e H7, prevedono l’attuazione di strette misure di controllo che comportano l’abbattimento e la distruzione dei volatili negli allevamenti colpiti, nonché l’istituzione di zone di controllo intorno ai focolai, dove la movimentazione è consentita solo a seguito di rigidi controlli sanitari che abbiano dato esito favorevole.

Come regola generale, inoltre, i volatili inviati al macello sono sottoposti a visita prima e dopo la macellazione, in modo da assicurare l’eliminazione dalla catena alimentare dei casi sospetti.

Tanti potrebbero chiedersi se è sicuro consumare carne e uova provenienti da aree con focolai di influenza aviaria.

Innanzitutto, va precisato che il virus dell’influenza aviaria viene inattivato dal calore. Quindi, dopo adeguata cottura, i prodotti a base di carne e le uova possono essere consumati. Del resto, il consumo di carne e uova crude o non completamente cotte dovrebbe essere sempre evitato, per potere escludere contaminazioni di qualsiasi genere.

Rosanna Novara Topino


H1N1 versus H5N1:

Le conseguenze sull’uomo

Le malattie causate da virus dell’influenza suina (H1N1) e aviaria (H5N1)  possono essere di lieve entità, con interessamento delle vie respiratorie superiori (febbre, tosse) oppure presentare una rapida progressione fino alla polmonite grave, alla sindrome da distress respiratorio acuto, allo shock e alla morte. Possono essere presenti sindromi intestinali come nausea, vomito e diarrea, soprattutto durante le infezioni da influenza A H5N1, così come congiuntivite. Le caratteristiche della malattia come il periodo d’incubazione, la gravità dei sintomi e il quadro clinico variano a seconda del virus, che ha causato l’infezione, con una netta prevalenza dei sintomi respiratori. Si è visto che i pazienti con virus dell’influenza A (H5) o A (H7N9) presentano un decorso clinico più aggressivo. Inizialmente essi presentano febbre alta (>38°C) e tosse, a cui fa seguito l’interessamento da dispnea delle basse vie respiratorie. Mal di gola o raffreddore, in questi casi sono meno comuni. In alcuni pazienti sono stati riportati anche altri sintomi come quelli intestinali, sanguinamento dal naso o dalle gengive, encefalite e dolore toracico.

RNT


I virus influenzali A, B, C e D

Le quattro tipologie

  • I virus influenzali A – alla cui categoria appartiene quello dell’aviaria – infettano l’uomo e diversi animali. La comparsa di un nuovo virus influenzale di tipo A capace d’infettare le persone e con trasmissione da persona a persona può causare una pandemia influenzale.
  • I virus influenzali B sono suddivisi in due linee, cioè il B/Yamagata e il B/Victoria; essi sono presenti solo nell’uomo, sono meno temibili degli A e sono responsabili delle epidemie stagionali.
  • I virus influenzali C possono infettare sia le persone che i suini e solitamente danno un’infezione asintomatica o una forma lieve di malattia simile a un comune raffreddore.
  • I virus influenzali D sono di recente identificazione e sono stati isolati solo nei bovini e nei suini. Al momento non è chiaro se possano infettare anche l’essere umano.

I virus influenzali di tipo A sono particolarmente importanti per la sanità pubblica per via del loro potenziale zoonosico, cioè la trasmissione dagli animali all’uomo. Data l’elevata trasmissibilità che li caratterizza, se fossero in grado di trasmettersi da uomo a uomo, essi potrebbero scatenare una pandemia influenzale (spillover o salto di specie). Questi virus sono classificati in sottotipi in base alle diverse combinazioni di due glicoproteine di superficie del virus, cioè l’emoagglutinina (HA) e la neuroaminidasi (NA). Allo stato attuale, solo i virus influenzali che presentano in superficie le molecole H1, H2, o H3 e N1 o N2 possono passare da persona a persona. Soltanto alcune combinazioni possono passare da persona a persona. Tutte le altre possono contagiare le persone, ma non trasmettersi da una all’altra.

I virus influenzali responsabili delle grandi pandemie o epidemie del passato sono stati quello della «spagnola», quello dell’«asiatica» e di «Hong Kong». Il primo, l’H1N1, l’agente eziologico della «spagnola», nel 1918-19 causò da 20 a 50 milioni di morti in tutto il mondo, con un’elevata mortalità tra i giovani adulti sani (quasi la metà dei deceduti) e con il decesso che sopraggiungeva nei primi giorni dall’inizio della sintomatologia o per complicanze. Il secondo, l’H2N2, virus responsabile dell’«asiatica», fu inizialmente identificato in Cina nel febbraio 1957 e si diffuse in tutto il mondo tra il 1957-58. In Italia provocò 70mila decessi. Questo ceppo subì una serie di modifiche genetiche a partire dal 1960 che lo portarono a produrre le epidemie periodiche fino alla sua scomparsa dopo una decina di anni. Fu sostituito con l’H3N2, che, nel 1968, diede origine alla pandemia influenzale «Hong Kong», che lì si originò per raggiungere gli Stati Uniti nell’arco di un anno. Quest’ultimo virus è tuttora presente e provoca epidemie stagionali, ma attualmente è possibile prevenirlo con il vaccino antinfluenzale. Peraltro la mortalità sia dell’«asiatica» che della «Hong Kong» è stata inferiore rispetto a quella della «spagnola» non solo grazie alla produzione di vaccini, ma anche grazie all’avvento degli antibiotici (la penicillina fu scoperta da Fleming nel 1928).

Nel 2009 comparve un nuovo sottotipo del virus A H1N1 (quello della «spagnola»), che diede origine, a partire dal Messico e poi in diversi paesi del mondo, all’influenza «suina» che causò tra i 100mila e i 400mila morti solo nel primo anno, soprattutto tra bambini e giovani. Del resto, una caratteristica dei virus pandemici è quella di colpire soprattutto persone giovani, o comunque al di sotto dei 65 anni, risparmiando gli anziani, che sono più facilmente colpiti dai virus stagionali.

RNT

Accortezze in cucina

Anche in cucina vanno adottati alcuni accorgimenti. Innanzitutto bisogna sapere che il congelamento lento intorno a -18/-20°C dei congelatori domestici non è in grado di debellare il virus dell’influenza aviaria eventualmente presente nei prodotti alimentari.

Per evitare contaminazioni, bisogna sempre separare la carne cruda e le uova dai cibi cotti o pronti da consumare.

Non si devono mai utilizzare lo stesso tagliere e lo stesso coltello usati per la carne cruda anche per altri alimenti, e la carne, una volta cotta, non va messa nello stesso piatto dove era stata posta prima della cottura.

È buona norma lavarsi sempre accuratamente le mani con acqua e sapone, sia prima che dopo avere maneggiato la carne cruda.

Lavare accuratamente tutte le superfici e gli utensili che sono stati a contatto con carne cruda.

RNT

 




Biogas, istruzione e salute: il 2023 di Mco


L’anno che sta per concludersi ha visto la realizzazione di diversi progetti, sia nei settori tradizionali per i Missionari della Consolata – cioè la sanità e l’istruzione – sia in settori nuovi, come la promozione di energia pulita. E l’Africa, anche quest’anno, è stata la grande protagonista.

Lo scorso settembre, durante il vertice del G20 a Nuova Dehli, India, diciannove paesi e dodici organizzazioni internazionali hanno lanciato la Global biofuel alliance (alleanza globale per i biocarburanti). L’obiettivo dell’alleanza, di cui fanno parte fra gli altri anche l’Italia, gli Usa, l’India e, fra le organizzazioni, il World economic forum, la Banca mondiale e la Banca asiatica di sviluppo, ha l’obiettivo di promuovere l’uso dei biocarburanti sostenibili@.

I biocarburanti sono un tipo di bioenergia; quest’ultima, si legge nella sintesi del rapporto 2011 sulle fonti energetiche rinnovabili del «Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico», può essere prodotta da una varietà di materie prime di biomassa, cioè materia organica, come i residui forestali, agricoli e zootecnici, alcune colture, la parte organica dei rifiuti urbani, eccetera. Queste materie prime, attraverso vari processi e tecnologie, possono essere utilizzate direttamente per produrre elettricità e calore, oppure per ricavare combustibili gassosi, liquidi o solidi@.

Vecchie delusioni, nuove prospettive

La bioenergia, spiega sul suo sito l’«Agenzia internazionale dell’energia» (Iea, nell’acronimo inglese), rappresenta il 55% dell’energia rinnovabile a livello globale e oltre il 6% della fornitura energetica complessiva.

La moderna bioenergia, riporta ancora la Iea, è un combustibile a emissioni quasi zero, perché – per dirla in modo molto semplificato – l’anidride carbonica che si libera durante la combustione della biomassa si compensa in larga parte con quella che le piante coltivate per creare la biomassa assorbono con la fotosintesi.

All’inizio di questo secolo, i biocarburanti – ad esempio il biodiesel – avevano già ricevuto grandi attenzioni e generato aspettative che si erano però rivelate troppo ottimistiche@.

Le emissioni di anidride carbonica imputabili ai biocarburanti, infatti, non erano poi così basse, considerando la quantità di terra, acqua ed energia necessarie a produrre le piante per formare le biomasse di base. Inoltre, queste piante spesso rimpiazzavano le coltivazioni destinate alla produzione di cibo, provocando aumenti significativi dei prezzi dei prodotti agricoli. Da qui il dibattito, tuttora in corso, sintetizzato dall’espressione food vs. fuel, cibo contro carburante. Si parla oggi quindi di bioenergia moderna e biocarburanti sostenibili proprio in contrapposizione a queste prime esperienze di vent’anni fa e al loro parziale insuccesso.

Biogas e biometano

Anche il biogas rientra fra le bioenergie. Esso, spiega la Iea in un rapporto del 2020, è una miscela di metano, anidride carbonica e piccole quantità di altri gas prodotta dalla digestione anaerobica di materia organica in un ambiente privo di ossigeno.

Una delle tecnologie in grado di produrre biogas utilizza i biodigestori, cioè contenitori o cisterne ermetici nei quali il materiale organico, diluito in acqua, viene scomposto da microrganismi presenti in natura. Altri modi di produzione includono poi la «cattura» del biogas che si forma per la decomposizione dei rifiuti solidi urbani nelle discariche e il recupero dei fanghi di depurazione degli impianti di trattamento delle acque reflue. I fanghi, infatti, possono contenere materia organica e sostanze come azoto e fosforo e, con un ulteriore trattamento, possono essere utilizzati come base per produrre biogas in un digestore anaerobico@.

Il biogas può poi essere trasformato in biometano attraverso un ulteriore processo che rimuove l’anidride carbonica e le impurità. Il 90% del biometano prodotto oggi nel mondo si ottiene con questo metodo, detto upgrading, traducibile con miglioramento, passaggio alla categoria superiore.

Il biogas a Kimbiji

Secondo la Iea, 2,7 miliardi di persone nel mondo non dispongono di energia pulita per cucinare e usano biomassa solida: legna da ardere, carbone, sterco bruciato all’aperto, oppure cherosene. Circa un terzo di queste persone vive nell’Africa subsahariana.

Se fossero raggiunti tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile, nel 2040 il biogas potrebbe fornire energia pulita per cucinare a ulteriori 200 milioni di persone, metà delle quali in Africa, riducendo così l’inquinamento domestico causato da fornelli inefficienti e inquinanti che, secondo i dati del 2018, è direttamente collegato a circa mezzo milione di morti premature annuali nell’Africa subsahariana e a 2,5 milioni a livello globale.

Anche a Kimbiji, villaggio a circa quaranta chilometri a sud di Dar Es Salaam, in Tanzania, i missionari della Consolata registrano questa mancanza di alternative al carbone e alla legna da ardere come combustibili per cucinare. Per questo, padre Domnick Otieno, missionario di origine
keniana che lavora a Kimbiji da quasi tre anni, ha proposto di realizzare un biodigestore da alimentare con gli scarti generati dalla piccola porcilaia realizzata nel 2022 con il contributo della Caritas italiana. Questa ne ha sostenuto la costruzione per permettere a un gruppo di giovani locali di avviare un’attività generatrice di reddito.

«Siamo consapevoli», scriveva padre Domnick lo scorso marzo, «che una parrocchia dovrebbe essere un luogo di trasformazione nella società, un luogo in cui le persone imparano anche a prendersi cura dell’ambiente. L’installazione del biogas nella missione ci permetterà di avere sufficiente gas per l’uso domestico e potremo abbassare la retta per l’asilo, così i genitori dei nostri ottantasei alunni non dovranno più portare legna e carbone per pagare la parte di retta che non possono coprire in denaro. Il sistema a biogas offrirà inoltre a coloro che verranno alla missione la grande opportunità di conoscere l’importanza di questa fonte per ridurre l’inquinamento».

Scuola ad Alaba

Etiopia, istruzione in affanno

L’Etiopia, riporta il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), ha fatto progressi significativi verso l’istruzione primaria universale, con l’88,7% dei bambini iscritti nell’anno 2021/2022@.

Ma alcuni studi del ministero dell’Istruzione etiope e i risultati degli esami per l’accesso all’università di quest’anno costringono a ridimensionare questo dato incoraggiante.

Secondo Africanews, il sito di notizie legato alla rete televisiva Euronews, solo il 3% degli studenti etiopi di scuola secondaria ha passato l’esame di ammissione all’università@, mentre il ministero fa sapere che l’85,9% delle scuole elementari e medie e il 70,9% delle scuole superiori in Etiopia sono «completamente al di sotto degli standard@».

«I risultati peggiori», riferisce padre Marco Marini, missionario della Consolata in Etiopia, «sono spesso nelle scuole private, anche se le scuole cattoliche continuano a mantenere un buon livello e quindi un buon nome».

Ad Alaba, 250 chilometri a sud della capitale Addis Abeba, i missionari della Consolata gestiscono una scuola con 730 alunni, seguiti da quattordici maestri; ci sono poi otto persone che svolgono altri servizi, dalla segreteria alla sicurezza. Le classi vanno dall’asilo alla quinta, ma i missionari intendono attivarne altre, fino all’ottava (equivalente alla nostra terza media, ndr), che è l’ultima del ciclo primario.

L’intervento realizzato ad Alaba ha permesso di fornire alla scuola quarantacinque banchi necessari per avviare la sesta classe e per sostituire quelli danneggiati nelle classi già esistenti. «In Etiopia – spiega padre Marco -, i banchi per la scuola sono pensati per tre studenti e hanno una struttura in ferro su cui sono poggiati i ripiani in legno che servono per scrivere e sedersi. I nuovi banchi possono quindi accomodare un totale di 135 studenti. Li ha realizzati la falegnameria della missione di Shashemane, a sessanta chilometri da Alaba».

Studenti in cortile della nuova scuola di Alaba

Kenya, la sanità fra riforme e vecchi problemi

Secondo i dati dell’Organizzione mondiale della sanità (Oms), il Kenya ha oggi un’aspettativa di vita di 66,1 anni, circa 7 anni sotto la media globale, ma 12,2 anni in più rispetto all’anno 2000@. Tuttavia, si legge nel rapporto 2022 dell’ufficio dell’Unicef in Kenya@, la povertà rimane alta e interessa 16 milioni di persone, cioè un keniano su tre. La metà della popolazione – 23,4 milioni di persone (o addirittura quasi 29 oggi, ndr), di cui 11,7 milioni sono bambini – non ha accesso a servizi di base come assistenza sanitaria, acqua potabile, servizi igienicosanitari, nutrizione e alloggio.

Il Kenya, continua il rapporto, si è impegnato a porre fine alla diffusione dell’Hiv/Aids, che è una minaccia sempre attuale per la salute pubblica, e alle gravidanze delle adolescenti entro il 2030. Se gli sforzi per garantire agli adulti l’accesso alle terapie per il trattamento dell’Hiv sono stati efficaci, tante infezioni nelle persone più giovani non vengono rilevate né trattate. Si stima che quasi 38mila bambini e adolescenti affetti da Hiv non siano in terapia.

Inoltre, secondo il ministero della salute keniano, come riportava lo scorso anno il giornale The Nation, una su cinque adolescenti fra i 15 e i 19 anni è madre o è incinta.

Uno studio pubblicato su Health economic review, rivista del gruppo anglo-tedesco Springer nature, rivela che solo un quinto dei keniani è coperto da una qualche forma di assicurazione sanitaria@ privata o pubblica (il Nhif, National health insurance fund del ministero della Salute, iniziato nel 1966, però collassato a causa della corrotta amministrazione di questi ultimi anni, ndr). Diverse testimonianze dirette da parte di missionari della Consolata, oltre a confermare sul campo questo dato, riportano che, di fatto, soltanto pagando è possibile ottenere cure adeguate.

Recentemente, il governo@ ha lanciato una riforma del fondo che però sembra peggiorare la situazione. Prima della riforma, i keniani pagavano dal loro stipendio o in forma volontaria cifre che andavano da 150 a 1.700 scellini keniani al mese (da poco meno di un euro a circa 11 euro) per il Nhif. Il nuovo fondo prevede un contributo minimo pari al doppio e, per i lavoratori dipendenti, un maggior prelievo percentuale sulla retribuzione.

Troppe persone oggi non hanno un lavoro regolare che dia loro diritto al Nhif o permetta loro di acquisirlo in forma volontaria e, tantomeno, di accedere alle cure sanitarie a pagamento.

Timbwani, la nuova clinica

Una delle zone in cui la povertà è più diffusa è la periferia di Mombasa, grande città portuale sull’Oceano Indiano, dove i missio-
nari della Consolata sono presenti a Likoni e a Timbwani, sulla costa sud oltre lo stretto che separa dalla città antica. Proprio a Timbwani, i missionari hanno di recente completato la costruzione di una nuova struttura sanitaria.

L’aiuto richiesto a Missioni Consolata Onlus dal responsabile, padre Joseph Waithaka, riguarda l’acquisto e installazione di mobilio e attrezzatura per la sala consultazioni, per il triage, per la sala delle cure prenatali e di materiale per le consultazioni pediatriche. La clinica di Timbwani lavorerà di concerto con il dispensario di Likoni, di cui è di fatto un’estensione, e avrà un bacino di utenza di circa 10mila persone. «Chi vive nella zona di Timbwani», scriveva lo scorso marzo padre Waithaka, «deve prendere il traghetto e attraversare lo stretto per raggiungere la struttura sanitaria pubblica più vicina. Questo nuovo centro sanitario ci permetterà di offrire assistenza ai malati e programmi di consulenza ai giovani tossicodipendenti e alcolisti». Mombasa si trova, infatti, su una delle nuove rotte del traffico mondiale di eroina e questo ha reso il Kenya un paese non solo di transito, ma anche di consumo@.

Chiara Giovetti




Il volto svelato


È arrivato il tempo, ed è ora, nel quale il veleno della morte
si tramuta in una bevanda dolce.
Il velo che copriva il volto dell’umanità, di ogni popolo,
di ogni famiglia, di ogni singolo è strappato.
Anch’esso tramutato in fragrante pane saporito.
Il mio volto illuminato dal Tuo.
Il Tuo volto di bambino che porta
a compimento la promessa.
Quella fatta fin dal primo giorno di vita sulla Terra:
«Eliminerà la morte per sempre» (Is 25, 6-10).
È arrivato il tempo in cui le lacrime del lutto
sono accarezzate via dalle dita dell’Amato,
dalla Parola dell’Amante, dal soffio dell’Amore.

Buon Avvento e buon Natale
perché sia il tempo nel quale svelare
il nostro volto autentico
da amico.

Luca Lorusso


Goditi Amico in anteprima attraverso le immagini.
Per gustarlo fino in fondo, accedi al sito amico.rivistamissioniconsolata.it

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Il profeta senza nome


Il nostro percorso alla scoperta di personaggi biblici la cui fede esemplare e affascinante può insegnare qualcosa anche a noi, è iniziato a gennaio con Abramo, il più noto dei patriarchi benché la sua precisa esistenza storica non sia al di sopra di ogni dubbio. Lo concludiamo con un personaggio che, all’opposto, è sicuramente esistito, ma che ha cercato in tutti i modi di nascondersi, tanto che, in effetti, non ne conosciamo neppure il nome, anche se ci ha lasciato alcune delle pagine più luminose e toccanti di tutta la Bibbia: parliamo dell’autore dei capitoli 40-55 del libro del profeta Isaia.

Lo sfondo letterario

Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Gerusalemme e la Giudea avevano vissuto un momento di crisi e di gloria. Di crisi perché nella regione era arrivata la potenza terribile del nuovo impero assiro che aveva avuto ragione dei ben più agguerriti regni di Damasco e di Samaria. Quest’ultima, il regno di Israele del Nord, era stata conquistata e distrutta nel 721 a.C. con la conseguente deportazione della sua classe dirigente e di tutti coloro che, per abitudine o cultura, avrebbero potuto eventualmente guidare una rivolta.

Un gruppo di sacerdoti, probabilmente, si era rifugiato da Samaria a Gerusalemme portando con sé le proprie tradizioni religiose e profetiche, forse già in parte scritte. Essi, quindi, avevano contribuito alla gloria di quegli anni, perché da loro Gerusalemme era stata come rivitalizzata, prima che arrivasse anche su di lei l’ondata conquistatrice degli Assiri. Questi l’avevano sì assediata ma, distratti forse da disordini in patria o, più probabilmenti, delusi dalla povertà che comunque vedevano nella città (per cui lo scarso bottino non avrebbe giustificato l’enorme sforzo per conquistarla), avevano deciso di abbandonare l’assedio prima di dare l’assalto finale (701 a.C.).

In quegli anni operava a Gerusalemme un profeta dallo stile limpido e bellissimo, sicuro di sé e deciso, che esortava i giudei a confidare non in alleanze umane, ma solo in Dio. E, in effetti, si sarebbe potuto dire che, alla fine, la storia gli aveva dato ragione. Egli continuava a ripetere che «tempio del Signore è questo» e Dio non lo avrebbe lasciato conquistare mai. Questo suo ritornello negli anni si era conservato ed era stato rinfacciato, più di un secolo dopo, a Geremia, il quale invece sosteneva che, nel suo tempo, per fidarsi di Dio occorreva lasciare che i nemici conquistassero la città santa (Ger 7,4): infatti, mantenersi sulle vie del Signore non significava fare sempre le stesse scelte.

Un contesto nuovo

La storia poi darà ragione anche a Geremia.

A metà del vii secolo l’impero assiro va in crisi, e il suo posto viene preso da un altro impero, quello babilonese, che ricomincia a percorrere la strada di conquista e sopraffazione già nota, anche se con uno stile lievemente più mite.

Durante la conquista babilonese, Gerusalemme viene presa e la parte più capace e colta dei suoi abitanti deportata a Babilonia.

In quel periodo, o forse appena dopo, inizia a predicare un profeta nuovo, di cui non conosciamo né il nome, né la vita, né il motivo per il quale decide di fare ciò per cui ancora oggi restiamo ammirati.

Sarebbe infatti bello sapere se quello che noi oggi leggiamo lo abbia anche predicato, ma non possiamo fare altro che immaginare e fantasticare. Ciò che sappiamo è che prende il libro di Isaia, chiuso più di un secolo prima, e decide di proseguirlo.

L’autore del libro di Isaia cambia dal capitolo 40 in poi, perché cambiano lo stile, i temi, lo sfondo (si capisce benissimo che chi scrive è in esilio e scrive a esiliati). Ma lui decide di non iniziare un nuovo rotolo, di non dichiarare chi è. Si «limita» a proseguire uno scritto altrui. Così facendo, inevitabilmente, suggerisce la sua continuità con il «primo» Isaia (in realtà, l’unico di cui abbiamo il nome).

Questi, come abbiamo ricordato, aveva invitato a confidare in Dio, che avrebbe difeso il suo popolo anche politicamente e militarmente. Chi prende quel libro in mano e decide di proseguirlo, vuole invece suggerire che, anche se il popolo è stato sconfitto ed esiliato, Dio continua a essere al suo fianco, a essere affidabile. E già un messaggio del genere è sorprendente.

Avrebbe potuto decidere di nascondere e dimenticare il rotolo di Isaia, o dire che aveva parlato del passato, invece, dal fondo dell’abisso, dice che Dio è sempre lo stesso, continua ad assistere il suo popolo, continua a esserci e a sostenere i suoi.

Le parole nuove

«Consolate, consolate il mio popolo, parlate al cuore di Gerusalemme» (Is 40,1-2).

Le parole dei profeti, almeno in superficie, sono sempre state dure, di giudizio e castigo, anche quando poi, in fondo, parlavano di amore e misericordia. Il «secondo» Isaia, invece, non salva neanche la forma: Dio è un padre innamorato che corre in aiuto di sua figlia, ne giustifica persino gli errori, la abbraccia, la rincuora.

Se parole di giudizio ci sono, sono contro le nazioni intorno, che hanno esagerato nel punire Israele. Ma per il resto si parla di un Dio che vuole far sorridere d’affetto gli esiliati, che li accarezza, che li vuole riconfortare.

Certo, soprattutto a quel tempo, sarebbe stato facile contestare queste affermazioni: come è possibile dire che Dio vuole il bene di Israele che, invece, si ritrova battuto, umiliato e deportato dopo aver visto bruciare il suo tempio, «il luogo scelto da Dio per porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,15, tra i tanti esempi)?

Per il mondo semitico, nel quale nasce anche questo testo, gli dèi difendono un luogo appartenente a loro popolo perché lo considerano proprio: se quel luogo viene conquistato è segno che quegli stessi dèi sono stati sconfitti. Dunque, qui si pone la questione: il Dio d’Israele ha abbandonato il suo popolo, oppure non è stato capace di difenderlo ed è stato sconfitto. Di fronte a questo dilemma verrebbe spontaneo abbandonare un simile Dio.

No, risponde il nostro profeta. E, per la prima volta con chiarezza assoluta, afferma quello che per il popolo ebraico diventerà il cuore della fede: Dio non è stato sconfitto e può decidere di non abbandonare il suo popolo, perché è l’unico Dio di tutta la terra, non uno dio tra i molti dèi. Egli  gestisce tutto come vuole, e ha vissuto la prova del suo popolo con angoscia, e non vuole più che soffra, come un padre che ha lasciato sbagliare suo figlio, ma ha vissuto con più dolore di lui le piaghe conseguenti ai suoi errori.

E siccome Dio è l’unico dio della terra, anche i salvatori che arriveranno per il suo popolo, come il re dei Persiani, Ciro, sono in realtà scelti e voluti e chiamati da lui, anche se loro non lo conoscono (Is 45,1.4). Addirittura, il nostro profeta dice che Ciro è il «suo pastore» (44,28) e il «suo messia» (45,1), con un coraggio che a volte persino le nostre traduzioni moderne faticano a seguire, preferendo renderlo con il «suo eletto» o il «suo unto».

E Dio può serenamente sognare e promettere, a questo punto, non che tutti i popoli saranno vinti e soggiogati, ma anzi che tutti verranno a Gerusalemme per rendere onore al Dio d’Israele (45,22-24). E può invitare il suo popolo amato a violare, apparentemente, la legge dell’Esodo e del Deuteronomio, smettendo di ricordare le imprese del passato: «Ecco, faccio una cosa nuova, proprio adesso germoglia, non ve ne accorgete?» (43,19). Il nostro anonimo profeta, che potrebbe piangere la propria sorte, invita a vedere Dio presente, operante, attivo nella vita degli esiliati.

La sofferenza

Tutto bello? Tutto buono? Come poteva un profeta simile farsi accogliere da gente che soffriva? Non si accorge di che cosa ha intorno, questo ingenuo?

Se ne accorge, sì, ma coglie che c’è altro. Che Dio è presente anche nella sofferenza. Anzi, che se c’è un sofferente che patisce con mitezza per gli altri, non solo Dio approva, ma è lì, con lui, al suo fianco. E se anche nessuno apprezzasse quella sofferenza, Dio non la trascura, ma la vede e valorizza, dicendo che proprio colui che patisce è «il giusto mio servo» (Is 53,11).

È così che nascono alcune tra le pagine più spiazzanti della Bibbia, che i cristiani leggeranno forse con la pelle d’oca, perché non potranno che pensare: «Ma qui parla della passione di Gesù».

Quasi come fossero inserti inutili o fuori tema, compaiono dei «cantici» che lodano un «servo del Signore» che porta pace e risanamento a Israele (42,1-9), procurando peraltro luce e salvezza non solo a quel popolo, ma a tutte le nazioni (49,1-6), benché sembri non vincente, ma oppresso e sconfitto, con la barba strappata, deriso, insultato. E infine, addirittura, mortificato, ucciso, svergognato (52,13-53,12), eppure sicuro di essere dalla parte di Dio (50,4-9).

È l’intuizione che chi è dalla parte del giusto, di Dio, non può essere confuso, anche se agli occhi del mondo sembra esserlo. È la novità di uno sguardo che non punta alle conseguenze, agli esiti, ma al senso, a ciò che c’è a monte. Perché Dio non guarda ai risultati, ma al cuore.

È l’intuizione abissale che un Dio che difende gli umili e gli oppressi, si farà umile e oppresso come loro, con loro.

Il messaggio del profeta sconosciuto

Quale può essere il messaggio interiore, profondo, di un personaggio che neppure possiamo vedere, immaginare, chiamare per nome?

Il «secondo Isaia» (così è passato alla storia per i biblisti) intuisce che un Dio impegnato in un rapporto personale e intimo con l’essere umano non può abandonarlo, soprattutto quando è umiliato, vinto, disperso. Il secondo Isaia intuisce che Dio è presente, c’è, non si ritira soprattutto dove l’umanità ha perso.

Solo uno sguardo amante capisce che, quando la storia sembra dire che sei stato sconfitto e devi arrenderti e rinunciare, chi ama resta sempre presente. E Dio è colui che ama l’umanità a prescindere da ogni altra cosa, come ha lasciato capire in tanti secoli e in tanti personaggi e, per noi, in tanti libri biblici.

Anche quando tutto sembra perduto, anzi, soprattutto in quel momento, Dio è lì, è accanto, sorride, consola, abbraccia, rialza.

Questo profeta ci mostra uno sguardo che prova a penetrare nel pensiero di Dio, e scopre qualcosa di inaudito, di impensabile. Scopre che Dio è tanto interiore all’umanità da non poter fare a meno di farsi debole anche lui, fragile, oppresso e ucciso. Senza che questo gli tolga la capacità di salvare. Ma donandogli la possibilità di «saper prendere parte alle nostre debolezze, perché è stato messo alla prova in ogni cosa come noi» (Eb 4,15).

Il «secondo Isaia» non trova questo volto di Dio descritto da nessuna parte, ma lo intuisce guardando a ciò che il suo Signore ha fatto nella storia, cogliendone la logica, le modalità di comportamento. Il suo è lo sguardo fiducioso che non si aggrappa ai testi o alle argomentazioni (che forse non gli darebbero ragione), ma si affida a una relazione personale che (il profeta lo sa, lo intuisce, se ne fida) non verrà meno, mai.

Angelo Fracchia
(Camminatori 10 – fine)




Sintonia spirituale e missionaria


Il 7 giugno 2023, in piazza San Pietro a Roma, all’udienza di papa Francesco sono presenti i membri dei Capitoli generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata. In quel giorno sono esposte davanti al Papa e a tutti i pellegrini le reliquie di santa Teresa di Gesù Bambino. E papa Francesco la presenta come modello di missionarietà a tutta la Chiesa. Lei che in missione non ci era mai stata, – ha sottolineato il Papa – è stata proclamata patrona delle missioni. Perché?

Risponde il Papa stesso: «Nel suo “diario” Teresa racconta che essere missionaria era il suo desiderio e che voleva esserlo non solo per qualche anno, ma per tutta la vita, anzi fino alla fine del mondo. Teresa fu “sorella spirituale” di diversi missionari: dal monastero li accompagnava con le sue lettere, con la preghiera e offrendo per loro continui sacrifici. Senza apparire, intercedeva per le missioni, come un motore che, nascosto, dà a un veicolo la forza per andare avanti…».

«I missionari, infatti – aggiunge papa Francesco -, di cui Teresa è patrona, non sono solo quelli che fanno tanta strada, imparano lingue nuove, fanno opere di bene e sono bravi ad annunciare; no, missionario è anche chiunque vive, dove si trova, come strumento dell’amore di Dio; è chi fa di tutto perché, attraverso la sua testimonianza, la sua preghiera, la sua intercessione, Gesù passi».

In questa felice circostanza i Missionari e le Missionarie della Consolata presenti all’udienza certamente si sono ricordati dell’insegnamento del loro fondatore che in varie occasioni proponeva la Santa di Lisieux come modello di vita per la loro vocazione missionaria. Ancora prima della beatificazione di Teresa avvenuta il 29 aprile 1923, l’Allamano volle indicarla come «protettrice dell’anno» per i missionari e le missionarie. Di lei amava mettere in evidenza che non aveva fatto «nulla di grande ma tutto piccolo» e che «si era fatta santa nelle piccole cose con volontà di ferro».

L’anno seguente, Giuseppe Allamano volle che i Missionari e le Missionarie celebrassero un solenne triduo di preghiera e di riflessione per ricordare la beatificazione della Carmelitana di Lisieux e prepararsi alla sua canonizzazione.

Il timbro spirituale e missionario della Santa di Lisieux, papa Francesco lo propone anche oggi a tutta la Chiesa: non si può essere cristiani autentici senza vibrare di zelo per l’annuncio di Cristo Gesù a tutti, con la preghiera, nella valorizzazione degli impegni quotidiani, accogliendo come moneta preziosa le croci che non mancano mai nella vita di ogni persona.

padre Piero Trabucco


Spiritualità al femminile

Formato dalla mamma, Marianna Cafasso, e dalla maestra, Benedetta Savio, donne di fede solida e squisita carità, Giuseppe Allamano ha trasfuso nelle fondazioni dei Missionari e delle Missionarie della Consolata una spiritualità impregnata delle caratteristiche e dei valori di cui è ricca la donna.

Il volto della spiritualità

La spiritualità femminile è molto diversa dalla spiritualità femminista. Essa si riferisce al volto della spiritualità divina che si relaziona con il corpo, con la natura e con i cicli della creazione. Il concetto di spiritualità femminile non riguarda il genere, ma piuttosto l’energia spirituale creativa e vivificante che dà forma a ciò che ci interessa e in cui mettiamo la nostra energia.

Marianna Cafasso

La spiritualità femminile di Giuseppe Allamano cresceva in lui come lui cresceva in sua madre; in qualche modo è parte di una esperienza vissuta a partire dalla sua infanzia. Parlando della spiritualità femminile dell’Allamano, due figure principali vengono in evidenza: sua madre Maria Anna Cafasso e la sua maestra Benedetta Savio.

Sappiamo che il padre dell’Allamano morì quan-do lui aveva meno di tre anni. Marianna si trovò quindi vedova, con cinque figli piccoli e affrontò la situazione con la risolutezza caratteristica dei tempi facendosi carico del lavoro, come racconta l’Allamano stesso parlando di lei: «Con il nostro modesto patrimonio, riuscì a mandare a scuola tre di noi, e ancora aumentò i nostri beni di circa 1.200 lire (ca. 6mila €) e poi non si dimenticava dei bisogni degli altri, poveri del luogo altrimenti trascurati, e interveniva con pronta efficienza».

La nipote Pia Clotilde ha detto: «Lei lavorava molto, e faceva lavorare molto gli altri. Aveva abbastanza roba per vestire un ballo (espressione tipicamente piemontese, nda) e così quando qualche povera donna aveva un figlio, preparava per lei gran parte del corredino. I poveri e i malati li aiutava nei loro molti bisogni».

Benedetta Savio

La maestra elementare di Giuseppe Allamano divideva il suo tempo tra i bambini dell’asilo, la sua famiglia e una intensa vita di pietà. Le testimonianze del suo gioioso fervore nella preghiera, anche in età avanzata e nella malattia, hanno molto in comune con quelle che descrivono esempi più famosi di santità.

L’Allamano è stato molto influenzato da queste due figure femminili: la loro tenerezza, la loro generosità, la loro laboriosità e santità. Tutto ciò ha segnato l’inizio della sua spiritualità femminile in cui la donna ha uno spazio centrale non solo nella sua vita, ma nella vita della Chiesa e dell’intera società. Lo spirito di duro lavoro, la generosità e la precisione che l’Allamano aveva li vediamo perfettamente presenti in tutta la sua vita e con essi affrontava le sfide di ogni giorno.

La trasmissione dei valori materni

Nei suoi scritti spirituali, l’Allamano desidera tutte queste virtù per i suoi missionari e tra queste la generosità, il lavoro duro, lo spirito di preghiera e la carità verso Dio e verso il prossimo: «Nostro Signore vuole la generosità», «Chi non si adatta ai lavori manuali non ha lo spirito missionario»; «Non bisogna aver paura di sporcarsi le mani»; «Dovremmo essere felici di morire nel campo del nostro lavoro». Secondo lo stile che era proprio di sua madre, inviava frequenti aiuti ai poveri.

Nei suoi scritti, inoltre, vediamo un uso frequente di espressioni materne e femminili. La prima casa dei missionari è chiamata, ad esempio, la Casa Madre, «di conseguenza, amate questa casa come una vera madre, essa vi ha accolto tra le sue braccia e vi nutre e vi prepara all’apostolato». Paragona, quindi, la famiglia religiosa da lui fondata a una madre affettuosa e tenera, la cui attenzione è rivolta ai suoi figli: «Questa casa è la tua Gerusalemme»; «Questa casa è stata costruita per la tua formazione»; «In questa casa, Dio fornisce molte grazie solo per te, per la tua santificazione, grazie che non dà ad altri fuori di questa casa».

La madre dei missionari

L’apice della spiritualità femminile dell’Allamano la troviamo in tre aspetti principali: l’intitolazione dell’Istituto alla santissima Madre Consolata, il coinvolgimento di molte donne nella sua opera missionaria di evangelizzazione e la fondazione delle Suore missionarie della Consolata. Come molti altri fondatori, l’Allamano avrebbe potuto scegliere un titolo diverso per le sue comunità missionarie e invece decise di intitolare i suoi Istituti alla Madonna che poi chiama «fondatrice», la Consolata, sottolineando così anche il ruolo che lei ebbe nella storia della Chiesa e della salvezza dell’umanità. Riteneva che Maria fosse davvero una madre per noi e che noi fossimo cari figli per lei.

Nella terza spedizione, arrivata il 13 maggio 1903, ci fu una novità inaspettata: insieme ai sei missionari partivano anche otto suore del Cottolengo, le prime donne chiamate all’opera delle missioni della Consolata. Seguirono poi le Missionarie della Consolata che l’Allamano fondò nel 1910 dietro espresso invito del papa Pio X «È il papa Pio X che vi ha volute, è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie», e queste missionarie le chiamava giocosamente «papali». Papa Francesco, in occasione del tredicesimo Capitolo generale le ha giustamente chiamate il «ramo femminile dell’Istituto».

Il ruolo della donna nell’evangelizzazione

La spiritualità femminile dell’Allamano riunisce i due rami dell’Istituto, i Missionari e le Missionarie della Consolata, come una sola famiglia, dedicata al servizio della Chiesa e di tutto il genere umano con la fiamma ardente della carità verso Dio e il prossimo. Questa spiritualità riconosce il ruolo della donna nella missione evangelizzatrice della Chiesa, nella società e nella famiglia.

Rafforza anche il nostro impegno a promuovere la dignità e il ruolo della donna nella società; ce lo ha ricordato anche papa Francesco durante il tredicesimo Capitolo generale: «Un’attenzione speciale è data all’impegno di promuovere la dignità delle donne e i valori della famiglia» e permette di apprezzare il valore delle donne consacrate che, sull’esempio di Maria, si aprono con ubbidienza e fedeltà al dono dell’amore di Dio.

padre Charles Orero


Tenerezza paterna di Giuseppe Allamano

Un giovane sacerdote missionario e un laico missionario della Consolata, in occasione della festa del beato Allamano (16 febbraio) hanno condiviso un aspetto peculiare della personalità del padre fondatore: la sua tenerezza paterna.

Testimonianza di padre Piero Demaria

L’Allamano aveva a cuore il bene dei suoi figli e figlie. Due episodi mostrano la sua tenerezza paterna verso di loro.

Il primo si riferisce a fratel Benedetto Falda, partito col secondo gruppo di missionari per il Kenya nel 1903. Era un tipo molto attivo e creativo e, trovandosi nella missione di Tuthu, attraversava un momento di tristezza e nostalgia.

L’Allamano scrivendogli non lo ha esortato a farsi coraggio e a darsi da fare, ma ha pensato a come aiutarlo per farlo star meglio ed essere contento. Si è ricordato che fratel Benedetto suonava il mandolino, lo faceva nelle feste e anche nelle balere e allora ha cercato per tutta Torino un mandolino e glielo ha fatto spedire con una delle navi che portavano aiuti ai missionari in Kenya, scrivendogli: «Prendi questo mandolino, suona e canta e starai meglio».

L’Allamano aveva veramente a cuore che i suoi missionari e missionarie stessero bene e fossero contenti del loro lavoro. Prima ancora dell’efficenza era interessato alla gioia delle persone.

Un altro episodio riguarda una suora che stava male: il fondatore era andato a trovarla e le aveva chiesto che cosa le avrebbe fatto piacere. La suora gli aveva risposto che avrebbe mangiato volentieri un grappolo d’uva. Non era ancora la stagione, ma l’Allamano non le ha detto che non ce n’era. Ha cercato invece l’uva per tutta la città e, trovatala, l’ha portata alla suora soddisfacendo il suo desiderio.

I due episodi mostrano che, più che il grappolo o il mandolino in sé, ciò che ha fatto stare meglio queste due persone è stato vedere come il fondatore le avesse a cuore, spendesse il suo tempo per loro, appunto, come farebbe un padre pieno di tenerezza per i suoi figli.

Testimonianza di Mauro Brucalassi missionario laico della Consolata

L’incontro con l’Allamano ha in un certo senso orientato la mia vita. Cosa c’entra quel pretino umile e un po’ malaticcio con la mia vita? C’è un prima e c’è un dopo questo incontro. Un prima, quando le vicissitudini della vita (positive e negative) le consideravo dovute al caso, alle circostanze, tutt’al più al destino; e c’è un dopo, quando tutto è dovuto a un disegno che Dio ha per ognuno di noi al quale difficilmente si può sfuggire, ecco il messaggio.

Ho conosciuto l’Allamano 24 anni fa facendo parte del nascente gruppo Lmc (Laici missionari della Consolata) di Grugliasco guidato dalle suore della Consolata che hanno voluto condividere il carisma di consolazione anche con persone non consacrate. Confesso che mi ci sono voluti mesi di formazione per aprirmi a questa nuova realtà.

Nel partecipare a questi incontri, oltre agli insegnamenti sul carisma che ci venivano forniti, ho avuto occasione di leggere alcuni libri sul beato Allamano scritti da padri e da suore della Consolata. Alcuni di loro l’avevano conosciuto personalmente e le loro memorie mi hanno appassionato. I loro scritti, infatti, non si limitavano a descrivere la vita, le azioni, i suggerimenti del fondatore ma c’era qualcosa in più, si evidenziava un affetto filiale nei suoi confronti.

Inoltre, ho avuto modo di leggere alcune lettere che l’Allamano scriveva ai suoi «figli e figlie» in missione e devo dire che erano, e restano, messaggi colmi di affetto, di tenerezza e di amore profondo. Anche quando rimproverava coloro che avevano commesso qualche errore, lo faceva sempre con delicatezza senza mai eccedere nell’ammonire.

Questo modo di agire mi ha colpito in modo significativo, ho trovato nell’Allamano un’umanità straordinaria, un uomo concreto con una devozione smisurata nei confronti della Vergine Consolata.

Era un uomo che non dava risposte preconfezionate come solitamente si sentono dare, ma ciò che diceva proveniva dal cuore. È stato un vero testimone del Vangelo.

I suoi insegnamenti potevano, e possono sembrare difficili da mettere in atto, basti pensare alla frase: «Prima santi e poi missionari», con quel «Essere santi» che sembra di difficile attuazione. Ma subito dopo spiegava in che modo attuare il concetto: «Fare lo straordinario nell’ordinario», in altre parole, fare quello che si deve fare giornalmente nel migliore dei modi possibile.

Come laico missionario dalla Consolata non mi prefiggo di andare in missione ad gentes, tuttavia sono impegnato nel volontariato prestando servizio nella mia parrocchia, ma soprattutto nel Centro di ascolto «Pier Giorgio Frassati» di Collegno e Grugliasco dove ho modo di incontrare persone in difficoltà, sole, giovani e anziani che chiedono aiuto, ed è qui dove posso mettere in atto, con i miei limiti e le mie fragilità, gli insegnamenti dell’Allamano. Lui diceva che: «Non tutti possono andare alle missioni, per svariati motivi, ma tutti siamo apostoli nelle nostre case, nei nostri paesi. Tutti siamo chiamati e dobbiamo essere apostoli e, ciascuno nella sua sfera di azione, far conoscere e amare Gesù»: questo è ciò che mi propongo di fare.

a cura di Sergio Frassetto

 

 




Il tempo delle non cose


Uno stile semplice e diretto. Libri sottili ma corposi. Il filosofo Byung-Chul Han, docente a Berlino, accende la luce sui malesseri tipici della vita contemporanea. In particolare, sul senso di irrealtà legato all’uso di computer, smartphone, intelligenza artificiale. E prova a suggerire possibili antidoti.

Byung-Chul Han, nato a Seul nel 1959, attualmente vive e insegna filosofia e cultural studies all’Universià di Berlino. Analizza da anni le conseguenze politiche e psicosociali del modello economico neoliberista nelle società occidentali e soprattutto l’influenza del digitale nelle nostre vite, sempre più dipendenti dalle tecnologie.

Nel suo Le non cose, edito da Einaudi, ci offre una lucida riflessione sulla società che stiamo costruendo. Lo fa tramite uno stile semplice e diretto, efficace nell’accendere una nuova luce sulla realtà che ci sta intorno.

Il testo offre una lettura immersiva del mondo attuale, e ha il dono di sorprenderci ricomponendo i diversi sensi delle cose che ci accadono.

Non è una critica, ma una lettura e interpretazione di quel senso di estraneazione che ci prende mentre compiamo i nostri atti quotidiani circondati da strumenti come smartphone e computer, nostri compagni di vita.

Scrive Han: «L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. […] Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo». Non sono più gli oggetti ad arredare il mondo, ma le informazioni. Non è più la mano che costruisce oggetti a fondare l’essere in senso heideggeriano, ma l’informazione.

La sintesi di questa nuova ontologia diventa lo smartphone. Esso ci fornisce l’illusione di avere il mondo a portata di mano. Nella comunicazione digitale l’altro è sempre meno presente, preferiamo, infatti, mandare un messaggio piuttosto che chiamare per non esporci al dialogo. È così che ci ritiriamo in una bolla narcisistica, facendo scomparire di fatto l’empatia, le relazioni, e finendo per sentirci soli. E in questo vuoto nasce la depressione come sintomo di mancanza di nutrimento che solo il sentirsi all’interno di una comunità può guarire.

Quando Han affronta il tema dell’intelligenza artificiale, la definisce «senza cuore», perché mette insieme dati già esistenti, senza far apparire nuovi scenari di senso. Calcola ma non crea nulla di nuovo, si limita a scegliere tra opzioni già esistenti.

Anche la memoria del computer è senza cuore. È «additiva», mentre la nostra memoria è «narrativa». Questo è uno dei nodi interessanti del libro: la differenza tra dato e ricordo. I dati memorizzati dal computer sono messi in fila e conservati così come sono stati inseriti, senza essere elaborati. Il ricordo invece è evocativo, possiede una profondità che risuona nell’interiore e riorganizza gli eventi spesso con significati nuovi.

Byung-Chul Han ci offre anche una via di uscita da questa irrealtà: il silenzio.

Solo nel silenzio si riesce a ritrovare il contatto con la parte più profonda del nostro essere. Nel silenzio si sta in ascolto, si è in relazione con il tutto che ci circonda, si avverte la profondità che è verticale tanto in alto quanto in basso. Nel silenzio si esercita quello sguardo contemplativo dotato di pazienza per il lungo e il lento che diventa preghiera. E come afferma a pag. 105: «È il silenzio a salvare» la nostra vita.

Dello stesso autore

Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Einaudi, 2023.

Il filosofo si domanda quali sono gli effetti della digitalizzazione sulla democrazia, rispondendo che ci troviamo in una fase di passaggio a un regime totalitario basato sui «dati» e su nuove figure come gli influencer.

Iperculturalità. Cultura e globalizzazione, Nottetempo, 2023.

In questo testo Han ragiona sulla smaterializzazione degli spazi e dei confini della cultura grazie alla globalizzazione degli ultimi decenni. Se prima la cultura di ciascuno era un elemento di costruzione della sua identità, ora tutte le culture appaiono importanti. Ma forse questo significa che non ci si sente davvero a casa in nessun luogo.

Elogio della Terra. Un viaggio in giardino, Nottetempo, 2022.

Han incentra questo libro sulla cura del suo giardino a Berlino, attraverso cui ha riscoperto la felicità legata ai ritmi della natura. Mentre il mondo digitale allontana dalle esperienze sensoriali, estranea da dolore e corporeità, il ritorno alla terra aiuta a ritrovare una spiritualità nella quale i colori, i suoni, la relazione con gli insetti, restituiscono all’uomo la sua vera appartenenza.

La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, 2022.

Han sottolinea come la nostra società sia caratterizzata dalla paura del dolore e della morte e imponga di essere sempre positivi, in salute e felici. Le persone cercano, allora, forme di anestesia simbolica e concreta per liberarsi da ciò che le rende sofferenti e mortali: una rimozione sociale della morte e del dolore.

Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, 2016.

Han analizza le nuove forme di potere che inchiodano l’individuo: non siamo più di fronte a un potere coercitivo e punitivo, ma a soggetti che si sfruttano da soli per diventare «imprenditori di se stessi». Alla conquista di sempre nuove competenze e motivazioni per raggiungere il successo, senza orari di lavoro né diritti, ossessionati dalla continua ricerca di superare i propri limiti.

Rita Vittori

 




L’economia dei respingimenti


Ogni anno sono milioni i rifugiati e i migranti. Lasciano i loro paesi per guerre, persecuzioni, disastri naturali, fame. Cercano rifugio e ospitalità nei paesi ricchi, i quali – oggi ancora più che nel passato – mettono in atto politiche di respingimento. Proviamo a spiegare i termini di una questione planetaria.

Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati, nel 2023 almeno 117 milioni di persone (secondo le prime stime) in tutto il mondo hanno lasciato le loro case per sfuggire a guerre e persecuzioni. A questi occorre aggiungere – stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – circa 281 milioni di migranti (e ancora non c’è unanimità giuridica sugli spostamenti dovuti ai cambiamenti climatici: sono rifugiati ambientali o migranti ambientali?). La sola guerra in Ucraina ha provocato lo spostamento di circa 7 milioni di individui. Persone che scappano senza una meta ben precisa con il solo intento di mettersi in salvo. Molti terminano il loro viaggio non appena trovano un accampamento della Croce Rossa o delle Nazioni Unite pronti ad accoglierli. Altri, invece, proseguono con l’intento di trovare riparo in un paese ricco, dove pensano di potersi garantire un futuro diverso. I paesi ricchi, però, non li vogliono e il loro viaggio si trasforma spesso in tragedia. Il naufragio di Cutro (26 febbraio 2023), con il suo centinaio di vittime, ne è una triste testimonianza.

Le strategie dei governi

Per impedire ai migranti di entrare e stabilizzarsi dentro i loro confini, i paesi ricchi si avvalgono di un piano strategico articolato su più livelli.

Il primo livello di sbarramento è rappresentato da accordi con i paesi di transito affinché impediscano ai migranti di proseguire il loro viaggio.

In Europa, le grandi ondate migratorie sono iniziate nel 2011 dopo l’intervento armato in Libia da parte dell’Occidente che destabilizzò il paese mettendo in fuga centinaia di migliaia di libici e di stranieri immigrati che si trovavano nel paese per lavorare.

Nel 2013 un barcone si rovesciò nei pressi di Lampedusa e affogarono quasi 400 persone. Il fatto provocò grande sconcerto nell’opinione pubblica e l’allora governo Letta decise di avviare l’operazione Mare Nostrum, il pattugliamento del Mar Mediterraneo da parte della Marina militare  italiana per salvare i migranti in pericolo. Ma l’operazione non durò più di un anno.

Nel frattempo, anche il Medioriente era entrato in piena crisi umanitaria per il protrarsi della  guerra in Iraq e in Afghanistan e il divampare della guerra in Siria. Quell’anno all’incirca quattro milioni di siriani si trovavano in Libano e Turchia. Tuttavia, c’era anche chi cercava di raggiungere l’Unione europea. Nel 2015 ben 900mila persone approdarono sulle coste greche, in un paese impreparato ad affrontare un’emergenza umanitaria di tali proporzioni dopo anni di austerità che lo avevano messo in ginocchio.

Così l’Unione europea chiese aiuto alla Turchia, che si impegnò a pattugliare le proprie coste per impedire ai migranti di imbarcarsi verso la Grecia. In più, qualora qualcuno fosse riuscito a raggiungere i paesi europei, la Turchia se lo sarebbe ripreso. In cambio, l’Unione europea ha versato (a rate) sei miliardi di euro per il mantenimento dei rifugiati in Turchia. Oltre che con i soldi, l’Ue ha pagato Erdogan anche con il silenzio sulla violazione dei diritti umani e altri abusi commessi dal governo turco verso i Curdi. Ma questo non poteva essere messo nero su bianco.

Il patto è scaduto nel 2021 e non è dato sapere se e come verrà rinnovato. Ma ha fatto scuola e negli anni seguenti altri accordi sono stati stipulati sia dall’Ue che dal governo italiano con vari paesi del Nord Africa.

Migranti su un barchino. Foto Geralt – Pixabay.

L’accordo con la Libia

Nel caso dell’Italia, uno dei più imponenti è stato quello firmato nel 2017 con la Libia. In cambio di mezzi e denaro elargiti dall’Italia alla Guardia costiera libica, il governo del paese si impegnava a bloccare i flussi migratori tramite la chiusura del confine sud, il blocco delle partenze via mare verso l’Europa, il respingimento a terra dei migranti intercettati al largo delle coste libiche.

Il memorandum, rinnovato già due volte, prima nel 2020 poi nel 2023, dovrebbe aver comportato una spesa complessiva di 124 milioni di euro. Il condizionale è d’obbligo perché la trasparenza scarseggia.

Lorenzo Figoni, esponente di Action Aid, sottolinea come il Parlamento svolga un ruolo marginale sull’argomento: vota i finanziamenti di massima indicati in legge di bilancio, ma poi non chiede una rendicontazione dettagliata della spesa. Di certo comunque c’è che la Libia è un inferno per i migranti.

In varie occasioni Ong e Nazioni Unite hanno documentato come rifugiati e migranti vengano arbitrariamente arrestati e imprigionati in centri di detenzione dove rimangono per lunghi periodi in condizioni disumane. Senza cibo, senza acqua, senza servizi igienici, sono spesso sottoposti a percosse e torture con bastoni, spranghe, plastica fusa, scariche elettriche, prolungati periodi di sete. Le donne, comprese ragazze giovanissime, subiscono ripetute violenze sessuali.

Crimini commessi da parte di personale governativo libico sovvenzionato dal governo italiano. Come se non bastasse, vari rapporti delle Nazioni Unite denunciano forti collusioni fra trafficanti di esseri umani e vertici della polizia, nonché della Guardia costiera libica.

Lo sostiene, ad esempio, il rapporto d’indagine pubblicato il 3 marzo 2023 da Human rights council quando scrive di «avere ragionevoli motivi per ritenere che il personale di alto livello della Guardia costiera libica  e della Direzione per la lotta alle migrazioni illegali sia colluso con trafficanti e contrabbandieri che assieme ai gruppi di miliziani catturano i migranti e li privano della loro libertà». E aggiunge: «La Missione ha anche ragione di credere che le guardie abbiano chiesto e ottenuto pagamenti per il rilascio dei migranti.

In Libia, la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando di esseri umani generano entrate significative a individui singoli, a gruppi criminali organizzati, a personale delle istituzioni statali».

L’accordo con la Tunisia

Secondo Action Aid, tra il 2015 e il 2020, l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro a favore di Libia, Niger, Tunisia, Sudan e altri governi africani che non garantiscono il rispetto dei diritti umani, come contropartita della loro attività di respingimento o trattenimento dei migranti. Una politica che il governo Meloni intende rafforzare coinvolgendo un’Unione europea con la quale la contrapposizione è continua. Richiesta che la Commissione europea sembra intenzionata ad accogliere a giudicare dal protocollo di intesa firmato con il governo tunisino il 16 luglio 2023. Fra i molteplici punti toccati, è compresa anche la lotta alle migrazioni illegali con un sostegno finanziario ipotizzato in 105 milioni di euro da parte dell’Ue.

Il memorandum è però controverso: il presidente tunisino Saied parla di carità, mentre i governi europei non vedono alcuna diminuzione dei flussi migratori. Inoltre, al tempo stesso in cui avveniva la firma del protocollo, i quotidiani di tutto il mondo riportavano le foto di migranti ricacciati nel deserto dalla polizia tunisina, morti per mancanza d’acqua.

L’Ue è impegnata nella lotta contro i migranti anche su un altro fronte. Quello di protezione e controllo dei confini nazionali, anche se i protagonisti principali di questa attività rimangono i singoli governi che arrivano a costruire muri e recinzioni, pur di impedire l’ingresso ai migranti.

Soldati indiani lungo la barriera che divide il confine tra India e Bangladesh. Foto IANS.

Stati Uniti (ma anche India)

Una strategia che non riguarda solo l’Europa, ma il mondo intero. Basti dire che lungo il confine con il Bangladesh, l’India ha costruito una fortificazione metallica lunga 3.200 chilometri, la più lunga degli oltre 15mila chilometri di sbarramenti costruiti a livello mondiale. Nelle Americhe, gli Stati Uniti sono separati dal Messico da mille chilometri di muro alto dieci metri, parte in cemento, parte in metallo. E poiché in alcuni tratti è il Rio Grande a fare da confine, nel luglio 2023 il governatore repubblicano del Texas ha pensato di sbarrare l’attraversamento ai migranti con una serie di boe tenute insieme da filo spinato. E pensare che gli attuali Stati Uniti sono nati per iniziativa di immigrati che si fecero spazio trucidando gli abitanti originari.

Venendo all’Europa, i primi sbarramenti ai confini vennero costruiti negli anni Novanta del secolo scorso attorno a Ceuta e Melilla, due possedimenti spagnoli incastonati sulle coste marocchine che si affacciano sul Mar Mediterraneo.

In seguito altre fortificazioni sono state costruite lungo i confini europei per un totale di duemila chilometri, non solo sulle frontiere esterne, ma addirittura fra nazioni aderenti all’Unione europea. Lo testimoniano i 350 chilometri di rete metallica stesa fra Austria e Slovenia, Ungheria e Croazia, Slovenia e Croazia.

Intanto, in Europa

A partire dal 2015 con l’aggravarsi della situazione in Medioriente, un numero crescente di fuggiaschi ha cercato di raggiungere l’Unione europea via terra, lungo la cosiddetta «rotta balcanica». Ma stati come Bulgaria, Romania, Ungheria, perfino Grecia, venivano temuti perché tristemente famosi per i loro respingimenti.

Ancora oggi migliaia di migranti cercano di entrare in Croazia, ma sono ripetutamente respinti, spesso in maniera brutale.

Le testimonianze raccolte da Amnesty international, e molte altre associazioni umanitarie, parlano di migranti che non appena attraversano il confine croato in mezzo ai boschi, sono catturati da persone armate e incappucciate ma con divise della polizia. Quindi, sono picchiati, derubati, sottoposti a sevizie e poi consegnati alle guardie di frontiera che li respingono in Bosnia.

Fra il gennaio 2020 e il dicembre 2022, l’organizzazione danese Drc ha registrato quasi 30mila respingimenti dalla Croazia, molti dei quali accompagnati da trattamenti violenti e degradanti.

A rendere ancora più drammatica la situazione c’è che il rischio di essere respinti in Bosnia può riguardare anche chi è riuscito a raggiungere l’Italia.

In nome di un accordo bilaterale stipulato nel 1996 con la Slovenia, nel 2020 l’Italia ha respinto in quel paese 1.300 migranti che verosimilmente sono poi stati respinti in Croazia e quindi in Bosnia, secondo il fenomeno del cosiddetto respingimento a catena.

Fortunatamente, nel 2021, una sentenza del tribunale di Roma ha dichiarato l’inapplicabilità dell’accordo del 1996 e i respingimenti verso la Slovenia si sono arrestati. Con l’avvento del governo Meloni si rischia, però, di tornare al passato perché, nel dicembre del 2022, il ministero dell’Interno ha emanato una circolare rivolta ai prefetti di Trieste, Udine e Gorizia nonché al Commissario di governo per la provincia di Bolzano, per sollecitarli «ad adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine, al fine di assicurare la più efficace attuazione degli accordi stipulati con la Slovenia e l’Austria».

Parole in burocratese con effetti reali sui migranti anche perché, come vedremo nella prossima puntata, l’Europa intera, al di là delle parole, si sta organizzando per destinare sempre più risorse alle politiche di respingimento.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)




Geremia, il più tormentato dei profeti


Tra i profeti ci sono personaggi molto diversi. Tutti mettono al centro del loro messaggio la fede e l’affidamento a Dio, ma ciascuno vive la propria vocazione in modo singolare. Ci sono quelli decisi, sicuri di sé, generosi e convinti alla Isaia («“Chi manderemo?”. “Eccomi, manda me!”», Is 6,8), e altri molto più travagliati come Geremia. Geremia di tormenti ne ha moltissimi, ed è proprio questo che ce lo rende più simpatico, moderno ed esemplare.

Lo sfondo storico

I profeti, lo sappiamo, sono gli autori biblici che più dialogano con il mondo nel quale sono inseriti. Il «ministero profetico» consiste esattamente nella capacità di inserire il messaggio divino in situazioni storiche concrete, cogliendo come Dio reagirebbe a quelle condizioni, che lettura offrirebbe di quei contesti. È quindi chiaro che una conoscenza precisa dello sfondo storico in cui i profeti agiscono è più che necessaria.

Il problema è che i profeti ci hanno lasciato libri scritti per lo più in forma poetica, frequentemente allusiva ed evocativa più che descrittiva, spesso difficili da interpretare in modo corretto. D’altronde, è esattamente quello che riscontriamo nella nostra poesia o persino nei commenti politici dei nostri tempi. Di questi, però, conosciamo tutti i particolari, così che capiamo le allusioni, anche minime, e tutto diventa più facile. Della storia antica, invece, non riusciamo più a ricostruire le situazioni, se non le grandi linee.

È una fortuna che i capitoli 34-45 del libro di Geremia offrano un contesto storico un po’ più preciso che aiuta a comprendere meglio le parti poetiche.

Lo sfondo generale del tempo di Geremia, dunque, è questo: nel 721 a.C. cade il regno di Israele del Nord per mano dell’impero neoassiro. Nel 701 a.C. s’interrompe miracolosamente l’assedio di Gerusalemme prima della caduta della città. L’impero neoassiro va in crisi e viene sostituito da quello neobabilonese, altrettanto espansionista (arriverà a conquistare anche l’Egitto). All’inizio del VI secolo a.C. si fa forte la pressione anche sulla Giudea, che in effetti cadrà nel 587 a.C., dopo una prima sconfitta e accordo di vassallaggio nel 597 a.C.

In Giudea emergono due visioni diverse della realtà e su come affrontare il pericolo. Una, più religiosa, sostiene che, come aveva già fatto più di un secolo prima, Dio salverà il suo tempio, che è sacro («Tempio del Signore è questo!», Ger 7,4). Un’altra, più mondana, crede invece che la salvezza verrà dall’accordo politico con l’Egitto. Entrambe sono convinte che occorra difendere l’autonomia della Giudea contro i babilonesi. Bisogna solo resistere: che si tratti di Dio o dell’Egitto, qualcuno arriverà a salvarci.

Un messaggio inaudito

È su questo sfondo che Geremia si trova inviato a portare un messaggio inaudito: «Volete essere fedeli al Signore? Lasciate che il suo tempio venga distrutto. Dio non interverrà più a salvare il vostro regno. Vi chiede di lasciare che la storia prosegua sulle sue strade, e che voi scopriate modi nuovi di relazionarvi con lui» (cfr. 5,7-19; 7,3-16; 42,9-22).

Un messaggio come questo ha una forza che va contro tutte le credenze del tempo.

Il tempio di Gerusalemme non era semplicemente il luogo dove pregare o offrire sacrifici, come oggi è per noi una chiesa, sia pure essa la più grande o centrale come San Pietro o qualche santuario famoso in tutto il mondo. Il tempio era «il luogo che Dio si è scelto dove porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,11, fra gli altri), l’unico luogo della presenza di Dio nel mondo.

Se dobbiamo ipotizzare un parallelo per capirci, era qualcosa di più vicino a quello che per noi è l’Eucaristia, piuttosto che al semplice edificio sacro.

Immaginiamo un profeta cristiano che dica che, per essere fedeli a Dio, occorre lasciar profanare l’Eucaristia. Il messaggio di Geremia è simile a questo.

Ma è anche un messaggio che arriva subito prima della guerra e durante l’assedio. È facile che il profeta venga percepito dai suoi contemporanei come un disfattista, che non collabora con lo sforzo militare. E per questo verrà, infatti, minacciato («Non profetare nel nome del Signore, sennò morirai per mano nostra», Ger 11,21), imprigionato (Ger 37-38) e alla fine addirittura deportato a forza in Egitto, il nemico di coloro ai quali Geremia invitava ad arrendersi (Ger 43,1-7).

Non è un caso che la tradizione vuole Geremia morto martire. Il suo libro o altri scritti biblici non ne dicono niente, ma sarebbe coerente con la sua esperienza.

Una persona tormentata

Già il contesto e il messaggio di Geremia ci hanno messo di fronte a una situazione complessa, faticosa.

Ma a tutto ciò si aggiunge anche la personalità del profeta, che non è un combattente e non vorrebbe essere dove si trova né dire ciò che deve proclamare. Si ritiene troppo giovane e incapace di parlare in pubblico (Ger 1,6), è costretto ad annunciare al suo popolo che subirà violenza e oppressione e per questo, quando le cose vanno ancora bene, viene preso in giro (Ger 20,8) e gli viene fatto notare che ciò che annuncia non si compie (17,15). Viene rifiutato dalla sua famiglia (12,6) e si lamenta più volte della propria sorte, che non avrebbe desiderato: «Ahimè, madre mia, che mi hai generato uomo di litigio e discordia!» (15,10). Eppure, ribadisce di non aver voluto annunciare il lutto e la distruzione, ma di essere semplicemente stato mandato da Dio a farlo (17,16).

In una letteratura e in un mondo culturale che non erano abituati a cogliere e quindi a narrare le lotte interiori, Geremia appare dilaniato dal desiderio di rinunciare al proprio mandato  di parlare a nome di Dio, un compito che sente scaturire da dentro sé: «Mi hai sedotto, Signore, e io ho lasciato che tu mi seducessi. Mi hai violentato, sei stato più forte di me. Mi dicevo che non avrei più pensato a te, non avrei più parlato in nome tuo, ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (20,7-9).

Emerge il ritratto di un uomo mite e timido che è costretto ad annunciare un messaggio duro e luttuoso, non viene creduto e viene schernito, e si mortifica ancora di più per la propria sorte. È un uomo passionale e delicato che vive in un tempo di guerra e crudeltà. L’uomo sbagliato nel tempo sbagliato.

Il sogno di Geremia

Certo, Geremia non annuncia soltanto distruzione e morte. Nutre un sogno che prende poco alla volta forma ed esplode nel capitolo 31. Il sogno è quello di un’alleanza nuova tra Giuda e Israele da una parte e il Signore dall’altra. Senza dubbio un’alleanza c’era già stata, scaturita dalla liberazione dal potere oppressivo dell’Egitto, il che suona quasi come ironico per chi sperava proprio da quel paese la salvezza contro i babilonesi, ma quella alleanza era stata infranta proprio da Israele. Per questo serve un’alleanza nuova che non sia una riedizione di quella vecchia. Geremia la immagina non scritta sulla pietra, ma nel cuore, sull’organo che secondo gli ebrei era la sede delle decisioni: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore (ossia “penseranno spontaneamente come Dio, si sintonizzeranno naturalmente con lui”)», «non dovranno più istruirsi l’uno con l’altro, invitandosi a conoscere il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (Ger 31,33-34).

Geremia sogna una umanità capace di entrare in armonia profonda con Dio, al punto da non avere più bisogno di maestri, di mediatori, di motivatori. E allora, finalmente, Dio perdonerà tutto, non ricorderà più il peccato, perché si troverebbe davanti un’umanità amante, pronta a vivere in intimità con lui. E quello che Dio vuole non è essere ubbidito ma amato, e non vede l’ora di perdonare e riprendere a vivere insieme in comunione.

Il sogno di Geremia prosegue: il Signore, che ha disposto gli astri e garantisce il succedersi del giorno e della notte, promette che si dimenticherà della sua alleanza solo quando anche le leggi di natura non funzioneranno più, cioè mai.

Geremia sogna quell’armonia profonda di cui non ha mai potuto godere, cogliendo che proprio e soltanto quella è anche il sogno di Dio, che minaccia costantemente vendetta e punizione, ma sempre spera di non doverle mettere in pratica.

Il messaggio di Geremia

C’è allora qualcosa che questo complicato e sofferente profeta può affidare anche a noi oggi?

Quello che Geremia vuole, un rapporto con Dio senza mediatori, senza sacerdoti, senza tempio, senza legge, è l’intuizione di un rapporto con il Signore immediato, senza strumenti e quindi anche senza garanzie, ma profondo e spontaneo. Non come due soci in affari, ma come due innamorati.

Geremia sogna una relazione fatta non di certezze, di assicurazioni, ma di fiducia, in cui l’uomo impari finalmente a vivere pienamente, senza nulla che possa illudere di poter tenere Dio sotto controllo, ma fidandosi soltanto della sua promessa che ci sarebbe stato sempre. Semplicemente un rapporto di amore, di affidamento reciproco.

E Geremia predica questo sogno in uno dei momenti più cupi della storia d’Israele, nella consapevolezza di essere la persona sbagliata, nel dramma personale di non sentirsi a posto. Se Osea riceve da Dio l’invito a confidare in lui e amarlo anche fuori dagli schemi attesi, Geremia non si vede neppure spiegare la missione, ma la deve vivere senza capirla fino in fondo. Anche in questo caso, però, ha senso fidarsi semplicemente di Dio, affidarsi a lui, comprese scelte concrete come comprare un campo mentre sta arrivando un esercito invasore (Ger 32) o invitare gli esiliati del 597 a cercare il bene nella terra nella quali sono stati deportati (Ger 29), senza temere che questo significhi tradire il Signore. Proprio mentre l’esercito della terra in cui vivono sta marciando contro la patria nella quale erano nati.

Geremia coglie un Dio che si fa trovare ovunque, anche quando tutto sembra andare male, anche quando si ha l’impressione di essere sbagliati e al posto sbagliato. Anche in quelle situazioni, è Dio l’autentico e unico pastore di Israele (Ger 23,1-8), che resta presente e vigila sui suoi, come rassicura la prima visione dell’intero libro (Ger 1,11-12): Dio veglia, Dio c’è. «Tu continua solo ad aver fede» (Mc 5,36).

Angelo Fracchia
(Camminatori 09 – continua)




Pakistan. La chimera della libertà


I rapimenti e le conversioni forzate di ragazze cristiane e di altre minoranze religiose sono solo la punta dell’iceberg delle violazioni alla libertà religiosa nel Paese asiatico. L’instabilità politica, le leggi anti blasfemia, le formazioni estremiste rendono pericolosa la vita del 4% di popolazione non musulmana.

Huma Younous, Zarvia Pervaiz, Meerab Mohsin, Arzoo Raja. Sono alcune delle ragazze pachistane che in questi anni hanno subito rapimenti, violenze, matrimoni forzati e conversioni all’islam.

Conosciamo i loro nomi perché le loro famiglie hanno avuto il coraggio di denunciare, ma rappresentano solo la punta di un iceberg. Il fenomeno delle ragazze rapite in Pakistan a causa della loro fede è una piaga enorme della quale non si conosce precisamente la dimensione.

Si tratta di giovani cristiane in un Paese in cui il 96 per cento della popolazione è musulmana. A finire in questa spirale di violenze, però, ci sono giovani anche delle altre minoranze religiose.

Una tragedia inascoltata

Secondo un rapporto del Center for social justice (Csj), Ong guidata dal cattolico pachistano Peter Jacob, nel 2021 si sono verificati 78 casi di donne e ragazze (cristiane e indù) rapite, convertite con la forza e sposate da uomini musulmani. Il 76 per cento di queste erano minorenni.

Il numero di casi registrati nel 2021, afferma il Csj, è aumentato dell’80 per cento rispetto all’anno 2020. Ma le famiglie che, per mancanza di soldi o coraggio, vivono nel silenzio questa situazione sono molto più numerose di quelle registrate.

Una tragedia che spesso si consuma nell’indifferenza della comunità internazionale.

C’è voluto il docufilm The losing side, presentato al Festival di Cannes 2022 e vincitore di un premio nella categoria Best human rights film, per fare conoscere al grande pubblico questo dramma.

Protezione legale

A sostenere da anni i diritti di alcune di queste giovani c’è una coraggiosa avvocata cattolica, Tabassum Yousaf. Lei stessa in passato ha ricevuto minacce e ora è schierata per la difesa dei diritti delle minoranze. «Fornisco assistenza legale alle nostre donne vulnerabili e alle ragazze minorenni che sono state vittime di abusi sessuali, discriminazioni, conversioni e matrimoni forzati», cioè soggetti non adeguatamente tutelati «a causa delle lacune nella legge».

Il Pakistan, spiega l’avvocata che porta avanti progetti sui diritti umani anche con la diocesi di Karachi, è «firmatario di trattati internazionali» per cui «abbiamo fatto leggi, ed emendamenti alle leggi, per dare protezione alle minoranze, alle donne e ai bambini», ma, nonostante ciò, «molti di questi provvedimenti sono rimasti sulla carta».

Le minoranze

Se il fenomeno dei rapimenti e delle conversioni forzate delle giovani donne è tra le questioni più gravi, complessivamente in Pakistan si registrano violazioni della libertà di fede tra le maggiori nel mondo.

La popolazione è quasi interamente musulmana, composta principalmente da sunniti (circa l’85 per cento della popolazione) mentre gli sciiti rappresentano il 10 per cento. Le minoranze religiose, prevalentemente cristiane, indù e ahmadi, più alcuni baha’í, sikh, parsi e una comunità ebraica, sono in calo. Tutte le minoranze messe insieme costituiscono complessivamente tra il 3,6 e il 4 per cento della popolazione. Tutte subiscono discriminazioni, quando non vere e proprie persecuzioni.

La comunità ebraica è praticamente in via di estinzione: secondo le statistiche ufficiali conterebbe tra le 2.000 e le 2.500 persone, ma fonti della stessa comunità ritengono che nel Paese ne siano rimaste circa ottocento, sugli oltre 200 milioni di abitanti complessivi.

Per quanto riguarda la persecuzione relativa alla minoranza cristiana, il Pakistan, nella World watch list della ong Open doors, è collocato al settimo posto nel mondo, ovvero tra i Paesi dove meno è rispettata la libertà di fede (dopo Corea del Nord, Somalia, Yemen, Eritrea, Libia e Nigeria).

Le leggi sulla blasfemia

Lo status delle minoranze religiose è ulteriormente influenzato dalle cosiddette «leggi sulla blasfemia», introdotte nel Paese dal generale Zia-ul-Haq tra il 1982 e il 1986. Non si tratta propriamente di leggi, ma di emendamenti al codice penale pachistano che, di fatto, limitano la libertà di religione e di espressione. I reati punibili includono la «profanazione» del Corano e le offese al profeta Maometto, che comportano rispettivamente come pena massima l’ergastolo e la condanna a morte.

Nonostante i richiami, a dire il vero timidi, della comunità internazionale affinché venga abolita questa normativa, essa, dall’inizio del 2023, ha invece visto un’ulteriore stretta.

Se prima veniva condannato chi era accusato di avere insultato il Corano o il profeta Maometto, «ora può essere applicata anche per sanzionare chiunque è accusato di avere insultato persone legate al Profeta. Il giro di vite è stato disposto dal Parlamento per inasprire le già rigide leggi nazionali», denuncia la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).

Quanti vengono accusati di avere «insultato» mogli, compagni o parenti del profeta Maometto rischiano, dall’inizio del 2023, 10 anni di carcere, pena che può essere estesa all’ergastolo, oltre a una multa di un milione di rupie.

L’accusa di blasfemia diventa inoltre un reato per il quale non è possibile la cauzione.

L’inasprimento delle pene scaturisce da un disegno di legge presentato da Abdul Akbar Chitrali, parlamentare appartenente a un partito politico religioso.

«L’approvazione del disegno di legge rappresenta un segnale estremamente preoccupante», commenta Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia. «La normativa finora ha di fatto favorito la persecuzione ai danni delle minoranze religiose, a cominciare da quelle cristiana e induista. Ora la situazione inevitabilmente peggiorerà», aggiunge Monteduro. «Spesso i cristiani vengono accusati strumentalmente di blasfemia da soggetti che vogliono semplicemente perseguire interessi privati. Il risultato è che gli accusati o vengono arrestati o diventano preda della reazione violenta delle folle.

La normativa anti blasfemia viene usata anche come arma contro gli avversari politici e il suo inasprimento creerà maggiori opportunità per un suo uso improprio. Così le minoranze religiose, a cominciare da quella cristiana, sono ancora più minacciate».

AFP PHOTO/ Rizwan TABASSUM (Photo by RIZWAN TABASSUM / AFP)

Il caso di Asia Bibi

Il caso più noto, rispetto all’uso di questa legge sulla blasfemia, è quello di Asia Bibi. Per lei, che ha subito dieci anni di carcere duro per essere stata accusata ingiustamente di blasfemia, e che ha rischiato fino all’ultimo momento la pena di morte, c’è stata una mobilitazione internazionale che ha visto in prima linea l’Italia e la Francia.

Il 31 ottobre del 2018 è stata scagionata dalla Corte suprema del Pakistan, ma la donna e la sua famiglia hanno comunque dovuto lasciare il loro Paese per le minacce degli islamisti. Ora vivono in Canada.

«In Pakistan ci sono ancora troppe “Asia Bibi”, nelle prigioni», fa presente Shahid Mobeen, fondatore dell’associazione Pakistani cristiani in Italia e docente di Filosofia presso la Pontificia università urbaniana.

Mobeen contesta il fatto che, in questi anni, quando si è parlato delle minoranze religiose, in Pakistan si è fatto riferimento al «modello della Carta di Medina dei tempi di Maometto» che stabiliva diritti per gli immigrati di altre religioni. «La protezione ben venga ma noi non siamo immigrati sul territorio – sottolinea Shahid Mobeen -, noi abbiamo fondato il Pakistan insieme a Mohammad Ali Jinnah e siamo figli di quella terra. Come cristiani siamo presenti in quel territorio prima ancora che arrivasse l’islam e quindi chiediamo di essere trattati con uguali diritti, con pari dignità e pari opportunità nell’istruzione e nel lavoro perché vogliamo contribuire alla crescita e allo sviluppo del Paese».

Anche nei casi in cui non ci siano veri e propri atti persecutori, i cristiani e gli altri appartenenti a fedi diverse dall’islam sono comunque discriminati nella quotidianità, dall’accesso al lavoro agli aiuti. Nei mesi del Covid sono stati diversi gli appelli alla comunità internazionale affinché venisse condannata anche la discriminazione sanitaria.

I fedeli non appartenenti alla grande comunità musulmana sono a lungo rimasti privi dei dispositivi di protezione o comunque delle condizioni minime che potevano evitare il contagio da coronavirus.

Ahmadi: musulmani, anzi no

In questa situazione nella quale la libertà di fede in Pakistan risulta essere una chimera, c’è il caso particolare degli ahmadi, comunità nata nel 1898 a Qadian, in India, nel periodo in cui vigeva il potere britannico. Il suo fondatore è Mirza Ghulam Ahmad Ahmad.

Alcuni articoli del codice penale pachistano, promulgati nel 1984, hanno reso un reato penale per gli ahmadi definirsi musulmani o chiamare la propria fede islam.

«Dal punto di vista del culto siamo uguali agli altri musulmani: preghiamo cinque volte al giorno, consideriamo Maometto come profeta, abbiamo il Corano come libro sacro. Il ruolo del nostro fondatore non era di dare vita a una nuova religione, bensì di riformare quella del suo tempo», spiegava Ataul Wasih Tariq, imam della comunità ahmadi in Italia nell’ambito di un incontro interreligioso in Vaticano con papa Francesco il 5 settembre del 2022.

Secondo Omar Waraich, responsabile del Dipartimento dell’Asia del Sud di Amnesty international, «ci sono poche comunità in Pakistan che hanno sofferto tanto quanto gli ahmadi».

«Alcune fonti – afferma Aiuto alla Chiesa che soffre nel Rapporto 2020 sulla libertà religiosa nel mondo – riportano che tra il 1984 e il 2019, 262 ahmadi sono stati uccisi a causa della loro fede, 388 hanno subito violenze e 29 moschee ahmadi sono state distrutte. Per legge gli ahmadi non possono avere moschee proprie, né chiamare alla preghiera e, per poter votare, devono essere necessariamente classificati come non musulmani o aderire a una delle correnti principali dell’islam».

Le tensioni politiche, nuovi rischi per i cristiani

Il Pakistan non ha mai goduto di grande stabilità politica e questo ha consentito negli anni la crescita di formazioni estremiste.

I ripetuti attentati nei luoghi di culto e nei quartieri delle minoranze, compresa quella dei musulmani sciiti, non hanno trovato mai una risposta decisa da parte del governo.

Da aprile 2022, con il cambio della guardia, dal governo di Imran Khan a quello del suo principale avversario Shahbaz Sharif, l’instabilità è aumentata. Le sanguinose manifestazioni, sia pro che contro l’ex premier, accusato anche di corruzione, mostrano che la nuova leadership politica è tutt’altro che salda.

L’11 agosto scorso, poi, Sharif ha sciolto l’Assemblea nazionale al termine della legislatura. Il presidente Arif Alvi, al posto di Sharif, ha nominato primo ministro provvisorio Anwaar-ul-haq Kakar per guidare il Pakistan verso le elezioni nazionali.

Il Paese, tra l’altro, ha vissuto in questi ultimi anni anche rovinose alluvioni causate dai cambiamenti climatici.

Per quanto riguarda le minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, questa situazione di incertezza «non aiuta di certo», afferma la ong Open doors. «Negli ultimi anni, con il premier Imran, la radice e i danni del passato sono rimasti intatti, anzi, una certa “narrazione estremista” ha continuato ad essere perpetuata e a far breccia nella popolazione a vari livelli. Quell’estremismo strisciante, spesso sfociato in attacchi alle comunità cristiane oltre [che in] minacce a chiunque difendesse cause [contro le] violazioni dei diritti umani […], non è sparito e purtroppo in momenti di instabilità politica come questo – sottolinea ancora Open doors -, rischia di aumentare la propria influenza».

Presto un giovane santo?

La persecuzione religiosa è talmente radicata in Pakistan che i cristiani di fatto vivono in una perenne trincea. Nella capitale Karachi, la maggior parte dei cristiani vive nel quartiere Essa Nagri (tradotto dall’urdu «il quartiere di Cristo»), dove vivono ammassati e, in qualche modo, trincerati innalzando muri di protezione per sentirsi più sicuri.

Essa Nagri è un quartiere dove le fogne sono a cielo aperto, i collegamenti elettrici precari e anche la sicurezza non è sempre garantita. Nel 2016 qui sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani dai fondamentalisti islamici.

Nella città di Lahore, nel nord del Paese, il quartiere cristiano è invece quello di Youhanabad. Qui vivono circa 130mila cristiani tra cattolici e membri di altre confessioni. Nel quartiere si trovano due chiese, la Saint John, cattolica, e la Christ church, protestante, entrambe attaccate in due attentati contemporanei il 15 marzo del 2015.

In quell’attentato persero la vita molte persone tra le quali il giovane cattolico Akash Bashir, proclamato Servo di Dio (il primo nella storia della Chiesa del Pakistan) il 31 gennaio del 2022, festa di San Giovanni Bosco.

Akash Bashir, nato il 22 giugno 1994 a Risalpur, nella provincia pachistana di Nowshera Khyber Pakhtun Khwa, era uno studente del Don Bosco technical institute di Lahore, ed era tra i giovani attivi nella comunità parrocchiale.

Akash era in servizio al cancello d’ingresso della chiesa, quel 15 marzo del 2015, quando notò un uomo che voleva entrare con una cintura esplosiva sul corpo.

Il giovane ha abbracciato l’uomo, bloccandolo e tenendolo fermo al cancello d’ingresso, facendo sì che il piano del terrorista, quello di fare una strage all’interno della chiesa, fallisse.

L’attentatore si è allora fatto esplodere uccidendo se stesso e il giovane Akash.

Nel 2019, durante un nostro viaggio in Pakistan per documentare la situazione dei cristiani, abbiamo incontrato a Lahore Emmanuel Bashir e Naz Bano, il padre e la madre del giovane. «È morto per salvare la vita degli altri, è un martire della Chiesa e noi ne siamo orgogliosi perché questo è testimoniare il Vangelo», ci hanno detto, auspicando che il Papa potesse riconoscere il loro Akash martire e santo, anche per dare coraggio alla martoriata comunità cristiana locale.

Manuela Tulli