San Giuseppe Maria Gambaro

Antonio Beardo Gambaro nasce a Galliate il 7 agosto del
1869, quinto figlio di Pacifico e Francesca Bozzola, modesti artigiani tessili.
Fin da adolescente manifesta l’intenzione di mettersi al servizio del prossimo
e del Signore, e così nell’ottobre del 1883 entra nel collegio serafico del
Monte Mesma (Ameno, Novara), retto dall’Ordine dei Frati Minori Francescani.
Nel 1986 inizia il noviziato nella famiglia religiosa che l’ha accolto e gli
vengono dati i nomi di Giuseppe Maria. Dopo aver compiuto gli studi filosofici
e teologici, il 12 marzo 1892 è ordinato sacerdote. Nel 1894 chiede ai
superiori di poter partire missionario in Cina. Nel dicembre del 1895 si
imbarca a Napoli, visita la Terra Santa e, dopo un viaggio di qualche mese, il
7 marzo 1896 sbarca a Shangai, da lì raggiunge Hen-tceu-fu, capitale della
provincia dell’Hu-nan meridionale. I primi tempi li trascorre cercando di
apprendere i rudimenti della lingua cinese, si accultura rapidamente vestendo
abiti locali. Il vescovo dell’Hu-nan Mons. Antonino Fantosati, gli affida
quindi la direzione del seminario minore di Sce-fan-tan e inizia anche un
fecondo lavoro pastorale con la gioventù della zona. Durante la primavera del
1900 accompagna il vescovo in visita ad alcune comunità del Vicariato
Apostolico. Nel mese di luglio, mentre sono in viaggio, li raggiunge la notizia
che la rivolta dei Boxer dilaga nell’Hu-nan. La residenza episcopale e diverse
opere sociali, compreso l’orfanotrofio, sono distrutte dai rivoltosi che
uccidono padre Cesidio Giacomoantonio. Incuranti del pericolo decidono di
tornare indietro, la barca su cui viaggiano è bloccata lungo il percorso. I
frati, fatti scendere a terra, sono percossi e seviziati fino a provocarne la
morte.

Carissimo padre Gambaro, a dire il vero mi metti un po’ in soggezione
in quanto, oltre ad aver coronato con la Palma del Martirio la tua esistenza al
servizio della Chiesa e del popolo cinese, sei originario di Galliate nella cui
Chiesa parrocchiale per diverso tempo sono stato viceparroco e in cui ho sempre
percepito la forza della tua presenza.

Proprio
vero, sono originario di un paese della Bassa novarese, situato sulle sponde
del Ticino, una zona che dal punto di vista agricolo è sempre stata terra di
coltivazione del riso, mentre dal punto di vista industriale per moltissimi
anni è stata un polo tessile di una certa importanza.

Non dirmi che all’origine della tua scelta missionaria per la Cina c’è
il riso, l’alimento naturale dei galliatesi, che sapevi di trovare in
abbondanza nel Celeste Impero.

A dire
il vero la scelta della Cina è stata più legata a una coscienza che si andava
sempre più accentuando nella Chiesa per quella grande e popolosa nazione dove
ancora non era risuonata la buona notizia del Vangelo. Erano i tempi in cui
mons. Guido Conforti, Vescovo di Parma, fondava l’Istituto Missionario dei
Saveriani con il compito principale di evangelizzare la Cina.

Quindi invece di innamorarti dell’Africa o dell’America Latina, sognavi
di metterti al servizio del popolo cinese per far conoscere loro il messaggio
di amore e di misericordia di Gesù.

Proprio
così. Quando discutevo sulle missioni con gli altri frati miei compagni, il mio
pensiero correva sempre verso la Cina piuttosto che verso l’Africa o altre zone
parimenti bisognose dell’annuncio del Vangelo perché pensavo e ripensavo a
quella sterminata popolazione alla quale mancava la conoscenza del messaggio di
salvezza di Gesù Cristo.

Quando sei arrivato in Cina che realtà hai trovato?

Io
arrivai a Shangai nel marzo del 1896. Qualche anno prima il Giappone aveva
invaso la Cina che era sì un grande impero, ma a causa della corruzione
dilagante, di arroganti potentati locali e della debolezza della casa
imperiale, non era più in grado di garantire ordine e tranquillità alla sua
immensa popolazione.

Se capisco bene, l’Impero di Mezzo, come allora era chiamata la Cina,
era in piena decadenza, come l’Impero Ottomano, imperi che proprio per la loro
vastità, dopo aver conosciuto secoli di splendore, cominciavano a
disintegrarsi.

A quei
tempi l’Impero cinese sotto la dinastia Manchù era in piena decadenza e alla
mercé delle potenze coloniali emergenti: inglesi, russi, giapponesi, tedeschi,
facevano a gara per spartirsi miniere e appalti per la costruzione di strade e
ferrovie e per avere concessioni territoriali in cui estendere la loro
influenza. Tutto ciò alimentava nella popolazione un astio crescente nei
confronti di quelle potenze che si traduceva in odio puro e semplice verso
tutti gli stranieri. Del resto le potenze presenti in Cina attuavano una
sistematica violazione delle millenarie tradizioni e regole di comportamento
locali, e gli occidentali, anche se compivano abusi e crimini, non venivano
perseguiti perché godevano di immunità.

L’odio e il risentimento della gente si trasformava in atteggiamenti
ostili nei confronti degli europei?

Diciamo
che con la «Guerra dell’oppio» (due conflitti, svoltisi dal 1839 al 1842 e dal
1856 al 1860) l’imperialismo europeo più bieco era stato impiantato in Cina. Da
allora la situazione era andata peggiorando. Da un atteggiamento di rifiuto si
passò in breve tempo a una violenza contro imprese e aziende estere e i loro
dipendenti, e anche contro missionari e cinesi che si erano convertiti. La
popolazione era visceralmente accomunata da un odio collettivo contro gli
stranieri, percepiti come nemici che volevano stravolgere usi e costumi del
popolo cinese.

È da lì che prese il via la rivolta dei Boxer?

Sì.
Questo termine inglese veniva usato in Cina per indicare uno che combatte a
pugni nudi, perché alcuni rivoltosi avevano una certa pratica di arti marziali,
ma mancavano totalmente di armi. I Boxer raggruppavano contadini senza terra,
artigiani, piccoli funzionari, ecc., essi vedevano con autentico terrore
l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione di linee telegrafiche e la
comparsa sui grandi fiumi della Cina di navi a vapore. Provenendo da una
famiglia di tessitori guardavo con apprensione il rifiuto che i cinesi avevano
verso i nuovi macchinari per i tessuti: filatorni, telai, ecc., loro pensavano
che tutte queste novità avrebbero tolto posti di lavoro.

Importando queste nuove tecnologie gli europei davano allora
l’impressione di voler impadronirsi della Cina.

Proprio
così. Il problema vero era che questa rivolta dal basso aveva un’ideologia
semplice e terribile allo stesso tempo: tutto ciò che non era cinese era
malefico. Anche la religione cristiana portata dai missionari che venivano
dall’Europa, venne assimilata al rifiuto totale che i cinesi avevano verso ciò
che non apparteneva alla loro cultura.

Quest’odio era solo verso gli europei o era indirizzato anche verso
quei cinesi che si erano convertiti al cristianesimo?

La
gente che aderì al messaggio cristiano pagò un prezzo altissimo, perché se gli
stranieri erano odiati in quanto stranieri, i cinesi che avevano abbracciato il
cristianesimo erano accusati di tradimento dei valori della cultura cinese.
Furono uccisi a migliaia. Man mano che le violenze e gli eccidi di convertiti
aumentavano e i dispacci delle ambasciate ai governi europei s’infittivano,
venne presa la decisione di raggruppare tutte le Legazioni Diplomatiche in un
unico quartiere e di mandare una squadra navale con dei reparti militari per la
difesa degli stranieri.

Questa misura però non ottenne il risultato previsto.

Infatti
il governo cinese già xenofobo di per suo conto, non poteva accettare la
presenza di militari stranieri armati sul proprio territorio; per questo i
crimini dei Boxer vennero tollerati e persino giustificati dalle autorità
cinesi.

Questo naturalmente ebbe un’immediata ripercussione anche nelal vostra
zona.

Certamente,
Nella nostra provincia, dopo che uccisero fra Cesidio Giacomoantonio (4 luglio
1900), iniziarono pestaggi, saccheggi e uccisioni di stranieri, missionari e
cristiani cinesi.

Con conseguenze tragiche per di voi.

Informato
di quello che stava accadendo, mons. Fantosati, il mio vescovo, nonostante
fosse conscio dei pericoli che correva, decise di ritornare nella sua sede
episcopale, io ovviamente lo accompagnai. Alla dogana di Hen-tceu-fu fummo
riconosciuti come stranieri e missionari, fatti scendere dal barcone su cui
viaggiavamo e circondati da una folla assatanata urlante e minacciosa. Fummo
immediatamente investiti da calci e pugni e colpiti con dei bastoni.

Eravate arrivati quindi alla fine della vostra vita missionaria e anche
di quella terrena.

Mentre
ci percuotevano, riuscimmo a pregare e fare il Segno della Croce, quindi ci
abbracciammo mentre i nostri carnefici si accanivano selvaggiamente su di noi.
Al culmine del nostro martirio, alcuni pagani esclamarono: «Questi stranieri
erano veramente giusti!».

Il 7 luglio 1900 i
corpi senza vita di Mons. Antonino Fantosati e di fra Giuseppe Maria Gambaro,
vengono gettati nel fiume Siang, quindi ripescati e bruciati per impedie la
sepoltura. Nel dicembre 1926 si avvia la causa di beatificazione per un gruppo
di 29 cristiani uccisi durante la rivolta dei Boxer. Il 1° ottobre del 2000,
Giovanni Paolo II eleva alla gloria degli altari 120 martiri della Cina di
tutti i tempi, tra loro, Mons. Fantosati, padre Giacomoantonio e padre Giuseppe
Maria Gambaro.

Don Mario Bandera – Direttore Missio
Novara

Mario bandera




Torino, gli strumenti per non avere paura

Reportage periferie /
1

Erano gli anni
Sessanta quando cartelli affissi sulle porte degli edifici del capoluogo
piemontese avvertivano: «Non si affitta a meridionali». Nel 2014 sono ancora
tanti i torinesi che ricordano quegli anni e citano quelle scritte quasi a
sottintendere che la città ha già affrontato massicci flussi migratori e ha
saputo reagire, accogliere e integrare. Oggi basta salire su un tram come il 16
o spingersi nel quartiere Barriera di Milano per toccare con mano una città che
resta fedele alla sua lunga tradizione di accoglienza e, pur nelle difficoltà e
nelle contraddizioni, continua a cambiare volto.

Nell’inverno 2014 gli enti locali torinesi hanno siglato diversi accordi
il cui tema di fondo era la relazione con le comunità di migranti. Solo per
citare alcuni esempi, sono dello scorso febbraio l’adesione della Provincia di
Torino al protocollo d’intesa sulla prevenzione e il contrasto della tratta degli
esseri umani, e la formalizzazione della collaborazione fra la polizia
municipale e la comunità marocchina per la prevenzione dell’abbandono
scolastico, per la mediazione nei casi di conflitti tra i giovani immigrati e
per l’assistenza alle vittime di violenza domestica.

I temi relativi ai migranti hanno certamente un peso
notevole nel dibattito e nell’agenda politica della città che, sia attraverso
le istituzioni pubbliche sia con l’apporto del cosiddetto «privato sociale», si
attiva per cercare soluzioni ai problemi legati all’accoglienza e
all’integrazione delle comunità straniere. Non mancano ovviamente le polemiche
e le accuse a enti pubblici e associazioni di dare precedenza ai bisogni degli
stranieri rispetto a quelli dei torinesi. Ma in una città dove sono già
presenti le seconde generazioni, dove la crisi economica si fa sentire con tale
forza da spingere talvolta gli immigrati stessi ad abbandonare l’Italia per
rientrare nei paesi d’origine o per spostarsi in altre nazioni europee, dove le
scuole sono da anni laboratori di interculturalità, la rassicurante divisione
noi/loro è un semplicismo che fatica ogni giorno di più a descrivere la realtà.

Il lavoro dell’Upm

L’ufficio per la pastorale migranti (Upm) della diocesi
di Torino è un punto di riferimento fondamentale per le comunità straniere.
Offre numerosi servizi fra i quali lo sportello per il lavoro, le consulenze
legali, l’insegnamento dell’italiano e molti altri. Sergio Durando, direttore
dell’Upm, traccia una sintesi della situazione: «Metà dei 385 mila immigrati
del Piemonte vivono a Torino: sono 200 mila nella provincia di cui 150 mila nel
territorio comunale». Secondo il XXIII Rapporto immigrazione 2013 (vedi
articolo pag. 28) di Caritas e Migrantes, nella regione la comunità più nutrita
è quella rumena, con 137 mila presenze, seguita dalle comunità marocchina,
albanese, cinese e peruviana. Un punto di partenza per provare a mettere ordine
nel complesso insieme di fenomeni legato ai migranti, suggerisce Sergio, può
essere il tema del lavoro: il Piemonte è la regione con il più alto tasso di
disoccupazione al Nord (9,8% nel 2013); l’agricoltura dà ancora lavoro ma
ovviamente non nel contesto urbano del capoluogo piemontese, dove i settori
colpiti dalla crisi sono l’edilizia, in cui tendono a concentrarsi i lavoratori
di origine rumena, l’industria e il settore manifatturiero, nei quali le
comunità di migranti maggiormente rappresentate sono quella marocchina e quella
albanese. «Il problema occupazionale», continua Durando, «si traduce facilmente
in un problema abitativo sia per i cittadini di origine italiana che per gli
stranieri, e per i migranti la marginalità economica diventa anche giuridica,
con la perdita dei permessi di soggiorno: nel 2012 i permessi persi sono stati
maggiori dei permessi di ingresso».

Categorie speciali: rifugiati
e titolari di protezione internazionale

All’interno della comunità dei migranti ci sono poi
delle categorie speciali: i rifugiati e i titolari di protezione
internazionale. Per quanto riguarda i rifugiati, il ministero dell’interno
guidato da Angelino Alfano, nel 2013, aveva aumentato da tremila a diciottomila
il numero dei richiedenti asilo che potevano essere accolti. Ma i tempi di
accoglienza, l’arretrato, l’accumulo di richieste e la difficoltà di reale
inserimento lavorativo rendono di fatto molto difficile approfittare
dell’aumento effettuato. «A Torino le strutture occupate da rifugiati, profughi
e titolari di protezione internazionale, sono sette più una casa di religiosi»,
interviene don Claudio Curcetti, sacerdote assegnato dalla diocesi all’Upm, «e
la situazione più esplosiva è forse quella del ex Moi, il villaggio olimpico
costruito nel 2006 e attualmente occupato da circa quattrocento persone» (vedi MC
8-9/2013, pp. 59-63
). Si tratta di uomini, donne e bambini giunti in Italia
a causa della cosiddetta emergenza Nord Africa, cioè l’arrivo in massa di
migranti in fuga dai paesi del Maghreb interessati dalla guerra, a partire da
quella libica.

L’accoglienza dei rifugiati su tutto il territorio nazionale
è costata mediamente ventitremila euro a persona per circa ventimila persone,
ma gli interventi sono stati disorganizzati e approssimativi: i fondi – a
partire dal rimborso di 40 euro al giorno per rifugiato – hanno raggiunto solo
in minima parte i beneficiari, che si sono spesso trovati abbandonati, relegati
a spazi abitativi degradati e privati di un piano di rientro alla fine
dell’emergenza.

«Uno dei problemi è che le politiche nazionali in
materia di migranti sono più preoccupate della sicurezza che dell’accoglienza», continua don Claudio, «ma questo
genera enormi storture che oltretutto aumentano la tensione e l’insicurezza».
Per non parlare di costi: un «centro di identificazione e espulsione» (Cie)
costa circa 45 euro al giorno per singolo individuo trattenuto; un rimpatrio
arriva a seimila euro. Le periferie e il degrado, conclude Curcetti, sono in
fondo il fallimento di una società la cui amministrazione e la cui urbanistica
non sono state in grado di distribuire il disagio in modo da «diluirlo» nel
tessuto urbano, ma lo hanno concentrato e, in questo modo, amplificato. «Se in
un condominio o in un quartiere ci sono settanta famiglie in condizioni
economiche dignitose e trenta disagiate, le prime possono più facilmente
cercare di andare incontro ai bisogni delle seconde e aiutarle a uscire dal
disagio. Ma se le proporzioni sono invertite, come si può pensare che un trenta
per cento di persone si faccia carico dei bisogni del settanta per cento? È
ovviamente impossibile».

I Rom

La corrispondenza fra periferia e disagio si è andata
allentando negli ultimi decenni, ma resta attuale nel caso dei Rom. Dagli anni
Settanta a oggi la provenienza delle popolazioni rom presenti a Torino è
cambiata, ma le aree in cui risiedono sono rimaste le stesse: baraccopoli ai
margini della città. Gli insediamenti abusivi di Lungo Stura Lazio hanno visto,
a partire dai primi mesi del 2014, un processo di graduale sgombero nell’ambito
di un progetto che mira a coinvolgere le famiglie stesse nello smantellamento
delle baracche attraverso l’autodemolizione. Del programma fanno poi parte la
sottoscrizione da parte dei Rom di un patto di emersione, l’accettazione delle
regole di convivenza e legalità, la compartecipazione alle spese e
l’inserimento in complessi di social housing, cioè soluzioni pensate per
le categorie che, prevalentemente per motivi economici, non sono in grado di
rispondere da sole ai propri bisogni abitativi.

L’intervento di Lungo Stura Lazio, oltre ad aver
provocato le ire degli esponenti della Lega («ai Rom le case popolari, ai
torinesi la mini-imu», ha commentato un esponente torinese), suscita qualche
apprensione anche fra gli addetti ai lavori. Finora lo sgombero di un campo,
avverte uno di loro che preferisce restare anonimo, ha spesso innescato un
processo simile alla mitosi cellulare, ha portato cioè alla formazione di più
campi sparsi. Inoltre occorrerebbe sfatare alcuni miti: ad esempio il fatto che
i Rom vivono nei campi per una questione culturale quando in realtà sono i
primi a non volerli; oppure il pregiudizio per cui l’avversione al lavoro è un
tratto caratteristico dei Rom quando invece ci sono, ad esempio, casi di
ragazze assunte come badanti o colf, le quali, fra l’altro, si guardano bene
dal rivelare che vivono in un campo. In questi casi, l’inserimento lavorativo è
avvenuto al prezzo del rinnegamento della propria origine.

Molto difficoltoso appare infine ridare vigore al patto
scolastico in base al quale i Rom si erano impegnati a mandare i loro figli a
scuola: molti Rom sembrano pensare che dopo quarant’anni di presenza in Italia,
e nonostante la scolarizzazione dei bambini, per loro nulla è cambiato, perché
continuare a impegnarsi?

Imparare per non
avere paura

Se si guarda al settore dell’istruzione, la situazione
appare non meno articolata. In una scuola come la Gabelli di Barriera di
Milano, sempre a Torino, gli alunni con genitori di origine straniera sono il
settanta per cento e salgono al novanta per cento nelle prime classi. Siamo in
un borgo storico caratterizzato dalle cosiddette case di ringhiera, dove gli
affitti sono meno cari e per questo attirano famiglie a basso reddito, come
spesso sono quelle dei migranti. Lavorare in scuole come la Gabelli o la vicina
Pestalozzi richiede competenze specifiche e una professionalità avanzata che
permettano di gestire situazioni complesse come i casi delle iscrizioni ad anno
iniziato, di livelli diversi di conoscenza della lingua italiana e di
situazioni familiari molto difficili. A volte i bambini mostrano chiaramente di
non voler rientrare a casa dopo la scuola, segno questo della presenza di un
ambiente familiare teso, o spiegano di non aver fatto i compiti perché non sono
riusciti a leggere e scrivere a lume di candela, oppure ancora perché nel lungo
e freddo inverno torinese il problema principale della sera è quello di trovare
un modo di scaldarsi sotto le coperte in assenza di riscaldamento. I doveri
scolastici passano così in secondo piano anche a causa dei tagli delle utenze
elettrice, spesso abusive, che rendono ostile perfino l’ambiente domestico.

Ma i lati positivi dell’interculturalità in scuole come
queste non mancano: innanzitutto, i figli di stranieri hanno spesso sviluppato
un grado di autonomia e maturità maggiore e si rivelano più rispettosi delle
regole e più attentamente monitorati dai genitori che non i bambini italiani, i
quali vivono in quelle stesse aree degradate perché spesso appartengono a
famiglie disagiate e problematiche. I pochi italiani che decidono liberamente
di portare i figli in queste scuole, inoltre, lo fanno per una precisa volontà
di preparare i loro bambini a vivere nella Torino che verrà e sono generalmente
entusiasti dell’esperienza che i ragazzi, e loro stessi – spesso attivamente
impegnati nei consigli d’istituto – stanno vivendo.

Per quanto riguarda il doposcuola, molto attiva è
l’Associazione animazione interculturale (Asai), già protagonista fin dagli
anni Novanta dei primi e fruttuosi esperimenti di interculturalità a San
Salvario. Nella sede di via Gené, a Porta Palazzo, il «Cantiere S.O.S.» (Scuola
oltre la Scuola) offre, grazie ai suoi operatori e ai volontari, un servizio di
doposcuola ad almeno un centinaio di bambini delle elementari e medie, corsi di
italiano per minori e adulti e laboratori artistici. Un progetto in corso, spiegano
Fabrizio e Roberto, due degli educatori, è quello di giustizia riparativa (sul
tema, dossier MC 12/2013) che nasce da una collaborazione fra Asai,
Polizia municipale e Tribunale dei minori. «Nei casi di bullismo e reati minori»,
spiega Fabrizio, «la collaborazione consente l’inserimento dei ragazzi in un
percorso di servizio di riparazione alla comunità, mentre la Polizia municipale si occupa
della mediazione con la vittima». «Quello che si cerca di fare qui, attraverso
il progetto di giustizia riparativa come in tutte le altre attività con i
ragazzi» gli fa eco Roberto, «è di dare loro più strumenti per avere meno paura
di ciò che vivono giorno per giorno. Abbiamo visto miglioramenti oggettivi in
diversi casi di adolescenti problematici: se si liberano della paura cominciano
piano piano a liberarsi anche della rabbia».

Il lavoro con gli adolescenti si estende poi a quello
con la comunità. Riccardo, anche lui educatore Asai, racconta delle esperienze
di coinvolgimento dei cittadini in quartieri come San Salvario ma non solo.
L’obiettivo è creare una rete sul territorio che metta insieme le famiglie, i
commercianti, chiunque voglia spendersi per il quartiere, conoscere altre
persone e vivere una realtà più integrata. Riccardo cornordina un collettivo
interculturale di giovani musicisti che si chiama Barriera Republic: «Anche
un quartiere non facile come questo», spiega Riccardo, «è capace di generare
senso di appartenenza. Ci sono ragazzi con grandi capacità come musicisti,
videomaker, attori… Bisogna solo incanalare queste loro abilità in modo che
creino condivisione, confronto, inclusione».

Quanto agli immigrati adulti, è a loro che si rivolge
l’offerta formativa (che comprende anche corsi di italiano) del «Centro
territoriale permanente» per l’istruzione e la formazione in età adulta di
Porta Palazzo (Ctp Parini). «Stiamo sperimentando una vera e propria emergenza
alfabetizzazione che, combinata con leggi complesse e con l’aumento della
burocratizzazione, genera sempre maggior esclusione per tutti coloro, e sono davvero
tanti, che non sanno leggere e scrivere, non sono in grado di compilare moduli
o di acquisire informazioni», avverte Rocco, uno degli operatori del centro. Il
Ctp Parini ha circa duemila utenti di cui un migliaio sono frequentanti. A un
analfabeta occorrono tre o quattro anni per arrivare al livello di
alfabetizzazione A1 del quadro europeo (livello base). Molti, dopo aver
raggiunto quel livello si rendono conto di quanto importante sia lo strumento
che prima non possedevano e decidono di continuare a frequentare.

Chiara Giovetti

I missionari della
Consolata e i migranti

Dal 2013
il lavoro dei missionari della Consolata con migranti di Torino si è
intensificato: padre Antonio Rovelli, responsabile della cooperazione di Mco,
fa ora parte del team di cornordinamento dell’Upm, e padre Godfrey Msumange,
coadiuvato dai viceparroci padre Nicholas Muthoka e padre Francesco Discepoli,
è parroco di Maria Speranza Nostra, una vasta parrocchia nel cuore di Barriera
di Milano a Torino.
I missionari vi hanno iniziato il loro servizio il 20 ottobre del 2013,
giornata missionaria mondiale, e hanno cominciato ad ascoltare, osservare,
visitare le famiglie e programmare. «È un quartiere molto vario», spiega padre
Nicholas, «che ha accolto immigrati del Sud Italia e del Veneto in passato e
che ora ha visto l’arrivo di rumeni, albanesi, nigeriani, polacchi, eritrei,
marocchini, tunisini e diversi latinoamericani». «Per il momento» aggiunge
padre Godfrey «stiamo attivando, o prevediamo di attivare, servizi come lo
sportello lavoro, la distribuzione di cibo e il centro d’ascolto, oltre
all’oratorio che adesso è dedicato all’aggregazione. Ma vorremmo sviluppare
anche attività di doposcuola, corsi e laboratori».

Altra
realtà è quella di San Gioacchino a Porta Palazzo, una parrocchia con sacerdoti
nigeriani, in cui padre José Jesus Ossa Tamayo, missionario della Consolata
colombiano, segue la comunità dei latinos, i migranti provenienti
dall’America Latina. «I latinos sono ventimila in Piemonte, seimila
nella sola Torino», spiega padre Jesus, «e per guadagnarsi da vivere lavorano
spesso come badanti o facendo le pulizie. Hanno una grande fame di Dio e, al di
là della messa, si rivolgono al parroco come a un punto di riferimento per
tante cose: farsi accompagnare a un colloquio di lavoro, chiedere consigli sui
problemi di coppia». A volte le situazioni familiari e le condizioni abitative
sono molto difficili: padre Jesus racconta dell’esperienza di un’anziana che è
stata portata in Italia dai figli perché non restasse sola in patria, ma ha
problemi di mobilità che le impediscono di fare le scale e la costringono in
casa dove «piange, piange e piange, tutto il giorno. Con persone come lei»,
conclude padre Jesus «il ruolo di noi missionari è la presenza: andare e
“piangere” con lei. Ultimamente i parrocchiani si sono offerti di far costruire
un bell’altare: per loro è molto importante, è un segno di appartenenza. Lo
faremo, certo, ma ho detto loro che il primo altare a cui devono pensare è la
vecchietta che piange, o il fratello che non lavora e non ha di che nutrirsi».

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




«Più stato!», «meno stato!» Fedi e laicità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 18

Vignette satiriche in
Inghilterra e pillola del giorno dopo negli Usa. Due casi recenti che mettono
al centro il tema della laicità delle istituzioni. Da un lato c’è chi, per
difendere la fede, chiede una maggiore presenza dello stato. Dall’altro c’è
chi, sempre per garantire la libertà di credo, ne chiede una presenza minore. Come
sciogliere un nodo così centrale nella vita delle democrazie costituzionali?

Fino a che punto può spingersi la
libertà di critica e di satira nei confronti della religione? Nella società
secolarizzata esiste infatti anche questo problema che, tra gli altri, riguarda
la laicità dello stato. Lo stato laico non può avere una propria confessione
religiosa, né creare condizioni favorevoli per una a dispetto delle altre. Esso
deve garantire la libertà religiosa e di coscienza a tutti: credenti e non
credenti.

Per assicurare il rispetto di questi
principi ci sono le costituzioni, le leggi e le apposite istituzioni (come, in
Europa, la Cedu, di cui abbiamo scritto nei numeri scorsi). Rimangono tuttavia
aperti diversi problemi, tra i quali quello cui abbiamo accennato all’inizio:
la libertà, in questo caso di coscienza e di espressione, trova un limite nella
libertà degli altri? Se uno non è credente, fino a che punto può criticare la
religione senza offendere la coscienza dei credenti? È una questione emersa in
questi ultimi anni proprio nel campo dell’umorismo e della satira.

I due grandi amici «Jesus and Mo»

Tutti ricordiamo il caso delle
caricature di Maometto pubblicate il 30 settembre 2005 sul quotidiano danese Jyllands-Posten,
considerate blasfeme dai musulmani, che avevano prodotto reazioni molto
violente, morti e feriti.

Un episodio analogo ma, per fortuna,
del tutto pacifico, è accaduto qualche mese fa in Inghilterra. La mattina del 3
ottobre scorso Chris Moos e Abhishek Phadnis, studenti della London School
of Economics
, famosa università privata di Londra, si sono presentati in
aula con una maglietta che riproduceva un’immagine di «Jesus and Mo», un
fumetto umoristico celebre nel paese d’oltremanica. I due giovani, che si
dichiaravano atei, l’hanno indossata per scherzo. Il fumetto rappresenta Gesù e
Maometto come due grandi amici che si parlano dandosi del tu, e prendono in giro
in modo sarcastico il mondo religioso rappresentato da ciascuno dei due. C’è
addirittura un sito internet molto seguito che riporta tutte le vignette via
via prodotte dagli autori (jesusandmo.net *).

Lo scherzo dei due non è stato preso
bene da altri studenti, rappresentanti di associazioni e forze politiche
studentesche, che lo hanno considerato «non politicamente corretto». Hanno
ritenuto, infatti, che la vignetta fosse offensiva per cristiani e musulmani.
Cris Moos e Abhishek Phadnis sono stati quindi costretti a nascondere le loro
magliette sotto una giacca.

Censurare la censura

Il giornalista del quotidiano
londinese The Guardian, che ha raccontato l’episodio, ha criticato
pesantemente il comportamento degli studenti contrari alle magliette,
considerandolo «un altro esempio di repressione nelle nostre università». Egli
infatti lamenta che quanto accaduto nella London School non sia un fatto
isolato e che, quindi, il problema stia diventando preoccupante in Inghilterra.
Le università, sostiene, sono l’ultimo posto dove la censura dovrebbe essere
ammessa. Egli non difende i due studenti per principio, ma perché la vignetta
riprodotta sulle loro magliette non era, a suo avviso, affatto offensiva.
Questo è l’aspetto che suscita la sua preoccupazione. Per il giornalista,
infatti, non è la «provocazione» dei due amici a essere stata sproporzionata,
ma la reazione inaccettabile degli altri giovani.

Usa: assicurazione sanitaria e pillola del giorno dopo

Dall’altra parte dell’oceano, negli
Usa, si manifesta un problema che non riguarda la libertà di espressione e di
satira, ma in modo direttamente più esplicito la libertà religiosa e la laicità
dello stato. In questo caso la domanda potrebbe essere: fino a che punto le
comunità religiose possono ritenere che alcune leggi dello stato non siano
valide al loro interno?

Ne ha parlato il primo novembre
scorso il quotidiano francese Le Monde in un articolo dal titolo
emblematico: Le ambiguità della libertà religiosa americana. Vi si
racconta che il 24 ottobre Richard Mourdock, candidato repubblicano al senato
nell’Indiana, ha affermato che «la vita è un dono di Dio anche quando inizia in
una terribile condizione di violenza». Si riferiva a una questione molto
dibattuta, legata alla riforma sanitaria del presidente Barak Obama.
Quest’ultima infatti prevede l’obbligo per i datori di lavoro di offrire ai
propri dipendenti assicurazioni mediche che coprano anche le spese per la
contraccezione. E le parole di Mourdock erano indirizzate alla cosiddetta «pillola
del giorno dopo», la quale sarebbe compresa nell’assicurazione sanitaria
offerta obbligatoriamente ai propri dipendenti anche dalle università e
istituzioni religiose contrarie all’uso della pillola stessa.

Può essere certamente, come sostiene
l’autrice dell’articolo, che ci si trovi di fronte a una forzatura polemica che
trasferisce sul piano della libertà religiosa un problema, in realtà, politico.
La riforma sanitaria ha infatti scatenato negli Usa forti contrapposizioni tra
repubblicani e democratici, facendo muovere numerose associazioni, consistenti
forze economiche e sociali, e istituzioni religiose. Resta il fatto che negli
Stati Uniti, dall’11 settembre 2001 in poi, nella «destra religiosa» si sono
rafforzate le paure nei confronti di una perdita dell’«identità cristiana»
americana, minacciata, da una parte, dagli islamici e, dall’altra, dalla
secolarizzazione. Questi pericoli, da quando siede alla Casa Bianca, vengono
ricondotti al presidente Obama e alle sue politiche.

Fuori dalla vita pubblica

Nel numero di marzo 2012 del mensile
conservatore First Things era stata pubblicata una dichiarazione
congiunta di esponenti religiosi protestanti e cattolici in cui si afferma che «i
difensori dei diritti dell’uomo, ivi compresi i governanti, hanno cominciato a
definire la libertà religiosa in un modo sempre più riduttivo, riconducendola a
una semplice libertà di culto». La religione biblica, invece, secondo la
dichiarazione, ha un carattere essenzialmente pubblico e non può essere ridotta
a un fatto privato. «Non è affatto esagerato» prosegue il documento «vedere in
questi sviluppi un movimento che cerca di spingere la fede religiosa, e
soprattutto le convinzioni religiose e morali cristiane ortodosse, fuori dalla
vita pubblica». Dentro questo quadro espresso sul periodico conservatore, il
fatto che lo stato renda obbligatoria, anche da parte delle istituzioni
religiose, l’offerta gratuita di contraccezione, diventa un attentato alla
costituzione e ai diritti che essa riconosce. In particolare alla libertà
religiosa, dato che tali imposizioni entrano nel campo della liceità della
contraccezione rispetto alla quale cattolici e protestanti, pur non
condividendo la stessa valutazione generale, concordano quando ci sia da
ritenere abortivo, e quindi moralmente inaccettabile, il ricorso alla «pillola
del giorno dopo».

Ingerenze confessionali, ingerenze laiche

Cosa lega tra loro il dibattito
statunitense appena riferito e l’episodio della London School of Economics?

Apparentemente nulla. In realtà
entrambi riguardano la concezione di laicità dello stato e la libertà di
espressione. Nel caso londinese viene stigmatizzata una ingerenza «confessionale»
nella libertà di espressione personale. Nel secondo una ingerenza «laica» dello
stato nella libertà di adesione alle convinzioni religiose di alcune
istituzioni private. In tutti e due i casi è in gioco anche un altro aspetto:
quello del cosiddetto «spazio pubblico».

In esso si devono poter manifestare
liberamente le proprie convinzioni. Nessuno, ovviamente, mette in discussione
la libertà di farlo in privato. Ciò che costituisce problema è, invece, la
dimensione pubblica della propria fede religiosa o della propria valutazione,
anche critica, della fede stessa.

Non c’è dubbio, inoltre, che la fede
biblica abbia un carattere pubblico, come sostiene la dichiarazione pubblicata
dal First Things. Lo stesso vale anche, e forse ancora di più, per
l’islam. Ma tale «carattere pubblico» della fede può spingere una religione a
pretendere che la propria concezione morale entri tout court nello «spazio
pubblico» rappresentato dalle norme dello stato?

Probabilmente no. Si violerebbe,
altrimenti, la sua laicità. Ma si violerebbe la laicità dello stato anche se,
al contrario, lo «spazio pubblico» diventasse un luogo in cui la «religione non
c’è», uno spazio religiosamente vuoto (cosa che occorrerebbe verificare se
possibile, oltreché giusta), o un luogo in cui fosse possibile realizzare un’«etica
irreligiosa»: sia sotto forma di satira irrispettosa, sia sotto forma di norme
contrarie alle convinzioni religiose.

Laicità piegata ai propri fini

Non si tratta di un nodo semplice da
sciogliere.

Ci sono casi in cui le norme
contrarie alle convinzioni religiose vengono considerate legittime anche dalla «destra
religiosa», quando queste concordano con i suoi obiettivi.

Per rimanere negli Usa, dove i
problemi si presentano spesso in modo più evidente e, a volte, anche più acuto
che in Europa, dal 2010 alcuni stati come il Tennessee, la Louisiana, l’Arizona
– ma in molti altri si sta procedendo nella stessa direzione -, hanno
introdotto norme che pongono restrizioni significative alla libertà religiosa
delle comunità musulmane ed ebraiche. In queste comunità infatti operano «tribunali»
che applicano ai propri fedeli le leggi religiose, la sharia islamica e
la halakhah ebraica. Quando tali «tribunali» non garantiscono gli stessi
diritti previsti dalla Costituzione, le parti interessate possono ricorrere a
un tribunale laico. Perché in questi casi è considerata legittima l’«ingerenza»
dello stato e la restrizione della libertà religiosa?

La bussola dei diritti costituzionali

La risposta è chiara: la restrizione
del diritto alla libertà religiosa è possibile quando questa eviti la
violazione di altri diritti costituzionali.

Sono le norme costituzionali, dunque
– naturalmente delle costituzioni democratiche che riconoscono e proteggono
tutti i diritti civili e di libertà -, che debbono prevalere, perché
garantiscono a tutti i cittadini pari diritti e pari libertà. Questo deve
valere anche quando si invoca uno «spazio pubblico» in cui esprimere la propria
fede religiosa. Tale spazio dev’essere regolato dalle norme costituzionali che
valgono per tutti. È questo, propriamente, che caratterizza lo stato laico e
non confessionale.

E dell’obiezione di coscienza

Se dalle istituzioni
e dalle comunità si passa a considerare la persona, per difenderla
dall’ingerenza dello stato nelle sue convinzioni religiose e nella sua
coscienza, rimane fondamentale il diritto all’obiezione di coscienza. Ha
costituito un grande progresso civile il suo ingresso da qualche decennio tra
le leggi degli stati. Uno stato laico deve sempre prevederla quando sono in
gioco norme che possono contrastare le convinzioni morali e religiose di una
persona.

In Italia non è
stato facile raggiungere questo risultato. Molti hanno pagato prezzi elevati
perché tale diritto fosse riconosciuto. Ricordiamo il caso degli obiettori di
coscienza al servizio militare, esploso negli anni ‘70, costretti in carcere
perché non volevano indossare la divisa. La loro scelta ha reso possibile la
legalizzazione di quella forma di obiezione di coscienza. In seguito, come
noto, in Italia ne sono state riconosciute altre: ad esempio l’obiezione dei
medici alla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Per quanto
riguarda la riforma di Obama, alla fine di giugno 2012, la Corte suprema
americana l’ha dichiarata costituzionale, in particolare dove prevede l’obbligo
per tutti i cittadini di dotarsi di un’assicurazione sanitaria. Rimane però
aperta la questione che contrappone il presidente e le istituzioni religiose.
Obama ha fatto un passo indietro, cercando un accordo: «Le organizzazioni
religiose non dovranno pagare per questi servizi o provvedervi direttamente»,
ha affermato ancora nel febbraio del 2012, precisando che le istituzioni
affiliate a organizzazioni religiose non avrebbero più avuto l’obbligo di
coprire la spesa sanitaria dei dipendenti per gli anticoncezionali. Questo non
ha impedito che le arcidiocesi di New York e Washington, insieme a una
quarantina di altre istituzioni e gruppi cattolici, avviassero alcuni mesi dopo
una causa contro la riforma, sostenendo che «i progressi nella modifica della
norma non erano stati incoraggianti».

Paolo Bertezzolo

* Per correttezza abbiamo
riportato questo sito, ma se la sua qualità è rappresentata da alcune delle
vignette che abbiamo visto, non vale davvero il nostro tempo; è più frutto di
goliardia e d’ignoranza in malafede che d’intelligenza; il fatto che se la
prenda sia con Islam e Cristianesimo non contribuisce certo a renderlo almeno
dignitoso, ndr.

Paolo Bertezzolo




Pillole «Allamano» 3: una religione che rende felici qui  


3. Amate una religione che vi offre le promesse di un’altra vita e vi rende più felici sulla terra. Se una pillola non aiuta a star bene, perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio vale anche per le pillole dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere perlomeno convinti del loro effetto benefico. La bontà di un prodotto va certificata con tanto di risultati. La pillola di questo mese parla di felicità, il fine ultimo del cammino esistenziale di ognuno. Tutti gli uomini desiderano la felicità e si sforzano di raggiungerla, anche se molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso. Esiste davvero una pillola che aiuti a essere felici, visto e considerato che molte persone non si possono, oggi, dichiarare certamente tali?


Colui che crede dovrebbe avere una risposta pronta da offrire, una soluzione in grado di soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e pronta per essere condivisa con tutti: il cammino di fede fa dire al credente che la meta agognata non può essere altri che Dio, che è lui la vera felicità. Il desiderio di Dio, per il cristiano, è scolpito a chiare lettere nel cuore dell’uomo, e Dio, da par suo, non smette un secondo di attirare a sé la sua creatura, proprio perché la vuole felice.

Chiaramente ci si trova di fronte a una difficoltà: se Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che tutti gli uomini siano felici, perché, di fatto, la cosa non si verifica? In effetti, il cristiano è convinto che non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere Dio-felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per ricevere tale regalo, l’uomo deve collaborare attraverso delle scelte che gli permettano di aprirsi alla grazia, dono gratuito di Dio. L’azione umana non è l’unica né la principale causa del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto. Questa, in poche parole, è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa la Chiesa in materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti analizza il fenomeno della «perdita del sacro» che colpisce la cristianità in generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro ai quali si rivolge, una religione dal cielo «vuoto», che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del mondo ha fatto perdere all’uomo la fiducia nella possibilità di un Dio trascendente, totalmente altro. Se Dio è felicità, secondo Galimberti, da questa felicità il mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha rescissa dalla propria storia.

Dire che la felicità risiede in Dio a un interlocutore che da Dio si è separato potrebbe significare iniziare un dialogo tra sordi che non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle catechesi e delle omelie che ascoltiamo, o dei contenuti religiosi che portiamo nelle nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato dall’alto come una verità che è inoppugnabile per chi crede, ma che lascia invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei casi, completamente indifferenti.

La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico, con un approccio pedagogico «dal basso», che tiene conto delle persone e non solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non è propriamente «farina del suo sacco», ma ha bensì un’origine addirittura papale.

La frase contenuta nella pillola di oggi, è stata scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del Kenya, datata 2 ottobre 1910. In quella lettera l’Allamano ricordava che se desideravano conseguire frutti dovevano far sì che il loro lavoro fosse: perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui di grande approfondimento, mentre è proprio a proposito dell’ultima caratteristica che il fondatore ci offre la sua pillola.

L’accento è posto sul metodo missionario: l’Allamano vuole che esso parta da un contatto ravvicinato con la gente, con i suoi bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione con il Decreto di approvazione da parte di Propaganda Fide e con le parole benedicenti di papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera citata. Con le sue parole, lodando e approvando il metodo missionario dell’Istituto, il pontefice esprimeva il seguente concetto: «Bisogna degli indigeni fae tanti uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre le promesse d’altra vita, li rende più felici su questa terra». Più felici su questa terra: prima di fare il cristiano occorre fare l’uomo, un uomo «laborioso», capace di apprezzare i «benefici della civiltà» ed essere quindi anche attratto all’amore della fede.

Un approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è quello della testimonianza. I cristiani sono chiamati a essere testimoni della loro fede come possibilità per vivere una vita felice. Come scrive Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, nel suo saggio Le vie della Felicità. Gesù e le beatitudini (Rizzoli, Milano 2010): «Noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?».

Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice dello stile di vita incarnato da Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela di Cristo è esigente, significa passare per la porta stretta e abbracciare la croce che può assumere, nel concreto, diversi aspetti: servizio, sofferenza, impegno radicale e senza compromessi, persino martirio. Ciononostante, le beatitudini, la Magna Charta del cristiano, sono, in sé, una vera e propria chiamata alla felicità.

In una società come la nostra dove l’indifferenza e il relativismo esprimono una chiara mancanza di senso nei percorsi esistenziali delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza la propria vita, nella ricerca di un perché capace di illuminare di senso il nostro agire, vivere e morire, e, una volta realizzato, portare quindi alla felicità.

Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà a essere felici. È il livello della consolazione, del mettersi, cioè, a fianco e camminare con coloro che sempre rimangono ai margini, attardati a causa del peso di esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità di fronte a qualcuno che vive una «vita di scarto» o si sente in cuor suo di sprecare la propria esistenza? Eppure sono proprio queste le persone che esigono un inizio di felicità già su questa terra. Lo esige il senso di giustizia che sta alla base di una vita serena, pacifica e, di conseguenza, felice. Il povero che non riesce a uscire dal ciclo di miseria in cui è entrato, il malato che si scontra con l’impossibilità di curare la sua infermità o di lenire la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il nodo che gli attanaglia il cuore, non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro, di ripetersi «piove sempre sul bagnato».

La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare l’impegno del cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le persone che soffrono.

La pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come placebo. Papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato molto in sintonia con questo approccio e ha pubblicato la sua prima Esortazione apostolica intitolandola «Il Vangelo della gioia». Il cristiano deve essere un uomo gioioso, felice della sua scelta, della sua vocazione e del sì detto senza ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa vita e testimoniata nel quotidiano, diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi invece aveva ormai perso la speranza di ritrovare una ragione per andare avanti.

Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il «sì» da noi dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di essere felici grazie al benessere, alla possibilità di pagare occasionali momenti di beatitudine sta venendo meno giorno dopo giorno. La crisi che l’Europa (e non solo) sta attraversando mette a dura prova la pretesa di poter eternamente difendere a costo zero l’agio e il benessere costruiti in questi anni.

Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per questo mese ci invita invece a scoprire, con le persone che incontriamo, che la felicità si costruisce insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella cattiva sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio di sole alla volta, fino a ottenere la previsione di una giornata finalmente serena.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Sant’Isidoro e la beata Maria Toribia

Isidoro nacque nei pressi di Madrid verso il 1070. In
giovane età lasciò la casa patea per andare a lavorare nei campi al servizio
di alcuni proprietari terrieri. In quel periodo parte della Spagna era soggetta
agli Almoravidi, musulmani berberi originari del Marocco. Quando questi
conquistarono Madrid, Isidoro si rifugiò a Torrelaguna dove conobbe e sposò la
giovane Maria Toribia. La loro unione fu caratterizzata dall’attenzione verso i
poveri, con i quali condividevano la loro casa, il loro cibo, i loro averi.
Isidoro morì il 15 maggio 1130 e venne canonizzato il 12 marzo 1622 da Papa
Gregorio XV, mentre Maria Toribia venne proclamata Beata nel 1697 da Papa
Innocenzo XII.


La vita di questi due sposi, laici illetterati dalla fede
adamantina, elevati agli onori degli altari e dichiarati – a furor di popolo –
patroni dei raccolti e della gente dei campi, si può riassumere in tre verbi:
lavorare, pregare, donare. Un programma di vita attualissimo ancora oggi.

Fa un po’ meraviglia
vedere due semplici laici – per giunta marito e moglie – con l’aureola della
santità, dato che da secoli siamo abituati a vedere figure di santi che sono
per lo più suore, monache, frati, sacerdoti, Vescovi e Papi. In genere i laici
venerati come santi lo sono in quanto martiri. Spiegateci come avete guadagnato
questa fama di santità pur vivendo come degli umili contadini?

Isidoro
e Maria Toribia:
La santità non consiste nel fare
grandi cose, ma nel fare in modo grande le piccole cose di ogni giorno. Noi
abbiamo cercato di fare sempre la volontà di Dio, vivendo con gioia la fede in
Cristo nella vita quotidiana.

A me risulta che
pregavate molto durante le vostre giornate.

Isidoro: È
vero, io passavo molto tempo in preghiera, non saprei quantificare le ore e i
minuti in quanto durante la mia epoca ci si regolava, specialmente nel lavoro
dei campi, con la luce del sole. Questo mio modo di fare ha suscitato l’invidia
degli altri lavoratori, i quali sono andati a dire al padrone bugie e
maldicenze sul mio conto: che avevo poca voglia di lavorare, che perdevo tempo
e guadagnavo il pane alle spalle delle loro fatiche.

Maria Toribia: Io ero piuttosto tiepida nella preghiera, ma vedendo il fervore di
Isidoro, ho capito che era mio dovere imitarlo. E devo dire che proprio
cominciando a pregare insieme abbiamo superato tante avversità, la più grande è
stata la perdita dell’unica creatura nata dalla nostra unione. Quando nostro
figlio è morto in tenera età, la sola consolazione l’abbiamo trovata proprio
nella preghiera.

Ai vostri tempi la
Spagna era in gran parte occupata dagli Almoravidi che erano di religione
islamica. I proprietari terrieri per i quali lavoravate erano anch’essi
musulmani?

Isidoro e Maria Toribia: Abbiamo lavorato sotto diversi padroni, quindi anche con dei padroni
che appartenevano a un’altra religione. Nella mia epoca, come dici tu, gli
Almoravidi dominavano la Spagna, essi erano una dinastia musulmana nordafricana
nata nell’undicesimo secolo ed era all’origine un movimento religioso di tipo
riformista che si era propagato fra le tribù berbere conquistando in pochi
decenni il Nord Africa e parte della Spagna. Il vasto impero almoravide però è
durato meno di un cinquantennio, fino all’apparizione degli Almohadi, che nel
1147 hanno conquistato parte dell’Africa mediterranea e i domini iberici.

Sotto di loro non
avevate problemi per la vostra vita cristiana, il culto o la pratica religiosa?

Isidoro e Maria Toribia: Assolutamente no, c’era da parte di tutti una grande tolleranza. Come
sempre, le cause delle guerre che si sono succedute, checché se ne dica, erano
più legate a conquiste territoriali per ampliare i propri possedimenti e
presentarsi così come dei grandi sovrani con molta terra e con molti popoli al
loro servizio.

Come praticavate la
vostra fede?

Isidoro
e Maria Toribia:
Ogni giorno partecipavamo alla
Messa mattutina e durante la giornata, in casa come nei campi, spesso
lasciavamo il lavoro per passare qualche momento di intimità con il Signore in
preghiera. Nonostante queste pause il risultato della nostra fatica era né più
né meno consistente di quello dei nostri compagni: tanti campi aravano loro,
tanti ne aravamo noi, tanti covoni mietevano loro, tanti ne mietevamo noi.
Qualcuno addirittura azzarda che grazie alla nostra vita di preghiera gli
angeli si sostituissero a noi nel lavoro dei campi.

Ho letto su di voi
queste cose: eravate molto caritatevoli verso i più poveri, ma i risultati
ottenuti non si spiegavano con la sola vostra capacità di lavoro. Attraverso la
vostra vita umile e semplice avvenivano dei miracoli.

Isidoro: Dicono anche che mentre trasportavo sulle spalle un sacco di
grano con il fondo bucato, i chicchi cadevano sulla neve, una vera manna per
gli uccellini nella stagione invernale. Arrivato al mulino, chissà come, il
sacco non aveva buchi ed era prodigiosamente pieno.

La
vostra epoca era caratterizzata da grandi condottieri come Alfonso VI il Bravo,
Re di Castiglia e di Leon che conquistò tante città; come Yusuf ibn Tashufin,
capo degli Almoravidi musulmani che sconfisse Alfonso incorporando ampie zone
della Spagna nel suo impero Nordafricano; come il condottiero dei condottieri,
Ruiz Diaz de Bivar, detto el Cid Campeador.

Isidoro
e Maria Toribia:
Noi non avevamo né spada né
cavallo. Quando aravamo la terra utilizzavamo i buoi del padrone e vicino casa
avevamo gli animali da cortile, come tutti i contadini. Quando vedevamo passare
questi cavalieri per andare a combattere, ci prendeva lo sconforto al pensiero
di quanti giovani avrebbero lasciato la loro vita sui campi di battaglia per
gli interessi di qualche potente.

Voi avevate un
rapporto ideale, quasi mistico con la terra. Ed è proprio questo amore
viscerale alla vita dei campi che fa di voi persone con molte cose da dire agli
uomini d’oggi.

Isidoro
e Maria Toribia:
Pur essendo dei semplici salariati,
contadini cioè che lavoravano la terra di un padrone, ricavavamo dalla terra ciò
che era necessario per vivere. Non come voi modei che avete inventato
addirittura il land grabbing impoverendo ancora di più i contadini dei paesi del Sud del
mondo.

Voi sapete cos’è il
land grabbing?

Isidoro
e Maria Toribia:
Dove siamo adesso vediamo delle
cose, è proprio il caso di dirlo, che non stanno né in cielo né in terra, come
appunto il fenomeno del land grabbing, ovvero l’accaparramento della terra per sfruttare intere zone di
paesi poveri, a favore dei paesi ricchi che non hanno spazio sufficiente per le
necessità alimentari delle loro popolazioni.

Infatti questo è un
problema serio, in molte parti del mondo i frutti della terra non restano alla
popolazione che li ha coltivati ma vengono dirottati a nazioni ricche come
l’Arabia Saudita o potenze industriali emergenti come l’India e la Cina che per
avere risorse alimentari per la loro gente non esitano a sfruttare e impoverire
i paesi già poveri.

Isidoro e Maria Toribia: E pensare che una migliore ridistribuzione dei beni darebbe cibo
sufficiente a tutto il pianeta.

Isidoro muore nel 1130 e lo seppelliscono
con una semplice cerimonia nel cimitero del villaggio in cui era sempre
vissuto. Qualche anno dopo la moglie lo raggiunge in paradiso. La loro tomba
diventa subito meta di pellegrinaggi e qualche decennio dopo, a furor di
popolo, il corpo di Isidoro viene esumato per essere sepolto nella chiesa
madrilena di Sant’Andrea. Inspiegabilmente lo trovano incorrotto. La sua fama
si diffonde subito in tutta la Spagna e in seguito nelle colonie spagnole.
Isidoro viene elevato alla gloria degli altari insieme a quattro stelle della
santità di ogni tempo: San Filippo Neri, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di
Loyola e San Francesco Saverio. Gente con cui, di sicuro, Isidoro e Maria
Toribia si sarebbero trovati in difficoltà a parlare durante la loro vita.
Questa santità di coppia è poco conosciuta perché la
devozione popolare ha fatto prevalere l’aspetto prodigioso e miracolistico del
marito. La popolarità che Isidoro si è guadagnato come patrono dei raccolti e
dei contadini ha finito per oscurare quella di lei che pure si è fatta santa
condividendo gli stessi ideali di generosità e laboriosità del marito,
conquistando la perfezione spirituale tra casseruole, bucati e lavori nei
campi.

Mario
Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




L’umanitario, che noia. Ma se arriva il VIP… 

Dal concerto Live Aid del 1985 in poi, la
raccolta fondi e la sensibilizzazione passano anche attraverso la musica, il
cinema e i testimonial eccellenti. I Vip riescono a focalizzare l’attenzione su
temi spesso percepiti come noiosi e tristi: tragedie e situazioni di difficoltà
dei paesi del Sud del mondo. Una delle soluzioni più in voga per avvicinare il
grande pubblico sembra essere quella di rendere l’aiuto umanitario qualcosa di
cornol. E oggi sono tanti i Vip che fanno ottenere più visibilità alle campagne
per le quali s’impegnano. Ma a quale prezzo?

«Non andate al pub stasera, restate a casa e dateci il vostro denaro. Ci
sono persone che stanno morendo in questo preciso momento, perciò dateci i
soldi!». Era il 13 luglio del 1985 quando ai microfoni della Bbc Bob Geldof, il
musicista irlandese noto per la sua scarsa propensione a usare mezzi termini,
prorompeva rabbiosamente in questo accorato appello a favore dell’Etiopia in
emergenza carestia. In sottofondo, il bornato delle settantaduemila persone che formavano
il pubblico dello stadio londinese di Wembley accompagnava le esibizioni dei
mostri sacri del rock che si avvicendavano sul palco del Live Aid, il
concerto organizzato dallo stesso Geldof e da Midge Ure, musicista e attivista
scozzese. Il Live Aid era in qualche modo l’approdo di un percorso le
cui tappe precedenti erano state le canzoni Do They Know It’s Christmas
(sempre di Geldof e Ure) e We Are The World, del gruppo di star
statunitensi Usa for Africa.

L’unico precedente di portata e dimensioni comparabili
al Live Aid era stato il concerto per il Bangladesh organizzato dall’ex
Beatle George Harrison e dal musicista indiano Ravi Shankar nel 1971 al Madison
Square Garden di New York, al quale assistette un pubblico di quarantamila
persone e che portò donazioni iniziali per duecentoquarantamila dollari, salite
poi a quattro milioni di dollari con i proventi della vendita dell’album del
concerto.

Ma il Live Aid oscurò di gran lunga il risultato
ottenuto dal pioniere Harrison, imponendosi come uno dei momenti musicalmente
più memorabili del secolo scorso e, dal punto di vista delle donazioni,
raggiungendo nell’immediato circa cinquanta milioni di sterline, e un totale di
centocinquanta milioni aggiungendo i proventi della successiva campagna.

Una cifra colossale destinata ad aiuti umanitari alle
popolazioni del Nord dell’Etiopia afflitte da una carestia che, combinata alle
politiche agricole del governo locale, avrebbe provocato circa quattrocentomila
vittime. Le polemiche non si fecero attendere: cinque mesi dopo l’evento, un
articolo del Washington Post elencava una lunga serie di episodi di
disorganizzazione e incomprensioni fra la Fondazione Live Aid che
gestiva i fondi e le organizzazioni impegnate sul campo per alleviare le
sofferenze degli etiopi. Nel 2005, mentre Geldof stava preparando il Live 8,
un altro mega concerto di sensibilizzazione ai problemi della povertà a
vent’anni dall’illustre precedente, l’opinionista americano David Rieff scrisse
per il Guardian un articolo durissimo in cui spiegava che forse il Live
Aid
aveva permesso, come affermavano i suoi sostenitori, di dimezzare le
vittime della carestia, ma al tempo stesso aveva fornito al governo etiope – il
Derg di Menghistu Hailè Mariam – un sostegno economico che Menghistu usò
per deportare circa seicentomila persone dal Nord al Sud del paese e «villaggizzae»
(cioè riunire forzatamente in villaggi) altri tre milioni. Ufficialmente le
deportazioni e risistemazioni avevano avuto l’obiettivo di salvare la
popolazione da quella carestia che aveva ricevuto ampia attenzione dai media
inteazionali proprio grazie all’iniziativa di Geldof e Ure. In realtà, affermò
Rieff, lo scopo principale del Derg era stato quello di creare un
meccanismo di controllo capillare della popolazione e di contrastare i
movimenti di opposizione intea.

Oltre alle considerazioni riguardanti le conseguenze del
Live Aid sulla popolazione etiope, Rieff avanzava una serie di critiche
che, a ben guardare, possono essere estese anche oggi a tutti gli eventi di cui
la kermesse del 1985 è la madre. Innanzitutto, si chiedeva il
giornalista nel 2005, come si spiegava che l’Africa stesse peggio di vent’anni
prima nonostante le tante iniziative benefiche promosse da personaggi illustri?
E ancora: perché le cause della carestia etiope, che era imputabile non solo
alla natura ma a precise scelte umane (del governo di Menghistu), erano state
totalmente ignorate dagli organizzatori che avevano privilegiato, invece, una
comunicazione basata su semplicismi relativi ai concetti di bisogno, aiuto e
dovere morale?

Le campagne di successo in rete

L’avvento della rete ha offerto ulteriori strumenti alla
mobilitazione e alla sensibilizzazione. Si pensi al caso di Kony 2012.
La campagna contro il sanguinario leader del Lord Resistance Army in
Uganda, Joseph Kony, e le atrocità da lui commesse a danno della popolazione
civile e in particolare dei bambini ha mostrato come un prodotto ben
confezionato dal punto di vista video e altrettanto ben promosso attraverso i social
networks
e i testimonial d’eccezione (due fra tutti: Angelina Jolie e
George Clooney) può ottenere in breve tempo una grande esposizione mediatica.

Anche in quel caso i critici hanno insistito sul
pressappochismo delle informazioni – le operazioni dell’esercito di Kony non si
svolgevano più in Uganda da anni all’epoca della diffusione del video -, sul
fuorviante ricorso a immagini e termini che, pur in grado di coinvolgere
emotivamente lo spettatore, restituivano una visione distorta della realtà e su
come la campagna indicasse come atto umanitario l’invio di truppe statunitensi
in Uganda per «fermare Kony». Eppure, il video è arrivato nel giro di sei
giorni a cento milioni di click fra YouTube e Vimeo, due fra i
principali siti di condivisione dei video.

Italia, il «caso» Mission

Che anche nel mondo della cooperazione italiana stiano
prendendo piede in modo deciso la caccia al testimonial e la conquista
del grande pubblico attraverso una comunicazione spettacolarizzata non è una
novità. Ma Mission, il programma trasmesso in due serate lo scorso
dicembre da RaiUno, è probabilmente l’esempio che più di tutti ha generato
polemiche e sollevato dubbi tutto sommato inediti. Mission, che nelle
parole del direttore della rete Giancarlo Leone è stato «un progetto di social
tv
e non un reality show», ha portato alcuni volti noti della tv e
del giornalismo italiani (Al Bano e le sue figlie, Paola Barale, Emanuele
Filiberto di Savoia, Barbara De Rossi, Michele Cucuzza e altri) per due
settimane nei campi profughi di Giordania, Repubblica Democratica del Congo,
Sud Sudan, Ecuador e Mali allo scopo di prendere parte alle attività delle
organizzazioni umanitarie e di raccontare poi la loro esperienza in studio
commentando le riprese effettuate sul campo. Alla preparazione del programma,
alle riprese e alla trasmissione stessa hanno partecipato funzionari dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) e cooperanti dell’Ong
Intersos, il cui ruolo è stato quello di fornire ai Vip e alla Rai le
informazioni necessarie per evitare di cadere in quella che molti critici, fin
dall’annuncio dell’inizio delle riprese, avevano definito «pornografia
umanitaria». La trasmissione ha ottenuto circa due milioni e duecentomila
spettatori a puntata: un flop per la Rai, ma una mole di persone comunque
irraggiungibile per qualunque campagna di sensibilizzazione di una Ong italiana
di medie o piccole dimensioni.

Se, da un lato, c’è chi ha dato un giudizio positivo su Mission
perché ha acceso le luci su temi che i programmi di prima serata di RaiUno di
solito non affrontano, dall’altro lato molto più numerosi sono stati i critici.
Eugenio Melandri del Coordinamento Iniziative Popolari di Solidarietà
Internazionale (Cipsi) ha parlato di «marchettone natalizio». Luciano
Scalettari di Famiglia Cristiana lo ha definito «il trionfo del dilettantismo e
della noia», «un’occasione sprecata» che ha reso «protagonisti i personaggi
famosi anche se non sanno di cosa stanno parlando». Non così negativa, invece,
l’opinione espressa dal blog Info-cooperazione, punto di riferimento per
gli operatori della cooperazione in Italia, che ha definito Mission un «reportage
compassionevole, il trionfo dell’aiuto assistenziale condito da una televendita
continuativa dell’agenzia Onu per i rifugiati» ma, complessivamente, «nei limiti
della decenza».

Un bilancio

Al di là dei giudizi sulle singole iniziative, ciò che
emerge da una loro analisi è una serie di domande: ottenuta l’attenzione di
milioni di persone, che cosa ne hanno fatto i promotori degli eventi? Quali
messaggi, quali informazioni hanno veicolato? Hanno effettivamente comunicato i
temi dello sviluppo e contribuito a cambiare la percezione del grande pubblico
su di essi? L’impressione è che se l’obiettivo era raccogliere fondi da mettere
poi nelle mani di esperti e tecnici della cooperazione o della risposta alle
emergenze, il bilancio è tutto sommato positivo. Ma se lo scopo era invece
creare consapevolezza nel pubblico, i grandi eventi hanno fallito miseramente.
Il continuo ricorso a termini, immagini e ricostruzioni emotivamente
coinvolgenti ma approssimative e semplicistiche spinge a dubitare che anche
solo uno dei fruitori di queste iniziative sia oggi davvero più informato.
Sarebbe stato necessario mettere in evidenza nel programma televisivo quali
sono gli interessi e i fattori economici, politici e geostrategici che
scatenano conflitti e causano l’esodo in massa di milioni di profughi.

«L’assenza di un’analisi di questo tipo (sulle cause, ndr.)
non ha affatto aiutato i telespettatori a capire come le guerre nei vari paesi
toccati dal reality show facciano guadagnare i commercianti di armi, chi
le produce, le banche che si prestano alle transazioni della compravendita di
armi e i paesi interessati a tener vivo questo business».

«Senza questa essenziale informazione, il programma Mission
ha sollecitato il pubblico a gesti di carità ma ha ridotto l’impegno a un
buonismo sterile che serve solo a superare il nostro senso di colpa. Non è
stato capace, invece, di invitare i telespettatori a un impegno di pace, a individuare
le cause e le complicità che protraggono questi conflitti». Così ha commentato
la Federazione della stampa missionaria italiana di cui MC fa parte.

Che fare?

Resta da capire la parte più importante: perché questa
scelta di comunicazione? Il sospetto è che questo genere di messaggi ed eventi
sia preferito, semplicemente, perché è il più rapido ed efficace per la
raccolta fondi. Esso infatti non richiede un grande lavoro di analisi dei
contesti, e nemmeno uno sforzo di traduzione di quelle analisi in un linguaggio
adatto ai non addetti ai lavori capace di descrivere, spiegare e coinvolgere
senza banalizzare.

La sfida non è quella di raggiungere milioni di persone.
La vera sfida è raccontare storie comprensibili. Coinvolgenti perché più simili
alle loro di quanto non si pensi, o perché riguardano problemi che oggi non
appartengono più a una parte sola del globo, ma a tutti, seppure in misura
diversa da un paese all’altro.

Vengono in mente provocazioni come quella del «meme»
recentemente apparso su Inteet, un’immagine di un panorama africano
accompagnato dalla scritta: «Ogni sessanta secondi, in Africa, è passato un
minuto», in evidente polemica con il modo in cui spesso vengono esposti i dati
sulla mortalità e sulle malattie nel sud del mondo (i vari «Ogni sessanta
secondi in Africa la malaria uccide un bambino» e simili). Oppure ancora lo
spassosissimo video realizzato dal Fondo per l’assistenza internazionale
degli studenti e accademici norvegesi
in cui un paffuto bambino africano
che fa da protagonista per uno spot dal titolo «Salviamo l’Africa!» consola una
giovane donna europea dalle lacrime facili e discute con il regista dello spot
che lo esorta a rispettare il copione. «Dobbiamo creare impegno costruito sulla
conoscenza, non sugli stereotipi», recita la didascalia del video.

Forse, a trent’anni dal Live Aid e considerando i
risultati fin qui ottenuti dalla spettacolarizzazione della comunicazione sullo
sviluppo, gli operatori della solidarietà internazionale, che in definitiva
sono quasi sempre gli attori a cui Vip, media e pubblico in generale  devono appoggiarsi per raggiungere le realtà
di crisi, dovrebbero concentrarsi su strumenti e messaggi più simili a questi
nel ripensare le loro strategie di comunicazione.

Chiara Giovetti

3 DOMANDE A:

Elias Gerovasi,
ideatore e curatore di Info-cooperazione,
il blog degli operatori della cooperazione.

Elias, Info-cooperazione è stato una bella novità degli ultimi anni
nel panorama dell’informazione in Italia, utile non solo per tenere d’occhio i
bandi ma anche per informarsi e partecipare al dibattito sulla cooperazione.
Come è nata l’idea del tuo blog e per quali interlocutori lo hai concepito?

L’idea del blog nasce da alcune esigenze di chi lavora
nella cooperazione, conosciute attraverso il confronto con colleghi che, come
me, operano nel settore per una Ong. Tenersi informati in tempo reale sulle
opportunità di finanziamento è infatti fondamentale per chi deve trovare
quotidianamente le risorse per i progetti. Eppure le informazioni vengono
spesso riservate a cerchie ristrette per interesse sia dei finanziatori che dei
possibili beneficiari. Questo in passato ha limitato molto la competizione tra
Ong e associazioni, e ha anche ristretto le opportunità di partenariato. Poi
c’era una questione di trasparenza che ci stava a cuore: si tratta quasi sempre
di risorse pubbliche, e quindi ci deve essere massima pubblicità e trasparenza.
Fino a pochi anni fa, e forse anche oggi, era difficilissimo sapere come
venissero spesi i soldi, quali fossero, per esempio, gli esiti dei bandi
pubblici. Con il blog abbiamo voluto dare una risposta a questi bisogni e
questo è stato fortemente gradito soprattutto dagli operatori e dai volontari
di Ong e associazioni che non hanno capacità di lobby presso i donatori e le
istituzioni. Certo, abbiamo anche reso la vita più difficile a qualcun altro:
mi viene in mente l’esempio di una Fondazione che normalmente riceveva una
trentina di proposte progettuali da finanziare ogni anno e se ne è viste
arrivare oltre 600 dopo la pubblicazione del bando su Info-cooperazione.

Col passare dei mesi ci siamo resi conto che la
limitazione d’informazioni non riguardava solo le opportunità finanziarie.
Qualche migliaio di operatori del settore, infatti, sentiva una mancanza di
rappresentanza e la necessità di uno spazio di discussione. La rete ha dato
questa opportunità con lo strumento banale e semplice di un blog. Tanti
colleghi hanno iniziato a contribuire mandando suggerimenti su temi da trattare
o articoli con opinioni sugli argomenti caldi che la cooperazione si trova ad
affrontare in un periodo come quello odierno definito ormai da tutti di «crisi
di identità». Il resto si è fatto grazie al tempo e all’interesse dei lettori
che non ci aspettavamo assolutamente potessero arrivare alle cifre attuali.
Tieni conto che il blog si fa nei ritagli di tempo e nel weekend, ed è basato
sul contributo volontario, in tutti i sensi. 

Live Aid, Live 8, star di Hollywood come testimonial; qui
da noi, Lorella Cuccarini a Goma nel 2006 con Trenta ore per la vita e,
più di recente, l’esperienza di Mission. Qual è il tuo bilancio su
questo ruolo, negli ultimi trent’anni, dei grandi eventi e dei grandi
personaggi per comunicare la solidarietà internazionale?

Purtroppo anche questa dinamica è già arrivata alla sua
esasperazione. I testimonial si trovano sui cataloghi delle agenzie di Pr (Public
relations
, ndr) e comunicazione. Trovare testimonial veri e impegnati come
ai tempi di Live Aid è oggi quasi impossibile. Non credo si debba
condannare il coinvolgimento di testimonial in sé. Quando è stato fatto in modo
genuino l’ho trovato anche utile e interessante.

Ma oggi non è più così, le Ong per garantirsi un impatto
forte in termini di visibilità e raccolta fondi si affidano al marketing
e ai comunicatori che replicano su questo settore logiche commerciali molto
raffinate incontrando gli interessi dello show business e dei personaggi
noti alla ricerca di una charity da aiutare. Nel settore ambientale gli
inglesi lo chiamano green-wash, quando un’azienda inquinante sostiene
attività «verdi» per ripulire la propria immagine. Qui in molti casi si tratta
di charity-wash (ripulire la propria immagine attraverso gesti di «carità»).

Purtroppo trattandosi di una simbiosi perfetta credo che
il fenomeno sia destinato a un’ulteriore esasperazione, tanto che alcuni Vip
faranno solo questo di mestiere e alcune Ong avranno più testimonial che
volontari.

Molti, fuori dal «recinto» degli addetti ai
lavori, trovano la solidarietà e lo sviluppo temi noiosi, o tristi, o troppo
impegnativi. Secondo te è un dato di fatto che si tratti di argomenti non
facilmente comunicabili? O siamo noi operatori della cooperazione che sbagliamo
strategia e, in questo caso, che cosa dovremmo cambiare?

Che si tratti di temi tristi e impegnativi non c’è
dubbio. Ma non è vero che non siano comunicabili. Credo che il «problema madre»
del nostro settore in fatto di comunicazione sia solo uno: pretendere di
sensibilizzare l’opinione pubblica e contemporaneamente di raccogliere fondi .
O meglio, in molti casi, sensibilizzare al solo fine di raccogliere fondi.

Hai fatto l’esempio di Mission, la trasmissione
di RaiUno che ritengo abbia rappresentato in pieno questo modello diventando
un’occasione persa. Il mondo dei rifugiati è stato raccontato in modo melenso,
pietista e superficiale al solo fine di veicolare una campagna di raccolta
fondi e di fare il charity-wash della Rai. Eppure in passato mi è
capitato di vedere film o documentari e sentire canzoni che mi hanno fortemente
sensibilizzato su diversi temi legati alla povertà e alla giustizia sociale, ma
non avevano uno scopo di raccolta fondi e credo abbiano raggiunto il loro
obiettivo, quello di aprire gli occhi dell’opinione pubblica su drammi e
ingiustizie del mondo. Ritengo che la sfida di comunicare al grande pubblico,
seppur difficile, sia possibile affrontarla e vincerla soprattutto se si sta
alla larga dal fund raising.

E poi non c’è solo la Tv, pensa ai milioni di email e
lettere che ogni mese le nostre Ong recapitano ad altrettanti italiani: anche
questa è comunicazione e potrebbe essere utilizzata per veicolare qualche
contenuto.

Se ti mando una lettera con una gigantografia di un
bambino denutrito morente accompagnata da un bollettino postale dicendoti che
solo tu potrai salvare quel bimbo, voglio sensibilizzarti sulla malnutrizione
infantile in Africa o semplicemente scucirti soldi raccontandoti una storia
semplice, parziale e volontariamente drammatizzata? Anche queste sono occasioni
perse e perpetuano una comunicazione errata della povertà e dello sviluppo
globale.

Ma prepariamoci al peggio, in futuro questo capiterà
anche con la politica con l’avvento della raccolta fondi dei partiti a seguito
della progressiva abolizione dei finanziamenti pubblici. Pensa ai partiti che
dovranno convincere i cittadini a donare e firmare il 2×1000 dell’Irpef nelle
dichiarazioni dei redditi, non voglio pensare a cosa manderanno nelle nostre
caselle postali!

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Francia. Il velo e gli altri simboli

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 17


Belgin Dogru, 11 anni, musulmana, viene esclusa dalla scuola per
il suo rifiuto di partecipare alle lezioni di ginnastica in cui è obbligatorio
togliere il velo. Dal suo caso nasce un forte dibattito che porta alla nota
legge francese sul divieto di esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici. I
numerosi ricorsi presentati dalla famiglia di Belgin vengono respinti. L’ultima
opzione è quella di rivolgersi alla Corte europea per i diritti umani che
vigila sulla libertà religiosa, la cui sentenza finale, emessa nel dicembre
2008, non è per nulla scontata.

Molti ricorderanno la questione del
velo islamico scoppiata anni addietro in Francia. In una città del Nord, un
giorno del 1989, due ragazze di origine marocchina si erano presentate nel loro
liceo con un foulard in testa. La cosa forse non avrebbe destato alcun problema
se il preside non avesse impedito loro di seguire le lezioni finché non se lo
fossero tolte. I mezzi di informazione fecero il resto e la notizia si diffuse
rapidamente un po’ in tutta Europa.

Una dozzina di anni dopo, altri casi
del genere hanno scatenato accese discussioni nel paese transalpino. Indossare
il velo si è trasformato da questione privata in fatto politico. Per molti
islamici, infatti, è diventato un simbolo di resistenza contro la cultura
occidentale. Sempre più frequentemente giovani figlie di immigrati maghrebini,
di nazionalità francese, hanno inteso affermare la loro appartenenza all’Islam
indossando un foulard che ne nascondesse la capigliatura.

Il caso di Belgin Dogru: a scuola senza velo

Il caso di Belgin Dogru, di cui si è
occupata la Cedu (la Corte europea dei diritti umani), è sorto in questo
contesto. Dogru, nata nel 1987 e residente a Flers, un centro di circa 16.000
abitanti della Bassa Normandia, al tempo dei fatti aveva 11 anni. Musulmana,
frequentava una scuola pubblica del paese. A partire dal gennaio 1999 ha
iniziato a presentarsi alle lezioni con i capelli coperti da un velo.
L’insegnante di educazione fisica l’ha ripetutamente richiamata, invitandola a
toglierselo perché quella tenuta era incompatibile con la pratica della sua
disciplina. La ragazza ha sempre rifiutato di obbedirgli ed è stata ogni volta
esclusa dalle lezioni. Il docente, alla fine, si è rivolto all’autorità
scolastica che, alcuni giorni dopo, ha escluso dalla scuola l’alunna per non
aver rispettato l’obbligo della frequenza.

Ricorsi respinti fino all’ultima opzione: la Cedu

Il ricorso dei genitori contro questa
decisione è stato respinto dalla commissione accademica d’appello e la ragazza
ha dovuto proseguire i suoi studi frequentando corsi per corrispondenza. Nel
frattempo, però, i genitori hanno presentato ricorso anche al tribunale
amministrativo di Caen e, dopo il rigetto di questo, alla corte d’appello di
Nantes, che lo ha respinto a sua volta. In entrambi i casi il tribunale ha
ritenuto che il comportamento di Belgin Dogru avesse creato un clima di
tensione all’interno dell’istituto e che, nonostante la ragazza avesse a suo
tempo proposto di sostituire il velo con una cuffia, l’insieme delle
circostanze avesse giustificato la sua esclusione definitiva dalla scuola. La
giovane, è stato affermato, ha oltrepassato i limiti del diritto di esprimere e
manifestare il suo credo religioso all’interno dell’istituto. Il Consiglio di
Stato, cui i genitori di Belgin hanno presentato alla fine ricorso, ha dato
loro definitivamente torto, dichiarandolo inammissibile.

A questo punto essi si sono rivolti
alla Cedu, ritenendo violata la propria libertà religiosa.

La questione, come appare chiaro,
riveste una notevole importanza. Chiama in causa infatti il valore della laicità
dello stato e quindi il rapporto tra questo e le confessioni religiose presenti
sul suo territorio. Tale questione, di primaria portata in Europa, assume un
valore tutto particolare in Francia.

Per imparare, non per fare proselitismo

Il paese transalpino, infatti, è
l’unico ad avere realizzato fin dal 1905 una piena separazione tra Chiesa e
stato. La questione del velo è stata presa come una minaccia contro tale
separazione e una negazione della laicità.

Di fronte all’estendersi delle
polemiche nel paese, e prima che il caso Dogru arrivasse alla Cedu, il
parlamento nel 2004 ha approvato una legge che bandisce i simboli religiosi
dalle scuole statali francesi. La decisione è stata presa a larghissima
maggioranza, perché hanno votato a favore sia la maggioranza (allora di
centrodestra) sia l’opposizione socialista. Il governo ha più volte
sottolineato che essa non mirava a colpire alcuna religione, ma intendeva
difendere, appunto, la laicità dello stato. «Si tratta di affermare con
chiarezza che la scuola pubblica è un luogo dove si va per imparare e non per
fare attività militante o proselitismo», ha proclamato il presidente
dell’Assemblea legislativa in occasione dell’approvazione della legge.

Dalla rivoluzione del 1789 al 1905 a oggi

Occorre tener presente che la
repubblica francese è stata costruita attorno al principio di laicità, derivato
da una lunga tradizione. È nato infatti dalla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789, in piena rivoluzione. In seguito è stato
richiamato nelle leggi di riforma della scuola del 1882 e del 1886, che hanno
istituito la scuola primaria obbligatoria, pubblica e, appunto, laica. Ma la
vera chiave di volta della laicità francese è stata, come accennato, la legge
del 9 dicembre 1905, che ha separato in modo netto la Chiesa e lo stato.
Nell’articolo 1 vi si afferma: «La repubblica assicura la libertà di coscienza.
Essa garantisce il libero esercizio del culto sotto le sole restrizioni di seguito
decretate nell’interesse dell’ordine pubblico». E nell’articolo 2 la
separazione è definita in modo preciso: «La repubblica – vi si legge – non
riconosce, né stipendia, né sovvenziona alcun culto».

Una legge, in sostanza, che ha
stabilito un vero e proprio «patto di laicità», da cui sono derivate e derivano
varie conseguenze sia per i servizi pubblici sia per i cittadini che ne
usufruiscono. Lo stato, da una parte, riconosce il pluralismo religioso e la
propria neutralità nei confronti dei culti. I cittadini, dall’altra, come
contropartita di tale «protezione» della loro libertà religiosa, devono
rispettare i luoghi pubblici condivisi da tutti. La laicità dello stato è stata
poi consacrata dall’articolo 1 della Costituzione del 4 ottobre 1958, che dispone:
«La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa
assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge di ogni cittadino senza distinzione
di origine, razza o religione. Essa rispetta ogni credo». Non c’è chi non veda
l’affinità di tale formulazione, fin nell’uso delle stesse espressioni, con
quella dell’articolo 3 della Costituzione italiana. In Italia, tuttavia, dagli
stessi principi non sono seguiti gli stessi comportamenti legislativi. Non c’è
mai stato, in particolare, un problema di uso del velo nelle scuole statali. Lo
stesso è accaduto nel resto d’Europa. Là dove la questione si è posta, come in
Germania, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Spagna, Svezia e Danimarca, è stata
risolta in modi diversi, ma senza particolari conflitti. Problemi invece si
sono avuti – e ci sono ancora – in Turchia, dopo l’avvento al governo di
Erdogan che ha rimesso in discussione quanto stabilito agli inizi del ’900 dal
regime laico di Ataturk, il primo a impedire alle donne di portare il velo
nelle istituzioni pubbliche.

Uno scontro ideologico

In Francia, invece, l’uso del velo ha
suscitato un vero scontro ideologico. Indossarlo ha assunto per i musulmani –
non per tutti, in verità: vi sono state infatti associazioni islamiche che
hanno appoggiato la legge – un significato preciso: rifiutare la laicità,
rifiutando la scuola pubblica, di seguire le lezioni di ginnastica, le lezioni
di biologia, le lezioni di musica, le lezioni di disegno e così via.

Le ragazze che vogliono indossare il
velo partono dal principio che la donna occidentale non è rispettata dall’uomo
e che loro stesse parteciperebbero a questa mancanza di rispetto se
accettassero appunto di non metterlo.

La polemica è cresciuta ancor più
dopo l’approvazione della legge. La maggioranza dei musulmani in Francia e
quelli all’estero, infatti, l’hanno intesa come un’aggressione e un rifiuto
dell’Islam, anche se la legge in realtà tratta dei simboli di ogni religione,
compresi il crocefisso e la kippah ebraica.

Si sono accese discussioni violente e
confuse. Per gli estremisti musulmani è stata l’occasione per designare la
Francia e l’Occidente come «nemici dell’Islam».

Insomma: il caso è diventato
l’emblema del confronto/scontro del modello francese di laicità con
l’integrazione dei musulmani negli spazi pubblici e, in primis, nella scuola.
Per molti cittadini francesi, l’aumento della presenza islamica minaccia i
valori dello stato, per cui occorre restaurare l’autorità repubblicana. La
scuola è diventata il terreno privilegiato di tale «risposta». La presenza
visibile in essa di segni religiosi è avvertita da molti come contraria alla
sua missione (di essere cioè uno spazio di neutralità e un luogo di risveglio
della coscienza critica), nonché una minaccia ai valori che deve insegnare, a
partire dall’uguaglianza tra uomini e donne.


Condizioni di coabitazione

Con il caso di Belgin Dogru la Cedu
si è dunque trovata a risolvere un problema giuridico, sconfinato però nel
campo politico e ideologico e gravato da implicazioni di grandissimo rilievo.
In ballo c’è la convivenza in Europa con una popolazione musulmana ormai
quantitativamente consistente. L’Islam costituisce la seconda religione del
vecchio continente. È importante rendersi conto di questo e ammettere che
l’Europa vive e continuerà a vivere con una parte della propria popolazione di
religione musulmana. Solo così si potranno definire sempre meglio l’ambito e le
condizioni di tale coabitazione.

La legge francese contro
l’ostentazione dei simboli religiosi nelle scuole, concepita con questo
spirito, è stata tuttavia raffazzonata e votata in un clima di forte tensione e
contrapposizione sociale. Così non si è riusciti a portare il confronto sui
problemi veri che si volevano affrontare: la laicità dello stato, appunto, e la
condizione della donna, la libertà della quale è tutelata e promossa
dall’ordinamento europeo. Questo secondo aspetto è a sua volta di primaria
importanza. Alcuni immigrati infatti vorrebbero che le loro donne, le loro
figlie e le loro sorelle vivessero nelle medesime condizioni dei loro
concittadini rimasti in patria, rifiutando i diritti di cui godono le donne
occidentali.

I rischi dei simboli

Di fronte alla Cedu il governo
francese ha ammesso che le restrizioni imposte alla giovane Dogru
nell’indossare il velo islamico all’interno della scuola costituivano una
limitazione del suo diritto di manifestare la propria religione. Tuttavia, ha
sostenuto, tale limitazione rispettava quanto previsto dall’articolo 9 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Essa infatti, oltre a rispondere a
necessità pratiche, come quella di dotarsi di un abbigliamento adatto
all’esercizio dell’educazione fisica a scuola, era necessaria per rispettare i
principi costituzionali di laicità e di uguaglianza tra i sessi.

Il governo tuttavia si è spinto più
in là, proprio per la forte concezione di laicità che viene sostenuta dalle
leggi francesi. Occorre anche tener conto – ha infatti osservato – delle
ripercussioni del comportamento di Belgin Dogru sugli altri alunni della sua
classe, che al tempo dei fatti avevano, come lei, undici anni, e valutare
l’impatto che un simbolo esteriore, quale il portare un velo, poteva avere
sulla libertà di coscienza e di religione di alunni in giovane età, facilmente
influenzabili. Si sarebbe potuto avere, in altri termini, un effetto di
proselitismo. Insomma, e questo è il senso della posizione del governo francese
nel dibattito di fronte alla Corte, lo stato, e le sue istituzioni come la
scuola, devono rimanere rigidamente neutrali in fatto di religione e dei suoi simboli.

La sentenza della Corte europea

La Corte, con la sentenza del 4
dicembre 2008 ha dato all’unanimità ragione al governo, condividendone le
ragioni. In più ha ricordato che la giovane Dogru e i suoi genitori, all’atto
dell’iscrizione alla scuola, avevano sottoscritto il regolamento interno
dell’istituto, impegnandosi così a rispettarlo. Esso vietava espressamente
l’uso di «simboli ostentatori che costituiscono in se stessi elemento di
proselitismo e di discriminazione». La giovane e i suoi genitori, dunque,
potevano ragionevolmente prevedere che il rifiuto di togliere il velo durante
il corso di educazione fisica e sportiva avrebbe potuto portare alla esclusione
dall’istituto per il mancato rispetto dell’obbligo di frequenza. In questo
caso, dunque, non è stata violata la Convenzione europea, e la restrizione alla
manifestazione della libertà religiosa, nei termini in cui è avvenuta, è stata
legittima, proprio perché ha avuto la finalità di preservare gli imperativi
della laicità negli spazi pubblici scolastici.

Al di là della sentenza, una questione aperta

La Francia, dove secondo le stime
ufficiali, su una popolazione di religione musulmana stimata tra i 4 e i 6
milioni, le donne che indossano il velo sono circa 2000, ha approvato nel 2011
un’altra legge che vieta l’uso del velo islamico in pubblico. Anche questa ha
suscitato la reazione della comunità islamica. La Cedu è stata nuovamente
interpellata da donne condannate in base alla nuova legge, perché ritengono che
violi la loro libertà religiosa. Entro quest’anno la Corte europea dovrebbe
esprimersi in merito. Ma al di là di questo rimane aperto il problema, che è
politico, culturale e sociale, del rapporto degli stati democratici europei con
le nuove religioni presenti oggi nel vecchio continente e, in particolare con
l’Islam. Quale sia la strada migliore per realizzare convivenza, integrazione,
dialogo, rispetto reciproco, non è certamente facile stabilirlo. L’Europa
dispone di un patrimonio preziosissimo di valori sociali, civili, liberali e
democratici, in base ai quali il problema di cui si è detto deve essere gestito
e risolto. Non si tratta di una questione solo «formale», né si può affrontarla
in termini ideologici o manichei. La laicità appartiene a tutti, «vecchi» e «nuovi»
europei, e permette a tutti di esercitare la libertà di religione. È
importante, tuttavia, rendere il più possibile omogenea, nei vari paesi, la sua
traduzione nella vita concreta delle istituzioni e della società. Quanto sarà
possibile, infatti, il perdurare di una situazione che vede il medesimo
principio di separazione tra stato, Chiesa e religioni affermato nell’Unione
europea, tradursi nelle istituzioni dei vari paesi in livelli diversi di
tolleranza nei confronti del crescente pluralismo della società contemporanea? È
una situazione in cui la Cedu ha un compito notevole da svolgere. Ma certo non
può risolverlo da sola.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Una plastica apparenza Allattamento e seno femminile (terza parte)

Nei paesi ricchi si sta diffondendo la chirurgia plastica per
recuperare l’aspetto fisico antecedente la gravidanza. Il mercato impone i suoi
diktat estetici, facendo passare l’idea che il non bello e il non giovane siano
errori da riparare. Correlato a questo fenomeno ce n’è un altro, anch’esso in
rapidissima crescita: quello del turismo medico. Così, mentre in troppi paesi
mancano medici e ospedali pubblici, in altri si profila una nuova vittoria
dell’«apparire» sull’«essere».

Anche i media ritenuti – a torto o a
ragione – più seri, sempre più spesso ci propongono immagini e servizi sulle
neomamme vip che – trascorso pochissimo tempo dal parto e dall’allattamento –
tornano in una forma fisica smagliante. Di solito vengono riportate le
dichiarazioni delle dirette interessate che dicono di passare ore e ore in
palestra e di seguire diete ferree. Non viene invece detto che molte di loro
fanno ricorso al cosiddetto Mommy
makeover («rifacimento della mamma»), una combinazione di
interventi chirurgici per rimediare ad alcuni difetti lasciati dal parto e
dall’allattamento.

Il
fenomeno del Mommy makeover è
nato negli Stati Uniti
, ma sta diffondendosi anche in Europa, Italia compresa.
Secondo un’indagine compiuta dall’American
Society of Plastic Surgeons su 1.000 neomamme il 62% si
sottoporrebbe volentieri a qualche intervento di chirurgia plastica per
recuperare l’aspetto fisico antecedente la gravidanza se i costi fossero meno
elevati. Tra gli interventi più richiesti figurano la mastoplastica additiva
(aumento del seno), la mastopessi (sollevamento del seno), la liposuzione
(rimozione del grasso in eccesso) unita all’addominoplastica (tensione della
parete addominale), e sempre più spesso la chirurgia estetica intima, la cui
richiesta è raddoppiata negli ultimi cinque anni. La pratica di quest’ultima si
è diffusa a tal punto che l’American College of
Obstetricians and Gynecologist è intervenuto indicando tali procedure
come raramente appropriate sul piano medico, e potenzialmente dannose per la
salute. Questo fenomeno rientra nella estrema diffusione, a livello mondiale,
della chirurgia plastica e della medicina estetica. Ovviamente si deve
riconoscere a questa branca della chirurgia il grande merito di permettere il
recupero estetico a persone che hanno subito gravi traumi o interventi
chirurgici distruttivi per curare tumori, o che sono state colpite da patologie
deturpanti. Tuttavia ormai ci troviamo di fronte sempre di più alla
medicalizzazione consumistica della salute, con il mercato globale che si pone
come difensore dei valori della bellezza e della giovinezza, e impone i suoi
diktat estetici. Viene fatta passare l’idea che il non bello, il non giovane ed
efficiente siano assimilabili al male, quindi da correggere. Ecco allora il
boom della elective surgery, cioè
dell’insieme degli interventi chirurgici non necessari in senso clinico, di cui
è soprattutto il paziente a sentire la necessità, e la sostituzione del
rapporto medico-malato con quello medico-persona sana. È presente in questo
fenomeno il rischio di sfruttamento del disagio psichico e sociale delle
persone più fragili, con scarso equilibrio interiore, che spesso trasferiscono
sul corpo un malessere di origine diversa. È stata infatti osservata un’elevata
rilevanza statistica di disordini mentali fra i candidati alla chirurgia
estetica, colpiti spesso da dismorfofobia corporea: malattia psichiatrica
consistente in una sensazione soggettiva di deformità fisica. Questa patologia,
secondo uno studio condotto da Hodgkinson nel 2005, viene riscontrata nel 20%
delle persone che si rivolgono a un chirurgo estetico e si manifesta con una
vera e propria dipendenza da chirurgia plastica. Secondo un altro studio
condotto da A. Napoleon su un gruppo di pazienti della Carolina del Sud,
ricoverati per un intervento di chirurgia plastica, il 25% di loro soffriva di
disturbo narcisistico, il 12% di disturbo dipendente, il 9,75% di disturbo
istrionico, il 9% di disturbo borderline
della personalità, il 4% di disturbo ossessivo-compulsivo, il 3% di altri
disturbi della personalità (antisociale, paranoide, schizotipico, ecc.). Solo
il 29% non presentava alcun disturbo della personalità. Secondo il DSM-IV (Diagnostic
and Statistical Manual of Mental Disorders), il disturbo narcisistico
di personalità si presenta con un quadro di grandiosità, mancanza di empatia,
richiesta di ammirazione, fantasie illimitate di successo, potere, bellezza e
con un comportamento arrogante e superbo. Tra le maggiori preoccupazioni di
questi pazienti ci sono i difetti legati all’avanzare dell’età e questo li
porta spesso a richiedere interventi di lifting.

Il
disturbo dipendente di personalità si presenta con una eccessiva necessità di
essere accuditi, con un comportamento sottomesso e dipendente, timore della
separazione, percezione di sé stessi come incapaci di realizzare qualcosa senza
l’aiuto degli altri. Pazienti di questo tipo ricorrono più frequentemente di
altri alla mastoplastica additiva.

Nel
disturbo istrionico è presente emotività eccessiva con ricerca di attenzione,
comportamenti seducenti, teatralità, autodrammatizzazione ed espressione
esagerata delle emozioni. Questi pazienti richiedono interventi di
mastoplastica additiva, di ingrossamento delle labbra e rimodellamento degli
occhi per allontanare la possibilità di un rifiuto.

Il disturbo borderline della personalità è
caratterizzato da instabilità delle relazioni interpersonali e dell’umore,
dall’alternanza tra gli estremi dell’idealizzazione e della svalutazione, da
un’immagine di sé perennemente instabile, da rabbia immotivata e ricorrenti
minacce, da comportamenti automutilanti. Questi pazienti separano le parti del
proprio corpo in buone e cattive, attribuendo al chirurgo il compito di
rimuovere queste ultime. Il disturbo ossessivo-compulsivo si presenta con una
eccessiva preoccupazione per l’ordine, il perfezionismo, il controllo mentale e
interpersonale, con un’attenzione estrema ai dettagli, alle regole, agli
schemi, e un’organizzazione così elevata da mettere quasi in secondo piano il
fine delle proprie azioni. Inoltre sono presenti esagerata coscienziosità,
scrupolosità e inflessibilità in tema di moralità, etica e valori. Questi
pazienti concentrano le loro richieste di interventi estetici su labbra, seno e
occhi.

Sulla
base dei dati scientifici è possibile affermare che tra i pazienti della
chirurgia estetica, quelli con qualche disturbo della personalità sono compresi
tra il 30% e il 70%. Questi dati dimostrano la necessità di una stretta
collaborazione tra chirurghi estetici e psicologi o psicoterapeuti.

La chirurgia estetica ha dimostrato di avere
effetti positivi sull’autostima dei pazienti ansiosi, mentre è risultata
inefficace nel caso dei pazienti depressi. Ed è addirittura stato riscontrato
un aumento del rischio di suicidio, soprattutto tra donne che richiedono la
mastoplastica additiva (rischio 2 o 3 volte maggiore della norma). Oltre a
questo è stato rilevato un maggior numero di casi di cancro del polmone
rispetto alla norma.

Secondo
uno studio di Koot, Peters e altri, apparso sul British
Medical Joual, che valutava il tasso di mortalità nelle donne
svedesi operate di mastoplastica additiva tra il 1965 e il 1993, le donne che
scelgono questo tipo d’intervento sembrerebbero differire dalla popolazione
generale, o dalle donne che si sottopongono ad altri interventi estetici, per
alcune caratteristiche quali lo stile di vita, l’uso o l’abuso di alcornol, il
fumo e lo stato civile, elementi che potrebbero influire sia sul rischio di
suicidio che sul cancro polmonare.

Accettare
di operare soggetti con qualche disturbo della personalità è rischioso per i
chirurghi, perché, a prescindere dal risultato ottenuto, l’intervento può
generare insoddisfazione nel paziente che non ha una percezione corretta del
proprio aspetto fisico. Non sono pochi i casi di azioni legali contro i chirurghi
che hanno effettuato gli interventi. Secondo i dati delle compagnie di
assicurazione, le richieste di risarcimento nei confronti dei chirurghi
estetici, con scarsa o nulla motivazione relativa all’esito dell’opeazione
chirurgica eseguita, si aggirano intorno al 30% degli interventi, un dato in
linea con quello relativo alla porzione di pazienti emotivi. Considerando che
in Italia, a eccezione della mastoplastica riduttiva nei casi in cui l’eccesso
di seno genera gravi difetti posturali, nessuno dei più diffusi interventi
chirurgici estetici è coperto dal sistema sanitario nazionale, se i pazienti
problematici venissero rifiutati dai chirurghi, il fatturato della chirurgia
estetica si ridurrebbe notevolmente. Si calcola che ci sarebbero mancate
entrate comprese tra i 215 ed i 502 milioni di euro all’anno solo per
interventi di addominoplastica, liposuzione e mastoplastica additiva e
riduttiva.

Secondo il più recente rapporto della «Società
internazionale di chirurgia plastica estetica» (Isaps), i paesi in cui viene
realizzato il più alto numero d’interventi di chirurgia estetica all’anno sono:
Stati Uniti (3,31 milioni), Brasile (2,52 milioni), Cina (1,27 milioni),
Giappone (1,18 milioni) e India (1,15 milioni). Tuttavia, se il numero
d’interventi viene calcolato non come valore assoluto, ma in rapporto alla
popolazione, tra i primi quattro paesi troviamo la Corea del Sud, la Grecia,
l’Italia ed il Brasile, mentre Cina ed India finiscono nelle ultime posizioni.
Gli interventi chirurgici in Asia restano i più economici in assoluto. Per una
mastoplastica additiva nel 2011 si spendevano 3.600 dollari negli Stati Uniti,
2.900 in Brasile, 2.800 in Giappone, 2.660 in Cina e 2.400 in India. Un lifting
al viso costava 3.690 dollari a New Delhi, 4.000 a Pechino, 4.700 a Brasilia e
6.450 a Washington. I paesi asiatici detengono il record delle rinoplastiche.
Tutto questo ha generato una forte espansione del turismo medico, favorito
anche dai voli low cost. A partire dal 2008,
gli incassi dei chirurghi estetici italiani hanno subito una flessione legata
non solo alla crisi economica attuale, ma anche alla tendenza sempre maggiore
degli italiani, come anche di altri pazienti europei e di quelli statunitensi,
di recarsi all’estero per sottoporsi agli interventi chirurgici più svariati,
tra cui quelli di tipo estetico e odontorniatrico. I paesi più gettonati per il
turismo medico sono Tunisia, Slovenia, Ucraina, Ungheria, Brasile, Polonia,
Romania, Argentina, Indonesia, Colombia e Repubblica Ceca. In questi paesi il
costo degli interventi chirurgici è molto ridotto, rispetto a quello di casa
nostra e si può arrivare a risparmiare fino a 2.500 euro. Spesso le cliniche
del posto contattano le agenzie di viaggio dei paesi europei più ricchi e degli
Stati Uniti per organizzare pacchetti-vacanza all
inclusive, che prevedono il volo, il soggiorno in albergo (solitamente di una
settimana) e l’intervento chirurgico. Ad esempio, nel 2011 un pacchetto
comprendente una mastoplastica additiva effettuata in Tunisia, il volo e il
soggiorno per una settimana costava 2.600 euro. Attualmente in Italia un
intervento del genere ha un costo compreso tra i 4.500 e i 6.500 euro. La
scelta di recarsi all’estero per subire interventi chirurgici estetici,
tuttavia non è sempre sicura perché, sebbene le cliniche del settore
pubblicizzino i loro interventi come privi di complicazioni, nella realtà
queste possono verificarsi, come in qualsiasi operazione chirurgica. In tal
caso è necessario un pronto intervento, che diventa difficile effettuare, se la
clinica di riferimento è all’estero e il paziente è già rientrato nel proprio
paese. E intervenire con ritardo può pregiudicare l’esito dell’operazione. Non
bisogna dimenticare che in chirurgia estetica il 50% di un intervento è
rappresentato dal post-operatorio, in cui le medicazioni sono essenziali. Le
corse al ribasso nella medicina e chirurgia estetica possono essere molto
pericolose, perché nelle offerte non si risparmia sulla parcella del medico che
esegue l’intervento, ma sulla struttura e sulle attrezzature utilizzate. Può
capitare ad esempio che certi interventi, che necessiterebbero della sala
operatoria, vengano eseguiti in ambulatori non chirurgici. Attualmente
purtroppo tre interventi su dieci in chirurgia estetica sono eseguiti per
rimediare a interventi estetici precedenti (patologia secondaria alla chirurgia
estetica).

Negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale
anche il numero di persone che acquistano i cosiddetti coupon di offerte
per interventi di chirurgia estetica a prezzi scontati, i quali si trovano
solitamente sui siti di acquisti on line. Oltre a questo tipo di offerte, sul
web si trovano sempre più facilmente fiale di filler
(sostanze usate come riempitivo) e di tossina botulinica a prezzi stracciati e
del tutto prive di controlli. Queste sostanze dovrebbero sempre essere
controllate e inoculate da uno specialista nel settore, invece chi le acquista
on line ricorre spesso al fai da te con gravi rischi sia per la propria salute,
sia per il risultato estetico.

L’American
Society for Aestetich Plastic Surgery ha rilevato un aumento dal
2002 a oggi del 12% del ricorso alla chirurgia estetica e del 22% dell’uso
della medicina estetica. Tra gli interventi in aumento ci sono la mastoplastica
additiva (+17%), la blefaroplastica, cioè il lifting delle palpebre (+17%), la
rinoplastica o rimodellamento del naso (+10%) e la mastoplastica riduttiva
(+17%). Secondo i dati Eurispes, in Italia sono aumentati gli interventi
di blefaroplastica (+22%), di mastoplastica additiva (+42%), anche se è molto
diffusa pure quella riduttiva, e del 31% i trattamenti di medicina estetica, i
più diffusi dei quali sono a base di acido ialuronico, e il lipofilling
(trapianto autologo del proprio grasso). 
Nel mondo l’intervento più richiesto è la liposuzione (19,9% di tutti
gli interventi chirurgici estetici), seguito dalla mastoplastica additiva
(18,9%) e dalla blefaroplastica (11%). Mentre, per quanto riguarda la medicina
estetica, al primo posto c’è l’iniezione di tossina botulinica (38,1%), seguita
dall’acido ialuronico (23,2%) e dalla epilazione con laser (10,9%).

L’età
delle giovani, che si sottopongono alla chirurgia estetica si abbassa
progressivamente, tanto che in Italia, nel giugno 2012, la Commissione affari
sociali del Senato ha approvato un disegno di legge che vieta gli interventi al
seno per motivi estetici su minorenni, e multa i chirurghi che non rispettano
la legge con una sanzione fino a 20.000 euro e la sospensione dalla professione
per 3 mesi.

In
tempi di crisi economica, secondo la «Società italiana di chirurgia plastica
estetica», nel 2011 in Italia, nonostante l’aumento di alcune tipologie
d’interventi chirurgici estetici di cui si è detto, c’è stato un calo
complessivo del 40% rispetto ai due anni precedenti. Sono invece aumentati i
meno costosi trattamenti di medicina estetica, oltre alle richieste di
finanziamenti per rifarsi il seno o il naso da parte di persone con scarsa
disponibilità economica che probabilmente ripongono grandi attese nel loro
aspetto esteriore.

Se il
settore della chirurgia estetica tradizionale pare avere subito una contrazione
legata alla crisi economica, non conosce crisi il settore degli interventi
chirurgici intimi, tra cui la ricostruzione dell’imene per il recupero della
verginità (1.200-2.500 euro). Questo tipo di chirurgia plastica è in costante
aumento.

Mentre nel Sud del mondo mancano medici e medicine
per curare malattie che falcidiano intere popolazioni, nel Nord del mondo si
spendono fiumi di denaro per ricostruirsi. Sorge spontanea la domanda se sia
così dignitoso apparire piuttosto che essere. Come se la vita fosse solo una
recita.

Rosanna Novara Topino
 
Chirurgia estetica / 1


La rimonta degli uomini

A ricorrere agli interventi di chirurgia plastica sono
sempre più spesso anche gli uomini. È in aumento la richiesta per interventi
contro la ginecomastia (l’eccessivo sviluppo delle mammelle del maschio, ndr),
che è spesso causata da fattori estei alteranti l’equilibrio ormonale, come i
farmaci antidepressivi o a base di digitale, la cannabis, le sostanze dopanti e
certi integratori alimentari, o che è legata a problemi di sovrappeso e di
obesità. In Italia sono inoltre richiesti anche dagli uomini interventi di
chirurgia estetica intima. Il 25% delle operazioni richieste è collegato a un
cambiamento del proprio stato civile, che si tratti di matrimonio, separazione
o divorzio. Inoltre il settore della medicina e della chirurgia estetiche è
molto soggetto a mode e tendenze passeggere capaci di condizionare l’aspetto
fisico dei pazienti, che spesso chiedono interventi per assomigliare a qualche
personaggio pubblico. Il problema di questo tipo di pazienti è che non vogliono
solo assomigliare al loro idolo, ma ne vorrebbero lo stesso stile di vita,
desiderio quasi impossibile da realizzarsi, da cui la conseguente frustrazione.

 
Chirurgia estetica / 2


Occhi a mandorla?

Già da alcuni anni è aumentata in tutto il mondo la
chirurgia estetica «etnica» per modificare i tratti esteriori distintivi e
caratterizzanti l’etnia di origine. Queste esigenze estetiche, che si rifanno
sempre al modello occidentale, non sono sentite solo dai ceti sociali più
elevati, ma anche da quelli meno abbienti, in particolare da persone che
intendono inserirsi in un paese diverso da quello di origine. Gli interventi più
richiesti sono la cantoplastica (rimodellamento degli occhi a mandorla), la
rinoplastica (la tecnica detta slump implant mira a rimpicciolire la base del
naso ed affinae la punta), la cheiloplastica (riduzione del volume delle
labbra) e le liposuzioni per il rimodellamento corporeo. Questi soggetti
purtroppo dopo l’intervento rischiano di ritrovarsi in un limbo culturale: non
riescono a inserirsi appieno nel nuovo paese e nel contempo vengono rifiutati
dalle persone della loro etnia, a cui sembrano non volere più appartenere.

Rosanna Novara Topino




Pillole «Allamano» 2: Elevatevi sopra le idee ristrette dell’ambiente


Stacco dalla parete e riprendo in mano, per sfogliarlo con calma, il calendario che quest’anno la rivista MC ha dedicato al beato Allamano. Riguardo le immagini del volto del Fondatore, vecchie fotografie che i moderni strumenti della tecnica hanno saputo ripulire dalle inevitabili tracce del tempo. Vi è ritratto Giuseppe Allamano da giovane, coi chierici, con i primi missionari partenti per l’Africa, poi uomo maturo e, infine, anziano. I dodici mesi dell’anno ripercorrono la storia di una vita sacerdotale. Io la contemplo filtrandola attraverso i suoi sguardi, tentando di mettere a fuoco il volto buono e paterno che tante testimonianze di chi l’ha conosciuto riportano con insistente piacere.

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A ben guardare, però, scorgo nelle immagini anche il piglio risoluto, deciso, di colui che è buono con sincerità, non per debolezza o convenienza. Il volto del Beato Allamano non ha nulla di debole e comunica serenità e determinazione. Non so se altri lettori siano stati attratti, sfogliando il calendario, da questa caratteristica del suo viso. Forse sono io che ci ricamo sopra eccessivamente, lasciandomi guidare dalla mia sensibilità. Può darsi, non lo posso escludere. Mi sembra in ogni caso che lo sguardo del fondatore lasci intravedere qualcosa di lui, del suo modo di essere e di intendere la vita. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, recita un antico adagio.

La pillola di questo mese non fa riferimento a una frase di Giuseppe Allamano, semmai a un atteggiamento da lui tenuto nei confronti della vita e della realtà nelle quali si è trovato a operare. A una certa fragilità fisica, cosa che gli impedì a suo tempo di essere missionario sul campo, e alle difficoltà di ogni tipo incontrate nel suo lungo ministero sacerdotale, l’Allamano opponeva una volontà di ferro, alimentata da una fiducia incrollabile nella provvidenza divina e nella presenza consolatrice e matea della Madonna. I suoi occhi trasmettono tenerezza, ma allo stesso tempo acutezza e determinazione. Se le fotografie che lo ritraggono, nel loro complesso ne collocano la figura in un tempo e in un contesto preciso, lo sguardo sembra bucare le immagini e proiettarsi al di là di esse, verso spazi che trascendono gli ambienti del torinese da cui, salvo per pochi ed eccezionali viaggi, l’Allamano non si è mai mosso. I suoi sono occhi che viaggiano, perché seguono le rotte di un cuore costantemente orientato verso luoghi da consolare, lungo tragitti mai scontati. Giuseppe Allamano ha lo sguardo profondo, vive la sua fede e il suo ministero in un’obbedienza matura e responsabile, rispettando la tradizione e l’autorità in un modo dinamico e creativo, senza mai sottomettersi alla legge del «si è sempre fatto così». Sono tantissimi gli episodi in cui prende posizione e con «delicata fermezza» va avanti per la sua strada, pronto, se lo vede necessario, a dare uno scossone allo status quo. Oggi, questo sguardo si rivolge a noi, chiamati a vivere la missione in Europa. Mi sembra di scorgere la presenza del volto dell’Allamano mentre leggo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, celebrata il 19 gennaio scorso. «La Chiesa, rispondendo al mandato di Cristo “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, è chiamata ad essere il Popolo di Dio che abbraccia tutti i popoli, e porta a tutti i popoli l’Annuncio del Vangelo, poiché nel volto di ogni persona è impresso il volto di Cristo». Che bella immagine ampia e inclusiva della missione. Missione che oggi ci spinge non soltanto ad andare, ma anche a ricevere e a essere accoglienti. Il volto di Giuseppe Allamano riflette il volto di Cristo e il suo sguardo tradisce il desiderio di farlo emergere con forza dal volto di chi incontra, vicino o lontano… anche del migrante o del rifugiato. Mi sembra di poter dire che papa Francesco sarebbe piaciuto al nostro fondatore… e viceversa. Se si fossero incontrati si sarebbero probabilmente scambiati due battute in piemontese, giusto per fare conoscenza, e poi avrebbero cercato di capire come far brillare il volto di Cristo impresso in ogni persona, partendo dalla realtà concreta in cui essa vive, ma senza lasciarsi imbrigliare. I primi mesi del pontificato di Francesco sono una testimonianza viva della bontà della pillola allamaniana di questo mese, prescritta con continuità in quasi tutti i suoi interventi, nel tentativo di plasmare una cristianità matura e responsabile, un popolo di Dio che cammina in uscita. Scrive papa Francesco nella sua recente esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano […]. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Francesco, EG n. 24). Prendere l’iniziativa senza paura può voler dire, a volte, scrollarsi di dosso l’opinione dominante. La notizia, per essere tale, è novità, e la buona notizia non sfugge a questa regola. Ecco perché, rivolgendosi ai giovani universitari la prima domenica di Avvento, papa Francesco ha ricordato loro l’impegno di essere testimoni coraggiosi di una diversa narrativa del mondo: «Se non vi lascerete condizionare dall’opinione dominante, ma rimarrete fedeli ai principi etici e religiosi cristiani, troverete il coraggio di andare anche contro corrente». Concetto chiaro, questo, anche nel pensiero spirituale di Giuseppe Allamano. L’idea dominante diventa un’idea ristretta, anche quando si certifica come figlia della globalizzazione. È il grande paradosso in cui l’umanità si dibatte e che trova i suoi accenti più acuti nella nostra cara Europa. In un mondo in cui sembra valere tutto e il contrario di tutto, in cui a livello di valori si sopravvive bene grazie al più smaccato relativismo, in realtà campa bene solo e soltanto chi si adegua a una cultura che privilegia ciò che è esteriore, facilmente e immediatamente conseguibile, veloce, apparente, provvisorio. Le logiche che, al contrario, propongono narrative differenti, impostate sul locale, sul partecipativo, sul lento ma sicuro procedere, sulla libertà di poter scegliere, sul discernimento comunitario vengono ostacolate, cassate, a volte irrise e perseguitate. La missione è ciò che aiuta il cristiano ad alzare la testa, a elevarsi sopra le mentalità ristrette e a esprimere qualcosa di inedito. La missione nasce dalla novità del Vangelo e lo porta con sé per costruire un mondo nuovo, migliore. La missione non sopporta idee dominanti perché vive sotto il dominio dello Spirito di Dio. La missione offre volti nuovi alla nostra teologia, che cessa di ristagnare quando si concede al confronto con l’altro. La missione rinnova e rafforza la fede, attraverso il dono della propria esperienza di Cristo a chi ancora non ne ha mai sentito parlare o l’ha completamente smarrito dai propri orizzonti. La missione vivifica la nostra spiritualità, perché la mette a confronto con la realtà, per non farla viaggiare a quote siderali mentre la gente cammina a lato delle strade. Quale missione, allora, in questa Europa che cambia? Quale progetto missionario per orientare la nostra azione? Quale pista da percorrere ci attende? Il dove, il come e il quando lo diranno il contesto e il discernimento che ciascuno farà alla luce della Parola di Dio e del proprio carisma. Questo discernimento sfida particolarmente proprio noi missionari, chiamati a trovare un modo significativo e attuale di essere autentici religiosi e testimoni di evangelizzazione. Ci troviamo di fronte a domande scomode che ci obbligano a una riflessione che potrà forse chiederci precise scelte di vita. Quali sono le idee ristrette che oggi condizionano i nostri ambienti e costringono noi, le nostre comunità, le nostre famiglie a vivere «imbrigliati», incapaci di essere persone «in uscita»? Quali sono queste idee ristrette che impediscono di incontrarsi con gli altri con un messaggio vero, che dica qualcosa, che abbia un minimo di senso, che susciti qualche domanda e, magari, apra uno spiraglio verso il futuro e la salvezza promessa? Cosa dobbiamo fare per elevarci al di sopra di esse, per propoe di alternative e liberanti? L’uomo che riuscì a fondare due Istituti missionari, pur restando rettore del Santuario a lui affidato e senza mai mettere piede in missione, avrebbe senz’altro qualcosa da dire. Merita ancora ritornare al calendario e provare a vedere se riusciamo a farci ispirare ancora un po’ dallo sguardo di Giuseppe Allamano. Se riuscissimo poi a vedere dove punta, noteremmo come quegli occhi dimorino a lungo sul quadro della Madonna Consolata e sul tabernacolo. Non ci conviene precorrere i tempi; queste sono altre pillole che Giuseppe Allamano ci consiglierà di prendere e, ben lo sappiamo, ogni cura deve rispettare la giusta posologia.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole




Edith Stein

Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, è
una delle figure più straordinarie, affascinanti e complesse del ‘900, sia per
la traccia indelebile che, nel solco di Edmund Husserl, ha lasciato nella
storia della filosofia, sia per la sua straordinaria avventura umana e
spirituale, che la portò dall’ateismo alla conversione radicale al
cattolicesimo e alla scelta vocazionale del Carmelo, alla conclusione della sua
esistenza nelle camere a gas di Auschwitz. Nel 1999 Giovanni Paolo II la
dichiarò compatrona d’Europa, insieme alle sante Caterina da Siena e Brigida di
Svezia.


Di fronte a una testimone così
autentica sono un po’ in difficoltà. Innanzitutto ti devo chiamare Edith o con
il nome da carmelitana, Teresa Benedetta?

Rimanendo
in ambito familiare preferisco Edith, anche perché Teresa Benedetta della Croce
è un nome molto impegnativo che suggella un cammino di ricerca della verità che
caratterizza tutta la mia vita.

Edith, dove sei nata? Da che
famiglia provieni? Com’è stata la tua infanzia?

Sono
nata il 12 ottobre 1891 a Breslavia, città della Germania nella regione della
Slesia, ultima di 11 figli di una famiglia della borghesia ebraica cittadina.
Sono nata proprio il giorno di Yom Kippur, la festa ebraica più
importante.

Mio
papà, che aveva un’impresa per il commercio del legname, purtroppo morì quando
avevo solo due anni; mia madre, rimasta sola, donna molto religiosa, caparbia e
tenace, si rimboccò le maniche e riuscì ad accudire la famiglia e a portare
avanti l’azienda. In questo suo spendersi in favore degli obblighi familiari e
delle necessità dell’impresa, non trovò il tempo necessario per infondere a noi
figli una fede vitale.

E così, fosti travolta dagli
eventi familiari e da una prospettiva di vita in cui Dio era assente?

Non
solo smarrii ogni riferimento a Dio, ma durante la mia adolescenza smisi, in
piena coscienza e con libera scelta, di cercare ogni riferimento al
trascendente, al divino, al mistero, quindi cessai di pregare.

E con la scuola come andò?

Bene,
trascorsi i miei anni di gioventù studiando senza fatica; conseguii
brillantemente la maturità, studiai assiduamente germanistica e storia, ma ciò
che mi attirava di più era la filosofia. Per questo, nel 1913 mi recai a Göttingen,
in Sassonia, per frequentare le lezioni universitarie di Husserl, il più
illustre dei filosofi tedeschi del tempo, e ne rimasi letteralmente
conquistata, conseguendo la laurea in filosofia con lui, divenni sua discepola
e sua assistente alla cattedra di filosofia, entrai a far parte inoltre dell’«Associazione
prussiana per il diritto femminile al voto».

Eri una femminista «ante litteram»!

Fatte
le debite proporzioni sì, anche se l’insegnamento di Edmund Husserl aveva il
sopravvento un po’ su tutto il mio modo di pensare.

Ma cos’è che aveva Husserl di
tanto affascinante?

Egli
attirava il pubblico illustrando un nuovo concetto di verità: l’esistenza del
mondo – secondo Husserl – veniva percepita non solo in maniera kantiana, ovvero
quello che noi chiamiamo percezione soggettiva, ma la sua filosofia portava a
una visione molto concreta della vita e della storia, definita come un «ritorno
all’oggettivismo». La conseguenza indiretta del suo modo di intendere
l’esistenza umana fu che molti studenti ritornarono alla (o scoprirono la) fede
cristiana.

Se non erro, gli anni in cui
frequentavi i corsi di Husserl coincisero con l’inizio della Prima Guerra
Mondiale.

È
vero, in quel periodo dedicai molto tempo allo studio universitario, ma lo
scoppio della guerra mi spinse a frequentare un corso di infermieristica e a
prestare servizio in un ospedale militare. Nel 1916 seguii Husserl a Friburgo,
dove conseguii la laurea con una tesi Sul problema dell’empatia,
premiata summa cum laude. Ma di fronte al dramma della guerra, a una
tragedia che toccava tanti uomini e donne, tante famiglie e tanti popoli,
cominciai a leggere per trovare il senso di tutto quello che avveniva nel mio
paese e sullo scenario europeo.

Ritornasti ancora a Breslavia
nella tua città?

Sì,
e mi misi a scrivere saggi di discipline umanistiche e a leggere
disordinatamente tutto quanto mi capitava sotto mano, che avesse in qualche modo
attinenza con la filosofia. Lessi Kierkegaard, Newmann, Ignazio di Loyola…
finché una sera in casa di amici trovai l’autobiografia di santa Teresa
d’Avila, la lessi in una notte, quando richiusi il libro dissi a me stessa: «Questa
è la verità». Qualche anno più tardi, il 1° gennaio 1922, ricevetti il
battesimo e qualche settimana dopo lo comunicai a mia madre. Mi recai a
Breslavia e non appena entrai in casa le dissi: «Mamma, mi sono convertita alla
fede cattolica». Con queste parole mi accorsi che le davo un dispiacere, ma
subito dopo ci abbracciammo piangendo lungamente.

Cosa provavi dopo questo passo,
vivendo una condizione di vita praticamente nuova.

Mano
a mano che Dio si era impossessato del mio cuore, sentivo crescere dentro di me
una forza che mi spingeva a uscire da me stessa per dedicarmi sempre più agli
altri. Un impegno questo che cercavo di svolgere pienamente in ambito
accademico.

Intanto sulla Germania calava una
luce sinistra: l’ideologia nazista che proprio in quegli anni prendeva il potere.

Avvertii
subito l’odio che i seguaci di Hitler nutrivano verso gli ebrei, e l’incessante
ripetere che la razza ariana doveva liberarsi dai corpi estranei della società
tedesca identificati soprattutto in coloro che erano di religione ebraica, mi
fece capire più che mai che dovevo rendere testimonianza non solo della mia
fede, ma anche del popolo a cui appartenevo.

Subisti conseguenze in questo
senso?

Mi
fu tolta la facoltà di insegnamento in tutte le scuole della Germania; dentro
di me avevo preso la decisione di farmi carmelitana. Andai a casa a salutare i
miei e ancora una volta l’incontro con mia mamma fu struggente e pieno di
sofferenza, in quanto lei, donna dell’antico popolo d’Israele, vedeva la figlia
sua entrare a far parte della Chiesa cattolica, una cosa che per quanto si
sforzasse di capire non gli riusciva di intendere pienamente.

Come fu il tuo ingresso tra le
carmelitane.

Il
14 ottobre 1933 entrai nel carmelo di Colonia e il 14 aprile dell’anno successivo
ci fu la cerimonia della mia vestizione. Da quel giorno la mia nuova vita fu
segnata da un nuovo nome: suor Teresa Benedetta della Croce. Il 21 aprile del
1935 presi i voti temporanei. Nel settembre del 1936 mia madre morì e avvertii
chiaramente che l’avevo al mio fianco come fedele assistente per giungere alla
meta, il cui traguardo lei aveva già superato. Il 21 aprile 1938 feci la mia
professione perpetua con voti solenni; per l’occasione feci stampare
sull’immaginetta distribuita ai presenti le parole di san Giovanni della Croce:
«La mia unica professione d’ora in poi sarà l’amore».

Un programma di vita impegnativo
di fronte all’odio contro gli ebrei che divampava in Germania e in gran parte
d’Europa, alimentato dalla propaganda nazista.

Sì!
Effettivamente i nazisti fecero di tutto per annientare il popolo di Israele,
bruciarono sinagoghe, rinchiusero gli ebrei nei ghetti e sparsero terrore fra
la mia gente. Per questo i superiori decisero che non potevo più stare in
Germania: la notte di capodanno del 1938 fui portata nel monastero delle
carmelitane di Echt, in Olanda. Lì non si respirava la tensione che c’era in
Germania, ma quando l’Olanda venne invasa dalle truppe naziste si ripresentò il
volto truce e demoniaco della svastica. Presi così coscienza che dovevo
compiere fino in fondo la volontà di Dio con una «Scientia crucis» (la
scienza della croce) che aveva caratterizzato il mio nome dal momento
dell’entrata nel Carmelo. Dal profondo del cuore pronunciavo incessantemente: «Ave,
Crux, spes unica
» (ti saluto, croce, nostra unica speranza).

A Echt ti raggiunse tua sorella
Rosa che, seguendo le tue orme, si era convertita al Cattolicesimo ed era
diventata Carmelitana.

Sì!
Ma fummo scovate dai nazisti, i quali irruppero il 2 agosto 1942 nel nostro
monastero e ci avviarono al campo di raccolta di Westerbork, da dove il 7
agosto fummo messe sul treno insieme a migliaia di altri deportati destinati
alle camere a gas di Auschwitz.

E ad Auschwitz fosti inghiottita
dall’olocausto che si compiva sul popolo d’Israele.

Giunta
ad Auschwitz mi prodigai per tutte le persone del mio popolo che erano in preda
alla disperazione e allo sconforto. Mi occupai soprattutto delle donne,
consolandole, cercando di calmarle e avendo cura dei più piccoli.

Il
9 di agosto suor Teresa Benedetta della Croce, insieme a sua sorella Rosa e a
molti altri ebrei, venne avviata alle camere a gas del campo di sterminio, dove
trovò la morte, una sorte toccata a sei milioni di ebrei e che noi oggi
ricordiamo col termine Shoah.

Ebrea
per nascita, cristiana per scelta, dopo un lungo cammino di ricerca, elevandosi
alle più alte vette della spiritualità delle due religioni che tanto avevano
inciso nella sua esistenza, è diventata esempio affascinante e luminoso per
quanti cercano la verità con amore tenace e coraggioso. Il 1° maggio 1987
Giovanni Paolo II nel duomo di Colonia, nella cerimonia liturgica di
beatificazione dichiarò che era: «Una figlia d’Israele, che durante le
persecuzioni dei nazisti è rimasta unita con fede e amore al Signore crocifisso
Gesù Cristo, quale cattolica, e al suo popolo, quale figlia d’Israele”.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera