Lavorare nella cooperazione: miraggio o realtà?


Sono tanti i ragazzi che, freschi di laurea o in procinto di ottenere il titolo, avanzano candidature spontanee inviando email e curriculum alle organizzazioni che operano nella cooperazione. E, d’altro canto, l’offerta formativa delle università italiane negli ultimi quindici anni si è arricchita di corsi di laurea e master in cooperazione e solidarietà internazionale proprio per rispondere alla richiesta crescente di figure professionali adatte al lavoro nelle Ong o negli enti pubblici che si occupano di sviluppo. In questo numero vi proponiamo una panoramica sul fenomeno.

«Buongiorno, mi sono appena laureato e sarei interessato a un’esperienza di qualche settimana in Africa». È più o meno così che cominciano molte delle mail che giovani neolaureati o laureandi inviano alle Ong come la nostra per proporsi in qualità di volontari e collaboratori. La laurea – o il master – può essere in cooperazione, ma anche in medicina, scienze politiche, antropologia, scienze infermieristiche, ingegneria civile o altre discipline, e a scrivere sono ragazzi alla ricerca di esperienze sul campo che permettano loro di mettere in pratica quanto hanno appreso nel corso di studi. E, il che non guasta, consentano di aggiungere al curriculum una preziosa riga sotto la voce «esperienze lavorative», aumentando così le possibilità di assunzione da parte degli enti che richiedono, appunto, esperienza pregressa.

In molti casi, i ragazzi sembrano preferire una permanenza sul campo di qualche settimana, e magari il loro intento è quello di trascorrere un periodo nel Sud del mondo per chiarirsi le idee su che cosa scegliere per specializzarsi ulteriormente, una volta rientrati dal campo. Non sono rare, tuttavia, le manifestazioni di disponibilità per esperienze più lunghe, di mesi o anche anni.

La cooperazione, almeno dai primi anni Duemila, è entrata in modo piuttosto deciso all’interno delle aule universitarie: i master su questo tema sono ormai numerosi e la loro offerta formativa spesso si completa con la possibilità di fare tirocini sul campo presso organizzazioni convenzionate con le università. In questi casi l’entrata nel mondo del lavoro è, se non più facile, almeno più regolata.

I numeri: chi lavora nella cooperazione

Ma vediamo un po’ di numeri sul lavoro nella cooperazione. Secondo il più recente censimento Industria e Servizi dell’Istat, nel 2011 la cooperazione e solidarietà internazionale – inteso dall’Istituto di Statistica come sotto settore del non profit – poteva contare su oltre 3.500 istituzioni attive con circa 1.800 dipendenti, quasi tremila collaboratori e poco meno di ottantamila volontari. Sempre secondo lo stesso studio, rispetto a dieci anni prima la cooperazione ha visto raddoppiare gli addetti del settore, più che raddoppiare i volontari e aumentare del 148% – da 1.400 a 3.500 circa – il numero di enti attivi.

Altri dati indicativi si possono ottenere da Siscos – Servizi per la cooperazione, un’associazione senza fini di lucro che fornisce a chi si occupa di cooperazione internazionale assistenza, informazione e consulenza per quanto riguarda la gestione delle risorse umane. Fra i servizi che Siscos offre c’è quello delle coperture assicurative per gli operatori delle Ong, buon indicatore del movimento di addetti che gravita nel mondo nella cooperazione per quanto riguarda le assegnazioni a incarichi all’estero. Fra le pubblicazioni Siscos c’è Un mestiere difficile, dossier dedicato appunto lavoro del cooperante. Confrontando il numero di operatori assicurati annualmente da Siscos dal 2006 al 2014 emerge che a partire sono circa seimila persone all’anno, sebbene con una lieve flessione negli ultimi anni (nel 2014 gli assicurati Siscos sono stati 5.773, mentre nel 2011 erano 6.392).

Il primo dei dossier, relativo ai dati 2006, riportava l’incremento degli operatori per anno: dai 601 operatori del 1976 si era passati agli oltre cinquemila del 2006 e fra il 1996 e il 2006 si era registrato un incremento nell’ordine del 150%, dato che sembra confermare il trend emerso dai dati Istat visti sopra.

La professione si è, nel frattempo, specializzata, poiché se negli anni Settanta a partire erano solo volontari «generici», un trentennio dopo a essere assegnati sul campo erano collaboratori e cooperanti, cioè figure professionali definite, e volontari, non più «generici», inquadrati insieme ai cooperanti nella vecchia legge sulla cooperazione (la 49/87), regolarmente stipendiati.

Nel dossier 2014, la suddivisone in fasce d’età vede prevalere gli operatori fra i 31 e i 40 anni, pari a poco meno di un terzo del totale. La fascia fra i 19 e i 25 include tredici su cento degli assicurati e quella dai 26 ai 30 il 17 per cento. La suddivisone fra maschi e femmine è quasi alla pari, con una leggera prevalenza delle donne.

I numeri: chi cerca di entrare nel settore

Vediamo ora il versante del primo ingresso nella cooperazione, a partire dagli studi e cominciando dall’offerta formativa disponibile nelle Università per chi desidera studiare cooperazione.

Universitaly, il portale del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur), elenca otto corsi di laurea di primo livello (triennale) in altrettanti atenei, e quindici corsi di secondo livello (biennale) in tredici Università. Quanto ai master, uno studio del ministero degli Affari esteri del 2007 ne contava oltre sessanta.

L’anagrafe nazionale studenti del Miur per il 2013/2014 riporta 408 laureati al corso di secondo livello in Scienze per la cooperazione allo sviluppo. Quattro anni prima erano 151. Il consorzio interuniversitario Almalaurea, che rappresenta circa il novanta per cento dei laureati italiani, effettua regolari indagini sulla loro condizione occupazionale. Per quanto riguarda chi ha completato il percorso di studi di secondo livello in cooperazione, dal campione di laureati analizzato per il 2014, a un anno dalla laurea, risulta che 114 su 254 intervistati hanno un impiego. Il non profit assorbe un quarto degli occupati, mentre oltre il 60% lavora nel privato e circa uno su dieci nel pubblico. Uno su quattro degli intervistati dice di usare molto, nel suo attuale lavoro, le competenze acquisite con gli studi mentre il 44 per cento non le utilizza per niente. Uno su tre giudica utile la propria laurea magistrale nello svolgere la propria attività lavorativa, mentre il 77 per cento sostiene che era sufficiente una laurea di primo livello o anche un titolo non universitario. Lo stipendio medio è poco meno di 1000 euro, con un divario notevole fra uomini e donne. I primi infatti percepiscono circa 1.300 euro contro i meno di novecento delle colleghe.

Per i giovani intervistati sempre nel 2014, ma laureati da cinque anni, la situazione appare meno difficile: a lavorare è il 70 per cento; la quota di chi lavora nel non profit rimane praticamente invariata (quasi il 27%), mentre il venti è impiegato nel settore pubblico e oltre il cinquanta nel privato. Si dimezza, inoltre, la percentuale di persone che non usa per niente le conoscenze ottenute grazie alla laurea e lo stipendio aumenta a poco meno di 1.300 euro: 1.479 per i maschi e 1.184 per le femmine.

Questi dati sono ovviamente molto parziali poiché si concentrano solo su chi ha scelto la cooperazione come percorso di studi specialistici e non tiene in considerazione chi invece arriva a lavorare in questo ambito per altre vie. Basta pensare a quanti medici, infermieri, economisti, antropologi, ingegneri sono attivi nei progetti realizzati sul campo – quindi a tutti gli effetti operatori del settore – per capire che gli studi in cooperazione non sono certo l’unico canale di entrata nel mondo dello sviluppo.

Emerge tuttavia un quadro nel quale i ragazzi che hanno via via scelto la cooperazione per il loro percorso di formazione è aumentato più o meno con gli stessi ritmi di crescita degli enti che si occupano di questo tema. Purtroppo l’entrata di questi laureati nel mercato del lavoro appare non impossibile ma certamente non immediata.

In rete sono molti i siti che cercano di fornire indicazioni utili per chi intende intraprendere da professionista la strada della solidarietà internazionale: dalle federazioni di Ong – che propongono spesso loro stesse master e percorsi formativi – alle università, ai blog individuali di cooperanti e addetti ai lavori, non è difficile farsi un’idea delle caratteristiche e delle difficoltà di questo lavoro. La prima di queste indicazioni è molto chiara: essere buoni non basta, occorre avere un’elevata professionalità e dotarsi di conoscenze tecniche precise. Queste conoscenze hanno a che fare con la gestione del ciclo di progetto, ma è bene tenere in considerazione anche tutta quella serie di competenze delle quali qualunque organizzazione necessita a prescindere dal settore in cui opera: amministratori, logisti, informatici, non hanno meno probabilità di venire reclutati da una Ong, anzi. Per rendersene conto basta dare un’occhiata alle offerte di lavoro sulla bacheca Volint  – da anni punto di riferimento in Italia per chi cerca lavoro nella cooperazione – o sulla pagina della vacancy di Lavorare nel mondo. Altro aspetto importante è ovviamente quello delle lingue, indispensabili per lavorare in un ambito come quello dello sviluppo che è per sua stessa natura internazionale. L’inglese prima di tutto, certo, ma senza dimenticare le altre lingue parlate nei paesi in cui si fa cooperazione, comprese quelle locali.

Chiara Giovetti


Che cosa non fare: avventurieri e improvvisatori

The Volontourist è un documentario uscito quest’anno per far riflettere sul fenomeno del «volonturismo» – termine nato dall’unione di «volontariato» e «turismo» -, sul business creatosi intorno a esso e sui danni che rischia di generare nei luoghi in cui arriva.

La campagna di raccolta fondi della Ong francese Solidarité Inteationale presenta in tre video i colloqui con potenziali volontari (interpretati da attori) che danno voce ai peggiori stereotipi legati alla cooperazione. «Non ho esperienza nell’umanitario», dice una ragazza con abiti e gioielli etnici che si offre come volontaria, «ma ne ho già parlato con mia cugina, ho fatto tantissimo la baby sitter e poi un bambino che muore di fame è come un bambino normale, ha bisogno d’amore. Qui ho un cuore e il cuore è fatto per dare amore alla gente». «Posso aiutare a fare delle iniezioni», propone invece un pensionato in un altro dei tre video, «non le ho mai fatte, ma ci posso provare». (Ch.Gio.)




I Perdenti 9. Mons. Vincent Prennushi


Una delle persecuzioni contemporanee più feroci contro le confessioni religiose di ogni tipo fu perpetrata, a pochi chilometri dalle coste italiane, in Albania. Con la presa del potere da parte del regime di Enver Hoxha nel 1944, musulmani, ebrei, cristiani ortodossi e cattolici, furono presi di mira affinché sparisse ogni traccia di sentimento religioso nel popolo albanese. Hoxha voleva fare dell’Albania «il primo stato ateo del mondo». Con il consolidamento del potere in tutti i gangli della società del popolo albanese, l’accanimento contro le comunità e le persone che vivevano una loro fede divenne durissimo, e in modo particolare i cattolici furono considerati gli avversari più pericolosi del regime. Sull’Albania calò così una cappa pesante che bloccò ogni relazione con il mondo esterno. La piccola nazione illirica divenne praticamente un lager a cielo aperto, nonostante avesse sviluppato nei secoli un profondo senso di identità grazie a Giorgio Castriota Scanderberg, una delle figure europee più rappresentative del XV secolo, precursore dell’indipendenza albanese, che difese l’Albania, nonché l’Europa e i suoi valori religiosi cristiani, dall’invasione ottomana. Per tale motivo ottenne da Papa Callisto III gli appellativi di Atleta di Cristo e Difensore della Fede ed è considerato l’eroe nazionale.

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale migliaia di credenti di ogni confessione furono imprigionati, torturati e moltissimi di loro uccisi. La Chiesa cattolica pagò un prezzo altissimo alla follia di un regime ateo e sanguinario che vedeva in ogni pratica religiosa e in ogni persona di fede un nemico dello stato. Con questa intervista ideale a mons. Nikolle Vinçenc (Vincent) Prennushi, arcivescovo di Durazzo, nato a Scutari nel 1885, vittima della persecuzione del regime comunista nel marzo del 1949, alziamo il velo su una storia di sofferenza e martirio consumata negli scorsi decenni alle porte di casa nostra.

Caro mons. Prennushi, pur essendo noi italiani così vicini geograficamente alla sua terra, conosciamo ben poco della vostra storia, ci vuole dire qualcosa dell’Albania?

L’Albania è una piccola nazione che si affaccia sul mare Adriatico situata a ridosso dei Balcani. Il suo popolo non va confuso con quelli circostanti: serbi, montenegrini, macedoni, ecc., né tanto meno con i greci. Siamo i discendenti degli antichi illirici, per meglio dire degli abitanti di quella zona che sotto l’impero Romano era denominata Illiricum. La nostra bandiera rossa con un’aquila a due teste sta a significare che dobbiamo difendere i nostri confini sia da una parte che dall’altra.

Però durante i secoli l’Albania è diventata un crogiuolo di razze e una mescolanza di religioni non indifferente.

Con l’andar del tempo il cemento unificante del nostro popolo, al di là delle etnie o delle religioni, divenne la lingua, difatti i serbi usano l’alfabeto cirillico mentre i greci ancora oggi usano il loro tipico alfabeto, noi abbiamo voluto mantenere l’alfabeto latino. Questo non è poca cosa perché già nello scrivere affermiamo la nostra identità.

Il cristianesimo si diffuse in Albania fin dai primi secoli?

San Paolo affermò di aver predicato il Vangelo nell’Illiria (Rom 15,19), qualcuno dice che passò anche per Durazzo, ma l’evangelizzazione vera e propria fu portata avanti da missionari inviati da Roma e da Costantinopoli. Non dimenticate che la via Egnatia, che univa le due capitali, attraversava tutta l’Albania.

Come mai in Albania c’è una presenza di confessioni cristiane diverse?

La maggioranza degli albanesi che vivevano al Nord, dopo lo scisma d’Oriente del 1054, rimasero fedeli alla Chiesa di Roma, mentre gli albanesi del Sud entrarono nell’orbita della Chiesa ortodossa bizantina che faceva capo a Costantinopoli.

Ma nonostante questa divisione entrambe le comunità resistettero impavidamente contro i tentativi ottomani di occupare l’Albania.

Scanderberg riuscì a tenere lontani i Turchi, ma dopo la sua scomparsa, l’influenza religiosa dell’ambiente islamico, la persecuzione contro i cristiani perpetrata da alcuni fanatici governatori e la politica ottomana che concedeva facili carriere civili e militari agli albanesi purché fossero musulmani, provocarono un graduale passaggio all’Islam di intere famiglie oltre che di interi villaggi.

Storicamente la presenza della Chiesa cattolica ha inciso nella cultura del popolo albanese?

Grazie alla protezione che l’Austria garantiva al clero e alle opere cattoliche, i francescani e i gesuiti aprirono diverse scuole in varie città, e con la geniale invenzione delle «missioni volanti» raggiunsero i luoghi più impervi delle montagne favorendo così un maggior fervore religioso e un’istruzione di base.

Quindi anche dal resto della popolazione albanese l’opera portata avanti dalla Chiesa cattolica era apprezzata?

Al momento dell’indipendenza dall’Impero ottomano a fine 1912, i cattolici godevano di un prestigio eccezionale, sia per il loro impegno nella lunga lotta di liberazione, sia per la loro elevatezza culturale. Si può dire che il cattolicesimo aveva dato l’impronta decisiva all’identità nazionale. I più grandi poeti, scrittori e giuristi albanesi erano in gran parte cattolici e quasi tutti appartenenti al clero.

Per dirla tutta, una situazione del genere stava sullo stomaco a un tipo come Enver Hoxha.

Non per niente questo tiranno si accanì come una furia contro i preti cattolici, ritenuti i maggiori ostacoli alla nuova ideologia. Per 46 anni (1944 – 1990) una dittatura spietata, ridusse il paese a una grande prigione. Due generazioni di albanesi sono cresciuti in un regime di terrore, in un clima di sospetto in cui non ci si poteva fidare di nessuno, neanche dei propri familiari per paura di essere denunciati.

Se a questo aggiungiamo anche la presenza ossessiva della «Sigurimi», la famigerata polizia segreta che controllava ogni aspetto della vita sociale e personale, abbiamo un’idea di come per oltre quarant’anni l’Albania abbia vissuto in un regime che definire terroristico è dir poco.

Il potere di Hoxha rase al suolo tutti i campanili esistenti in Albania, distrusse molte chiese e moschee e gli edifici di culto risparmiati da questa furia furono trasformati in sale di cultura, palestre, magazzini, qualcuno addirittura in stalla. Per non parlare dei singoli credenti che vennero incarcerati, perseguitati e torturati, molti inviati nei campi di lavoro, diversi fucilati, solo perché volevano continuare a vivere la loro fede.

Anche contro di te il regime si accanì con particolare durezza.

Nel 1945 ebbi un colloquio burrascoso con Enver Hoxha in cui lui mi chiese di formare una Chiesa nazionale antagonista alla Chiesa di Roma. In quegli anni ero il Primate della Chiesa cattolica in Albania, risposi che non potevo separarmi dalla sede di Pietro usando queste parole: «Un petalo non può restare staccato dal fiore al quale appartiene». La reazione fu forte, nel senso che rifiutarono l’ingresso al Nunzio Apostolico e io nel 1947 fui condannato a vent’anni di carcere duro.

Enver Hoxha fece altri tentativi di creare una Chiesa nazionale albanese?

Sì, ma anche tutti gli altri vescovi ribadirono la mia stessa posizione e furono tutti condannati ai lavori forzati. La comunità cattolica albanese, privata dei suoi pastori entrava in un tunnel oscuro vivendo una tragedia immane che è durata oltre quarant’anni.

Oltre alle celebrazioni liturgiche vennero proibite anche le cose più semplici legate alla fede.

Nella tradizione sia cattolica che ortodossa, nel periodo pasquale si dipingono con colori vivaci le uova sode che, dopo essere state benedette nelle messe di Pasqua, vengono consumate in famiglia e si scambiano con i vicini di casa. Ebbene gli insegnanti delle scuole elementari avevano il compito di chiedere ai bambini più piccoli, quindi per loro natura più innocenti, se in famiglia avevano dipinto le uova.

Così quei bambini diventavano dei delatori inconsapevoli.

Purtroppo sì. Subito dopo scattava il meccanismo dell’emarginazione totale della famiglia e, nei casi più gravi, i genitori «colpevoli di questi atti criminali» venivano indirizzati ai campi di rieducazione.

Con questo modo di operare, come si collacava l’Albania nel contesto internazionale?

Col passare degli anni pur entrando nell’orbita dei paesi socialisti, se ne distaccò progressivamente e ruppe addirittura con l’Unione Sovietica, mantenendo i legami solo con la Cina di Mao Tse Tung. La quale la utilizzò come grimaldello per entrare nelle Nazioni Unite. Fu infatti l’Albania che presentò all’Onu la richiesta cinese di essere ammessa nel consesso internazionale delle Nazioni Unite.

Quindi per l’Albania fu un periodo segnato da eventi importanti sul piano internazionale ma, per quanto riguarda la sua popolazione quei decenni furono tragici. La tua storia è emblematica.

Come ho già accennato, la furia distruttiva contro ogni espressione religiosa ebbe dei momenti tragici. Fin dal 1945 bersagli preferiti diventarono il clero e i fedeli: «Ogni fascista portatore di un vestito clericale deve essere ucciso con una pallottola in testa e senza processo», diceva uno dei motti del regime. Vescovi, preti e religiosi furono arrestati, malmenati in pubblico, torturati, fucilati, imprigionati e inviati nei campi di lavoro. Le suore furono obbligate a lasciare l’abito, quelle che rifiutavano venivano sottoposte al pubblico ludibrio e inviate ai lavori forzati. Molti di loro furono vittime di processi farsa che venivano diffusi via radio e riassunti in uno speciale la domenica mattina all’ora della messa con il titolo: «L’ora giorniosa».

Nonostante tutto quello che avete passato, mano a mano che i regimi comunisti dell’Europa dell’Est cadevano grazie al crollo del muro di Berlino, anche in Albania spirò un vento nuovo che fece uscire dalle catacombe i credenti perseguitati.

Pur con il controllo ferreo del regime sui mezzi d’informazione, attraverso le radio clandestine la popolazione albanese captò la notizia del crollo dei regimi comunisti europei. Con coraggio alcuni sacerdoti ripresero a dire Messa pubblicamente nei cimiteri e la gente accorreva a queste celebrazioni eucaristiche, finché anche in Albania crollò il regime ormai marcio di Enver Hoxha e iniziò il periodo democratico della sua storia che – grazie a Dio – continua ancora oggi.

Monsignor Vincent Prennushi morì di stenti, probabilmente il 19 marzo 1949, in un campo di prigionia dove era stato rinchiuso dopo un processo farsa, martire insieme a molti altri albanesi che non si piegarono al regime di Enver Hoxha, che affrontavano la morte al grido di: «Viva Cristo Re». Alla fine del 2002 è stato aperto il processo per la beatificazione dei Martiri Albanesi vittime della persecuzione religiosa durante gli anni della dittatura comunista. Sorprende come una comunità così piccola abbia dato alla Chiesa dei nostri giorni tanti martiri. Va segnalato inoltre che una delle figure più splendide del cattolicesimo del XX Secolo è l’albanese Agnese Gonxhe Bojaxhiu, meglio conosciuta come Madre Teresa di Calcutta.

Don Mario Bandera
Missio Novara

Mario Bandera




Caro Amico

 

Si
apre con l’invito alla lode il Salmo 136, prosegue con la memoria di quanto il
Signore ha compiuto, si chiude con l’invito rinnovato alla lode. È il Salmo che
ogni due versi, nella traduzione Cei precedente a quella attuale, recita «perché
eterna è la sua misericordia» (la versione del 2008 dice, invece, «perché il
suo amore è per sempre»). È il Salmo che Gesù canta subito dopo l’ultima cena,
prima della Passione, ponendo così l’atto supremo della Rivelazione sotto la
luce dell’amore incondizionato di Dio padre. Papa Francesco ne scrive nella
bolla d’indizione del Giubileo che si aprirà l’8 dicembre 2015 e si chiuderà il
20 novembre 2016, centrato sul tema, appunto, della misericordia. Lì il pontefice
ci invita ad assumere il ritornello del Salmo nella quotidiana preghiera di
lode.

Possiamo raccogliere l’invito del
papa da subito. Possiamo, ad esempio, usare lo schema del Salmo 136 per vivere,
nella luce della misericordia, l’estate appena iniziata: usare il tempo del
riposo, del lavoro, del volontariato, del campo in missione, della vita
famigliare delle prossime settimane come tempo di lode a Dio e di memoria, per
ricordare a noi stessi che siamo, e che tutto è, «perché eterna è
la sua misericordia».

Il salmista ci dice che il
Signore ha creato i cieli con sapienza, ha fatto il sole, la luna e le stelle
per regolare il giorno e la notte, ha diviso il Mar Rosso in due parti, ha
guidato il suo popolo nel deserto, che nella nostra umiliazione si è ricordato
di noi, ci ha liberati dai nostri nemici, dà cibo a ogni vivente… «perché
eterna è la sua misericordia». Ciascuno di noi può aggiungere a quanto elencato
dal salmista, le opere che il Signore ha compiuto nella sua vita, nell’anno
sociale che si conclude. Il Signore ci ha liberati dai nemici multiformi che
fuori e dentro di noi attentano alla nostra vita, libertà, gioia, umanità, «perché
eterna è la sua misericordia». Inizieremo il nuovo anno di attività, con la
forza ricavata dal riconoscerci amati in modo incondizionato, coperti
dall’ombra dell’infinita accoglienza di Dio.

Per molti giovani in questo tempo
inizia il conto alla rovescia dei giorni che li separano dalla Giornata
Mondiale della Gioventù del prossimo luglio 2016. Anche quel raduno che porterà
migliaia di persone a Cracovia sarà sotto il segno del tema giubilare: «Beati i
misericordiosi perché troveranno misericordia».

Prepariamoci dunque a vivere
un’estate, e poi diversi mesi ancora, nel segno dell’indulgenza e della grazia,
della vicinanza di un Dio innamorato della nostra vita.

Buona estate da amico,
Luca Lorusso

Luca Lorusso




Errata corrige: Quando i progetti non bastano

Dopo gli anni
Settanta e Ottanta in cui «cornoperare» significava fondi a pioggia e tanto
mattone, il mondo missionario ha vissuto – come tutta la cooperazione – una
sorta di panico da «cattedrale nel deserto», che ha tentato di superare con un
metodo di lavoro diverso capace di mettere al centro le comunità locali e la
loro capacità di trovare soluzioni. E i termini empowerment, capacity building, local ownership* sono diventati
protagonisti dei dibattiti e dei progetti. Ma i risultati non sempre sono
arrivati.

«Nel nostro quartiere, dove il 43 per cento della popolazione non va a
scuola, un progetto di formazione sarebbe anche utile. Per le ragazze che hanno
frequentato la scuola possiamo ipotizzare una specializzazione
nell’informatica, perché anche quelle che lavorano nel commerciale non vedono
mai un computer, fatta eccezione per quelle che hanno frequentato qualche
scuola seria, che però è verso il centro città (e non è accessibile a tutte);
molte a scuola si sono formate usando due o tre macchine da scrivere per
classe. Per le ragazze che hanno lasciato gli studi o non sono andate a scuola,
proporrei dei corsi di alfabetizzazione: è quello che già facciamo in piccolo
in parrocchia. Ma non basta fare studiare le persone: bisogna chiedersi quali
sono poi le effettive opportunità di lavoro. Altrimenti specializziamo la
disoccupazione».

Così padre Santino Zanchetta, missionario della
Consolata, riassume la situazione del quartiere di Saint Hilaire a Kinshasa,
Repubblica Democratica del Congo, nel quale da oltre vent’anni vive e lavora. Specializzare la disoccupazione: può sembrare una battuta, ma è anche un’istantanea
della situazione nella quale molti missionari si trovano a lavorare. Contesti
che, pur non mancando una scuola o un pozzo o un dispensario – quelli magari ci
sono e funzionano -, sono inseriti in un ambiente sociale e soprattutto
economico che non cambia, o cambia lentissimamente e non offre opportunità
diverse dal semplice sopravvivere giorno per giorno.

Così, formare un gruppo di donne in attività di
sartoria, inserendo nel corso anche sessioni di formazione igienico-sanitaria e
di gestione di micro-attività imprenditoriali, è indubbiamente un’iniziativa
che ha un’utilità a prescindere, ma si scontra con fenomeni più ampi su cui la
comunità locale non ha controllo.

«Le donne erano fortemente interessate a partecipare»,
spiega Suor Darlene Lima, delle Suore catechiste francescane, responsabile di
un corso di taglio e cucito a Boroma (Tete, Mozambico), «ma non è stato
semplice mantenere sempre alta la motivazione. Quando è il tempo della semina
nella machamba, il campo, molte donne saltano le lezioni per dedicarsi
alla terra, perché la fonte principale di sostentamento rimane l’agricoltura».
Insieme alle beneficiarie, suor Darlene e le animatrici hanno trovato una
soluzione dividendo le donne in due gruppi in modo che, a tuo, uno potesse
occuparsi della machamba e l’altro frequentare i corsi. Il corso era
stato concepito per consentire a queste donne di avviare poi attività
generatrici di reddito in ambito sartoriale per integrare i magri proventi che
l’agricoltura permette. Gli accordi presi con le scuole locali per l’acquisto
delle uniformi confezionate dalle corsiste hanno permesso alle donne di vedere
i risultati del loro sforzo. Ma le difficoltà non sono venute meno.

«Il prezzo di mercato di un’uniforme cucita dalle donne
del corso non sempre riesce a competere con quello delle uniformi importate già
disponibili sul mercato, spesso di fabbricazione cinese». Lo stesso vale per
gli abiti comuni: i mercati africani sono invasi di indumenti di seconda mano
arrivati dall’Europa e Stati Uniti e venduti a cifre tutto sommato accessibili
anche per il potere d’acquisto locale.

Anche in una realtà con un’economia più reattiva, com’è
il Kenya, è necessario a volte aggiustare il tiro: «Negli ultimi anni c’è stato
un cambio sostanziale nella formazione che il nostro istituto tecnico propone»,
spiega suor Rosa Waeni, una missionaria della Consolata direttrice della Irene
Technical Training Institute
di Maralal nella Samburu County dove si
è appena concluso un intervento finanziato dalla Conferenza episcopale
italiana, «perché i corsi di sartoria hanno sempre meno richiesta, mentre
moltissimi studenti si avvicinano alla nostra scuola attirati dalla possibilità
di specializzarsi in informatica o elettronica, le materie che danno loro un più
immediato accesso al mondo del lavoro di oggi in Kenya. Meglio allora
potenziare questi due corsi attrezzando i relativi laboratori».

Le comunità locali
alla prova della globalizzazione

In paesi come il Mozambico, in piena espansione
economica, l’esigenza che le comunità manifestano è quella di poter beneficiare
delle nuove opportunità economiche, locali o straniere che siano. Basta passare
la mattina presto nei pressi del ponte sullo Zambesi, a Tete, per vedere
schiere di operai mozambicani in tuta e casco in attesa del bus che li porterà
al lavoro nelle miniere della multinazionale brasiliana Vale (vincitrice nel
2012 dell’Oscar della vergogna – «Public Eye award» – come compagnia più
inquinatrice del mondo). Cambiando paese, basta guidare verso Nord Est sulla
Thika Road fra Thika e Sagana, in Kenya, e osservare le distese di ananas che,
a perdita d’occhio, si allungano sul lato destro della strada nella fattoria
Del Monte, o le palme da olio che hanno letteralmente invaso i campi nella zona
di Maria La Baja e Cordoba, sulla costa caraibica colombiana. Queste opportunità
economiche portano posti di lavoro ma anche salari bassi, rischi per la salute
dei lavoratori, abuso delle risorse naturali – acqua, suoli, foreste – e
conflitti legati ad esempio all’accaparramento delle terre (land grabbing, vedi articolo pag. 29) e alla distruzione della biodiversità.

È con questi fenomeni che si deve misurare oggi chi
lavora nello sviluppo. E anche quando se ne è consapevoli e si interviene con
l’intenzione di limitae gli aspetti dannosi, di estendere l’accesso a servizi
di base o di creare alternative economiche eque e sostenibili, il successo è
tutt’altro che garantito. Ne è un esempio il progetto Maji Matone (Gocce
d’acqua), realizzato da una Ong tanzaniana, Daraja (il Ponte), che ne
spiega il fallimento sul proprio blog in un articolo dal titolo «Maji Matone
non ha dato risultati. È tempo di accettare il fallimento, imparare e andare
avanti». Il progetto, concentrato su un distretto della Tanzania meridionale,
mirava a creare un sistema che foisse informazioni ai cittadini sui problemi
di approvvigionamento idrico rurale, permettesse loro di segnalare via sms i
guasti ai punti di distribuzione dell’acqua e inoltrasse le informazioni alle
autorità competenti perché potessero provvedere alle riparazioni. C’era poi un
accordo con i media locali perché dessero visibilità ai problemi segnalati in
modo da fare pressione mediatica sulle autorità per accelerae la reazione. «Perché
abbiamo fallito?», si chiedono i responsabili di Daraja. «Beh, non
abbiamo ancora raggiunto una conclusione definitiva, ma ci siamo fatti un’idea.
Motivare le persone ad agire è difficile, soprattutto quando si promette un
beneficio lontano nel tempo e poco chiaro. Forse avremmo potuto lavorare di più
sulla promozione del progetto, ma concentrandoci sulle aree rurali implica
avere a che fare con gruppi di persone più povere, meno istruite e meno
politicamente impegnate delle loro controparti che vivono nelle aree urbane. Può
esserci anche una questione di genere: nelle zone rurali della Tanzania sono le
donne a occuparsi della raccolta dell’acqua; ma hanno davvero sufficiente
accesso ai telefoni cellulari?». Nei casi in cui la segnalazione del guasto c’è
stata, le riparazioni sono effettivamente avvenute nel quaranta per cento dei
casi; ma mentre Daraja aveva ipotizzato il coinvolgimento di circa
tremila persone, di fatto sono arrivati solo 53 sms.

Per cominciare, continua l’auto-analisi di Daraja, ci siamo
concentrati troppo sugli aspetti tecnologici hi-tech del come scegliere
la piattaforma informatica adeguata per canalizzare tutte le informazioni da
condividere, e troppo poco sui problemi low-tech, cioè sul fatto che
nelle aree rurali il tasso di analfabetismo, la difficoltà ad accedere alla
rete cellulare, la mancanza di elettricità per caricare il telefonino sarebbero
stati ostacoli molto più seri. Inoltre non abbiamo affrontato in modo adeguato
le conseguenze della divisione delle responsabilità stabilita dalle istituzioni
per la gestione dell’acqua: riparare le fonti, stabilisce il ministero
tanzaniano dell’acqua, è responsabilità delle comunità locali. Questo, insieme
a una generalizzata mancanza di fiducia da parte dei cittadini nell’operato delle
autorità pubbliche, ha probabilmente portato la maggioranza dei beneficiari a
pensare che non valeva la pena mandare un sms, tanto non sarebbe servito a
nulla.

Ammettere i
fallimenti

A raccogliere esperienze simili a quella di Daraja
c’è Admitting Failure (Ammettere il fallimento), un sito lanciato dalla
sezione canadese di «Ingegneri Senza Frontiere» dove cooperanti appartenenti a
diverse organizzazioni raccontano la loro esperienza di progetti che non hanno
funzionato. Si trovano storie come quella del volontario dei Peace Corps
che in Benin avvia con quattro donne una piccola produzione di pane: 100
dollari procurati dal cornoperante e 20 da loro sono il capitale iniziale per
comprare il materiale di base. Tutto funziona molto bene, i soldi entrano: su richiesta
delle donne stesse è lui a gestire la cassa. Ma a un certo punto il volontario
decide che è il momento di cedere responsabilità alle donne, cassa compresa, e
di continuare ad affiancarle solo come supervisore della contabilità. È allora
che le donne si dividono i fondi in cassa e smettono di fare il pane, restando
senza risorse per continuare.

«Il motivo del fallimento», spiega l’operatore, «è che
avrei dovuto essere più paziente, aspettando che le donne fossero in grado di
mettere oltre il 75% del proprio capitale nel progetto; avremmo anche dovuto
iniziare con più fondi, 300 invece di 120 dollari. In questo modo, le donne
avrebbero potuto comprare subito tutto il materiale necessario e cominciare a
pagarsi invece di vedere i soldi accumularsi per i successivi acquisti di
attrezzature. Il capitale sarebbe stato in beni non liquidi, loro avrebbero
sviluppato un maggior attaccamento al progetto e non avrebbero avuto contanti
che non sapevano dove conservare senza che mariti e figli li vedessero e li chiedessero».

L’unico vero fallimento «cattivo» è quello che si ripete,
conclude Admitting Failure. E il britannico Overseas Development
Institute
(Odi), che è entrato nel dibattito sugli «Obiettivi Sostenibili
del Millennio» con uno studio dal titolo Adattare lo sviluppo, sembra
essere d’accordo: «Non bisogna aver paura di provare, fallire e riprovare», si
legge nel documento. Secondo l’Odi, che si rivolge ai governi, a chi fa le
riforme nei paesi in via di sviluppo, ai donatori inteazionali e alle Ong, i
fallimenti sono spesso dovuti al fatto che ci si concentra più su modelli
ideali che sui problemi concreti. Ad esempio, l’Uganda ha ottime leggi su
gestione dei fondi pubblici e lotta alla corruzione ma poi, nella pratica, le
leggi sono applicate pochissimo. Bisogna allora chiedersi prima di tutto che
cosa è fattibile e che cosa no in contesti politici difficili come quelli dei
paesi in via di sviluppo e sostenere i cambiamenti che nascono dentro questi
contesti per iniziativa dei diretti interessati: politici, società civile,
comunità e imprese locali.

Una tesi non dissimile era emersa chiaramente anche al
convegno «Africa, continente in cammino», organizzato dai missionari e
missionarie Comboniani nel marzo scorso: «Deve essere l’Africa a salvare
l’Africa», si era detto in quell’occasione. Il ruolo di chi fa sviluppo – non
solo in Africa – è quello di favorire, non dirigere (o peggio, ostacolare), il
cambiamento.

Chiara Giovetti

Tags: cooperazione, sviluppo, progetti

Chiara Giovetti




I Perdenti 6: San Maurizio e la legione Tebea

La celebre
Legione Tebana (o Tebea) è così chiamata perché, secondo la tradizione, era
composta interamente da legionari di fede cristiana provenienti dalla Tebaide,
in particolare dalla città di Tebe, terre e genti egiziane facenti parte
dell’Impero Romano del III secolo dC, una delle zone evangelizzate fin dagli
albori del cristianesimo.

Secondo
sant’Eucherio di Lione (380-450 dC), il primo che raccolse e raccontò nel suo Passio
Acaunensium martyrum
la storia della Legione Tebana, attorno al 286 essa
era di stanza in Gallia, presso la città di Agaunum (odiea Saint Maurice
nell’attuale Cantone Vallese in Svizzera) per reprimere una delle cicliche
rivolte dei Galli Bagaudi. Conclusa vittoriosamente la campagna, Massimiano
Erculeo, co-imperatore con Diocleziano, ordinò alle legioni di sacrificare
all’imperatore e di eseguire una spedizione punitiva per distruggere alcuni
villaggi del Vallese convertiti al cristianesimo. Gli ufficiali della Legione
Tebana, Maurizio, Esuperio e Candido, insieme ai loro centurioni e legionari,
si rifiutarono di adempiere gli ordini, dichiarando apertamente di essere
cristiani loro stessi. Massimiano ordinò la decimazione della legione (un
soldato ogni dieci doveva essere ucciso dai suoi stessi compagni). Dopo la
prima decimazione, ne ordinò una seconda, perché la Legione Tebana continuò a
rifiutarsi di compiere i massacri. All’ennesimo rifiuto, Massimiano chiamò
soldati di altre legioni per punire quella ribelle. La tradizione vuole che la
carneficina sia durata diversi giorni e abbia fatto almeno seimila e seicento
vittime.


La devozione
al santo martire Maurizio e ai soldati suoi compagni si diffuse in tutta la
zona alpina ed è molto radicata ancora ai nostri giorni.


Gli
storiografi avanzano diversi dubbi su alcuni aspetti del racconto di Eucherio,
ma il nucleo di verità rimane: nella persecuzione, anche in quella più
spietata, come è stata quella vissuta dai cristiani sotto l’imperatore
Diocleziano, i fedeli di Gesù Cristo sono capaci di obiezione di coscienza e di
martirio.

Maurizio, vuoi
parlarci dei tuoi tempi e della vita militare sotto l’Impero romano?

L’Impero di Roma in quel periodo aveva raggiunto l’apice del suo
splendore e della sua potenza, le sue legioni avevano sconfitto e soggiogato
quasi tutti i popoli che abitavano in quello che era allora il mondo
conosciuto. A noi legionari era affidato il compito di mantenere l’ordine e la
legalità nell’immenso territorio conquistato.

La tua vicenda risale alla fine del terzo
secolo, il che vuol dire che il messaggio di Gesù di Nazareth ai tuoi tempi si
era già ampiamente diffuso in Europa, arrivando fino ai «limes» dell’Impero.

Effettivamente la religione cristiana si era diffusa rapidamente,
tanto da insidiare il primato della vecchia religione pagana. Molti membri
dell’esercito avevano abbracciato la nuova fede, pur non mettendo mai in
discussione la fedeltà a Roma e all’Imperatore. Anche noi ci eravamo convertiti
al Vangelo, eravamo quindi coscienti che sopra di tutti c’era Dio Padre che per
manifestare agli uomini il suo Amore e la sua tenerezza aveva mandato sulla
terra il Figlio suo Gesù Cristo per rivelarlo, e nonostante fosse stato
condannato e crocifisso, dopo tre giorni era risuscitato e aveva inviato lo
Spirito Santo, tramite i suoi Apostoli, a vivificare la terra.

Voi che avete conosciuto questo messaggio
di salvezza diverse generazioni dopo l’annuncio dei primi discepoli, come vi
rapportavate a quello che era il nucleo centrale della fede cristiana?

Attraverso l’insegnamento di Gesù avevamo preso coscienza che ogni
essere umano, uomo o donna che fosse, nasceva con la stessa dignità di fronte a
Dio, fosse egli figlio di uno schiavo o di un membro del Senato di Roma, quindi
tutti gli uomini di fronte a Dio erano sullo stesso piano, un’uguaglianza in
dignità che aveva dello straordinario. Una novità questa di difficile
comprensione per la mentalità vigente nell’antica Roma in cui la divisione tra
plebe e patriziato, tra cittadini romani e popoli barbari era fortemente
radicata. L’invito a perdonare chi ti offende, il rifiuto della vendetta su chi
ti fa del male, erano cose inaudite ai miei tempi. Se poi aggiungi l’attenzione
da prestare a chi è malato, sofferente o debole, e l’invito da mettere al
centro della vita di tutti i giorni i poveri, ti renderai conto che il suo
messaggio era una vera rivoluzione.

Già, ma Gesù di Nazareth non si era
limitato a quello, aveva anche detto che la violenza non era una strada da
percorrere, perciò come si conciliava quest’affermazione con la politica
dell’Impero di cui le legioni romane erano il «braccio armato»?

Guarda, pur essendo noi militari inquadrati in una delle più
superbe legioni romane, il nostro compito non era di far del male ad altri, ma
di difendere quello che era il territorio di Roma dalle invasioni dei popoli
barbari. Dovevamo difendere i suoi cittadini, le sue leggi, la sua cultura, in
una parola quella che veniva chiamata la «Pax Romana».

Era per quello allora che ti trovavi di
stanza nelle Alpi?

Con i miei legionari ero stato destinato in quelle zone per
contrastare le continue sommosse e rivolte dei Galli tra i quali la tribù dei
Bagaudi composta in gran parte da «teste calde» che mal sopportavano la
disciplina e le leggi di Roma. Noi avevamo il compito di mantenere l’ordine
nelle vallate alpine.

È vero che voi avete scritto una lettera
all’Imperatore manifestando la vostra fedeltà a Roma, ma ribadendo il principio
secondo cui, come militari di fede cristiana, avevate il compito di difendere,
oltre che il territorio, i più deboli e i più indifesi?

Proprio così! Noi scrivemmo all’Imperatore dicendo: «Siamo tuoi
soldati ma anche servi di Dio, cosa che noi riconosciamo francamente. A te
dobbiamo il servizio militare, a Lui l’integrità e la salute, da te percepiamo
il salario, da Lui il principio della vita. Alzeremo le nostre mani contro
qualunque nemico, ma non le macchieremo mai con il sangue degli innocenti. Noi
facciamo professione di fede in Dio Padre Creatore di tutte le cose e crediamo
che suo Figlio Gesù Cristo sia Dio».

Non c’è che dire, una lettera coraggiosa!

Che nasceva dalla convinzione che l’essere cristiani e, in modo
particolare, vivere la condizione di soldato al servizio delle leggi di Roma ci
rendeva leali cittadini, fedeli sudditi dell’Impero, ma anche difensori dei più
deboli che si affidavano a noi per poter vivere e lavorare tranquillamente. Nel
contempo la fede in Cristo ci impediva di usare violenza verso le popolazioni
inermi e di commettere soprusi gratuiti.

Il servizio militare, obbligatorio per
ogni cittadino romano, era parte integrante della vita, in quanto ogni maschio
valido doveva impegnarsi a difendere Roma, a diffondere le sue leggi, a
espandere la civiltà che essa incarnava.

Pur non deponendo le armi, anzi, avendone cura non proprio come
arma di offesa quanto piuttosto di difesa, si può dire che per la prima volta
nella storia l’utilizzo delle forze armate era visto, grazie a noi, non tanto
come un’occasione per conquistare territori, quanto piuttosto come un
mantenimento integerrimo e responsabile della pace e dell’ordine, e come
contributo alla sicurezza della gente. Grazie al nostro esempio quindi, le
legioni romane erano percepite non tanto come truppe di occupazione ma come
garanzia di pace e tranquillità, il tutto ovviamente in una visione globale in
cui Roma «Caput Mundi» riscuoteva le tasse, mentre le legioni garantivano la
pace.

Resta il fatto che il vostro martirio
affrontato coraggiosamente vi fa antesignani di tutti gli obiettori di
coscienza. In più esso si è così impresso nelle vallate alpine che ancora oggi
da quelle parti la devozione nei vostri confronti è molto viva e attuale.

È vero, seimila soldati passati a fil di spada perché si
rifiutarono di uccidere inermi valligiani, civili indifesi, fu un fatto
eclatante che rimase impresso nella coscienza di quelle popolazioni.
L’iconografia classica che si sviluppò successivamente ci rappresentò, infatti,
come dei soldati con la palma del martirio in mano, lo stendardo con croce
rossa in campo bianco, da cui la Svizzera si è ispirata per la sua bandiera, e
la croce mauriziana dipinta sulle nostre armature. La devozione popolare ha
visto in ciascuno di noi, oltre che dei legionari fedeli all’Imperatore che
avevano il compito di difendere il territorio loro affidato, delle persone che
hanno avuto il coraggio di manifestare apertamente la fede cristiana in tempi
non certo favorevoli a gesti simili.

Oltre a ciò la vostra vicenda ha dato
origine anche all’Ordine Cavalleresco di San Maurizio, che fu fondato dalla
casa dei Savoia quando questa conquistò per un certo periodo il Vallese.

Oltre a ciò i Savoia portarono a Torino parte delle reliquie della
Legione Tebana, nonché la mia spada e il nostro simbolo, ovvero la croce
mauriziana, conservati in una cappella della chiesa in cui è custodita anche la
Sacra Sindone.

Oltre che della casa Savoia siete
diventati i protettori anche di altre istituzioni?

Con i miei compagni siamo i patroni degli Alpini Italiani, delle
Guardie Svizzere e delle truppe alpine dell’Esercito Francese. Le chiese
dedicate a San Maurizio e ai Santi della Legione Tebana si diffusero, e sono
presenti ancora oggi, in Valle d’Aosta, Piemonte, Francia, Germania e Svizzera.
In quest’ultima nazione, nel Canton Grigioni, mi fu dedicata la città di Saint
Moritz e anche in Francia molti paesi furono chiamati con il mio nome proprio
per ricordare il valore e la testimonianza della Legione Tebana. La più celebre
è Bourg Saint Maurice in Savoia e per non essere da meno anche in Piemonte
vennero affidate alla nostra protezione San Maurizio Canavese vicino a Ivrea,
nonché San Maurizio D’Opaglio nel novarese, dove, secondo la tradizione,
eravamo transitati, e infine Porto Maurizio in Liguria.

Gli abitanti di queste città sanno che il
loro patrono proveniva dall’Egitto?

Sì, credo che lo sappiano.

La devozione per i martiri della Legione
Tebea si è diffusa anche presso la Chiesa copta.

Sì, quella copta è una Chiesa storica egiziana che venera non solo
me, San Maurizio, ma tutti i miei valorosi compagni, le cui reliquie si
ritrovano in numerose chiese sia in Europa che in Africa.

Se non vado errato, qualche anno fa furono
donate al Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa della Chiesa Copta, Papa
Shenuda III, alcune preziose reliquie dei Santi della Legione Tebana (nel
1991).

È vero, il nostro sacrificio ha aperto anche un originale cammino
ecumenico in quanto altre Chiese orientali venerano i Martiri della Legione
Tebea. Il martirio da noi subito è anteriore ai vari scismi succedutisi nella
Chiesa attraverso i secoli. Anche nel mondo protestante c’è una devozione
legata alla nostra testimonianza.

Il vostro martirio alla luce della fede
cristiana vi trasforma da perdenti in testimoni della fede, come per Gesù di
Nazareth, il vostro sacrificio invece di essere visto come una sconfitta è
diventato un segno di speranza per i cristiani di tutti i tempi.

La fede nella Risurrezione è questa: offrire la propria vita per
essere fedeli fino in fondo ai valori del Vangelo che Cristo ci ha lasciato!

San Maurizio e i suoi
compagni, che hanno versato il proprio sangue per la confessione della fede
cristiana, restano ancora oggi dei testimoni esemplari di come si possa andare
incontro al martirio con coerenza e coraggio. Il loro esempio deve essere di
stimolo per noi a vivere in pienezza la fede in Cristo Gesù, senza quei
compromessi che rischiano di annacquarla di fronte al mondo. Di tutta questa
vicenda, una delle cose sorprendenti è quella di scoprire che molti paesi e
città delle nostre vallate alpine hanno come Santi protettori delle persone che
oggi definiremmo «extracomunitari» in quanto provenienti dall’Egitto, ovvero
dal continente africano.

Mario Bandera, Missio Novara

Tags: Santi, obiezione di coscienza, San Maurizio, Legione Tebea, Martirio

Mario Bandera




Religioni e violenza secondoMedha Patkar

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 30

Attivista indiana per
i diritti umani, ambientalista e donna politica, Medha Patkar mette in
evidenza, nelle sue riflessioni, il nesso tra violenza, religioni e potere
politico ed economico. In un contesto come quello indiano in cui il primo
ministro, Narendra Modi, è l’esponente di spicco del Partito del popolo
indiano: conservatore, nazionalista, di esplicita ispirazione induista.

«Occorre comprendere che la violenza,
l’emarginazione di ispirazione religiosa non è il solo problema dell’India,
dell’Orissa e del Kandhamal. Sovente il fattore religioso è pretesto per
accrescere la presa dei potenti sul territorio, per svendee le ricchezze
naturali a grandi compagnie, per espropriare tribali, aborigeni e contadini a
favore di colossali interessi agricolo-industriali o minerari».

A dirlo è Medha Patkar, attivista
indiana conosciuta per le sue battaglie ambientaliste. In tempi recenti ha
portato il suo impegno sul piano politico, ma senza cessare di sostenere la
trentennale lotta delle popolazioni interessate dalla controversa diga del
Sardar Sarovar sul fiume Narmada che coinvolge quattro stati dell’India
centrale. A lei si deve la fondazione, con altri, dell’«Alleanza nazionale dei
movimenti popolari» che si è impegnata contro globalizzazione e strapotere delle
grandi aziende, e che nel 2004 si è trasformata in movimento politico, il «Fronte
politico popolare». Una scelta non da tutti compresa, il passaggio
dall’attivismo ecologista alla politica attiva, che Patkar ha spiegato con la
necessità di portare impegno e lotte prima rivolte a obiettivi particolari, su
un piano più generale ma anche più incisivo: «Noi crediamo che i movimenti
popolari siano inevitabili in ogni democrazia per tenere vivo il processo
democratico e per sollevare e risolvere i conflitti tra stato e cittadini su
questioni di ampio interesse. Questo ruolo, lo diciamo con umiltà, è importante
e occorre proseguirlo. Contemporaneamente abbiamo sempre detto che la politica
elettorale non è intoccabile. Piuttosto la consideriamo complementare a quella
non elettorale.

Riteniamo necessario sfidare e
cambiare quella parte di cultura politica che è criminale e disgregatrice, che
sfrutta non solo la religione ma anche le caste come una forza per proseguire
con il gioco dei numeri».

Qualche tempo fa in un’intervista
alla scrittrice e giornalista Gargi Parsai, riflettendo su un tema a lei caro e
solo all’apparenza lontano dal suo impegno primario, la Patkar sosteneva che «è
vero, le caste dividono la società, e oggi sono strumentalizzate al punto da
mettere gli uni contro gli altri contadini e contadini, operai contro operai.
Anche le caste vengono contrapposte alle altre caste e così finisce che si
riduce la loro capacità di unirsi contro le ingiustizie, ma anche contro le
minacce crescenti all’ambiente. Di conseguenza, è tempo che le popolazioni
costrette a lasciare le proprie terre e gli emarginati si uniscano, in modo che
queste forme di ingiustizia possano essere affrontate in modo unitario e
efficace».

I massacri di
Kandhamal

Più di recente, nel 2014, in
occasione di un grande raduno che ha ricordato l’avvio dell’ondata persecutoria
anticristiana nello stato di Orissa, la Patkar ha avuto modo di riflettere su
questo aspetto del suo impegno che è di riconciliazione prima ancora che di
contrasto a abusi e discriminazioni.

«Sono davvero felice e allo stesso
tempo triste di vedere che a sei anni dai massacri del Kandhamal molti abbiano
ancora così tanto entusiasmo, tanta energia, coraggio e forza di opporsi al
governo dell’Orissa e a quello federale guidato da Narendra Modi.

I fondamentalisti (non importa a
quale religione appartengano), gli individui che hanno stuprato suor Meena e
coloro che hanno distrutto più di 300 chiese, 6500 case (ucciso più di cento
persone, ndr) e costretto 56mila persone a lasciare le proprie
abitazioni e a vivere per le strade, che hanno devastato i loro campi e
raccolti e altri mezzi di sostentamento, hanno trasformato uomini liberi in
schiavi».

L’attivista, in queste parole, faceva
riferimento ai gravi fatti – la peggiore persecuzione anticristiana della
storia modea del paese – che ebbero luogo nel distretto del Kandhamal, nello
stato orientale di Orissa. Iniziati nel Natale del 2007, quando radicali indù
sobillati da un leader locale, Laxmanananda Saraswati, bloccarono con una
serrata le celebrazioni cristiane, si concretizzarono violentemente dopo
l’uccisione dello stesso Saraswati il 23 agosto 2008. Un delitto di cui vennero
accusati i cristiani locali, in maggioranza convertiti da etnie animiste e
gruppi indù fuoricasta. L’evidente pianificazione del pogrom, con
l’arrivo organizzato di migliaia di fanatici da altre aree dello stato di
Orissa e del paese, fu negata a favore di una tesi che sosteneva invece la
spontaneità della persecuzione. Quegli eventi, che hanno segnato profondamente
la coscienza collettiva della comunità cristiana indiana, e la difficoltà da
parte delle vittime di avere giustizia a causa di un pesante clima di
intimidazioni e coperture, hanno chiarito i limiti della giustizia indiana e
accentuato i timori delle minoranze, in particolare sotto l’attuale governo
nazionalista e filoinduista del paese.

«Il Kandhamal è uno dei molti luoghi
in India segnati dalla violenza comunitaria. Ovunque si verifichino rivolte nel
nome della religione, a finire sotto attacco è l’umanità, che viene seppellita
– ha indicato la Patkar -. Comunque, deplorare questi incidenti, per quanto lo
facciamo con forza, non può essere sufficiente. Chi promuove un atteggiamento
violento nel nome della religione va condannato».

Estremismo induista

Convinzioni, quelle di Medha Patkar,
che trovano sempre più spazio nella società civile indiana – che va aprendosi a
tematiche come la discriminazione e la violenza sessuale, la lotta a malgoverno
e corruzione, la ricerca di unità in un paese sempre più frammentato e quindi
sempre più distante dall’integrazione sognata dai suoi fondatori –
contemporaneamente a un aumento della violenza religiosa. Quest’ultima è
incentivata dal movimento di riconversione all’induismo promosso da gruppi
estremisti che non agiscono più attraverso la sola coercizione o intimidazione,
ma anche proponendo incentivi materiali, e utilizzando metodi che ricalcano le
iniziative benefiche presenti, ad esempio, nella prassi cristiana che gli
stessi gruppi stigmatizzano come mirati alla conversione.

«È molto importante che comprendiamo
che cos’è la religione», ha segnalato la Patkar aprendosi a una tematica
raramente parte del suo impegno, ma che, come altre, riveste un ruolo
essenziale nel paese e nelle sue difficoltà attuali, a partire dal settarismo
che va diffondendosi. «Religione è prassi di vita, religione significa legge;
indica alcuni principi fondamentali e nient’altro che questo».

«Alcuni riconoscono Bhagwan (termine
generico per indicare dio nell’induismo, nda) o Allah, altri offrono namaaz
(preghiera islamica, nda) e altri fanno i rituali della puja (atto
di adorazione induista, ndr) e i nostri fratelli adivasi (aborigeni, nda)
trovano i fondamenti della loro religione tra gli alberi, sulle montagne e nei
fiumi. La comunità dalit (termine più attuale per fuoricasta, intoccabili, nda)
considera il dottor Ambedkar (che guidò il movimento per la loro emancipazione
negli anni Sessanta, nda) come loro divinità. Anche Buddha, Kabir,
Periyar, Vivekanand e Mahavir non hanno mai predicato la violenza, lo stupro,
la distruzione per diffondere le rispettive pratiche religiose o filosofiche.
In molti casi, tuttavia, i loro seguaci hanno intrapreso un cammino che
contrasta con gli ideali religiosi e ovunque questo succeda non sono soltanto
case e campi a essere devastati, ma è la stessa religione a essere distrutta».

Prove di pulizia
etnica

Si è spesso detto, in modo
particolare da parte della Chiesa cattolica la quale dal 2008 fronteggia con
coraggio la sfida dell’integralismo indù al fianco delle comunità di battezzati
sparse tra le foreste e le colline dell’Orissa, che la situazione vissuta in
Kandhamal è stata una prova di pulizia etnica. Una spallata alla convivenza e
all’integrazione, come già era avvenuto nell’enorme pogrom antimusulmano
del Gujarat nel 2002, quando la violenza integralista indù provocò 1044 vittime
accertate (di cui 790 musulmani), migliaia di feriti e mutilati, stupri di
massa, più di 60mila sfollati.

Per questo, segnala la Patkar, è
fondamentale capire che cosa è successo in Kandhamal: «Occorre partire dalla
conoscenza della sorte della popolazione interessata dalla persecuzione,
soprattutto delle donne e dei bambini. Le grida strazianti delle donne che ho
sentito, in un tempo in cui sono usate come puro oggetto di repressione, devono
essere ascoltate. Non è solo il mercato con le sue logiche a trattare le donne
come oggetti, ma a volte anche la religione».

In Kandhamal, obiettivi dei radicali
che scatenarono il pogrom erano dalit e adivasi cristiani. I richiami
alla calma furono ignorati e le violenze scoppiarono quando ai cristiani venne
attribuita la responsabilità dell’uccisione del leader radicale indù Swami
Laxmanananda Saraswati e di due suoi seguaci in un presunto centro spirituale
che altro non era che un luogo di cornordinamento delle strategie induiste nella
regione. Di fatto i cristiani furono scagionati subito dai guerriglieri maoisti
che rivendicarono di aver ucciso l’uomo per le sue attività persecutorie e per
il suo ruolo di apripista del controllo economico sul territorio dell’interno
dell’Orissa da parte di facoltosi correligionari.

«Le accuse comunque sfociarono in
violenze diffuse, vittime, conseguenze ancora presenti. Su che cosa furono
basate le accuse verso la pacifica comunità cristiana? Se ci fossero state
responsabilità concrete, la popolazione locale si sarebbe rivolta alle autorità.
Il fatto fu che a incentivare i disordini fu un gran numero di elementi
arrivati da fuori Kandhamal e anche da fuori Orissa, e a prolungarli contribuì
la latitanza della polizia in uno stato governato allora in coalizione da un
partito locale di centrodestra, il Biju Janata Dal, e dal Bharatiya
Janata Party
, gruppo di riferimento politico dell’estremismo induista, oggi
al potere centrale a livello federale».

Goveo e
fondamentalisti

Ogni anno ad agosto, gli estremisti
indù organizzano manifestazioni in cui accusano i cristiani di essere colpevoli
degli eventi del Kandhamal e di conversioni forzate. Allo stesso modo, i
cristiani, insieme ad altre organizzazioni della società civile locale e
nazionale, chiedono giustizia accusando gli indù di atteggiamento persecutorio.
A chi dovremmo credere? La risposta di Medha Patkar è chiara: «Ricordate: se c’è
violenza di ispirazione religiosa, la responsabilità ricade sia sul governo,
sia sui fondamentalisti. Dov’era il governo nei terribili giorni del Kandhamal,
dal 23 agosto 2008 in avanti? Chi aveva il potere allora in Orissa?
Evidentemente i due partiti della coalizione decisero di non intervenire, anche
se successivamente l’alleanza si allentò notevolmente. Gli ufficiali di polizia
che resero possibile alle violenze di propagarsi non sono stati puniti, come
pure i responsabili dello stupro di suor Meena. Ai profughi, espropriati di
case e beni viene ancora negata la possibilità del ritorno».

Politica (e
ingiustizia) in nome della religione

Questa problematica non è solo
limitata al Kandhamal, e il continuo accento, posto dalle istituzioni,
sull’unità e integrità del paese – a fronte di pratiche di segno opposto che
proprio la stessa politica e le stesse autorità incentivano o consentono – la
rende più evidente per contrasto.

«Fratelli e sorelle – concludeva
Medha Patkar lo scorso agosto il suo discorso in Orissa, mostrando una copia
del rapporto del Tribunale del popolo per il Kandhamal, impegnato a cercare
giustizia per le vittime – qui sono descritte le azioni che occorrerebbe
intraprendere, quali sono le leggi in base alle quali punire i criminali. La
gente non ottiene giustizia perché i politici fanno politica in nome della
religione. I cristiani sono soltanto il 3% della popolazione, i musulmani il
13%, gli adivasi il 9%. Perché i politici dovrebbero sostenerli? Quando i
partiti pensano così, il popolo non ottiene giustizia, i colpevoli non sono mai
puniti mentre innocenti finiscono in carcere per avere reclamato i propri
diritti. Perché non ci sono state indagini efficaci nel caso del Kandhamal?
Perché nessuno pone questa domanda? Questa è la mia domanda». 

Stefano Vecchia

Tags: Medha Patkar, Narenda Modi, Fondamentalismo, fondamentalismo indù, Orissa, intolleranza religiosa, persecuzioni

Stefano Vecchia




La condizione degli anziani: abusi silenziosi

Nelle nostre società
si parla molto di abusi sui minori e sulle donne, ma poco di quelli nei
confronti degli anziani. Si tratta di abusi fisici, psicologici e finanziari che
occorre affrontare, considerato il numero delle persone con età avanzata in
costante crescita.

I progressi della medicina hanno portato a un aumento della durata della
vita e all’incremento della popolazione anziana, soprattutto delle persone
ultraottantenni. Nella società attuale l’allungamento della vita non va però di
pari passo con la qualità dell’esistenza e, tra i molteplici problemi che
questa situazione pone, uno in particolare, quello degli abusi, è ancora
relativamente poco conosciuto, ma in continua crescita.

Le tre categorie principali di abuso sugli anziani sono:
quello domestico (nell’abitazione dell’anziano o in quella del caregiver, cioè del/della
badante, la persona che si prende cura dell’anziano), quello istituzionale
(nelle case di riposo e nelle residenze assistenziali) e quello auto-inflitto
(comportamento autolesivo, tipico degli anziani con difficoltà cognitive e in
stato di abbandono).

In Europa si stima che siano 37 milioni gli anziani che
hanno subito qualche forma di abuso. Di questi, circa 29 milioni hanno subito
maltrattamenti fisici, 6 milioni abusi finanziari, un milione abusi sessuali.
Si stima che circa 2.500 persone all’anno muoiano per mano dei familiari, come
conseguenza delle vessazioni subite. Molto spesso abusi finanziari, fisici e
psicologici sono perpetrati contemporaneamente. In un’indagine condotta in
Francia, Italia, Spagna, Belgio, in cui sono stati esaminati 1.000 casi per
paese, il 20% degli anziani intervistati ha ammesso di essere stato vittima o
testimone di truffe, compiute da familiari o da estranei. È stato rilevato
infatti che spesso gruppi organizzati di criminali si installano nel vicinato
di persone anziane, che vivono sole. Le persone più facilmente vittime di abusi
fisici e/o psicologici sono donne (75%), generalmente anziane (79 anni e
oltre). Secondo l’Eurostat, nel 2050 la popolazione europea sarà costituita al
30% da over 65, ma al momento le istituzioni europee e nazionali non sono
ancora pronte a contrastare il fenomeno degli abusi su di essi e sui non
autosufficienti.

Rispetto alla violenza sui minori e sulle donne, di
violenza sugli anziani si sente parlare relativamente poco da parte dei media,
eppure gli studi condotti a livello internazionale dimostrano il costante
aumento del fenomeno.

In
famiglia e in ricovero

Il primo articolo su questo argomento apparve
sul British
Medical Joual nel 1975 e,
all’inizio degli anni ’80 venne definita una sindrome ben precisa, detta Elderly abuse syndrome ovvero «sindrome da abuso sull’anziano».
Questo tema venne trattato nel 2002, nell’ambito del primo Rapporto mondiale su
violenza e salute, dell’Organizzazione mondiale della sanità, presentato
durante la seconda «Assemblea mondiale sull’invecchiamento», tenutasi a Madrid.
Tale rapporto, basato su studi condotti a livello globale nei venti anni
precedenti, rivelò che gli abusi contro gli anziani sono estremamente diffusi,
ma che di solito non vengono denunciati e che comportano pesanti costi
finanziari e umani. I pochi studi demografici su cui è basato il rapporto
indicano che il 4-6% della popolazione anziana mondiale subisce abusi
all’interno della propria abitazione e che nei 2/3 dei casi gli abusatori sono
membri della famiglia, in particolare coniugi o figli. Secondo altri studi
sugli anziani condotti in Australia, Canada e Regno Unito, la percentuale degli
anziani che hanno subito abusi va dal 3% al 10%. Secondo il National Elder Abuse Incidence Study (Neias) condotto in Usa tra il 1986 e il
1996, l’incremento dei casi di prevaricazione riferiti dai servizi statali è
stato del 150%, ma si stima che i casi occulti siano cinque volte quelli
denunciati. Le violenze possono essere sia fisiche che psicologiche, ma possono
anche prendere la forma di sfruttamento economico, abbandono, disattenzione
(denutrizione, disidratazione, scarsa igiene, indumenti indecorosi). Purtroppo
molti casi non vengono alla luce perché spesso le vittime hanno un rapporto di
dipendenza con l’abusatore, per cui esse temono, denunciandolo, di subire
ulteriori vessazioni. A volte gli abusati sono anziani con turbe cognitive o
psichiatriche, incapaci di descrivere la condizione in cui si trovano. È chiaro
che i casi di violenza di cui si è a conoscenza sono solo la punta di un
iceberg e che i valori in nostro possesso sono ampiamente sottostimati.

Recentemente, in Italia sono venuti alla
luce casi di maltrattamento di anziani in alcuni istituti di ricovero, che
spesso hanno portato all’arresto di operatori socio-sanitari, di infermieri,
talvolta di medici. Tuttavia è altrettanto difficile conoscere l’incidenza del
maltrattamento degli anziani in queste strutture, sia per la reticenza dei loro
gestori, sia per il silenzio degli anziani ricoverati, che temono ritorsioni e
che spesso non hanno un adeguato sostegno familiare. Nell’unico rigoroso studio
a nostra disposizione sono stati intervistati 577 tra infermieri e assistenti
di 31 case di riposo del New Hampshire (Usa). Ebbene, il 36% degli intervistati
ha riferito di avere assistito all’abuso fisico sugli anziani ricoverati,
mentre l’81% ha assistito a casi di abuso psicologico.

In Italia, il fenomeno dell’abuso sugli
anziani è un problema sottovalutato sia per carenza di dati, che indicano una
quota di abusi intorno al 9% (anche qui un valore quasi certamente
sottostimato, dati i molti casi non denunciati), sia per la mancanza di una
specifica legislazione in merito.

Per definire un caso di abuso su persona
anziana, in Italia si fa riferimento ai seguenti articoli del Codice penale:
art. 570, sulla violazione degli obblighi di assistenza familiare; art. 571,
sull’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina; art. 572, sui
maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli; art. 591, sull’abbandono di
persone minori o incapaci; art. 643, sulla circonvenzione di persone incapaci (vedi box).

Abusatori
e abusati

Secondo il già citato Neias relativo agli
Usa, le categorie di anziani più a rischio di abusi sono le donne, gli ultraottantenni
e gli anziani con fragilità mentale e/o fisica. Secondo questo studio, per
quanto riguarda l’abuso psicologico, il 75% delle anziane vittime sono donne,
che salgono al 92% per quanto concee l’abuso finanziario. Inoltre i 2/3 dei
casi di autolesionismo denunciati sono di donne. Nella valutazione di questi
dati bisogna peraltro tenere in considerazione il fatto che la vita media della
donna è superiore a quella dell’uomo, pertanto, nella popolazione anziana, le
donne sono prevalenti. Gli ultraottantenni subiscono abuso nel 52% dei casi
(abuso fisico, psicologico, finanziario) e nel 45% dei casi sono vittime di
autolesionismo. Inoltre questo studio ha evidenziato che 3 su 4 anziani con
fragilità fisica e/o mentale sono vittime d’abuso o di disattenzione.

I perpetratori d’abuso sugli anziani sono
equamente distribuiti in entrambi i generi, sebbene vi sia una prevalenza dei
casi di disattenzione tra le donne, mentre le altre forme d’abuso sono
maggiormente commesse da uomini. Solitamente gli abusatori sono più giovani
delle loro vittime (65% sono sotto i 60 anni). In particolare, coloro che
commettono un abuso finanziario sono per il 45% al di sotto dei 40 anni. Nel
90% dei casi, abusatori e abusati sono parenti tra loro e i coniugi delle
vittime sono tra i più numerosi perpetratori di abuso domestico, sia per via di
una pregressa abitudine alla violenza domestica, sia, talvolta, per
l’appartenenza a credi religiosi, che non rispettano la parità tra i sessi e
che giustificano le prevaricazioni degli uomini sulle donne.

Talvolta gli abusatori dipendono
economicamente dalle vittime.

Nella prevenzione dei casi di abuso sugli
anziani è fondamentale il ruolo del medico, che ha sia un obbligo di
segnalazione dei casi d’abuso previsto dal Codice penale, sia un obbligo
dettato dal Codice di deontologia medica, il cui art. 29 dice che «il medico
deve contribuire a proteggere il minore, l’anziano e il disabile, in
particolare quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare, in cui
vivono, non sia sufficientemente sollecito alla cura della loro salute, ovvero
sia sede di maltrattamenti, violenze o abusi sessuali…». È altrettanto
importante il ruolo assunto dagli operatori sanitari e dagli assistenti
sociali. Queste figure, più facilmente di altre, dato il contatto diretto con
gli anziani e il loro nucleo familiare, possono mettere a fuoco la presenza di
fattori di rischio di abuso (vedi box). In
particolare, possono sottoporre gli anziani e i loro familiari a un’intervista
(svolta separatamente) con domande mirate a ottenere informazioni sulle
vessazioni subite o sul potenziale rischio di subirle. Nel caso del medico e
degli operatori sanitari è possibile rilevare, mediante esame fisico, la
presenza di segni riconducibili a forme di abuso. È inoltre fondamentale da
parte del medico verificare se vi siano nell’anziano dei problemi cognitivi o
psichiatrici, dal momento che questi, più di altri fattori, espongono a rischio
di abuso. È importante individuare anche eventuali fattori protettivi, che
possono essere individuali, come una buona condizione psicofisica e
socioeconomica, nonché essere di genere maschile; oppure possono essere di tipo
relazionale come fare parte di un’ampia rete sociale, con legami forti, che
limita il rischio di abbandono; oppure fattori protettivi legati all’ambiente,
come l’istituzione da parte della comunità di organizzazioni che sopperiscano
alle necessità dell’anziano e del suo caregiver. Nella
prevenzione degli abusi sugli anziani, oltre al ruolo svolto dal personale
sanitario, è importante quello svolto dagli operatori del diritto, mediante
l’applicazione di misure più efficaci come politiche governative e attenzione
legislativa incentrate sull’anziano, in aggiunta alle misure attualmente
presenti. Del resto, l’abuso sugli anziani rappresenta una violazione dei
diritti umani, nel momento in cui si verifichi la privazione della possibilità
di vivere in maniera degna e indipendente e di partecipare alla vita sociale e
culturale, principio che rappresenta un diritto fondamentale, sancito dall’art.
25 della Carta dei diritti dell’Unione europea.

Un
anziano «vale»

La prevenzione degli abusi sugli anziani è
molto importante, viste anche le conseguenze che essi possono avere. Gli abusi
infatti possono comportare costi sociali diretti e indiretti. Tra i primi vanno
annoverate le procedure di giustizia penale, l’assistenza ospedaliera, i
programmi di prevenzione, di educazione e di ricerca. Tra quelli indiretti ci
sono una ridotta produttività, la minore qualità della vita, le sofferenze emotive,
la perdita di fiducia e autostima, l’invalidità e i decessi prematuri, la
dipendenza da alcolici e farmaci, i disordini cronici dell’alimentazione, le
tendenze suicide.

Un ruolo fondamentale nella prevenzione degli
abusi agli anziani lo svolgono gli attori impegnati, tanto a scuola quanto in
famiglia, nell’educazione dei giovani, poiché l’abuso nasce soprattutto dalla
mancanza di consapevolezza del valore che l’anziano rappresenta. Purtroppo in
una società edonista come quella occidentale, in cui l’apparire conta più
dell’essere e si assiste a forme di smodata competizione, per raggiungere
livelli di carriera e di successo sempre maggiori, la figura dell’anziano,
lungi dall’essere considerata la depositaria di saggezza tipica del nostro
passato (o delle culture orientali), viene vista come quella di un perdente, di
una persona non più in grado di produrre e di conseguenza un peso per la società,
dalla quale viene via via emarginato. Sebbene gli anziani, specialmente i
nonni, rappresentino sempre più un pilastro per le loro famiglie sia di tipo
economico (il 10% dei nuclei famigliari sono sostenuti economicamente dai
nonni), che per l’accudimento dei nipoti, quando i genitori lavorano entrambi
(nel 30% dei casi i nonni badano ai nipoti), non appena cessano di svolgere
questi ruoli, con l’avanzare degli anni, essi in molti casi si trasformano in
un peso per i loro familiari. È a questo punto che si insinua il rischio di
abusi e di vessazioni o semplicemente la mancanza di rispetto. Tale esempio
rappresenta un messaggio molto negativo per i giovani della famiglia che,
divenuti adulti, potranno trasformarsi più facilmente in nuovi abusatori di
anziani.

Rosanna Novara
Topino


L’abuso
sugli anziani:

I
fattori di rischio

Fattori legati alla
persona anziana
: decadimento cognitivo, problemi comportamentali,
dipendenza da sostanze, malattie psichiatriche o problemi psicologici,
dipendenza funzionale, fragilità o salute cagionevole, basso reddito e/o
patrimonio limitato o inesistente, trauma o abuso pregresso, appartenenza a una
minoranza etnica, appartenenza al genere femminile.

Fattori legati al
perpetratore dell’abuso
: badante sottoposto a carico eccessivo di lavoro e
stress, malattie psichiatriche, problemi psicologici, dipendenza da sostanze.

Fattori legati alle
relazioni interpersonali
: disarmonia familiare, relazioni scarse o
conflittuali.

Fattori legati
all’ambiente
: scarso supporto sociale, coabitazione in condizioni di
disagio socio/economico o con persone che presentano fattori di rischio, come
possibili perpetratori d’abuso.

Codice Penale
Italiano

Art.
570: Violazione degli obblighi di assistenza familiare.

«Chiunque, abbandonando il domicilio, o comunque serbando
una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli
obblighi di assistenza inerenti alla patria potestà, alla tutela legale o alla
qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa.
Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:
– malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo
o del coniuge;
– fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età
minore ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia
legalmente separato per sua colpa».

Art.
571: Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

«Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina
in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per
ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, ovvero per
l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il
pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei
mesi.
Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano
le pene stabilite negli articoli 582 e 583 ridotte ad un terzo; se ne deriva la
morte, si applica la reclusione da tre a otto anni».

Art.
572: Maltrattamento in famiglia o verso i fanciulli.

«Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo
precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni
quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per
ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, o per l’esercizio
di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque
anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si
applica la reclusione da quattro a otto anni. Se ne deriva una lesione
gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la
reclusione da dodici a venti anni».

Art.
575: Omicidio.

«Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la
reclusione non inferiore ad anni ventuno».  (…)

Art.
577: Altre circostanze aggravanti.

«Si applica la pena dell’ergastolo se il fatto preveduto
dall’art. 575 è commesso:
1) contro l’ascendente o il discendente;
2) col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro
mezzo insidioso;
3) con premeditazione;
4) col concorso di talune delle circostanze indicate nei
numeri 1 e 4 dell’art. 61.
La pena è della reclusione da 24 a 30 anni, se il fatto è
commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre
adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta».

Art.
582: Lesione personale.

«Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla
quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione
da tre mesi a tre anni.
Se la malattia ha una durata non superiore ai venti
giorni e non occorre alcuna della circostanze aggravanti prevedute negli
articoli 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell’ultima
parte dell’art. 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa».

Art.
591: Abbandono di persone minori o incapaci.

«Chiunque abbandona una persona minore di anni
quattordici ovvero una persona incapace, per una malattia di mente o di corpo,
o per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale
abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a
cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino
italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello stato
per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal
fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la
morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio,
dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato».

Art.
643: Circonvenzione di persone incapaci.

«Chiunque per procurare a sé o ad altri un profitto,
abusando dei bisogni, delle passioni, o dell’inesperienza di una persona
minore, ovvero abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una
persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto,
che comporti qualsiasi effetto giuridico per lei dannoso, è punito con la
reclusione… e con la multa…».

 

Tag: Anziani, prevenzione, qualità della vita, abusi

Rosanna Novara Topino




5×1000, la lunga strada verso la chiarezza

A un mese dalle scadenze
per la presentazione della dichiarazione dei redditi proviamo a fare il punto
sul «cinque per mille» partendo dalla deliberazione della Corte dei Conti, che
non risparmia critiche al meccanismo attuale.

Troppi enti beneficiari e poca chiarezza su quello che davvero fanno,
otto amministrazioni pubbliche coinvolte fra Agenzia delle entrate e ministeri
per gestire conteggio e erogazioni dei fondi, ritardi cronici, elevati costi
per le procedure, contribuenti esclusi dalla possibilità di scegliere e «scippi»
da parte del governo, che trattiene una parte del denaro destinato dai
contribuenti declassando il cinque per mille a un effettivo quattro. Sono delle
vere bordate quelle che la Corte dei Conti, la magistratura che vigila sul
corretto uso dei fondi pubblici, riserva alla quota dell’imposta Irpef per
finalità di interesse sociale nella deliberazione 14/2014 dell’ottobre scorso.
In essa sono riportati i risultati della richiesta di chiarimenti alle
amministrazioni governative competenti chiamate in causa dalla stessa Corte,
con una precedente deliberazione del 2013.

Elementi di debolezza

A onor del vero, una prima «correzione» fra quelle
raccomandate dai magistrati contabili è stata fatta: con la legge di stabilità
2015 (articolo 1, comma 154), l’istituto del cinque per mille non è più «precario»,
cioè non deve essere rinnovato di anno in anno con una legge ad hoc, ma
entra stabilmente nel panorama normativo italiano. Tuttavia gli «elementi di
debolezza», come li definisce la Corte, sono ancora molti. A cominciare dal
fatto – è il primo punto della deliberazione – che i beneficiari sono troppi:
cinquantamila fra enti di volontariato, ricerca scientifica, ricerca sanitaria,
Comuni, associazioni sportive dilettantistiche e di tutela dei beni culturali e
paesaggistici. Quest’ultimo ambito presenta fra l’altro un’anomalia rispetto
agli altri: chi vuole dare il proprio cinque per mille alla cultura non ha la
possibilità di scegliere un ente riportandone il codice fiscale. Deve
semplicemente limitarsi ad apporre la firma nel riquadro relativo e sarà poi il
ministero dei Beni e delle Attività culturali (Mibac) a decidere a chi
destinare i fondi per le attività culturali, assegnandoli agli enti che hanno
fatto domanda al ministero e che hanno presentato un programma di attività e
interventi.

«Ciò suscita perplessità», rilevava la Corte già nella
deliberazione del 2013, poiché non permettere al contribuente di scegliere
l’ente «è in contrasto con la ratio stessa dell’istituto del cinque per mille»,
che mira a introdurre «una forma di democrazia fiscale all’interno
dell’ordinamento italiano».

Scarsa trasparenza

In contrasto con il principio di trasparenza e lealtà
nei confronti di chi paga le tasse sono, invece, gli ostacoli che impediscono
ai cittadini di acquisire rapidamente informazioni che consentano loro una
scelta consapevole: solo dal 2014 l’Agenzia delle entrate ha cominciato a
pubblicare gli elenchi degli ammessi e degli esclusi in forma aggregata, cioè
tutti insieme in un solo documento con importi e numero di scelte. Questo, fra
le altre cose, permette anche di vedere facilmente quali enti accedono al
cinque per mille in più di una categoria, ovvero, ad esempio, sia nella ricerca
medica che nel volontariato.

Farraginosità

Quanto alla farraginosità del meccanismo di conteggio,
attribuzione ed erogazione dei fondi, basti pensare che nel 2014 le quote
ripartite sono state quelle relative alle dichiarazioni Irpef del 2012,
riferite ai redditi dell’anno precedente. Le procedure amministrative connesse
al cinque per mille – iscrizione degli enti beneficiari agli elenchi, vaglio
delle rendicontazioni, mandati di tesoreria da approntare per procedere
all’erogazione, eccetera – sono troppo complesse, si legge nel rapporto, e le
amministrazioni stanno fra loro in un rapporto di scarso cornordinamento,
aggravato dalle disfunzioni intee di ciascuna di esse. Tutto questo ha ovviamente
un costo in termini di risorse umane e materiali impegnate da Agenzia e
ministeri.

Altra disfunzione rilevata dai guardiani contabili è
quella del rischio che intermediari e consulenti, assistendo il contribuente
nel fare la dichiarazione dei redditi, tentino di influenzae la scelta. Fra i
potenziali conflitti di interesse da tenere d’occhio ci sarebbero, secondo la
Corte, i Caf (centri di assistenza fiscale) appartenenti a enti che sono anche
beneficiari del cinque per mille o che hanno chiari legami con associazioni
beneficiarie e che potrebbero fare da «suggeritori» non disinteressati.

Tagli arbitrari

Vi è poi la questione del tetto di spesa, cioè la cifra
massima che lo stato si impegna a sborsare dopo il conteggio delle effettive
scelte dei contribuenti. Un esempio, riportato nella deliberazione del 2013:
per l’anno finanziario 2011, il totale dei fondi del cinque per mille destinati
dai contribuenti era di quasi 488 milioni di euro; di questi, lo stato ne ha
stanziati 395 poiché quello era il tetto stabilito nella legge finanziaria, cioè
la cifra per cui lo stato poteva impegnarsi data la situazione delle sue
finanze. Risultato: 93 milioni di euro che pure i cittadini avevano deciso di
destinare a enti o categorie di loro scelta non sono, di fatto, stati sborsati
ma utilizzati per altri fini. Ecco come, rifacendo i conti, il cinque per mille
era diventato un quattro e qualcosa.

La legge di stabilità 2015 ha aumentato il tetto di
spesa a 500 milioni di euro, provvedimento salutato dagli enti del no profit
con reazioni molto positive; l’eliminazione del tetto, tuttavia, rimane
l’auspicio della Corte che, in alternativa suggerisce: se non è possibile
eliminare il limite, almeno non si chiami l’istituto cinque per mille ma lo si «ribattezzi»
con la reale percentuale. «E? grave», si legge nella deliberazione, «che il
patto tra lo stato e i contribuenti venga sistematicamente violato,
analogamente a quanto accade per la quota dell’8 per mille di competenza
statale, che viene, spesso, dirottato su altre finalità rispetto a quelle
indicate».

I contribuenti

Il grosso delle destinazioni del cinque per mille viene
dai 730, i modelli presentati da dipendenti e pensionati: secondo gli
ultimi dati disponibili (2010), il 70% di questi contribuenti fanno una scelta in
merito al cinque per mille, contro il 26% di chi presenta l’Unico, per
lo più liberi professionisti. Quanto a chi usa il Cud, meno di un
contribuente su cento esprime la propria preferenza. Chi, invece, ha imposta
netta pari a zero, solo in un caso su cinque appone la firma mentre fra chi non
presenta la dichiarazione dei redditi la quota di optanti scende di nuovo sotto
l’un per cento. Secondo la Corte, questo quadro mostra che «risulta
disincentivata la partecipazione all’opzione di una rilevante quota di
cittadini, generalmente quelli più a basso reddito» e che c’è, rispetto
all’accesso alla scelta del cinque per mille, una differenza di trattamento fra
questi contribuenti e coloro che presentano 730 o Unico.

Le soglie

La deliberazione da un rilievo particolare al problema
delle soglie: secondo i magistrati contabili, distribuire le somme a quegli
enti che hanno ottenuto importi minimi non aiuta nessuno e meglio sarebbe
stabilire una quota sotto la quale il cinque per mille non viene sborsato
all’ente beneficiario ma ridistribuito fra chi ha ottenuto preferenze oltre la
soglia minima. Attualmente quest’ultima è 12 euro, una cifra – a detta della
Corte – che non fa alcuna differenza sulle finanze dell’ente e quindi sui suoi
eventuali assistiti, ma la cui distribuzione appesantisce la macchina
amministrativa: anche per erogare una somma così piccola occorrono calcoli e
procedure che impegnano impiegati e risorse dell’Agenzia e dei ministeri. Al
tempo stesso potrebbe essere opportuno stabilire una soglia verso l’alto. Gli
enti che ottengono già tanto con il cinque per mille dai sostenitori
potrebbero, suggerisce la Corte, essere esclusi dalla seconda distribuzione di
fondi, quella cioè che deriva dal cinque per mille dei contribuenti che non
scelgono un ente preciso ma solo la categoria.

Ultime, dolenti note sono secondo la Corte quelle
relative alle rendicontazioni: lenta, laboriosa e costosa la procedura per
verificare i rendiconti, cioè i documenti che i beneficiari presentano per
dimostrare come hanno usato i fondi ricevuti.

Focus sul
volontariato: frammentazione e dispersione

Gli organismi di volontariato fra cui il contribuente può
scegliere sono più di quarantamila, il doppio rispetto al 2006, anno di
introduzione del cinque per mille. A voler fare un conto della serva, dividendo
la popolazione italiana per il numero di enti si ottiene che c’è
un’organizzazione ogni 1.500 abitanti. È vero che questo costante aumento
degli enti senza fini di lucro rispecchia la
frammentazione dei bisogni della nostra società, dice la Corte, ma resta il
fatto che alcuni di questi «non producono alcun tipo di valore sociale», e cita
ad esempio le fondazioni politiche – oggi più che mai al centro di un dibattito
su come si finanzia la politica in vista della fine del finanziamento pubblico
ai partiti – o le associazioni di categorie professionali di avvocati, notai,
militari eccetera. A volte capita che un’organizzazione che può contare su
contribuenti con un alto reddito ottenga cifre alte pur avendo poche firme.

A questo si aggiunge che su quarantamila enti, oltre
novemila ottengono meno di cinquecento euro, e più di mille non hanno ottenuto
nemmeno una firma, segno che nemmeno il presidente sceglie la sua stessa onlus.
Questa situazione indica che le risorse del cinque per mille si disperdono in
tanti rivoli e che, in alcuni casi, non è nemmeno chiaro come e perché
un’organizzazione continui a sopravvivere. Occorrono controlli rigorosi che
misurino la reale utilità sociale degli enti ma, rilevano i magistrati
contabili, già su questo c’è un primo incaglio: il ministero del Lavoro e delle
Politiche sociali, l’amministrazione che meglio conosce il mondo
dell’associazionismo e le sue attività, non ha competenza nella compilazione
della lista dei beneficiari del cinque per mille, che è invece redatta
dall’Agenzia delle entrate, la quale si limita a verificare che le carte siano
in ordine.

Altro elemento rilevato dalla Corte già nel 2013 è che «attraverso
le attuali modalità di iscrizione e riparto, vengono agevolati, di fatto, gli
organismi di maggiori dimensioni e più strutturati», che possono investire in
promozione pubblicitaria e ottenere maggior visibilità. Risultato: «i primi 40
beneficiari si aggiudicano, costantemente negli anni, una percentuale di circa
il 30% del totale dei contributi» della categoria volontariato; la percentuale «sale
ad oltre il 90% per la ricerca scientifica e supera costantemente il 97% per
quella sanitaria».

Fra gli enti di volontariato esclusi dal cinque per
mille ci sono gli enti di natura pubblica. Ecco che, sottolinea la
magistratura, resta fuori dai beneficiari un’organizzazione come la Croce Rossa
Italiana, «pure percepita da molti contribuenti meritevole di sovvenzionamento».

Chiara Giovetti



I numeri del cinque
per mille

Contribuenti che
esprimono la preferenza:
oltre 16 milioni (55% del totale).

Categorie beneficiarie:
volontariato, ricerca scientifica, ricerca medica, beni culturali e
paesaggistici, Comuni, associazioni sportive dilettantistiche.

Enti beneficiari:
circa 50 mila, di cui 40 mila enti del volontariato.

Cifre erogate
(ultimi dati disponibili: 2012, redditi 2011): 393 milioni di euro, di cui 264
milioni al volontariato.

Media nazionale:
intorno ai 25 euro a contribuente (ma cambia molto a seconda del reddito; media
MCOnlus 33 ca.).

Principali differenze
con l’otto per mille
: l’otto per mille va allo stato o a una confessione
religiosa, il cinque per mille a una delle sei categorie o a uno dei
cinquantamila enti sopra; inoltre, l’otto per mille non destinato viene
comunque distribuito fra stato e confessioni, mentre il cinque per mille non
destinato rimane allo stato.

Come funziona:
quando si fa la dichiarazione dei redditi, nell’apposito formulario si riporta
il codice fiscale dell’ente che si vuole sostenere e si appone la firma, oppure
si appone solo la firma scegliendo così non uno specifico ente ma una categoria.
Questo secondo tipo di scelta fa sì che i fondi siano ripartiti per i membri di
quella categoria.

_____________

Destinare il cinque per mille non ha alcun costo per il
contribuente; per contro, non destinarlo non significa tenerlo per sé perché
comunque verrà trattenuto dallo stato per le spese destinate alla produzione e
al funzionamento dei servizi pubblici.

TaG: volontariato, 5×1000, cinque per mille, tasse, stato, cooperazione

Chiara Giovetti




I Perdenti 5. Montezuma e Atahualpa

 

Montezuma (1466 circa – 29 giugno 1520),
ultimo imperatore azteco, prima di salire al potere era un capo locale
lungimirante e un buon amministratore. Fra i suoi compiti c’era anche quello di
esercitare il sacerdozio a servizio degli dei del suo popolo. Dopo la sua
ascesa al trono nel 1502, tutto cambiò: divenne dispotico e violento,
superstizioso e con un carattere insicuro e altalenante. Il giorno della sua
incoronazione fece uccidere diverse migliaia di prigionieri sacrificandoli agli
dei perché lo proteggessero e lo custodissero lungo tutta la sua vita.

Le poche volte
che si mostrava ai suoi sudditi si presentava sempre con abiti sfarzosi ed
eleganti. Viveva in una enorme reggia dove le sue due mogli e le numerose
concubine erano circondate da un lusso inimmaginabile.

Atahualpa (20 marzo 1497 – 23 agosto 1533), è
stato l’ultimo sovrano dell’Impero Inca, giunto al potere dopo aver sconfitto
il fratellastro Huascar alla fine di una lunga guerra civile, regnò di fatto
solo un paio d’anni, quelli cruciali dell’incontro delle due culture indigena
ed europea. Nelle diverse biografie che ci sono giunte viene presentato come un
sovrano che goveò senza saggezza il vasto impero che aveva conquistato. Di
famiglia nobile, era legato con vincoli di parentela alle famiglie che
controllavano porzioni del suo territorio, una situazione instabile che di
volta in volta determinava conflitti o accordi precari con vari maggiorenti
dell’impero.

Voi due siete gli
ultimi sovrani degli imperi Azteco e Inca. Avete vissuto un momento cruciale
della storia dei vostri popoli: l’incontro con due personaggi come Hean
Cortés e Francisco Pizarro, che incarnavano la sete di conquista e la bramosia
di ricchezza dei conquistadores.


Parlateci un po’ di voi, come si svolgeva la vita della vostra gente prima
dell’arrivo degli spagnoli?

Montezuma: Considerando che l’impero Azteco di
cui io ero il monarca assoluto, aveva praticamente sconfitto tutte le popolazioni
(Maya compresi) che vivevano in quello che adesso è grosso modo il territorio
del Messico, del Guatemala e di altri paesi centroamericani, si può dire che
vivevamo senza grosse preoccupazioni e con un certo benessere.

Atahualpa: Noi Incas vivevamo in quello che
adesso è il territorio del Perù, dell’Ecuador e del Nord del Cile. Un
territorio immenso di difficile controllo, tant’è vero che una delle attività
principali dei sovrani incaici era appunto quella di mantenere in buono stato
una rete di strade e sentirneri per far sì che i funzionari potessero arrivare
nel più breve tempo possibile fino ai villaggi posti agli estremi confini
dell’impero.

L’arrivo dei
conquistadores fu allora come un fulmine a ciel sereno.

Montezuma: In un primo momento fummo affascinati
da questi uomini bianchi dalle lunghe barbe, benché puzzassero oltre ogni
immaginazione; avevano strani bastoni lucenti che provocavano il tuono e la
folgore e ancora più strani ed enormi animali dai piedi di argento.

Atahualpa: Il fatto di vederli sopra quelle
bestie che noi non avevamo mai visto, in quanto gli animali più grossi presenti
nelle nostre terre erano il lama, l’alpaca e la vicuña, li rendeva ai nostri
occhi delle persone eccezionali, capaci di percorrere distanze molto superiori
a quelle che abitualmente facevamo noi a piedi.

Avevate coscienza che
prima o poi sarebbero arrivate genti da Oriente?

Montezuma: Rileggendo alcuni fatti antecedenti
l’arrivo dei conquistadores, capimmo una vecchia leggenda che annunciava alcuni
segni premonitori del crollo dell’impero Azteco. Infatti negli ultimi tempi era
apparsa una cometa in pieno giorno, alcuni avevano visto una colonna di fuoco
nel cielo notturno, un fulmine aveva colpito il tempio dei sacrifici e c’era
stata un’inondazione spaventosa come non se ne erano viste mai. Tutti segni di
morte che non lasciavano prevedere niente di buono per il futuro.

Atahualpa: I nostri saggi si tramandavano da
generazioni una profezia che parlava di genti diverse provenienti dal mare e da
terre lontane. Essi non entravano nei dettagli per non spaventare il popolo con
i foschi presagi della distruzione del nostro impero.

Quando vi siete
trovati davanti i conquistadores, qual è stata la vostra prima reazione?

Montezuma: Quando gli uomini bianchi arrivarono
nella nostra città, noi andammo loro incontro accogliendoli con tutti gli onori
dovuti agli ospiti e cercammo in ogni modo di soddisfare le loro richieste.

Atahualpa: Visto che non erano neanche un
centinaio, non mi preoccupai più di tanto, anzi, pensavo che proprio
l’accoglierli come ospiti di riguardo avrebbe permesso a me e alla mia gente di
vivere in pace con loro.

Quindi li faceste
entrare nei vostri palazzi.

Montezuma: Riservai a Cortés, il loro capo, uno
degli appartamenti regali e lasciai che i suoi uomini si sistemassero nelle
case di Tenochtitlan.

Atahualpa: Anch’io feci alloggiare il
comandante Pizarro in una casa riservata alla nobiltà, mentre i suoi uomini
venivano ospitati dalla gente che viveva vicino al palazzo imperiale.

Però dopo poco tempo
vi rendeste conto di quale fosse ciò che stava più a cuore a questi uomini.

Montezuma: Essi non facevano altro che
chiederci dove potevano trovare l’oro, se questo minerale fosse lontano dalla
costa e di come avrebbero potuto trasportarlo rapidamente alle loro navi.

Atahualpa: Anche da noi sembrava che la
richiesta maggiore fosse legata proprio all’oro, da noi utilizzato solo per
rendere più lucenti determinati oggetti di uso domestico.

Ma voi li sentivate
come avversari e nemici o come ospiti che, come erano giunti, prima o poi se ne
sarebbero andati?

Montezuma: La loro insistenza nel richiedere
oro e nell’avanzare pretese di ogni tipo riguardo le nostre donne, insinuò in
noi il dubbio che non fossero poi tanto cordiali come volevano presentarsi.
Anzi!

Atahualpa: Considerando le armi che possedevano
e gli animali che avevano, pensai addirittura di farmeli alleati per
fronteggiare eventuali nemici che insidiassero il mio Regno.

Come arrivaste ad
avere un conflitto con loro?

Montezuma: Ogni giorno che passava i nuovi
arrivati si comportavano sempre più da padroni, si appropriarono di quella che
era la nostra terra e quello che è peggio, prendevano i nostri giovani e li
facevano lavorare per loro trattandoli come schiavi.

Atahualpa: Si installarono nel mio palazzo e
praticamente mi tolsero ogni libertà di azione, pur rimanendo io il capo del
mio popolo, erano loro che davano gli ordini. Per la mia libertà arrivarono a
chiedere un riscatto: riempire un grande locale con tutto l’oro che riuscivamo
a trovare. Purtroppo anch’io caddi nella loro trappola invitando il mio popolo
ad assecondare i loro desideri.

Oltre a queste
richieste, ci furono altri motivi di attrito tra voi e gli spagnoli?

Montezuma: Cortés, comandante degli spagnoli,
diede ordine ai suoi uomini di distruggere tutte le immagini dei nostri dei e
le decorazioni sacre che li onoravano. Mentre compivano queste devastazioni, la
folla si sollevò dando così il pretesto per un eccidio che passò alla storia
come «Massacro del Tempio Grande». Per evitare ulteriori sofferenze mi
affacciai al balcone invitando la mia gente a ritirarsi. Credendo che io fossi
complice di quell’efferatezza, il mio popolo scagliò pietre e frecce anche contro
di me.

Atahualpa: I notabili spagnoli mi dissero che
essi erano giunti nelle mie terre perché il mio popolo si convertisse al
cristianesimo e noi riconoscessimo l’autorità di Re Carlo I di Spagna. Risposi
che io non sarei mai stato sottomesso a nessun re, a quel punto Pizarro diede
l’ordine di attaccare i miei uomini e di distruggere tutto ciò che trovavano
sul loro cammino. Fu una vera ecatombe, morirono migliaia di Incas, mentre io
durante la battaglia rimanevo in piedi circondato dai nobili più fedeli. Alla
fine fui catturato e imprigionato nel Tempio del Sole.

Questi avvenimenti
così drammatici posero fine alla vostra vita?

Montezuma: Ferito dalle pietre e dalle frecce
che mi avevano tirato, caddi a terra circondato dai conquistadores, i quali dopo
alcuni giorni mi tolsero la vita facendomi ingerire oro fuso.

Atahualpa: Nonostante il pagamento dell’enorme
riscatto, venni processato e condannato a bruciare sul rogo. Se avessi
accettato di convertirmi al cattolicesimo la mia pena sarebbe stata commutata.
Nella mia cultura era importante conservare l’integrità del corpo per accedere
all’immortalità, pertanto accettai di essere battezzato e fui ucciso mediante
strangolamento.

 

Con la morte dei loro
capi, il popolo Azteco e quello Inca, attraversarono un momento di sbandamento,
iniziarono la loro parabola discendente e vennero soggiogati dai nuovi
arrivati. La storia di queste comunità quindi, si mescola con la storia di
altri popoli precolombiani che subirono la stessa sorte. Gli spagnoli,
conquistate le loro terre, li inglobarono nella nuova realtà e nella società
che stava nascendo. Sterminate in larga misura le popolazioni amerinde e fatti
arrivare

dall’Africa gli
schiavi neri per sopperire alla scarsità di mano d’opera per le immense
coltivazioni che si avviavano in quegli anni, il continente americano diede
vita a una nuova umanità. Ben riassunta, questa, da una lapide posta nella
piazza delle Tre Culture a Città del Messico per ricordare l’incontro-scontro
fra popoli diversi, dove sono scolpite queste suggestive e commoventi parole:
«No fue triunfo ni derrota. Fue el doloroso nacimiento del pueblo mestizo que
es el Mexico de hoy». (Non fu trionfo né sconfitta. Fu la dolorosa nascita del
popolo meticcio che è il Messico di oggi).

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




Brunei la ricca, sulla via della sharia

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 29

È uno dei più ricchi
paesi del Sud Est asiatico grazie all’esportazione di petrolio. Tra i paradisi
fiscali maggiormente «frequentati». Conta una popolazione di 400mila persone
distribuite su un territorio poco più grande del Molise. Dal 1 maggio 2014, per
tappe successive, sta riformando il proprio codice penale nella direzione della
Sharia: «Un atto di fede e gratitudine nei confronti di Allah, l’onnipotente»,
ha dichiarato il suo sultano.

Un anno fa il pacifico e benestante
sultanato del Brunei virava verso l’islamismo. Ad annunciarlo, lo stesso
Hassanal Bolkiah, sultano del paese dal 1967: «Sono grato ad Allah
l’onnipotente nell’annunciare che il 1° maggio [2014] vedrà la luce la prima
fase dell’applicazione della legge coranica».

Le regole del nuovo codice penale
saranno estese gradualmente fino a sostituire le precedenti e saranno
caratterizzate da un’inasprimento rilevante delle pene. Il «nuovo corso» di
rigida applicazione della legge coranica contrasta con il passato del paese
segnato da un’interpretazione dell’Islam più liberale, utile anche a
legittimare la ricchezza sfacciata e gli eccessi dei regnanti (è degli inizi di
aprile scorso la notizia delle sfarzose nozze del figlio del sultano, segnate
da bouquet di pietre preziose, abiti d’oro, scarpe di diamanti, ndr).

Il nuovo codice penale è uno degli
strumenti che l’oggi 68enne sovrano sta mettendo in campo, oltre alla decisione
di limitare poteri e spese proprie e dei consanguinei, per risollevare la
dignità nazionale e il livello delle casse pubbliche di un paese su cui
esercita un potere quasi assoluto.

Dopo un avvio complesso e più volte
ritardato, il controverso codice penale basato sulla Sharia ha visto finora
un’applicazione graduale con scarsi risultati.

Già in vigore da tempo, in modo
parziale, in ambito civile, a esempio quello familiare, la Sharia è ora legge
di riferimento. Sulla carta, i provvedimenti sono gli stessi, severi e arcaici,
che vengono già applicati altrove: tra essi, l’amputazione delle mani per i
ladri, la fustigazione per reati che includono aborto e uso di alcolici, la
lapidazione per adulterio e sodomia.

Le nuove regole non riguardano solo i
musulmani che rappresentano la grande maggioranza della popolazione, ma anche
la folta comunità immigrata, tra cui diversi cristiani, necessaria al
funzionamento del paese e alle necessità di aziende e famiglie.

Svolta integralista

Benché nel Brunei le manifestazioni
di dissenso verso le decisioni del sovrano e in generale delle autorità, siano
assai rare, le nuove norme hanno suscitato perplessità e proteste da parte
della popolazione sia musulmana che non: attivisti e semplici cittadini hanno
trovato su internet e nei social media strumenti di cornordinamento e
diffusione del loro disagio.

Forte il timore che la legge crei
particolare ostilità e discriminazione nei confronti dei non musulmani. A esprimerlo
sono soprattutto i cinesi, che rappresentano il 15% dei 400mila abitanti del
paese, ma anche gli immigrati, in parte di fede cristiana.

Avvicinandosi la data del 1° maggio
2014, l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani aveva espresso «profonda
preoccupazione» per le pene previste dalle nuove norme, considerate – aveva
segnalato – alla stregua di «tortura o altri trattamenti o punizioni crudeli,
inumani e degradanti».

Con questo provvedimento, il Brunei
va ad aggiungersi all’elenco di quei paesi dotati di leggi draconiane di stampo
religioso, e si mette in una posizione disagevole tra vicini musulmani di ben
altre dimensioni e influenza (ma di minore benessere procapite), come Malesia e
Indonesia, che cercano di contrastare le pretese della politica d’ispirazione
islamista.

La fisionomia del nuovo codice penale
è stata fortemente plasmata dallo stesso sovrano Hassanal Bolkiah. Il sultano
ha specificato che l’emanazione della legge islamica era in cantiere da anni,
in discussione almeno dal 1996, e che «con l’entrata in vigore della presente
legge, adempiamo al nostro dovere verso Allah».

Hassanal, è erede di una famiglia al
potere da sei secoli, passata indenne attraverso conflitti e dominazioni
coloniali, ultima quella britannica che ha imposto un protettorato terminato
soltanto nel 1984. Proprio codici di ispirazione anglosassone avevano finora
definito delitti e pene, mentre la legge religiosa restava relegata alle
contese personali o familiari.

Con i suoi sudditi al 70% di etnia
malese, concentrati per oltre metà nella capitale Bandar Seri Begawan, e per il
resto sparsi su 5.770 chilometri quadrati di territorio, il Brunei si affaccia
su un mare ricco di petrolio e di gas, ed è tra gli stati più benestanti al
mondo con un tenore di vita elevato, sanità e istruzione gratuite. Nonostante
il benessere procapite superiore a quello di molti vicini, e nonostante
l’influenza britannica, da tempo il paese presenta una forma di Islam meno
tollerante rispetto a quello dei due partner regionali già citati, con forti
limitazioni alla presenza di fedi diverse, il bando degli alcornolici, la rigida
applicazione delle regole morali. All’apparenza è una situazione funzionale
all’immagine che la monarchia vorrebbe dare di sé, all’acquisizione di un ruolo
diverso nella regione e anche ai lucrosi rapporti con le petro-monarchie del
Golfo.

La legge e le reazioni

Le difficoltà del sultanato negli
ultimi dodici mesi, comunque, non sono solo quelle date dal dissenso interno o
da quello di carattere diplomatico, ma anche quelle relative alla scarsità di
avvocati in grado di consentire il funzionamento dei tribunali e l’approdo a
giudizi equi e legalmente ineccepibili.

Sui 103 avvocati che, a partire dal
2003, si sono qualificati e successivamente registrati per operare nell’ambito
della legislazione di ispirazione religiosa islamica, solo 16 hanno fatto
domanda di operare nei tribunali islamici. A confermarlo qualche tempo fa, il
giudice di uno di questi tribunali, Yahya Ibrahim, che ne definisce «insoddisfacente»
il numero, ancor più considerando che, in base all’Ordinanza 2013 sul Codice
penale della Sharia, agli avvocati viene chiesto di giocare un ruolo importante
nei dibattimenti a sostegno di sentenze corrette ed efficaci.

Per legge, infatti, gli avvocati
specializzati in legge coranica dovrebbero essere almeno la metà di quelli
registrati in ciascun tribunale, ha affermato Ibrahim durante la cerimonia di
consegna dei certificati ufficiali ai 26 avvocati che avevano completato la
preparazione in questa particolare branca giuridica. Il giudice ha anche
suggerito una seria indagine sulle ragioni per cui essere un avvocato
specializzato nella Sharia sembra al momento poco appetibile per i
professionisti.

Nel loro complesso, le nuove pene,
indicate dal sultano come una «barriera contro negativi influssi estei», sono
state salutate con grande scetticismo e, per la prima volta, come già scritto,
da una vera e propria ondata di proteste attraverso i social media.

Non a caso, recentemente il sultano
ha parlato della monarchia islamica come di un «firewall (il “muro
tagliafuoco” che difende una rete informatica da attacchi estei, ndr.)
contro la globalizzazione». Certamente dedita al controllo dei sudditi, tanto
che, al primo manifestarsi di voci dissidenti riguardo l’introduzione piena
della Sharia, ha avvertito, tramite un messaggio consegnato ai media ufficiali:
«I nostri denigratori non possono continuare con questi insulti. Se ci sono
elementi che consentiranno di portarli in tribunale, allora la prima fase di
attuazione del codice penale islamico avrà un’applicazione certa nei loro
confronti». Non viene specificato chi siano i destinatari del messaggio, i «denigratori»,
ma in un paese in cui i mezzi di comunicazione tradizionali sono strettamente
regolamentati e dove la presenza di inteauti è invece tra le più alte in
Asia, è probabile che nel mirino ci fossero proprio la grande rete e i suoi
strumenti. Infatti proprio su blog e social network cresce la
preoccupazione verso le nuovo norme. Come riportato in uno dei molti posts:
«Fa davvero paura la possibilità di essere lapidati a morte per essere amanti o
multati per diversità sessuale oppure essere puniti per un abbigliamento non
considerato conforme alla morale».

Morale dinastica

Se la levata di scudi contro il
provvedimento ha mostrato quanto poco esso sia sentito come funzionale alla
propria vita dalla popolazione autoctona o immigrata, resta da chiarire quali
siamo le vere ragioni dietro l’introduzione nella versione più severa (almeno
sulla carta) del codice penale islamico. Dalla varietà delle analisi in
proposito, emergono tre punti di convergenza.

Il primo è quello dell’identità nazionale, strettamente legata a quella della sua monarchia. Il passato ha
dimostrato la fragilità del sultanato davanti a potenze straniere. Se tra il XV
e il XVII secolo era stato al centro di un dominio esteso dal Boeo alle
Filippine, ai giapponesi occorse una settimana per conquistarlo durante la
Seconda guerra mondiale. Una fragilità che resta caratteristica del paese anche
oggi. Da qui la necessità di rafforzare (primo tra i paesi dell’area con questa
radicalità) l’identità nazionale attraverso l’ideologia di una «monarchia
islamica malese». Hassanal Bolkiah, al potere dal 1967, noto per disporre,
almeno in passato, di harem rigogliosi nel suo palazzo di 1700 stanze, ha
deciso di cambiare drasticamente l’immagine del suo regno e la propria,
puntando sull’islamizzazione non più solo di facciata.

Secondo punto da considerare è che
l’applicazione severa della Sharia fornisce al sultano – il quale è leader sia
temporale che spirituale – un nuovo potere di controllo in un sistema
che presenta crescenti segnali di disagio. Per questo motivo i gruppi e gli
individui che già prima lamentavano poca libertà e diritti, temono un ulteriore
peggioramento, in contrasto con le loro richieste di maggiore apertura
ideologica e culturale. La gran parte dei cittadini è infatti impiegata nel
settore pubblico, ma al livello di preparazione dei giovani non corrisponde un’adeguata
disponibilità di posti di lavoro qualificati, cosa che determina una
disoccupazione limitata ma in crescita. Il fenomeno è causa di una maggiore
disaffezione al proprio paese nelle fasce d’età inferiori che cercano in
attività come l’uso intensivo del web, il vandalismo, l’uso di anfetamine e la
microcriminalità, alternative alla noia e alla demotivazione. Una situazione
che il sultano ha addebitato a negative influenze estee e a un’adesione solo
parziale al dettato coranico che va rettificata.

Terzo punto, quello economico-diplomatico,
per molti centrale. La legge in vigore, per un biennio in fase transitoria,
consentirà infatti al Brunei di diventare il centro della finanza e del sistema
creditizio islamico nella regione, accogliendo anche maggiori investimenti
dalle economie islamiche, con una differenziazione maggiore di attori e
tipologie d’impresa. Con una svolta netta rispetto alla sua finora quasi
completa dipendenza dalle risorse petrolifere, esportate soprattutto in
Giappone e Corea del Sud, il paese ha deciso di sfruttare le prospettive di
crescita dell’economia islamica globale. Questa, che un rapporto di Thomson
Reuters
stima in un potenziale del valore di 5.000 miliardi di dollari, in
parte consistente dovrebbe convergere sul Sud Est asiatico, sull’Indonesia e la
Malesia.

Una situazione di cui il sultanato,
che punta a diventare una «Singapore musulmana», vuole approfittare dandosi più
salde radici islamiche, un sistema penale e civile consequenziale e strutture
finanziarie-economiche basate sul diritto religioso per attrarre iniziative e
investimenti da Medio Oriente e Asia occidentale.

Una scommessa per il futuro che
potrebbe farlo diventare, suo malgrado, un centro di diffusione dell’ideologia
integralista di matrice araba, e un santuario finanziario per gruppi jihadisti
globali nel cuore dell’Asia.

Stefano Vecchia

Tag: Sharia, Sultanato, Libertà religiosa, Paradiso fiscale, Petrolio

Stefano Vecchia