I Perdenti 4: Metz Yeghérn, il Grande Male

 

Il 24 aprile
si è commemorato il centenario del genocidio del popolo armeno, un crimine
efferato che la Turchia non ha ancora riconosciuto come una delle pagine più
nere della sua storia, in cui furono steminate e deportate milioni di persone.
Per capire l’origine del Grande Male o Metz Yeghé, come è definito il
genocidio in lingua armena, bisogna risalire al 1877. Dopo una guerra tra la
Russia zarista (sostenuta dall’Impero Austroungarico) e l’Impero Ottomano
(sostenuto dall’Inghilterra), Romania, Montenegro e Serbia divennero
indipendenti, nacque la grande Bulgaria tributaria dell’impero e il territorio
dell’Armenia venne diviso tra le due potenze contendenti. Nel trattato di pace
che ne seguì (pace di Santo Stefano, 3 marzo 1878) venne inserita una clausola
che affidava alla Russia la tutela della minoranza armena, in gran parte
cristiana ortodossa, presente nell’Impero Ottomano. Questa clausola non fu mai
del tutto accettata dalla Sublime Porta (così veniva chiamata la Corte del
Sultano a Kostantiniyye, l’antica Costantinopoli, dal 1923 rinominata
Istanbul) né dagli Ufficiali del Movimento dei Giovani Turchi che di lì a pochi
anni avrebbero preso il potere. Volendo realizzare una nazione etnicamente
omogenea, ogni enclave era vista come possibile testa di ponte delle potenze
straniere ostili che già avevano umiliato l’impero. L’Armenia era vista per
questo come una minaccia permanente. Nacque tra la popolazione turca, e venne
alimentato ad arte dai suoi governanti, un sentimento di ostilità nei confronti
degli armeni che si concretizzò in massacri di innocenti, costringendo i
sopravvissuti a penose migrazioni. Nel nostro colloquio con donna Zorair, icona
immaginaria, vittima di quella persecuzione, cerchiamo di essere fedeli alla
verità storica per ridare dignità a un popolo profondamente umiliato nel corso
della storia.


Zorair,
perché tanto odio da parte dei Turchi nei confronti della tua gente?

Non riusciamo a capire neanche noi. Per
secoli avevamo vissuto all’interno dell’Impero Ottomano in pace, seppur gravati
da tasse extra (la jizya, tassa di protezione) in quanto cristiani.
Tutto sommato eravamo rispettati e ben voluti, anzi ti dirò di più, il nostro millet
(con questo termine la Sublime Porta definiva le varie comunità etnico
religiose che componevano il variegato mondo che faceva riferimento a
Costantinopoli, ndr) era uno di quelli più tenuti in considerazione.

Ma
all’origine di tutto, se non sbaglio, ci fu una guerra tra la Russia zarista e
l’Impero Ottomano.

Sì. Nel 1877 ci fu una vera guerra tra queste
due potenze e l’Impero Ottomano, già considerato il grande malato da tutte le
cancellerie europee, fu sconfitto, umiliato e privato di molti dei suoi
territori. Nel trattato di pace che seguì venne inserita una clausola in cui si
diceva che la Russia zarista diventava «garante e protettrice» delle comunità
cristiane che vivevano all’interno di quel che rimaneva del pur sempre vasto
impero.

In
questo modo, però, ogni comunità cristiana era vista alla stregua di una
possibile testa di ponte delle cosiddette potenze cristiane.

Credo proprio di sì. I Giovani Turchi, il
gruppo di ufficiali che faceva capo a Kemal Ataturk, vedendo profilarsi
all’orizzonte la disgregazione dell’Impero Ottomano e preconizzando una Turchia
basata su un unico popolo, una lingua e una fede, pur dichiarandosi laici,
cominciarono a vedere i cristiani come corpi estranei, potenzialmente
pericolosi, da sorvegliare ed eventualmente da eliminare.

Allora
è per questo che quella che per anni è stata considerata la laicissima Turchia
non ha nessuna comunità cristiana consistente se non piccolissime minoranze?

Certo. Per quanto riguarda la base etnica
della sua popolazione, dopo aver eliminato gli Armeni nel 1915, ha lasciato che
i pochi superstiti si rifugiassero nell’Armenia, stato allora indipendente ma
poi fagocitato nel 1922 nell’Unione Sovietica. Allo stesso tempo ha confinato i
Curdi in zone periferiche definendoli «turchi delle montagne». La tragedia del
nostro popolo è che può definirsi «perdente» per antonomasia, proprio perché,
dopo essere stati incarcerati, deportati, uccisi, siamo stati ignorati dal
resto del mondo per troppo tempo, forse perché le potenze europee non erano
esenti da responsabilità nel causare l’odio turco nei nostri confronti.

Quello
che l’Impero Ottomano non aveva fatto per secoli, l’ideologia Kemalista l’ha
realizzato in pochi anni.

È proprio così. Questa soluzione finale noi
la chiamiamo Metz Yeghe o Grande Male ed è all’origine della diaspora
armena. Ricordo che il mio popolo, oltre che essere stato il primo nella storia
a definirsi «Regno cristiano», è sempre stato illuminato da una cultura
vivacissima che ha trovato nella poesia e nella letteratura uno straordinario veicolo
di coesione nazionale.

Quando
cominciarono i primi soprusi nei vostri confronti?

Nel 1909, dopo che si era affermato il
movimento dei Giovani Turchi. Questi, per paura che la popolazione armena si
alleasse con la Russia zarista, spinsero il governo a emanare delle leggi che
ne restringessero sempre più il campo d’azione, e nella regione della Cilicia
vennero eliminate almeno trentamila persone.

Perché
celebrate la data del genocidio armeno il 24 aprile?

Perché nella notte di quel giorno, nel 1915, vennero
eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli e si ufficializzò
l’eliminazione fisica degli armeni dell’Impero Ottomano. In pochi giorni furono
uccisi più di mille intellettuali armeni, scrittori, poeti, giornalisti,
perfino delegati al Parlamento; quindi furono compiuti arresti di massa e si
iniziarono le deportazioni verso l’interno dell’Anatolia con massacri lungo la
strada.

Le
deportazioni inflissero sofferenze e patimenti inenarrabili alla popolazione
armena…

Queste deportazioni furono definite «marce
della morte» e coinvolsero circa un milione e mezzo di persone. Centinaia di
migliaia, in maggioranza donne e bambini, morirono lungo il percorso di fame,
sfinimento e malattie.

La
responsabilità di questi eventi è da imputare solo all’Impero Ottomano?

L’organizzazione e la cura delle deportazioni
furono compiute in massima parte dai militari che facevano riferimento ai
Giovani Turchi, questi a loro volta erano addestrati da ufficiali dell’esercito
tedesco, in virtù di un accordo tra l’Impero Germanico e l’Impero Ottomano.
Miglia di persone inoltre furono massacrate nei loro villaggi o negli
spostamenti che ne seguirono dalle milizie curde e dall’esercito turco.

Negli
anni in cui si compì la tragedia della deportazione e dell’eccidio degli armeni
le Cancellerie Europee non reagirono?

Tutte le legazioni diplomatiche europee non
mancarono di riferire ai rispettivi governi ciò che succedeva nella nostra
terra, ma essi restarono indifferenti all’immane tragedia che si stava
consumando. Queste notizie non influirono minimamente su nessuna delle
Cancellerie europee.

Si
può dire quindi che la brutalità nei vostri confronti messa in atto dai Giovani
Turchi, che arrivò a compiere il primo genocidio del secolo ventesimo, non
provocò nessuna reazione, né politica né militare né diplomatica?

Purtroppo il genocidio perpetrato contro gli
armeni fece scuola. Narrano i biografi di Hitler che, pianificando lo sterminio
degli ebrei, egli si sia lasciato scappare una frase illuminante: «Del genocidio
degli Armeni chi ne parla più ormai?». Erano passati poco più di vent’anni e si
programmava un altro sterminio, l’Olocausto del popolo ebraico.

Il governo turco continua ancora oggi a
rifiutare di riconoscere il genocidio a danno degli Armeni, preferendo la
versione che sia stata una guerra civile aggravata dalla carestia, un fatto
interno all’Impero Ottomano. L’Unione Europea però ha posto il riconoscimento
del genocidio armeno come una delle clausole per l’ammissione della Turchia
all’Ue. La Francia punisce con il carcere la negazione del genocidio armeno. Al
contrario la magistratura turca infligge la stessa punizione a coloro che
nominano in pubblico l’esistenza del genocidio armeno, ritenendolo un atto anti
patriottico. Va segnalato che ultimamente la Turchia sembra aver dato prova di
buona volontà riaprendo alcune chiese armene nel Sud del paese, ma non va
sottaciuto però che la gran parte dell’opinione pubblica si oppone tenacemente
a queste misure.


Fare memoria oggi di quei tragici
avvenimenti, ricordare i drammi del passato, non dimenticare i morti innocenti,
è un monito illuminante per tutti noi che non vogliamo più che simili crimini
si compiano nella storia.

Don Mario Bandera,
Missio Novara

Tags: Armeni, genocidio, Grande Male, perdenti

Mario Bandera




Amico

 

A ssomigliano all’indemoniato di Gerasa posseduto dalla Legione (Mc
5,1-20) questo nostro mondo e l’uomo che lo abita: sembra che non riescano a
fare a meno di dimorare nei sepolcri e di gridare continuamente sui monti,
percuotendosi con pietre notte e giorno. Sembrano assillati da una moltitudine
di demoni, ciascuno dei quali ha il suo modo di manifestarsi, le sue personali
strategie persecutorie, ciascuno dei quali parla la propria lingua. Assillati
anche dai molti che, stringendoli in ceppi e catene, intraprendono tentativi
per «ridurli» alla normalità, per impedire loro di nuocere, per eliminare l’imperfezione
dall’umanità.

Il
Vangelo racconta di come Gesù liberi l’indemoniato mandando la Legione in una
mandria di porci, e di come questi si lancino dal dirupo nel mare di Galilea.
Lo stesso mare nel quale, qualche ora prima, i discepoli di Gesù avevano temuto
di inabissarsi, e avevano urlato al Maestro: «Non t’importa che moriamo?».

Il
mare di Galilea è simbolo, tra le altre cose, dell’inconscio abitato da demoni,
della contorta e conturbante natura dell’uomo che fa paura.

Pure
questa c’è tra le paure spezzate dal dono delle lingue a Pentecoste (At
2,1-11). Non solo il dono di parlare gli idiomi dei popoli, ma anche quello di
comprendere le lingue dei demoni che scuotono i singoli, le comunità, il mondo
intero, e di saper rispondere loro.

Saper affrontare la traversata
del mare senza lasciarci ingoiare dalla gola rapace dei demoni che ci lacerano,
e che lacerano la società, è un altro dei doni ricevuti. La vita accolta e
sposata per ciò che è, e non quella abbandonata o in via di perfezionamento, è
la rivelazione bella che ci viene fatta dal rombo dello Spirito.

E le lingue di fuoco vivo che
illuminano i volti dei discepoli, trasformano gli spauriti amici di Gesù in
apostoli.

Da amico
Buona Pentecoste,
buona festa delle lingue.
Luca Lorusso

Luca Lorusso




Roma e i migranti / 2

Nella prima puntata
di questo reportage abbiamo raccontato delle origini dell’accoglienza nella
capitale, della situazione dei migranti dal punto di vista sanitario e di
baraccopoli e occupazioni, introducendo il tema dei rifugiati. Riprendiamo da
qui, allargando la prospettiva anche alla condizione dei Rom.

 


«È impossibile essere precisi sul numero totale di rifugiati che
attualmente vivono a Roma: le stime dicono fra le otto e le diecimila unità». A
parlare è Berardino Guarino, responsabile dei progetti della Fondazione Centro
Astalli. «I percorsi che richiedenti asilo e rifugiati seguono per trovare un
posto dove stare sono tipicamente quattro: in primo luogo, ci sono i 2.500
posti gestiti congiuntamente da Comune e Servizio di Protezione dei richiedenti
asilo e rifugiati (Sprar), che hanno liste d’attesa di due o tre mesi e un tempo
di permanenza limitato. A questo primo canale si affiancano poi il circuito
degli eventuali amici e parenti, i posti messi in campo direttamente dalle
Prefetture e, infine, gli insediamenti informali, come gli stabili occupati e
le baraccopoli». In totale, gli abitanti di questi ultimi sono stimati in circa
sei-settemila, dislocati nei quattro grossi edifici come il Selam Palace (vedi
articolo precedente, ndr) e in diverse altre realtà di dimensioni più
piccole. La stragrande maggioranza degli occupanti sono migranti, quasi tutti
in possesso di permesso di soggiorno.

L’associazione Centro Astalli – sede italiana del
Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, di cui la Fondazione è la «sorella»
impegnata nel campo della formazione e sensibilizzazione – gestisce una
pluralità di attività fra le quali la mensa, che distribuisce circa ottomila
pasti al mese, i centri di accoglienza, che ospitano annualmente circa duecento
persone, il centro notturno, il cui dormitorio ha ricevuto nel 2013 oltre
duecento persone, e l’ambulatorio, con più di duemila accessi l’anno. «Anche
l’accettazione, presso la sede di Via degli Astalli, ha un’importanza
fondamentale: per presentare domanda d’asilo, i migranti devono infatti
dimostrare di essere reperibili e nel 2013 sono stati oltre seimila i
richiedenti asilo e rifugiati che si sono domiciliati da noi».

Oltre al Centro Astalli, in città sono attivi
nell’accoglienza ai migranti forzati altre organizzazioni fra cui la Caritas,
la Comunità di Sant’Egidio, l’Arci. Il cornordinamento cittadino, prosegue
Guarino, è buono, ma se la situazione rimane problematica sia nella fase
dell’accoglienza che in quelle successive è perché «a monte, l’Italia non ha
mai avuto un piano per l’integrazione. Abbiamo integrato cinque milioni di
stranieri a prescindere dallo stato». E gli errori non si limitano a questo: è
stato un errore firmare la convenzione di Dublino, è un errore pensare che
Triton, l’operazione dell’agenzia europea di controllo delle frontiere Frontex
subentrata lo scorso novembre alla missione italiana Mare Nostrum, sia la
soluzione. «Nei primi due mesi del 2015 sono sbarcati tremila migranti in più
rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Dovrebbe riflettere su questo
chi diceva che Mare Nostrum era un incentivo alle partenze in quanto missione
di salvataggio e non, come Triton, di protezione dei confini».

L’Europa ci lascia da soli a gestire l’emergenza? «Sì»,
conclude Guarino, «ci lascia soli nel senso che su diritti umani e immigrazione
non v’è certamente lo stesso cornordinamento che vediamo per le politiche
economiche. Inoltre, gli stati europei con gli standard di accoglienza più
elevati, come la Germania, temono che i paesi con meno coscienza civile non
rispettino gli impegni eventualmente presi in sede europea», facendo a scaricabarile
per non accollarsi i costi della gestione dei flussi migratori. La Germania
alla fine del 2013 ospitava circa trecentomila fra rifugiati e richiedenti
asilo a fronte dei nostri novantamila e aveva 126 mila nuove richieste d’asilo
contro le 26 mila in Italia.

La
popolazione romanì: Rom e Sinti a Roma

In Via Anicia, a due passi dalla Basilica di Santa
Cecilia in Trastevere, una ventina di persone aspetta fuori dalla porta del
Centro «Genti di Pace» della Comunità di Sant’Egidio. Un centinaio sono invece
già all’interno del centro: sono Rom e Sinti di tutte le età. Ogni venerdì
arrivano dai campi per parlare con i consulenti per l’orientamento
amministrativo e legale o per fare una visita medica presso l’ambulatorio.
Altri sono in attesa di usare le docce, di ricevere provviste alimentari, di
ritirare la loro biancheria lavata e asciugata nella lavanderia del Centro o di
prendere un indumento dagli scaffali della sala dove, impilati e divisi per
tipo, sono sistemati i capi frutto delle raccolte di vestiti usati. «Si
registrano all’accettazione», spiega Paolo Ciani, il responsabile delle attività
di Sant’Egidio con i Rom e i Sinti, «ricevono gratuitamente la tessera del
centro e da quel momento possono accedere ai servizi». Grazie anche alla
registrazione, il Centro è diventato un osservatorio sui nuovi arrivi: i più
recenti sono quelli delle comunità bulgare, da circa cinque anni a questa
parte, mentre le prime presenze delle comunità rumene risalgono al decennio fra
il 1990 e il duemila, precedute di vent’anni dai Rom della ex Jugoslavia.

«Fra campi autorizzati e campi spontanei», precisa
Ciani, «vivono a Roma fra le sei e le settemila persone». Circa il doppio del
totale dei rom e sinti in città – gli altri vivono nelle case  – e più o meno un sesto del dato nazionale,
che stima in quarantamila gli abitanti dei campi. L’assegnazione delle case
popolari a questi rom è stata, fino a tre anni fa, impraticabile: il punteggio
nelle graduatorie per chi richiede l’alloggio aumenta infatti per chi ha subito
sfratti e vive in emergenza abitativa, ma lo sgombero non era parificato allo
sfratto né i campi erano considerati luoghi a emergenza abitativa. Ora i
criteri per le graduatorie sono cambiati e il tempo dirà se lo saranno anche i
risultati.

I Rom della ex Jugoslavia sono il gruppo che più di tutti
ha vissuto in ghetti ai margini della città: molti sono nati qui, figli o
nipoti di persone che lasciarono la Jugoslavia durante la guerra e che non
hanno poi acquisito la cittadinanza di uno dei paesi nati dalla dissoluzione
del paese balcanico. «Vivono perciò in un limbo giuridico nel quale sono
apolidi de facto ma non de jure e non possono chiedere per i
propri figli il riconoscimento della nazionalità italiana».

Ma anche per chi ha una situazione giuridica meno
complicata l’uscita dalla condizione di marginalità è difficile. Uno dei banchi
di prova è quello della scuola. È «sintomatico di come lo stato ha trattato
queste comunità. Ci sono stati diversi passaggi: nel primo, le istituzioni non
erano sicure nemmeno del fatto che fosse opportuno scolarizzare i bambini rom e
i dubbi nascevano a volte da pregiudizi culturali “al contrario”, cioè di
malintesa difesa della cultura rom da quella gagé (non rom). Poi è
cominciato un percorso in cui si chiedeva alle famiglie almeno di iscrivere i
figli a scuola e dopo di iscriverli e mandarli almeno qualche volta. E a questa
sequela di “almeno” si è affiancato l’uso della scuola come “merce di scambio”
fra Rom e istituzioni: mando i miei figli a scuola se mi dai un campo
attrezzato, non ti caccio dal campo se mandi i bambini a scuola».

A questo poi poteva aggiungersi un problema legato a una
presa in carico che non coinvolgeva abbastanza le famiglie: i bambini
diventavano quasi figli delle associazioni per l’assistenza ai Rom, che si
occupavano di andare ai ricevimenti con gli insegnanti e di ritirare le pagelle
mentre i genitori stavano al campo, completamente deresponsabilizzati.

Ma senza scuola non si fanno progressi. «In questi
decenni di lavoro con i Rom abbiamo visto che dove si è riusciti a scolarizzare
una generazione, questa poi a sua volta ha mandato a scuola i propri figli e si
è innescato un circolo virtuoso». Secondo il rapporto conclusivo dell’indagine
sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti della Commissione diritti umani del
Senato, pubblicata a febbraio 2011, a Roma sono circa 2.200 i bambini rom
iscritti a scuola: la maggioranza, ma i dati cambiano di parecchio a seconda
che i bambini vivano o meno in campi attrezzati e raggiunti da interventi
sociali.

Quanto al modo di procurarsi denaro, gli operatori non
si stancano di ripetere che il ricorso al furto o ad altre attività criminali
interessa gruppi minoritari e diminuisce all’aumentare dell’inclusione sociale.
In una città come Roma, dove il clan dei Casamonica – Rom italiani di antico
insediamento – è nota per attività quali usura, rapine, estorsioni,
sfruttamento della prostituzione, traffico di armi e stupefacenti specialmente
nel settore Est della Capitale, è difficile evitare che chi ne legge le «gesta»
nelle cronache locali faccia poi l’equazione: zingaro uguale criminale. «Eppure»,
riprende Ciani «se ora chiedessimo ai rom qui al Centro che cosa ne pensano dei
Casamonica, molti non capirebbero nemmeno di chi stiamo parlando».

La popolazione romanì cerca di garantirsi la
sussistenza con diversi mezzi: secondo il quadro delineato da Sant’Egidio,
all’elemosina ricorrono più che altro quelli arrivati di recente. Ci sono poi i
cosiddetti rovistatori, quelli che cercano nei cassonetti dell’immondizia,
attività che crea una serie di problemi: innanzitutto, contribuisce a
diffondere la percezione che i Rom sporcano la città. Poi c’è la questione di
come e dove rivendere quanto raccolto e il timore del proliferare di mercatini
informali. Infine c’è chi la mette in termini di danno al decoro urbano, «come
se il fatto che sia brutto vedere qualcuno che rovista nell’immondizia»,
puntualizza ancora Ciani, «fosse più importante che capire perché lo sta
facendo o evitare che sia costretto a farlo». A Roma l’idea del decoro urbano
appare peraltro un po’ contraddittoria, considerando che legare una bicicletta
alla staccionata di un parco pubblico rischia di attirare l’attenzione della
polizia municipale mentre macchine in doppia fila e motorini sui marciapiedi
hanno maggiori probabilità di passare in cavalleria, quasi fossero un male
necessario.

La frase dell’assessore alle Politiche sociali del
Comune di Roma, Francesca Danese, circa la possibilità di impiegare i Rom nella
raccolta dei rifiuti ha scatenato lo scorso febbraio una tempesta di polemiche.
Secondo Paolo Ciani, la frase dell’assessore è stata recepita dai media e dal
mondo politico nel peggiore dei modi: «È ovvio che un Comune non può demandare
la differenziata ai rom. Ma ragionare su un possibile inserimento lavorativo
che valorizzi le competenze specifiche delle persone non è certo sbagliato».

E le competenze non si fermano al riciclo: la raccolta e
la lavorazione dei metalli è da sempre un altro campo nel quale i rom sono
piuttosto esperti. In diversi casi hanno aperto partite Iva e svolgono
l’attività in modo non meno regolare di altri. Hanno anche gli stessi
grattacapi dei colleghi gagé per via delle direttive Ue sulla
tracciabilità dei metalli: se i documenti non sono in ordine, i commercianti si
vedono il camion sequestrato e l’attività sospesa. Quanto ai famigerati roghi
alla diossina che si alzano dai campi e che esasperano gli abitanti dei
quartieri circostanti, in alcuni casi sono fuochi per bruciare l’immondizia, in
altri un modo per separare il rame dagli altri materiali. «E allora perché non
pensare a creare foi appositi e in regola con le normative, costruendoli
grazie a una colletta a cui partecipino i Rom stessi, piuttosto che impedire e
reprimere un lavoro, come quello della raccolta del metallo, ben avviato,
remunerativo e utile?». Ma, come Mafia Capitale ha dimostrato, l’anarchia e gli
sgomberi senza ricollocazione, che poi creavano altri insediamenti informali
pochi chilometri più in là o che foivano nuovi «clienti» ai campi gestiti
dalla cupola romana, facevano comodo a chi lucrava sulle situazioni
emergenziali, vere o presunte.

I contraccolpi dell’inchiesta sul Mondo di Mezzo per ora
non si sono avvertiti nel concreto dell’accoglienza e della gestione del
disagio, fatta eccezione per il ritardo nel piano per l’emergenza freddo
dell’inverno scorso. Ma i contraccolpi culturali sono stati pesanti:
soprattutto per il diffondersi dell’idea che non vale la pena di spendere
denari per migranti e rom, perché tanto finiscono «mangiati» dalle associazioni
che campano sul business dei poveri. Queste spesso finiscono tutte nello stesso
calderone, anche chi lavora seriamente. Per quanto riguarda i rom in
particolare, conclude il rappresentante della Comunità di Sant’Egidio, Mafia
Capitale ha anche fatto aumentare il disprezzo verso i gagé: fanno
affari sulla nostra pelle, dicono i Rom, con una generalizzazione eguale e
contraria a quella applicata a loro. E così crescono anche «il vittimismo a cui
tanti rom finiscono per abbandonarsi e la rassegnazione, che investe sia la
popolazione romanì che le istituzioni che con essa si rapportano».

È già buio, un altro autobus raccoglie il suo carico di
umanità per portarlo dalle arcate di travertino del Teatro di Marcello ai
casermoni della Magliana. Sull’autobus, tutti fanno smorfie e si tengono il
naso fra due dita per non respirare l’odore acre che ammorba l’aria. Un ragazzo
con lunghe ciocche bionde di capelli infeltriti è nell’ultimo sedile, con la
fronte pallida posata sullo schienale davanti, forse svenuto. L’orlo slabbrato
dei pantaloni lascia vedere i piedi scalzi, sudici. «Non si può vivere così»,
dice un uomo non più giovane con accento dell’Est Europa seduto accanto alla
moglie, «bisogna lavarsi! Vedi?, oggi sono stato a Via Anicia, ho vestiti
puliti, io, ho fatto la doccia».

Roma trova tanti modi per dirti che sotto alla crosta
fragile della grande bellezza i ruoli si invertono in un attimo, e quasi niente
è quello che sembra.

Chiara Giovetti

Tags: Migranti, Roma, Rom e Sinti, Rifugiati, Centro Astalli

Chiara Giovetti




La laicità che allarga le opportunità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 28

Oggi l’Italia è un
paese multiculturale e multireligioso, molto diverso da quello che esisteva
soltanto alcuni decenni fa. Benché il diritto alla libertà religiosa sia
sancito dalla Costituzione, nel mosaico legislativo italiano mancano ancora
diversi tasselli. Uno fra tanti, ad esempio, è quello dell’intesa con l’Islam.
In attesa di una legge generale che, anno dopo anno, diventa sempre più ineludibile.

 


L’opinione comune è che in Italia non
esistano veri problemi all’esercizio della libertà religiosa. Essa, del resto, è
tra i diritti più tutelati. Ne parla la Costituzione, direttamente in ben
cinque articoli (3, 7, 8, 19 e 20) e indirettamente in altri quattro (2, 17, 18
e 21). La Corte costituzionale è stata chiamata in molte occasioni a garantie
il rispetto.

Perché dunque occuparsene?

Come emerge dalle interviste
pubblicate nei numeri precedenti di MC (si vedano i n. 1/2, 3 e 4 del 2015, ndr.),
la questione non è affatto risolta. C’è, sì, quanto prevede la Costituzione, ma
i suoi principi non sono ancora attuati del tutto e per tutti.

È tuttora in vigore la legge del ’29,
promulgata dunque durante il fascismo, che definiva la Chiesa cattolica come
religione dello stato riservando alle altre confessioni religiose la condizione
di «culti ammessi». Superato il fascismo e approvata la Costituzione
repubblicana, questa legge non era più sostenibile. La Carta fondamentale dello
stato riconosce infatti ai cittadini piena uguaglianza di fronte alla legge,
indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche,
condizioni personali e sociali (art. 3). Tuttavia sono occorsi diversi anni per
arrivare alla revisione del concordato tra la Chiesa cattolica e lo stato
italiano che, nel 1984, ha reso possibile superare ogni prospettiva
confessionale, eliminando appunto il principio del Cattolicesimo come religione
dello Stato.

Il ruolo del Concilio

Si è giunti a tanto anche grazie al
Concilio Vaticano II, che ha una grande importanza per quanto riguarda la
libertà religiosa. In esso, infatti, la Chiesa ha proclamato «il diritto della
persona umana e delle comunità alla libertà sociale e civile in materia di
religione» (Dignitatis Humanae), ha rilanciato l’ecumenismo, dichiarando
come uno dei principali compiti «promuovere il ristabilimento dell’unità tra
tutti i cristiani» (Unitatis Redintegratio) e promosso il dialogo
interreligioso (dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni con le
religioni non cristiane).

Grazie al Concilio si è diffusa nella
Chiesa italiana una nuova sensibilità ai valori della libertà religiosa che ha
permesso, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, di iniziare il cammino
della revisione concordataria concluso poi nel 1984 con la stipula del nuovo
concordato con lo stato italiano.

Il mosaico incompleto delle
intese

Sull’onda di
questo risultato si è aperta la «stagione delle intese», dando così attuazione
all’art. 8 della Costituzione, che le prevede ma che era rimasto fino ad allora
disatteso. Le intese, secondo la Costituzione, hanno il compito di
regolamentare i rapporti reciproci tra lo stato e le varie confessioni
religiose. La prima è stata siglata con i Valdesi proprio nel 1984. Negli anni
successivi sono state raggiunte intese con altre 11 confessioni. Dieci sono
state poi recepite nell’ordinamento giuridico italiano da apposite leggi,
necessarie per renderle pienamente operanti. Per una, quella con i Testimoni di
Geova, l’approvazione per legge non è ancora avvenuta.

In Italia,
insomma, si sta procedendo molto pragmaticamente per regolamentare la libertà
religiosa, costruendo una sorta di mosaico, di cui ogni nuova intesa
rappresenta un tassello, che tuttavia non è ancora concluso. Si tratta di
un’opera notevole e preziosa per rispondere alla geografia religiosa del nostro
paese, profondamente mutata nel corso del tempo anche per effetto dei flussi
migratori. Oggi infatti l’Italia è un paese multiculturale e multireligioso,
molto diverso da quello che esisteva soltanto alcuni decenni fa. Rimangono
aperti tuttavia problemi notevoli. Con l’Islam, ad esempio, non è ancora stato
possibile raggiungere alcuna intesa, soprattutto perché risulta difficile
individuare interlocutori in grado di rappresentare l’intera comunità islamica.
Si può comprendere quanto sia manchevole e fonte di problemi questa situazione
se si pensa che la questione non sta nel «concedere diritti» (che esistono già,
in quanto, appunto, sanciti dalla Costituzione e dalle leggi), ma
nell’integrare pienamente anche questa religione nell’ordinamento
costituzionale e giuridico del nostro paese: il che significa riconoscee i diritti
– tra cui quello ai luoghi di culto, spesso messo in discussione o addirittura
negato nei fatti ricorrendo a espedienti e cavilli: come non dimenticare la «guerra
delle moschee» che si è avuta negli anni scorsi in diverse città? – ma anche
definie i doveri verso la comunità nazionale in cui essa vive.

Tentativi a vuoto

Molti problemi sarebbero risolti se
si arrivasse ad approvare una legge generale che sostituisca definitivamente
quella del 1929.

È dal 1990 che il parlamento prova a
realizzarla, senza riuscirci: cosa che sorprende ancora di più se si comparano
tra loro i vari disegni di legge via via presentati dalle maggioranze che in
questi 25 anni si sono alternate in Parlamento. Essi, infatti, non sono molto
diversi tra loro nelle questioni fondamentali.

Perché allora un tale ritardo? Quasi
tutti riconoscono che una legge generale sulla libertà religiosa è necessaria.
L’ultimo tentativo per approvarla è stato compiuto nella XVI legislatura con la
«proposta Zaccaria» (vedi Mc aprile 2015, ndr.). Nella seduta del 24
luglio 2007 essa è stata «sepolta» sotto una montagna di emendamenti e si è
arenata, senza riuscire ad arrivare al voto.

Il motivo principale è stato il
rifiuto di molti del riferimento, contenuto nell’articolo 1, alla laicità dello
stato, così come definita dalla Costituzione, quale fondamento della legge che
si presentava al Parlamento. Nella Commissione affari costituzionali di
Montecitorio sono risuonate parole di sorpresa e commenti sdegnati, soprattutto
dai banchi del centrodestra. Qualcuno ha sostenuto che parlare di laicità come
fondamento della legge fosse in contrasto con la Costituzione e col principio
della libertà religiosa, qualcun altro ha affermato che fosse «pleonastico e provocatorio»
il parlarne in una proposta di legge che riguardava scelte da assumere «sul
versante della religione», altri ancora che stabilire «un principio di laicità
al quale deve essere data attuazione nelle leggi dello stato» costituisse «uno
strumento certamente rivoluzionario e certamente difforme dalla logica
costituzionale».

È evidente che si è trattato di
fraintendimenti del concetto di laicità e anche di scarsa conoscenza del
significato che essa ha nella Costituzione del nostro paese. Anche questo può
aiutare a capire come mai il parlamento non riesca ad approvare una legge
generale sulla libertà religiosa.

L’imprescindibile concetto
di laicità della Stato

Non è possibile che una legge
riguardante questa materia prescinda dal principio della laicità dello Stato,
cioè dal fatto che esso non si identifica, né ha una posizione di favore, nei
confronti di alcuna religione. Lo stato è neutrale nei confronti della
religione, e proprio per questo può e deve assicurare agli individui e ai
gruppi la libertà di professare il proprio credo (o di non credere) e garantire
che non subiscano per questo motivo alcuna discriminazione.

La Corte costituzionale, con una
sentenza molto importante (n. 203 del 12 aprile 1989), ha chiarito la portata e
il significato della laicità secondo l’ordinamento italiano. Proprio
riferendosi al nuovo Concordato del 1984, essa ha sostenuto che laicità non
significa indifferenza dello stato dinanzi alle religioni. Al contrario,
costituisce la garanzia che esso, in un regime di pluralismo confessionale e
culturale, intervenga a salvaguardare la libertà di religione di tutti. Ma la
parte forse più significativa della sentenza sta nel riconoscimento che il
nuovo Concordato realizza pienamente la laicità prevista dalla Costituzione.
Infatti il dibattutissimo articolo 7, che attribuisce alla Chiesa cattolica una
condizione del tutto particolare, definita appunto da un concordato, appartiene
alle disposizioni che danno sostanza al principio della laicità dello Stato.

Insomma, è importante rilevare che la
laicità definita dalla Costituzione italiana non stabilisce la separazione
rigida tra lo stato e le religioni come fanno, sia pure con modalità molto
diverse tra loro, quella degli Stati Uniti d’America e della Francia. Per lo
stato italiano la secolarizzazione crescente della società non riduce
l’incidenza della religione o l’esigenza di religiosità delle persone. Il
principio di laicità, inoltre, riconosce l’eguale dignità delle diverse fedi
religiose, andando oltre il semplice principio della tolleranza. E questa è
l’architrave di una effettiva garanzia della libertà religiosa. Ma, e questo è
altrettanto importante, la stessa sentenza riconosce che la pari dignità di
tutte le confessioni convive, per ragioni storiche e culturali che l’ordinamento
costituzionale permette di riconoscere, con uno speciale regime a vantaggio del
cattolicesimo. È una situazione presente anche in altri paesi europei. A una
disciplina di natura generale della religione si affianca una disciplina
speciale.

Per un verso, insomma, si fanno leggi
valide per tutte le religioni, per un altro si ammette un regime bilaterale che
regola, sulla base del concordato, la condizione giuridica del cattolicesimo.
La laicità dello stato italiano, dunque, ha un carattere intermedio rispetto ai
modelli statunitense e francese. Si tratta di una «laicità aperta», in base
alla quale viene garantita la separazione dello stato dalle chiese, ma non
dalla religione. Viene riconosciuta la libertà religiosa e l’eguaglianza di
tutte le confessioni religiose ma anche il «patrimonio storico» del
cattolicesimo. Lo stato non fa propri i principi appartenenti alla sfera
religiosa, rendendoli obbligatori e vincolanti per i suoi cittadini, ma
contemporaneamente garantisce un’apertura dello spazio pubblico ai valori
religiosi. Si tratta, in altri termini, di un atteggiamento che, nei confronti
del fenomeno religioso, affida allo stato il compito non solo di evitare
discriminazioni e di tutelare il pluralismo, ma anche di allargare le
opportunità. La neutralità dello stato si identifica con il rispetto per
l’eguale dignità di tutte le credenze religiose e, naturalmente, anche della
mancanza di ogni credenza.

Riferirsi al «principio di laicità»
nel definire una legge sulla libertà religiosa non deve dunque costituire un
ostacolo alla sua approvazione.

Una necessità reale e
impellente

Risulta chiaro, comunque, che ancora
molto resta da fare. Una regolamentazione tuttavia è indispensabile. Infatti
l’esigenza di assicurare la libertà religiosa si presenta in molteplici
situazioni che fanno parte della vita ordinaria delle persone, come
l’alimentazione, la sepoltura, il matrimonio, l’educazione scolastica, il
lavoro, il ricovero nei luoghi di cura. Ma vanno regolamentati anche il rispetto
delle festività religiose, la disponibilità e la tutela degli edifici di culto,
il libero esercizio dell’attività dei ministri di culto, l’assistenza
spirituale ai carcerati, i rapporti con le pubbliche amministrazioni,
l’appartenenza alle forze armate. Non si tratta di questioni formali o
astratte. Per darvi risposta si può procedere «pragmaticamente» seguendo la
strada delle intese. Ma si deve essere consapevoli che il risultato sarà
ottenuto pienamente solo quando il «mosaico» sarà completato, cioè quando si
arriverà a un quadro legislativo generale delle condizioni che rendono
effettiva la libertà religiosa, eliminando ogni discriminazione in questo
ambito. È una necessità reale e impellente, che sarà soddisfatta solo se
governo e parlamento riusciranno finalmente a superare il limite da più parti
evidenziato, della mancanza nella storia recente del nostro paese di una
consapevole e organica politica ecclesiastica.

Paolo Bertezzolo

Tags: patti lateranensi, concordato, concilio vaticano II, laicità della stato, legge, libertà religiosa, intese

Paolo Bertezzolo




I Perdenti 3. Giovanna d’Arco  

Nacque a Domrémy,
Francia, nel 1412 circa, da una famiglia contadina. Lasciò giovanissima la casa
patea per seguire il volere di Dio rivelatole da voci misteriose, secondo le
quali avrebbe dovuto liberare la Francia dagli Inglesi. Presentatasi alla corte
di Carlo VII, ottenne dal re di cavalcare alla testa di un’armata e, incoraggiando
le truppe con la sua ispirata presenza, riuscì a liberare Orleans e a riportare
la vittoria di Patay. Lasciata sola per la diffidenza della corte e del re,
Giovanna non poté condurre a termine, secondo il suo progetto, la lotta contro
gli Anglo-Borgognoni. Fu dapprima ferita alle porte di Parigi e nel 1430,
mentre marciava verso Compiegne, fu fatta prigioniera dai Borgognoni, che la
cedettero per denaro agli Inglesi. Tradotta a Rouen davanti a un tribunale di
ecclesiastici, dopo estenuanti interrogatori fu condannata per eresia e arsa
viva il 30 maggio 1431. Riabilitata nel 1456, nel 1920 Benedetto XV la proclamò
Santa e Patrona della Francia.

Giovanna, tu sei una
santa molto nota ma forse pochi conoscono bene la tua vita, per cominciare puoi
parlarci della tua infanzia?

Sono nata in una famiglia di contadini di umili condizioni, fin da
bambina quindi ho dovuto aiutare i miei nel lavoro dei campi e nell’accudire
gli animali.

Quindi non hai
frequentato la scuola?

Ai miei tempi l’istruzione era solo per i figli dei ricchi che
potevano permettersi insegnati privati e per coloro che entravano in un
monastero o in un seminario. Non esistevano le scuole come le intendete voi.
Però io frequentando le funzioni religiose amavo assorbire tutto quello che
veniva insegnato dai sacerdoti del mio tempo.

Sì, ma tu sei famosa
perché fin da giovane ti sei fatta un nome prendendo le armi e difendendo la
tua patria.

Tutta la mia vita fu caratterizzata dalla Guerra dei cento anni,
che anzi durò di più in quanto cominciò nel 1337 e si concluse nel 1453. Gli
inglesi lungo tutto quel periodo occupavano gran parte della Francia e questo a
noi francesi non andava proprio bene.

Allora cosa hai fatto?

Nel 1429, seguendo la voce di Dio che veniva dal profondo della
mia coscienza e mi spingeva ad agire, riuscii a incontrare il Delfino (erede al
trono) di Francia ovvero il futuro Carlo VII e gli dissi che l’Arcangelo
Michele e le Sante Caterina di Alessandria e Margherita d’Antiochia, mi avevano
parlato dicendomi che avrei scacciato gli inglesi e insediato lui sul trono. Lo
convinsi ad affidarmi il compito di difendere il suolo francese mettendomi a
disposizione dei cavalieri e delle truppe da battaglia. Del resto, un’antica
profezia francese diceva che solo una ragazza coraggiosa avrebbe salvato il
paese dai nemici.

Si dice che per
guidare dei soldati ti sia vestita come un uomo e abbia indossato un’armatura.
Una cosa inaudita e scandalosa per i tuoi tempi.

Certamente, ma solo così potevo guidarli in battaglia senza
correre rischi inutili. Per questo mi feci fare una armatura modellata sulla
mia persona. Riportai la prima vittoria liberando Orleans da un lungo assedio.
Da quel giorno i soldati cominciarono a chiamarmi «la Pulzella d’Orleans».
Qualche settimana dopo ci fu un’altra battaglia più dura e più cruenta a Patay,
dove infliggemmo agli inglesi una dura sconfitta, riconquistando il territorio
francese fino alla città di Reims, luogo in cui da sempre avvenivano le
incoronazioni dei Re di Francia.

Si può dire quindi che
la tua missione si era conclusa positivamente?

Sì, ma purtroppo una volta incoronato Re, Carlo VII fu preso dal
tipico spirito di compromesso di molti politicanti. Decise quindi da solo,
senza consultare nessuno, di trattare con gli inglesi.

Ovviamente tu non eri
d’accordo con le sue scelte.

Ero convinta che la mia missione non fosse ancora compiuta, perché
gli inglesi continuavano a occupare buona parte della Francia. Decisi così di
continuare da sola con i soldati rimasti a me fedeli senza l’appoggio della
Corona. Ma il 24 maggio 1430 caddi in un’imboscata dei Borgognoni, i quali pur
essendo francesi erano alleati degli inglesi. Gli uomini del duca di Borgogna
mi vendettero agli anglosassoni in cambio di una forte somma di denaro
(equivalente a circa sei milioni di euro attuali).

Quindi fosti
imprigionata e gettata in carcere?

Mi rinchiusero nelle celle sotterranee del castello di Rouen per
essere processata per eresia e stregoneria, naturalmente i miei nemici
allestirono un falso tribunale dell’inquisizione con dei giudici simoniaci al
soldo degli inglesi che dovevano trovare ragioni per condannarmi a morte.

Su questo tuo processo
si sono scritti molti libri e girati diversi film che hanno evidenziato la
dignità con cui ti sei difesa…

Fin dalle prime udienze trovai in me una grande forza d’animo per
rispondere punto per punto alle accuse che mi erano mosse e, a essere sincera,
mi sono anche divertita a punzecchiarli un po’. Nel rispondere ai giudici ho
usato spesso non solo umorismo, ma anche sarcasmo. Vista la difficoltà che essi
stessi avevano nel portare avanti un processo farsa, decretarono che le udienze
si tenessero a porte chiuse.

Secondo te i giudici
cercavano davvero di conoscere la verità della tua missione?

Per niente. Dovevano condannarmi sia per levarmi di too che per
infangare il mio nome. I giudici nel cercare appigli per condannarmi erano
quasi patetici, per non dire ridicoli. Mi chiedevano che aspetto avevano gli
angeli, perché indossavo abiti maschili, perché me ne ero andata da casa e
altre tematiche che non avevano niente a che vedere con la fede. Riuscirono
comunque a mettere insieme circa settanta capi d’accusa, molti dei quali
palesemente falsi e non suffragati da nessuna testimonianza. Con questo
castello di menzogne mi condannarono a morte!

Con che spirito
accettasti questa sconfitta? Ti sentisti una fallita?

Mi sono sempre sentita uno strumento nella mani di Dio. Non avevo
iniziato quell’avventura di mia iniziativa. Avevo la consapevolezza di aver
agito sempre per il bene della mia patria, la Francia e in questo di aver fatto
sempre la volontà di Dio! Anche se prigioniera di uomini, sapevo di essere
nelle sue mani. Accettai quindi la sentenza ma non le motivazioni che
l’accompagnavano. Del resto il popolo francese era tutto dalla mia parte e la
dice lunga il fatto che, mentre venivo condotta al luogo del supplizio il 30
maggio 1431, fossi accompagnata da ben duecento soldati incaricati di tener
lontano la gente dal patibolo.

Pur condannata per
eresia ti fu concesso di ricevere i Sacramenti, un gesto col quale i tuoi
stessi giudici si sconfessavano e riconoscevano la giustezza delle tue
posizioni…

Infatti, pur condannata per eresia – e allora quella era un capo
d’accusa gravissimo – ho avuto il permesso, contro ogni regola ecclesiastica,
di ricevere l’Eucarestia. Le mie ultime parole, appena investita dalle fiamme,
furono semplicemente: «Gesù». Il rogo consumò oltre che la mia esistenza, tutta
la mia carne. Per evitare che la gente costruisse un santuario in mio onore nel
luogo in cui avvenne la mia esecuzione, i miei resti e le ceneri del rogo
furono gettati nella Senna.

Neanche vent’anni
dopo Carlo VII riaprì il processo subito da Giovanna. Nel frattempo anche una
nuova indagine ecclesiastica fu avviata su indicazione del Papa, e dopo aver
ascoltato oltre un centinaio di testimoni il processo precedente venne
dichiarato nullo e Giovanna D’Arco fu completamente riabilitata imponendosi
come una delle figure più straordinarie della storia della Francia.

Dalla vita di questa
grande santa possiamo capire alcune cose.

Che l’amor patrio è
un valore cristiano, combattere con le armi deve essere sempre una «extrema ratio»,
bisogna lottare per la verità e non per il potere. Che come si ama la propria
famiglia, così si deve amare anche la propria nazione.

Difendere la propria
patria significa anche potere e dovere in alcuni casi combattere per essa.
Quando una nazione viene ingiustamente aggredita e non c’è altro mezzo
diplomatico e incruento, come insegna la Dottrina sociale della Chiesa, per
scongiurare l’aggressione, la nazione aggredita ha il dovere di difendere se
stessa con ogni mezzo.

Santa Giovanna D’Arco
nella difesa libera e totale della sua terra, accettò anche il ricorso alle
armi, ma questo la portò a essere tradita e sconfitta e a perdere tutto, anche
la vita. Ma alla luce della storia e della santità, la sua azione verrà
riconsiderata più tardi come un’azione utile e giusta, a servizio della Chiesa
e del proprio paese. E Giovanna, umiliata da un ingiusto processo e
«cancellata» dai suoi nemici, diventerà un esempio di santità e modello di vita
per i francesi.

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




Roma e i migranti / 1

Il ciclo di reportage
su periferie delle grandi città, disagio e migranti, ci porta questa volta a
Roma, ancora scossa per le rivelazioni dell’inchiesta «Mafia Capitale» e per i
tumulti di Tor Sapienza.

L’autobus 105 è fermo al capolinea di Piazzale
dei Cinquecento, di fronte alla stazione di Roma Termini. Attraverso le sue
quattro porte aperte, persone avvolte in sciarpe e giacconi guadagnano un
sedile o più probabilmente un posto in piedi e aspettano che lo scatolone di
plastica e metallo lungo diciotto metri cominci la sua corsa nell’aria fredda
delle sere del febbraio romano. Qualcuno scenderà dalle parti del Pigneto, per
raggiungere gli amici in qualche bar dell’isola pedonale e partecipare al rito
importato dell’aperitivo. Molti altri, invece, proseguiranno verso Tor
Pignattara, Centocelle e oltre, fino a quella Tor Bella Monaca che nel
quotidiano capitolino è da anni sinonimo di luogo della marginalità e del
degrado. L’umanità del 105 è un fedele spaccato della pancia di una città che
cerca, o semplicemente non può evitare, di scoprirsi multietnica: signore
dell’Est europeo con buste di plastica gonfie posate sulle ginocchia e i tratti
stanchi di chi ha fatto pulizie in qualche appartamento del centro, bengalesi
con in mano i bastoni per selfie che non sono riusciti a vendere ai turisti,
ragazzi cinesi con un libro fra le mani e gli auricolari alle orecchie, giovani
africani carichi di grossi sacchi che lasciano intravedere borse con le griffe
dell’alta moda. Quelle stesse borse che poche ore prima erano disposte in bella
mostra sui sampietrini a due passi dal Colonnato o dalla scalinata di Trinità
dei Monti, poi agguantate per i manici e portate via di corsa, lontano dalla
vista della polizia arrivata di soppiatto a scompigliare l’improvvisato
mercato.

Un bengalese parla al telefono, a voce alta. «Ma che
urla quello? Certo che ’sti immigrati fanno proprio come je pare…» commenta
spazientita una donna. «Che vuole, signo’, non siamo manco più padroni a casa
nostra, ormai», le risponde un’altra, un sedile più avanti. Questa non è l’aria
che tira a Roma, è solo una delle sue correnti. Ma è la corrente che fischia più
forte, che fa svolazzare i giornali, che scoperchia i tetti e rompe i vetri
nelle periferie.

Tor Sapienza, con le immagini degli scontri e delle
proteste anti-immigrati dello scorso novembre, è sempre lì, nello stesso
spicchio di città che il 105 attraversa, in quella Roma Est che secondo la
rivista online Vice era fino a pochi anni fa «poco meno che un mistero»
per i giornali e per gli altri abitanti dell’Urbe. Ma Tor Sapienza è, nella
recente memoria collettiva romana, dove rimarrà impressa per molto tempo, anche
quella frase pronunciata in una intercettazione dal presidente della Cooperativa
29 Giugno
, Salvatore Buzzi, oggi detenuto nel carcere nuorese di massima
sicurezza di Badu ’e Carros dopo che l’operazione Mondo di Mezzo
condotta dai Ros, ha portato alla luce nel dicembre scorso il suo ruolo chiave
nella vasta rete criminale di stampo mafioso facente capo all’ex Nar Massimo
Carminati: «Tu c’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di
droga rende di meno».

Spetterà a nuove indagini e ai successivi processi
chiarire le responsabilità della vicenda di Mafia Capitale, comprese le
ipotesi di manipolazione della protesta di novembre proprio da parte della
cupola romana di Carminati e Buzzi. Ma che la mala gestione del fenomeno
migratorio e, più in generale, del disagio, accenda le micce in quella che i
media hanno chiamato la «polveriera delle periferie» è evidente, da tempo.

A Corcolle – zona del VI Municipio a venti chilometri da
Termini, estremo brandello orientale della città – basta un nubifragio perché
le strade e le case siano sommerse dall’acqua. Il manto stradale è in
condizioni pessime, l’Adsl non arriva, e solo lo scorso ottobre l’Asl ha
approvato l’apertura di un servizio di pediatria, finora assente nonostante la
presenza di un migliaio di bambini. Anche Corcolle, prima di Tor Sapienza, ha
vissuto giorni di tensione fra residenti e migranti. Ma, se la presenza degli
stranieri è stata la goccia, pronto a traboccare c’era tutto un vaso.

Gli inizi
dell’accoglienza

Eppure, la città non si è certo accorta ieri del
fenomeno migratorio: «Il centro di ascolto stranieri di via delle Zoccolette»,
racconta Lorenzo Chialastri, responsabile del Centro Ascolto Stranieri
di Via delle Zoccolette dal 2003 e dell’Area Immigrazione della Caritas
di Roma dal 2013, «ha aperto nel 1981, probabilmente fra i primi in Italia.
All’epoca, i migranti in città erano eritrei, filippini e capoverdiani che
andavano via via sostituendo gli italiani come lavoratori domestici.
Probabilmente nella percezione nazionale lo spartiacque è stato il 1991, anno
dell’arrivo in Puglia dei barconi con i ventisettemila migranti albanesi.
L’anno successivo, il comune di Roma ha aperto l’Ufficio Speciale per
l’Immigrazione
».

Dal 1981, il centro di ascolto della Caritas ha
registrato oltre 250 mila schede personali, ogni anno conta seimila nuovi
utenti che effettuano più di venticinquemila richieste di servizi allo
sportello. Offre ascolto dei bisogni, orientamento nella ricerca di alloggio e
di lavoro, corsi di italiano e assistenza legale, con particolare attenzione
agli utenti più vulnerabili come i rifugiati e le vittime di tratta.

Nove assistiti su dieci sono immigrati regolari; quanto
alla presenza di immigrati irregolari in città, come per i dati nazionali, è
difficile azzardare una stima. Lo scorso anno a fronte di 170 mila arrivi in
Italia sono state avanzate solo sessantamila richieste d’asilo. Che fine hanno
fatto gli altri? Quanti sono rimasti in Italia? Molti rifiutano di farsi
prendere le impronte digitali perché vogliono potersi spostare in altri paesi
europei senza rischiare di essere «dublinati», cioè rimandati in Italia sulla
base del Regolamento di Dublino, il quale stabilisce che i migranti
richiedenti asilo devono risiedere nel paese competente a esaminare la loro
domanda, cioè quello di prima accoglienza, dove è avvenuta l’identificazione. è chiaro che al rifiuto dei migranti di
farsi registrare si accompagna un equivalente lasciar correre delle autorità
italiane, atteggiamento che gli altri paesi europei hanno bacchettato,
accusando l’Italia di utilizzare questo metodo per «liberarsi» dei migranti.

«Abbiamo visto questa dinamica all’opera ad esempio con
l’arrivo di quindici migranti trasferiti da Augusta, in Sicilia, a
Civitavecchia, e da lì al nostro centro d’accoglienza a Roma», spiega
Chialastri. «Sono arrivati con in mano un numero scritto su un foglietto, non
erano state prese loro le impronte digitali. Due sono spariti nel nulla nel
giro di pochi giorni».

 

La salute,
tema su cui ci si incontra

In
via Marsala, la strada che costeggia la stazione Termini, la Caritas di Roma
gestisce un poliambulatorio (attivo già dal 1983) del quale Salvatore Geraci,
laureato in Medicina e Chirurgia alla Sapienza, è responsabile dal 1991. Geraci
non si stanca di insistere sull’importanza dei quattro pilastri su cui si regge
l’operato dell’ambulatorio: «I servizi sanitari sono ovviamente fondamentali»,
precisa il medico, «ma dobbiamo dedicarci con lo stesso impegno alla conoscenza
dei fenomeni, alla formazione degli operatori sanitari e al nesso fra salute e
diritti dei migranti. Altrimenti si fa solo assistenzialismo».

Il poliambulatorio ha assistito in un trentennio più di
centomila pazienti, specialmente migranti irregolari e persone senza fissa
dimora; annualmente eroga fra le dodici e le ventimila prestazioni sanitarie a
una media di seimila pazienti, e ha registrato nel 2014 un aumento di assistiti
pari a 1.200 unità. Fra gli utenti sono in aumento gli italiani, che si
rivolgono al poliambulatorio soprattutto per ottenere gratuitamente i farmaci
di fascia C, quelli per cui non è possibile ottenere esenzioni. Le malattie più
frequenti sono quelle che il responsabile indica come tipiche della povertà e
cioè quelle dell’apparato respiratorio, del sistema osternomuscolare,
dell’apparato digerente e della pelle. «Ma non dimentichiamo le ferite
invisibili», precisa Salvatore Geraci, «quelle generate dai traumi psicologici
subiti dalle persone vittime del conflitto, della tratta, della violenza
intenzionale e delle torture» al centro di un progetto nel quale un’équipe di
operatori specializzati offre un servizio di ascolto e di psicoterapia
transculturale.

Il poliambulatorio, oltre che sul personale dedicato, si
regge sul lavoro di 380 volontari. Qualcuno è un ex paziente. «Mi viene in
mente il caso di una coppia di cinesi che avevamo curato qui al poliambulatorio»,
ricorda con un sorriso il dottor Geraci. «L’idea di prestare lavoro senza
ricevere un compenso – cioè il volontariato – 
è inconcepibile per i cinesi, non è nelle loro cornordinate culturali. La
gratitudine nei confronti di chi li ha aiutati però lo è. Per questo, quando i
coniugi sono riusciti tramite il ricongiungimento familiare a far venire a Roma
il figlio, lo hanno praticamente obbligato a venire a dare una mano».

 
I rifugiati

A pochi passi dal poliambulatorio c’è la sede di Prime
Italia
, un’associazione di volontariato che si occupa di promuovere
l’integrazione dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione
internazionale (www.prime-italia.org). Fra le sue attività ci sono i corsi di
scuola guida gratuiti e a prezzo agevolato per rifugiati finanziati grazie ai
fondi dell’otto per mille della Tavola valdese e dell’Automobile Club
Roma
.

Da Termini, in venti minuti di metropolitana, si
raggiunge Ponte Mammolo dove dal 2003, all’interno di un più vasto insediamento
spontaneo abitato da famiglie rom, ne esiste uno più piccolo dove vivono
rifugiati in prevalenza eritrei, un’ottantina in tutto, suddivisi in una
cinquantina di piccole abitazioni di un vano. Alcune sono in muratura, altre in
lamiera, cartone, plastica. Due generatori alimentano le aree comuni adibite a
cucina e spazio ricreativo, ma le «case» mancano dei mezzi per scaldarsi e
conservare il cibo.

«A partire dal 2013» spiega Guglielmo Micucci,
presidente di Prime, «dopo aver gradualmente cercato di creare un rapporto
di fiducia con i rifugiati, abbiamo avviato una serie di attività nel campo»:
fra queste, la distribuzione di sacchi a pelo e una collaborazione con Leroy
Merlin Italia
che ha permesso la riqualificazione dei servizi sanitari.
Fabiola Zanetti, responsabile delle attività Prime a Ponte Mammolo,
racconta soddisfatta un lieto risvolto inatteso del progetto con Leroy
Merlin
: «Augusto, uno dei ragazzi del campo, ha dato una mano nella
ristrutturazione dei bagni. Notando il suo impegno, Leroy Merlin gli ha
offerto un tirocinio: ha iniziato a metà gennaio 2015».

Quello di Ponte Mammolo è il più piccolo dei principali
insediamenti e occupazioni informali nei quali vivono richiedenti e titolari di
protezione internazionale. Gli altri sono il Selam Palace (ex Enasarco)
di Anagnina – Romanina, che ospita circa 700 persone prevalentemente di
nazionalità etiope, eritrea, somala e sudanese, e l’edificio di via Collatina
385, sette piani per un numero di etiopi ed eritrei che varia da 400 a 600. Al centro
Ararat
in zona Testaccio vivono poi un’ottantina di curdi e, se
l’insediamento di Stazione Ostiense è stato sgomberato nel 2012, l’anno
successivo è stato occupato uno stabile di cinque piani in piazza Indipendenza,
a due passi da Termini, dove abitano circa 500 rifugiati in maggioranza
eritrei. Sono circa duemila persone in gran parte uomini, ma non mancano le
donne e i bambini.

Chiara Giovetti

(1 –
continua)

tags: migranti, accoglienza, Centro Astalli, rom, integrazionediritti umani

Chiara Giovetti




Ma le intese non bastano

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 27

Nonostante la legge
sulla libertà religiosa in Italia sia ancora quella del ‘29, non siamo fermi
lì. Le intese tra lo stato e le singole confessioni avvicinano il nostro paese
alla propria Costituzione, ma il deputato del Pd, Roberto Zaccaria, sostiene la
necessità di una nuova legge. Finché essa non ci sarà, non sarà realizzata in
Italia la libertà di credo. Chiudiamo con questa intervista il piccolo ciclo di
dialoghi sulla libertà religiosa con parlamentari italiani.

Una via pragmatica per arrivare in
Italia alla realizzazione del diritto alla libertà religiosa è stata indicata
dal prof. Stefano Ceccanti, ex senatore Pd, e dal senatore Fi Lucio Malan,
nelle due puntate precedenti: quella delle intese tra stato italiano e singole
confessioni religiose, uno strumento previsto dalla Costituzione.

Oggi, infatti, ci si trova ancora con
la vecchia legge del ’29 – anche se profondamente amputata delle sue parti
incompatibili con la Costituzione -, e allo stesso tempo con l’oggettiva
difficoltà a produrre una nuova legge generale, dimostrata dal fallimento di
vari tentativi del Parlamento in diverse legislature. Piuttosto di insistere
sulla strada impraticabile di una legge generale, si sostiene, è meglio
procedere con le intese, e solo in un secondo momento, quando dovessero esserci
le condizioni appropriate, arrivare a una legge generale.

Roberto Zaccaria non è però dello
stesso avviso. Professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico presso
l’Università di Firenze, ha insegnato Diritto costituzionale, Diritto
dell’informazione e Diritto regionale all’Università di Firenze, Macerata,
Lumsa e Luiss di Roma.

È stato membro della Camera dei
deputati nelle legislature XIV (2001-2006, gruppo La Margherita-L’Ulivo), XV
(2006-2008, gruppo L’Ulivo) e XVI (2008-2013, gruppo Pd).

È stato consigliere di
amministrazione della Rai dal 1977 al 1993 e suo presidente dal 1998 al 2002,
vice Presidente dell’Uer (Unione delle televisioni pubbliche europee) dal 2000
al 2002.

È giornalista pubblicista, iscritto
all’Ordine dei giornalisti.

A differenza dei suoi
colleghi Ceccanti e Malan, lei sostiene la necessità di giungere il più presto
possibile a una legge generale sulla libertà religiosa. Per quali motivi?

«L’esigenza
di intervenire per sostituire la legge del 1929 è essenziale e prioritaria. I
principi contenuti nella nostra carta costituzionale soffrono per una
attuazione incompleta nonostante quello che è stato fatto dall’ordinamento
internazionale ed europeo e dalla giurisprudenza a ogni livello.

Le
intese hanno in qualche modo accentuato la divaricazione tra i fedeli delle
diverse religioni e il trattamento delle stesse confessioni e associazioni.

La
strada di trasformare in legge unilaterale il contenuto comune delle diverse
intese è teorica: bisognerebbe comunque passare da un Parlamento che al momento
sembra poco sensibile verso questi temi. Tanto vale, allora, fare una legge ad
hoc, all’altezza dei tempi».

Una normativa
generale inevitabilmente cerca di dare delle «definizioni di sistema» su cui
l’accordo tra le diverse anime del Parlamento è arduo. Qualcuno lo ritiene
addirittura impossibile. Non pensa che sia difficile superare le diverse
visioni quando si affrontano problemi generali, concettuali e teologici?

«Non
credo che il problema sia quello della difficoltà di dare definizioni di
sistema condivise. Il problema è rappresentato piuttosto dalla difficoltà per
il Parlamento di fare leggi di sistema in ogni campo. Basta guardare i dati
sulla produzione normativa per convincersene. La riforma costituzionale e la
legge elettorale sono due eccezioni accompagnate da una fortissima
determinazione politica. Il resto è governo dell’economia. E questa è la
seconda motivazione: una legge sulla libertà religiosa non rientra tra le
priorità in questo momento storico, come non lo rientrano del resto alcune
leggi complementari come quella sulla cittadinanza e quella sull’immigrazione».

Nella XV legislatura
lei è stato promotore di una legge generale che caratterizzasse in modo molto
preciso il diritto di libertà religiosa, specificando i diritti dei singoli e
delle varie confessioni.

«Nella
XV legislatura sono stato più precisamente il relatore della legge sulla libertà
religiosa riprendendo il lavoro che era stato avviato dall’on. Maselli nella
XIII legislatura (1996-2001). Nella XIV legislatura il percorso parlamentare
alla Camera aveva preso le mosse da un disegno di legge del governo Berlusconi
(Ac – Atto della Camera – n. 2531) che riproduceva nella sostanza il testo del
progetto di legge del governo Prodi della XIII legislatura. Nella XV abbiamo
invece lavorato su due proposte di legge d’iniziativa parlamentare,
rispettivamente dei deputati Bornato (Ac n. 36) e Spini (Ac n. 134), intitolate «Norme
sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi». Ci
siamo mossi con grande rigore svolgendo addirittura due cicli di audizioni: la
prima sulle proposte Bornato e Spini e la seconda su un testo del relatore.
L’atteggiamento intransigente della Cei, manifestato soprattutto nel secondo
ciclo di audizioni, sull’inserimento nel testo di un riferimento al principio
di laicità, ha prodotto un irrigidimento anche in alcuni dei partiti del
centrodestra. Di fronte a un numero rilevantissimo di emendamenti, il
provvedimento si è arenato. La conclusione dei lavori è avvenuta il 24 luglio
2007. La legislatura è finita alcuni mesi dopo».

Ora ha promosso il
«Gruppo Astrid» che lavora in vista della stesura di una nuova proposta di
legge.

«Poco
dopo l’inizio della XVII legislatura, vedendo che il Parlamento non sembrava
intenzionato ad affrontare l’argomento, con il sostegno di un nutrito gruppo di
professori di diritto ecclesiastico, ho proposto alla Fondazione Astrid di
avviare un gruppo di lavoro per definire una nuova legge sulla libertà
religiosa. A motivare quest’iniziativa non c’era solo il fatto che in
Parlamento il tema risultasse assente, ma anche la necessità di rimettere mano
a una nuova impostazione della legge. I testi che avevano accompagnato il
dibattito parlamentare nelle legislature che abbiamo ricordato erano
decisamente datati e quindi si è deciso di impiegare utilmente le energie
dell’accademia nella predisposizione di un testo che sarebbe potuto essere
utile in una prossima stagione parlamentare. L’idea del gruppo di lavoro ha
preso forma più concreta a Camaldoli, nel maggio del 2013 (cfr. L. Rolandi, L’Italia
religiosa tra disinteresse e sospetto
, in Mc agosto-settembre 2013),
in un convegno organizzato dalla redazione del n. 1 dei «Quadei di diritto e
politica ecclesiastica» in collaborazione con il Fidr (Forum internazionale
democrazia e religioni, www.fidr.it). Il convegno aveva per titolo La libertà
religiosa in Italia: un capitolo chiuso?
1».

In quanto tempo pensa
che il testo possa essere pronto?

«I
tempi di lavoro sono costanti in relazione al progetto. Esiste un gruppo
redazionale più ristretto che presenta proposte per il gruppo più ampio2. Sono stati esaminati una sessantina di
articoli. Il lavoro istruttorio si concluderà entro 6-8 mesi. A quel punto
credo che verrà convocato un seminario per discutere coralmente il testo».

Il testo di questa
nuova proposta di legge si differenzia, e in che cosa, da quello da lei
promosso nella XV legislatura?

«Come
dicevo, il nuovo testo, pur prendendo le mosse da quello vecchio, ne allarga
considerevolmente l’orizzonte, e tiene conto degli stati di avanzamento sia
della giurisprudenza che della dottrina. A partire dagli anni 2000 sta
crescendo sensibilmente il profilo internazionale e comunitario della libertà
religiosa; si affacciano i problemi identitari connessi ai flussi migratori; si
prospettano problemi di bioetica; cresce il coinvolgimento di realtà
confessionali estranee alla tradizione giudaico-cristiana; aumentano i problemi
di pluralismo religioso; si fa più complesso il rapporto tra profilo collettivo
e profilo individuale del diritto di libertà religiosa; e tutto questo ha
rilevanti conseguenze sul concetto stesso di libertà religiosa. Questo è un
diritto che viene sempre più spesso associato a problematiche di natura
etico-morale e di natura politico-culturale in riferimento al cambiamento della
geografia religiosa dovuto ai fenomeni migratori. In più, come vediamo anche in
questi giorni, aumentano le questioni di ordine pubblico e sicurezza».

Su cosa basa la sua
fiducia che questa volta una legge generale sulla libertà religiosa possa
essere approvata dal Parlamento? In particolare, ritiene che tale risultato si
possa conseguire nel corso della presente legislatura?

«Non
ho detto che cresce la fiducia sulle possibilità che il Parlamento arrivi ad
approvare un testo in questa legislatura. È proprio questo il motivo per cui
riteniamo utile lavorare al di fuori del Parlamento in una fondazione come
Astrid che lavora al fianco delle istituzioni ma che consente di riunire
esperienze e discipline diverse. Quando saremo pronti offriremo ben volentieri
questo lavoro alle istituzioni e alla politica. Oggi lavoriamo tranquillamente
anche al riparo dalle inevitabili tensioni che il dibattito politico genera».

La sua proposta
precedente si fermò anche perché non ci fu accordo sul fatto che essa si
fondasse sul principio di laicità che, tuttavia, è alla base della Costituzione
repubblicana. Perché dunque non ci si è trovati d’accordo? Oggi le cose sono
cambiate o l’affermazione della laicità dello stato costituisce ancora un
problema per qualcuno?

«In
quel momento quel riferimento nel testo al principio della laicità è risultato
dirompente, ma non è detto che debba essere
sempre così: le cose cambiano. Del resto ripeto che la nostra proposta
avrà un respiro più ampio e, pur fondandosi ovviamente sul principio di laicità
che è parte essenziale della nostra Costituzione, potrà declinarlo in modo
altrettanto efficace. Non credo proprio che andando alla radice del problema vi
possano essere dei contrasti. Magari vi saranno su altri aspetti».

Ritiene che, anche
quando fosse approvata la nuova legge generale sulla libertà religiosa, sarebbe
utile proseguire con la stipula delle intese tra lo stato e le confessioni
religiose?

«Diciamo
subito che non è lecito chiudere una porta, come quella delle intese, che la
Costituzione prevede. D’altra parte ci sono delle intese che hanno fatto
ampiamente il loro percorso, come quella con i Testimoni di Geova, che
dovrebbero essere approvate. Certo, su un piano generale, diciamo di opportunità,
credo che sarebbe meglio procedere con una legge unilaterale dello stato che
regoli il diritto per tutti perché, paradossalmente, se procedessimo solo sul
terreno della regolamentazione bilaterale attraverso le intese rischieremmo di
allargare le disparità tra chi gode di regimi particolari e chi ancora è
soggetto all’anacronistica legge 1159 del 1929».

In attesa della legge
generale, rimane aperta nel nostro paese la questione di un’intesa con l’Islam.
Quali problemi crea questa situazione, nella prospettiva di una piena
integrazione dei fedeli islamici nel sistema costituzionale e giuridico, oltre
che nella società, del nostro paese?
L’approvazione di una legge generale sulla libertà religiosa faciliterebbe la
soluzione di questi problemi o la renderebbe invece più difficile?

«È
esattamente questo il problema. Proprio all’Islam mi riferivo quando parlavo di
inaccettabili differenziazioni. Visto che fino a questo momento la strada
dell’intesa si è rivelata impercorribile con l’Islam, è essenziale procedere
sulla base della cosiddetta legge generale.

Non
ho alcun dubbio. Oggi questa legge è necessaria. Si potrebbe procedere anche
con la creazione di un testo unico che riunisca le disposizioni sparse in una
quantità enorme di testi normativi diversificati. In questa materia però la
mera compilazione non è sufficiente: si tratta di riordinare e ammodeare. Io
credo che la strada migliore sia invece quella di fare una legge di principi e
anche di disposizioni innovative che mettano in soffitta la legge sui culti
ammessi, che contenga una delega idonea e confezionare le disposizioni più
specifiche, e anche la delega per la redazione di un testo unico innovativo».

Paolo Bertezzolo
Note:

1- Tra i relatori di quel convegno c’erano, tra
gli altri, Roberto Mazzola, dell’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro,
Marco Ventura della Katholieke Universiteit Leuven, Romeo Astorri
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Alessandro Ferrari dell’Università
degli Studi dell’Insubria.

2- Il gruppo è formato, oltre che dai professori
indicati nella nota 1, dall’intervistato Roberto Zaccaria, in veste di
cornordinatore, da Francesco Margiotta Broglio, Sara Domianello, Pierangela
Floris, Valerio Tozzi, Paolo Naso, Paolo Cavana e Marco Croce. Ha partecipato
ad alcune riunioni il Sen. Lucio Malan. Hanno anche aderito Paolo Corsini e
Vannino Chiti. Partecipano stabilmente alle riunioni, in veste di osservatori,
la dott.ssa Anna Nardini per l’Ufficio studi e rapporti istituzionali della
Presidenza del Consiglio, e la dott.ssa Giovanna Maria Rita Iurato della
Direzione centrale affari di culto del ministero dell’interno. Ci sono poi
alcuni esponenti di confessioni religiose che ne hanno fatto richiesta: Yahya
Pallavicini (Coreis, Comunità religiosa islamica italiana), Ezzedin Elzir
(Ucoii, Unione delle comunità islamiche d’Italia), Abdellah Redouane (Moschea
di Roma), Tiziano Rimoldi (Avventisti), un rappresentante della chiesa
Ortodossa. Per l’Uaar (Unione atei agnostici razionalisti) partecipa anche
Adele Orioli.

Del gruppo redazionale più
ristretto fanno parte Ferrari, Mazzola, Domianello e Floris.

Paolo Bertezzoro




2. Massimiliano Kolbe

Massimiliano
Maria Kolbe nasce in Polonia a Zdunska-Wola, una cittadina nei pressi di Lodtz,
l’otto gennaio del 1894. Giovanissimo entra nell’Ordine dei Frati Minori
Conventuali e, pur ammalato di tubercolosi, svolge un intenso apostolato
missionario prima in Europa e successivamente in Asia. Durante
l’occupazione della sua patria da parte dei nazisti, nel 1941 è fatto
prigioniero e deportato ad Auschwitz. In questo campo di sterminio offre la sua
vita al posto di quella di un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. Condannato a
morire di fame, è finito con un’iniezione letale il 14 agosto 1941.


Padre Kolbe, il tuo
conterraneo papa san Giovanni Paolo II ti ha chiamato: «Patrono del nostro
difficile secolo». Si riferiva ovviamente a tutto il Novecento, secolo di
progresso ma caratterizzato da tragedie immani come le due Guerre Mondiali.
Puoi parlarci un po’ di te e della tua infanzia?

Sono nato a Zdunska-Wola, nel cuore della Polonia, l’8
gennaio 1894, i miei genitori erano ferventi cristiani. Mio papà Giulio,
operaio tessile, era un patriota che non sopportava la divisione della Polonia
di allora in tre parti dominate rispettivamente da Russia, Germania e Austria.
La nostra era una famiglia che aveva scarse risorse finanziarie e, a causa di
questo, solo mio fratello maggiore poté frequentare la scuola.

In quanti fratelli
eravate?

Eravamo cinque fratelli, ma solo tre riuscirono ad
arrivare all’età dell’adolescenza. Non potendo frequentare regolarmente le
scuole, imparai a leggere e scrivere con l’aiuto di un sacerdote e del
farmacista del paese. I Frati Minori Conventuali che conoscevano la difficile
situazione della mia famiglia proposero ai miei genitori di accogliere me e i
miei fratelli nel loro collegio.

Si può dire allora
che fin da piccolo il rapporto con i Conventuali Francescani ebbe un’importanza
fondamentale per te e per la tua famiglia.

Proprio vero. Il destino volle che un po’ tutta la
famiglia si legasse sempre di più all’Ordine dei Conventuali Francescani, sia
il papà che la mamma divennero terziari francescani e noi tre fratelli passammo
direttamente dal collegio al loro noviziato.

Una famiglia
esemplarmente francescana dunque.

Sì, ma mio fratello Francesco dopo alcuni anni lasciò la
vita religiosa per dedicarsi alla carriera militare. Prese parte alla Prima
Guerra Mondiale e, dopo essere stato catturato, morì in un campo di prigionia.
L’altro, finiti gli studi, si inserì nel mondo lavorativo.

Tu invece?

Dopo il noviziato fui inviato a Roma, dove restai sei anni
laureandomi in filosofia all’Università Gregoriana e in Teologia al Collegio
Serafico. Nella «Città Etea» venni ordinato sacerdote il 28 aprile 1918.

Che ricordi hai di quel
periodo della tua giovinezza vissuta a Roma?

Ricordo due fatti in particolare: un giorno, mentre
giocavo a pallone, cominciai a perdere sangue dalla bocca. Fu l’inizio di una
malattia, la tubercolosi, che tra alti e bassi mi accompagnò per tutta la vita.
In secondo luogo, prima di diventare sacerdote, fondai la «Milizia
dell’Immacolata», un’associazione religiosa avente per finalità la conversione
di tutti gli uomini per mezzo di Maria.

Dopo aver completato
gli studi hai fatto ritorno nella tua patria, che compiti ti furono affidati?

Pur essendomi laureato a pieni voti, a causa della mia
salute malferma che mi impediva di parlare a lungo, ero inadatto
all’insegnamento e alla predicazione. Così, una volta ritornato nella mia
Polonia, pensai di fondare un giornale di poche pagine, «Il cavaliere
dell’Immacolata», per alimentare lo spirito e la diffusione della «Milizia».

E le cose come
proseguirono?

A Grodno, una cittadina situata a 600 chilometri da
Cracovia, dove ero stato destinato dai miei Superiori, impiantai la tipografia
per la stampa del giornale con vecchi macchinari. Nel contempo con mio grande
stupore, molti giovani desiderosi di condividere una vita francescana e allo
stesso tempo di dedicarsi a una nuova forma di apostolato legata alla nascente
editoria cattolica, cominciarono a confluire nella mia comunità.

Pur nella limitatezza
dei mezzi a disposizione, la tua intraprendenza e il tuo ardore fecero il
miracolo di attirare sempre più gente accanto a te.

Effettivamente la Provvidenza ci venne in aiuto in maniera
formidabile: un conte ci donò un terreno vicino a Varsavia, e lì fondai «Niepokalanow»,
la «Città di Maria». Quello che avvenne negli anni successivi ebbe del
miracoloso. Dalle prime capanne si passò a edifici in mattoni, dalla vecchia stampatrice,
si passò alle modee tecniche di stampa e composizione, dai pochi operai agli
oltre settecento religiosi di dieci anni dopo. Il «Cavaliere dell’Immacolata»,
inoltre, raggiunse la tiratura di milioni di copie. A esso si aggiunsero altri
sette periodici.


La tua terra però ti
stava «stretta» e tu volevi spaziare su orizzonti più vasti.

Sì, nel 1930 partii per il Giappone
dove, a Nagasaki, con l’aiuto della piccola ma tenace comunità cattolica
locale, impiantai una tipografia e feci sorgere una cittadella sul modello
della «Città di Maria» che avevo lasciato in patria.

E come reagì la
comunità cattolica nipponica?

Anche in Giappone la Provvidenza fece meraviglie: la
tiratura delle nostre riviste raggiunse ben presto 18.000 copie e, pur essendo
i cattolici una piccolissima minoranza, riuscimmo a produrre dei giornali che
attiravano l’interesse anche dei giapponesi che non professavano la nostra
stessa fede.

Ma anche l’Estremo
Oriente non ti fu sufficiente, volevi allargare sempre più il tuo campo d’azione.

È vero, per conoscere maggiormente la realtà asiatica feci
un viaggio con la Transiberiana e mi misi a studiare il russo. Tra i miei sogni
c’era anche il progetto di una missione in India. Inoltre, vista la buona
tiratura dei nostri giornali, pensavo con i miei collaboratori di stamparli in
diverse lingue e diffonderli in tutto il mondo.

Ma
un’attività così intensa certamente avrà prostrato il tuo fisico considerando
anche la tua malattia.

Il poco riguardo per la mia salute portò la mia
tubercolosi a un vistoso peggioramento, perdevo sangue in maniera più
consistente e più frequentemente. I miei superiori mi imposero perciò una
visita medica approfondita. Il responso fu abbastanza crudo: i medici dissero
che mi restavano pochi mesi di vita. Decisi allora di tornare in Polonia. In
patria ebbi modo di curarmi e la salute migliorò.

Alla fine degli anni
’30 la Polonia viveva tempi difficili…

Purtroppo, dopo che Hitler ebbe annesso alla Germania
l’Austria e la Cecoslovacchia, il primo settembre 1939 le truppe naziste al
comando del generale Guderian, invasero la mia terra. Duemila aerei della
Lutwaffe bombardarono Varsavia, dando così inizio alla Seconda Guerra mondiale.

L’occupazione nazista
fu particolarmente brutale nei vostri confronti.

Secondo la loro ideologia esisteva la
razza ariana superiore a tutte le altre, e noi popoli slavi eravamo visti come
mano d’opera che doveva servire i nuovi padroni. I nazisti arrivarono ai
cancelli della nostra comunità il 19 settembre del 1939 e ci arrestarono tutti
perché il nostro giornale non era gradito al governo di occupazione.

Dove vi portarono?

Ci divisero e ci sbatterono in diverse carceri dei paesi
occupati, a volte ci spostavano senza darci nessun preavviso. Questi viaggi
avvenivano in vagoni bestiame riempiti all’inverosimile, senza servizi, con le
porte sprangate dall’esterno. Regnava fra i prigionieri un clima di
rassegnazione: tutti temevano il peggio. Ebbene io mi feci forza e intonai un
canto religioso cui subito si unirono molti altri. Questo nostro modo di fare:
cantare su carri bestiame diretti ai campi di sterminio, la ritengo una delle
forme più alte di preghiera che in quel momento potevamo fare.

Quale fu la tua
destinazione finale?

Il 28 maggio del ’41 mi trasferirono ad Auschwitz insieme
ad altri 320 compagni di sventura. Una volta arrivati in quel tristemente
famoso campo di sterminio, fui messo insieme agli ebrei perché sacerdote, e mi
diedero una casacca con il numero 16670.

Com’era la vita al
campo?

Ricordo con sofferenza gli appelli che le guardie si
divertivano a fare a tutte le ore, anche nel cuore della notte, per vedere se
qualche prigioniero era fuggito. Io venni inserito nella squadra adibita ai
lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri raccolti nelle camere a gas
e destinati al crematorio. La vita di ognuno non contava proprio nulla agli
occhi degli aguzzini di Auschwitz. Alla fine di luglio fui destinato alla
squadra addetta alla mietitura nei campi, un lavoro certamente più dignitoso di
quello che ero stato costretto a fare fino ad allora.

Quindi, pur nella
terribile condizione di prigioniero in un campo nazista, perlomeno potevi
uscire per mietere il grano.

Questo, che innegabilmente era, rispetto allo standard
della vita dei prigionieri, un vantaggio, si trasformò in un incubo quando uno
dei miei compagni riuscì a sottrarsi al controllo delle guardie e a fuggire.
Secondo l’inesorabile legge che vigeva ad Auschwitz, per ogni prigioniero che
fuggiva, altri dieci venivano destinati al bunker della morte. Ci radunarono
quindi nello spiazzo centrale e a caso i nazisti prelevarono dieci disgraziati
da sopprimere.

Chissà che tortura anche per chi non era
punito, assistere a quelle scene.

Effettivamente… una volta scelti i dieci disgraziati, vidi
uno di loro disperarsi lanciando alte grida al cielo, urlando che lui era un
papà di famiglia e che i suoi figli aspettavano la fine della guerra per
rivederlo. Presi allora la decisione di offrirmi al suo posto.

Un uomo con una forte
personalità come la tua, che aveva ottenuto risultati brillanti in ogni parte
del mondo, si ritrovava così nella condizione terribile e sublime allo stesso
tempo di offrire la propria vita per salvae un’altra.

In quel preciso istante mi sentii per un attimo un «perdente»
sotto ogni aspetto, ma subito risuonò in me la parola del Signore che diceva: «Non
c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Capii
allora che se volevo contribuire a vincere l’iniquità del peccato calato su
tutta l’Europa, era necessario donare tutto me stesso, perdermi totalmente nei
gorghi del male per ritrovare nuovamente la mia vita trasformata in Cristo.

Questo
per i nazisti non comportò nessun problema?

No, per loro dovevano essere giustiziati dieci
prigionieri, non importava chi fossero. Ci rinchiusero pertanto in minuscole
celle dove potevamo a malapena sederci. Le celle vennero poi murate. La
condanna prevedeva la morte per mancanza di cibo e acqua. Un’agonia lunghissima
che si consumava tra disperazione e atroci sofferenze. Decisi allora di
alleviare la disperazione dei miei compagni pregando ad alta voce e innalzando
canti religiosi al Signore.

E i tuoi compagni di
sventura come reagirono a questa tua iniziativa?

Alcuni unirono le loro voci alle mie preghiere e ai miei
canti, dopo alcuni giorni però i più deboli cominciarono a spegnersi. Dopo ben
quattordici giorni in quattro eravamo ancora in vita. I nazisti decisero allora
di sopprimerci con una iniezione di acido fenico. Così ebbero termine le nostre
sofferenze.

Padre Massimiliano Kolbe si spense il 14 agosto
1941, le sue ultime parole, mentre gli facevano la letale iniezione nel braccio,
furono: «Ave Maria». Insieme ai suoi compagni venne quindi gettato nel foo
crematorio e le sue ceneri si mescolarono a quelle di tanti altri sventurati.
Così finì la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo
della Chiesa polacca e universale. Papa Paolo VI lo beatificò il 17 ottobre
1971, mentre papa Giovanni Paolo II lo proclamò Santo il 10 ottobre 1982. Il
suo fulgido martirio resta una testimonianza esemplare della coerenza cristiana
vissuta in tempi e ambienti terribili.

Don Mario Bandera,
Missio Novara


Mario Bandera




Amico

Si
avvicina l’ora – ed è già compiuta – in cui la luce spezza le tenebre, quelle
tanto amate perché stendono l’oblio sul nostro male, procurato, subito,
partecipato. «Gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce» (Gv 3,19)
perché le loro opere non venissero riprovate, perché identificavano se stessi
con i loro peccati e iniquità. Viene l’ora – ed è già compiuta – in cui la luce
sulla nostra realtà non fa più paura, non perché la realtà sia migliore di come
credessimo, ma perché è amata, salvata, e quindi sì, perché è migliore: non è
sola, giudicata, abbandonata.

Arriva l’ora in cui Lui, il Dio
innalzato (Gv 12,20-33), conclude con noi un’alleanza nuova, e incide
direttamente sul nostro cuore il suo amore: non su tavole di pietra, estee,
ma sui tessuti molli e allo stesso tempo tenaci del nostro nucleo vitale (Ger
31,31-34).

Ecco l’ora in cui Lui attira
tutti a sé. In cui conosciamo già e non ancora il nostro Signore. In cui
scopriamo impressa in noi la sua immagine, e in Lui la nostra dimora.

È forte, in quest’epoca ambigua
di terrorismo, di crisi finanziarie, di pandemie, di impoverimento e disparità
crescenti, la tentazione di credere più alle tenebre che alla luce. Eppure Lui è
qui, ci attira a sé, ci innalza con Lui.

E a quelle persone che ci
chiedessero «vogliamo vedere Gesù» possiamo indicarlo nel loro battito
cardiaco, nell’ombra che le protegge, nell’altitudine a cui è attratto il loro
spirito, nella vita morta che risorge, in ciò che di vero e bello già
conoscono.

Con l’augurio di sentire
fortemente il desiderio di «vedere Gesù»,

buon
cammino da amico.

Luca Lorusso

Luca lorusso




Cooperazione: coi soldi di chi?

Chi finanzia lo
sviluppo? E chi la cooperazione allo sviluppo? Un’istantanea sul flusso dei
finanziamenti ai paesi del Sud del mondo e una panoramica sull’Italia. Con uno
zoom sul ruolo – in crescita – dei fondi privati e un cameo sulle Ong italiane
e l’otto per mille.

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Aiuto pubblico allo sviluppo: quanto aiuta?

Centotrentaquattro miliardi di dollari, ecco la cifra che i paesi donatori hanno speso nel 2013 - ultimo dato disponibile - per aiuto pubblico allo sviluppo (Aps): la più alta mai raggiunta. L’incremento, precisa l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), è stato di sei punti percentuali rispetto all’anno precedente e la tendenza all’aumento potrebbe essere confermata anche dai dati 2014.

Ma quanto sono 134 miliardi di dollari? Non poco, constata l’Ocse, se si considera che la maggior parte delle economie dei paesi è alle prese con sempre più severi tagli alla spesa imposti dalla difficile congiuntura economica internazionale. Pochino, invece, se li si confronta con i 1.700 miliardi che il mondo destina annualmente alle spese di difesa, o con le altre voci che compongono i flussi di risorse economiche verso i paesi in via di sviluppo. Bisogna moltiplicare per almeno quattro i 134 miliardi di aiuto, ad esempio, per ottenere il totale degli investimenti stranieri diretti nei paesi del Sud del mondo, quelli cioè che sono puri investimenti senza agevolazioni e che vanno rimborsati fino in fondo con gli interessi. Quanto alle rimesse dei migranti, cioè il denaro che i lavoratori immigrati inviano nei loro paesi d’origine, ammontano a più di tre volte l’aiuto pubblico: nel 2014 hanno raggiunto i 435 miliardi di dollari.

Questi paesi, insomma, crescono più grazie ai soldi dei loro migranti e degli investitori stranieri che alla cooperazione bi/multilaterale. Ma è anche vero, notano vari osservatori, che i flussi in sé non inducono automaticamente miglioramenti a infrastrutture, sanità, sistema educativo. Sempre l’Ocse, nel rapporto 2014 sulla cooperazione allo sviluppo, sottolinea ad esempio come le rimesse siano «tradizionalmente percepite come risorse da utilizzare per i consumi diretti (medicine, cibo, automobili, ecc.) più che per investimenti produttivi, e questo può generare dipendenza da ulteriori rimesse». Accanto a casi positivi in cui una correlazione fra rimesse e salute o rimesse e investimenti si è effettivamente registrata, ce ne sono altri nei quali questi flussi di denaro hanno anche creato sperequazioni nella distribuzione del reddito. Evidentemente molto dipende dalle decisioni politiche locali nei paesi beneficiari e dal grado di consapevolezza e responsabilità con cui questa fonte di ricchezza viene gestita. L’aiuto pubblico allo sviluppo ha invece in questi miglioramenti sistemici il proprio principale obiettivo; il dibattito semmai è su quanto efficacemente lo raggiunga.

I primi dieci paesi beneficiari dell’aiuto pubblico allo sviluppo sono l’Afghanistan, con cinque miliardi di dollari, seguito da Myanmar, Viet Nam, India, Indonesia, Kenya, Tanzania, Costa d’Avorio, Etiopia e Pakistan. I dieci principali donatori sono gli Stati Uniti, con 31 miliardi di dollari, seguiti da Regno Unito, Germania, Giappone, Francia, Svezia, Norvegia, Paesi Bassi, Canada e Australia; ma a superare la soglia dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo destinato all’aiuto (fissata dalle Nazioni Unite nella Dichiarazione del millennio come impegno da realizzare entro il 2015) sono solo Norvegia, Svezia, Lussemburgo, Danimarca e Regno Unito.

Un discorso a parte meritano poi i paesi cosiddetti non Dac, cioè non membri del comitato per l’assistenza allo sviluppo dell’Ocse (il cui acronimo in inglese è, appunto, Dac) a cui invece si riferiscono i dati sin qui riportati. Si tratta dei cosiddetti paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e di una ventina di altri stati fra cui Emirati arabi uniti, Turchia, Israele, Kuwait. La loro quota d’interventi assimilabili all’aiuto pubblico allo sviluppo perché i criteri per definirlo in questi paesi sono diversi da quelli dell’Ocse - ammonterebbe a quasi 17 miliardi di dollari. L’aiuto fornito da questi stati sembra essere in aumento e il principale donatore è la Cina, con cinque miliardi e mezzo di dollari.

Aiuto privato: a quanto ammonta?

Una fonte di finanziamento per lo sviluppo in forte crescita è data dai fondi privati: organizzazioni non governative, fondazioni, aziende, associazioni non profit. Secondo le stime dell’Ocse, nel 2011 questi fondi erano pari a 45 miliardi di dollari, due terzi dei quali provenienti dagli Stati Uniti, il cui aiuto privato allo sviluppo eguaglia quello pubblico. Oltre la metà dei fondi provengono dalle organizzazioni non governative, mentre il resto è diviso abbastanza equamente fra fondazioni e donazioni da parte di aziende. Questo tipo di finanziamento sta ricevendo crescente attenzione da parte dell’Ocse e degli altri enti che si occupano di misurare il polso della cooperazione allo sviluppo. Questo perché, se è vero che la quantità di fondi è relativamente limitata a confronto con i flussi di cui abbiamo parlato prima, è anche vero che - come l’aiuto pubblico e a differenza di rimesse e investimenti - ha come scopo dichiarato proprio lo sviluppo e ha quindi un potenziale molto più elevato di incidere su quello rispetto ad altri tipi di risorse in entrata nei paesi beneficiari.

Si tratta però di una categoria della quale è difficile tracciare contorni chiari sia per quanto riguarda i soggetti, che vanno da colossi come la Bill & Melinda Gates Foundation alle piccole realtà associative, sia relativamente all’impatto e alla tracciabilità dei fondi erogati, cioè a quanto e come questi fondi arrivano ai beneficiari finali. In mancanza di dati certi, è molto difficile inserire questa risorsa nella programmazione degli interventi di cooperazione: se si tratta di un ente come la Gates Foundation, infatti, il suo contributo ai programmi di cooperazione è noto e spesso cornordinato con quello dei partner pubblici. Ma nel caso del volontariato, delle piccole associazioni, delle realtà meno strutturate, la presenza di forme di cornordinamento è molto più episodica. Anche per questo tipo di fondi occorre tener conto dei flussi privati dai paesi non Dac, che ammonterebbero a trentacinque miliardi di dollari.

Il caso dell’Italia

L’Italia ha destinato in aiuto pubblico allo sviluppo 3,4 miliardi di dollari nel 2013, pari allo 0,17 per cento del proprio Pil e al 2,5 per cento del totale dei paesi donatori. Al contrario della media degli altri paesi donatori, la maggior parte dell’aiuto italiano raggiunge i paesi beneficiari tramite il canale multilaterale: oltre il settanta per cento, infatti, consiste in fondi girati dal governo italiano alle istituzioni inteazionali, specialmente all’Unione europea. L’Italia è il quarto maggior contribuente al budget della cooperazione allo sviluppo comunitaria dopo Germania, Francia e Regno Unito.

Per la parte bilaterale, cioè di rapporti diretti fra il governo italiano e i paesi riceventi, una parte consistente degli 850 milioni di dollari totali è data dall’assistenza ai rifugiati in Italia, pari a 403 milioni. La cancellazione del debito ai paesi beneficiari, anche questa considerata parte dell’aiuto pubblico allo sviluppo, si è ridotta a poco più di tre milioni di dollari ma nel 2011 era un’altra delle voci più «pesanti»: 648 milioni, il 37% del totale. Tentiamo un’analisi di questo quadro. L’Italia ha certamente fatto passi avanti nel dare credibilità al proprio impegno per lo sviluppo. Come conferma l’esame effettuato dall’Ocse nel 2014, il nostro paese ha invertito la tendenza aumentando il volume dell’aiuto. Ma la limitatezza del canale bilaterale dà l’impressione di un paese al traino, che non ha una propria strategia chiara e si affida più alle agenzie multilaterali che a una propria pianificazione diretta con i paesi beneficiari. Non solo. Assistenza ai rifugiati e cancellazione del debito sono certamente voci fondamentali, tanto più che la seconda vincola in teoria i paesi altamente indebitati a impegnarsi in politiche di riduzione della povertà in cambio della cancellazione. Ma, come sottolineava lo scorso giugno nel sul blog ZeroVirgolaSette il consigliere del Ministero degli esteri Iacopo Viciani, «in passato varie Ong, da ActionAid alla piattaforma Concord, avevano contestato che le operazioni di cancellazione del debito o le spese per sensibilizzare il pubblico ai problemi dello sviluppo globale o quelle per accogliere i rifugiati nel paese donatore o le spese amministrative e di gestione dei progetti fossero registrate come Aps. Non costituirebbero infatti un trasferimento effettivo di risorse al paese». Sarebbe, cioè, una forma di aiuto «passiva» non in grado di incidere sulle cause della povertà e non basata su una effettiva concertazione fra paesi donatori e beneficiari per individuare e realizzare interventi che portino ad esempio a un miglioramento dei sistemi sanitari ed educativi, a un potenziamento delle infrastrutture, a un rafforzamento del tessuto economico dei paesi che ricevono i flussi di aiuti.

L’aiuto italiano e le Ong

In Italia, riporta l’esame (peer review) Ocse 2014, il settanta per cento dell’aiuto pubblico allo sviluppo è gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e riguarda la cooperazione multilaterale, mentre al Ministero per gli affari esteri e la cooperazione internazionale (Maeci), che si occupa di cooperazione bilaterale compresi i finanziamenti a dono, resta un dieci-quindici per cento, il resto essendo gestito dalla Presidenza del Consiglio e da altri enti, fra cui le amministrazioni locali.

È da questi fondi che vengono i finanziamenti per i cosiddetti progetti promossi dalle Ong. Secondo i dati Ocse, l’Italia gestisce attraverso le Ong circa un decimo dell’aiuto pubblico allo sviluppo e la più ampia fetta di questi fondi va a progetti decisi dal donatore istituzionale (ministero) e affidati alle Ong per la realizzazione; meno del dieci per cento resta per i progetti che nascono dall’iniziativa delle Ong.

Per avere un’idea della situazione, basta pensare che la previsione per il 2015 è che il Maeci destini ai progetti delle Ong circa dieci milioni di euro, la stessa cifra che la Chiesa valdese mette a disposizione per la cooperazione allo sviluppo grazie alle entrate che le derivano dall’otto per mille. La Chiesa cattolica, attraverso la Conferenza episcopale italiana, nel 2014 ha allocato 85 milioni di euro alla voce «interventi caritativi nei paesi del Terzo Mondo» (contabilizzati comunque come aiuto pubblico allo sviluppo nei dati che l’Italia fornisce all’Ocse), mentre la Caritas Italiana ha distribuito fondi per dieci milioni di euro di cui otto milioni in programmi di sviluppo e il resto in aiuti d’emergenza e micro-progetti. Quanto alla quota di otto per mille Irpef assegnata allo stato italiano e teoricamente destinata a «fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione di beni culturali», il governo l’ha utilizzata nel 2013 per coprire altre voci di bilancio, mentre nel 2014 ha finanziato quattro progetti per un totale di quattrocento mila euro su 170 milioni di entrata totale dall’Irpef.

La Corte dei Conti ha di recente pubblicato uno studio nel quale si sottolinea che allo stato attuale il meccanismo dell’otto per mille non permette una vera scelta da parte del contribuente: la maggior parte dei fondi derivano di fatto dalla quota inespressa di preferenze, cioè dal denaro dei contribuenti che non hanno messo la croce né sullo stato né su una delle dieci confessioni religiose nella loro dichiarazione dei redditi, ma che vedono comunque la loro quota di otto per mille trattenuta e ripartita secondo le proporzioni determinate dai contribuenti che invece hanno espresso la preferenza. Il profilo che emerge dallo studio è di uno sbilanciamento dei fondi in favore delle confessioni (un miliardo e cento milioni di euro, di cui un miliardo e cinquanta alla Chiesa cattolica) e di uno stato che si disinteressa completamente della propria quota di otto per mille e tradisce così il «patto» con i contribuenti. Ma, al netto del dibattito sulla necessità di ripensare l’otto per mille e di quello sull’utilizzo effettivo dei circa 350 milioni di euro che le Ong gestiscono fra (pochi) fondi pubblici italiani, fondi pubblici europei e donazioni dei sostenitori - questa rivista ha affrontato l’argomento in Carità? Per carità!, MC giugno 2013 -, l’impressione di massima che emerge è quella di una cooperazione italiana che si è sin qui limitata, peraltro con altei successi, a «fare i compiti» abdicando completamente alla possibilità di avere autorevolezza e prestigio sulla scena internazionale attraverso una relazione diretta e costante con i paesi beneficiari e una valorizzazione più decisa della propria società civile.

Chiara Giovetti
Tags: Cooperazione, aiuto pubblico, aiuto privato, finanziamento sviluppo
Chiara Giovetti