Europa: libertà contro laicità? Riflessioni e fatti sulla Libertà Religiosa nel mondo – 14

L’effigie
degli evangelizzatori Cirillo e Metodio sulle monete da due Euro slovacche
trova l’opposizione della Commissione Europea (Ue). C’è chi considera
quest’ultima come «l’anticristo». Ma il fatto che in alcune aree del vecchio
continente ci siano più persone che credono negli extraterrestri di quante
credano in Dio non sembra una conseguenza del laicismo delle istituzioni.
In merito al
rispetto dei diritti (tra cui la libertà religiosa) il punto di riferimento –
anche per la Ue – diventa sempre più la Corte europea dei diritti dell’uomo del
Consiglio d’Europa. È alle sue sentenze che bisogna guardare per capire in che
direzione va la libertà di credo nel Vecchio Continente.

Il 17 giugno scorso il New York
Times
ha pubblicato un articolo in cui raccontava di un contrasto tra la
Banca Nazionale Slovacca e la Commissione Europea. La cosa sorprendente è che
tale contrasto non riguardava temi finanziari, ma religiosi. L’istituto
bancario slovacco intendeva commemorare il 1150° anniversario della
cristianizzazione del paese emettendo una moneta Euro che riportasse l’immagine
dei santi Cirillo e Metodio coronati dall’aureola e con le vesti oate di ben
visibili croci. La Commissione Europea si è opposta, ordinando la rimozione dei
simboli religiosi.

L’articolo del prestigioso quotidiano statunitense, dal titolo a
effetto Un’Europa sempre più secolarizzata, divisa dalla Croce, è
interessante per diversi motivi: indica l’episodio come possibile «segno della
scomparsa della fede dall’Europa contemporanea», e come frutto di una
secolarizzazione molto spinta.

«In God we trust»

La tesi in un certo senso è condivisa da mons. Stanislav
Zvolensky, vescovo cattolico di Bratislava, che ha sostenuto: «C’è un movimento
all’interno dell’Unione Europea che vuole una neutralità religiosa totale e non
può accettare le nostre tradizioni cristiane».

In Europa è dunque in gioco la libertà religiosa e, in
particolare, la plurisecolare presenza cristiana? Il Nyt non giunge,
ovviamente, ad affermare questo. È significativo però che, mentre tale fatto
non ha avuto alcuna menzione sui mezzi di informazione europei, se ne sia occupata
la stampa degli Usa, paese che sulle proprie monete non ha problemi a scrivere:
«In God We Trust». Dall’altra parte dell’oceano non si vede in questo
riferimento a Dio alcun problema, dalla nostra invece si rischia addirittura di
non rispettare la storia, con effetti paradossali e anche un po’ comici: i due
evangelizzatori dell’Europa orientale, senza le loro croci, finirebbero col
trasformarsi in due «laici» del tutto irriconoscibili. Lo stesso evento che si
desidera commemorare, a quel punto diverrebbe esso stesso pressoché
incomprensibile.

Unione – o divisione – europea?

Nelle parole del vescovo Zvolensky si può anche cogliere un’eco
delle discussioni e delle polemiche che si ebbero nel momento in cui fu
definita la Costituzione dell’Unione Europea: ci si divise infatti tra chi
chiedeva che vi fosse inserito un riferimento alle radici ebraico-cristiane e
chi invece vi si opponeva. Come noto, prevalse questa seconda posizione.

Nella questione che stiamo affrontando, tuttavia, non è tanto
questo il tema in gioco. Il problema riguarda piuttosto la tutela della libertà
di credo in un’Europa che, come tutti gli stati occidentali, intende fondarsi
sulla laicità e sul rispetto del pluralismo religioso. Libertà di religione e
laicità sono due questioni strettamente collegate. Lo sono anche nell’Unione
Europea. Essa sta faticosamente costruendo una propria unità, capace di andare
oltre le profonde divisioni linguistiche, culturali ed economiche che la
caratterizzano. In questo processo le religioni, e soprattutto quella cristiana
per il fondamentale ruolo svolto nella storia del vecchio continente, possono
diventare un ulteriore elemento di divisione oppure una primaria forza di
coesione. Molto dipenderà proprio da come, nelle istituzioni europee e nelle
grandi religioni presenti nell’Unione, saranno intesi e interagiranno tra loro
laicità, pluralismo, libertà di credo – e quindi presenza e visibilità delle
fedi -, e quale equilibrio sarà raggiunto tra questi valori al termine del
processo di costruzione di un’Unione finalmente compiuta sul piano politico e
civile.

Parecchio resta da fare. Questi valori, infatti, appaiono
diversamente intesi nelle parti d’Europa – particolarmente quella occidentale –
in cui la laicità spesso si confonde con una secolarizzazione spinta, e in
quelle dove invece il cristianesimo è tuttora forza anche sociale e civile
molto viva, come avviene in prevalenza nei paesi dell’Europa orientale.

La commissione europea non è l’anticristo

In questa situazione la Commissione europea che, assieme al
parlamento, ha il compito non facile di governare le aspirazioni comuni
europee, finisce col diventare bersaglio delle critiche di tutti. C’è chi
l’accusa di essere troppo arrendevole nei confronti della religione e chi
invece l’accusa del contrario. «Posso assicurare che la Commissione non è
l’Anticristo», ha dichiarato Katharina von Schnurbein, funzionario della
Commissione responsabile dei rapporti con i gruppi religiosi e laici, a chi le
riportava le critiche di movimenti cristiani integralisti. Del resto lo stesso
mons. Stanislav Zvolensky si era dichiarato entusiasta della Commissione
quando, tre anni fa, era stato invitato a Bruxelles per discutere della lotta
contro la povertà nell’Unione. Nessuno, tra l’altro, si era sognato di
chiedergli di togliersi la croce episcopale dal petto. Ma poi, chi mai potrebbe
seriamente puntare a un «occultamento» dei simboli religiosi cristiani in un
continente disseminato di chiese e monasteri, dove nomi di città, paesi,
luoghi, strade e piazze, sono in gran parte riferiti a santi, tradizioni,
storie e fatti cristiani, le cui università più prestigiose sono nate per
volontà di papi e i cui stati spesso riportano la croce nelle loro stesse
bandiere nazionali?

Le dodici stelle della Vergine Maria

C’è un fatto curioso, a questo proposito. Pochissimi sanno che
anche la bandiera dell’Unione europea ha un’origine cristiana. Il cerchio di
dodici stelle su sfondo blu che la caratterizza fu disegnato nel 1955 dal
francese Arsène Heits. Era cattolico e volle ispirarsi all’iconografia della
Vergine Maria. Le stesse dodici stelle, va ricordato, compaiono sulle monete
dell’euro. Anche i tre grandi padri fondatori della Comunità europea erano
cattolici praticanti: il francese Schumann, il tedesco Adenauer e l’italiano De
Gasperi.

«C’è una generale diffidenza verso tutto ciò che è religioso,
un’idea che la fede debba essere tenuta fuori dalla sfera pubblica» sostiene
tuttavia Gudrun Kugles, direttore dell’Osservatorio sulla intolleranza e la
discriminazione contro i cristiani che ha sede a Vienna. «C’è una fortissima
corrente di secolarismo radicale» aggiunge, «che interessa tutte le religioni
ma in particolare quella cristiana».

Sono affermazioni che Katharina von Schnurbein non condivide.
L’Unione europea non segue affatto una «linea» anticristiana, afferma. Non
cerca di eliminare la religione. La Commissione, al contrario, come è detto nel
Trattato, attribuisce moltissima importanza al dialogo con i credenti e i non
credenti.

Dio vs extraterrestri

In questo momento, tuttavia, non pare proprio il frutto di un
comportamento anticristiano delle istituzioni il fatto che le chiese si
svuotino, nuove religioni crescano in Europa, come l’Islam, e un fideismo
sconcertante si diffonda un po’ dovunque.

Secondo un’indagine compiuta lo scorso anno, in Gran Bretagna le
persone che credono negli extraterrestri sono più numerose di quelle che
credono in Dio. D’altro canto un sondaggio del 2010 ha rivelato che nell’intera
Unione europea solo circa metà della popolazione crede in Dio, mentre negli Stati
Uniti il 90%.

Sono problemi che interpellano pastorale, catechesi e formazione
di laici e sacerdoti nelle Chiese, prima ancora che il rapporto tra religione e
istituzioni «statali», o l’influenza delle fedi nella definizione delle norme
pubbliche.

Il ruolo della Corte Europea dei diritti umani

Per le questioni affrontate fin qua, riveste un’importanza
primaria la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). È tale Corte, infatti,
che ha il compito di decidere i casi in cui possa essere violata la libertà
religiosa, oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il
pluralismo religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i
principi costitutivi dell’Europa. È un compito estremamente importante, che va
oltre la particolarità dei casi trattati. Infatti, con le proprie sentenze la
Corte sta contribuendo a costruire una coscienza civile comune dell’Europa
stessa.

La Cedu ha sede a Strasburgo e non è da confondere con la Corte di
giustizia dell’Unione europea, organismo della Ue con sede invece in
Lussemburgo. È sorta nel 1959 per assicurare il rispetto della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Vi aderiscono i 47 stati che fanno parte del Consiglio d’Europa, compresi
quelli dell’Unione europea. Dunque la Cedu vale sia per il Consiglio d’Europa
sia per l’Unione europea: situazione che può creare problemi, perché possono
verificarsi casi di sentenze contraddittorie delle due Corti. Tuttavia in base
al trattato di Maastricht tutte le istituzioni dell’Unione sono tenute a
rispettare la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. La Corte di giustizia
dell’Ue dunque fa riferimento nelle proprie sentenze a quelle della Cedu che
della Convenzione stessa è l’interprete. Il potenziale conflitto tra le due
Corti, che permane in linea di principio, sarebbe definitivamente eliminato se
l’Unione europea aderisse come tale alla Convenzione, cosa che non poteva fare
in passato ma che le è possibile ora, in base al Trattato di Lisbona del 2009.
Nel momento in cui questo avvenisse, la Corte di giustizia dell’Unione europea
sarebbe obbligata a rispettare le sentenze della Cedu.

Quale laicità?

La Cedu, dunque, si avvia ormai a essere
l’organo di suprema istanza anche dell’Ue in merito al rispetto dei diritti e
delle libertà civili. Per capire quindi quale concezione di laicità si stia
affermando in Europa, cosa si intenda per libertà religiosa e come essa venga
tutelata, è molto importante esaminare le sue sentenze che riguardano questi
temi. Esse fanno riferimento in particolare all’articolo 9 della Convenzione,
che tratta appunto dei diritti di libertà. È interessante notare che la libertà
di religione, come quella di pensiero e di coscienza, in quell’articolo viene
riconosciuta non solo come diritto «privato» ma, come non può che essere, anche
«pubblico». Nessuna restrizione può esservi al diritto di manifestare
pubblicamente la religione, tranne ovviamente il caso in cui possano nascere
problemi di ordine, salute e morale pubblici, o di protezione dei diritti
altrui.

Cirillo e Metodio «a spasso» per l’Europa

La vicenda della moneta slovacca da cui siamo
partiti non ha nulla a che fare con casi in cui l’ordine, la salute o la morale
pubblici vengono messi in pericolo. Riguarda, invece, proprio la laicità. È
stata la Francia a spingere la Commissione europea ad opporsi al progetto della
Banca Nazionale Slovacca, in nome di una concezione della laicità che prevede
una rigida separazione tra lo stato e la religione, e che non permette quindi
la presenza di simboli religiosi in tutto ciò che riguarda l’ambito statale.
Con buona pace dei Transalpini (e della Grecia che si opponeva alla moneta
commemorativa slovacca per ragioni «nazionali») la Banca Nazionale Slovacca ha
tenuto fermo il proprio progetto. La Commissione non se l’è sentita di
insistere nella sua posizione e, quindi, la moneta sarà prossimamente coniata.
Come ogni altra, circolerà liberamente in tutta l’Unione europea: anche in
Francia.

Paolo Bertezzolo

Convenzione per la salvaguardia dei
Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali

ARTICOLO 9: Libertà di pensiero, di
coscienza e di religione

1. Ogni persona ha diritto alla libertà
di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di
cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria
religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o
in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei
riti.

2. La
libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere
oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che
costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica
sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o
alla protezione dei diritti e della libertà altrui.

Paolo Bertezzoro




Nulla si salva Allattamento e seno femminile (seconda parte)

(Nulla?si?salva) … dall’inquinamento. Neppure il latte materno. Nel corpo umano entrano decine di composti estranei («xenobiotici») che producono gravi conseguenze, fin dalla gravidanza. Le statistiche fotografano una situazione preoccupante: in Italia il tasso di tumori infantili è quasi il doppio degli altri paesi europei.

 


Il modello di sviluppo della nostra società ha portato a
grandi vantaggi economici (per qualcuno), ma ha causato una tale dispersione
ambientale di contaminanti chimici che probabilmente non c’è più ecosistema al
mondo che non ne sia interessato. L’inquinamento ambientale è causa di
molteplici patologie, che interessano una parte rilevante della popolazione,
tra cui i bambini. Questi ultimi sono particolarmente vulnerabili; in
particolare, durante la fase dello sviluppo prenatale l’esposizione a sostanze
chimiche avviene attraverso il sangue placentare. Tuttavia è importante anche
quella postnatale, in cui i contaminanti chimici giungono al bambino attraverso
il latte materno, il latte artificiale e gli alimenti successivi. Si stima che
le sostanze chimiche (prodotte dall’uomo e disperse nella biosfera e nella
catena alimentare), rintracciabili nel corpo umano – sostanze dette «xenobiotici»,
composti estranei all’organismo -, siano oltre 300. Diversi xenobiotici sono
liposolubili e la loro presenza può essere rilevata e misurata in diverse
matrici biologiche come sangue, siero, urina, sperma, cordone ombelicale e
latte materno. La consapevolezza di potere trasmettere sostanze tossiche
(potenzialmente molto pericolose) al proprio figlio può indurre una madre a
sospendere l’allattamento. Si tratta però di una decisione sbagliata. È infatti
scientificamente provato da diversi studi che, pur in presenza di contaminanti
chimici, l’allattamento al seno è da preferirsi per diversi motivi all’uso del
latte artificiale. Innanzitutto il latte materno contiene sostanze protettive,
che aiutano lo sviluppo neuromotorio, cognitivo e del sistema immunitario e può
pertanto mitigare gli effetti avversi di una precedente esposizione in utero,
cosa che il latte artificiale non può fare. Quest’ultimo, inoltre, può essere
contaminato come e anche più del latte materno, visto che i latti in formula
vengono preparati a partire da latte vaccino, spesso fortemente contaminato da
inquinanti ambientali. Bisogna inoltre considerare che anche gli oggetti
utilizzati nell’allattamento artificiale come biberon, tettarelle, pellicole di
materiale plastico per la conservazione del latte in polvere possono rilasciare
sostanze chimiche tossiche per il bambino e, al rischio chimico, può
aggiungersi quello biologico, dal momento che possono essere presenti cariche
batteriche già in fase di produzione del latte artificiale, oppure durante la
sua ricostituzione per effetto di un’errata preparazione, manipolazione o
conservazione.

Tra i principali inquinanti, rintracciabili nelle
matrici biologiche (e quindi anche nel latte materno), ci sono metalli come il
mercurio, il piombo, il nichel, l’arsenico ed il cadmio ed inoltre benzene,
idrocarburi aromatici policiclici, pesticidi, ritardanti di fiamma, diossine,
furani e policlorobifenili (Pcb). La maggior parte di questi inquinanti entra
nella catena alimentare, quindi sono assorbiti dal corpo umano attraverso i
cibi. Altre vie d’ingresso sono la pelle e il sistema respiratorio. La loro
pericolosità raggiunge l’apice quando riescono a contaminare le cellule
germinali che danno origine a ovociti e spermatozoi, perché in tal caso possono
interferire con la salute delle future generazioni e non solo del singolo
individuo. Vediamo quali sono le principali patologie causate dagli xenobiotici
succitati.

Per quanto riguarda i metalli pesanti, mercurio, piombo, arsenico e cadmio sono
cancerogeni, procancerogeni e tossici per il sistema nervoso, con effetti sullo
sviluppo cognitivo e sull’intelligenza. Il mercurio causò il famoso disastro di
Minamata in Giappone negli anni ’50. Venne rilasciato metilmercurio nelle acque
reflue dell’industria chimica Chisso Corporation. Esso contaminò pesci e
crostacei nella baia di Minamata (da cui prende il nome l’omonima sindrome),
entrando nella dieta delle gestanti. A seguito di ciò nacquero bimbi con
gravissime lesioni cerebrali e danni permanenti a vista, udito ed arti. La
principale fonte di mercurio è quindi l’alimentazione a base di pesce
contaminato.

Il piombo è classificato dalla Iarc  (Inteational Agency for Research on
Cancer
) come possibile cancerogeno (gruppo 2B) per l’uomo ed è inoltre
causa di una gravissima forma di anemia, il satuismo, oltre che di
ipertensione arteriosa e danno renale. Se assimilato in gravidanza, è associato
a lievi disturbi neurologici e comportamentali nell’infanzia. L’esposizione al piombo
può essere professionale (veici, batterie, esplosivi, costruzioni, miniere,
fonderie), domestica (ristrutturazioni, hobby come la colorazione dei soldatini
di piombo, uso di vecchio vasellame smaltato per alimenti), dovuta all’acqua
potabile trasportata in vecchie tubature di piombo oppure a vecchie otturazioni
dentarie a base di piombo.

L’arsenico può essere ingerito con acque di falda, dove
può trovarsi per cause naturali in quantità pericolose per la salute, oppure
per la presenza di pesticidi e fertilizzanti, che lo contengono. Anche il riso
coltivato in acqua contaminata può essere fonte di arsenico.

La fonte principale di cadmio è il fumo di sigaretta. I
metalli appena citati, se presenti nel sangue materno, possono attraversare la
placenta durante la gravidanza e danneggiare lo sviluppo del cervello in epoca
prenatale e nella prima infanzia. Il livello del mercurio nel cordone
ombelicale può essere 1,5 volte rispetto a quello nel sangue materno. La
contaminazione massima da metalli si ha alla nascita, poi i valori tendono a
diminuire, perché i metalli pesanti sono secreti solo in piccola quantità con
il latte materno, tanto che, con l’allattamento esclusivo al seno, nei primi 3
mesi i valori del mercurio nel sangue del neonato possono ridursi del 60%. Lo
stesso non avviene con i latti artificiali, che possono contenere quantità di
metalli pesanti superiori a quello materno già in partenza o per loro
ricostituzione con acqua contaminata, e che non offrono la stessa protezione di
quest’ultimo. È importante tenere presente che latti artificiali contaminati
con metalli pesanti sono stati trovati in Germania, Australia, Canada, Svezia e
Cina, mentre latte vaccino (con cui vengono preparati i latti artificiali)
contaminato è stato trovato in tutto il mondo.

Gli idrocarburi aromatici policiclici (Ipa), tra cui benzene, toluene,
benzo(a)pirene, naftalene, ecc. sono classificati dalla Iarc come cancerogeni
certi per l’uomo (classe 1). Essi sono sottoprodotti di combustioni incomplete,
tra 300°- 600° di temperatura, di materiale organico come sigarette, benzina,
cibo, rifiuti, quindi possono trovarsi nel fumo di sigaretta, nei cibi cotti
alla brace, nei gas di scarico degli autoveicoli, nel fumo dei caminetti, degli
inceneritori e di impianti industriali quali fonderie, acciaierie e
cementifici. Si trovano soprattutto nell’aria, ma anche in alcuni alimenti e
nelle fonti d’acqua (per caduta al suolo, dato che sono molecole pesanti),
quindi possono essere assimilati dal corpo attraverso la respirazione, la pelle
o per ingestione. Molti Ipa sono associati a danni al midollo osseo, ad
alterazioni ematiche, ad anomalie dello sviluppo fetale (ridotta crescita,
alterata formazione del sangue fetale, ritardata ossificazione), ad alterazioni
dello sperma, del sistema immunitario e a tumori, in primis leucemie. I bambini
possono essere esposti agli Ipa già in utero, attraverso la placenta e dopo la
nascita con il latte materno, con quello artificiale e con gli alimenti per
l’infanzia. Va tenuto presente che latti artificiali e prodotti per l’infanzia
possono arrivare a contenere Ipa in quantità 2-3 volte maggiore rispetto al
latte materno, senza fornire però analoga protezione. Molti Ipa si comportano
come interferenti endocrini, cioè possono interferire con il sistema endocrino
e quindi con gli ormoni responsabili dello sviluppo e di molte funzioni del
corpo, come il comportamento, la fertilità e la regolazione del metabolismo
cellulare.  Possono causare alterazioni
dell’apparato riproduttivo, con mascolinizzazioni delle femmine e
femminilizzazione dei maschi, alterazioni della pubertà, dei cicli mestruali e
della fertilità. Inoltre possono alterare lo sviluppo del cervello con
conseguenti problemi cognitivi, di apprendimento e difetti alla nascita. Gli
Ipa sono responsabili di varie forme di cancro, soprattutto degli organi
riproduttivi, ma non solo. Infine essi possono agire sulle cellule germinali,
compromettendo la salute delle generazioni future.

I pesticidi organoclorurati, tra cui il Ddt ed i loro metaboliti come l’esaclorobenzene
sono stati tra i primi residui chimici trovati nel latte materno, dove si
accumulano con estrema facilità, grazie alla loro lipofilia e al loro lungo
tempo di dimezzamento dovuto alla difficoltà di metabolizzarli e di eliminarli.
Pur essendo stati banditi in tutto il mondo dalla Convenzione di Stoccolma
sugli inquinanti organici persistenti (Pops o Persistent organic pollutants)
del 2004, essi sono ancora presenti in esseri umani e animali, sebbene in
diminuzione rispetto al passato. Anch’essi possono agire come interferenti
endocrini, sono cancerogeni e, in caso d’intossicazione acuta, possono causare
depressione respiratoria e del sistema nervoso, provocando la morte. La loro
concentrazione è superiore nel latte materno, rispetto ai latti artificiali e
altri alimenti.

Un discorso approfondito meritano diossine, furani e Pcb, per la loro estrema
pericolosità oltre che per la loro grande lipofilia e facilità di reperimento
nel latte materno.

Le diossine sono un gruppo di 210 composti organici
eterociclici, in cui sono sempre presenti carbonio, idrogeno, ossigeno e cloro.
La sostanza più tossica conosciuta è la Tcdd o
2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina, detta «diossina di Seveso», in quanto liberata
nell’aria dal reattore della multinazionale svizzera la Roche nell’incidente
del 6 maggio 1976. La nube tossica che si formò determinò danni acuti e cronici
alle persone esposte. Recentemente sono stati pubblicati dati secondo cui i
figli di madri coinvolte nella loro infanzia in questo incidente presentano
alla nascita alterazioni della funzione tiroidea statisticamente significative.
Poiché questi neonati non sono stati direttamente esposti alla fuoriuscita di
diossina, ciò significa che le conseguenze hanno colpito la generazione
successiva  a quella esposta e sono
tuttora riscontrabili, a distanza di oltre 30 anni dall’incidente1. Sono molecole
particolarmente stabili e persistenti nell’ambiente con tempi di dimezzamento
variabili a seconda della molecola e a seconda della matrice esaminata; la Tcdd
si dimezza tra 7-10 anni nel corpo umano, mentre persiste nel sottosuolo fino a
100 anni. Sono sostanze insolubili in acqua, ma estremamente lipofile e
soggette a bioaccumulo e biomagnificazione, quindi si concentrano negli
organismi viventi in misura molto superiore a quella dell’ambiente circostante.
Esse vengono assunte dall’uomo per oltre il 90% attraverso l’alimentazione,
soprattutto con latte, carne, uova e formaggi. Queste molecole fanno parte degli
inquinanti organici persistenti banditi dalla Convenzione di Stoccolma. Le
diossine sono sottoprodotti involontari dei processi di combustione e si
formano a particolari temperature ed in presenza di cloro. In Italia le loro
fonti principali sono le combustioni industriali (64%), di cui oltre la metà
(37%) sono rappresentate dall’incenerimento di rifiuti solidi urbani. I Pcb o
policlorobifenili sono invece molecole prodotte volontariamente dall’uomo ed
usate sia in dispositivi elettrici, materiali plastici, tappeti, tessuti,
mobili come ritardanti di fiamma sia come antiparassitari fino al 1985, quando
sono stati banditi2. La tossicità di diossine, furani e Pcb è tale che
viene misurata in picogrammi (pg), cioè miliardesimi di milligrammo. Queste
molecole presentano una grande affinità per il recettore AhR (Aryl
Hydrocarbon Receptor
) largamente diffuso sia nelle cellule umane che in
quelle di vertebrati marini, terrestri ed aviari. Il recettore AhR sembra avere
un ruolo chiave per il normale sviluppo del sistema immunitario, vascolare,
emopoietico ed endocrino ed è coinvolto in molteplici funzioni cellulari
(proliferazione, differenziazione, morte cellulare programmata) e nella
regolazione del ritmo sonno-veglia. L’esposizione a queste molecole è correlata
allo sviluppo di tumori (linfomi, sarcomi, tumori a fegato, mammella, polmone,
colon), a disturbi riproduttivi, endometriosi, anomalie dello sviluppo
cerebrale, endocrinopatie (soprattutto diabete e malattie della tiroide),
disturbi polmonari, danni metabolici (aumento di colesterolo e trigliceridi),
epatici, cutanei e deficit del sistema immunitario. Inoltre l’esposizione pre e
postnatale può comportare ritardi nella crescita del feto e del neonato.

Poiché gli inquinanti descritti sono liposolubili, essendo il latte particolarmente
ricco di grassi, quello materno rappresenta un mezzo particolarmente idoneo per
la valutazione dell’inquinamento «in vivo», permettendo di stimare
l’esposizione presente e pregressa di una popolazione. Grazie alle misure di prevenzione
attuate in seguito alla Convenzione di Stoccolma è stata documentata in molti
paesi europei una diminuzione della presenza di diossine e simili nel latte
materno. Tuttavia i valori restano elevati, rispetto alla raccomandazione
dell’Oms, secondo cui non si dovrebbero superare assunzioni di diossina oltre i
2 pg/Kg di peso corporeo al giorno, quindi un uomo di 70 Kg dovrebbe assumee
al massimo 140 pg al giorno. Sono state eseguite analisi del latte materno su
puerpere di diversi paesi del mondo, abitanti sia in aree altamente
industrializzate, che rurali: in Germania sono state rilevate concentrazioni di
diossine/furani e Pcb tra 3,01-78,7 pg Teq3/g di grasso con valore medio pari a 27,27 pg; a Tokyo
il valore medio nel latte materno della concentrazione di queste molecole è
stato di 25,6 pg/g di grasso; in Cina è stato in media di 5,42 pg/g (range
2,59-9,92). Il latte prelevato nelle aree industriali è risultato sempre più
contaminato che nelle aree rurali.

Appare evidente l’assoluta necessità di monitorare
sistematicamente la situazione delle aree critiche del nostro paese,
soprattutto in considerazione del fatto che l’Italia ha un incremento annuo dei
tumori infantili del 2% (circa il doppio degli altri paesi europei). Il fatto
che finora questo biomonitoraggio in Italia non sia mai stato effettuato sembra
non essere casuale, viste le attuali politiche di incenerimento e combustione
di biomasse e di rifiuti.

È fondamentale inoltre che le persone siano informate su
questi fatti, soprattutto chi ha figli. In Italia invece quasi non si parla di
latte materno contaminato.

Una società come la nostra, che non si preoccupa delle
ricadute sull’infanzia del proprio modello di sviluppo è, a dir poco,
dissennata.

Rosanna
Novara Topino

Note

1 – Queste molecole sono divise in due famiglie, cioè Pcdd (policloro-dibenzo-p-diossine) e Pcdf
(policloro-dibenzo-furani) e le diverse molecole appartenenti alle due famiglie
vengono definite «congeneri» (75 diossine e 135 furani).

2 – Sono 209 congeneri, di cui 12 molto affini alle diossine, detti perciò «dioxin-like».

3 – Con Teq si indica la «tossicità equivalente» dei diversi congeneri, paragonata a quella della Tcdd, la più
pericolosa, che per convenzione vale 1, mentre quella di tutti gli altri
congeneri è sempre inferiore a 1 ed è data dalla somma dei prodotti tra i
fattori di tossicità dei singoli congeneri per la loro concentrazione nelle
matrici in esame.

Italia: pochi dati  (e preoccupanti)

In Italia non sono mai stati fatti studi sistematici sul latte materno, ma sono disponibili solo dati relativi a due donne residenti
presso l’inceneritore di Montale (Pt), a tre presso l’Ilva di Taranto e ad una
presso l’area della dismessa Caffaro, industria produttrice di Pcb di Brescia*.
Queste persone si sono sottoposte spontaneamente alle indagini. Nei due casi di
Montale i valori riscontrati variavano tra 3,984-5,507 teq pg/g di grasso per
diossine/furani e tra 9,485-10,621 Teq pg/g di grasso per diossine/furani/Pcb.
A Taranto sono stati trovati valori di Teq diossine/furani/Pcb  di 31,37 pg, 26,18 pg e 29,40 pg/g di grasso.
A Brescia nell’unico campione esaminato sono stati rilevati ben 147 pg/g di grasso.

Poiché la componente grassa del latte materno è il 4%,
la dose di queste molecole introdotta quotidianamente da un bimbo di 5 Kg, che
assuma 800-1000 ml di latte al giorno varia da 80-90 a 500-600 fino a 1000 pg
di Teq al giorno, a seconda che abbiamo 3, 15 o 30 Teq pg/g di grasso. Nel caso
di Brescia si arriva a 6000 pg! Ricordiamo che la dose giornaliera raccomandata
dall’Oms è di 140 pg per un uomo adulto di 70 Kg.

* Dati della dottoressa Patrizia Gentilini, medico Isde («Associazione
medici per l’ambiente», www.isde.it).

 Rosanna Novara Topino



Il cristiano mescola in sé il profumo di Dio e l’odore del mondo | Rendete a Cesare – 8

«Siate pastori con l’odore delle pecore»

(Papa Francesco, Messa Crismale, Omelia, 23-03-2013)

Con questo numero, concludiamo la riflessione sul significato esegetico dell’espressione «Date a Cesare … Date a Dio» (Mc 12,13-17 e paralleli), facendo una sintesi di quanto abbiamo espresso nelle sette puntate precedenti.

Il punto di partenza è un testo1, apparentemente innocuo, ma molto interessante:

13 Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14 Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15 E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16 Poi disse loro una parabola … (Lc 12,13-16).

Di fronte a una questione di eredità, Gesù rivendica il suo diritto di non intervento, ritenendola «di poco conto» di fronte all’urgenza profonda del suo cuore: il Regno è vicino, o meglio «il Regno di Dio [che] è dentro di voi» (Lc 10,9). Dio è già qui, compagno di vita e di viaggio verso la morte che introduce nella pienezza della vita. Tutto è provvisorio e il tempo di cui disponiamo è corto. La grandezza della vita è profonda e bisogna scalarla, scansando le banalità e la perdita di tempo che è il peccato più grave che si possa compiere. Anche per Dante, sul piano culturale, vale lo stesso atteggiamento: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78). I due fratelli, per Gesù, perdono tempo su un’eredità che devono comunque lasciare (cf Lc 12,13-31): litigano per un bene per cui non hanno faticato e che a loro volta lasceranno ad altri, se non riusciranno a dilapidarlo2. La prospettiva di Gesù è escatologica, cioè vede le cose dal punto di vista «della fine», della prospettiva dell’esito; quasi dicesse: non perdete tempo in quisquilie di poco conto, andate al cuore della vita che vi sfugge, mentre voi litigate per beni che non vi appartengono perché con la morte sarete costretti ad abbandonarli. È il criterio dell’essenzialità e della prospettiva. Un altro esempio illustre si trova in Lc 15,11-32 nella parabola del «Padre che fu madre», dove il figlio più giovane chiede espressamente di disporre di ciò che non è suo: la vita del padre che, infatti, egli sperpera a suo piacimento per ritornare al punto di partenza, dopo avere perso tempo, denaro e dignità3. È il criterio del discernimento.

In mezzo a diatribe giuridiche o all’interesse privato, Gesù afferma la propria libertà e dichiara la sua «non ingerenza» perché non di sua competenza. Egli non si occupa di affari e transazioni. Non è un sensale. È il criterio del rispetto delle competenze e della laicità nella gestione diretta degli affari del mondo. C’è un diritto, c’è un codice, c’è una giurisprudenza o una consuetudine: a quelli bisogna rivolgersi perché hanno la competenza di dirimere diversità di opinioni. Sottraendosi alla richiesta di fare il giudice, Gesù riconosce che anche per lui c’è un limite che non vuole superare, perché sconfinerebbe in un mondo non suo: superare il limite comporta un rischio, quello di diventare «tuttologi», ma di non essere professionalmente adeguati. Qui abbiamo un «principio» importante: la creazione ha in sé le sue regole e le sue leggi e non occorre battezzare ogni cosa per riconoscerne la liceità. Tutto è lecito nel rispetto della laicità che è l’ambito dove ogni evento, persona o circostanza o atto religioso devono essere riconosciuti con verità, senza pregiudizio di sorta.

Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) affermava che «più avanza la luce elettrica, più Dio perde terreno»: l’autonomia del creato che cresce con il tempo e con la scienza, è insita nella creazione stessa perché è il dinamismo che vi ha immesso lo Spirito creatore. Dio stesso, creando, si è limitato, infliggendosi un confine da rispettare che, dal punto di vista etico, è la libertà della coscienza personale. In una parola le decisioni di scelta sono demandate alla responsabilità e alla dignità di ciascuno. Più avanza la conoscenza umana di sé e del mondo, inteso come «cosmo», più aumenta il «limite» di Dio che non è geloso delle conquiste e delle scoperte sempre più portentose degli uomini e delle donne, ma ne è così rispettoso che lascia sempre più spazio, in forza del mandato originale di crescere, soggiogare la terra, dominare sul creato (cf Gen 1,28-29). È la teologia del Dio che si svuota completamente di se stesso per essere prossimo e vicino a ogni essere umano. La limitatezza di Dio è così decisiva e così definitiva che Gesù stesso si sottomette alla legge in modo irrevocabile: «Nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Possiamo mai avere paura di un «Dio limitato»?

Sull’esempio di Dio che si è auto-condizionato al limite, nessuno può imporre nulla «in nome di Dio». Anche le crociate furono indette in nome di Dio e sappiamo quello che sono state e cosa sono costate al mondo e alla Chiesa: le conseguenze di quelle scelte avventate, le paghiamo ancora oggi. Dalla logica delle crociate solo un uomo del suo tempo, Francesco di Assisi, nel 1229, si differenziò coscientemente perché nel pieno del conflitto della quinta crociata, andò da solo a trovare il «nemico», il sultano ayyubide Malik al-Kamil, presentandosi disarmato. Ricevette così l’incarico di «custodire» per sempre i luoghi santi del Signore Gesù in Terra Santa, come ancora oggi avviene, dopo ben nove secoli.

Il concetto di «onnipotenza» che affibbiamo alla divinità, mal si concilia con il Dio di Gesù Cristo, il quale «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7; cf Mt 27,40). Legandosi indissolubilmente alla natura umana, ha scelto il metodo umano per rivelarsi e manifestarsi e dunque si è sottomesso alla «paidèia» (pedagogia) umana, adeguandosi al passo degli uomini e delle donne, radicato sulla ricerca che a sua volta nasce ed emerge dalla logica e dalla legge dell’incarnazione.

Dopo l’incarnazione di Cristo, vale anche per lui, in modo diretto e puntuale, quello che Publio Terenzio Afro affermava per ogni essere umano: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto – Sono uomo, nulla di ciò che è umano mi può essere estraneo»4. Nulla è estraneo a Dio, non solo come creatore, ma specialmente come Redentore. In questa prospettiva deve collocarsi l’invito, anzi il mandato: «Voi siete il sale» (Mt 5,13). Compito del sale, infatti, non è separarsi dalla minestra, cioè «disincarnarsi» dalla storia, dalla politica, dall’economia, ma, al contrario, perdersi e scomparire per realizzare la sua «missione». Allo stesso modo, compito del cristiano non è estraniarsi dalle cose mondane, che sono l’habitat naturale della sua esistenza, ma immergersi nel mondo e nella storia dell’umanità, perdendo la propria vita in compagnia di tutti quelli, credenti e non credenti, tutti figli e figlie di Dio, che costruiscono la «città dell’uomo» perché ognuno possa essere se stesso. In breve significa: vivere a servizio del «bene comune». L’evangelista Luca lo dice al mondo ebraico, ponendo in evidenza l’assoggettamento alla legge psicologica e a quella della fede: «Cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40). Inchiodandosi sulla croce, Dio ha rinunciato alla sua onnipotenza e si è sottomesso alla legge del limite che gli impedisce di scendere dalla croce e fare un portento clamoroso a beneficio di poveri increduli.

Il processo d’incarnazione, descritto nella Bibbia, raggiunge il vertice nel vangelo di Giovanni quando, con un ardimento linguistico senza precedenti, l’autore osa affermare l’impensabile e l’indicibile: «Hò Lògos sarx egèneto». Tradotto alla lettera, rispettando la posizione delle singole parole si ha: «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1,14). L’autore vuole mettere quasi a contatto fisico i due termini antitetici, irriducibili, l’uno all’altro, «Lògos-sàrx» è un ossimoro intraducibile in italiano, senza dovere ricorrere a una circonlocuzione. Il Trascendente diventa Immanente, l’Impalpabile si fa «Cae», che nel linguaggio semitico significa «fragilità/mortalità/limite/caducità». L’Assoluto diventa Relativo per «incarnazione» e rivelazione. Nel momento in cui sceglie di essere «Cae», cessa per sempre di essere «Onnipotente» (Cesare) e s’identifica indissolubilmente con la fragilità, la caducità, il frammento, la mortalità, il corpo, propri dell’essere umano, segnato costitutivamente dalla temporalità e dallo spazio. San Paolo fu il primo a parlare di « lògon syntelôn – Verbum breviatum – Parola ritagliata/accorciata»: «Il Signore, infatti, realizzerà sulla terra il Lògos che si compie e che si accorcia/si taglia» (Rm 9,28) che purtroppo anche l’ultima versione della Cei (2008) traduce con «pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra», travisando il senso dell’espressione greca, che è molto più pregnante e dirompente. Il concetto, data la sua importanza scandalosa, è ripreso dai Padri della Chiesa e da san Francesco di Assisi. Quest’ultimo poi, fedele alla tradizione patristica, allestendo il primo presepe a Greccio nel 1223, parlò della notte in cui Dio si è accorciato, si è fatto «verbum abbreviatum»5.

L’accorciamento di Dio è verificabile nelle sue manifestazioni: nella creazione, «in principio» (Gen 1,1), Dio ha parlato con l’azione, pronunciando solennemente «dieci parole» cui corrispondono «dieci realizzazioni» o dieci fatti. C’è quindi una sovrabbondanza di parola, distribuita in sei interi giorni: «Disse Dio … e così fu». La creazione in tutta la sua complessità di cielo e di terra, di «acque superiori e inferiori», di uccelli e animali e, infine, con la coppia umana è l’universale e molteplice Parola di Dio. Nell’incarnazione, invece, tutto si riduce a una sola Parola, un Nome perché possa essere contenuta da ciascuno e nessuno possa dire di non essere in grado di portarne il peso perché la Parola/le parole sono parte intima di noi stessi con cui realizziamo il nostro bisogno di comunicazione cioè di relazione. Tutto accade nel «profondo silenzio [che] avvolgeva tutte le cose» (Sap 18,14). Nella creazione la Parola esplode, nell’incarnazione il Silenzio regna, quasi a esprimere il pudore di Dio che viene in punta di piedi.

Alla luce di questo processo d’incarnazione, l’espressione «date a Cesare … date a Dio» acquista una configurazione ben precisa, perché non si tratta di «opposizione inconciliabile» tra due «mondi», o ordini, ma d’invito al discernimento per leggere la realtà della storia con gli occhi di Dio. Dopo l’incarnazione di Gesù e la sua morte, «quella» morte (cf Mc 15,39), che causò lo squarcio del «velo del tempio, da cima a fondo» (Mc 15,38), rendendo accessibile allo sguardo pagano il «santo dei santi», non può esistere più la separatezza tra «sacro» e «profano» perché con Gesù tutto è sacro e tutto resta profano. Queste categorie sono ormai desuete, incompatibili con il Vangelo che porta la nuova logica dell’umanità di Dio risorta, ad assumere in sé le contraddizioni degli eventi e della storia.

Bisogna, però, stare attenti a non costruirsi «idoli» provvisori o definitivi, come possono essere la religione, il denaro, il potere, il successo, il proprio interesse. «Dare a Cesare» significa chiamare per nome ogni cosa, secondo verità e rettitudine, senza pregiudizi o applicando categorie e sistemi che contrabbandano la verità. In ognuno di noi c’è un «Cesare» che veglia, pronto a prendere il sopravvento. Gesù rivolge quella frase ai farisei e ai capi del popolo (cf Lc 20,19), cioè ai responsabili della religione, in una parola alla gerarchia ecclesiastica che, contravvenendo alla legge che vietava di riconoscere idoli di divinità (Es 20,4), portava addosso, cioè sempre con sé, l’immagine dell’imperatore Tiberio che si fregiava del titolo di Divinità. Le monete coniate dall’imperatore, infatti, portavano la sua effigie con la scritta o epigrafe che nel caso era: «Tiberius Caesar Divi Augusti Filius Augustus Pontifex Maximus – Tiberio Cesare Augusto Sommo Sacerdote, Figlio del Divino Augusto», con cui si dichiara la natura divina dell’imperatore. Usare quella moneta, pertanto, dal punto di vista giudaico significava non solo riconoscere l’autorità civile dell’imperatore romano che pure era un invasore, ma anche avallare la sua pretesa divinità, ponendolo sullo stesso piano di Dio. La questione è grave perché la Toràh vieta di farsi immagini di Dio, ma perché più energicamente vieta il riconoscimento degli idoli (Es 20,4; Dt 4,16).

Se i capi religiosi si contaminano senza problemi con l’idolatria, essi sono responsabili delle conseguenze del loro «cattivo» esempio: essi corrompono il popolo, inducendolo in peccato; per questo devono tornare a «rendere a Dio quello che è di Dio». Gesù non affronta un problema di natura socio-politico, come la separazione dei poteri, ma affronta un tema squisitamente teologico che riguarda l’essenza stessa di Dio: chi è Dio per i capi religiosi? Un idolo tra gli idoli o il Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe? Dio geloso! «Non ti prostrerai davanti a loro [gli idoli] e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 2014). È l’invito alla conversione, a riprendere la propria vocazione di servi del «Signore», unico Dio, che ha creato Adamo, ha chiamato Abramo, ha guidato Giacobbe, ha salvato Isacco, ha redento Israele. «Dare a Cesare … dare a Dio» diventa così la discriminante tra autenticità e vacuità della fede. Non si può mettere Cesare sullo stesso piano di Dio e non si può abbassare Dio a livello di un capo di stato, come due autorità alla pari che si spartiscono i rispettivi ambiti d’influenza. Non è lecito fare confusioni. Purtroppo è triste sentire preti e anche vescovi e cardinali dare della frase di Gesù letture superficiali, senza alcun riferimento al testo nel suo contesto.

La giustizia di Gesù raggiunge la radice del cuore umano, là dove ciascuno prende coscienza di essere giustificato per grazia. L’esempio di Gesù deve essere illuminante per noi: nella Chiesa l’autorità non ha il privilegio di legiferare su tutto, anche sulle realtà più insignificanti o su questioni che non sono di sua pertinenza perché anch’essa ha il «limite» che le deriva direttamente dal Signore. La Chiesa, e in essa l’autorità, ha una funzione escatologica, deve cioè non dare soluzioni, ma indicare la strada, la mèta da raggiungere sapendo che per giungervi vi sono tante strade quante sono le persone. In una parola semplice: nelle questioni che riguardano le «realtà terrestri» il discepolo di Cristo non può mai parlare in nome di Dio che, invece, è tenuto a testimoniare e a rendere visibile con la coerenza nella verità della propria vita e delle proprie scelte. Sul senso di questa autonomia delle realtà terrestri, il concilio ecumenico Vaticano II ha scritto uno dei documenti più belli dell’ultimo secolo: la costituzione pastorale «Gaudium et Spes», oggi poco frequentata da quei cattolici che preferiscono la leggerezza irresponsabile dell’obbedienza passiva alla fatica del discernimento e della ricerca che rende appassionati del mondo, quel mondo che Dio ama così tanto da mandargli il suo Figlio unigenito: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Tes 5,21) e ancora: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Conclusione

Dichiarandosi incompetente di fronte a una questione di eredità, Gesù dice che i suoi seguaci, sul suo esempio, devono avere il senso del limite e non pretendere di avere sempre l’ultima parola su tutto e sempre in nome di Dio. Compito della Chiesa nel mondo è invitare uomini e donne a vivere la propria vita come «immagine e somiglianza» del Creatore, come missione a servizio degli altri, questa volta sì, per conto di Dio, perché tutti partecipino al banchetto della giustizia che è la premessa della pace.

«Date a Cesare quello che già appartiene a Cesare» è l’invito a non smarrire l’immagine di Dio che lui stesso ha deposto in noi perché fossimo nel mondo «la statua», il segno, cioè «il sacramento» della sua visibilità e della sua provvidenza, rendendolo credibile attraverso la credibilità delle nostre scelte e delle nostre azioni. Non è l’invito a separare la politica dalla fede, ma a coniugare l’una e l’altra nella visione finale del Regno di Dio alla luce della Carta costituzionale che per noi sono le «Beatitudini» (cf Lc 6,20-26; Mt 5,1-12), il «Padre nostro» (cf Lc 11,2-4; Mt 6,9-13) e il «Magnificat» (cf Lc 1,46-55) di Maria. Solo così i credenti possono essere «sale della terra e luce del mondo» (cf Mt 5,13.14), camminando in compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo, agendo politicamente in modo disinteressato protesi a raggiungere la perfezione dell’immagine e della somiglianza radicale di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).

[8 – fine]

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1 Nella Liturgia è il vangelo della domenica 18a del tempo ordinario dell’anno C.

2 Al tempo di Gesù il patrimonio era indivisibile: doveva restare unito per cui, alla morte del titolare, il responsabile primo della proprietà era il primogenito, mentre agli altri figli era riconosciuto l’usufrutto. Con ogni probabilità, la domanda fu rivolta a Gesù da un figlio minore che voleva la sua parte per spenderla a suo piacimento.

3 Sulla parabola lucana che è il «culmen et fons» di tutta la Scrittura, non ci attardiamo oltre, dal momento che proprio su MC  l’abbiamo commentata nell’arco di oltre tre anni: cf P. Farinella, Il Padre che fu madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010.

4 Heautontimorùmenos – Il punitore di se stesso, I, 1, 25 [165 a.C].

5 Orìgene parla di «lògos abbreviato» sia nell’incarnazione che nella morte (Perì Archon I,2,8); Gregorio di Nazianzo di «Lògos condensato» (Or. in Epiph. [Oratio in Epiphaniam] PG 36, 313 B); cf ancora Massimo il Confessore, in Ambigua [Ambiguorum liber] 91, 1285 C/1288 A, e Cent. Gnost. [Centuriae Gnosticarne] 2,37, PG 90, 1141 C); per Francesco di Assisi, cf Regola Bollata (1223), IX, 2 in Fonti 1977, n. 98.

Paolo Farinella




San Martin de Porres

San Martin de Porres (Lima, Perù,
1579-1639) appartiene a quella generazione di santi latinoamericani che, al di
là delle efferatezze dei conquistadores, furono attratti dal messaggio del
Vangelo e dalla tenerezza di Cristo. Egli mise in pratica tutto ciò che il
maestro di Nazareth aveva insegnato, a partire dalle condizioni sociali, dallo
stato di vita e dalla situazione storica in cui si trovava. Il santo mulatto
peruviano si distinse praticando accoglienza e carità e, con modi discreti ma
incisivi, rivendicò giustizia ed equità per gli emarginati del Perù coloniale.
Egli dedicò tutta la sua vita ai poveri.
Pio XII nel 1945 lo proclamò
patrono della Giustizia Sociale e da Giovanni XXIII venne elevato alla gloria
degli altari il 6 maggio del 1962, mentre Paolo VI lo nominò patrono dei
barbieri e parrucchieri.

Martin, che bello avere a che fare con santi come te. Ci si
sente subito a proprio agio con una persona solare e gioviale come sei stato
lungo tutta la tua vita in Perù.

Il
dono del mio carattere mi fu di grande aiuto fin dall’inizio della mia
esistenza, che non fu né semplice né facile, ma grazie a mia mamma imparai come
sorridere al mondo nonostante le avversità che ti crollano addosso.

Già, dimenticavo, fin dalla nascita non ti furono risparmiate
difficoltà e incomprensioni.

Infatti
sono figlio di Juan de Porres, un aristocratico spagnolo approdato in Perù in
cerca di fortuna, e di Ana Velazques, una ex schiava di origine africana.
Segnato perciò fin dal primo giorno che venni alla luce come un bambino che di
fronte alle leggi del Vicereame spagnolo, risultava illegittimo, nato cioè
fuori dal matrimonio cristiano, in più ero diverso in quanto mulatto. Questa
situazione creò in me un mestizaje (meticciato) fra razze e culture
diverse.

Anche la burocrazia pesò non poco sulla tua vita. Non è vero?

Certo.
Fui registrato nella Chiesa di San Sebastiano di Lima come «figlio di padre
ignoto» perché mio padre non volle riconoscere né me né la mia sorellina. Ci
vollero diversi anni e una sua permanenza in Ecuador perché al ci riconoscesse
come carne della sua carne.

Quindi si può dire che tutto si appianò?

Direi di sì, anche dopo qualche anno mio padre fu
nominato governatore del Panama e ci lasciò a Lima con la mamma alla quale, però,
aveva dato le risorse necessarie per le nostre esigenze di vita.

Rimasto solo con tua mamma e tua sorella, che facesti nella Lima
coloniale, capitale del Vicereame del Perù?

Mia
mamma mi mise a bottega da un barbiere perché imparassi il mestiere. I barbieri
a quei tempi erano anche un po’ dentisti e chirurghi e ciò che appresi in
quella bottega (tagliare i capelli, fare la barba, strappare i denti, incidere
bubboni infetti, ecc.) mi toò molto utile in seguito, quando dovetti
risolvere un’infinità di casi che necessitavano del medico, che ovviamente non
era possibile trovare. E io con le conoscenze che avevo acquisito mi trovai a
operare in un settore dove non c’era molta concorrenza.

Avevi pertanto un avvenire garantito con queste tue nozioni
sanitarie e praticità «chirurgiche».

Sì, però fare il cerusico, il barbiere o il cavadenti non mi
appagava fino in fondo, sentivo dentro di me un richiamo molto più intimo e
suggestivo. Il Signore lavorava nella mia coscienza e rendeva il mio cuore
sempre più inquieto. Ogni giorno che passava capivo sempre più che mi voleva
totalmente per Lui.

Fu in questo periodo quindi che decidesti di diventare frate
domenicano?

Proprio così. Questo grande Ordine della Chiesa, fondato da San
Domenico di Guzman, che ha il carisma della predicazione del Vangelo al popolo
e che ha in San Tommaso d’Aquino il suo esponente più illustre, mi attirava
proprio perché aveva come caratteristica quella di non lasciare nessuno
nell’ignoranza. Anzi, in un certo qual modo, i Domenicani si rivolgevano
proprio a quella fascia e categoria di persone alla quale anch’io appartenevo,
per farla diventare soggetto privilegiato dell’annuncio evangelico.

Fu per te facile entrare nell’Ordine dei Domenicani?

Il
colore della mia pelle non mi aiutava certamente. Tanto ai neri, quanto agli
indigeni, come ai meticci, ai miei tempi non si potevano dare gli Ordini Sacri;
ma io non volevo diventare sacerdote per compiere chissà quali grandi opere, più
semplicemente, volevo consacrarmi al Signore nell’umiltà e nel nascondimento,
cercando di vivere come Lui aveva vissuto a Nazareth, cioè aiutando in casa e
contribuendo al mantenimento della famiglia.

E fu così?

Fin
dal momento in cui all’età di quindici anni entrai nel convento domenicano di
Lima, mi sentii liberato completamente, in quanto ero disponibile a una
consacrazione totale per gli altri. Mi furono affidati la cura della portineria
e i lavori più umili di pulizia della casa e della cucina. E mentre svolgevo
queste mie mansioni, la mia immaginazione spaziava continuamente contemplando i
misteri divini, per cui a livello interiore vivevo un’esperienza straordinaria
d’intimità con il Signore. Allo stesso tempo, svolgendo attività ripetitive,
ero stimolato con la preghiera del Rosario a innalzare la mia mente a Dio, il
che aumentava (non scandalizzatevi) la mia allegria e la mia voglia di donarmi
sempre più alla mia comunità e a coloro che vi ricorrevano per avere un aiuto.

E i Padri domenicani non si accorgevano di queste tue esperienze
mistiche?

Eh
sì. Dopo qualche tempo si accorsero di queste mie singolari particolarità, che
io considero doni del Signore. Mi tolsero dalla condizione subalterna, che vivevo
fin dall’inizio del mio ingresso, e mi accolsero all’interno dell’Ordine dei
Predicatori come fratello cornoperatore.

Questo ti facilitò nel tuo impegno verso i poveri, non è vero?

C’è
da dire che in quel periodo in Perù, come in tutti i territori conquistati
dalla Spagna, era ancora vivissimo il ricordo delle efferatezze che i
conquistadores avevano commesso. Molte persone quindi avevano perso ogni cosa e
vivevano in estrema povertà, così come coloro che erano afflitti da varie
malattie si dirigevano ai conventi, sicuri di avere almeno un pezzo di pane o
una bevanda calda. E puoi ben immaginare che, avendo io sofferto la condizione
di emarginazione per un verso e di razzismo per un altro, ero molto sensibile
verso i poveri che accorrevano a noi.

Non ti limitavi a dare l’elemosina?

No.
Mi diedi da fare per avviare delle opere assistenziali e istituzioni permanenti
di promozione sociale e culturale, destinate a durare nel tempo. Andavo dai
nobili e con franchezza chiedevo aiuti e risorse, non per me, ma per quelli più
svantaggiati. Praticamente non c’era casa di aristocratici che non riceveva la
mia visita e dalla quale me ne andavo a mani vuote.

Il coraggio non ti mancava allora?

Quando
non chiedi per te, ma chiedi per gli altri, puoi andare dal Viceré,
dall’Arcivescovo, dal Goveatore e da tutte le famiglie abbienti, per avere
quello che bisogna ridare ai poveri per giustizia e non per carità. Mettevo
tanta forza di convinzione nelle mie parole, che molti dei nobili si sentivano
privilegiati per essere stati scelti come collaboratori di fra Martin de
Porres!

Quando arrivò la peste in Lima ti desti da fare per lenire le
sofferenze di coloro che erano colpiti da quella grave malattia.

Curai
tutti i miei confratelli e nessuno di loro morì per il terribile morbo, così
come andavo per la città per dare conforto a chi nelle proprie case, sui propri
giacigli, affrontava la fase terminale della malattia. Grazie a Dio questa
tragica situazione passò e si ritoò alla vita normale.

È vero che fondasti il primo collegio per bambini poveri a Lima?

Di
per sé risulta essere il primo collegio a Lima, ma nei fatti è il primo
collegio del Nuovo Mondo. L’istruzione ai figli di coloro che erano esclusi dai
benefici della colonia non poteva essere negata. Insieme a alcuni confratelli
che avevano a cuore l’istruzione dell’infanzia, diedi origine e compimento a
quest’opera che già i miei contemporanei giudicavano meritoria e che con
l’andare del tempo si è rivelata profetica.

Quindi non sei per nulla un santo ingenuo e svagato, con la
testa fra le nuvole, che raccomanda ai topolini di non fare troppi danni in
dispensa e che vive in semplicità facendo i lavori più umili?

Questo
è quello che fa comodo a una presentazione della mia vita secondo canoni
agiografici, che presentano i santi sempre come delle persone che vivono sulle
nuvole e non creano problemi. Papa Pacelli che se ne intendeva di queste cose
volle invece che fossi proclamato «protettore della Giustizia Sociale», un
titolo che mi fa arrossire e inorgoglire allo stesso tempo, ma che rende merito
a tutto ciò che io feci durante la mia vita.

San
Martin de Porres, colpito da violente febbri, muore a Lima sessantenne. Per il
popolo peruviano e per i confratelli è subito santo. Invece l’iter canonico,
iniziato nel 1660, avrà una lunghissima sosta. Sarà Giovanni XXIII a
proclamarlo santo, il 6 maggio 1962. A distanza di anni dalla sua
canonizzazione, la sua figura si erge, semplice e amorevole, come prototipo del
liberatore, anche se egli viene raffigurato non con la spada in mano, bensì
nell’atteggiamento più umile e servizievole di chi, usando con maestria scopa e
ramazza sa mettersi al servizio dei più poveri e bisognosi.

 
Don Mario Bandera, Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Caro Amico,

«Gli undici discepoli,
intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo
videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù,
avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.
Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre
e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che
vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”»
(Mt 28, 16-20).

È bello poter vivere
questo ottobre missionario nell’entusiasmo di un mandato: «Andate». E nella
certezza di una promessa: «Io sono con voi». È consolante sperimentare e
vivere, alla luce della fede, che il mio limite – «alcuni però dubitavano» –
non è da escludere, da seppellire tra gli scarti di cui trabocca la discarica
che intasa la mia coscienza, ma è la frattura, lo spiraglio da riconoscere
perché da lì penetri nel mondo quell’amore fornito di «ogni potere» che è il
presupposto del «dunque» andate. Mentre io sono insufficiente, Lui ha ogni
potere. Se dubito, e lo riconosco, Lui può promettere: «Sono con voi». La fede è
allora memoria di quella promessa che ieri, oggi, domani si realizza. Memoria
del futuro – «tutti i giorni, fino alla fine del mondo» – che illumina lo snodo
del presente. L’unico luogo e tempo in cui nella mia fragilità può abitare la
salvezza, del mondo, e mia.

Con questo mese
riprendono tutte le attività dei nostri centri.

Ti aspettiamo per «dubitare»
insieme, e insieme accogliere il dono della fede che ci fa riconoscere la Sua

presenza in ogni luogo
e tempo della nostra vita. 

Buon mese missionario
da amico.

Buona conclusione, il
24 novembre, dell’anno della fede.

Luca Lorusso


Leggici su  amico.rivistamissioniconsolata.it
 

Luca Lorusso




La politica di Dio (che è laico) | Rendete a Cesare – 7

«Non sei lontano dal Regno di Dio» (mc 12,34)

Un esodo al contrario

Il credente che sta nel mondo, sa di doverci stare come tutti gli altri, senza pretendere per sé alcun spazio particolare, alcun privilegio speciale, alcuna legge di favore. Anche se tutte queste cose fossero buone, o addirittura ottime, anche in vista di una migliore organizzazione del mondo, il credente dovrebbe avere in sommo grado il senso della varietà, tanto da rinunciare a ogni forma di privilegio, anche se fosse maggioranza e avesse la forza e i numeri di legiferare la società. Il credente nel Dio Creatore è colui che assume l’ultimo, il piccolo, il debole come «valore» supremo e ne garantisce non solo la sopravvivenza, ma la piena dignità. Anche se una società fosse tutta cristiana e al suo interno vi fosse una sola – soltanto una – persona non cristiana con usi e sistemi diversi, il credente dovrebbe essere il primo a tutelare il diritto di quella singola persona che è minoranza, prima ancora di affermare il diritto di sé come maggioranza. In questo deve essere esclusa qualsiasi forma di «tolleranza» perché il credente in Dio non può tollerare, può solo accogliere in nome di Dio «Padre Nostro». «Tollerare» significa sopportare per necessità ed è per questo che chi tollera è di norma «intollerante» e lo dimostra appena gli è permesso o pensa di poterlo fare.

Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive, come abbiamo visto nella puntata precedente, l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e la sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium, cap. VII [nn. 48-51]). Indole significa che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio che è presente nei regni degli uomini, pur non identificandosi con alcuno di essi. L’obiettivo del servizio «nel» mondo cioè mira a creare le condizioni affinché i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non di schiavi.

Il compito dei cristiani e, a maggior ragione dei vescovi e della gerarchia cattolici, non è tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi da spartire con i politici complici. Al contrario, obiettivo primario e fine supremo della presenza dei cattolici in politica è unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e sia distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo.

La politica prolungamento della creazione

Chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo»; chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto» ed è guidato dallo Spirito di Dio. I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire e ascoltare il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono cristiani o credenti, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e correi di corrotti e corruttori, immorali e amorali, non siamo più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste (19 maggio 2013) ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. Cesare non si cura di Lazzaro e lo abbandona alla pietà dei cani, mentre i figli di Abramo lo accolgono alla loro mensa e lo nutrono. A noi la scelta.

Dio è laico

Una forma concreta di attuazione di questa prospettiva evangelica di separazione integrata senza opposizione tra fede e mondo, si trova in un testo anonimo del sec. II, una lettera indirizzata ad un certo Diogneto, da cui prende nome (vedi i due box qui sotto).

Il cristiano è nel mondo per vocazione e missione; egli è il cultore della relativizzazione e l’assertore dell’Assoluto che è Dio. La Chiesa non può vivere in competizione con il mondo né può pretendere di esercitare il suo dominio sul mondo profano e/o secolarizzato. Essa non è chiamata a trasformare il mondo da profano in mondo cristiano perché rischia di ritornare a quella infausta «cristianità» che tanti mali ha arrecato alla Chiesa e al mondo e tanti ne arreca oggi, in cui il mondo clericale è abbagliato dalla ricchezza, dal compromesso e dall’alleanza con i potenti, pensando che saranno i potenti ad aiutarla a cristianizzare le istituzioni. Il mondo clericale deve rassegnarsi perché il Dio di Gesù Cristo è laico per natura e per essenza e laiche sono le istituzioni del mondo verso il quale la Chiesa ha il dovere e il diritto di osservare alla lettera il comando del Signore: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche» (Lc 9,3), perché solo la povertà e la fragilità dell’inviato può rendere testimonianza credibile al Signore della Storia e rendere visibile il suo volto per farlo apparire credibile attraverso la credibilità del proprio operato e della propria testimonianza, suscitando così il desiderio di Dio e la conseguente conversione.

Politica e carità

La prospettiva posta da Gesù con la questione del tributo a Cesare, è una prospettiva soprannaturale all’interno del criterio d’incarnazione la quale è la logica del chicco di grano che deve cadere in terra e morire se vuole portare frutto (cf Gv 12,24). Il cristiano non lotta per avere uno strapuntino di potere nel mondo, ma lascia ogni potere per assumere in pieno ciò che gli compete e gli appartiene di diritto: la testimonianza del servizio disinteressato. Alla luce di quanto detto, ancora oggi sono valide le parole di Pio XI in un discorso tenuto alla Fuci: la politica è «il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore». Ecco il punto di partenza che è anche il punto di arrivo: per i credenti, per i cristiani che credono in Dio, la politica è «il campo più vasto della carità», cioè dell’amore gratuito che è l’esatto contrario di ogni intrallazzo, compromesso, accordo a favore di pochi e a danno di molti.

[7 – continua con la prossima e ultima puntata]

 

Dalla lettera a Diogneto – 1

V.  1I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati giorniscono come se ricevessero la vita. 17Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio (A Diogneto, V,1-17).

 

Dalla lettera a Diogneto – 2

VI. 1A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. 4L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. 9Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare (A Diogneto, VI,1-10).

 

Paolo Farinella




Non giochiamo al «cattivo selvaggio»

Gli Yanomami sono un popolo feroce, lo stato-nazione
porta la pace e i nostri tempi sono probabilmente i più pacifici che l’umanità
abbia mai vissuto. Queste, in estrema sintesi, le tesi di tre studiosi che
hanno scatenato le dure reazioni di una parte della comunità scientifica e di
attivisti per i diritti delle popolazioni indigene, che accusano i tre autori
di aver rimandato indietro di cent’anni il dibattito e di mettere in
discussione il diritto alla sopravvivenza di interi popoli, dell’Amazzonia e
non solo.

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I termini del dibattito

Ci risiamo. Napoleon Chagnon, il celeberrimo antropologo statunitense che dagli anni Sessanta studia le popolazioni Yanomami del Venezuela, torna alla carica: all’inizio di quest’anno ha pubblicato un saggio dal titolo Nobili selvaggi: la mia vita tra due tribù pericolose – gli Yanomami e gli Antropologi, che riprende in larga parte le tesi sostenute dallo stesso Chagnon nel suo Yanomami, il popolo feroce del 1968, dove gli indigeni vengono descritti come «scaltri, aggressivi e minacciosi», «feroci», «continuamente in conflitto l’uno con l’altro» e «in uno stato di guerra cronico». Quest’ultima espressione ricorda molto quella usata dal filosofo inglese Thomas Hobbes nel sedicesimo secolo per descrivere la situazione nello stato di natura e per mostrare la necessità della politica (e, in definitiva, dello stato) per rendere possibile una ordinata vita associata nella quale l’uomo non sia più lupo per l’altro uomo.

Proprio su questo punto si realizza il contatto fra il pensiero di Chagnon e quello di Jared Diamond, studioso statunitense autore di Il mondo fino a ieri (2012): dopo aver affermato che le società tradizionali, cioè i popoli come gli Yanomami, i Dani della Papua Occidentale e altri, sono interessanti da studiare per la loro prossimità evolutiva con i nostri antenati, Diamond attinge a piene mani da Chagnon per dimostrare che tali popolazioni sono intrinsecamente violente e consapevoli della misera condizione alla quale la violenza li condanna; tanto che, afferma l’autore, quando i governi coloniali intervengono con la forza a metter fine alle guerre tribali, i membri della tribù riconoscono che c’è un miglioramento della qualità di vita che da soli non sarebbero mai stati capaci di ottenere, poiché senza l’intervento di un governo non sarebbe stato possibile mettere fine alla spirale di vedette che le guerre tribali innescano.

Infine, in Declino della violenza (2011), lo psicologo evoluzionista Steven Pinker sostiene tesi molto simili a quelle di Diamond e si spinge ad affermare che quella che stiamo vivendo è l’epoca più pacifica della storia, un’argomentazione che ha diversi punti in comune con il libro di Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), sebbene Pinker stesso abbia affermato di non spingersi fino a parlare di fine della storia ma di circoscrivere il «miglioramento» alla sfera della tecnologia, del cosmopolitismo e della diffusione delle idee.

Reazioni

Di fronte a queste posizioni dei tre studiosi, numerosi esponenti del mondo accademico e le associazioni di difesa dei diritti delle popolazioni indigene, Survival (www.survival.it) in testa, sono letteralmente insorti. Gli interventi sono stati davvero tanti e una buona panoramica è disponibile su anthropologyreport.com, sito che riunisce i contributi provenienti da blog, riviste e libri di antropologia. In poche parole, le principali critiche riguardano la riproposizione da parte dei tre autori del mito del «cattivo selvaggio», l’utilizzo di una variabile come la violenza, estremamente difficile da misurare e comparare, per definire la «ferocia» dei popoli e, nel caso di Pinker e Diamond, una trattazione non rigorosa dei dati statistici sulla violenza e la guerra.

L’antropologo Greg Laden, in un articolo apparso sulla rivista The Slate lo scorso maggio, afferma che non è mai stato così facile come nelle società occidentali rovinare o distruggere senza alcuno sforzo vite umane, e la guerra è diventata mortale come non lo era mai stata prima.

Al di là della diatriba accademica, le affermazioni dei tre studiosi hanno conseguenze immediate di natura politica. Le associazioni come Survival ribadiscono che le tesi di Chagnon, Pinker e Diamond hanno effetti potenzialmente devastanti sulle società indigene: l’argomentazione del «cattivo selvaggio» che i tre accademici riportano alla ribalta, infatti, è proprio una delle leve su cui hanno fatto forza molti governi per giustificare - in diverse epoche, compresa la nostra - l’uso della forza contro interi popoli.

Infine, i rappresentanti delle comunità indigene stesse hanno detto la loro contro le tre opere. Secondo Davi Kopenawa, storico leader yanomami (vedi anche a pag. 21 di questo stesso numero, ndr), non è certo la violenza intea alle comunità a provocare vittime fra la sua gente: «I nostri veri nemici», ha dichiarato, «sono i cercatori d’oro, gli allevatori e tutti coloro che vogliono impadronirsi della nostra terra». Ancora, a detta di Benny Wenda, leader del popolo Dani della Papua occidentale: «L’Indonesia ha occupato illegalmente il nostro paese nel 1963, ed è allora che sono davvero iniziati i massacri, in tutta la Papua Occidentale. Il governo indonesiano non ci ha salvato da un circolo di violenza, come ha scritto Diamond, al contrario, ha portato una violenza che non avevamo mai nemmeno conosciuto: ha ucciso, violentato e imprigionato il mio popolo, e ha rubato la nostra terra per arricchirsi».

La situazione sul campo e la lettera di Fratel Carlo Zacquini al Papa

I missionari della Consolata lavorano con il popolo Yanomami dell’area di Catrimani (Amazzonia brasiliana) dagli anni Sessanta. La realtà che raccontano si colloca a una distanza siderale rispetto a quella descritta da Chagnon. In un’intervista a Survival dello scorso febbraio, il missionario della Consolata fratel Carlo Zacquini ha dichiarato: «Quelli che ho conosciuto – e ne ho conosciuti molti di Yanomami durante gli anni trascorsi a visitare un gran numero di comunità – non sono così [cioè non sono violenti]. Ci sono sempre tensioni, come ci sono tensioni in ogni famiglia, e in ogni paese, ma questo non è guerra. [...] Vi sono lotte, penso che siano sempre esistite, esistono in tutte le società, e qualche volta qualcuno muore, ma è davvero molto raro. Le lotte sono divenute molto più serie quando sono arrivati i cercatori d’oro e si sono diffuse le armi da fuoco. Ma non è una situazione generale, né costante [...]. Il danno provocato da queste “guerre” è decisamente minore di quello provocato da un raffreddore».

Fratel Carlo racconta, in una sua lettera dello scorso luglio, di aver sfogliato il rapporto stilato nel 1967 dal procuratore Jáder de Figueiredo Correia in seguito alle indagini affidategli dal Ministro dell’Inteo del Brasile, dopo che una commissione parlamentare di inchiesta aveva denunciato gravi irregolarità nel Servizio di Protezione degli Indios (Spi), cioè l’ente che, sulla carta, avrebbe dovuto «proteggere» i popoli indigeni. Anche a una lettura superficiale, la descrizione di alcuni fatti è, a detta di fratel Carlo, così nauseante da non poter essere riportata: i soprusi, i massacri, le violenze che gli indios hanno subito per mano del servizio nato per salvaguardarli sono tali e tanti da non reggere il confronto con le cose già gravissime e atroci che il missionario ha sentito e testimoniato nella sua lunga esperienza di lavoro con gli Yanomami.

Fratel Carlo ha di recente scritto una lettera a papa Francesco in occasione della sua visita in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù: «So che tu non puoi permetterti di passare qualche giorno in un villaggio yanomami come ha fatto il re della Norvegia», scrive fratel Carlo, «ma forse potresti consigliarlo a qualcuno dei discendenti di europei o di persone di altri continenti che hanno popolato questo “grande” paese, il Brasile. [...] Forse, dunque, in quel caso, comincerebbero a capire che le dimostrazioni di ripudio e di rivolta che si ripercuotono sui mezzi di comunicazione, specialmente quelli alternativi, non sono effetto di allucinazioni di alcuni esaltati [...], ma guardano al bene delle popolazioni indigene e a quello del resto dell’umanità [...]. Come può un paese, la cui grandissima maggioranza si dice cristiana, trattare i diritti umani in questo modo?».

Oggi, il tentativo di eliminazione degli Yanomami e di molti altri popoli continua in modo sistematico, si è solo fatto meno brutale e più subdolo. La presenza di popolazioni indigene su territori spesso anche molto ricchi di risorse, in contesti di paesi in forte crescita economica, è tuttora vissuta come un fastidio e un problema da rimuovere. Quasi mai la soluzione del problema passa attraverso la mediazione, la proposta di alternative e il rispetto del diritto di quei popoli a vivere nel loro territorio.

«Non è che vogliamo convincere, né tantomeno costringere, i popoli indigeni a “fare gli indigeni” in eterno», aveva spiegato qualche anno fa fratel Carlo a chi scrive. «Se gli Yanomami, nel corso del tempo, decideranno di cedere il proprio territorio e le proprie tradizioni, questa sarà una scelta che ci rattristerà infinitamente ma non penso che potremo opporci. Ma è proprio questo il punto: la scelta. Credo che il ruolo di noi missionari consista anche nel sostenere questo popolo nel suo tentativo di ottenere gli strumenti, culturali e giuridici, perché possa difendersi e scegliere, per non essere semplicemente spazzato via da chi vuole arricchirsi devastando la sua terra. Tanto più che, come sempre ripete Davi Kopenawa, non ci sono altri mondi, ce n’è solo uno e l’Amazzonia ha un valore inestimabile, e reale, per tutti noi».

Basta, con un semplice esercizio mentale, sostituire nel paragrafo sopra «Yanomami» e «Amazzonia» con il nome del proprio popolo e territorio di appartenenza per capire che non stiamo parlando di qualcosa di così lontano.

Chiara Giovetti

Tre domande a

Francesca Bigoni e Roscoe Stanyon, antropologi che curano un progetto di ricerca sugli Yanomami con l’Università di Firenze e collaborano con padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata a Catrimani (Roraima, Amazzonia brasiliana).

Che cosa ne pensate della ripresa del dibattito sul «cattivo selvaggio»? Si tratta di una riproposizione di temi già noti o c’è effettivamente qualche nuovo elemento.

Forse non è un caso che questo dibattito si riaccenda in un momento drammatico in cui l’esistenza dei popoli indigeni e la salvaguardia dei territori a cui sono legati sono minacciati da ciechi interessi economici e politici. Continuare ad utilizzare i vecchi stereotipi per rappresentarli come popoli «primitivi», violenti e in antitesi al «progresso», e comunicare a vari livelli questa visione distorta è certamente strumentale a questa situazione. Sì, ci sono nuovi elementi e sono tutti in favore dei popoli indigeni, perché ora abbiamo una conoscenza migliore dei valori culturali di cui sono portatori e difensori (dimensione collettiva della loro vita sociale, relazione con l’ambiente, prospettiva spirituale).

L’antropologo Greg Laden scrive che la violenza, il tratto culturale attribuito agli Yanomami e ad altre popolazioni indigene, non è un criterio affidabile perché «è difficile da misurare» e aggiunge, per contro, che è proprio la società occidentale che ha reso la guerra mortale e la vita umana facile da rovinare e distruggere come mai lo erano state prima. Siete d’accordo con questo ribaltamento di prospettiva?

Certamente sì. Per esempio, è ora ben noto che la presunta violenza fra gruppi di Yanomami di cui parla Chagnon, ammesso che i suoi dati siano corretti, si riferisce a una limitata zona geografica e a un momento storico particolare. La sua prospettiva non è stata confermata da studi in altre vaste zone di insediamento degli Yanomami. Per esempio Giovanni Saffirio, missionario della Consolata e antropologo, nella sua lunga esperienza tra gli Yanomami del Catrimani dal 1968 fino alla metà degli anni ’90 ha provato a raccogliere dati, ma i casi di morti per violenza erano così rari che non era possibile neppure fare un confronto statistico. Quindi le generalizzazioni di Chagnon devono essere lette in maniera molto critica. Attualmente gli studi antropologici dimostrano che i comportamenti umani sono, in tutte le popolazioni, altamente flessibili e legati alla situazione particolare in cui ci si viene a trovare. D’altra parte Pinker, per sostenere la sua teoria del «declino della violenza» nella nostra cultura rispetto alle culture tradizionali come quella Yanomami considerate «feroci», utilizza limitati dati di Chagnon e di altri antropologi, confrontandoli con i tassi di omicidio nella società occidentale, ma usa criteri statistici scorretti per sostenere le sue tesi, finendo addirittura con lo sminuire la portata di avvenimenti come lo sganciamento di bombe atomiche nella nostra epoca e numerosi episodi di genocidio di popoli indigeni e non indigeni.

La storia è chiara e ci insegna che le più grandi violenze, sono state quelle con cui la cosiddetta società «civilizzata» ha causato lo sterminio dei popoli nativi in diversi continenti, un fenomeno che sembra ripetersi, magari con forme più sottili e subdole, ancora oggi.

Una domanda più per i cittadini Francesca e Roscoe cheper gli antropologi: perché un italiano, un europeo, un abitante del Nord del mondo dovrebbe interessarsi degli Yanomami e delle popolazioni indigene in genere?

Studi recenti hanno dimostrato chiaramente che nei territori in cui i popoli nativi vengono preservati con la loro cultura e la loro lingua, viene automaticamente protetta la biodiversità; al contrario la perdita delle culture tradizionali e del loro patrimonio linguistico è seguita in breve tempo dalla distruzione dell’ambiente. Se ignoriamo questo semplice fatto prepariamo l’estinzione della nostra stessa specie umana.

Chiara Giovetti
 
Chiara Giovetti




Santa Bakitha

La santità è una conquista che tutti possono raggiungere,
a essa possono aspirare uomini e donne di ogni razza, popolo e cultura. Questa
volta ci incontriamo con Bakhita, una santa africana originaria del Darfur (Sudan), che, fatta
prigioniera da bambina e venduta come schiava da mercanti senza scrupoli, dopo
incredibili vicissitudini, approda nella famiglia del Console italiano Callisto
Legnani, che dal Sudan la porta in Italia. Nel nostro paese, Bakhita incontra
le Suore Canossiane e, dopo un certo periodo, entra a far parte dell’Istituto,
prendendo i voti nel 1896. Il suo modo di fare, soprattutto la
dolcezza del suo carattere, le attirano in poco tempo la simpatia di tutti
coloro che la circondano.

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Una santa «di colore» diremmo oggi, eppure di santi provenienti dal continente africano ce ne furono parecchi prima di te, non è così?

Il calendario è ricco di santi africani, qualcuno addirittura, come sant'Agostino che, nato a Tagaste (l’attuale Algeria), è considerato uno dei pilastri del pensiero occidentale, grazie alla sua profonda conoscenza teologica e alla sua filosofia che ha segnato non poco tutto il pensiero del bacino del Mediterraneo, dell’Europa..

Hai citato uno dei più grandi Padri della Chiesa, che insieme a Tertulliano, a Cipriano e a tanti altri, ha dato lustro alla Chiesa africana delle origini, ma ce ne sono stati altri?

Molti africani al tempo dell’impero romano prestavano servizio militare nelle varie legioni e alla fine si stabilivano definitivamente dove erano stanziati. Alcuni di loro, pur essendo di colore, sono venerati nelle Chiese del Nord Italia, come san Vittore, san Maurizio, san Zeno di Verona e tanti altri. Pure nel Sud dell’Italia la devozione ai santi provenienti dall’Africa è molto forte, come san Benedetto il Moro, originario della Mauritania, il primo santo negro canonizzato il 24 maggio 1807 da Papa Pio VII, il quale, insieme a santa Rosalia, è patrono di Palermo. Provenienti dall’Africa sono anche san Calogero, sant’Oronzo, sant’Antioco e tantissimi altri. E poi ci sono ben tre papi: Vittore, Milziade e Gelasio. Certo sono dei primi secoli della storia della Chiesa, ma sono il segno tangibile e inequivocabile che le radici cristiane in Africa hanno origini antichissime.

La tua però è una storia di santità un po’ speciale. La tua canonizzazione è avvenuta perché in fondo sei approdata in Italia. Com’è successo?

Nata nel 1869 e cresciuta in un villaggio del Darfur, in Sudan, all’età di sette anni fui rapita da razziatori arabi, che si spingevano all’interno per catturare uomini e donne, giovani, ragazzi e bambini di entrambi i sessi e rivenderli come schiavi. Io, che appartenevo a una famiglia agiata che aveva piantagioni e bestiame, improvvisamente fui strappata dai miei cari e dalla mia terra e mi ritrovai immersa nel dolore e nella sofferenza.

Puoi raccontare la tua odissea come schiava?

Fui subito venduta al mercato degli schiavi e in pochi anni fui sballottata da un padrone all’altro (ben sei) di diversi paesi. Ricordo che il padrone più cattivo fu un generale turco ottomano che mi fece fare un tatuaggio su tutto il corpo e anche delle incisioni che sfigurarono tutta la mia persona, tranne il volto. Per fortuna alla fine questo ufficiale mi vendette.

Dove finisti? Chi ti comprò?

Fui acquistata da un agente consolare italiano, Callisto Legnani, che mi trattò bene; in casa sua per la prima volta ebbi dei vestiti tutti per me e un cibo decente. Era deciso a riportarmi al mio villaggio per ridarmi la libertà. Ma la rivoluzione del Mahdi cambiò completamente i programmi del Console e miei. Si vede che la Provvidenza aveva disposto diversamente.

Rivoluzione del Madhi, cos’è?

Alla fine degli anni 1870, Muhammad Ahmad - un asceta musulmano - iniziò a predicare a Khartum, la capitale, e in altri centri urbani del Sudan, invocando il rinnovamento della «vera fede» (ovviamente quella islamica), la liberazione della terra sudanese e il ritorno alle strutture di governo previste dal Corano. I suoi seguaci raggiunsero un numero ragguardevole e Ahmad si proclamò nel 1881 Mahdi, cioè redentore dell’Islam, che la tradizione islamica vuole debba comparire verso la fine dei tempi per ripristinare il primitivo puro Islam.

Quindi ci fu una guerra?

Sì, inglesi ed egiziani si opposero al Mahdi e ci furono diverse battaglie con esiti incerti, le sorti erano favorevoli ora all’uno ora all’altro fronte, ma questa situazione critica, violenta, piena di odio verso i colonizzatori europei, specialmente gli inglesi, portò il funzionario italiano alla decisione di lasciare Khartum e di ritornare in Italia.

E tu immagino che seguisti la famiglia del Console italiano?

Sì. Decisi di seguire quella che ormai consideravo la mia nuova famiglia, ma il Console mi mandò al servizio di un amico suo, Augusto Michieli, perché facessi da baby-sitter alla figlioletta Alice (Mimmina).

In Italia dove vi stabiliste?

Ci stabilimmo dapprima a Genova, poi nel Veneto, dove i Michieli avevano diverse ville. Io accudivo sempre Alice e passavo con lei molto tempo, seguendola anche nel catechismo che lei frequentava dalle Suore. I Michieli, avendo da curare i propri affari anche in Africa, ritornarono diverse volte in quel continente, con me sempre al seguito. In uno di questi viaggi i coniugi andarono da soli e io rimasi ospite nel catecumenato delle Suore Canossiane a Venezia.

E lì che successe?

Dopo nove mesi la signora Michieli venne a reclamare i suoi diritti su di me. Mi rifiutai di seguirla nuovamente in Africa, al che la signora perse completamente le staffe. Nella diatriba che seguì, intervenne anche l’allora patriarca di Venezia, cardinal Agostini, e il procuratore del Re, il quale mandò a dire alla signora che in Italia non c’era più la schiavitù, io ero una persona libera e potevo prendere la strada che volevo.

Proprio come una persona libera?

Sì. Mi sentivo una persona completamente nuova, diversa, dopo molte vicissitudini e dopo aver provato le sofferenze più terribili, tra cui la schiavitù, ero finalmente una ragazza libera; era il 29 di novembre 1889.

E che facesti allora?

Completai la mia formazione cristiana e il 9 gennaio 1890 ricevetti dal patriarca di Venezia battesimo, cresima e prima comunione. In quell’occasione mi venne dato il nome di Giuseppina Margherita e Fortunata, che è la traduzione italiana del nome arabo Bakhita.

Chissà che giornata meravigliosa fu quella!

È vero. Da schiava negra ignorante diventavo figlia di Dio. Un’esperienza incredibile di libertà interiore, che sono incapace di descrivere, ma che riempiva il mio animo di una grazia e delicatezza che non avevo mai sperimentato. Provavo la gioia di essere una donna libera, amata da Dio e una cristiana che cercava di vivere il Vangelo di Gesù. Avevo un solo dispiacere: non avere nulla da offrire al Signore in cambio di tutti i doni che mi aveva fatto.

Fu in quel periodo che sentisti dentro di te la vocazione di consacrarti totalmente a Gesù?

Devo dire che vivendo e approfondendo il mio cammino di fede, sentivo crescere dentro di me il desiderio di farmi suora e di donarmi totalmente al Signore. Avevo paura a manifestare questi miei sentimenti perché pensavo che il colore della mia pelle fosse un ostacolo insormontabile.

E invece?

Quando manifestai questa mia intenzione, fui accolta a braccia aperte dalle care sorelle dell’Istituto Figlie della Carità fondato da Maddalena di Canossa per aiutare i bambini più poveri e analfabeti a elevarsi culturalmente e spiritualmente mediante l’istruzione scolastica. Dopo tre anni di noviziato, l’8 dicembre 1896 pronunciavo i voti religiosi di povertà, castità e obbedienza. L’allora patriarca di Venezia, il Cardinale Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, dopo avermi esaminata e interrogata lungamente, mi incoraggiò nella mia vocazione e mi disse: «Gesù vi vuole. Gesù vi ama; voi amatelo e servitelo sempre così». Dopo i voti venni mandata nella comunità di Schio, Vicenza, dove rimasi per quarantacinque anni e lì svolsi qualsiasi lavoro mi veniva richiesto: lavoravo in cucina, lavavo la biancheria, accudivo la portineria, imparai anche a ricamare.

Dì la verità: ti guadagnasti la stima di tutti per la tua bontà, la tua dolcezza di carattere e la cordialità con la quale accoglievi i poveri e soprattutto i bambini che frequentavano le scuole del vostro Istituto.

I bambini mi chiamavano la «madre moretta», a loro raccontavo tante fiabe della mia terra. La mia storia, il fatto che ero stata venduta come schiava ed ero approdata alla vita religiosa, si sparse in un baleno dappertutto e venni invitata in diverse città italiane a dare testimonianza della mia vita, della mia conversione e della mia vocazione.

Immagino che fu abbastanza pesante questo continuo andare su e giù per l’Italia. A chi veniva ad ascoltarti cosa dicevi?

Un messaggio molto semplice: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio». Con quella consapevolezza che si accresceva di giorno in giorno, io stessa avrei voluto tornare tra la mia gente per far conoscere a tutti il grande amore che Dio ha per noi.

Bakitha rimase in Italia fino alla sua scomparsa. Nel 1943, con la sua comunità, pur nei difficili anni della seconda guerra mondiale, festeggiò i cinquant’anni di vita religiosa. Col passare degli anni, un’artrite deformante e una bronchite asmatica riempirono la sua esistenza di dolori fisici. Pur nella malattia, negli ultimi anni della sua vita, non si lamentava mai; a chi le chiedeva come stava, rispondeva in dialetto veneto: «Come vol el Paròn». Questa frase non esprimeva rassegnazione, era espressione genuina della sua testimonianza di fede, bontà e speranza cristiana. Si spense l’8 febbraio 1947. La sua comunità religiosa e la gente di Schio si strinsero attorno a lei per un ultimo atto di venerazione. Tutti volevano vedere la «madre moretta» prima della sepoltura. La fama della sua santità si diffuse rapidamente a macchia d’olio, dando vita a una devozione popolare e sincera, sia in Italia che in Africa. Giovanni Paolo II l’ha iscritta nell’albo dei santi il 1° ottobre del 2000.

Mario Bandera




Per «tutelare Dio»

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 13

Bestemmiare, cambiare credo e diffamare fede, persone o gruppi
religiosi è reato in diversi paesi. Le leggi «antiblasfemia» nascono con
l’intento di difendere la religione, ma nei fatti soffocano la libertà
religiosa. Mentre l’apostasia viene punita in 20 paesi, tutti a maggioranza
musulmana, la blasfemia è punita anche in paesi «insospettabili» come Grecia,
Germania, Danimarca, Italia.

Dal Pakistan all’India alla Turchia alcuni episodi sono saliti
alla ribalta dell’attenzione internazionale. In anni recenti, un gran numero di fatti di cronaca hanno
accentuato l’attenzione dei mass media sulle cosiddette «leggi antiblasfemia»
che in diversi paesi del mondo hanno portato, e portano, alla violazione del
diritto di libertà religiosa. Tali leggi e politiche governative, infatti,
nonostante siano giustificate per lo più dalla volontà di tutelare le fedi
della popolazione, sono invece spesso lo strumento per reprimere i gruppi
religiosi di minoranza, o espressioni «non ortodosse» del credo di maggioranza.
Sono il 47% del totale gli stati e i territori che nel mondo
applicano legislazioni contro la blasfemia1, l’apostasia2 o le varie forme di
diffamazione della religione3 secondo una recente analisi del Pew Research Center’s Forum on
Religion & Public Life
(centro di ricerca statunitense indipendente,
specializzato in tematiche religiose e sociali). Dei 198 paesi presi in esame
durante l’anno 2011 dal Pew forum, 32 avevano specifiche leggi
antiblasfemia, 20 provvedimenti che colpivano l’apostasia e 87 avevano leggi per
contrastare offese verso una religione, inclusi parole o atteggiamenti di
incitamento all’odio contro un gruppo religioso. Per raccogiere i dati e
attuare le analisi, la ricerca ha utilizzato, oltre al lavoro diretto sul
campo, ben 19 fonti facilmente accessibili: dal dipartimento di Stato Usa alle
Nazioni Unite, da Human Rights Watch ad Amnesty Inteational e Inteational Crisis Group.

Le indagini precedenti avevano sottolineato un elemento importante
per quanto riguarda la libertà di credo nei diversi paesi, confermato
nell’ultimo studio: i paesi che hanno nel loro ordinamento leggi contro la
bestemmia, l’apostasia o la diffamazione della religione tendono ad avere
maggiori restrizioni governative e tensioni sociali più forti riguardo al
fenomeno religioso.

Bestemmia
e diffamazione

Lo scorso anno ha fatto scalpore il caso di Rimsha Masih, una
14enne pachistana di religione cristiana arrestata e incarcerata perché
accusata di aver bruciato pagine di un libro propedeutico allo studio del
Corano. Dopo alcuni mesi di prigionia la ragazza è stata liberata perché le
prove erano state costruite dal suo accusatore, il quale, a sua volta
incolpato, è stato recentemente assolto (si veda pag. 8 di questo numero di
Mc
).

Da tempo l’uso strumentale della legge antiblasfemia è diventato
in Pakistan un ostacolo alla convivenza delle comunità religiose. Dal musulmano
Pakistan passiamo all’India, dove Sanal Edamaruku, presidente della Indian
Rationalist Association
, è stato incriminato, sempre nel 2012, per avere
dichiarato che una statua di Gesù particolarmente venerata a Mumbai per le sue
caratteristiche miracolose sarebbe stata un falso.

I due casi, pur essendo di natura simile, sono stati trattati in
modo diverso sul piano giuridico: il primo, infatti, è rientrato nell’ambito
della blasfemia, il secondo in quello della diffamazione della religione. I
casi che riguardano la blasfemia sono presenti soprattutto in paesi musulmani,
quelli riguardanti la diffamazione sono assai più diffusi. In ogni caso, sono
coinvolti in queste politiche di «protezione» della religione anche paesi «insospettabili».
La Grecia, ad esempio, ha una delle legislazioni più rigide, certamente la più
severa in Europa, riguardo la blasfemia. La Cina, paese formalmente guidato da
un’ideologia atea, il comunismo, che controlla in modo pesante le attività
religiose autorizzate, con la versione più aggiornata del Regolamento degli
Affari religiosi del marzo 2005 persegue la discriminazione e l’offesa
religiosa.

Nel 2011, sul totale già citato di 32 paesi che penalizzavano la
blasfemia, la maggior parte si trovava in Medio Oriente e nell’Africa
settentrionale. In 13 dei 20 paesi di quell’area la blasfemia è un crimine.
Nella regione Asia-Pacifico, sono nove su 50 i paesi con leggi analoghe, mentre
in Europa questa legge si ritrova in otto dei 45 paesi del continente (tra cui
anche l’Italia, si veda la tabella in questa pagina, ndr). Per quanto
riguarda l’Africa Subsahariana, sono solo due i paesi che applicano una legge
antiblasfemia: Nigeria e Somalia.

Il
disagio dell’Islam

Pare inevitabile, parlando di «bestemmia» e
di come le istituzioni di diversi paesi nel mondo cercano di contrastarla
attraverso provvedimenti mirati, concentrarsi quasi esclusivamente sull’Islam.
L’attuale influenza di una versione rigorista della dottrina musulmana, quella
wahhabita, elaborata nel medioevo islamico e predominante in Arabia Saudita e
in altri paesi della regione, sta segnando la pratica di fede nell’ecumene
musulmano e anche la vita di chi musulmano non è. Il wahhabismo, forte degli
abbondanti proventi del petrolio, ha incentivato una diaspora missionaria che
ha sostenuto la nascita di infinite scuole coraniche, moschee, centri di
studio, ma anche la diffusione di ideologie di extraterritorialità e
ribellione, e focolai di intransigenza religiosa. Facendo leva su povertà,
frustrazioni e aspirazioni di molte comunità islamiche, dalla Palestina alle
Filippine meridionali, è diventato anche elemento destabilizzatore per molti
paesi a maggioranza musulmana, provocando più vittime tra i correligionari che
non tra i non-musulmani. Un radicalismo che incentiva il senso di inadeguatezza
di ampie comunità islamiche asiatiche attraverso il continuo accento posto
sulla distanza tra i costumi di vita locali e la necessaria fedeltà all’Islam. È
da questo – ovvero dalla percezione di una identità islamica minacciata – che
derivano probabilmente molte delle legislazioni antiblasfemia. Da qui deriva
anche il contrasto continuo all’interno dei grandi paesi musulmani
sull’applicazione della legge coranica (Shari’a): la giurisprudenza
laicista la vorrebbe vincolante per i soli musulmani, gli oltranzisti invece erga
omnes
, ovvero imposta anche alle minoranze. Ulteriori complicazioni
derivano poi dalla presenza di leggi tribali o locali nei diversi ordinamenti.
Alla fine, nella pratica, la legge più
restrittiva s’impone a scapito delle istanze di uguaglianza e, sovente, di
sviluppo.

In carcere il
blasfemo turco

Un caso recente mostra che la legge si applica in modo esteso
anche ai nuovi media. A fine maggio 2013, alla Turchia è toccato condannare per la prima
volta per blasfemia un blogger, un cittadino turco di origini armene, Sevan
Nisanyan, ritenuto colpevole di «avere apertamente denigrato i valori religiosi
di una certa parte della popolazione» e per questo condannato a un anno e 45
giorni di detenzione.

Una condanna estesa dagli iniziali nove mesi chiesti dal pubblico
ministero perché il suo crimine, come segnalato dall’agenzia d’informazione
semi-ufficiale Anadolu, «è stato commesso attraverso un mezzo
d’informazione». Una sentenza che mostra insieme elementi purtroppo noti e
anche di novità, quella decretata in Turchia, paese dalle solide basi laiciste,
iscritte nella sua storia modea prima ancora che nella costituzione del 1982,
ma che sotto il governo islamista di Regep Tayyip Erdogan ha visto una sicura
svolta integralista. Non senza resistenze, intee ed estee al parlamento di
Ankara e anche sotto lo sguardo attento delle diplomazie inteazionali, a
partire da quelle dell’Unione Europea.

In un testo pubblicato sul suo blog lo scorso settembre, Nisanyan
(pubblicista e tra i pionieri delle nuove tendenze dell’industria turistica
turca) aveva parlato delle proteste inteazionali successive all’uscita del
film di produzione hollywoodiana Innocence of Muslims, una pellicola di
basso livello artistico e tecnico e ancor minore successo commerciale, che
metteva in ridicolo la figura del profeta Maometto. Dure poteste, con episodi
di violenza furono il risultato in diversi paesi  musulmani, tra cui Egitto e Libia. Mentre il
premier turco denunciava il film come «islamofobico», la sua popolazione si
limitava a proteste pacifiche e poco partecipate.

«Non è un crimine che chiama all’odio prendersi gioco di alcuni
leader arabi che molti secoli fa proclamarono di essersi messi in contatto con
Dio e ne ottennero, come conseguenza, benefici politici, economici e sessuali.
Si tratta di un caso quasi a livello di scuola matea di quella che noi
chiamiamo libertà di espressione», aveva scritto tra l’altro Nisanyan.

I casi
dell’Islam asiatico

L’Asia meridionale e il Sud-Est asiatico raccolgono la maggioranza
dei musulmani del mondo (il 62%), eppure il loro ruolo nell’Islam è ancora
subordinato ai paesi arabi. Le masse che alimentano ecumenismo e orgoglio
nell’Islam sono lì, in Oriente, ma devono sottostare a regole elaborate sotto
le tende beduine come negli uffici «glacializzati» che si affacciano sul Golfo.

L’Indonesia è il primo paese islamico al mondo con i suoi 250
milioni di abitanti all’87% musulmani; il Pakistan è il secondo con 182 milioni
di credenti; l’India, grande paese induista, è al terzo posto (almeno 140
milioni), all’incirca alla pari con il musulmano Bangladesh. Afghanistan,
Malaysia e Boeo sono altri stati a maggioranza islamica, mentre consistenti
comunità musulmane si trovano in Cina, Thailandia, Malaysia, Myanmar,
Filippine, Vietnam, Cambogia e Sri Lanka.

Tra tutti, il Pakistan si distingue per l’uso più concreto e anche
criticato della legge antiblasfemia. Strumento nato nel 1986 per garantire
all’allora dittatore militare Zia ul-Haq l’appoggio degli islamisti contro gli
oppositori. Gli articoli del codice penale collettivamente indicati come «legge
antiblasfemia» continuano a essere in Pakistan un’arma da usare contro
avversari politici, in faide personali e verso le minoranze. Un’arma a volte
letale che arriva a colpire anche bambini di dieci anni e persone mentalmente
incapaci.

Il governo di Islamabad nega di avere dati disponibili e le altre
fonti sono spesso contraddittorie, ma secondo le ricerche della Commissione
Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica pachistana, dal 1986
all’agosto 2009, sono almeno 964 i pachistani finiti sotto processo per
blasfemia: 479 musulmani, 340 ahmadi,
119 cristiani, 14 indù e una decina di fede ignota. Mancano i dati delle
condanne e di quanti stanno scontando la pena, ma sono certamente decine.
Diversi sono stati uccisi in carcere oppure subito dopo la liberazione
decretata dai giudici. Se è vero che a essere stati arrestati e giudicati sono
in misura rilevante musulmani «ortodossi» di appartenenza sunnita o sciita,
spesso critici verso il potere o verso l’estremismo religioso, è pur vero che
le minoranze, compresa «l’eresia» islamica Ahmadi, sono presenti tra gli
accusati in misura superiore. 

Stefano Vecchia
 
Note:

1.
Con blasfemia, o bestemmia, si intendono osservazioni o scritti
considerati sprezzanti, offensivi verso Dio.
2.
Con apostasia si intende l’abbandono di una fede religiosa per un’altra.
Ad esempio l’abbandono dell’Islam per diventare cristiano.
3.
Con diffamazione della religione si intendono la denigrazione o la
critica di un credo religioso.

Stefano Vecchia




Latte materno (1)

Mi è capitato di sentire affermare da qualcuna
delle mie allieve, durante una lezione di anatomia e fisiologia della mammella,
che se avessero avuto un figlio non avrebbero mai voluto allattarlo.
Incuriosita, ne ho chiesto il motivo, che per lo più è risultato essere di
carattere estetico: la paura di perdere la linea. In alcuni casi ho invece
constatato qualche opposizione di tipo psicologico. In verità, allattare un
figlio al seno non solo è naturale, ma è il modo normale di nutrire un neonato
per un appartenente alla classe dei mammiferi, quale è l’essere umano. Eppure
l’idea dell’allattamento al seno non è così universalmente accettata. Del resto
basta dare un’occhiata alle riviste o alle trasmissioni in cui si parla di
qualche stella o stellina dello spettacolo appena diventata mamma, per
osservare che la donna in questione, a poca distanza dal parto, ha in genere
miracolosamente riacquistato un fisico da modella, viene fotografata a spasso
con il bebè, quasi mai però
nell’atteggiamento di allattarlo al seno. Anche alle bambine viene inculcata
l’idea che l’allattamento del neonato è qualcosa che passa attraverso un
biberon. Si pensi a tutti quei bambolotti-neonato muniti di corredino e
immancabile biberon con finto latte a scomparsa, per simulae lo svuotamento.
Per non parlare delle pubblicità di tettarelle, poppatorni di ogni forma,
scaldabiberon e di tutto quanto serve per l’allattamento artificiale, che fino
a qualche anno fa potevamo vedere ovunque. Da qualche tempo questa pubblicità
in Italia è quasi scomparsa, perché, nel 2011, è stata emanata una norma1 che vieta di pubblicizzare qualsiasi sostitutivo del
latte materno adatto all’utilizzo al di sotto dei 6 mesi d’età, limita la
pubblicità del latte di proseguimento o di altri alimenti per lattanti e prevede
sanzioni per le violazioni. La norma fa seguito ad altri due decreti
ministeriali del 2005 e del 2009, che avevano avvicinato la normativa italiana2, senza però prevedere sanzioni per le violazioni, a
quella degli altri paesi, aderenti al «Codice internazionale sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno». Quest’ultimo fu approvato
nel 1981 dall’Assemblea mondiale della salute (Ams) e in seguito fu
aggiornato con alcune risoluzioni. Tale codice venne fatto proprio dall’Unicef,
per cui spesso se ne parla come del Codice Oms/Unicef. Lo scopo del Codice è
quello di proteggere l’allattamento al seno dalla concorrenza dei sostituti del
latte materno e dall’enorme giro d’affari delle multinazionali produttrici sia
dei latti in formula e degli alimenti per l’infanzia, che degli oggetti in uso
per l’allattamento artificiale. Nonostante a tale codice abbiano formalmente
aderito anche le multinazionali suddette (e anzi abbiano partecipato
attivamente con i loro rappresentanti alla sua stesura, in modo da difendere il
più possibile il loro giro d’affari), e nonostante molti paesi aderenti abbiano
legiferato in maniera più o meno aderente a esso, il marketing del latte
artificiale e di tutto ciò che l’accompagna è sicuramente uno dei fattori che
contribuisce a mantenere i tassi di allattamento al seno inferiori a quelli
raccomandati dall’Oms. Secondo quest’ultima, l’allattamento al seno dovrebbe
essere esclusivo per i primi sei mesi di vita (a richiesta del bebé e senza
orari prefissati), dopodiché è raccomandato che venga protratto fino a due
anni, contemporaneamente all’assunzione di alimentazione complementare. La
realtà dei fatti è invece ben diversa e con conseguenze spesso tragiche,
soprattutto nei paesi del Sud del mondo, dove le tecniche di marketing
delle multinazionali produttrici di latti in formula, Nestlè in testa, sono
particolarmente aggressive e consistono solitamente in iniziali foiture
gratuite di tali latti ai presidi ospedalieri, che li distribuiscono alle
neomamme per indue la dipendenza.

Secondo l’Oms e l’Unicef, nei paesi a basso
reddito ogni anno muore circa un milione e mezzo di bambini per non essere
stati allattati al seno. L’alimentazione artificiale dei neonati infatti
comporta due tipi di problemi. Innanzitutto l’alto costo dei latti in formula
non può essere sostenuto dalle madri, che – dopo avere provato il latte in
omaggio – si ritrovano ad avere perso il proprio (la mancata suzione al seno
riduce progressivamente la montata lattea fino ad azzerarla) e ad essere
costrette a proseguire con l’allattamento artificiale. L’unica soluzione
trovata da queste madri per fare fronte alla spesa ingente è quella di diluire
il latte fino a compromettee il valore nutritivo, quindi il neonato diventa
progressivamente denutrito, con possibili danni neurologici e rischio di morte.
L’altro grave problema è rappresentato dalla carenza di igiene nella pulizia
dei biberon, oppure dall’uso di acqua contaminata per la diluizione del latte,
fattori che possono scatenare gravissime infezioni gastrointestinali, spesso
letali. A queste si possono aggiungere altrettanto gravi infezioni respiratorie
e otiti, per il mancato sviluppo del sistema immunitario poiché il latte in
formula, a differenza di quello materno, non apporta anticorpi. I vari tipi di
latte artificiale, per quanto reclamizzati come umanizzati, mateizzati, ecc.,
non potranno mai essere nemmeno lontanamente paragonabili al latte materno, che
è una sostanza viva, derivante direttamente dal sangue ed è altamente «specie-specifico»
(quindi diverso da specie a specie di mammiferi). Nel latte materno si trovano
numerosi componenti presenti in bassa concentrazione, che non sono strettamente
correlati all’aumento ponderale del bambino, ma al corretto e normale sviluppo
del suo apparato digerente, di quello immunitario e del sistema nervoso. Solo
il latte umano contiene elementi specie-specifici che sono necessari al momento
della nascita per la normale colonizzazione batterica del tratto
gastro-intestinale del neonato (come l’immunoglobulina A secretoria o SIgA, la
lattornalbumina ed oltre 100 tipi di oligosaccaridi). Vi sono poi elementi che
promuovono la maturazione dell’apparato digerente e ne riducono la permeabilità
(nucleotidi, oligosaccaridi, fattori di crescita e la lattoferrina). Inoltre la
SIgA, la lattoferrina, la lattornalbumina e gli oligosaccaridi – insieme con il
lisozima, gli acidi grassi ed i leucociti – combattono le infezioni e le
infiammazioni. Infine i nucleotidi, i fattori di crescita, la SIgA e gli ormoni
favoriscono e modulano lo sviluppo del sistema immunitario del bambino.
Inoltre, il «colostro», cioè la prima secrezione mammaria prodotta nei primi
due giorni di puerperio in quantità variabile tra 70 e 200 cc. e con
composizione nettamente diversa da quella del latte, è di fondamentale
importanza per il neonato perché la sua composizione facilita notevolmente il
passaggio dalla nutrizione placentare a quella attraverso l’intestino. Esso
inoltre contiene enzimi capaci di iniziare la digestione delle proteine, dei
grassi e degli zuccheri, oltre a discrete quantità di anticorpi e di vitamina
A, B6 e C ed ha un maggiore contenuto di proteine e minore di zuccheri e di
grassi rispetto al latte (nel quale si trasformerà successivamente). In realtà,
l’allattamento al seno è vantaggioso tanto per il bambino, che per la mamma.
Tra i vantaggi per il bimbo ci sono: una migliore conformazione della bocca;
una minore probabilità di contrarre gastroenteriti (o di contrae di minore
gravità); protezione da infezioni come polmoniti, otiti, infezioni urinarie e
da Haemophilus influenzae; una minore probabilità di sviluppare
allergie; un miglioramento della vista e dello sviluppo psicomotorio; un
miglioramento dello sviluppo intestinale con minore rischio di occlusioni; una
protezione da malattie croniche, come il diabete di tipo 1, la cistite
ulcerativa ed il morbo di Crohn; una minore probabilità di ammalarsi di diabete
di tipo 2 e di obesità nell’adolescenza o nella vita adulta. Per quanto
riguarda la mamma i vantaggi sono: ripresa dal parto, con ritorno dell’utero
alla conformazione e alle dimensioni normali, più rapida; riduzione delle
perdite ematiche e corretto bilanciamento del ferro; prolungamento del periodo
di infertilità dopo il parto; recupero del peso-forma dopo la gravidanza;
riduzione del rischio di cancro alla mammella prima della menopausa e di cancro
all’ovaio; riduzione del rischio di osternoporosi. Inoltre il latte artificiale
può essere contaminato anche prima di aprire la confezione, è costoso e non è
mai a «chilometri zero». Esattamente il contrario del latte materno. Un altro
aspetto importantissimo dell’allattamento al seno è la sua capacità di favorire
al meglio il rapporto madre-figlio e di rispondere alle esigenze affettive del
bambino. È quindi evidente quanto sia importante promuovere l’allattamento al
seno e quanto sia importante l’istituzione delle «banche del latte», presso gli
ospedali, in modo che possano essere nutriti con latte umano anche quei bambini
le cui madri non possono allattare. In natura peraltro la percentuale di donne
che, dopo il parto, non producono per nulla latte è bassissima e si attesta
intorno all’1%, per lo più per insufficienza delle ghiandole mammarie o per
problemi tiroidei non curati. È altrettanto evidente che il consumo di latte
artificiale dovrebbe essere molto inferiore a livello mondiale rispetto a
quello effettivo e che il numero delle mamme che effettuano con successo
l’allattamento al seno – almeno per il periodo minimo indicato dall’Oms (6
mesi) – dovrebbe essere molto più elevato.

In Italia, secondo un’indagine Istat del
2004-2005 le donne che avevano allattato i figli al seno nei cinque anni
precedenti la pubblicazione dell’indagine erano state l‘81,1% delle neomamme.
La durata media del periodo di allattamento era salita da 6,2 mesi nel
1999-2000 a 7,3 mesi al momento della pubblicazione. Il 64,5% delle donne
aveva, per un certo periodo, allattato al seno in modo esclusivo o
predominante. L’Italia insulare è quella con il minore numero di donne che
allattano (74,2%) e quella in cui lo fanno per minore tempo (solo il 26,6%
aveva allattato per più di 6 mesi). Nel Nord Est si rilevano le quote più
elevate di mamme che allattano (86,1%) e che lo fanno per 7 mesi o più (36,8%).
Tra i maggiori ostacoli all’allattamento al seno c’è un’eccessiva
medicalizzazione del parto e dei primi giorni dopo la nascita del piccolo, che
non sempre viene attaccato al seno subito dopo la nascita. Inoltre c’è
l’aumento numerico dei parti cesarei. Risultano invece essere di grande aiuto
per un buon esito dell’allattamento al seno i corsi di preparazione al parto,
così come anche i pediatri. Per promuovere l’allattamento al seno, nel 1992 è
stato lanciato a livello internazionale dall’Oms e dall’Unicef il progetto Baby
friendly hospital iniziative
, recepito da alcune regioni italiane, per
attuare l’osservanza del Codice nei reparti ospedalieri.

Ancora prima della stesura del Codice sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno era già attiva l’Ibfan (Inteational
Baby Food Action Network
), cioè la «Rete internazionale di azione per
l’alimentazione infantile», per il controllo delle attività di mercato delle
principali compagnie produttrici di sostituti del latte materno (di biberon,
tettarelle, ecc.). Dal 1981 tale rete si è impegnata in un attento controllo
delle violazioni del Codice, anche grazie alle segnalazioni dei singoli
cittadini, pubblicando periodicamente rapporti dal titolo «Il Codice violato»,
la cui stesura è possibile grazie all’attività di Ibfan Italia
(www.ibfanitalia.org), un’associazione di volontariato costituita ufficialmente
nel 2005, ma già operante in modo informale dalla metà degli anni ’90. Le
strategie di mercato messe in atto dai produttori, che a parole rispettano il
Codice, ma lo violano continuamente, sono molteplici. Alle compagnie
produttrici è proibito contattare direttamente le neomamme in ospedale (anche
se in passato, soprattutto nei paesi più poveri, è capitato che qualche loro
operatore si sia intrufolato in ospedale, travestito da infermiere, per
avvicinare più facilmente le mamme). Esse aggirano l’ostacolo donando ad ogni
puerpera una valigetta contenente campioni di tisane (ma non di latte in
polvere, poiché questa pratica è proibita in Italia) e di prodotti per l’igiene
del piccolo, riviste per genitori piene di pubblicità, libri ricchi di consigli
e ricette per lo svezzamento, ma che di solito presentano al fondo svariate
pagine pubblicitarie, qualche pannolino, un succhiotto, talvolta un diario su
cui annotare tutti gli eventi della giornata del piccolo. Tra le prede più
ambite dai produttori ci sono gli operatori sanitari, perché è chiaro che un
tipo di latte consigliato da un medico, da un’ostetrica o il cui nome sia
scritto (come prodotto consigliato al momento del bisogno) nel libretto della
salute del bambino che viene consegnato ai genitori al momento della dimissione
dall’ospedale vale ben più di tante pubblicità su riviste o in televisione.
Oltre a fornire gli operatori sanitari di gadget di ogni tipo (penne,
ricettari, calendari, blocchetti per appunti, materiale illustrativo, ecc.)
recanti il logo del produttore, spesso le aziende produttrici sponsorizzano
convegni, pagano iscrizioni ai congressi e permanenze in lussuosi alberghi in
amene località turistiche, per pediatri ed altri specialisti del settore. Come
minimo ci si deve aspettare che le prescrizioni ed i consigli degli specialisti
alle neomamme siano oltremodo favorevoli per tali aziende. Poiché la legge
italiana proibisce la pubblicità del latte in formula per neonati, cioè del
tipo 1, una strategia utilizzata dai produttori è quella di vendere i latti di
proseguimento con la stessa confezione del tipo 1 (cambiandone magari solo il
colore), in modo da fae comunque pubblicità (rischiando però di generare
pericolose confusioni in un acquirente distratto). I tipi di latte artificiale
variano infatti per composizione: i latti a mezza crema, per i primi 3 mesi
contengono 10-12 gr. di grassi per 100 gr. di polvere, mentre quelli interi, da
usare dopo il terzo mese, contengono 16-28 gr. di grassi. Altra strategia di
mercato è quella di evidenziare in etichetta che il latte in questione è
addizionato di prebiotici, probiotici, acidi grassi omega3, vitamine, ecc.,
magnificandone le capacità di favorire lo sviluppo cerebrale, di migliorare la
vista e quant’altro. Tali caratteristiche sono naturalmente presenti e con
molto altro ancora nel latte materno, che fa molto di più, ma questo non è
detto dalla pubblicità, anche se 
attualmente sulle confezioni deve essere scritto che, laddove è
possibile, è da preferirsi l’allattamento al seno. C’è inoltre un nutrito
mercato di prodotti per aumentare la quantità di latte materno e migliorae la
qualità. Apparentemente si tratta di prodotti favorevoli all’allattamento al
seno, ma in realtà insinuano nella mamma il dubbio che il suo latte non sia più
in grado di nutrire al meglio il bambino, inducendola a passare più o meno
rapidamente al latte artificiale. Le violazioni al Codice si rilevano molto
spesso anche nei punti vendita, dove facilmente si trovano sconti, promozioni,
regali omaggio per i vari tipi di latte, oltre che su biberon e tettarelle.
Quando tali promozioni riguardano il latte di tipo 1 non solo è violato il
Codice, ma anche la legge italiana3. Il decreto in questione proibisce la pubblicità e la promozione
del latte per lattanti, cioè il tipo 1 e ne vieta l’offerta di campioni o
qualsiasi altro espediente promozionale, che possa indurre a passare
dall’allattamento al seno a quello artificiale. In realtà spesso gli sconti e
le promozioni riguardano proprio questo tipo di latte. Nel caso capitasse di
osservare queste e altre infrazioni è possibile e doveroso fare una
segnalazione all’Ibfan, oppure ai Nas («Nucleo antisofisticazioni e sanità» dei
carabinieri).

Il mestiere del genitore è il più difficile
del mondo dato che i bimbi nascono senza il libretto d’istruzioni.
Un’informazione alternativa al battage pubblicitario è fondamentale per
i genitori, i quali innanzitutto non dovrebbero mai dimenticare che la natura
ci ha ampiamente foiti di quanto serve per allevare i nostri piccoli e sono
rari i casi in cui non sia possibile farvi ricorso.

Rosanna Novara Topino

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Rosanna Novara Topino