Cent’anni di Etiopia: dalle macchine Singer all’informatica,

La Missione nell’Etiopia di ieri e di oggi.

La presenza dei missionari della Consolata in un paese
tutt’altro che semplice.

La missione nell’Etiopia di ieri

«Con
santa letizia e sensi di viva gratitudine verso la S. Sede comunichiamo ai
nostri lettori un’importante notizia. La S.C. di Propaganda ha, con recente
decisione, creato una nuova prefettura Apostolica intitolata del Kaffa
meridionale, e l’ha affidata per l’evangelizzazione ai missionari del nostro
Istituto». Era il 1913, esattamente cento anni fa, quando sul numero di marzo
di La Consolata – come allora si chiamava la nostra rivista – veniva
dato l’annuncio dell’assegnazione ai missionari della Consolata della
prefettura del Kaffa in Etiopia, un territorio vasto «più che l’Italia
settentrionale (di cui) non è possibile dare notizie complete, essendo il
medesimo ancora in gran parte inesplorato». Ai missionari era affidato il
compito di portare avanti il lavoro cominciato nel 1846 dal cappuccino
monsignor Guglielmo Massaia, che fu però cacciato dall’Etiopia nel 1872.

Monsignor
Gaudenzio Barlassina, futuro superiore generale dell’Istituto Missioni
Consolata, partì nel dicembre del 1914 da Genova alla volta di Mombasa, per
entrare ad Addis Abeba due anni dopo, la sera di Natale del 1916 «travestito da
mercante, cavalcando un mulo» (vedi l’articolo Ieri e sempre di B.
Bellesi e G. Mazzotti su MC 02/2001). A rendere difficile l’entrata in Etiopia
dei missionari erano i delicati equilibri diplomatici interni e inteazionali
e la resistenza alla penetrazione di altre confessioni da parte del clero copto,
dal cui appoggio politico i regnanti etiopi non potevano prescindere.

I
primi passi della missione in Etiopia furono all’insegna della prudenza:
dall’incontro con Ras Tafari, il futuro Haile Selassie, all’epoca reggente –
mentre imperatrice era Zauditù, una delle figlie del precedente imperatore
Menelik II, – Monsignor Barlassina comprese che un permesso dato dal principe a
missionari cattolici avrebbe provocato una levata di scudi da parte del vescovo
copto che il reggente non poteva permettersi di affrontare. Barlassina decise
perciò di «travestire» la missione da impresa commerciale. Con la
collaborazione di Felice Gullino, un torinese che aveva stabilito ad Addis
Abeba un laboratorio di ebanisteria, fu creata una società che fra il 1917 e il
1918 aprì due negozi a Ghimbi e Billo, avamposti nel territorio della nuova
prefettura. Si aggiunsero poi laboratori di sartoria e, nel 1919, la
rappresentanza commerciale per le macchine da cucire Singer. Dopo il viaggio di
perlustrazione del Kaffa effettuato da Barlassina fra il gennaio e l’aprile del
1919 (e descritto nel libro di E. Borra, La carovana di Blass e in
quello di G. Tebaldi, L’ultimo carovaniere, entrambi editi da EMI), il
prefetto si fece un’idea precisa del territorio della sua prefettura e programmò
l’espansione delle missioni con l’apertura di nuove stazioni. Nel 1924
arrivarono sei suore della Consolata, autorizzate a stabilirsi nel paese come
infermiere. Questo evento rappresentò di fatto il primo passo verso l’uscita
dalla clandestinità per i missionari: «Le suore non si potevano nascondere» –
scrive padre Giovanni Crippa nel libro
I missionari della Consolata in Etiopia (Edizioni Missioni Consolata
1998), sul quale si basa questa ricostruzione. «La prudenza aveva imposto ai
missionari botteghe da mercanti e abiti civili. Le grandi sottane delle suore e
i loro crocifissi difficilmente potevano passare per un tipico costume europeo».

Agli
ambulatori – prima ad Addis Abeba e poi nel Kaffa – si affiancarono,
lentamente, le scuole, mentre più timidi e nascosti, sebbene non inesistenti,
rimanevano la ricerca di cattolici occulti e il sorgere di vocazioni fra gli
etiopi. Quando, nel 1933, Barlassina fu eletto superiore generale dei
missionari della Consolata e rientrò in Italia, la missione nella prefettura
del Kaffa poteva dirsi consolidata e godeva di una buona libertà d’azione. Il
conflitto italo–etiope portò poi nel 1935 all’espulsione dei missionari che
cominciarono a tornare in Etiopia l’anno successivo con l’occupazione fascista
in veste di cappellani militari. La parola d’ordine era «rientrare al più
presto», riporta ancora Crippa, ma l’essere al seguito di una potenza europea
affamata di colonie e accecata dal mito dell’impero rese la missione funzionale
al sistema coloniale e l’azione missionaria ne fu stravolta. Nel 1942, in
seguito alla vittoria delle truppe britanniche su quelle italiane, i missionari
vennero di nuovo espulsi dal paese.

Si
dovette attendere quasi un trentennio perché i missionari della Consolata
potessero fare ritorno in Etiopia: nel 1970 padre Giovanni De Marchi ottenne il
visto per l’entrata nel paese ma si presentò come membro dei Fatima Fathers,
per evitare di richiamare alla memoria le passate esperienze degli anni
Quaranta. Inizialmente i missionari si stabilirono nel vicariato apostolico di
Harar e solo nel 1980 assunsero la nuova prefettura di Meki dove, nel giro di
tre anni, furono messe in funzione quattro parrocchie con le relative attività
di promozione umana, cioè scuole matee, elementari, professionali, dispensari,
centri di assistenza ai bambini disabili e ai non vedenti (vedi l’articolo di
B. Bellesi su MC 05/2003, I grandi missionari: Padre Giovanni De Marchi).
Gli anni Settanta furono anche quelli dell’arrivo dei missionari della
Consolata a Gambo dove nel 1980, su richiesta delle autorità etiopi, si iniziò
ad adibire una parte del già esistente lebbrosario a ospedale generale.

Anche
oggi, a cent’anni dall’assegnazione del Kaffa all’Istituto, l’Etiopia continua
a essere un paese nel quale l’entrata e la permanenza sono tutt’altro che
scontate. Fino a poco tempo fa, riferiscono i padri attivi in Etiopia, la
Chiesa Cattolica aveva lo status di resident charity (istituzione
benefica residente) e i missionari erano autorizzati a operare in quanto membri
di tale istituzione e con incarichi specifici, determinati e a termine. Oggi,
sebbene sia di recente cambiata la legislazione, il principio sembra essere
rimasto lo stesso: la presenza nel paese è vincolata alla realizzazione di
progetti di carattere sociale e cioè nell’ambito dell’istruzione, della sanità,
della formazione.

Uno sguardo sull’Etiopia di oggi

Per
accorgersi che l’Etiopia è un paese peculiare che mal si adatta a essere
sommariamente etichettato come africano non occorre essere antropologi o
storici: basta ascoltare gli etiopi. Il loro senso di unicità, la distanza
culturale, religiosa e storica che li separa dagli altri popoli che con essi
condividono il continente sono, a loro dire, evidenti. «Pochi altri popoli
possono vantare radici così antiche», spiegava a chi scrive un adolescente
incontrato durante una visita in Etiopia nel 2009, «e probabilmente anche il
fatto di non essere mai stati colonizzati ci rende diversi dagli altri».

Che
la presenza dello stato sia più capillare e la resistenza all’occidentalizzazione
sia più decisa risulta chiaro anche a un primo sguardo alle vie di Addis Abeba:
i grandi centri commerciali e gli enormi cartelloni che pubblicizzano bibite o
capi d’abbigliamento sportivo così frequenti in molte metropoli africane sono completamente
assenti nella capitale etiope. Al loro posto ci sono piuttosto piccoli
supermercati che vendono prevalentemente prodotti locali o di importazione
cinese e poster celebrativi dell’autorità, come quello che negli anni
del governo di Meles Zenawi (morto esattamente un anno fa) ritraeva il primo
ministro con il braccio proteso in avanti come ad indicare la via verso un più
roseo futuro a un gruppo di bambini sorridenti. Sull’immagine campeggiava la
scritta «Un leader africano impegnato per la democrazia, pace e lo sviluppo» (vedi
foto qui sotto
).

Ma,
al di là dei simboli e delle generalizzazioni, l’Etiopia occupa davvero una
posizione particolare nel panorama del continente: sede dell’Unione Africana e
della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite, il paese è
letteralmente inondato di programmi (e fondi) delle agenzie inteazionali.
Secondo i dati Ocse, l’Etiopia è il paese africano che riceve più aiuti
pubblici allo sviluppo dopo la Repubblica Democratica del Congo, con un totale
nel 2011 pari a oltre tre miliardi e mezzo di dollari. E, se gli Stati Uniti «corteggiano»
l’Etiopia – che Washington ritiene cruciale dal punto di vista geopolitico e
strategico – a suon di aiuti allo sviluppo, la Cina dal canto suo controbatte
con la strategia che sta applicando in tutto il continente, quella degli
investimenti massicci. Solo per citare il più recente, il Financial Times
riporta che Huajian – un’azienda cinese che produce scarpe da donna per brands
come Tommy Hilfiger, Guess, Naturalizer, Clarks e che ha già una
fabbrica vicino a Addis Abeba dove lavorano seicento persone – si è ora
impegnata a investire insieme alla China Development Bank due miliardi
di dollari nei prossimi dieci anni per creare una zona di produzione in Etiopia
che dovrebbe arrivare a impiegare circa centomila persone.

Con
tassi di crescita a volte anche a due cifre, l’Etiopia si trova oggi sospesa
fra la povertà oggettiva dei suoi ottanta milioni di abitanti e una politica
ambiziosa per il futuro. Il più recente e clamoroso episodio che testimonia
questa ambizione è il progetto di costruzione della «grande diga della
Rinascita» sul Nilo Azzurro, iniziativa che ha scatenato le ire dell’Egitto –
dove la maggior parte della popolazione vive nella striscia di terra bagnata dal
fiume – al punto da spingere il presidente Mohamed Morsi a dichiarare che gli
egiziani «difenderanno con il sangue ogni goccia del Nilo». Le dichiarazioni di
Morsi sono state subito ridimensionate, ma la tensione resta palpabile.
L’Etiopia, che ha affidato all’italiana Salini la realizzazione
dell’opera monumentale, ha scommesso il tutto per tutto su questa diga. Di
fronte al rifiuto da parte delle agenzie inteazionali di finanziare il
progetto in mancanza dell’assenso dei paesi rivieraschi, l’Etiopia ha deciso di
realizzae autonomamente la costruzione, che costerà circa cinque miliardi di
dollari, esortando la popolazione ad acquistare obbligazioni.

I
tempi della clandestinità di padre Barlassina sono ormai lontani; ma, oggi come
allora, la voglia di affermazione e di rivalsa del paese hanno certamente un
ruolo non secondario nel fare dell’Etiopia un luogo dove occorre sempre
chiedere permesso.

Chiara Giovetti

       Gambo, informatizzare l’ospedale                                                    

Uno dei progetti che in questo momento Mco sta sostenendo è quello
dell’informatizzazione dell’ospedale di Gambo. Dato il suo grande bacino
d’utenza – sulla carta sarebbe di circa centomila persone, ma la provenienza
dei pazienti suggerisce che quella servita sia un’area molto più ampia –
l’ospedale deve gestire una quantità notevole di pazienti e quindi di
informazioni, documenti, cartelle cliniche. Attualmente la registrazione dei
pazienti avviene in modo manuale su supporto cartaceo, ma questo metodo genera
problemi per l’identificazione univoca del paziente, la conservazione dati, la
comprensione grafica, la completa e corretta compilazione dei documenti e crea
difficoltà di cornordinamento fra i reparti dell’ospedale, il laboratorio, la
farmacia e l’amministrazione. Può succedere, cioè, che il paziente smarrisca documenti
come le prescrizioni mediche o che il personale impieghi ore nella ricerca
delle cartelle dei pazienti, a volte accatastate anche sul pavimento (vedi
foto). Con il progetto di informatizzazione si vorrebbe dunque procedere
all’acquisto di macchine e server, all’installazione dei programmi di gestione
e alla formazione del personale per l’utilizzo del sistema. I benefici
derivanti dalla realizzazione di questo progetto saranno un minor rischio di
perdita di informazioni relative al paziente e alla terapia e un alleggerimento
del carico di lavoro, oggi davvero pesante, per il personale dell’ospedale. (Chi.Gio.)

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Chiara Giovetti




La Politica del cristiano | Rendete a Cesare – 6

«Perché il mondo sia salvato per mezzo di lui…» (Gv 3,17)

«Non prego perché tu li tolga dal mondo» (Gv 17,15)

Cattolici finti e politica evangelica

Ogni volta che tra i cattolici, e oggi tra chiunque, si accenna a «politica» o, peggio ancora, ai «politici», ci si trova di fronte a un senso di ribrezzo e di nausea, perché «politica» è diventata sinonimo di corruzione, di sporcizia, di malaffare, e nel caso più benevolo di furbizia. Il merito principale è dei politici professionisti che si professano cattolici, ma i cui comportamenti e le cui scelte sono sistematicamente in contraddizione con la loro asserita appartenenza religiosa. Essi non hanno scelto di servire il loro popolo in nome di una superiore carità che ha come obiettivo il «bene comune», al contrario, essi si servono del loro stato di credenti per approfittare dei benefici ideologici e materiali che la loro condizione di eletti offre loro senza che essi facciano alcuna fatica. La cronaca è piena di questi cultori di «sistemi di peccato» che trafficano tra il diavolo e l’acqua santa con noncuranza e senza problemi di coscienza: la maggior parte degli inquisiti, dei condannati con sentenze di tribunali sono cattolici dichiarati. Cattolici che si vantano di essere tali e non perdono occasione di mettersi in mostra come praticanti e osservanti religiosi, che addirittura fanno parte di associazioni e movimenti religiosi «impegnati», qualcuno anche con «voti» espliciti, e che al tempo stesso militano alacremente in partiti dove la corruzione scorre con dovizia, sostengono governi che legiferano a favore di mafiosi e delinquenti, votano contro gli arresti di camorristi, rubano direttamente e sostengono sistemi perversi, dove l’economia è a favore dei più forti e potenti e a danno dei più poveri e indifesi.

Per un cristiano, «la Politica» dovrebbe essere il prolungamento del Vangelo, l’ambito e l’obiettivo della propria azione di testimone del Regno, perché è strettamente legata all’Eucaristia, dove il Pane indiviso è «spezzato» sull’altare che convoca tutti i popoli della terra per realizzare la profezia del «sentiero di Isaia» (cf Is 2,1-5). Tutte le volte che il credente celebra l’Eucaristia, prima di partecipare la comunione al Pane, si ferma e guardando negli occhi chi gli sta vicino, di fronte e dietro, proclama «Padre Nostro», dove l’aggettivo possessivo «nostro» diventa o profezia o condanna. La teologia che il «Padre Nostro» esprime, infatti, riguarda l’orizzonte della ecclesialità, perché Gesù non ci ha insegnato a pregare dicendo «Padre Mio», ma sempre e solo «Padre Nostro», forma inclusiva dei singoli individui, senza esclusione di alcuno. La paternità di Dio, infatti, per definizione è reale solo se include la fraternità, senza condizione. Anzi, la fraternità totale è segno e sacramento della presenza della paternità di Dio, altrimenti questa può essere un’illusione. Don Lorenzo Milani traduceva tutto questo principio in una affermazione lapidaria di altissima pedagogia: «Politica è sortirne tutti insieme. Sortirne da soli è l’avarizia» (Lettera ad una professoressa, Lef Firenze 1966, 14). Il Cristianesimo è per sua natura «assemblea», cioè il contrario di individualismo; è progetto d’insieme, che è il contrario dell’interesse privato; è convenire insieme, che è il contrario di vagare da soli.

Celebrare l’Eucaristia è dunque l’atto più politico e rivoluzionario del credente sulla terra perché da un lato esprime la missione senza confini propria della proclamazione della Parola e dall’altro enuncia la profezia dei segni del pane e del vino che non sono «dati» per essere mangiati in santa pace, ma perché a chi li mangia diano il vigore e la forza di spezzarsi e distribuirsi a loro volta con la stessa volontà e libertà del Signore Gesù. «Mangiare» insieme è la prima forma di religiosità basilare e in tutte le religioni, il cibo ha una valenza sovrumana perché accomuna il cielo e la terra e in terra convoca i diversi per farne un «solo corpo e un solo Spirito» (Preg. eucar. II). I cristiani dovrebbero amare «la Politica» e custodirla dai predatori che per tornaconto e interesse personale o di gruppo la scempiano e la deturpano in modo inverecondo. «La Politica» per il credente è l’azione santificatrice dello Spirito del Risorto che fa emergere l’identità di figli di Dio che converte alla condivisione. Politica è pregare agendo e agire pregando. Tra i cattolici, solo chi ha un altissimo senso di Dio e della propria insufficienza, solo chi ha sperimentato l’incontro con il Signore, solo chi è immerso nello Spirito missionario del risorto dovrebbe e potrebbe spingersi a operare in politica, come sacramento visibile della Presenza di Dio che pone la sua tenda in mezzo al mondo di ogni tempo e cultura.

Gesù politico-servo

Gesù fu un grande politico perché non guardò mai al suo interesse, ma ad esso antepose sempre il benessere materiale e spirituale delle folle che lo cercavano. Gesù esercita in sommo grado la politica come servizio e disponibilità verso i bisogni della povera gente, come sfamare gli affamati, guarire i malati, consolare i dubbiosi, prendersi cura dei piccoli e dei deboli. Nello stesso tempo, egli prende le distanze dai potenti che fanno della politica lo strumento della loro sete di onnipotenza per avere sempre più potere per i propri interessi. In tutto il Vangelo, Gesù opera prevalentemente lontano dalle grandi città, specialmente se sono centri di potere e predilige i villaggi, anche non ebrei, ma abitati da pagani, ai quali offre lo stesso servizio e gli stessi segni che opera per i Giudei. è il criterio della «Politica generale», quella che non fa preferenze, ma guarda all’umanità nella sua globalità di creatura del Padre.

Le beatitudini nella versione di Luca sono una chiara e inequivocabile «scelta preferenziale per i poveri» (cf Lc 6,20-26). Gesù non è il Messia adattabile a tutte le stagioni o l’uomo per tutti: egli esige non solo la conversione interiore, come atteggiamento morale personale, ma impone l’obbligo di una scelta radicale, come fa con l’uomo ricco, al quale impone di «vendere» le ricchezze per diventare suo discepolo. Sappiamo com’è andata a finire e sappiamo anche perché: «Aveva molte ricchezze» (Mc 10,21-22).

Gesù non prende mai le difese dei ricchi e quando li incontra li obbliga a prendere coscienza del valore sociale e comunitario dei loro beni (ricco epulone, Zaccheo, uomo ricco, ecc.). Nessuna ricchezza è individuale perché la creazione non può mai essere privata, avendo ricevuto fin dalle origini una destinazione universale. Gesù si differenzia sempre da chi esercita il potere con i quali non cerca mai il conflitto diretto e se può opera in periferia, mai a Cesarea, sede del governatore romano. Affronta però il conflitto, quando è inevitabile. In questo modo egli afferma la sua prospettiva che non è mai confusione di ruoli o di competenze.

La prova che la distinzione tra la «regalità» di Gesù e il «potere» di qualsiasi Cesare non è questione di aree d’influenza o di gestione di leggi, ma di prospettive e quindi, in conseguenza, di logiche che comportano decisioni, scelte, valutazioni, discernimento, sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17 di Giovanni, dove  Gesù stesso equipara  i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

«Essere nel mondo» significa vivere la stessa sorte di tutti gli esseri viventi, partecipare all’esistenza dell’umanità. Null’altro. Infatti, essere cristiani o credenti non implica diritti particolari o privilegi o «statuti» diversi da quelli di chiunque altro. L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo, inteso come complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini o un disincarnarsi dall’umano, ma il rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia, della prevaricazione, del potere basato sulla forza o, peggio ancora, del potere che nasce dalla corruzione e che genera corruzione. Dove c’è corruttela, infatti, c’è lo spirito del mondo che è opposizione al mondo di Dio. I cristiani non sono speciali, ma vivono in modo speciale perché stare nel mondo è un servizio che nasce dal senso della giustizia animato dall’agàpē e nello stesso tempo portano nel mondo «un metodo» di presenza e di «utilizzo» che esprime la gratuità di Dio che si rapporta con tutti e chiama tutti al suo convito. Se, sul piano della mistica, si ostenta fino all’esasperazione l’immagine del cristiano, «alter Christus», occorre che la stessa immagine diventi visibile sul piano delle scelte economiche, sociali, quando tocca interessi diretti e impone scelte che esigono separazione da metodi e sistemi che nulla hanno a che vedere con Cristo.

La politica come credibilità di Dio

Un credente che evade le tasse, che non svolge con competenza e impegno il proprio lavoro, che approfitta delle proprie conoscenze per prevaricare sugli altri, che usa la religione per avere contatti «importanti» o leggi o denaro o qualsiasi altro vantaggio per sé e la propria istituzione, tradisce il Regno di Dio e allontana la città degli uomini dal volto divino di Dio perché solo con la propria non coerenza rende visibile l’incredibilità di Dio. Questo, infatti, è il compito della religione: rendere credibile Dio, che non si vede, attraverso le azioni, le scelte, le parole (pensieri, parole, opere e omissioni) di chi dice di credere. La persona religiosa è una persona condannata a essere coerente fino allo spasimo perché ogni suo gesto, ogni suo respiro testimonia Dio o lo nega.

«Nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (Conc. Ecum. Vatic. II, Gaudium et Spes, n. 19).

C’è mondo e mondo

In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

a) Il mondo geografico, ambiente materiale, il contenitore dove l’umanità vive.
b) Il mondo come genere umano considerato nel suo complesso, senza alcuna qualificazione.
c) Il mondo dell’incredulità o delle tenebre: coloro che combattono Dio e lo negano «a prescindere».
d) Il mondo della fede o della luce: coloro che avendo visto la «Gloria di Dio» nel Figlio, lo rendono ancora più visibile nella loro vita e nel loro operato.

I primi due significati sono abbastanza neutri, mentre gli ultimi due acquistano una valenza morale e teologica alternative, anzi contrapposte. Non possono coesistere, anche se possono convivere nel mondo come ambiente o come umanità. La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo … non sono del mondo» perché il valore semantico della parola «mondo» è molteplice: il primo indica il mondo come creazione, come «luogo» della vita; il secondo, invece, indica il mondo come condizione di vita, come prospettiva di esistenza e quindi di scelte morali. Con questa espressione, Gesù intende affermare la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. La Chiesa non può gestire potere mondano perché è destinata a scomparire, una volta instaurato il Regnum Dei. «Nel», ma non «del» mondo: è il rapporto tra lo stato in luogo e l’appartenenza interiore. Se Gesù è/sta «nel mondo», è una creatura che ha in comune con tutte le creature l’esistenza, la ricerca, la fatica, la riuscita, il fallimento, la condivisione, il conflitto, tutto ciò che fa umanità, nel bene e nel male. Questo esige la coscienza che il mondo è sinonimo di diversità: uomo/donna; ricco/povero; giusto/ingiusto; credente/non credente; religioso/indifferente; osservante/non osservante. Stare «nel mondo» vuol dire acquisire questi binomi e assumerli nella propria vita, come condizione esistenziale «previa». «Nel mondo» deve prevalere quello che unisce, cioè l’umanità e la fragilità, su quello che può differenziare come, ad es., essere credente o non credente.

 [6 – continua]

Tasse

L’esempio delle tasse è devastante. Si è diffusa la mentalità che siccome la tassazione è alta, in un certo senso, sarebbe «morale» autodetassarsi, cioè evadere, come ha addirittura incitato a fare un presidente del consiglio dei ministri in campagna elettorale per guadagnare qualche voto in più (Il Corriere della Sera, 17-02-2004). Nessuna reazione da parte del mondo cattolico a questo invito che guardava con benevolenza agli evasori costringendo gli onesti a pagare sempre di più. Chi sta al governo dovrebbe educare al senso dello stato e della partecipazione come condivisione dei servizi per lo sviluppo della personalità, la tutela della famiglia, il progresso ordinato e congruo della comunità. Quando manca il senso di Dio, è fortemente carente anche l’etica dello stato. Si ha un bel dire di essere cristiani o d’ispirarsi alla dottrina sociale della Chiesa, ma se si evadono le tasse, ci si mette fuori dall’amore di Dio, che s’incarna nell’amore del prossimo, e dal diritto di pretendere dallo stato servizi essenziali (sanità, scuola, assistenza, trasporti, pensioni, ecc.).

Chi non paga le tasse, non solo costringe chi le paga onestamente a pagarne sempre di più, ma non ne ha nemmeno lui stesso un beneficio diretto, in quanto alla fine deve pagare di più i servizi che lo stato non può erogare per mancanza di fondi. Pagare le tasse è condivisione evangelica oltre che dovere civile di altissima responsabilità. Per questo bisogna mandare al governo persone oneste che garantiscano non i privilegi in nome della religione, ma che amministrino con grande senso di responsabilità il denaro di tutti, verso il quale dovrebbero, se credenti, avere lo stesso rispetto che hanno per il Corpo di Cristo perché sono chiamati a servire e curare i corpi e gli spiriti di coloro con i quali Cristo si è identificato in tutti i tempi (cf Mt 25, 31-46). Il mondo del diritto e della trasparenza, dell’onestà e della condivisione è il mondo proprio dei credenti che devono anche farlo diventare il mondo proprio della politica e dello stato.

Paolo Farinella




l’Italia religiosa tra disinteresse e sospetto

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 12
A fine maggio, diversi studiosi riuniti a Camaldoli (Arezzo)
hanno riflettuto sull’assenza in Italia di un quadro legislativo chiaro
riguardante la libertà di religione, e per formulare proposte da offrire al
parlamento. Molte le valutazioni sulla situazione odiea: il disinteresse
della politica porta conseguenze negative sulla convivenza civile nella nostra
Italia sempre più multiculturale e multireligiosa, la marginalità del tema
religioso porta alla mimetizzazione di gruppi e movimenti e alla scissione
dell’identità religiosa dall’identità civile. È necessario creare una nuova
sensibilità che porti a nuovi strumenti legislativi inclusivi e promotori di
dialogo
.

L’Italia ha
una legislazione inadeguata in materia di libertà religiose, nonostante un
programma costituzionale attento e, per certi aspetti, esauriente.

L’interpretazione del dettato costituzionale
è controversa: non tanto sul generale valore della libertà, sulla valutazione
che la religiosità sia un comportamento umano costituzionalmente apprezzato e
protetto, quanto sul sistema di attuazione della protezione. Secondo alcuni,
l’opera delle istituzioni civili sarebbe limitata dall’incompetenza statale in
materia religiosa, e fondata sul riconoscimento di una competenza quasi
esclusiva delle organizzazioni della religiosità collettiva (le confessioni
religiose). Secondo altri, l’attuazione delle libertà religiose sarebbe oggetto
di un’ampia e diretta competenza dell’autorità civile, fatta salva l’autonomia
delle dette organizzazioni. È principalmente da questo divario dottrinale e
politico, che investe i fondamenti del nostro metodo democratico, che si
produce una situazione di stallo istituzionale a causa della quale non si
riesce a emanare una legge generale. Vi sono forze che non vogliono una tale
legge e altre che ne auspicano l’emanazione. Molti, in entrambi i fronti,
dubitano che la nostra civiltà democratica attuale sia capace di porre rimedio
anche ai guasti unanimemente riconosciuti della situazione.

La Carta di Camaldoli

Partendo da queste considerazioni, la
rivista «Quadei di diritto e politica ecclesiastica», edita da Il Mulino, ha
riunito a Camaldoli (Ar) diversi docenti italiani di diritto ecclesiastico e
canonico. Dall’incontro è nata l’idea di costituire un gruppo di lavoro in
grado di elaborare una proposta da trasmettere al parlamento per favorire la
redazione di una legge organica sulla libertà religiosa nel nostro paese.

La politica, tra  disinteresse e
sospetto

Le politiche conceenti la libertà
religiosa e di coscienza nel contesto italiano soffrono di un problema di
relazione tra centro e periferia: le istituzioni e il legislatore faticano a
comprendere la trasformazione sociale e si perdono in tecnicismi normativi che
si scontrano con le varie dimensioni decisionali: regolamenti regionali,
amministrazioni locali, leggi statali e sovranazionali. In tal senso il fatto
che l’art. 117 della Costituzione attribuisca al governo centrale la competenza
esclusiva in materia di rapporti fra stato e confessioni religiose non comporta
che le questioni di politica ecclesiastica occupino un ruolo rilevante
nell’agenda dell’esecutivo. Infatti, fatte le dovute eccezioni, la prassi
politica e amministrativa testimonia che sui temi della libertà religiosa e di
coscienza domina un sostanziale disinteresse. Lo dimostrano i programmi
strategici delle diverse forze partitiche, per le quali il tema della libertà
religiosa è un «non problema», e la laicità, osserva il professor Nicola
Colaianni (già giudice della Corte suprema di Cassazione fino al 2003,
professore di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, nell’Università di
Bari), un mero «orpello con cui infiorettare i punti programmatici sui diritti».

La verità è che la classe dirigente si
occupa del problema della libertà religiosa solo quando alcuni fatti acquistano
rilievo sul piano politico nazionale, com’è avvenuto, ad esempio, con i casi
Lautsi (l’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici, ndr) e
Englaro. Fuori da queste circostanze non si può negare che i nodi problematici
sollevati dai comportamenti di natura religiosa, o motivati da ragioni di
coscienza, rimangano marginali nel dibattito politico, e di limitato interesse
per la pubblica amministrazione. Non è una provocazione affermare che esiste un
diffuso sospetto verso il pensiero religioso e un generale analfabetismo
storico-teologico. Quest’ultimo emblematicamente rappresentato sia
dall’esclusione dell’insegnamento della teologia nelle università pubbliche
(avallata nel 1873 dalla stessa Chiesa cattolica), sia dalla marginalità, nel
panorama culturale ed editoriale italiano, di quella parte del lavoro
filosofico-politico – pensiamo ad autori come Rensi, Capitini o De Giorgis –
attenta a disvelare l’attualità e la forza del pensiero religioso nel
superamento della frattura fra fede e modeità.

Ciò che viene meno

Le conseguenze pratiche di tutto ciò sono
molteplici: innanzitutto la scarsa attenzione e sensibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso, in contrasto con quanto richiesto nel 2007
dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) con le Guidelines
di Toledo [Art. 19: Tutti hanno
diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di fae propaganda e di esercitae in privato o in
pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. /
Art. 20. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una
associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni
legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità
giuridica e ogni forma di attività]. in materia d’insegnamento delle religioni nelle scuole
pubbliche, e, ancor più, dal libro bianco sul dialogo interculturale, Vivere
insieme in pari dignità
, e dalla Raccomandazione n. 12 del Consiglio
d’Europa sulla Dimensione delle religioni e delle convinzioni non religiose
nell’educazione interculturale
rivolta, nel 2008, ai ministri
dell’educazione dei quarantasette paesi membri. Ma soprattutto ciò che è più rilevante
è che la marginalità del dibattito sulla libertà religiosa ha portato a
ritenere secondario il problema della realizzazione di un maturo pluralismo
religioso. Come evidenzia il professor Carlo Cardia (docente di Diritto
Ecclesiastico all’Università degli Studi di Roma 3, avvocato, giurista ed
editorialista di Avvenire): «È nel conflitto e nel cortocircuito tra
intransigenza cattolica e correnti laiciste che sta la radice di una chiusura
provinciale che in Italia condiziona le relazioni ecclesiastiche» e,
aggiungeremmo, influisce negativamente su un potenziale dibattito costruttivo
in materia, e su un progetto di politica ecclesiastica innovativo e di ampio
respiro.

L’identità separata dal diritto di credo?

La perifericità del religioso nel dibattito
politico-istituzionale italiano emerge anche sotto altre forme. Innanzitutto
nella tendenza sempre più accentuata del governo a separare i temi sensibili
connessi all’identità e all’appartenenza etnico-religiosa dalla sfera del
diritto alla libertà di credo, come dimostra, ad esempio, il parere formulato
dal comitato per l’Islam italiano in materia di burqa e del niqab.
Quest’ultimo invita il legislatore a «deconfessionalizzare» la questione del
velo integrale, disgiungendola dall’esercizio del diritto di libertà religiosa.
D’altronde lo stesso Consiglio di stato, nella decisione del 15 aprile 2008, ha
assunto in materia una posizione neutrale, riconducendo l’uso del velo
integrale a pratiche innanzitutto etnico-culturali.

È senza dubbio ascrivibile alla medesima
debole sensibilità ai temi della libertà religiosa il complesso problema del «mimetismo»
cui ricorrono non poche organizzazioni, tra cui quelle musulmane, al fine di
ottenere il riconoscimento di alcuni diritti riconducibili alla sfera degli
art. 19 e 20 della Costituzione1. Nascondere le finalità religiose e di culto per vedere
crescere le probabilità di successo delle proprie attese testimonia la
marginalità sul piano dell’argomentazione politica, del diritto alla libertà
religiosa.

L’Italia religiosa in mutamento

La Carta di Milano 2013, redatta dal Forum delle
religioni
di Milano in occasione dei 1700 anni dell’Editto di Costantino,
ha evidenziato che l’Italia religiosa sta profondamente cambiando, e non si
tratta solo della ricorrente immagine, che tanto timore suscita in una parte
dell’opinione pubblica e della classe dirigente, di un Islam minaccioso, o
dell’ambigua presenza di nuovi movimenti religiosi. Il cambiamento sta
coinvolgendo lo stesso cattolicesimo, «vero basso continuo» della storia
nazionale italiana, osserva Enzo Pace, ordinario di sociologia presso la Facoltà
di Scienze Politiche dell’Università di Padova, studioso e autore di molti
saggi sul fondamentalismo. La communio fidelium (comunione dei fedeli),
nell’interesse della quale fu confermato a Villa Madama nel 1984 il patto di
collaborazione (concordato) tra stato italiano e Chiesa precedentemente siglato
nel febbraio del 1929, sta profondamente mutando. Essa sta subendo
contaminazioni del tutto inedite e inattese, inimmaginabili nella prima metà
degli anni Ottanta: cattolici africani, asiatici, latinoamericani si sono
stabiliti nel nostro paese a seguito delle migrazioni transcontinentali. Essi
cominciano a popolare le parrocchie a fianco dei circa duemila parroci non
italiani che hanno nel frattempo coperto i vuoti lasciati dalla crisi di
vocazioni e dall’invecchiamento del clero nostrano.

Il processo di cambiamento che si sta
velocemente e inesorabilmente attuando sta dunque modificando radicalmente il
paesaggio religioso italiano, da sempre caratterizzato da un’accentuata
monocultura confessionale.

Nuova sensibilità e nuovi strumenti cercasi

Tutto ciò richiede, oltre a una nuova
sensibilità culturale, un rapido adeguamento degli strumenti normativi. Questo
significa che le istituzioni della repubblica hanno l’onere di rivedere le
ragioni del diritto confrontandole con quelle dell’etica sociale; ridefinire il
confine fra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, perché contrario ai
diritti fondamentali della persona; ridefinire ciò che può essere incluso e ciò
che deve essere escluso dal sistema di relazioni sociali; trasformare
l’estraneità in solidarietà gestendo il complesso e difficile rapporto tra la
società multietnica e i valori fondamentali della nostra carta costituzionale.

L’atteggiamento assunto negli ultimi
trent’anni dalle istituzioni centrali della Repubblica italiana nei confronti
del crescente pluralismo religioso è stato improntato a una situazione di paura
sociale. Pur in maniera disomogenea e spesso contraddittoria, gli enti locali e
le regioni sono stati spesso obbligati dai fatti a optare per soluzioni
innovative e coraggiose sul piano delle politiche di integrazione e di dialogo.
L’amministrazione centrale dello stato, e ancor più il legislatore, invece,
hanno preferito perseguire strategie attendiste, nel timore di doversi esporre
dinanzi alle istanze, spesso più che legittime, provenienti dalla società
civile e dalle rappresentanze di alcune minoranze confessionali. In tutti
questi casi, come evidenzia il professor Alessandro Ferrari, docente di diritto
canonico ed ecclesiastico all’Università degli studi dell’Insubria, esperto in «intesa
tra stato e religioni» (in particolare l’Islam), lo stato, anziché fornire alle
nuove religioni un diritto e procedure certe con cui misurarsi, ha preferito
optare per «la via meno impegnativa e più aleatoria e dall’incerto valore
giuridico di tentare di subordinare il godimento dei profili più positivi del
diritto di libertà religiosa alla loro adesione a carte di impegno o carte di
valori predisposte dalle pubbliche amministrazioni, e costituenti una
reinterpretazione e una riscrittura selettiva dei principi e dei valori già
espressi dalla Costituzione».

Solo il tempo lo dirà

Basti pensare all’uso che è stato fatto
della Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione del 2007:
da strumento di inclusione si è trasformata in mezzo funzionale all’esclusione
preventiva delle realtà religiose percepite come scomode e distanti dal sentire
comune. Ancora, non è forse vero che i pareri della Consulta giovanile per il
pluralismo religioso e culturale, del Comitato per l’Islam italiano o della
Conferenza permanente per il pluralismo religioso sono principalmente serviti a
legittimare decisioni già assunte da tempo dal potere politico, senza che di
fatto i veri nodi del pluralismo religioso venissero risolti?

Le nuove intese sottoscritte nel febbraio
2013 per regolare i rapporti tra stato italiano e l’Unione induista italiana e
l’Unione buddista italiana (Ubi), di grande rilievo simbolico perché le prime
che lo stato italiano approva con confessioni non cristiane – a eccezione degli
accordi con le Comunità ebraiche nel 1989 -, arricchiscono il pluralismo
religioso. Tuttavia, non si può negare che siano stati scelti gli interlocutori
meno ostici.

In un futuro non lontano lo stato italiano
sarà così coraggioso da adottare anche nei confronti delle comunità religiose
più problematiche, come quella musulmana, la stessa procedura innovativa? Un
organo così strategico come il Dipartimento per le libertà civili e
l’immigrazione del ministero dell’Inteo sarà disposto a collaborare
fattivamente, e non soltanto con formali patrocini, su progetti coinvolgenti le
questioni politicamente più delicate e sensibili del pluralismo religioso e
dell’integrazione? Solo il tempo aiuterà a dare una risposta a questi
interrogativi da cui dipende buona parte del destino della libertà religiosa in
Italia.

Luca Rolandi

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Luca Rolandi




Latte materno (1)

Mi è capitato di sentire affermare da qualcuna
delle mie allieve, durante una lezione di anatomia e fisiologia della mammella,
che se avessero avuto un figlio non avrebbero mai voluto allattarlo.
Incuriosita, ne ho chiesto il motivo, che per lo più è risultato essere di
carattere estetico: la paura di perdere la linea. In alcuni casi ho invece
constatato qualche opposizione di tipo psicologico. In verità, allattare un
figlio al seno non solo è naturale, ma è il modo normale di nutrire un neonato
per un appartenente alla classe dei mammiferi, quale è l’essere umano. Eppure
l’idea dell’allattamento al seno non è così universalmente accettata. Del resto
basta dare un’occhiata alle riviste o alle trasmissioni in cui si parla di
qualche stella o stellina dello spettacolo appena diventata mamma, per
osservare che la donna in questione, a poca distanza dal parto, ha in genere
miracolosamente riacquistato un fisico da modella, viene fotografata a spasso
con il bebè, quasi mai però
nell’atteggiamento di allattarlo al seno. Anche alle bambine viene inculcata
l’idea che l’allattamento del neonato è qualcosa che passa attraverso un
biberon. Si pensi a tutti quei bambolotti-neonato muniti di corredino e
immancabile biberon con finto latte a scomparsa, per simulae lo svuotamento.
Per non parlare delle pubblicità di tettarelle, poppatorni di ogni forma,
scaldabiberon e di tutto quanto serve per l’allattamento artificiale, che fino
a qualche anno fa potevamo vedere ovunque. Da qualche tempo questa pubblicità
in Italia è quasi scomparsa, perché, nel 2011, è stata emanata una norma1 che vieta di pubblicizzare qualsiasi sostitutivo del
latte materno adatto all’utilizzo al di sotto dei 6 mesi d’età, limita la
pubblicità del latte di proseguimento o di altri alimenti per lattanti e prevede
sanzioni per le violazioni. La norma fa seguito ad altri due decreti
ministeriali del 2005 e del 2009, che avevano avvicinato la normativa italiana2, senza però prevedere sanzioni per le violazioni, a
quella degli altri paesi, aderenti al «Codice internazionale sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno». Quest’ultimo fu approvato
nel 1981 dall’Assemblea mondiale della salute (Ams) e in seguito fu
aggiornato con alcune risoluzioni. Tale codice venne fatto proprio dall’Unicef,
per cui spesso se ne parla come del Codice Oms/Unicef. Lo scopo del Codice è
quello di proteggere l’allattamento al seno dalla concorrenza dei sostituti del
latte materno e dall’enorme giro d’affari delle multinazionali produttrici sia
dei latti in formula e degli alimenti per l’infanzia, che degli oggetti in uso
per l’allattamento artificiale. Nonostante a tale codice abbiano formalmente
aderito anche le multinazionali suddette (e anzi abbiano partecipato
attivamente con i loro rappresentanti alla sua stesura, in modo da difendere il
più possibile il loro giro d’affari), e nonostante molti paesi aderenti abbiano
legiferato in maniera più o meno aderente a esso, il marketing del latte
artificiale e di tutto ciò che l’accompagna è sicuramente uno dei fattori che
contribuisce a mantenere i tassi di allattamento al seno inferiori a quelli
raccomandati dall’Oms. Secondo quest’ultima, l’allattamento al seno dovrebbe
essere esclusivo per i primi sei mesi di vita (a richiesta del bebé e senza
orari prefissati), dopodiché è raccomandato che venga protratto fino a due
anni, contemporaneamente all’assunzione di alimentazione complementare. La
realtà dei fatti è invece ben diversa e con conseguenze spesso tragiche,
soprattutto nei paesi del Sud del mondo, dove le tecniche di marketing
delle multinazionali produttrici di latti in formula, Nestlè in testa, sono
particolarmente aggressive e consistono solitamente in iniziali foiture
gratuite di tali latti ai presidi ospedalieri, che li distribuiscono alle
neomamme per indue la dipendenza.

Secondo l’Oms e l’Unicef, nei paesi a basso
reddito ogni anno muore circa un milione e mezzo di bambini per non essere
stati allattati al seno. L’alimentazione artificiale dei neonati infatti
comporta due tipi di problemi. Innanzitutto l’alto costo dei latti in formula
non può essere sostenuto dalle madri, che – dopo avere provato il latte in
omaggio – si ritrovano ad avere perso il proprio (la mancata suzione al seno
riduce progressivamente la montata lattea fino ad azzerarla) e ad essere
costrette a proseguire con l’allattamento artificiale. L’unica soluzione
trovata da queste madri per fare fronte alla spesa ingente è quella di diluire
il latte fino a compromettee il valore nutritivo, quindi il neonato diventa
progressivamente denutrito, con possibili danni neurologici e rischio di morte.
L’altro grave problema è rappresentato dalla carenza di igiene nella pulizia
dei biberon, oppure dall’uso di acqua contaminata per la diluizione del latte,
fattori che possono scatenare gravissime infezioni gastrointestinali, spesso
letali. A queste si possono aggiungere altrettanto gravi infezioni respiratorie
e otiti, per il mancato sviluppo del sistema immunitario poiché il latte in
formula, a differenza di quello materno, non apporta anticorpi. I vari tipi di
latte artificiale, per quanto reclamizzati come umanizzati, mateizzati, ecc.,
non potranno mai essere nemmeno lontanamente paragonabili al latte materno, che
è una sostanza viva, derivante direttamente dal sangue ed è altamente «specie-specifico»
(quindi diverso da specie a specie di mammiferi). Nel latte materno si trovano
numerosi componenti presenti in bassa concentrazione, che non sono strettamente
correlati all’aumento ponderale del bambino, ma al corretto e normale sviluppo
del suo apparato digerente, di quello immunitario e del sistema nervoso. Solo
il latte umano contiene elementi specie-specifici che sono necessari al momento
della nascita per la normale colonizzazione batterica del tratto
gastro-intestinale del neonato (come l’immunoglobulina A secretoria o SIgA, la
lattornalbumina ed oltre 100 tipi di oligosaccaridi). Vi sono poi elementi che
promuovono la maturazione dell’apparato digerente e ne riducono la permeabilità
(nucleotidi, oligosaccaridi, fattori di crescita e la lattoferrina). Inoltre la
SIgA, la lattoferrina, la lattornalbumina e gli oligosaccaridi – insieme con il
lisozima, gli acidi grassi ed i leucociti – combattono le infezioni e le
infiammazioni. Infine i nucleotidi, i fattori di crescita, la SIgA e gli ormoni
favoriscono e modulano lo sviluppo del sistema immunitario del bambino.
Inoltre, il «colostro», cioè la prima secrezione mammaria prodotta nei primi
due giorni di puerperio in quantità variabile tra 70 e 200 cc. e con
composizione nettamente diversa da quella del latte, è di fondamentale
importanza per il neonato perché la sua composizione facilita notevolmente il
passaggio dalla nutrizione placentare a quella attraverso l’intestino. Esso
inoltre contiene enzimi capaci di iniziare la digestione delle proteine, dei
grassi e degli zuccheri, oltre a discrete quantità di anticorpi e di vitamina
A, B6 e C ed ha un maggiore contenuto di proteine e minore di zuccheri e di
grassi rispetto al latte (nel quale si trasformerà successivamente). In realtà,
l’allattamento al seno è vantaggioso tanto per il bambino, che per la mamma.
Tra i vantaggi per il bimbo ci sono: una migliore conformazione della bocca;
una minore probabilità di contrarre gastroenteriti (o di contrae di minore
gravità); protezione da infezioni come polmoniti, otiti, infezioni urinarie e
da Haemophilus influenzae; una minore probabilità di sviluppare
allergie; un miglioramento della vista e dello sviluppo psicomotorio; un
miglioramento dello sviluppo intestinale con minore rischio di occlusioni; una
protezione da malattie croniche, come il diabete di tipo 1, la cistite
ulcerativa ed il morbo di Crohn; una minore probabilità di ammalarsi di diabete
di tipo 2 e di obesità nell’adolescenza o nella vita adulta. Per quanto
riguarda la mamma i vantaggi sono: ripresa dal parto, con ritorno dell’utero
alla conformazione e alle dimensioni normali, più rapida; riduzione delle
perdite ematiche e corretto bilanciamento del ferro; prolungamento del periodo
di infertilità dopo il parto; recupero del peso-forma dopo la gravidanza;
riduzione del rischio di cancro alla mammella prima della menopausa e di cancro
all’ovaio; riduzione del rischio di osternoporosi. Inoltre il latte artificiale
può essere contaminato anche prima di aprire la confezione, è costoso e non è
mai a «chilometri zero». Esattamente il contrario del latte materno. Un altro
aspetto importantissimo dell’allattamento al seno è la sua capacità di favorire
al meglio il rapporto madre-figlio e di rispondere alle esigenze affettive del
bambino. È quindi evidente quanto sia importante promuovere l’allattamento al
seno e quanto sia importante l’istituzione delle «banche del latte», presso gli
ospedali, in modo che possano essere nutriti con latte umano anche quei bambini
le cui madri non possono allattare. In natura peraltro la percentuale di donne
che, dopo il parto, non producono per nulla latte è bassissima e si attesta
intorno all’1%, per lo più per insufficienza delle ghiandole mammarie o per
problemi tiroidei non curati. È altrettanto evidente che il consumo di latte
artificiale dovrebbe essere molto inferiore a livello mondiale rispetto a
quello effettivo e che il numero delle mamme che effettuano con successo
l’allattamento al seno – almeno per il periodo minimo indicato dall’Oms (6
mesi) – dovrebbe essere molto più elevato.

In Italia, secondo un’indagine Istat del
2004-2005 le donne che avevano allattato i figli al seno nei cinque anni
precedenti la pubblicazione dell’indagine erano state l‘81,1% delle neomamme.
La durata media del periodo di allattamento era salita da 6,2 mesi nel
1999-2000 a 7,3 mesi al momento della pubblicazione. Il 64,5% delle donne
aveva, per un certo periodo, allattato al seno in modo esclusivo o
predominante. L’Italia insulare è quella con il minore numero di donne che
allattano (74,2%) e quella in cui lo fanno per minore tempo (solo il 26,6%
aveva allattato per più di 6 mesi). Nel Nord Est si rilevano le quote più
elevate di mamme che allattano (86,1%) e che lo fanno per 7 mesi o più (36,8%).
Tra i maggiori ostacoli all’allattamento al seno c’è un’eccessiva
medicalizzazione del parto e dei primi giorni dopo la nascita del piccolo, che
non sempre viene attaccato al seno subito dopo la nascita. Inoltre c’è
l’aumento numerico dei parti cesarei. Risultano invece essere di grande aiuto
per un buon esito dell’allattamento al seno i corsi di preparazione al parto,
così come anche i pediatri. Per promuovere l’allattamento al seno, nel 1992 è
stato lanciato a livello internazionale dall’Oms e dall’Unicef il progetto Baby
friendly hospital iniziative
, recepito da alcune regioni italiane, per
attuare l’osservanza del Codice nei reparti ospedalieri.

Ancora prima della stesura del Codice sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno era già attiva l’Ibfan (Inteational
Baby Food Action Network
), cioè la «Rete internazionale di azione per
l’alimentazione infantile», per il controllo delle attività di mercato delle
principali compagnie produttrici di sostituti del latte materno (di biberon,
tettarelle, ecc.). Dal 1981 tale rete si è impegnata in un attento controllo
delle violazioni del Codice, anche grazie alle segnalazioni dei singoli
cittadini, pubblicando periodicamente rapporti dal titolo «Il Codice violato»,
la cui stesura è possibile grazie all’attività di Ibfan Italia
(www.ibfanitalia.org), un’associazione di volontariato costituita ufficialmente
nel 2005, ma già operante in modo informale dalla metà degli anni ’90. Le
strategie di mercato messe in atto dai produttori, che a parole rispettano il
Codice, ma lo violano continuamente, sono molteplici. Alle compagnie
produttrici è proibito contattare direttamente le neomamme in ospedale (anche
se in passato, soprattutto nei paesi più poveri, è capitato che qualche loro
operatore si sia intrufolato in ospedale, travestito da infermiere, per
avvicinare più facilmente le mamme). Esse aggirano l’ostacolo donando ad ogni
puerpera una valigetta contenente campioni di tisane (ma non di latte in
polvere, poiché questa pratica è proibita in Italia) e di prodotti per l’igiene
del piccolo, riviste per genitori piene di pubblicità, libri ricchi di consigli
e ricette per lo svezzamento, ma che di solito presentano al fondo svariate
pagine pubblicitarie, qualche pannolino, un succhiotto, talvolta un diario su
cui annotare tutti gli eventi della giornata del piccolo. Tra le prede più
ambite dai produttori ci sono gli operatori sanitari, perché è chiaro che un
tipo di latte consigliato da un medico, da un’ostetrica o il cui nome sia
scritto (come prodotto consigliato al momento del bisogno) nel libretto della
salute del bambino che viene consegnato ai genitori al momento della dimissione
dall’ospedale vale ben più di tante pubblicità su riviste o in televisione.
Oltre a fornire gli operatori sanitari di gadget di ogni tipo (penne,
ricettari, calendari, blocchetti per appunti, materiale illustrativo, ecc.)
recanti il logo del produttore, spesso le aziende produttrici sponsorizzano
convegni, pagano iscrizioni ai congressi e permanenze in lussuosi alberghi in
amene località turistiche, per pediatri ed altri specialisti del settore. Come
minimo ci si deve aspettare che le prescrizioni ed i consigli degli specialisti
alle neomamme siano oltremodo favorevoli per tali aziende. Poiché la legge
italiana proibisce la pubblicità del latte in formula per neonati, cioè del
tipo 1, una strategia utilizzata dai produttori è quella di vendere i latti di
proseguimento con la stessa confezione del tipo 1 (cambiandone magari solo il
colore), in modo da fae comunque pubblicità (rischiando però di generare
pericolose confusioni in un acquirente distratto). I tipi di latte artificiale
variano infatti per composizione: i latti a mezza crema, per i primi 3 mesi
contengono 10-12 gr. di grassi per 100 gr. di polvere, mentre quelli interi, da
usare dopo il terzo mese, contengono 16-28 gr. di grassi. Altra strategia di
mercato è quella di evidenziare in etichetta che il latte in questione è
addizionato di prebiotici, probiotici, acidi grassi omega3, vitamine, ecc.,
magnificandone le capacità di favorire lo sviluppo cerebrale, di migliorare la
vista e quant’altro. Tali caratteristiche sono naturalmente presenti e con
molto altro ancora nel latte materno, che fa molto di più, ma questo non è
detto dalla pubblicità, anche se 
attualmente sulle confezioni deve essere scritto che, laddove è
possibile, è da preferirsi l’allattamento al seno. C’è inoltre un nutrito
mercato di prodotti per aumentare la quantità di latte materno e migliorae la
qualità. Apparentemente si tratta di prodotti favorevoli all’allattamento al
seno, ma in realtà insinuano nella mamma il dubbio che il suo latte non sia più
in grado di nutrire al meglio il bambino, inducendola a passare più o meno
rapidamente al latte artificiale. Le violazioni al Codice si rilevano molto
spesso anche nei punti vendita, dove facilmente si trovano sconti, promozioni,
regali omaggio per i vari tipi di latte, oltre che su biberon e tettarelle.
Quando tali promozioni riguardano il latte di tipo 1 non solo è violato il
Codice, ma anche la legge italiana3. Il decreto in questione proibisce la pubblicità e la promozione
del latte per lattanti, cioè il tipo 1 e ne vieta l’offerta di campioni o
qualsiasi altro espediente promozionale, che possa indurre a passare
dall’allattamento al seno a quello artificiale. In realtà spesso gli sconti e
le promozioni riguardano proprio questo tipo di latte. Nel caso capitasse di
osservare queste e altre infrazioni è possibile e doveroso fare una
segnalazione all’Ibfan, oppure ai Nas («Nucleo antisofisticazioni e sanità» dei
carabinieri).

Il mestiere del genitore è il più difficile
del mondo dato che i bimbi nascono senza il libretto d’istruzioni.
Un’informazione alternativa al battage pubblicitario è fondamentale per
i genitori, i quali innanzitutto non dovrebbero mai dimenticare che la natura
ci ha ampiamente foiti di quanto serve per allevare i nostri piccoli e sono
rari i casi in cui non sia possibile farvi ricorso.

Rosanna Novara Topino

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Rosanna Novara Topino




(Cana 35) E io dissi: «Chi sei, o Signore?»

«E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”»  (At 26,15)

Gv 2,9b: «L’architriclìno… non sapeva da dove è (il vino), ma sapevano i diaconi/servitori…».

Siamo quasi alla fine del nostro lungo pranzo nuziale, durato non alcune ore come è tradizione, ma più di due anni; prima di riflettere sugli ultimi due versetti, è necessario aggiungere ancora qualche tassello alla puntata precedente e capire il pensiero dell’autore che è sfuggente come un anguilla, costringendoci a inseguirlo «dove» lui sa di volerci portare. L’obiettivo del racconto infatti non è cronachistico né agiografico.
Sarebbe ben strano se il racconto fosse agiografico, perché di Gesù nulla sappiamo se non le poche e scarne notizie essenziali, funzionali in Giovanni alla sua personalità di Figlio di Dio: sappiamo che naque a Betlemme (ma non sappiamo quando), che ebbe una madre di Nàzaret e un padre legale; che svolse la professione di falegname prima e «rabbino» nell’ultimo tratto della sua vita, ma non sappiamo se per uno o due o tre anni; sappiamo che fu molto polemico con il potere religioso, con il quale cercò di evitare lo scontro finché poté, defilandosi in località lontane dai palazzi che contavano; sappiamo che alla fine dovette accettare lo scontro frontale e non si tirò indietro, correndo il rischio della sua stessa vita senza scendere a compromessi; sappiamo che morì a causa della instabilità istituzionale che la sua esistenza e le sue parole rappresentavano per la religione formale, alleata con il potere politico per farlo fuori e riuscendoci in modo illegittimo e illegale.
Valore teologico del racconto
Il racconto e l’importanza che assume, collocato al «principio» del «libro dei segni» (Gv 2-12), hanno valore «teologico» nella prospettiva dell’intero vangelo che la tradizione attribuisce alla scuola di Giovanni. Esso serve a mostrare la personalità di Gesù e ad aiutarci a scandagliare la sua «identità». Tante volte abbiamo detto che il IV vangelo (ma anche Marco) ruota attorno alla domanda: «Chi è Gesù?». In altre parole: come «conoscere/sapere» la sua identità? «Dove» incontrare la sua straordinaria personalità? Il racconto di Cana anticipa i temi di tutto il vangelo dalla prospettiva dell’alleanza del Sinai, che l’autore non considera superata, ma la condizione per un rinnovamento radicale che passi di nuovo attraverso il tema profetico della nuzialità (cf Os 2), del ritorno di Dio in mezzo al suo popolo dopo l’esilio e l’abbondanza della vita come ritorno al giardino di Eden (cf Is 40) dopo la siccità della separazione e abbandono.
Per questo, alla fine del racconto, che termina col versetto 10, l’autore si riserva di annotare che l’architriclino, cioè il rappresentante ufficiale della religione formale, non sapeva di «dove» veniva il «vino bello», qui simbolo della presenza di Dio, visibile in Gesù. Sul «dove» ci siamo soffermati nella puntata precedente, qui vediamo in breve il senso cristologico dell’avverbio «dove – pòthen», che nel IV vangelo ricorre 13 volte, su 29 occorrenze in tutto il NT, quasi la metà, per cui si può dire che è un termine importante nella teologia giovannea. In Gv 1,48 Natanaèle chiede a Gesù: «Dove mi conosci?» e Gesù risponde: «Ti conoscevo già prima che Filippo ti chiamasse». Qui il dove per due volte si relaziona con la conoscenza per fare emergere la vera consistenza del capo del popolo (Natanaèle è membro del sinedrio) che non ha una consuetudine con «i segni dei tempi» (Sir 42,18; Mt 16,3), ma si barcamena nella banalità dell’ordinario, standosene sotto il fico. Incontrare Gesù significa scoprire il proprio dove, affinare la propria prospettiva, orientare la direzione della propria vita per riconoscere da dove egli viene e accogliere i doni che egli offre, in primo luogo la «alleanza nuova» (Ger 31,31).
Sapere da dove viene il Signore
Il primo aspetto riguarda «l’origine» di Gesù e quindi la sua relazione col Padre: gli abitanti di Gerusalemme, disorientati di fronte al comportamento dei loro capi, sono perplessi sulla persona e l’operato di Gesù, ma hanno una certezza: «Costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia» (Gv 7,27); per due volte ricorre l’avverbio «dove – pòthen». Gesù risponde loro di non illudersi, perché possono arrivare a conoscere il «luogo» della sua nascita, ma senza attitudine spirituale non potranno mai scoprire la «sua origine», quella che lo mette in relazione con «chi mi ha mandato… e voi non conoscete» (Gv 7,28). Ancora una volta il «dove» è intimamente legato alla «conoscenza», che non è cognizione di dati, ma esperienza di vita.
Da parte sua Gesù conosce il suo «dove» d’origine e anche quello del suo compimento, a differenza dei farisei che invece si ostinano nel loro limite, impedendosi da soli qualsiasi conoscenza e qualsiasi prospettiva: «So da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado» (Gv 8,14).
Gli avversari di Gesù non possono accettare di non avere sotto controllo anche Dio perché per avere il monopolio della religione devono imbrigliare Dio nei loro schemi e nei loro riti: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato» (Gv 9,16). Essi arrivano ad addomesticare alle loro mire e pensieri anche la tradizione dietro la quale si rifugiano per fuggire dalle novità di Dio: «Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia» (Gv 9,28-29).
A essi pensava il profeta nel riportare le parole del Signore: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Solo l’esperienza salvifica (la guarigione dalla cecità) libera l’anima e il cuore da ogni condizionamento prevenuto e legge la realtà per quello che è, chiamandola per nome: «Voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi» (Gv 9,30). È la religione del dovere che si contrappone alla fede della ricerca. Scomodano anche Mosè, senza rendersi conto che se avessero ascoltato il condottiero, avrebbero fatta propria la sua preghiera e oggi la sperimenterebbero compiuta: «Mosè disse al Signore: “Il Signore, il Dio della vita di ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore”. Il Signore disse a Mosè: “Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo spirito”» (Nm 27,15-18)1.
Il Profeta pari a Mosè
In ebraico il nome «Yehosuàh» nella forma lunga, oppure «Yoshuàh» nella forma corta, significa «Giosuè/ Gesù». La Bibbia greca della Lxx, traduce sempre con «Iēsoûs – Gesù». Il nome è come di solito «teofòrico» perché ha il significato di «Dio salva»2. Nel libro dei Numeri, Giosuè è successore di Mosè, ma nel libro del Deuteronomio c’è la promessa al popolo e a Mosè di suscitare un profeta «pari a» Mosè stesso, il profeta più grande di tutti i tempi: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15).  
Ecco, il profeta di Dio è ora davanti a Israele, al popolo di Gerusalemme, ai capi, agli scribi e farisei e costoro prendono per sé il Mosè accomodato ai loro bisogni e non si rendono conto che la sua preghiera è stata esaudita nella persona di Gesù che parla «in mezzo a loro»; ma essi perduti nel deserto della loro religiosità senza Dio, non sanno «di dove sia».
Si spiega così perché non possono accogliere i doni dell’abbondanza che egli annunzia: il vino bello delle nozze dell’alleanza rinnovata (Cana in Gv 2,9), l’acqua viva della coscienza delle proprie scelte (Samaritana in Gv 4,11) e il pane che sfama (il pane/eucaristia dell’abbondanza in Gv 6,5). Essi sono ciechi pur vedendo, miscredenti pur praticando la religione, sazi di sé, nella presunzione di credersi i rappresentanti della volontà di Dio. A loro è precluso il soffio dello Spirito che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove (pòthen) viene né dove va» (Gv 3,8). Per cogliere lo Spirito e il suo «dove» bisogna essere disposti a staccarsi dalle proprie sicurezze per correre tra le spire del vento e lasciarsi portare in luoghi e «dove» inesplorati e forse mai sognati.
Nel IV vangelo pare che l’unico interessato a sapere il «dove» di Gesù sia l’uomo più lontano da lui, per compito e per stato: Pilato, il procuratore romano, rappresentante di quel potere antagonista con il servizio annunciato e vissuto da Gesù ed espressione di una potenza deificata, tanto che il suo imperatore è «divino» per antonomasia. Incuriosito dal mistero che circonda quell’uomo che si trova di fronte, non esita a chiedere, disarmante: «“Di dove sei tu?”. Ma Gesù non gli diede risposta» (Gv 19,9). Non è tempo di discussione tra concezioni di vita e di poteri: il dramma è agli sgoccioli e anche Pilato è nelle mani di un gioco più potente di lui, perché la sua legittima domanda è immediatamente stritolata nelle maglie dell’alleanza tra la religione e il potere, la spada e l’altare: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare!» (Gv 19,12).
Se Cesare prende il posto di Dio
Ai capi dei sacerdoti interessa non l’amicizia di Cesare né tantomeno quella di Pilato, ma che non si rompa il patto di stabilità tra il potere religioso e quello politico, pagando il prezzo della consegna di Gesù che afferma di essere «Figlio di Dio», anzi proprio per questo. Qui si svela il «dove» dei capi dei sacerdoti, cioè delle guide, coloro che si vantavano di essere discepoli di Mosè, il padre dell’esodo e il maestro del Sinai, il profeta dell’alleanza sponsale, colui che guidò il suo popolo, gli antenati dei capi di oggi, a scegliere Dio come proprio Re, trasformandolo in popolo regale (cf Es 19,6; 1Pt 2,9). Essi sono apostati perché rinnegano il Dio del Sinai e danno nome al vitello d’oro chiamandolo Cesare, il come di un imperatore qualsiasi, una caricatura di re, di norma pazzo e assassino: «Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,15) che è il capovolgimento della promessa unica e solenne: «Quanto ha detto il Signore, lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7). È l’apostasia totale.
Solo in questa prospettiva si può capire l’economia del racconto di Cana come midràsh dell’alleanza del Sinai: Cana è l’invito, anzi l’appello alla coscienza di Israele ad abbandonare la teoria dei Cesari che hanno dominato la sua vita e il suo cuore per tornare al Dio di Abramo, al Dio di Isacco, al Dio di Giacobbe, al Dio dei Padri (cf Es 3,16), lavandosi e purificandosi non già nell’acqua delle giare che sono vuote e abbandonate, ma nel sangue, cioè nella vita di Dio stesso che non esita a darsi per amore (cf Gv 15,13). Il racconto delle nozze di Cana è un affresco mite e seducente di un Dio prossimo che viene a cercare chi si era smarrito nei patti scellerati con il potere, aderendo a una religione di comodo che fa a meno di Dio, pur servendosene peccaminosamente, perché non può vivere senza il guinzaglio del «cesare» di tuo.
Per questo l’architriclino non ha saputo o potuto riconoscere il vino bello dell’alleanza sinaitica nuova perché non aveva il collirio adatto (cf Ap 3,18) per vedere e contemplare che «lo sposo di quelle nozze (Cana) raffigurava la persona del Signore» (Sant’Agostino, In Johannis Evangelium. Tractatus cxxiv 9,2). Abbiamo qui una prova del metodo di Giovanni: il significato materiale delle singole parole o dei personaggi (la figura dello sposo, più allusa che reale) è simbolo di un altro Sposo che solo chi possiede o è posseduto dallo Spirito può cogliere e assaporare (cf 1Cor 2,11).
L’apparenza, il simbolo e la realtà
Nelle nozze degli umani, il vino buono si spreca all’inizio perché l’obiettivo è fare «bella figura» con gli ospiti e, alla fine, quando tutti sono ubriachi e nessuno è più in grado di distinguere il vino dall’acqua, si mette in tavola vino scadente; nelle nozze del Regno, al contrario, poiché si guarda all’evento in sé, quando il Messia porterà a compimento la storia e il suo senso, che oggi può apparire confuso e complicato, allora, e solo allora si gusterà il «vino bello» della comprensione di ciò che si è vissuto. Nella prospettiva del Regno non si guarda alla «figura», cioè all’apparenza, ma si è proiettati verso la dimensione escatologica, «in quel tempo» unico e assoluto, quando contempleremo la Sposa di Dio, la Gerusalemme del cielo «adoa per il suo Sposo» (Ap 21,2), pronta a riscattare il pianto di «Rachele (che) piange i suoi» (Ger 31,15; Mt 2,18), perché ora accoglie l’umanità intera invitata a prendere parte alle «nozze dell’Agnello» (Ap 19,7), sigillo definitivo e supremo dell’alleanza aperta e conclusa nel segno della Parola sul monte Sinai, quando Dio scelse Israele e Israele si consacrò al suo Signore (cf Es 19,8; 24,3.7).
Il racconto di Cana s’interrompe in modo brusco, senza conclusione, restando in sospeso, perché ogni lettore sia costretto a fermare il suo pensiero e a immaginare ciò che non è scritto, perché lo riguarda direttamente: qual è il mio posto di lettore in questo racconto? Quale personaggio descrive il mio stato d’animo, la condizione della mia fede, il mio «dove» nel cammino della mia ricerca?
In altre parole, il racconto di Cana resta «sospeso» perché aspetta la risposta all’interrogativo di fondo: a che punto sono della mia storia della salvezza? Sono seduto al banchetto delle nozze dell’Agnello o sono ancora nel giardino di Eden alla ricerca dell’albero «gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6)? Sono schiavo in Egitto, in attesa dell’irruzione di Dio, nella quale forse non spero più? Sono forse nel deserto a rimpiangere il passato, preferendo la schiavitù alla fatica del cammino verso la libertà? Ho preferito il «dio facile», rappresentato dal vitello d’oro, o il Dio esigente della coscienza sulla cima del monte che consegna le «dieci parole» di responsabilità? Non è affatto scontato che ciascuno di noi sia nel NT, accanto a Gesù Cristo, Messia e garante. No, non è proprio scontato.
Chi è Gesù per me?
Si può essere papi, vescovi, preti, consacrati, cristiani, studiosi della Bibbia da generazioni e generazioni e si può essere benissimo fuori della stanza nuziale, senza abito della festa (cf Mt 22,10-14), lontani dall’alleanza e dal Dio dal volto umano manifestato in Gesù di Nàzaret. La domanda cruciale è solo una e non può essere posta in altro modo: «Chi è Gesù per me?».
A questa domanda si deve rispondere e non si può rimandare; non è neppure sufficiente dare risposte prefabbricate, come fanno gli apostoli che riportano le «opinioni» degli altri: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta (cf Mt 16,14) o come fa Pietro stesso che crede di risolvere tutto affidandosi all’attesa messianica: «Tu sei il Cristo!» (Mt 16,16). Anche la sua risposta, che poteva venire dallo Spirito, è invece così generica e imprecisa che Gesù si sente in dovere di snudare la superficialità e doppiezza fino a chiamarlo satana: «Satana! Tu sei a me di scandalo» (Mt 16,23).
La domanda «Chi è Gesù per me?» impone al lettore di andare oltre il racconto di Cana, di scendere tra le pieghe delle parole che lo descrivono e di immergersi nel cuore dei sentimenti nascosti nel pozzo dello spirito. È il momento supremo della coscienza, che non può ingannarsi davanti a un evento che attende solo di essere vissuto: lo Sposo è giunto, le nozze possono cominciare! Si accendano le lampade (cf Mt 25,6).
È il momento della verità senza sconto: Gesù è un sistema di conoscenze catechetiche? Una struttura di dogmi o di etica? Un marcatore di civiltà da contrapporre ad altre? La chiave di un codice di potere? Lo strumento per esigere privilegi e «valori», magari non negoziabili? Oppure è una Persona che vuole essere incontrata, accolta, amata e frequentata?
Se è una Persona, c’è spazio per i sentimenti profondi fino all’innamoramento che fa sì che «quella Persona» diventi l’asse portante, il referente, il punto di arrivo e di partenza della vita, delle scelte, degli eventi, della morale, del pensiero, della fede e della speranza: «Il Dio della mia vita» (Sir 23,4).
(35 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (25) Da madre a donna

Il racconto delle nozze di Cana (25)

«Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse:
“Ecco mia madre e i miei fratelli!”»  (Mc 3,34)

Gv 2,4a: «[E] dice a lei Gesù: “Che cosa a me e a te, o donna?”»
[(kài) lèghei ho Iesoûs: Tí emòi kaì soí, gýnai?]

Questioni letterarie
La prima parte del versetto ha fatto scrivere migliaia e migliaia di commenti di cui qui non possiamo dare ragione1. L’ultima versione della Bibbia-Cei (2008) traduce: «E Gesù le rispose: “Donna, che vuoi da me?”». La traduzione rispetta il senso, ma elimina la pregnanza misteriosa del testo, che preferiamo riportare alla lettera per sottolineare alcune osservazioni importanti, utili alla comprensione del testo nel suo complesso e nella sua interezza e anche per potere fare confronti con testi analoghi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Tutti sanno che la traduzione-Cei non è tra le migliori, perché i vescovi alla fedeltà letteraria del testo originario (ebraico, aramaico e greco), hanno preferito la comprensione immediata del testo proclamato nella liturgia. Possiamo dire che la Cei, consapevole che i cattolici non hanno dimestichezza con la Parola di Dio a causa di una catechesi più dottrinale che biblica, hanno voluto facilitare la comprensibilità immediata piuttosto che la problematicità del testo. Hanno operato una traduzione liturgica.
Da un punto di vista della critica del testo, rileviamo due elementi: la congiunzione d’inizio versetto messa tra parentesi quadre [«e»] è omessa dal papiro 75 (175-225) e pochi altri, mentre è riportata dal papiro 66 (200 ca.) e dal codice sinaitico (sec. IV) e da quasi tutti gli altri per cui la si mantiene, ma per prudenza si mette tra parentesi.

Nota filologica. La «e» è una congiunzione cornordinante e copulativa, cioè lega il precedente al seguente con un nesso stretto. Nel versetto precedente troviamo: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”» (Gv 2,3), a cui corrisponde immediatamente con la congiunzione «e» la risposta istantanea di Gesù: «[E] dice a lei Gesù…» (Gv 2,4). Senza la congiunzione «e» si avrebbe la stessa risposta, ma con meno simultaneità, quasi vi fosse un tempo intermedio di riflessione; invece non c’è respiro tra la costatazione della madre che «vino non hanno» e la risposta di disapprovazione e fastidio data da Gesù.
Qualcuno potrebbe pensare che queste osservazioni siano di «lana caprina» o «spezzare il capello in quattro», mentre per noi esprimono la necessità di non essere mai superficiali con la Parola di Dio, anche perché Gesù ci ha detto espressamente: «Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18). In ebraico le parole in corsivo suonano così: «Lò’ yòd echàt ‘ò qòtz echàd» che potremmo tradurre in italiano con la nota frase: «Non si cambia neppure una virgola», quando vogliamo definire l’immodificabilità di un fatto o di un documento.
Cogliamo questa osservazione di Gesù per imparare qualcosa di più della Bibbia e del suo mondo. Lo iota (gr.: iôta) è la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico, la decima lettera, che in italiano corrisponde alla «y/i»; il termine italiano «trattino» traduce in modo comprensibile il termine greco «keràia» che significa alla lettera «corno» e a sua volta traduce l’ebraico «qòtz» che significa «spina» e corrisponde a un piccolissimo oamento che hanno molte lettere dell’alfabeto ebraico, quindi un elemento quasi insignificante. Gesù in questo modo esprime un pensiero diffuso al suo tempo. Il midràsh Genesi Rabbà afferma: «Tutto ha una fine – cielo e terra hanno una fine –, solo una cosa non ha fine. Cos’è? La Toràh» (Gen R. 10,1) a cui fanno eco Esodo Rabbà: «Nessuna lettera sarà mai abolita dalla Torah» (Es R., 6,1) e Levitico Rabbà: «Se tutte le nazioni del mondo si radunassero per eliminare una parola della Toràh, esse non sarebbero in grado di farlo» (Lv R., 19,2). Con questa espressione Gesù esprime l’intenzione che anche i segni apparentemente insignificanti hanno un senso nell’economia dell’intera Bibbia: tutto anche le «congiunzioni» hanno il loro valore e devono essere prese come Parola di Dio.

Dal passato al presente
La seconda osservazione riguarda il verbo «lèghei – dice». Essendo l’autore a parlare, dovrebbe usare il passato remoto (in greco il tempo aoristo) che è il tempo narrativo per eccellenza, invece usa quello che tecnicamente si chiama «presente storico», nel senso che, pur riferendosi a un fatto passato, usa il presente, rendendolo vivacemente attuale, quasi contemporaneo al lettore, che così è coinvolto nello sviluppo degli eventi. Il tempo passato (remoto/aoristo) lascia il lettore spettatore distaccato, mentre il presente storico lo immerge in quello che accade e da osservatore neutro lo trasforma in attore.
Sia la «madre» del versetto precedente, sia «Gesù» adesso, usano lo stesso presente storico, come se tutti e due fossero, come sono, davanti al lettore che ascolta, quasi con il desiderio di volere interloquire. Non si tratta di un fatto passato, ma di qualcosa che accade «adesso» e riguarda ciascuno di noi.
Spesso la nostra superficialità di vita e di approccio alla Parola di Dio ci fa perdere di vista le «congiun-zioni» e molti «presenti storici», isolandoci e impedendoci così di assaporare la Presenza di Dio che parla «ora» e non ieri, perché la sua Parola non è uno strumento di narrazione di fatti passati da osservare acriticamente, ma è Parola di salvezza che risuona «oggi» per noi: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,20).
Spesso ci nutriamo di parole morte perché le usiamo come proiettili per dimostrare, per separare, per colpire, finendo per rompere l’unità interiore che è la condizione essenziale della nostra vita di persone e di persone credenti.
Senza le «congiunzioni cornordinate e copulative» che la Parola di Dio ci offre, la nostra vita scorre slegata, separata, isolata. Viviamo smembrati in noi stessi, così disarticolati da arrivare all’obbrobrio di leggere la Parola in modo ovvio, accontentandoci del significato più esteriore che fa velo a quello nascosto e interiore, il significato «secondo» o altro, che, specialmente in Giovanni, è il vero senso e la vera misura.
Senza coniugare il verbo della nostra vita al «presente storico» della Scrittura, rischiamo di diventare «specialisti di Dio», addetti al sacro, tecnici della Bibbia che magari conosciamo a memoria, maneggiandola con sapere e disinvoltura, illudendoci di «conoscere» Dio, mentre in effetti siamo solo acculturati di Dio.
Se sappiamo coniugare il nostro presente storico davanti alla Shekinàh/Dimora/Presenza, possiamo aspirare a diventare «Parola incarnata», lettere viventi dell’alfabeto di Dio che attraverso di noi scrive ancora oggi la sua Bibbia e la legge al mondo in un linguaggio comprensibile perché «presente» e visibile.

Una espressione ordinaria
L’espressione, per noi enigmatica: «Che cosa a me e a te, o donna?», tecnicamente si definisce un «idioti-smo» (dal gr.: idiôttēs = particolare/privato), cioé costruzione tipica di una specifica lingua, in questo caso quella semitica; si trova anche nella letteratura greca extrabiblica, come in Euripide, Erodoto, Aristofane (sec. V a.C.), Demostene (sec. IV a.C.), Epitteto (sec. I-II d.C.)2. L’espressione evangelica «che cosa a me e a te – a tí emòi kaì sói?», tradotta in ebraico è «mah lî walàk» (aramaico: mah laî welàk). Nell’AT si trova circa 15 volte ma, a nostro avviso solo 11 casi possono essere equiparati al testo del vangelo per forma sintattica e vocabolario. Di seguito riportiamo i testi:

a) Nell’Antico Testamento:
1.    Gs 22,24: «L’abbiamo fatto perché siamo preoccupati che in avvenire i vostri figli potrebbero dire ai nostri: “Che avete in comune voi con il Signore, Dio d’Israele?” (mah lakèm weladonài ‘elohê Ysra’el?)».
2.    Gdc 11,12: «Iefte inviò messaggeri al re degli Ammoniti per dirgli: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), perché tu venga contro di me a muover guerra nella mia terra?”».
3.    2Sam 16,10: «Il re rispose: “Che ho io in comune con voi (mah lî welakèm), figli di Seruià?”» (cf anche 2Sam 19,23 con l’identica espressione).
4.    1Re 17,18: [La vedova di Sarepta] «disse a Elia: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?”».
5.    2Re 3,13: «Eliseo disse al re d’Israele: “Che cosa c’è tra me e te? (mah lî walàk). Va’ dai profeti di tuo padre e dai profeti di tua madre!”».
6.    2Re 9,18: «Uno a cavallo andò loro incontro e disse: “Così dice il re: ‘Tutto bene?’”. Ieu disse: “Che c’è tra te e la pace? [cioè il «tutto bene»] (mah lek ulshalòm)”». (cf. 2Re 9,19 con la stessa identica espressione).
7.    2Cr 35,21: «Quegli [Necao, re d’Egitto] mandò messaggeri a dirgli: “Che c’è fra me e te (mah lî walak), o re di Giuda? Io non vengo oggi contro di te”».
8.    Os 14,9: «Che ho ancora in comune con gli idoli (mah lî ’ôd la’zabîm), o Èfraim?».
9.    Gl 4,4: «Anche voi, Tiro e Sidone, e voi tutte contrade della Filistea, che cosa siete per me? (mah ‘attèm lî)».

b) Nel NT l’espressione idiomatica ricorre appena 5 volte:
1.    Mc 1,24: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro cominciò a gridare, dicendo: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
2.    Mc 5,7: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro, urlando a gran voce, disse: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”».
3.    Mt 8,28-29: «Due indemoniati… si misero a gridare: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Figlio di Dio?”».
4.    Lc 4,33-34: «Un uomo che era posseduto da un demonio impuro… cominciò a gridare forte: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
5.    Lc 8,27-28: «Un uomo posseduto dai demòni … vide Gesù, gli si gettò ai piedi urlando, e disse a gran voce: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”» (cf. anche Mt 27,19, ma solo in senso lato).

Mancanza di vino, eccesso mariano
Abbiamo riportato tutti i testi chiari per fare vedere «visivamente» che l’espressione di Gesù a sua madre non è strana e non è oscura, come si vorrebbe far credere, ma è una espressione «tipica» del parlare del suo tempo per indicare, a seconda del contesto, disapprovazione, dissuasione, non condivisione del punto di vista, non gradimento, discontinuità tra due situazioni, disinteresse e chiusura di qualunque rapporto tra due interlocutori.
Probabilmente a complicare le cose gioca un ruolo determinante l’eccessiva devozione mariana con cui si è letto e, in certi ambienti fondamentalisti, si legge ancora il racconto delle nozze di Cana. Al di fuori del contesto ebraico, si fa fatica ad ammettere una risposta sgarbata di Gesù a sua madre che, da questo punto di vista è considerata la protagonista per eccellenza del racconto perché è lei che, apparentemente, risolve un caso di opportunità sociale: la vergogna degli interessati che non hanno calcolato il vino necessario per la festa.
Spesso è visto, errando, il racconto delle nozze di Cana come un piedistallo mariano, da cui domina la Vergine Maria che viene in soccorso dei bisogni dei suoi figli, memori delle parole sublimi di Dante nella preghiera di San Beardo nell’ultimo canto del Paradiso: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (DANTE, Divina Commedia, Par., XXXIII, 15-18).
Senza nulla togliere a Maria, nel contesto delle nozze di Cana, una simile interpretazione è ben povera perché annega in un «bicchiere di vino» (è il caso di dirlo!) la prospettiva storico-salvifica di Giovanni, che guarda le nozze nella prospettiva dell’alleanza del Sinai e non alla devozione mariana, totalmente estranea all’evangelista.
Il popolo cattolico in particolare per la sua strutturale «ignoranza delle Scritture», è indotto a leggere e commentare la Bibbia con le proprie precomprensioni teologiche o peggio devozionali, per cui, nel nostro caso, la Madonna diventa la figura di primo piano nel racconto delle nozze di Cana, facendo così piazza pulita di tutti i sensi simbolici che l’autore del IV vangelo vi ha posto e ci obbliga ad indagare.
Da questa prospettiva mariana, e la catechesi spicciola vi è egregiamente riuscita, bisognava ridurre l’impatto della contrapposizione tra Gesù e sua madre, arrivando fino a dire che l’appellativo «donna» è un titolo onorifico e di rispetto, travisando così il senso anche ovvio del vangelo.
Rivolgendosi a sua madre, Gesù la chiama «donna» (nel testo greco senza articolo e senza alcuna qualifi-ca), esprimendo un passaggio epocale nella storia di Gesù. La «madre» dei versetti precedenti (cf. Gv 1,1-2) e seguenti (cf. Gv 2,12; 19,25-27) diventa ora solo «donna», creando un nuovo rapporto nella vita della madre e in quella del figlio, Gesù. Nel momento in cui Gesù entra in scena, saltano tutti i rapporti di parentela precedenti e si stabiliscono relazioni nuove per un orizzonte nuovo.
La «madre» era alle nozze in rappresentanza di Israele/sposa, e ambedue, madre e popolo, giacciono là «giare di pietra», simbolo dell’alleanza sinaitica che ora è chiamata da Gesù a salire di senso: dal vino materiale al vino messianico. «Che c’è fra te e me, donna?» sta a significare: popolo d’Israele, mia sposa e madre, non perdere tempo con le cose insignificanti, ma guarda in alto e in avanti ed entra nella nuova prospettiva del Regno di Dio.
La madre/Israele deve prendere coscienza che è arrivato il rinnovatore: «Ecco, io faccio nuove tutte le co-se» (Ap 21,5), colui che supera le cose passate e proietta verso il Regno del futuro, la nuova economia della salvezza: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43, 18-19).
Chiamando la madre «donna», in maniera assoluta, senza alcuna qualifica e articolo, Gesù la scaraventa dal piano affettivo/familiare a quello storico salvifico identificando in modo assoluto la madre/donna a Israele/sposa del Messia/sposo che inaugura la «nuova alleanza» preannunciata dal profeta (cf. Ger 31,31) che concluderà definitivamente nella «sua ora», l’ora della morte e risurrezione. 
(25 – continua)

di Paolo Farinella

1.    Per una bibliografia abbastanza completa cf. A. SERRA, Le nozze di Cana, 273-303, special. le note).
2.    Cf. i testi per esteso riportati da A. SERRA, Le nozze di Cana, 274-275 alle note 468-472, specie la nota 472, che riporta i testi di Epitteto, i quali per tempo e forma sintattica sono più vicini al vangelo rispetto agli altri autori che hanno espressioni simili, ma non uguali.

Paolo Farinella




Storia del Giubileo 1. Francesco, papa profeta


C
on la Bolla «Misericordiae Vultus»
(MV) dell’11 aprile 2015, Papa Francesco ha indetto un
Giubileo Straordinario dedicato alla Misericordia. Il
Giubileo durerà un anno, dall’8 dicembre 2015, cinquantesimo anniversario della
chiusura del concilio Vaticano II, al 20 novembre 2016, memoria liturgica della
festa di «Cristo Re dell’universo». Il Papa ha esteso a tutte le chiese
cattedrali diocesane e a quelle più significative di tutto il mondo le stesse
prerogative delle Basiliche vaticane di Roma, per cui – e questo è anche il
desiderio di Papa Francesco – non sarà necessario andare a Roma, come per tutti
gli altri Giubilei, ma si potrà partecipare intimamente anche dalle proprie
città e diocesi.

Questa
scelta è importante perché il Papa, in questo modo, afferma «l’ekklesìa»
universale che si realizza ovunque si celebri la Misericordia di Dio che lo
stesso Francesco nella Bolla di indizione definisce «l’architrave che sorregge
la vita della Chiesa» (MV, n. 10), la quale «vive un desiderio inesauribile di
offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del
Padre e la sua forza diffusiva».

La
rivista MC ha deciso di predisporre dieci puntate (una al mese e quindi per
l’intero anno giubilare) per approfondire il significato del Giubileo nella
Bibbia, quali sono i suoi contenuti, e quale ne è stato lo sviluppo nella
storia della Chiesa, che vide il primo Giubileo nel 1300, indetto da Papa
Bonifacio VIII con intenzioni ben diverse da quelle di Papa Francesco.
Cercheremo di capire meglio – almeno lo speriamo – le ragioni e le motivazioni
interiori che hanno spinto il Papa a fare questo gesto e con modalità diverse
da quelle degli altri Giubilei. Sono grato a MC di avermi affidato questo
compito che, pur essendo impegnativo, mi permette di compiere un atto di
devozione e di ossequio ai nostri lettori, verso i quali MC non può che nutrire
sentimenti di gratitudine.

Non
possiamo però cominciare il racconto della storia del Giubileo senza domandarci
chi sia Papa Francesco. Se è vero, come lui stesso ha detto la sera della sua
elezione a vescovo di Roma (13 marzo 2013), che i «cardinali sono andati a
prenderlo quasi alla fine del mondo», è anche vero che fin dall’inizio egli ha
compiuto gesti e ha detto parole incisive per le persone, per lo stesso papato
e anche per chi non crede. Questo Papa non lascia indifferenti.

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Una profezia scontata

 

Devo iniziare con un riferimento personale. Me ne scuso, ma è
necessario. Nel 1999, quando vivevo a Gerusalemme, pubblicai un romanzo dal
titolo «Habemus Papam, Francesco». Alla vigilia del Giubileo che segnava il
passaggio tra il II e il III Millennio, immaginavo l’arrivo di un papa che
prendesse il nome «Francesco» e cominciasse a riformare sul serio la Chiesa che
già allora, nel declino del pontificato di Giovanni Paolo II, viveva i sintomi
di un sistema ecclesiastico che iniziava a precipitare.

Nel 2012, a richiesta dei lettori, il romanzo fu ripubblicato
dall’Editore Gabrielli con il titolo «Habemus Papam. La leggenda del Papa che
abolì il Vaticano». Questa seconda edizione fu aggiornata al pontificato di Papa
Ratzinger, durante il quale il Vaticano fu teatro di fatti scandalosi e di
corruzione, così gravi da portare lo stesso Papa a rassegnare le dimissioni, le
prime dopo quelle del 1294 di Celestino V, il Papa che con l’istituzione della «Perdonanza»
di Collemaggio (L’Aquila), anticipò di quattro anni il primo Giubileo della
Chiesa Cattolica, proclamato per l’Anno Santo del 1300 dal suo successore, Papa
Bonifacio VIII della famiglia «Cajetani».

L’idea di un papa che prendesse il nome Francesco, anticipata di
tredici anni e poi ribadita l’anno precedente la sua realizzazione, non fu una
preveggenza perché il cristiano non ha bisogno di arti magiche per leggere il
futuro, gli è sufficiente avere gli strumenti adatti alla lettura dei «segni
dei tempi» (Mt 16,2-3; cf Lc 12,54-56; Vangelo [apocrifo] di Tommaso,
n. 91) che sono il Vangelo e la Storia, accostati senza prevenzioni. Usare
questi strumenti è il modo «ordinario» per conoscere il senso e la profondità
di ciò che accade e anche di quello che verrà.

Oggi, ascoltando il papa, spesso gli sento pronunciare le stesse
parole del Papa del romanzo o vedo che compie gesti simili al Francesco
letterario, e non mi meraviglio perché il Papa crede che lo Spirito Santo guidi
la storia e le ragioni profonde dell’agire. Non ha quindi idee o interessi o
privilegi da difendere. Con il cuore libero sa disceere le esigenze del Regno
di Dio, distinte dagli schemi dei propri convincimenti. Papa Francesco è
isolato all’interno del «sistema clericale» e alcuni non lo nascondono nemmeno:
sono gli stessi che prima difendevano il «primato del Papa», ma solo perché il
pensiero del Papa di tuo coincideva con il loro. È sufficiente che un Papa
pensi secondo Dio con spirito di servizio, combattendo la perversione del
potere e lo spirito di casta, che di solito degenera nella corruttela, ed ecco
montare un muro di resistenza strisciante.

Papa Francesco ha il senso di Dio perché è affamato di umanità e
sa di rappresentare sulla terra quel Cristo, che è «Lògos [che] carne fu fatto»
(Gv 1,18). Si presenta all’umanità non come maestro di princìpi e dispensatore
di dottrina, difensore di tradizioni passate e fustigatore di costumi, ma
semplicemente come il servo del Dio incarnato che viene a misurarsi con il
passo delle persone alle quali prospetta e offre un orizzonte che solo nella
libertà e nell’amore è possibile.

Si può dire che Papa Francesco esprima l’anelito e l’ansia
pascaliani di non preoccuparsi del Dio della filosofia e delle dimostrazioni
apologetiche, ma unicamente del Dio incontrato e sperimentato nella sua storia
e in quella dei suoi compagni e compagne di viaggio: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio
di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo»
(B. Pascal, Memoriale; cf anche Pensieri, 5, 362, 366, 556; 602,
730).

Qualche giorno dopo la morte di Blaise Pascal (1623-1662), un domestico trovò
cucito nella fodera di un suo indumento, un foglio autografo in cui filosofo e
scienziato faceva riferimento a un’esperienza, forse mistica, avvenuta nella
notte del 23 novembre 1654. Il breve documento è conosciuto come «Memoriale» e
riporta la celebre frase: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di
Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo».



 


Da sommo pontefice a «servo
dei servi»

 

Per capire Papa Francesco e la scelta d’indire un Giubileo
Straordinario sulla Misericordia, bisogna ritornare a quella sera straordinaria
del 13 marzo 2013, quando dopo la fumata bianca e l’annuncio del cardinale
protodiacono: «Habemus Papam … Franciscum», il primo latinoamericano della
storia e il primo gesuita papa, si è affacciato alla loggia delle benedizioni.
Da subito gli addetti del mestiere hanno capito che molto era cambiato, già
solo al vederlo vestito di bianco e senza la mozzetta scarlatta e la stola
cosiddetta di «Pietro e Paolo». Accanto al Papa, alla sua sinistra, stava
terreo e sudato il cerimoniere pontificio che sul braccio teneva piegata la
stola pontificia.
È
stata una scena indimenticabile perché ha segnato il confine irreversibile tra un
«prima» e un «poi» (cf V. Gigante – L. Kocci, La Chiesa di tutti,
prefazione di Paolo Farinella, Altraeconomia, Milano 2013). Per la prima volta
nella storia, un Papa appena eletto non si presentato come «pontefice», ma come
Vescovo di Roma e ha voluto mostrarlo in modo visibile perché nella Chiesa i
simboli sono essenziali. Egli ha rinunciato alla «mozzetta rossa, oata di
ermellino», residuo della clamide rossa indossata l’imperatore come simbolo
della sua autorità di massimo magistrato dello stato. Rinunciando all’indumento
imperiale, il Papa rinunciava a presentarsi come «Sommo Pontefice», titolo
riservato all’imperatore e simbolo del potere temporale. Non indossando la
stola che di solito i Papi portano quando esercitano la loro funzione di capi
di stato, il Papa si è offerto al suo popolo «nudo» come Francesco di Assisi e
ha trasformato in un colpo solo il potere in servizio.

L’ultimo gesto sconvolgente è stata la richiesta al popolo
romano, cioè il «suo» popolo ecclesiale, d’invocare la benedizione di Dio su di
lui vescovo, prima che questi benedicesse il popolo, dando corpo alle parole di
sant’Agostino che nell’anniversario della sua ordinazione diceva ai cristiani
di Ippona: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano» (Sermones,
340, 1 PL 38, 1483). La sera del 13 marzo 2013 dalla loggia centrale del
Vaticano non si è presentato il rappresentante del potere temporale, anche se
stilizzato, il Papa-Re, anche se di un minuscolo Stato di 0,44 km
2, ma «il servo
dei servi di Dio». Non si è presentato soltanto. Ne ha anche avuto coscienza.

 

L’appellativo «Servus servorum Dei» fu utilizzato per la prima volta da Papa
Gregorio I (1145-1241) in risposta al Patriarca di Costantinopoli Giovanni IV Nesteutés,
che significa Digiunatore (582-595), che nel 587 aveva assunto il titolo di
Patriarca «Ecumenico». Papa Gregorio si definì «Servo di Dio» che nell’Amtico
Testamento è un titolo onorifico, sinonimo di ambasciatore/rappresentante, e
per sottolineare l’umiltà del ministero aggiunse «dei servi di Dio», cioè il
Popolo santo dei credenti. L’appellativo, per le circostanze in cui è nato, ha
un richiamo esplicito al profeta Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo
ti ascolta» (1Sam 3,9-10).



 

La misericordia nel sangue

Francesco di Assisi andava in giro per la città predicando
il Vangelo «sine glossa», cioè senza alcun commento, ma testimoniandolo con la
vita e l’esempio e assumendo la povertà assoluta come misura della sequela di
Cristo. Papa Francesco, che prende il nome del poverello di Assisi, si condanna
da sé a essere inchiodato a una vita di austerità e povertà, anche esteriore,
perché quel nome non è un nome qualsiasi, ma quello di uno che «fece sul serio».
Papa Francesco è coerente e due anni di servizio petrino lo dimostrano: egli è
quello che appare e fa quello che dice (cf Mt 23,3).

Nell’esortazione apostolica «Evangelii Gaudium», Papa
Francesco scrive facendo eco al Santo suo ispiratore e facendo suo il metodo
del «sine glossa»:

«È vero che, nel nostro rapporto con
il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come
nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto chiaramente avvertiti: “Sia
fatto con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16), e “se possibile, per quanto dipende
da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18). Siamo anche esortati a cercare di
vincere “il male con il bene” (Rm 12,21), senza stancarci di “fare il bene”
(Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando “gli altri
superiori a se stesso” (Fil 2,3). Di fatto gli Apostoli del Signore godevano “il
favore di tutto il popolo” (At 2,47; cfr. 4,21.33; 5,13). Resta chiaro che Gesù
Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come
uomini e donne del popolo. Questa non è l’opinione di un Papa né un’opzione
pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così
chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che
toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole sine glossa, senza
commenti. In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la
vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del
mondo» (EG, 271).

Questo è l’uomo che ha indetto il Giubileo Straordinario
della Misericordia, parola che segnava la vita di Bergoglio già prima di essere
eletto. Quando nel 1992 era stato eletto Vescovo, secondo la tradizione come
suo motto episcopale scelse il motto latino: «Miserando atque eligendo». La
frase è tratta dalle Omelie di san Beda, detto il Venerabile (672-735),
il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo,
scrisse: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore
[in latino: miserando = avendone misericordia] e lo scelse, gli disse:
Seguimi» (Omelia 21; CCL 122, 149-151).

Non è più tempo di difendere i princìpi a forza di
manifestazioni o urla, oggi è l’umile tempo del sacramento della testimonianza
con la vita, che è il vero martirio che il Vangelo chiede a quanti vogliono
avventurarsi per questa via, senza esaurirsi in una religiosità esteriore e di
convenienza. Annunciando il Giubileo, Papa Francesco, come novello Giona,
attraversa la Ninive della storia, annunciano a tutti non la «Misericordia di
Dio», ma che «Dio è Misericordia». In questo modo egli resta fedele alla sua
storia personale e alla sua vocazione, dando spazio alla Dimora/Shekinàh dello
Spirito nella sua vita. Da Papa ha coscienza di dovee testimoniare la realtà
davanti al mondo e davanti a chiunque incontri. D’altra parte anche Gesù ha
iniziato il ministero pubblico nella sinagoga di Nàzaret, scandalizzando i
cultori del Dio «castigamatti», annunciando per tutti un Dio dal Volto non solo
umano, ma amorevole e carico di tenerezza e di amore a perdere:

«18Lo Spirito del Signore è sopra di me; / per questo mi ha
consacrato con l’unzione / e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto
annuncio,/ a proclamare ai prigionieri la liberazione/ e ai ciechi la vista;/ a
rimettere in libertà gli oppressi,/
19a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 1,18-19).


Ogni tempo è «anno di grazia» perché il tempo di ciascuno è
diverso dal tempo degli altri, ma il tempo di Dio è sempre un «kairòs
occasione propizia» da afferrare, perché Dio ha tutta l’eternità per perdere il
suo tempo con noi, suoi figli e figlie, oggi e domani. Sempre.

 

Paolo Farinella, prete

Paolo farinella




I Perdenti 9. Mons. Vincent Prennushi


Una delle persecuzioni contemporanee più feroci contro le confessioni religiose di ogni tipo fu perpetrata, a pochi chilometri dalle coste italiane, in Albania. Con la presa del potere da parte del regime di Enver Hoxha nel 1944, musulmani, ebrei, cristiani ortodossi e cattolici, furono presi di mira affinché sparisse ogni traccia di sentimento religioso nel popolo albanese. Hoxha voleva fare dell’Albania «il primo stato ateo del mondo». Con il consolidamento del potere in tutti i gangli della società del popolo albanese, l’accanimento contro le comunità e le persone che vivevano una loro fede divenne durissimo, e in modo particolare i cattolici furono considerati gli avversari più pericolosi del regime. Sull’Albania calò così una cappa pesante che bloccò ogni relazione con il mondo esterno. La piccola nazione illirica divenne praticamente un lager a cielo aperto, nonostante avesse sviluppato nei secoli un profondo senso di identità grazie a Giorgio Castriota Scanderberg, una delle figure europee più rappresentative del XV secolo, precursore dell’indipendenza albanese, che difese l’Albania, nonché l’Europa e i suoi valori religiosi cristiani, dall’invasione ottomana. Per tale motivo ottenne da Papa Callisto III gli appellativi di Atleta di Cristo e Difensore della Fede ed è considerato l’eroe nazionale.

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale migliaia di credenti di ogni confessione furono imprigionati, torturati e moltissimi di loro uccisi. La Chiesa cattolica pagò un prezzo altissimo alla follia di un regime ateo e sanguinario che vedeva in ogni pratica religiosa e in ogni persona di fede un nemico dello stato. Con questa intervista ideale a mons. Nikolle Vinçenc (Vincent) Prennushi, arcivescovo di Durazzo, nato a Scutari nel 1885, vittima della persecuzione del regime comunista nel marzo del 1949, alziamo il velo su una storia di sofferenza e martirio consumata negli scorsi decenni alle porte di casa nostra.

Caro mons. Prennushi, pur essendo noi italiani così vicini geograficamente alla sua terra, conosciamo ben poco della vostra storia, ci vuole dire qualcosa dell’Albania?

L’Albania è una piccola nazione che si affaccia sul mare Adriatico situata a ridosso dei Balcani. Il suo popolo non va confuso con quelli circostanti: serbi, montenegrini, macedoni, ecc., né tanto meno con i greci. Siamo i discendenti degli antichi illirici, per meglio dire degli abitanti di quella zona che sotto l’impero Romano era denominata Illiricum. La nostra bandiera rossa con un’aquila a due teste sta a significare che dobbiamo difendere i nostri confini sia da una parte che dall’altra.

Però durante i secoli l’Albania è diventata un crogiuolo di razze e una mescolanza di religioni non indifferente.

Con l’andar del tempo il cemento unificante del nostro popolo, al di là delle etnie o delle religioni, divenne la lingua, difatti i serbi usano l’alfabeto cirillico mentre i greci ancora oggi usano il loro tipico alfabeto, noi abbiamo voluto mantenere l’alfabeto latino. Questo non è poca cosa perché già nello scrivere affermiamo la nostra identità.

Il cristianesimo si diffuse in Albania fin dai primi secoli?

San Paolo affermò di aver predicato il Vangelo nell’Illiria (Rom 15,19), qualcuno dice che passò anche per Durazzo, ma l’evangelizzazione vera e propria fu portata avanti da missionari inviati da Roma e da Costantinopoli. Non dimenticate che la via Egnatia, che univa le due capitali, attraversava tutta l’Albania.

Come mai in Albania c’è una presenza di confessioni cristiane diverse?

La maggioranza degli albanesi che vivevano al Nord, dopo lo scisma d’Oriente del 1054, rimasero fedeli alla Chiesa di Roma, mentre gli albanesi del Sud entrarono nell’orbita della Chiesa ortodossa bizantina che faceva capo a Costantinopoli.

Ma nonostante questa divisione entrambe le comunità resistettero impavidamente contro i tentativi ottomani di occupare l’Albania.

Scanderberg riuscì a tenere lontani i Turchi, ma dopo la sua scomparsa, l’influenza religiosa dell’ambiente islamico, la persecuzione contro i cristiani perpetrata da alcuni fanatici governatori e la politica ottomana che concedeva facili carriere civili e militari agli albanesi purché fossero musulmani, provocarono un graduale passaggio all’Islam di intere famiglie oltre che di interi villaggi.

Storicamente la presenza della Chiesa cattolica ha inciso nella cultura del popolo albanese?

Grazie alla protezione che l’Austria garantiva al clero e alle opere cattoliche, i francescani e i gesuiti aprirono diverse scuole in varie città, e con la geniale invenzione delle «missioni volanti» raggiunsero i luoghi più impervi delle montagne favorendo così un maggior fervore religioso e un’istruzione di base.

Quindi anche dal resto della popolazione albanese l’opera portata avanti dalla Chiesa cattolica era apprezzata?

Al momento dell’indipendenza dall’Impero ottomano a fine 1912, i cattolici godevano di un prestigio eccezionale, sia per il loro impegno nella lunga lotta di liberazione, sia per la loro elevatezza culturale. Si può dire che il cattolicesimo aveva dato l’impronta decisiva all’identità nazionale. I più grandi poeti, scrittori e giuristi albanesi erano in gran parte cattolici e quasi tutti appartenenti al clero.

Per dirla tutta, una situazione del genere stava sullo stomaco a un tipo come Enver Hoxha.

Non per niente questo tiranno si accanì come una furia contro i preti cattolici, ritenuti i maggiori ostacoli alla nuova ideologia. Per 46 anni (1944 – 1990) una dittatura spietata, ridusse il paese a una grande prigione. Due generazioni di albanesi sono cresciuti in un regime di terrore, in un clima di sospetto in cui non ci si poteva fidare di nessuno, neanche dei propri familiari per paura di essere denunciati.

Se a questo aggiungiamo anche la presenza ossessiva della «Sigurimi», la famigerata polizia segreta che controllava ogni aspetto della vita sociale e personale, abbiamo un’idea di come per oltre quarant’anni l’Albania abbia vissuto in un regime che definire terroristico è dir poco.

Il potere di Hoxha rase al suolo tutti i campanili esistenti in Albania, distrusse molte chiese e moschee e gli edifici di culto risparmiati da questa furia furono trasformati in sale di cultura, palestre, magazzini, qualcuno addirittura in stalla. Per non parlare dei singoli credenti che vennero incarcerati, perseguitati e torturati, molti inviati nei campi di lavoro, diversi fucilati, solo perché volevano continuare a vivere la loro fede.

Anche contro di te il regime si accanì con particolare durezza.

Nel 1945 ebbi un colloquio burrascoso con Enver Hoxha in cui lui mi chiese di formare una Chiesa nazionale antagonista alla Chiesa di Roma. In quegli anni ero il Primate della Chiesa cattolica in Albania, risposi che non potevo separarmi dalla sede di Pietro usando queste parole: «Un petalo non può restare staccato dal fiore al quale appartiene». La reazione fu forte, nel senso che rifiutarono l’ingresso al Nunzio Apostolico e io nel 1947 fui condannato a vent’anni di carcere duro.

Enver Hoxha fece altri tentativi di creare una Chiesa nazionale albanese?

Sì, ma anche tutti gli altri vescovi ribadirono la mia stessa posizione e furono tutti condannati ai lavori forzati. La comunità cattolica albanese, privata dei suoi pastori entrava in un tunnel oscuro vivendo una tragedia immane che è durata oltre quarant’anni.

Oltre alle celebrazioni liturgiche vennero proibite anche le cose più semplici legate alla fede.

Nella tradizione sia cattolica che ortodossa, nel periodo pasquale si dipingono con colori vivaci le uova sode che, dopo essere state benedette nelle messe di Pasqua, vengono consumate in famiglia e si scambiano con i vicini di casa. Ebbene gli insegnanti delle scuole elementari avevano il compito di chiedere ai bambini più piccoli, quindi per loro natura più innocenti, se in famiglia avevano dipinto le uova.

Così quei bambini diventavano dei delatori inconsapevoli.

Purtroppo sì. Subito dopo scattava il meccanismo dell’emarginazione totale della famiglia e, nei casi più gravi, i genitori «colpevoli di questi atti criminali» venivano indirizzati ai campi di rieducazione.

Con questo modo di operare, come si collacava l’Albania nel contesto internazionale?

Col passare degli anni pur entrando nell’orbita dei paesi socialisti, se ne distaccò progressivamente e ruppe addirittura con l’Unione Sovietica, mantenendo i legami solo con la Cina di Mao Tse Tung. La quale la utilizzò come grimaldello per entrare nelle Nazioni Unite. Fu infatti l’Albania che presentò all’Onu la richiesta cinese di essere ammessa nel consesso internazionale delle Nazioni Unite.

Quindi per l’Albania fu un periodo segnato da eventi importanti sul piano internazionale ma, per quanto riguarda la sua popolazione quei decenni furono tragici. La tua storia è emblematica.

Come ho già accennato, la furia distruttiva contro ogni espressione religiosa ebbe dei momenti tragici. Fin dal 1945 bersagli preferiti diventarono il clero e i fedeli: «Ogni fascista portatore di un vestito clericale deve essere ucciso con una pallottola in testa e senza processo», diceva uno dei motti del regime. Vescovi, preti e religiosi furono arrestati, malmenati in pubblico, torturati, fucilati, imprigionati e inviati nei campi di lavoro. Le suore furono obbligate a lasciare l’abito, quelle che rifiutavano venivano sottoposte al pubblico ludibrio e inviate ai lavori forzati. Molti di loro furono vittime di processi farsa che venivano diffusi via radio e riassunti in uno speciale la domenica mattina all’ora della messa con il titolo: «L’ora giorniosa».

Nonostante tutto quello che avete passato, mano a mano che i regimi comunisti dell’Europa dell’Est cadevano grazie al crollo del muro di Berlino, anche in Albania spirò un vento nuovo che fece uscire dalle catacombe i credenti perseguitati.

Pur con il controllo ferreo del regime sui mezzi d’informazione, attraverso le radio clandestine la popolazione albanese captò la notizia del crollo dei regimi comunisti europei. Con coraggio alcuni sacerdoti ripresero a dire Messa pubblicamente nei cimiteri e la gente accorreva a queste celebrazioni eucaristiche, finché anche in Albania crollò il regime ormai marcio di Enver Hoxha e iniziò il periodo democratico della sua storia che – grazie a Dio – continua ancora oggi.

Monsignor Vincent Prennushi morì di stenti, probabilmente il 19 marzo 1949, in un campo di prigionia dove era stato rinchiuso dopo un processo farsa, martire insieme a molti altri albanesi che non si piegarono al regime di Enver Hoxha, che affrontavano la morte al grido di: «Viva Cristo Re». Alla fine del 2002 è stato aperto il processo per la beatificazione dei Martiri Albanesi vittime della persecuzione religiosa durante gli anni della dittatura comunista. Sorprende come una comunità così piccola abbia dato alla Chiesa dei nostri giorni tanti martiri. Va segnalato inoltre che una delle figure più splendide del cattolicesimo del XX Secolo è l’albanese Agnese Gonxhe Bojaxhiu, meglio conosciuta come Madre Teresa di Calcutta.

Don Mario Bandera
Missio Novara

Mario Bandera




Lavorare nella cooperazione: miraggio o realtà?


Sono tanti i ragazzi che, freschi di laurea o in procinto di ottenere il titolo, avanzano candidature spontanee inviando email e curriculum alle organizzazioni che operano nella cooperazione. E, d’altro canto, l’offerta formativa delle università italiane negli ultimi quindici anni si è arricchita di corsi di laurea e master in cooperazione e solidarietà internazionale proprio per rispondere alla richiesta crescente di figure professionali adatte al lavoro nelle Ong o negli enti pubblici che si occupano di sviluppo. In questo numero vi proponiamo una panoramica sul fenomeno.

«Buongiorno, mi sono appena laureato e sarei interessato a un’esperienza di qualche settimana in Africa». È più o meno così che cominciano molte delle mail che giovani neolaureati o laureandi inviano alle Ong come la nostra per proporsi in qualità di volontari e collaboratori. La laurea – o il master – può essere in cooperazione, ma anche in medicina, scienze politiche, antropologia, scienze infermieristiche, ingegneria civile o altre discipline, e a scrivere sono ragazzi alla ricerca di esperienze sul campo che permettano loro di mettere in pratica quanto hanno appreso nel corso di studi. E, il che non guasta, consentano di aggiungere al curriculum una preziosa riga sotto la voce «esperienze lavorative», aumentando così le possibilità di assunzione da parte degli enti che richiedono, appunto, esperienza pregressa.

In molti casi, i ragazzi sembrano preferire una permanenza sul campo di qualche settimana, e magari il loro intento è quello di trascorrere un periodo nel Sud del mondo per chiarirsi le idee su che cosa scegliere per specializzarsi ulteriormente, una volta rientrati dal campo. Non sono rare, tuttavia, le manifestazioni di disponibilità per esperienze più lunghe, di mesi o anche anni.

La cooperazione, almeno dai primi anni Duemila, è entrata in modo piuttosto deciso all’interno delle aule universitarie: i master su questo tema sono ormai numerosi e la loro offerta formativa spesso si completa con la possibilità di fare tirocini sul campo presso organizzazioni convenzionate con le università. In questi casi l’entrata nel mondo del lavoro è, se non più facile, almeno più regolata.

I numeri: chi lavora nella cooperazione

Ma vediamo un po’ di numeri sul lavoro nella cooperazione. Secondo il più recente censimento Industria e Servizi dell’Istat, nel 2011 la cooperazione e solidarietà internazionale – inteso dall’Istituto di Statistica come sotto settore del non profit – poteva contare su oltre 3.500 istituzioni attive con circa 1.800 dipendenti, quasi tremila collaboratori e poco meno di ottantamila volontari. Sempre secondo lo stesso studio, rispetto a dieci anni prima la cooperazione ha visto raddoppiare gli addetti del settore, più che raddoppiare i volontari e aumentare del 148% – da 1.400 a 3.500 circa – il numero di enti attivi.

Altri dati indicativi si possono ottenere da Siscos – Servizi per la cooperazione, un’associazione senza fini di lucro che fornisce a chi si occupa di cooperazione internazionale assistenza, informazione e consulenza per quanto riguarda la gestione delle risorse umane. Fra i servizi che Siscos offre c’è quello delle coperture assicurative per gli operatori delle Ong, buon indicatore del movimento di addetti che gravita nel mondo nella cooperazione per quanto riguarda le assegnazioni a incarichi all’estero. Fra le pubblicazioni Siscos c’è Un mestiere difficile, dossier dedicato appunto lavoro del cooperante. Confrontando il numero di operatori assicurati annualmente da Siscos dal 2006 al 2014 emerge che a partire sono circa seimila persone all’anno, sebbene con una lieve flessione negli ultimi anni (nel 2014 gli assicurati Siscos sono stati 5.773, mentre nel 2011 erano 6.392).

Il primo dei dossier, relativo ai dati 2006, riportava l’incremento degli operatori per anno: dai 601 operatori del 1976 si era passati agli oltre cinquemila del 2006 e fra il 1996 e il 2006 si era registrato un incremento nell’ordine del 150%, dato che sembra confermare il trend emerso dai dati Istat visti sopra.

La professione si è, nel frattempo, specializzata, poiché se negli anni Settanta a partire erano solo volontari «generici», un trentennio dopo a essere assegnati sul campo erano collaboratori e cooperanti, cioè figure professionali definite, e volontari, non più «generici», inquadrati insieme ai cooperanti nella vecchia legge sulla cooperazione (la 49/87), regolarmente stipendiati.

Nel dossier 2014, la suddivisone in fasce d’età vede prevalere gli operatori fra i 31 e i 40 anni, pari a poco meno di un terzo del totale. La fascia fra i 19 e i 25 include tredici su cento degli assicurati e quella dai 26 ai 30 il 17 per cento. La suddivisone fra maschi e femmine è quasi alla pari, con una leggera prevalenza delle donne.

I numeri: chi cerca di entrare nel settore

Vediamo ora il versante del primo ingresso nella cooperazione, a partire dagli studi e cominciando dall’offerta formativa disponibile nelle Università per chi desidera studiare cooperazione.

Universitaly, il portale del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur), elenca otto corsi di laurea di primo livello (triennale) in altrettanti atenei, e quindici corsi di secondo livello (biennale) in tredici Università. Quanto ai master, uno studio del ministero degli Affari esteri del 2007 ne contava oltre sessanta.

L’anagrafe nazionale studenti del Miur per il 2013/2014 riporta 408 laureati al corso di secondo livello in Scienze per la cooperazione allo sviluppo. Quattro anni prima erano 151. Il consorzio interuniversitario Almalaurea, che rappresenta circa il novanta per cento dei laureati italiani, effettua regolari indagini sulla loro condizione occupazionale. Per quanto riguarda chi ha completato il percorso di studi di secondo livello in cooperazione, dal campione di laureati analizzato per il 2014, a un anno dalla laurea, risulta che 114 su 254 intervistati hanno un impiego. Il non profit assorbe un quarto degli occupati, mentre oltre il 60% lavora nel privato e circa uno su dieci nel pubblico. Uno su quattro degli intervistati dice di usare molto, nel suo attuale lavoro, le competenze acquisite con gli studi mentre il 44 per cento non le utilizza per niente. Uno su tre giudica utile la propria laurea magistrale nello svolgere la propria attività lavorativa, mentre il 77 per cento sostiene che era sufficiente una laurea di primo livello o anche un titolo non universitario. Lo stipendio medio è poco meno di 1000 euro, con un divario notevole fra uomini e donne. I primi infatti percepiscono circa 1.300 euro contro i meno di novecento delle colleghe.

Per i giovani intervistati sempre nel 2014, ma laureati da cinque anni, la situazione appare meno difficile: a lavorare è il 70 per cento; la quota di chi lavora nel non profit rimane praticamente invariata (quasi il 27%), mentre il venti è impiegato nel settore pubblico e oltre il cinquanta nel privato. Si dimezza, inoltre, la percentuale di persone che non usa per niente le conoscenze ottenute grazie alla laurea e lo stipendio aumenta a poco meno di 1.300 euro: 1.479 per i maschi e 1.184 per le femmine.

Questi dati sono ovviamente molto parziali poiché si concentrano solo su chi ha scelto la cooperazione come percorso di studi specialistici e non tiene in considerazione chi invece arriva a lavorare in questo ambito per altre vie. Basta pensare a quanti medici, infermieri, economisti, antropologi, ingegneri sono attivi nei progetti realizzati sul campo – quindi a tutti gli effetti operatori del settore – per capire che gli studi in cooperazione non sono certo l’unico canale di entrata nel mondo dello sviluppo.

Emerge tuttavia un quadro nel quale i ragazzi che hanno via via scelto la cooperazione per il loro percorso di formazione è aumentato più o meno con gli stessi ritmi di crescita degli enti che si occupano di questo tema. Purtroppo l’entrata di questi laureati nel mercato del lavoro appare non impossibile ma certamente non immediata.

In rete sono molti i siti che cercano di fornire indicazioni utili per chi intende intraprendere da professionista la strada della solidarietà internazionale: dalle federazioni di Ong – che propongono spesso loro stesse master e percorsi formativi – alle università, ai blog individuali di cooperanti e addetti ai lavori, non è difficile farsi un’idea delle caratteristiche e delle difficoltà di questo lavoro. La prima di queste indicazioni è molto chiara: essere buoni non basta, occorre avere un’elevata professionalità e dotarsi di conoscenze tecniche precise. Queste conoscenze hanno a che fare con la gestione del ciclo di progetto, ma è bene tenere in considerazione anche tutta quella serie di competenze delle quali qualunque organizzazione necessita a prescindere dal settore in cui opera: amministratori, logisti, informatici, non hanno meno probabilità di venire reclutati da una Ong, anzi. Per rendersene conto basta dare un’occhiata alle offerte di lavoro sulla bacheca Volint  – da anni punto di riferimento in Italia per chi cerca lavoro nella cooperazione – o sulla pagina della vacancy di Lavorare nel mondo. Altro aspetto importante è ovviamente quello delle lingue, indispensabili per lavorare in un ambito come quello dello sviluppo che è per sua stessa natura internazionale. L’inglese prima di tutto, certo, ma senza dimenticare le altre lingue parlate nei paesi in cui si fa cooperazione, comprese quelle locali.

Chiara Giovetti


Che cosa non fare: avventurieri e improvvisatori

The Volontourist è un documentario uscito quest’anno per far riflettere sul fenomeno del «volonturismo» – termine nato dall’unione di «volontariato» e «turismo» -, sul business creatosi intorno a esso e sui danni che rischia di generare nei luoghi in cui arriva.

La campagna di raccolta fondi della Ong francese Solidarité Inteationale presenta in tre video i colloqui con potenziali volontari (interpretati da attori) che danno voce ai peggiori stereotipi legati alla cooperazione. «Non ho esperienza nell’umanitario», dice una ragazza con abiti e gioielli etnici che si offre come volontaria, «ma ne ho già parlato con mia cugina, ho fatto tantissimo la baby sitter e poi un bambino che muore di fame è come un bambino normale, ha bisogno d’amore. Qui ho un cuore e il cuore è fatto per dare amore alla gente». «Posso aiutare a fare delle iniezioni», propone invece un pensionato in un altro dei tre video, «non le ho mai fatte, ma ci posso provare». (Ch.Gio.)




Storia del Giubileo 2. Riscoprire il senso delle parole


Nella puntata precedente (cf MC 10/2015) ho presentato il Papa che ha indetto il Giubileo della Misericordia e ho anche accennato alle novità che egli ha portato con semplicità e mitezza, venendo «dalla fine del mondo» per assumere lo stesso stile pacato e «buono» di Papa Giovanni XXIII che, l’11 ottobre 1962, inaugurò il concilio ecumenico Vaticano II col medesimo programma di Gesù nel Vangelo di Luca: «L’anno di grazia» (cf Lc 4,19):

«Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odiee, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» (Gaudet Mater Ecclesia, 7.2).

«La medicina della misericordia» è il commento cristiano al «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). È il vino e l’olio che il Samaritano versò sulle ferite dell’uomo incappato nei briganti e lasciato per strada mezzo morto (Lc 10,34). In altre parole è la medicina per curare le ferite e ridare dignità a chi è stato umiliato.

Maschile, femminile e neutro

Papa Francesco su questo punto non ha dubbi:

«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso. La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia» (A. Spadaro, Sj, «Intervista a Papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, 2013 III, pp. 449-477 | 3918 [19 settembre 2013], qui pp. 461-462).

È insegnamento comune della Chiesa (e anche del buon senso), sintetizzato da san Tommaso in una massima di grande effetto: «Prima la vita, poi la dottrina – Prius autem est bene vivere quam bene docere» (san Tommaso d’Aquino, Catena in Mt, cap. 5,1-11). La «misericordia» dice che la Chiesa non può andare nel mondo alla conquista di proseliti, ma deve stare «nel» mondo sapendo di non essere «del» mondo (cf Gv 17,11.15-16) per affermare con la vita e le sue scelte la «signoria» di Dio e il primato di Cristo, anzi della sua «Agàp?» che è amore a perdere, cioè donarsi senza chiedere in cambio nulla.

Papa Francesco ha intitolato la Bolla d’indizione del Giubileo «Misericordiae Vultus», parole che meritano una riflessione non superficiale, un’attenzione di stampo esegetico. Sono tre parole: «Giubileo» (in latino Iubiléum), «Misericordiae – della Misericordia» e, infine, «Vultus – Volto/faccia/viso»; tre parole, tre sostantivi: uno neutro (Iubiléum), uno femminile (Misericordiae) e uno maschile (Vultus), quasi ad assommare l’intera creazione, ciò che è animato (maschile e femminile) e ciò che è inanimato (neutro), perché l’istituto del Giubileo riguarda non solo le persone e le relazioni tra loro, ma anche la terra, le piante, le cose. Nulla può essere escluso dalla sua sfera di giustizia e di grazia.

Se, infatti, il maschile e femminile fanno riferimento alle due componenti essenziali alla vita e alla conservazione della specie, il neutro ci porta nel cuore della terra che la norma del Giubileo tratta come «una persona» dal momento che non può essere sfruttata senza limiti, ma solo per lo stretto necessario alla vita. Il Giubileo riguarda tutti e tutto, senza distinzione di ruoli, di sessi, di funzioni. Riguarda gli animali, e quella che Papa Francesco chiama la «casa comune», la Madre Terra, cui ha dedicato la sua ultima enciclica «Laudato si’», che ha come sottotitolo appunto «Enciclica sulla cura della casa comune», non a caso pubblicata il 24 maggio 2015, giorno in cui la liturgia cattolica ha fatto memoria solenne del giorno di Pentecoste, il giorno dell’esplosione dello Spirito che secondo la profezia di Gioele «è effuso su ogni carne – ‘al kol basàr» cioè su tutto ciò che ha una qualsiasi forma di alito di vita (Gl 3,1).

Per approfondire in modo sistematico il termine «misericordia», suggeriamo la lettura di Paolo Farinella, Il Padre che fu Madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR) 2010, dove la parola è rintracciata in tutta la Bibbia e nei diversi contesti, ed è sviscerata in modo particolare in Lc 15, pericope in cui si espone la parabola appunto del Padre che fu Madre nei confronti di un figlio senza ritegno e senso della vita. Si consiglia inoltre di leggere il testo della Bolla d’indizione del Giubileo, «Misericordiae Vultus», di Papa Francesco (reperibile sul sito https://w2.vatican.va).
È anche opportuno leggere l’ultima enciclica di Francesco, «Laudato si’» che con parole semplici e ragionamenti non specialistici fa un’impressionante fotografia della situazione reale della Terra, e quindi del genere umano, richiamando ciascuno alle proprie responsabilità (il testo della lettera enciclica è reperibile in qualsiasi libreria, pubblicata da diverse case editrici o, anche questo, nel sito del Vaticano).

Dare senso alle parole

Esamineremo nelle prossime puntate di questa rubrica i tre termini, giubileo, misericordia e volto, allo scopo di scoprire su quale orizzonte ci vogliono collocare. Anche a costo di sembrare pedante, non rinuncerò ad assaporare le singole parole, in contrasto con un ambiente culturale superficiale che sta svuotando la lingua del suo significato, che sta facendo correre all’umanità di oggi il rischio di trovarsi in futuro – sempre che già non si trovi – in una nuova Babele dove nessuno può comunicare con gli altri perché ciascuno dà a ogni parola significati diversi (cf Gen 11,1-9).

Oggi le parole sono trattate in modo violento e osceno, in un inverecondo «usa e getta». Dicono le statistiche che ogni giorno in Italia, tramite cellulare (solo messaggi) si trasferiscono non meno di un miliardo di parole, dando ragione all’anelito del poeta indiano Rabíndranáth Thákhur, occidentalizzato in Tagore (1861-1941): «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio».

Penso che solo gl’innamorati sappiano valorizzare il silenzio come comunicazione del profondo, perché solo essi sanno superare la barriera del tempo e vivere una dimensione di eternità stando insieme, e comunicare «senza parlare» perché la pienezza dei sentimenti vissuti e condivisi non possono essere espressi in insufficienti parole. Vi sono momenti ed emozioni che solo nell’estasi possono esprimersi ed essere compresi.

Se la parola non ha come contorno il silenzio, essa è solo un suono vuoto, o peggio perduto, e dovrebbero saperlo bene i cristiani che affermano di essere i testimoni del Lògos – la Parola per eccellenza – che diventa fatto/evento, in termine evangelico «carne», cioè fragilità (cf Gv 1,14). Per definire, oggi, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, si ricorre all’espressione «religioni del Libro», cioè della parola, non solo detta, ma sigillata nello scritto perché rimanga fissata a dare senso di marcia a chi ascolta e alle generazioni future. La parola scritta è garanzia e promessa verso il futuro perché trasmette lo stesso «significato» per dare un legame intimo alle generazioni distanti tra loro.

Dice la Mishnàh giudaica (VI, 1) che al crepuscolo della creazione, cioè la sera di venerdì, un momento prima che entrasse lo Shabàt . Sabato, giorno in cui «Dio si riposò», egli creò le lettere dell’alfabeto e le conservò con cura perché con esse avrebbe scritto sul monte Sinai la Toràh con i comandamenti e le norme dell’alleanza sponsale. Che idea geniale! Dio conclude la settimana della creazione con l’alfabeto e inaugura il riposo festivo conservando, anzi custodendo le parole del futuro. Si sottolinea così la preziosità non solo delle parole, ma anche delle singole lettere che non possono essere sciupate perché con esse possiamo dire chi siamo e possiamo andare oltre noi stessi comunicando con gli altri. Per questo motivo gli Ebrei usano scrivere il testo della Bibbia in ebraico, ponendo coroncine decorative su ogni singola lettera, pratica che in campo cristiano si è evoluta nell’arte dei codici miniati.

Il silenzio, parola suprema

Ascoltare il silenzio è la premessa per potere parlare quando ve n’è bisogno. I monaci che vivono nel silenzio sanno distinguere ogni minimo segnale, ogni piccolo fruscio, ogni suono infinitesimale perché nel silenzio il loro animo è educato all’importanza di ogni singola eco, come magistralmente mostra il film del regista tedesco Philip Gröning, «Il grande silenzio» (2005, girato nel monastero della Grand Chartreuse certosina di Grenoble).

Per approfondire, suggeriamo: H. J. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Queriniana, Brescia 2008. Philip Gröning, Il grande silenzio – Die Große Stille (2005), durata 162 m., durante i quali lo spettatore è immerso in una giornata monastica, partecipandovi attivamente, condotto per mano a immedesimarsi nei passi lenti e pacati dei monaci che di notte si avviano al coro e di giorno alle loro attività consuete. Il regista è capace di fare comprendere come la Parola diventa Regina perché vive sul trono del Silenzio.

Il Sapiente biblico che rivive la prima Pasqua dei suoi antenati, partecipa al terrore della Parola che, nel cuore del silenzio attonito dell’universo, piomba come una spada di morte per sterminare la desolazione della schiavitù:

«14Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, 15la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale,  guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile» (Sap 18,14-15).

Il Popolo di Dio redento dal Figlio, sperimenta invece «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) e riceve il «Lògos-Cae» da cui ascolta l’esegesi del Padre (Gv 1,14.18) perché è giunto il tempo in cui «una voce grida nel deserto» di preparare la via del Signore che viene (Mc 1,2). E davanti al Signore che parla e agisce sanando i malati si resta in silenzio, contempliamo la Parola che risana (Lc 14,4), e davanti a noi «si apre il settimo sigillo» della rivelazione dell’amore di Dio (Ap 8,1).

Nell’eco del silenzio interiore, proviamo a fare risuonare le tre parole della storia che stiamo raccontando: Giubileo, «Il Volto della Misericordia». Se saremo capaci di penetrare l’anima del Giubileo, saremo anche in grado di fare un cammino di grazia che ci aiuterà a rapportarci meglio con Dio, e forse a purificare lo stesso nome di Dio che spesso usiamo impropriamente, come arma contundente. Il Giubileo non è acquisire qualche «indulgenza» e mettersi l’anima in pace o assicurarsi un posto al sole, ma è un esodo faticoso e purificante che conduce dal deserto della schiavitù dell’individualismo e dell’egoismo alla terra promessa della comunione con gli uomini e le donne e con Dio. È un cammino di fede che esige la «conversione» nel senso espresso dal Vangelo di Mc: «Metanoèite kài pistèuete en t? euanghelìou – cambiate modo di pensare e credete “nel” Vangelo» (Mc 1,15).

La «conversione» di cui parla Marco non è un tocco di belletto, ma una radicale incisione nei criteri del pensiero, là si formulano le ragioni del nostro agire e delle nostre scelte: è un ribaltamento, una inversione a «U» del nostro modo di ragionare per immergerci nell’acqua fresca del Vangelo che qui è sinonimo della Persona di Gesù. Non si crede in un libro o in una teoria, ma si crede in una Persona perché essa garantisce con la propria esistenza e con la propria vita, vissuta quotidianamente.

L’occasione del Giubileo della Misericordia è l’occasione propizia per ciascuno di noi di scoprire il senso della propria «parola», della propria esistenza, di «stare in silenzio», coltivando il silenzio interiore, riducendo la dispersione e la vacuità (tv, chiacchiere, letture inutili, ecc.) e fare spazio all’alito dello Spirito che c’invita alla circoncisione del cuore. Nella prossima puntata esamineremo le prime tre parole chiave: Giubileo, Misericordia e Volto.

Paolo Farinella prete

(2, continua)

Paolo farinella