I Perdenti 9. Mons. Vincent Prennushi


Una delle persecuzioni contemporanee più feroci contro le confessioni religiose di ogni tipo fu perpetrata, a pochi chilometri dalle coste italiane, in Albania. Con la presa del potere da parte del regime di Enver Hoxha nel 1944, musulmani, ebrei, cristiani ortodossi e cattolici, furono presi di mira affinché sparisse ogni traccia di sentimento religioso nel popolo albanese. Hoxha voleva fare dell’Albania «il primo stato ateo del mondo». Con il consolidamento del potere in tutti i gangli della società del popolo albanese, l’accanimento contro le comunità e le persone che vivevano una loro fede divenne durissimo, e in modo particolare i cattolici furono considerati gli avversari più pericolosi del regime. Sull’Albania calò così una cappa pesante che bloccò ogni relazione con il mondo esterno. La piccola nazione illirica divenne praticamente un lager a cielo aperto, nonostante avesse sviluppato nei secoli un profondo senso di identità grazie a Giorgio Castriota Scanderberg, una delle figure europee più rappresentative del XV secolo, precursore dell’indipendenza albanese, che difese l’Albania, nonché l’Europa e i suoi valori religiosi cristiani, dall’invasione ottomana. Per tale motivo ottenne da Papa Callisto III gli appellativi di Atleta di Cristo e Difensore della Fede ed è considerato l’eroe nazionale.

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale migliaia di credenti di ogni confessione furono imprigionati, torturati e moltissimi di loro uccisi. La Chiesa cattolica pagò un prezzo altissimo alla follia di un regime ateo e sanguinario che vedeva in ogni pratica religiosa e in ogni persona di fede un nemico dello stato. Con questa intervista ideale a mons. Nikolle Vinçenc (Vincent) Prennushi, arcivescovo di Durazzo, nato a Scutari nel 1885, vittima della persecuzione del regime comunista nel marzo del 1949, alziamo il velo su una storia di sofferenza e martirio consumata negli scorsi decenni alle porte di casa nostra.

Caro mons. Prennushi, pur essendo noi italiani così vicini geograficamente alla sua terra, conosciamo ben poco della vostra storia, ci vuole dire qualcosa dell’Albania?

L’Albania è una piccola nazione che si affaccia sul mare Adriatico situata a ridosso dei Balcani. Il suo popolo non va confuso con quelli circostanti: serbi, montenegrini, macedoni, ecc., né tanto meno con i greci. Siamo i discendenti degli antichi illirici, per meglio dire degli abitanti di quella zona che sotto l’impero Romano era denominata Illiricum. La nostra bandiera rossa con un’aquila a due teste sta a significare che dobbiamo difendere i nostri confini sia da una parte che dall’altra.

Però durante i secoli l’Albania è diventata un crogiuolo di razze e una mescolanza di religioni non indifferente.

Con l’andar del tempo il cemento unificante del nostro popolo, al di là delle etnie o delle religioni, divenne la lingua, difatti i serbi usano l’alfabeto cirillico mentre i greci ancora oggi usano il loro tipico alfabeto, noi abbiamo voluto mantenere l’alfabeto latino. Questo non è poca cosa perché già nello scrivere affermiamo la nostra identità.

Il cristianesimo si diffuse in Albania fin dai primi secoli?

San Paolo affermò di aver predicato il Vangelo nell’Illiria (Rom 15,19), qualcuno dice che passò anche per Durazzo, ma l’evangelizzazione vera e propria fu portata avanti da missionari inviati da Roma e da Costantinopoli. Non dimenticate che la via Egnatia, che univa le due capitali, attraversava tutta l’Albania.

Come mai in Albania c’è una presenza di confessioni cristiane diverse?

La maggioranza degli albanesi che vivevano al Nord, dopo lo scisma d’Oriente del 1054, rimasero fedeli alla Chiesa di Roma, mentre gli albanesi del Sud entrarono nell’orbita della Chiesa ortodossa bizantina che faceva capo a Costantinopoli.

Ma nonostante questa divisione entrambe le comunità resistettero impavidamente contro i tentativi ottomani di occupare l’Albania.

Scanderberg riuscì a tenere lontani i Turchi, ma dopo la sua scomparsa, l’influenza religiosa dell’ambiente islamico, la persecuzione contro i cristiani perpetrata da alcuni fanatici governatori e la politica ottomana che concedeva facili carriere civili e militari agli albanesi purché fossero musulmani, provocarono un graduale passaggio all’Islam di intere famiglie oltre che di interi villaggi.

Storicamente la presenza della Chiesa cattolica ha inciso nella cultura del popolo albanese?

Grazie alla protezione che l’Austria garantiva al clero e alle opere cattoliche, i francescani e i gesuiti aprirono diverse scuole in varie città, e con la geniale invenzione delle «missioni volanti» raggiunsero i luoghi più impervi delle montagne favorendo così un maggior fervore religioso e un’istruzione di base.

Quindi anche dal resto della popolazione albanese l’opera portata avanti dalla Chiesa cattolica era apprezzata?

Al momento dell’indipendenza dall’Impero ottomano a fine 1912, i cattolici godevano di un prestigio eccezionale, sia per il loro impegno nella lunga lotta di liberazione, sia per la loro elevatezza culturale. Si può dire che il cattolicesimo aveva dato l’impronta decisiva all’identità nazionale. I più grandi poeti, scrittori e giuristi albanesi erano in gran parte cattolici e quasi tutti appartenenti al clero.

Per dirla tutta, una situazione del genere stava sullo stomaco a un tipo come Enver Hoxha.

Non per niente questo tiranno si accanì come una furia contro i preti cattolici, ritenuti i maggiori ostacoli alla nuova ideologia. Per 46 anni (1944 – 1990) una dittatura spietata, ridusse il paese a una grande prigione. Due generazioni di albanesi sono cresciuti in un regime di terrore, in un clima di sospetto in cui non ci si poteva fidare di nessuno, neanche dei propri familiari per paura di essere denunciati.

Se a questo aggiungiamo anche la presenza ossessiva della «Sigurimi», la famigerata polizia segreta che controllava ogni aspetto della vita sociale e personale, abbiamo un’idea di come per oltre quarant’anni l’Albania abbia vissuto in un regime che definire terroristico è dir poco.

Il potere di Hoxha rase al suolo tutti i campanili esistenti in Albania, distrusse molte chiese e moschee e gli edifici di culto risparmiati da questa furia furono trasformati in sale di cultura, palestre, magazzini, qualcuno addirittura in stalla. Per non parlare dei singoli credenti che vennero incarcerati, perseguitati e torturati, molti inviati nei campi di lavoro, diversi fucilati, solo perché volevano continuare a vivere la loro fede.

Anche contro di te il regime si accanì con particolare durezza.

Nel 1945 ebbi un colloquio burrascoso con Enver Hoxha in cui lui mi chiese di formare una Chiesa nazionale antagonista alla Chiesa di Roma. In quegli anni ero il Primate della Chiesa cattolica in Albania, risposi che non potevo separarmi dalla sede di Pietro usando queste parole: «Un petalo non può restare staccato dal fiore al quale appartiene». La reazione fu forte, nel senso che rifiutarono l’ingresso al Nunzio Apostolico e io nel 1947 fui condannato a vent’anni di carcere duro.

Enver Hoxha fece altri tentativi di creare una Chiesa nazionale albanese?

Sì, ma anche tutti gli altri vescovi ribadirono la mia stessa posizione e furono tutti condannati ai lavori forzati. La comunità cattolica albanese, privata dei suoi pastori entrava in un tunnel oscuro vivendo una tragedia immane che è durata oltre quarant’anni.

Oltre alle celebrazioni liturgiche vennero proibite anche le cose più semplici legate alla fede.

Nella tradizione sia cattolica che ortodossa, nel periodo pasquale si dipingono con colori vivaci le uova sode che, dopo essere state benedette nelle messe di Pasqua, vengono consumate in famiglia e si scambiano con i vicini di casa. Ebbene gli insegnanti delle scuole elementari avevano il compito di chiedere ai bambini più piccoli, quindi per loro natura più innocenti, se in famiglia avevano dipinto le uova.

Così quei bambini diventavano dei delatori inconsapevoli.

Purtroppo sì. Subito dopo scattava il meccanismo dell’emarginazione totale della famiglia e, nei casi più gravi, i genitori «colpevoli di questi atti criminali» venivano indirizzati ai campi di rieducazione.

Con questo modo di operare, come si collacava l’Albania nel contesto internazionale?

Col passare degli anni pur entrando nell’orbita dei paesi socialisti, se ne distaccò progressivamente e ruppe addirittura con l’Unione Sovietica, mantenendo i legami solo con la Cina di Mao Tse Tung. La quale la utilizzò come grimaldello per entrare nelle Nazioni Unite. Fu infatti l’Albania che presentò all’Onu la richiesta cinese di essere ammessa nel consesso internazionale delle Nazioni Unite.

Quindi per l’Albania fu un periodo segnato da eventi importanti sul piano internazionale ma, per quanto riguarda la sua popolazione quei decenni furono tragici. La tua storia è emblematica.

Come ho già accennato, la furia distruttiva contro ogni espressione religiosa ebbe dei momenti tragici. Fin dal 1945 bersagli preferiti diventarono il clero e i fedeli: «Ogni fascista portatore di un vestito clericale deve essere ucciso con una pallottola in testa e senza processo», diceva uno dei motti del regime. Vescovi, preti e religiosi furono arrestati, malmenati in pubblico, torturati, fucilati, imprigionati e inviati nei campi di lavoro. Le suore furono obbligate a lasciare l’abito, quelle che rifiutavano venivano sottoposte al pubblico ludibrio e inviate ai lavori forzati. Molti di loro furono vittime di processi farsa che venivano diffusi via radio e riassunti in uno speciale la domenica mattina all’ora della messa con il titolo: «L’ora giorniosa».

Nonostante tutto quello che avete passato, mano a mano che i regimi comunisti dell’Europa dell’Est cadevano grazie al crollo del muro di Berlino, anche in Albania spirò un vento nuovo che fece uscire dalle catacombe i credenti perseguitati.

Pur con il controllo ferreo del regime sui mezzi d’informazione, attraverso le radio clandestine la popolazione albanese captò la notizia del crollo dei regimi comunisti europei. Con coraggio alcuni sacerdoti ripresero a dire Messa pubblicamente nei cimiteri e la gente accorreva a queste celebrazioni eucaristiche, finché anche in Albania crollò il regime ormai marcio di Enver Hoxha e iniziò il periodo democratico della sua storia che – grazie a Dio – continua ancora oggi.

Monsignor Vincent Prennushi morì di stenti, probabilmente il 19 marzo 1949, in un campo di prigionia dove era stato rinchiuso dopo un processo farsa, martire insieme a molti altri albanesi che non si piegarono al regime di Enver Hoxha, che affrontavano la morte al grido di: «Viva Cristo Re». Alla fine del 2002 è stato aperto il processo per la beatificazione dei Martiri Albanesi vittime della persecuzione religiosa durante gli anni della dittatura comunista. Sorprende come una comunità così piccola abbia dato alla Chiesa dei nostri giorni tanti martiri. Va segnalato inoltre che una delle figure più splendide del cattolicesimo del XX Secolo è l’albanese Agnese Gonxhe Bojaxhiu, meglio conosciuta come Madre Teresa di Calcutta.

Don Mario Bandera
Missio Novara

Mario Bandera




Lavorare nella cooperazione: miraggio o realtà?


Sono tanti i ragazzi che, freschi di laurea o in procinto di ottenere il titolo, avanzano candidature spontanee inviando email e curriculum alle organizzazioni che operano nella cooperazione. E, d’altro canto, l’offerta formativa delle università italiane negli ultimi quindici anni si è arricchita di corsi di laurea e master in cooperazione e solidarietà internazionale proprio per rispondere alla richiesta crescente di figure professionali adatte al lavoro nelle Ong o negli enti pubblici che si occupano di sviluppo. In questo numero vi proponiamo una panoramica sul fenomeno.

«Buongiorno, mi sono appena laureato e sarei interessato a un’esperienza di qualche settimana in Africa». È più o meno così che cominciano molte delle mail che giovani neolaureati o laureandi inviano alle Ong come la nostra per proporsi in qualità di volontari e collaboratori. La laurea – o il master – può essere in cooperazione, ma anche in medicina, scienze politiche, antropologia, scienze infermieristiche, ingegneria civile o altre discipline, e a scrivere sono ragazzi alla ricerca di esperienze sul campo che permettano loro di mettere in pratica quanto hanno appreso nel corso di studi. E, il che non guasta, consentano di aggiungere al curriculum una preziosa riga sotto la voce «esperienze lavorative», aumentando così le possibilità di assunzione da parte degli enti che richiedono, appunto, esperienza pregressa.

In molti casi, i ragazzi sembrano preferire una permanenza sul campo di qualche settimana, e magari il loro intento è quello di trascorrere un periodo nel Sud del mondo per chiarirsi le idee su che cosa scegliere per specializzarsi ulteriormente, una volta rientrati dal campo. Non sono rare, tuttavia, le manifestazioni di disponibilità per esperienze più lunghe, di mesi o anche anni.

La cooperazione, almeno dai primi anni Duemila, è entrata in modo piuttosto deciso all’interno delle aule universitarie: i master su questo tema sono ormai numerosi e la loro offerta formativa spesso si completa con la possibilità di fare tirocini sul campo presso organizzazioni convenzionate con le università. In questi casi l’entrata nel mondo del lavoro è, se non più facile, almeno più regolata.

I numeri: chi lavora nella cooperazione

Ma vediamo un po’ di numeri sul lavoro nella cooperazione. Secondo il più recente censimento Industria e Servizi dell’Istat, nel 2011 la cooperazione e solidarietà internazionale – inteso dall’Istituto di Statistica come sotto settore del non profit – poteva contare su oltre 3.500 istituzioni attive con circa 1.800 dipendenti, quasi tremila collaboratori e poco meno di ottantamila volontari. Sempre secondo lo stesso studio, rispetto a dieci anni prima la cooperazione ha visto raddoppiare gli addetti del settore, più che raddoppiare i volontari e aumentare del 148% – da 1.400 a 3.500 circa – il numero di enti attivi.

Altri dati indicativi si possono ottenere da Siscos – Servizi per la cooperazione, un’associazione senza fini di lucro che fornisce a chi si occupa di cooperazione internazionale assistenza, informazione e consulenza per quanto riguarda la gestione delle risorse umane. Fra i servizi che Siscos offre c’è quello delle coperture assicurative per gli operatori delle Ong, buon indicatore del movimento di addetti che gravita nel mondo nella cooperazione per quanto riguarda le assegnazioni a incarichi all’estero. Fra le pubblicazioni Siscos c’è Un mestiere difficile, dossier dedicato appunto lavoro del cooperante. Confrontando il numero di operatori assicurati annualmente da Siscos dal 2006 al 2014 emerge che a partire sono circa seimila persone all’anno, sebbene con una lieve flessione negli ultimi anni (nel 2014 gli assicurati Siscos sono stati 5.773, mentre nel 2011 erano 6.392).

Il primo dei dossier, relativo ai dati 2006, riportava l’incremento degli operatori per anno: dai 601 operatori del 1976 si era passati agli oltre cinquemila del 2006 e fra il 1996 e il 2006 si era registrato un incremento nell’ordine del 150%, dato che sembra confermare il trend emerso dai dati Istat visti sopra.

La professione si è, nel frattempo, specializzata, poiché se negli anni Settanta a partire erano solo volontari «generici», un trentennio dopo a essere assegnati sul campo erano collaboratori e cooperanti, cioè figure professionali definite, e volontari, non più «generici», inquadrati insieme ai cooperanti nella vecchia legge sulla cooperazione (la 49/87), regolarmente stipendiati.

Nel dossier 2014, la suddivisone in fasce d’età vede prevalere gli operatori fra i 31 e i 40 anni, pari a poco meno di un terzo del totale. La fascia fra i 19 e i 25 include tredici su cento degli assicurati e quella dai 26 ai 30 il 17 per cento. La suddivisone fra maschi e femmine è quasi alla pari, con una leggera prevalenza delle donne.

I numeri: chi cerca di entrare nel settore

Vediamo ora il versante del primo ingresso nella cooperazione, a partire dagli studi e cominciando dall’offerta formativa disponibile nelle Università per chi desidera studiare cooperazione.

Universitaly, il portale del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur), elenca otto corsi di laurea di primo livello (triennale) in altrettanti atenei, e quindici corsi di secondo livello (biennale) in tredici Università. Quanto ai master, uno studio del ministero degli Affari esteri del 2007 ne contava oltre sessanta.

L’anagrafe nazionale studenti del Miur per il 2013/2014 riporta 408 laureati al corso di secondo livello in Scienze per la cooperazione allo sviluppo. Quattro anni prima erano 151. Il consorzio interuniversitario Almalaurea, che rappresenta circa il novanta per cento dei laureati italiani, effettua regolari indagini sulla loro condizione occupazionale. Per quanto riguarda chi ha completato il percorso di studi di secondo livello in cooperazione, dal campione di laureati analizzato per il 2014, a un anno dalla laurea, risulta che 114 su 254 intervistati hanno un impiego. Il non profit assorbe un quarto degli occupati, mentre oltre il 60% lavora nel privato e circa uno su dieci nel pubblico. Uno su quattro degli intervistati dice di usare molto, nel suo attuale lavoro, le competenze acquisite con gli studi mentre il 44 per cento non le utilizza per niente. Uno su tre giudica utile la propria laurea magistrale nello svolgere la propria attività lavorativa, mentre il 77 per cento sostiene che era sufficiente una laurea di primo livello o anche un titolo non universitario. Lo stipendio medio è poco meno di 1000 euro, con un divario notevole fra uomini e donne. I primi infatti percepiscono circa 1.300 euro contro i meno di novecento delle colleghe.

Per i giovani intervistati sempre nel 2014, ma laureati da cinque anni, la situazione appare meno difficile: a lavorare è il 70 per cento; la quota di chi lavora nel non profit rimane praticamente invariata (quasi il 27%), mentre il venti è impiegato nel settore pubblico e oltre il cinquanta nel privato. Si dimezza, inoltre, la percentuale di persone che non usa per niente le conoscenze ottenute grazie alla laurea e lo stipendio aumenta a poco meno di 1.300 euro: 1.479 per i maschi e 1.184 per le femmine.

Questi dati sono ovviamente molto parziali poiché si concentrano solo su chi ha scelto la cooperazione come percorso di studi specialistici e non tiene in considerazione chi invece arriva a lavorare in questo ambito per altre vie. Basta pensare a quanti medici, infermieri, economisti, antropologi, ingegneri sono attivi nei progetti realizzati sul campo – quindi a tutti gli effetti operatori del settore – per capire che gli studi in cooperazione non sono certo l’unico canale di entrata nel mondo dello sviluppo.

Emerge tuttavia un quadro nel quale i ragazzi che hanno via via scelto la cooperazione per il loro percorso di formazione è aumentato più o meno con gli stessi ritmi di crescita degli enti che si occupano di questo tema. Purtroppo l’entrata di questi laureati nel mercato del lavoro appare non impossibile ma certamente non immediata.

In rete sono molti i siti che cercano di fornire indicazioni utili per chi intende intraprendere da professionista la strada della solidarietà internazionale: dalle federazioni di Ong – che propongono spesso loro stesse master e percorsi formativi – alle università, ai blog individuali di cooperanti e addetti ai lavori, non è difficile farsi un’idea delle caratteristiche e delle difficoltà di questo lavoro. La prima di queste indicazioni è molto chiara: essere buoni non basta, occorre avere un’elevata professionalità e dotarsi di conoscenze tecniche precise. Queste conoscenze hanno a che fare con la gestione del ciclo di progetto, ma è bene tenere in considerazione anche tutta quella serie di competenze delle quali qualunque organizzazione necessita a prescindere dal settore in cui opera: amministratori, logisti, informatici, non hanno meno probabilità di venire reclutati da una Ong, anzi. Per rendersene conto basta dare un’occhiata alle offerte di lavoro sulla bacheca Volint  – da anni punto di riferimento in Italia per chi cerca lavoro nella cooperazione – o sulla pagina della vacancy di Lavorare nel mondo. Altro aspetto importante è ovviamente quello delle lingue, indispensabili per lavorare in un ambito come quello dello sviluppo che è per sua stessa natura internazionale. L’inglese prima di tutto, certo, ma senza dimenticare le altre lingue parlate nei paesi in cui si fa cooperazione, comprese quelle locali.

Chiara Giovetti


Che cosa non fare: avventurieri e improvvisatori

The Volontourist è un documentario uscito quest’anno per far riflettere sul fenomeno del «volonturismo» – termine nato dall’unione di «volontariato» e «turismo» -, sul business creatosi intorno a esso e sui danni che rischia di generare nei luoghi in cui arriva.

La campagna di raccolta fondi della Ong francese Solidarité Inteationale presenta in tre video i colloqui con potenziali volontari (interpretati da attori) che danno voce ai peggiori stereotipi legati alla cooperazione. «Non ho esperienza nell’umanitario», dice una ragazza con abiti e gioielli etnici che si offre come volontaria, «ma ne ho già parlato con mia cugina, ho fatto tantissimo la baby sitter e poi un bambino che muore di fame è come un bambino normale, ha bisogno d’amore. Qui ho un cuore e il cuore è fatto per dare amore alla gente». «Posso aiutare a fare delle iniezioni», propone invece un pensionato in un altro dei tre video, «non le ho mai fatte, ma ci posso provare». (Ch.Gio.)




Storia del Giubileo 2. Riscoprire il senso delle parole


Nella puntata precedente (cf MC 10/2015) ho presentato il Papa che ha indetto il Giubileo della Misericordia e ho anche accennato alle novità che egli ha portato con semplicità e mitezza, venendo «dalla fine del mondo» per assumere lo stesso stile pacato e «buono» di Papa Giovanni XXIII che, l’11 ottobre 1962, inaugurò il concilio ecumenico Vaticano II col medesimo programma di Gesù nel Vangelo di Luca: «L’anno di grazia» (cf Lc 4,19):

«Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odiee, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» (Gaudet Mater Ecclesia, 7.2).

«La medicina della misericordia» è il commento cristiano al «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). È il vino e l’olio che il Samaritano versò sulle ferite dell’uomo incappato nei briganti e lasciato per strada mezzo morto (Lc 10,34). In altre parole è la medicina per curare le ferite e ridare dignità a chi è stato umiliato.

Maschile, femminile e neutro

Papa Francesco su questo punto non ha dubbi:

«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso. La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia» (A. Spadaro, Sj, «Intervista a Papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, 2013 III, pp. 449-477 | 3918 [19 settembre 2013], qui pp. 461-462).

È insegnamento comune della Chiesa (e anche del buon senso), sintetizzato da san Tommaso in una massima di grande effetto: «Prima la vita, poi la dottrina – Prius autem est bene vivere quam bene docere» (san Tommaso d’Aquino, Catena in Mt, cap. 5,1-11). La «misericordia» dice che la Chiesa non può andare nel mondo alla conquista di proseliti, ma deve stare «nel» mondo sapendo di non essere «del» mondo (cf Gv 17,11.15-16) per affermare con la vita e le sue scelte la «signoria» di Dio e il primato di Cristo, anzi della sua «Agàp?» che è amore a perdere, cioè donarsi senza chiedere in cambio nulla.

Papa Francesco ha intitolato la Bolla d’indizione del Giubileo «Misericordiae Vultus», parole che meritano una riflessione non superficiale, un’attenzione di stampo esegetico. Sono tre parole: «Giubileo» (in latino Iubiléum), «Misericordiae – della Misericordia» e, infine, «Vultus – Volto/faccia/viso»; tre parole, tre sostantivi: uno neutro (Iubiléum), uno femminile (Misericordiae) e uno maschile (Vultus), quasi ad assommare l’intera creazione, ciò che è animato (maschile e femminile) e ciò che è inanimato (neutro), perché l’istituto del Giubileo riguarda non solo le persone e le relazioni tra loro, ma anche la terra, le piante, le cose. Nulla può essere escluso dalla sua sfera di giustizia e di grazia.

Se, infatti, il maschile e femminile fanno riferimento alle due componenti essenziali alla vita e alla conservazione della specie, il neutro ci porta nel cuore della terra che la norma del Giubileo tratta come «una persona» dal momento che non può essere sfruttata senza limiti, ma solo per lo stretto necessario alla vita. Il Giubileo riguarda tutti e tutto, senza distinzione di ruoli, di sessi, di funzioni. Riguarda gli animali, e quella che Papa Francesco chiama la «casa comune», la Madre Terra, cui ha dedicato la sua ultima enciclica «Laudato si’», che ha come sottotitolo appunto «Enciclica sulla cura della casa comune», non a caso pubblicata il 24 maggio 2015, giorno in cui la liturgia cattolica ha fatto memoria solenne del giorno di Pentecoste, il giorno dell’esplosione dello Spirito che secondo la profezia di Gioele «è effuso su ogni carne – ‘al kol basàr» cioè su tutto ciò che ha una qualsiasi forma di alito di vita (Gl 3,1).

Per approfondire in modo sistematico il termine «misericordia», suggeriamo la lettura di Paolo Farinella, Il Padre che fu Madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR) 2010, dove la parola è rintracciata in tutta la Bibbia e nei diversi contesti, ed è sviscerata in modo particolare in Lc 15, pericope in cui si espone la parabola appunto del Padre che fu Madre nei confronti di un figlio senza ritegno e senso della vita. Si consiglia inoltre di leggere il testo della Bolla d’indizione del Giubileo, «Misericordiae Vultus», di Papa Francesco (reperibile sul sito https://w2.vatican.va).
È anche opportuno leggere l’ultima enciclica di Francesco, «Laudato si’» che con parole semplici e ragionamenti non specialistici fa un’impressionante fotografia della situazione reale della Terra, e quindi del genere umano, richiamando ciascuno alle proprie responsabilità (il testo della lettera enciclica è reperibile in qualsiasi libreria, pubblicata da diverse case editrici o, anche questo, nel sito del Vaticano).

Dare senso alle parole

Esamineremo nelle prossime puntate di questa rubrica i tre termini, giubileo, misericordia e volto, allo scopo di scoprire su quale orizzonte ci vogliono collocare. Anche a costo di sembrare pedante, non rinuncerò ad assaporare le singole parole, in contrasto con un ambiente culturale superficiale che sta svuotando la lingua del suo significato, che sta facendo correre all’umanità di oggi il rischio di trovarsi in futuro – sempre che già non si trovi – in una nuova Babele dove nessuno può comunicare con gli altri perché ciascuno dà a ogni parola significati diversi (cf Gen 11,1-9).

Oggi le parole sono trattate in modo violento e osceno, in un inverecondo «usa e getta». Dicono le statistiche che ogni giorno in Italia, tramite cellulare (solo messaggi) si trasferiscono non meno di un miliardo di parole, dando ragione all’anelito del poeta indiano Rabíndranáth Thákhur, occidentalizzato in Tagore (1861-1941): «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio».

Penso che solo gl’innamorati sappiano valorizzare il silenzio come comunicazione del profondo, perché solo essi sanno superare la barriera del tempo e vivere una dimensione di eternità stando insieme, e comunicare «senza parlare» perché la pienezza dei sentimenti vissuti e condivisi non possono essere espressi in insufficienti parole. Vi sono momenti ed emozioni che solo nell’estasi possono esprimersi ed essere compresi.

Se la parola non ha come contorno il silenzio, essa è solo un suono vuoto, o peggio perduto, e dovrebbero saperlo bene i cristiani che affermano di essere i testimoni del Lògos – la Parola per eccellenza – che diventa fatto/evento, in termine evangelico «carne», cioè fragilità (cf Gv 1,14). Per definire, oggi, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, si ricorre all’espressione «religioni del Libro», cioè della parola, non solo detta, ma sigillata nello scritto perché rimanga fissata a dare senso di marcia a chi ascolta e alle generazioni future. La parola scritta è garanzia e promessa verso il futuro perché trasmette lo stesso «significato» per dare un legame intimo alle generazioni distanti tra loro.

Dice la Mishnàh giudaica (VI, 1) che al crepuscolo della creazione, cioè la sera di venerdì, un momento prima che entrasse lo Shabàt . Sabato, giorno in cui «Dio si riposò», egli creò le lettere dell’alfabeto e le conservò con cura perché con esse avrebbe scritto sul monte Sinai la Toràh con i comandamenti e le norme dell’alleanza sponsale. Che idea geniale! Dio conclude la settimana della creazione con l’alfabeto e inaugura il riposo festivo conservando, anzi custodendo le parole del futuro. Si sottolinea così la preziosità non solo delle parole, ma anche delle singole lettere che non possono essere sciupate perché con esse possiamo dire chi siamo e possiamo andare oltre noi stessi comunicando con gli altri. Per questo motivo gli Ebrei usano scrivere il testo della Bibbia in ebraico, ponendo coroncine decorative su ogni singola lettera, pratica che in campo cristiano si è evoluta nell’arte dei codici miniati.

Il silenzio, parola suprema

Ascoltare il silenzio è la premessa per potere parlare quando ve n’è bisogno. I monaci che vivono nel silenzio sanno distinguere ogni minimo segnale, ogni piccolo fruscio, ogni suono infinitesimale perché nel silenzio il loro animo è educato all’importanza di ogni singola eco, come magistralmente mostra il film del regista tedesco Philip Gröning, «Il grande silenzio» (2005, girato nel monastero della Grand Chartreuse certosina di Grenoble).

Per approfondire, suggeriamo: H. J. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Queriniana, Brescia 2008. Philip Gröning, Il grande silenzio – Die Große Stille (2005), durata 162 m., durante i quali lo spettatore è immerso in una giornata monastica, partecipandovi attivamente, condotto per mano a immedesimarsi nei passi lenti e pacati dei monaci che di notte si avviano al coro e di giorno alle loro attività consuete. Il regista è capace di fare comprendere come la Parola diventa Regina perché vive sul trono del Silenzio.

Il Sapiente biblico che rivive la prima Pasqua dei suoi antenati, partecipa al terrore della Parola che, nel cuore del silenzio attonito dell’universo, piomba come una spada di morte per sterminare la desolazione della schiavitù:

«14Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, 15la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale,  guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile» (Sap 18,14-15).

Il Popolo di Dio redento dal Figlio, sperimenta invece «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) e riceve il «Lògos-Cae» da cui ascolta l’esegesi del Padre (Gv 1,14.18) perché è giunto il tempo in cui «una voce grida nel deserto» di preparare la via del Signore che viene (Mc 1,2). E davanti al Signore che parla e agisce sanando i malati si resta in silenzio, contempliamo la Parola che risana (Lc 14,4), e davanti a noi «si apre il settimo sigillo» della rivelazione dell’amore di Dio (Ap 8,1).

Nell’eco del silenzio interiore, proviamo a fare risuonare le tre parole della storia che stiamo raccontando: Giubileo, «Il Volto della Misericordia». Se saremo capaci di penetrare l’anima del Giubileo, saremo anche in grado di fare un cammino di grazia che ci aiuterà a rapportarci meglio con Dio, e forse a purificare lo stesso nome di Dio che spesso usiamo impropriamente, come arma contundente. Il Giubileo non è acquisire qualche «indulgenza» e mettersi l’anima in pace o assicurarsi un posto al sole, ma è un esodo faticoso e purificante che conduce dal deserto della schiavitù dell’individualismo e dell’egoismo alla terra promessa della comunione con gli uomini e le donne e con Dio. È un cammino di fede che esige la «conversione» nel senso espresso dal Vangelo di Mc: «Metanoèite kài pistèuete en t? euanghelìou – cambiate modo di pensare e credete “nel” Vangelo» (Mc 1,15).

La «conversione» di cui parla Marco non è un tocco di belletto, ma una radicale incisione nei criteri del pensiero, là si formulano le ragioni del nostro agire e delle nostre scelte: è un ribaltamento, una inversione a «U» del nostro modo di ragionare per immergerci nell’acqua fresca del Vangelo che qui è sinonimo della Persona di Gesù. Non si crede in un libro o in una teoria, ma si crede in una Persona perché essa garantisce con la propria esistenza e con la propria vita, vissuta quotidianamente.

L’occasione del Giubileo della Misericordia è l’occasione propizia per ciascuno di noi di scoprire il senso della propria «parola», della propria esistenza, di «stare in silenzio», coltivando il silenzio interiore, riducendo la dispersione e la vacuità (tv, chiacchiere, letture inutili, ecc.) e fare spazio all’alito dello Spirito che c’invita alla circoncisione del cuore. Nella prossima puntata esamineremo le prime tre parole chiave: Giubileo, Misericordia e Volto.

Paolo Farinella prete

(2, continua)

Paolo farinella




Sufismo imprigionato


Il sufismo, considerato spesso come una corrente estea all’islam e, allo stesso tempo, come un pericolo per l’unità della comunità islamica, ha una lunga storia di persecuzione. Il caso della Turchia è emblematico: i sufi, oltre a essere osteggiati nei secoli passati da un punto di vista religioso, subirono anche una persecuzione di tipo secolarista e laicista a partire dal 1925. La libertà vigilata imposta al sufismo è forse uno dei segni della sua irriducibile vitalità.

Che il sufismo abbia una storia di persecuzioni è un fatto certo. Il motivo è forse che, nella maggioranza dei casi, esso viene considerato come una corrente estea all’islam. Infatti, il vero dramma dell’islam, oggi come in altre epoche, è quello di non saper mantenere al proprio interno, nel proprio alveo, tutte le tendenze, le correnti, i movimenti religiosi, e questo provoca l’assolutizzazione del monismo già insito nell’idea del Dio uno e unico. Questo è un punto fondamentale per comprendere tutta la vicenda attuale dell’islam: la religione del Profeta si fonda sulla rivelazione coranica, che è il messaggio divino rivelato a Muhammad per il tramite dell’arcangelo Gabriele. Ora, il contenuto rivelato è quello di un monoteismo assoluto, radicale, cioè dell’unità e dell’unicità di Dio. Dio è il più grande, il Sussistente, l’Onnipotente, il Misericordioso, proprio perché – si potrebbe dire – è Uno e l’Unico.

Se volessimo provare a fare un paragone con il cristianesimo, allo scopo di percepire meglio tutta la realtà e anche la differenza del monoteismo musulmano rispetto a quello cristiano, potremmo affermare che, quando noi cristiani professiamo nel credo niceno-costantinopolitano di credere «in un solo Dio, Padre onnipotente…», diciamo di credere in un Dio che è unico, ma è anche Padre, Figlio e Spirito Santo. Per i cristiani l’unità di Dio non è intaccata dal fatto che Dio al suo interno sia Trinità di persone. Per il cristiano Dio è uno, ma in tre persone. Il fatto che Dio nel suo seno sia Trinità costituisce agli occhi dell’islam un indebolimento dell’unità e unicità suprema di Dio. Per un cristiano è quasi necessario partire dalla propria esperienza del Dio trinitario per intuire che cosa significhi il monoteismo radicale dell’islam: un Dio che al suo interno non ha relazioni di persone.

È interessante sottolineare la suprema legge dell’unità divina, perché essa plasma tutti gli ambiti della dottrina e della vita religiosa, nonché politica, della società musulmana. Tutto ciò che appare contrario alla suprema legge dell’unità deve essere impedito e proibito. Ed è a questo proposito che il caso del sufismo diventa interessante e al contempo estremamente simbolico.

Eterodossi e perseguibili

Il sufismo, in sé non ha nessuna idea che possa davvero sconvolgere la dottrina dell’islam, non contiene nessun elemento che sia contro la bontà della religione del Profeta. Esso propone piuttosto una via di realizzazione pratica e spirituale del messaggio dell’islam. Nella storia di questa religione però, in numerosi casi, i sufi e, più in generale, il sufismo, sono stati considerati come elementi eterodossi e quindi anche perseguibili. Perché? Da un lato, il fatto che esistano dei gruppi, delle organizzazioni spirituali musulmane, che sono parte dell’islam, ma che si costituiscono in maniera autonoma e più libera, suscita il timore di un indebolimento dell’unità della comunità islamica, immagine dell’unità divina. La diffusione delle confrateite sufi è quindi interpretata come un attentato alla compattezza dell’islam «ufficiale». Da un altro lato, dal punto di vista dottrinale, l’islam che si ritiene portatore dell’unica interpretazione – a partire dal wahhabismo – rifiuta la dottrina della totale purificazione in Dio, dell’annientamento della persona nell’unità divina (fanâ’). La dottrina sufi dell’annientamento in Dio infatti pone la questione dell’aldilà: come è possibile alla creatura, se si annienta totalmente nell’oceano dell’unità divina, permanere ancora nella sua esistenza di oggi e in quella futura? Questo punto ha sollevato non pochi sospetti, e per questo motivo i sufi l’hanno spiegato attraverso il concetto di permanenza (baqâ’) dell’essere anche dopo l’annientamento. Ricordiamo a questo proposito il celebre al-Hallâj (m. 922) che – secondo un’interpretazione in voga – fu decapitato e poi ridotto in cenere per aver affermato «Ânâ al-Hâqq», cioè: «Io sono la Verità divina, la realtà suprema, Dio». Questa affermazione e altre simili hanno destato più di un sospetto: come è possibile che un sufi si proclami Dio?

Il sufi che pronuncia una frase simile è un mistico, un uomo che ha raggiunto una «trasparenza» spirituale tale da farlo sentire identificato con la divinità. Un’affermazione come quella di al-Hallâj è il riflesso più compiuto del messaggio coranico «non c’è divinità all’infuori di Dio» (lâ ilâha illâ Allâh): se non esiste null’altro al di fuori di Dio, anche io – il soggetto – non sono se non in Dio, quindi io sono Dio. È Dio la realtà suprema, anzi è l’unica vera realtà e tutte le altre sono quasi un soffio, una semplice apparenza di quella suprema verità.

Questo approccio, benché sia fondamentalmente un riflesso del credo islamico, incute timore, e, di fatto, le molteplici persecuzioni e vessazioni nei confronti dei sufi del passato e attuali ne sono la conseguenza.

I timori diventano crociate

Se questo nucleo più mistico pone qualche difficoltà di comprensione, sono sicuramente i riti iniziatici del sufismo che sollevano la maggior parte dei dubbi negli altri musulmani. I timori allora diventano vere e proprie crociate contro i simboli sufi. Nella storia del sufismo sotto l’Impero ottomano si incontrano diverse interpretazioni contrarie alla pratica del sufismo.

Nel XVII secolo, l’Impero ottomano nella sua figura più importante, quella del Sultano, è impegnato a risollevare le sue sorti militari e politiche, e la ragione del declino viene attribuita ai riti, considerati deviati e devianti, del sufismo, in particolare la pratica dei pellegrinaggi alle tombe dei «santi» sufi, la pratica della ripetizione del nome di Dio (dhikr) e la danza rituale (semâ‘).

Una certa interpretazione islamica rigorista dell’epoca fece sì che fosse attribuita la responsabilità delle difficoltà geopolitiche dell’Impero proprio ai sufi e ai loro rituali: nel 1666, i predicatori musulmani (vâiz) intransigenti che officiavano presso la Sublime porta, insieme ai rappresentanti di più d’una corporazione dei mestieri, riuscirono, con un abile colpo di mano, a far proibire dal sultano tutti i riti sufi e in special modo il semâ‘. Si dice che tra i dervisci danzanti, i mevlevî o discepoli di Mevlânâ Rûmî (m. 1273), ne morirono centinaia a causa della tristezza per il fatto di non poter più praticare la danza rituale così importante nella vita del sufi. L’interdetto durò per circa sedici anni, ma già a distanza di un solo anno i dervisci ripresero a eseguire il rituale del quale non potevano fare a meno. Prima del 1666, alcuni sufi furono addirittura condannati a morte per le loro affermazioni e prese di posizione ostili al potere politico1. In generale, la storia ottomana conta un’evoluzione sfavorevole al sufismo, a partire dal XVI secolo, con una ripresa nel XIX secolo, fino alla sua conclusione, con l’inizio della Repubblica di Turchia nel 19252.

Le politiche antisufi dilagano

Se il XVII secolo significò una svolta nella politica religiosa ottomana, anche nelle vicine regioni arabe avvenne qualcosa di importante. Nell’Arabia del XVIII secolo apparve la figura di punta del movimento antisufi, denominato Wahhabismo, movimento che oggi tutti conoscono a causa delle sue ulteriori riforme: il salafismo e, purtroppo, al-Qaeda e l’Isis. Tutte queste interpretazioni dell’islam sono esplicitamente contrarie alla diffusione del sufismo e delle pratiche sufi, e non solo sono contrarie dottrinalmente, ma fanno della lotta al sufismo un vero e proprio cavallo di battaglia nella loro politica religiosa e addirittura militare, come nel caso dell’Isis.

In altri contesti, il sufismo ha anche subito colpi di arresto, come per esempio in Egitto, con la proibizione di pubblicare le opere del grande mistico Ibn ‘Arabî (m. 1240). In Turchia, nel 1925, Atatürk e l’Assemblea nazionale bandirono gli ordini sufi e tutti i loro maestri, e confiscarono i beni immobiliari loro appartenenti. Questo bando stravolse le antiche modalità di vita del sufismo turco ereditate dalla tradizione ottomana. Il caso dei cosiddetti dervisci danzanti è quanto mai indicativo di questa situazione. Se nell’antichità ottomana, e prima ancora selgiuchide, i mevlevî godevano della libertà di formarsi all’interno dei loro conventi sufi (tekke) senza alcun problema, con il potere politico che li favoriva, dopo il 1925 ogni ordine sufi, e specialmente i dervisci danzanti, dovettero lasciare il suolo turco per poter continuare a «esibirsi» nel loro rituale di danza. A dire la verità, non solo la danza poneva problema, ma ancora di più la formazione stessa che prevedeva almeno 1001 giorni di disciplina comune sotto la guida severa e ferma di un maestro3. Per tre anni, i dervisci danzanti vivevano in comunità, e i novizi erano formati nelle grandi cucine del convento di Konya, l’antica Iconium di San Paolo. Con la soppressione di tutti gli ordini sufi, è chiaro che questa disciplina veniva inesorabilmente a decadere e, insieme a questa, anche la classica e autentica formazione.

La diaspora

Un certo numero di dervisci lasciò la Turchia e si rifugiò nei Balcani, a Cipro e in ultima istanza anche negli Stati Uniti. Un esempio su tutti: il gran maestro sufi dei Bektashi, compagine legata al corpo d’armata del sultano (i famosi giannizzeri), lasciò la Turchia per l’Albania e poi si ritirò negli Stati Uniti dove ancora oggi si trova un centro importante. Altri ordini sufi, come i Naqshbandî riuscirono a sopravvivere quasi indenni perché il loro modo di formazione non richiedeva una visibilità particolare. Di fatto, questo gruppo è quello che permane ancora oggi in Turchia e altrove come uno dei più influenti di tutto il mondo sufi all’interno dell’universo musulmano.

La legge del settembre del 1925 varata dalla Grande Assemblea di Turchia e applicata a partire dal dicembre seguente, prevedeva addirittura il carcere per tutti coloro che tentassero la riapertura di uno degli spazi sufi (conventi, tombe, complessi) presenti sul territorio di Turchia. La legge prevedeva non solo il carcere, ma anche una salata multa. In certi casi si imponeva il confino e l’esilio, come nel caso del celebre maestro sufi Said Nursî (m. 1960), che fu osteggiato durante tutta la sua vita. Non va però taciuto che il numero di conventi sufi nella sola città di Istanbul alla vigilia della soppressione, ha un che di inquietante: ce n’erano più di trecento. Questo elevato numero indica che la compagine degli ordini godeva di un impatto notevole, sia dal punto di vista geografico che politico.

In stato di libertà vigilata

Il caso della Turchia è sicuramente uno dei più significativi nella storia dell’islam, perché i sufi, oltre ad essere osteggiati da un punto di vista prettamente religioso nei secoli precedenti il XX, a partire dal 1925 subirono una nuova persecuzione originata da un’ideologia secolarista e laicista, che vedeva nella religione solo un mezzo per regolare la società civile. Il fatto che il governo si trovasse a scontrarsi con diversi Ordini sufi era un vero e proprio impedimento nella gestione sociale dell’aspetto religioso. Per questo gli ordini sufi furono soppressi e fu istituito un ministero per gli affari del culto (Diyanet).

Si capisce allora perché il sufismo in Turchia, come in molti altri paesi (l’Egitto nella sua storia recente, ma anche l’Algeria) viva in una specie di libertà vigilata. È il tentativo di ridurre le potenziali scalfitture che la presenza degli ordini sufi potrebbero procurare, seppur minimamente, a quell’idea monolitica dell’unità della massa musulmana che vuole essere l’immagine dell’unicità divina.

È quindi, il sufismo, un criterio ermeneutico importantissimo per capire il modello di islam che vuole imporsi sugli altri, e finanche un paradigma teologico che plasma la società. Tuttavia, il sufismo è sospetto anche nei regimi laicisti perché tacciato di essere tradizionalista e conservatore. Questa libertà vigilata imposta al sufismo è forse segno della sua libertà dottrinale e della vitalità irriducibile degli ordini sufi.

Alberto Fabio Ambrosio

Note

1 – Cfr. Alberto Fabio Ambrosio, Vita di un derviscio. Dottrina e rituali del sufismo nel XVII s., Carocci editore, 2014; id., Soufis à Istanbul. Hier et aujourd’hui, Parigi, Les Editions du Cerf, 2014.

2 – Cfr. Alberto Fabio Ambrosio, L’islam in Turchia, Carocci editore, 2015.

3 – Cfr. Alberto Fabio Ambrosio, Dervisci. Storia, antropologia, Mistica, Carocci editore, 2011.

Alberto Fabio Ambrosio




Animal Sapiens


È opinione radicata che l’uomo abbia il diritto di sfruttare gli animali a proprio piacimento. Essi vengono così utilizzati per la nostra alimentazione, per esperimenti scientifici, per produzioni industriali. L’evoluzione è una piramide con l’uomo al vertice? Secondo recenti studi non è proprio così…

L’uomo si è sempre sentito superiore al resto del regno animale, a cui pure appartiene. E ciò per diverse prerogative che finora pensavamo fossero soltanto nostre. Ad esempio: il culto dei morti, la capacità di pianificazione, l’uso del linguaggio, l’utilizzo di strumenti. Oggi però i risultati di numerose ricerche e osservazioni sull’intelligenza e sul comportamento degli animali non umani stanno dando risultati sorprendenti. Che dire dell’osservazione che anche gli elefanti, pur non seppellendo i loro morti, indugiano parecchio, toccano e sollevano con la proboscide le ossa dei loro simili, quando le incontrano sul loro cammino? Per non parlare dell’abilità e intelligenza dimostrata da un polpo nello stappare un contenitore in vetro allo scopo di infilarcisi dentro o di quella dei corvi che, per spezzare il guscio delle noci, di cui si vogliono cibare, si appostano nei pressi di un semaforo, lasciandole cadere a terra, per farle rompere dalle auto in partenza e poi andare a recuperae il contenuto, quando la strada sia libera; o degli scimpanzé e dei cani, che hanno dimostrato di comprendere almeno in parte il nostro linguaggio. Eppure la nostra tendenza a sentirci superiori è ben radicata, come se l’Homo sapiens fosse l’apice del processo evolutivo. Grazie a questa ipotetica posizione apicale l’uomo si sente in diritto di sfruttare il resto del creato a proprio piacimento.

L’enciclica Laudato si’ rompe la visione antropocentrica

Cosa ci fa pensare di avere tale diritto? La risposta più ovvia è la presunzione che una maggiore evoluzione rispetto alle altre specie (nella nostra mente lo specismo e il razzismo spesso vanno di pari passo) ci dia il diritto di sfruttare gli animali considerati inferiori. Questa idea è già presente nella Bibbia (Genesi, 1:26, 1:28, 9:2), in cui si dice che gli animali saranno ridotti a subire il «dominio» e il «giogo» degli esseri umani e ad avee «timore» e «spavento». Anche Aristotele elaborò una scala naturae nel suo trattato Politica, mettendo al vertice gli esseri umani maschi e liberi, seguiti dalle donne, dagli schiavi e dagli animali non umani. E filosofi come Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino, Descartes e Kant hanno contribuito anch’essi a diffondere questo genere di idee. Fortunatamente con la sua enciclica Laudato si’, papa Francesco ha ribaltato questa visione antropocentrica, esortando al rispetto non solo di tutti gli uomini, ma anche di tutti gli altri esseri viventi. Ecco qualche esempio tratto dallo scritto del papa: «[…] dal prelievo incontrollato delle risorse ittiche, che provoca diminuzioni drastiche di alcune specie […]» (Ls,40); «oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature» (Ls,67); «Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone» (Ls,92).

È sufficiente osservare i molti modi in cui l’uomo sfrutta gli animali – per le nostre esigenze alimentari, per la produzione di capi d’abbigliamento, per la sperimentazione scientifica, per una serie di attività illegali (dalle scommesse sulle corse clandestine di cavalli alle lotte tra cani e tra galli) -, per comprendere il monito dell’enciclica e i numeri dell’ecatombe.

Cae e allevamenti-lager

Nei paesi ricchi il consumo di carne è cresciuto enormemente dopo la seconda guerra mondiale. Negli anni ’40 in Italia il consumo procapite annuo era di circa 8 kg, negli anni ’60, in pieno boom economico salì a 50 kg e alla fine del secolo scorso arrivò a 80 kg. Negli Stati Uniti d’America è giunto addirittura a 120 kg. Il consumo di carne, essendo un simbolo di benessere raggiunto, sta inoltre aumentando moltissimo anche nei paesi emergenti. Peraltro le fonti scientifiche raccomandano di consumare non più di 30 Kg di carne all’anno. Nel Sud del mondo invece si sta ben al di sotto di questa soglia, con punte estreme come il Bangladesh (non più di 4 kg procapite annuo) ed il Burundi (5 kg).

La produzione di carne richiede, per i vari processi che portano al prodotto finale, una superficie di terra coltivabile pari a 16 volte quella necessaria per produrre legumi e altre proteine vegetali (con conseguente deforestazione di diverse aree, soprattutto nel Sud del mondo). È quindi chiaro che l’elevato consumo di carne non è estendibile a tutti gli abitanti del pianeta per mancanza di terreno sufficiente.

Un’altra ingiustizia è rappresentata dal trattamento riservato agli animali da macello. Basta pensare all’importazione di animali vivi: quelli di grossa taglia vengono fatti spostare utilizzando mezzi di coercizione come pungoli elettrificati e bastoni, fonti di terrore e sofferenza; gli animali di piccola taglia, dopo essere stati presi per le zampe o le orecchie, vengono stipati in gabbie riempite a forza, per fae stare il maggior numero possibile; gli animali con difficoltà di deambulazione, dovuta al peso raggiunto o a eventi patologici, vengono trascinati senza pietà.

La sempre più elevata specializzazione zootecnica, che per aumentare la produzione di carne e di latte ricorre alle biotecnologie e all’ingegneria genetica, ha portato alla selezione di razze iperproduttive. Ad esempio: le bovine frisone Holstein, che producono più di 100 quintali di latte all’anno, i polli da carne ad accrescimento accelerato, i tacchini dalla abnorme massa muscolare, il suino Landrace, che popola la stragrande maggioranza degli allevamenti intensivi del Nord Italia. Tutto questo però si accompagna spesso alla comparsa di patologie degenerative, che possono portare a gravissime infermità e/o morte dell’animale per lo più per infarto. Che dire poi delle galline ovaiole, stipate in allevamenti, dove la luce è sempre accesa (perché stimola la produzione di uova) e private di parte del becco, per impedire loro di ferirsi reciprocamente, dal momento che la cattività in condizioni di grave disagio ne aumenta l’aggressività? E dei bovini e dei suini negli allevamenti intensivi, costretti in spazi talmente esigui da non potersi girare e che non vedono mai un prato e la luce del sole dalla nascita fino alla morte?

Anche Valium e Prozac

Non si salvano dalla produzione di razze con caratteristiche particolari nemmeno gli animali da compagnia. Ad esempio sono molto ricercate le razze canine i cui esemplari sembrano perennemente cuccioli, con il muso schiacciato e grandi occhi sporgenti, che ricordano i lineamenti di un bimbo e suscitano più tenerezza. Così ci sono razze come il carlino originario della Cina o il bulldog francese nei quali il muso schiacciato provoca gravi problemi respiratori. Inoltre, per selezionare razze dai tratti infantili (il mantenimento dei tratti infantili negli adulti è detto neotenia) spesso ci si trova con animali da compagnia emotivamente immaturi, che presentano una versione canina delle nostre nevrosi. Naturalmente l’industria farmaceutica ha subito colto la palla al balzo ed ha messo in commercio confezioni veterinarie di Valium e di Prozac per animali ansiosi, depressi e ossessivo-compulsivi.

Penne e pellicce

Oltre agli animali vittime della nostra tavola, ci sono quelli vittime della moda, utilizzati per la produzione di pellicce e di capi d’abbigliamento con parti in pelliccia o di capi in vera piuma. Ogni anno milioni di oche e di anatre vengono allevate per l’industria della moda e le penne vengono loro strappate fino a quattro volte all’anno, senza alcun tipo di sedazione. Si stima inoltre che siano almeno 70 milioni gli animali allevati in tutto il mondo per la loro pelliccia. Si tratta soprattutto di visoni, cani-procione, conigli, ermellini, volpi, zibellini, scoiattoli, ma anche agnellini, cani e gatti. L’85% della produzione mondiale di pellicce deriva da animali provenienti da allevamenti intensivi che si trovano soprattutto in Europa, Cina, Stati Uniti, Canada e Russia. In Europa sono già diversi i paesi, che vietano l’allevamento per la produzione di pellicce, ad esempio l’Olanda, l’Austria, la Danimarca (solo per le volpi), Inghilterra, Irlanda del Nord, Scozia, Slovenia, Croazia e Bosnia.

In Italia, al contrario, gli allevamenti stanno aumentando. In particolare quelli di visoni attualmente sono circa venti, dislocati in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Abruzzo e complessivamente detengono circa 200.000 animali. Negli allevamenti gli animali sono detenuti in condizioni di privazioni estreme, che li portano spesso a comportamenti autolesionistici, nonché a episodi di cannibalismo e di infanticidio. Nel 2001, il Comitato Scientifico della Commissione Ue aveva denunciato gli allevamenti di animali da pelliccia come gravemente lesivi del benessere animale, ma da allora poco o nulla è cambiato. La situazione è ancora peggiore nei paesi extracomunitari come la Cina, dove non c’è la minima regolamentazione a tutela degli animali. Non è certo migliore il destino degli animali da pelliccia catturati in natura (si stima almeno 10 milioni ogni anno). Le normative inteazionali prevedono che la loro morte sia esente da crudeltà, ma sono solo parole. La caccia infatti riesce a eludere ogni controllo e colpisce spesso specie protette. Le vittime restano immobilizzate nelle trappole per ore o giorni e la loro morte sopraggiunge dopo una lunga agonia. Gli animali da pelliccia vengono solitamente portati nei mercati all’ingrosso, dove le grandi compagnie acquistano le pelli. Gli animali vengono storditi a colpi di bastone o schiacciati violentemente a terra e la scuoiatura avviene quando molti sono ancora coscienti. Nel 2004 in Italia sono state bandite le pelli di cani e di gatti e nel 2009 il divieto è stato esteso a tutta l’Europa.

Oltre alle crudeltà inflitte agli animali, la produzione di pellicce ha un impatto sul cambiamento climatico circa 14 volte superiore a quello per la produzione di analoga quantità di pile, di cotone, di acrilico e di poliestere. Per produrre 1 kg di pelliccia di visone sono necessarie 11,4 pelli e poiché un visone consuma circa 50 kg di cibo nella sua vita, sono necessari 563 kg di cibo per produrre un solo chilogrammo di pelliccia. Si stima che la pelliccia abbia un impatto sull’ambiente da 2 a 28 volte quello dei prodotti tessili alternativi, compresi quelli sintetici.

Animali per la ricerca

Un destino non meno crudele è quello degli animali utilizzati nelle sperimentazioni scientifiche, soprattutto topi, ratti, conigli, ma anche marmotte, gatti, cani e scimpanzé. Certamente i modelli animali sono indispensabili in alcune fasi della ricerca (altrimenti bisognerebbe sperimentare direttamente sull’uomo, sinistro ricordo di quanto avveniva nei lager nazisti), ma non sempre i risultati ottenuti da queste ricerche sono applicabili all’uomo. Quanto più il modello animale utilizzato è filogeneticamente distante dall’uomo, tanto meno sono attendibili i risultati ottenuti. Ad esempio, se si sperimenta sullo scimpanzé, si ottengono risultati applicabili all’uomo mentre la sperimentazione su animali molto diversi come il coniglio può portare a gravissimi errori di valutazione, come nel caso del Talidomide, farmaco tristemente famoso per avere superato tutti i test di tossicità nel coniglio e avere causato la nascita di moltissimi bimbi focomelici negli anni ’60, in quanto somministrato come ansiolitico durante la gravidanza. Eppure animali come topi, ratti e conigli vengono utilizzati in quantità industriale nella sperimentazione scientifica. Attualmente si cerca di utilizzare gli animali da laboratorio secondo il criterio della riduzione al minimo della sofferenza, ma nella storia della scienza non è sempre stato così. Un aspetto decisamente raccapricciante è che questi animali vengono acquistati in quantità sempre superiore alle necessità della ricerca. Una volta terminata quest’ultima, gli animali in eccedenza vengono eliminati senza tanti problemi: una parte viene utilizzata come cibo per serpenti o gufi nei giardini zoologici, ma la maggior parte viene cremata. La ragione principale dell’ingente surplus di topi da laboratorio è stata l’esplosione della ricerca, iniziata negli anni ’90, sugli animali geneticamente modificati (Gm), che nel 90% degli studi impiega topi (perché, sebbene il cammino dell’evoluzione che ha portato a uomini e topi si sia divaricato 60 milioni di anni fa, il 99,9% dei geni murini ha un omologo umano conosciuto, anche se distribuiti su un diverso numero di cromosomi). Come Descartes, che considerava gli animali semplicemente dei robot, incapaci di provare sentimenti, empatia e dolore, negli Stati Uniti d’America il Congresso non considera animali il 90-95% di quelli utilizzati per la ricerca, per cui questi non ricadono sotto la tutela della legge per la protezione degli animali. Le giustificazioni per la sperimentazione animale sostanzialmente poggiano sul concetto che l’organismo dal cervello più potente ha il diritto di condurre studi su creature con capacità mentali meno sviluppate. In genere però cadiamo nell’errore di considerare facoltà psichiche superiori negli animali quelle che più somigliano alle nostre, mentre una facoltà psichica è tanto superiore quanto più permette a chi la possiede di adattarsi al proprio ambiente e alle proprie esigenze.

Animali trafficati

Ciò che è ancora più riprovevole è l’impiego di animali opportunamente selezionati, per combattimenti e corse clandestine e non, che sono alla base di un ingente giro d’affari per la criminalità organizzata. I traffici legati allo sfruttamento illegale degli animali è variegato. Si va dal bracconaggio e dalla cattura di esemplari rari e protetti per rivenderli clandestinamente (traffico di animali esotici) o per ucciderli e rivendere loro parti (traffico dell’avorio e delle pellicce di tigri, leopardi, ecc.) ai macelli clandestini, alle lotte tra galli in America e quelle nostrane tra cani. Per queste ultime vengono selezionati animali sottoposti a incredibili vessazioni, in modo da forgiae il carattere e portare la loro aggressività all’eccesso. L’addestramento di cani di certe razze in modo da renderli particolarmente aggressivi per i combattimenti, oltre a stravolgere completamente il carattere degli animali, comporta anche un grave pericolo per la popolazione in generale, come dimostrato dalle aggressioni, sempre più frequenti, di cani «pericolosi» a persone.

I traffici illeciti di avorio e di pellicce pregiate stanno portando a rischio estinzione diverse specie come il rinoceronte nero (Diceros bicois, ridotto a meno del 10% dalla fine del secolo scorso nell’Africa subsahariana), le tigri (Panthera tigris, la cui popolazione si è ridotta del 95% dal 1900 ad oggi) e gli elefanti (Loxodonta africana). Secondo uno studio del 2014, la popolazione di questo animale è scesa tra il 2009 e il 2014 del 60% in Tanzania e quasi del 50% in Mozambico, per cui, se la caccia illegale proseguirà con il ritmo attuale, l’elefante africano potrebbe estinguersi in un decennio (National Geographic, giugno 2015).

Corse clandestine e canili

Ci sono poi le corse clandestine di cavalli, che si svolgono di notte in tratti di strada o di autostrada, eludendo i controlli delle forze dell’ordine ed utilizzando animali drogati. C’è il racket dei canili e ci sono le cupole del bestiame. C’è il traffico di cuccioli, portati via dalle loro mamme molto prima dello svezzamento, fatti viaggiare in condizioni così drammatiche da pregiudicarne spesso la sopravvivenza e venduti senza le vaccinazioni di legge. Va ricordato che, nel nostro sistema giuridico, soltanto il 1 agosto 2004 è entrata in vigore la nuova legge contro il maltrattamento degli animali e le corse clandestine (Legge 189/04).

Per quanto riguarda le corse clandestine di cavalli, in Italia in 15 anni sono state denunciate 3.321 persone e 1.228 cavalli sono stati sequestrati (Rapporto Zoomafia Lav, 2014). Il doping non è solo circoscritto alle corse clandestine, ma spesso interessa anche le corse ufficiali e sono circa 180 all’anno i cavalli dopati, che corrono in gare ufficiali.

Un vero affare per trafficanti e faccendieri è il business del randagismo, che garantisce agli sfruttatori dei cani randagi introiti da centinaia di milioni di euro l’anno, per via delle convenzioni con amministrazioni locali compiacenti. I canili sono spesso strutture fatiscenti, veri e propri lager, in cui gli animali non ricevono nemmeno lo stretto indispensabile per vivere, tant’è che spesso soccombono e le loro carcasse restano tra i sopravvissuti o vengono nascoste in congelatori. Solo nel 2013 sono state sequestrate 11 strutture, per un totale di 1.700 cani. Abbandonare un cane non comporta solo un immenso dolore per l’animale, ma favorisce la criminalità.

Per concludere, torniamo al punto da cui eravamo partiti: il processo dell’evoluzione. Gli studi più recenti hanno indicato che il risultato dell’evoluzione è più simile a un albero ramificato, di cui noi occupiamo soltanto uno dei rami, piuttosto che ad una piramide con noi al vertice.

Rosanna Novara Topino




I Perdenti 6: San Maurizio e la legione Tebea

La celebre
Legione Tebana (o Tebea) è così chiamata perché, secondo la tradizione, era
composta interamente da legionari di fede cristiana provenienti dalla Tebaide,
in particolare dalla città di Tebe, terre e genti egiziane facenti parte
dell’Impero Romano del III secolo dC, una delle zone evangelizzate fin dagli
albori del cristianesimo.

Secondo
sant’Eucherio di Lione (380-450 dC), il primo che raccolse e raccontò nel suo Passio
Acaunensium martyrum
la storia della Legione Tebana, attorno al 286 essa
era di stanza in Gallia, presso la città di Agaunum (odiea Saint Maurice
nell’attuale Cantone Vallese in Svizzera) per reprimere una delle cicliche
rivolte dei Galli Bagaudi. Conclusa vittoriosamente la campagna, Massimiano
Erculeo, co-imperatore con Diocleziano, ordinò alle legioni di sacrificare
all’imperatore e di eseguire una spedizione punitiva per distruggere alcuni
villaggi del Vallese convertiti al cristianesimo. Gli ufficiali della Legione
Tebana, Maurizio, Esuperio e Candido, insieme ai loro centurioni e legionari,
si rifiutarono di adempiere gli ordini, dichiarando apertamente di essere
cristiani loro stessi. Massimiano ordinò la decimazione della legione (un
soldato ogni dieci doveva essere ucciso dai suoi stessi compagni). Dopo la
prima decimazione, ne ordinò una seconda, perché la Legione Tebana continuò a
rifiutarsi di compiere i massacri. All’ennesimo rifiuto, Massimiano chiamò
soldati di altre legioni per punire quella ribelle. La tradizione vuole che la
carneficina sia durata diversi giorni e abbia fatto almeno seimila e seicento
vittime.


La devozione
al santo martire Maurizio e ai soldati suoi compagni si diffuse in tutta la
zona alpina ed è molto radicata ancora ai nostri giorni.


Gli
storiografi avanzano diversi dubbi su alcuni aspetti del racconto di Eucherio,
ma il nucleo di verità rimane: nella persecuzione, anche in quella più
spietata, come è stata quella vissuta dai cristiani sotto l’imperatore
Diocleziano, i fedeli di Gesù Cristo sono capaci di obiezione di coscienza e di
martirio.

Maurizio, vuoi
parlarci dei tuoi tempi e della vita militare sotto l’Impero romano?

L’Impero di Roma in quel periodo aveva raggiunto l’apice del suo
splendore e della sua potenza, le sue legioni avevano sconfitto e soggiogato
quasi tutti i popoli che abitavano in quello che era allora il mondo
conosciuto. A noi legionari era affidato il compito di mantenere l’ordine e la
legalità nell’immenso territorio conquistato.

La tua vicenda risale alla fine del terzo
secolo, il che vuol dire che il messaggio di Gesù di Nazareth ai tuoi tempi si
era già ampiamente diffuso in Europa, arrivando fino ai «limes» dell’Impero.

Effettivamente la religione cristiana si era diffusa rapidamente,
tanto da insidiare il primato della vecchia religione pagana. Molti membri
dell’esercito avevano abbracciato la nuova fede, pur non mettendo mai in
discussione la fedeltà a Roma e all’Imperatore. Anche noi ci eravamo convertiti
al Vangelo, eravamo quindi coscienti che sopra di tutti c’era Dio Padre che per
manifestare agli uomini il suo Amore e la sua tenerezza aveva mandato sulla
terra il Figlio suo Gesù Cristo per rivelarlo, e nonostante fosse stato
condannato e crocifisso, dopo tre giorni era risuscitato e aveva inviato lo
Spirito Santo, tramite i suoi Apostoli, a vivificare la terra.

Voi che avete conosciuto questo messaggio
di salvezza diverse generazioni dopo l’annuncio dei primi discepoli, come vi
rapportavate a quello che era il nucleo centrale della fede cristiana?

Attraverso l’insegnamento di Gesù avevamo preso coscienza che ogni
essere umano, uomo o donna che fosse, nasceva con la stessa dignità di fronte a
Dio, fosse egli figlio di uno schiavo o di un membro del Senato di Roma, quindi
tutti gli uomini di fronte a Dio erano sullo stesso piano, un’uguaglianza in
dignità che aveva dello straordinario. Una novità questa di difficile
comprensione per la mentalità vigente nell’antica Roma in cui la divisione tra
plebe e patriziato, tra cittadini romani e popoli barbari era fortemente
radicata. L’invito a perdonare chi ti offende, il rifiuto della vendetta su chi
ti fa del male, erano cose inaudite ai miei tempi. Se poi aggiungi l’attenzione
da prestare a chi è malato, sofferente o debole, e l’invito da mettere al
centro della vita di tutti i giorni i poveri, ti renderai conto che il suo
messaggio era una vera rivoluzione.

Già, ma Gesù di Nazareth non si era
limitato a quello, aveva anche detto che la violenza non era una strada da
percorrere, perciò come si conciliava quest’affermazione con la politica
dell’Impero di cui le legioni romane erano il «braccio armato»?

Guarda, pur essendo noi militari inquadrati in una delle più
superbe legioni romane, il nostro compito non era di far del male ad altri, ma
di difendere quello che era il territorio di Roma dalle invasioni dei popoli
barbari. Dovevamo difendere i suoi cittadini, le sue leggi, la sua cultura, in
una parola quella che veniva chiamata la «Pax Romana».

Era per quello allora che ti trovavi di
stanza nelle Alpi?

Con i miei legionari ero stato destinato in quelle zone per
contrastare le continue sommosse e rivolte dei Galli tra i quali la tribù dei
Bagaudi composta in gran parte da «teste calde» che mal sopportavano la
disciplina e le leggi di Roma. Noi avevamo il compito di mantenere l’ordine
nelle vallate alpine.

È vero che voi avete scritto una lettera
all’Imperatore manifestando la vostra fedeltà a Roma, ma ribadendo il principio
secondo cui, come militari di fede cristiana, avevate il compito di difendere,
oltre che il territorio, i più deboli e i più indifesi?

Proprio così! Noi scrivemmo all’Imperatore dicendo: «Siamo tuoi
soldati ma anche servi di Dio, cosa che noi riconosciamo francamente. A te
dobbiamo il servizio militare, a Lui l’integrità e la salute, da te percepiamo
il salario, da Lui il principio della vita. Alzeremo le nostre mani contro
qualunque nemico, ma non le macchieremo mai con il sangue degli innocenti. Noi
facciamo professione di fede in Dio Padre Creatore di tutte le cose e crediamo
che suo Figlio Gesù Cristo sia Dio».

Non c’è che dire, una lettera coraggiosa!

Che nasceva dalla convinzione che l’essere cristiani e, in modo
particolare, vivere la condizione di soldato al servizio delle leggi di Roma ci
rendeva leali cittadini, fedeli sudditi dell’Impero, ma anche difensori dei più
deboli che si affidavano a noi per poter vivere e lavorare tranquillamente. Nel
contempo la fede in Cristo ci impediva di usare violenza verso le popolazioni
inermi e di commettere soprusi gratuiti.

Il servizio militare, obbligatorio per
ogni cittadino romano, era parte integrante della vita, in quanto ogni maschio
valido doveva impegnarsi a difendere Roma, a diffondere le sue leggi, a
espandere la civiltà che essa incarnava.

Pur non deponendo le armi, anzi, avendone cura non proprio come
arma di offesa quanto piuttosto di difesa, si può dire che per la prima volta
nella storia l’utilizzo delle forze armate era visto, grazie a noi, non tanto
come un’occasione per conquistare territori, quanto piuttosto come un
mantenimento integerrimo e responsabile della pace e dell’ordine, e come
contributo alla sicurezza della gente. Grazie al nostro esempio quindi, le
legioni romane erano percepite non tanto come truppe di occupazione ma come
garanzia di pace e tranquillità, il tutto ovviamente in una visione globale in
cui Roma «Caput Mundi» riscuoteva le tasse, mentre le legioni garantivano la
pace.

Resta il fatto che il vostro martirio
affrontato coraggiosamente vi fa antesignani di tutti gli obiettori di
coscienza. In più esso si è così impresso nelle vallate alpine che ancora oggi
da quelle parti la devozione nei vostri confronti è molto viva e attuale.

È vero, seimila soldati passati a fil di spada perché si
rifiutarono di uccidere inermi valligiani, civili indifesi, fu un fatto
eclatante che rimase impresso nella coscienza di quelle popolazioni.
L’iconografia classica che si sviluppò successivamente ci rappresentò, infatti,
come dei soldati con la palma del martirio in mano, lo stendardo con croce
rossa in campo bianco, da cui la Svizzera si è ispirata per la sua bandiera, e
la croce mauriziana dipinta sulle nostre armature. La devozione popolare ha
visto in ciascuno di noi, oltre che dei legionari fedeli all’Imperatore che
avevano il compito di difendere il territorio loro affidato, delle persone che
hanno avuto il coraggio di manifestare apertamente la fede cristiana in tempi
non certo favorevoli a gesti simili.

Oltre a ciò la vostra vicenda ha dato
origine anche all’Ordine Cavalleresco di San Maurizio, che fu fondato dalla
casa dei Savoia quando questa conquistò per un certo periodo il Vallese.

Oltre a ciò i Savoia portarono a Torino parte delle reliquie della
Legione Tebana, nonché la mia spada e il nostro simbolo, ovvero la croce
mauriziana, conservati in una cappella della chiesa in cui è custodita anche la
Sacra Sindone.

Oltre che della casa Savoia siete
diventati i protettori anche di altre istituzioni?

Con i miei compagni siamo i patroni degli Alpini Italiani, delle
Guardie Svizzere e delle truppe alpine dell’Esercito Francese. Le chiese
dedicate a San Maurizio e ai Santi della Legione Tebana si diffusero, e sono
presenti ancora oggi, in Valle d’Aosta, Piemonte, Francia, Germania e Svizzera.
In quest’ultima nazione, nel Canton Grigioni, mi fu dedicata la città di Saint
Moritz e anche in Francia molti paesi furono chiamati con il mio nome proprio
per ricordare il valore e la testimonianza della Legione Tebana. La più celebre
è Bourg Saint Maurice in Savoia e per non essere da meno anche in Piemonte
vennero affidate alla nostra protezione San Maurizio Canavese vicino a Ivrea,
nonché San Maurizio D’Opaglio nel novarese, dove, secondo la tradizione,
eravamo transitati, e infine Porto Maurizio in Liguria.

Gli abitanti di queste città sanno che il
loro patrono proveniva dall’Egitto?

Sì, credo che lo sappiano.

La devozione per i martiri della Legione
Tebea si è diffusa anche presso la Chiesa copta.

Sì, quella copta è una Chiesa storica egiziana che venera non solo
me, San Maurizio, ma tutti i miei valorosi compagni, le cui reliquie si
ritrovano in numerose chiese sia in Europa che in Africa.

Se non vado errato, qualche anno fa furono
donate al Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa della Chiesa Copta, Papa
Shenuda III, alcune preziose reliquie dei Santi della Legione Tebana (nel
1991).

È vero, il nostro sacrificio ha aperto anche un originale cammino
ecumenico in quanto altre Chiese orientali venerano i Martiri della Legione
Tebea. Il martirio da noi subito è anteriore ai vari scismi succedutisi nella
Chiesa attraverso i secoli. Anche nel mondo protestante c’è una devozione
legata alla nostra testimonianza.

Il vostro martirio alla luce della fede
cristiana vi trasforma da perdenti in testimoni della fede, come per Gesù di
Nazareth, il vostro sacrificio invece di essere visto come una sconfitta è
diventato un segno di speranza per i cristiani di tutti i tempi.

La fede nella Risurrezione è questa: offrire la propria vita per
essere fedeli fino in fondo ai valori del Vangelo che Cristo ci ha lasciato!

San Maurizio e i suoi
compagni, che hanno versato il proprio sangue per la confessione della fede
cristiana, restano ancora oggi dei testimoni esemplari di come si possa andare
incontro al martirio con coerenza e coraggio. Il loro esempio deve essere di
stimolo per noi a vivere in pienezza la fede in Cristo Gesù, senza quei
compromessi che rischiano di annacquarla di fronte al mondo. Di tutta questa
vicenda, una delle cose sorprendenti è quella di scoprire che molti paesi e
città delle nostre vallate alpine hanno come Santi protettori delle persone che
oggi definiremmo «extracomunitari» in quanto provenienti dall’Egitto, ovvero
dal continente africano.

Mario Bandera, Missio Novara

Tags: Santi, obiezione di coscienza, San Maurizio, Legione Tebea, Martirio

Mario Bandera




Caro Amico

 

Si
apre con l’invito alla lode il Salmo 136, prosegue con la memoria di quanto il
Signore ha compiuto, si chiude con l’invito rinnovato alla lode. È il Salmo che
ogni due versi, nella traduzione Cei precedente a quella attuale, recita «perché
eterna è la sua misericordia» (la versione del 2008 dice, invece, «perché il
suo amore è per sempre»). È il Salmo che Gesù canta subito dopo l’ultima cena,
prima della Passione, ponendo così l’atto supremo della Rivelazione sotto la
luce dell’amore incondizionato di Dio padre. Papa Francesco ne scrive nella
bolla d’indizione del Giubileo che si aprirà l’8 dicembre 2015 e si chiuderà il
20 novembre 2016, centrato sul tema, appunto, della misericordia. Lì il pontefice
ci invita ad assumere il ritornello del Salmo nella quotidiana preghiera di
lode.

Possiamo raccogliere l’invito del
papa da subito. Possiamo, ad esempio, usare lo schema del Salmo 136 per vivere,
nella luce della misericordia, l’estate appena iniziata: usare il tempo del
riposo, del lavoro, del volontariato, del campo in missione, della vita
famigliare delle prossime settimane come tempo di lode a Dio e di memoria, per
ricordare a noi stessi che siamo, e che tutto è, «perché eterna è
la sua misericordia».

Il salmista ci dice che il
Signore ha creato i cieli con sapienza, ha fatto il sole, la luna e le stelle
per regolare il giorno e la notte, ha diviso il Mar Rosso in due parti, ha
guidato il suo popolo nel deserto, che nella nostra umiliazione si è ricordato
di noi, ci ha liberati dai nostri nemici, dà cibo a ogni vivente… «perché
eterna è la sua misericordia». Ciascuno di noi può aggiungere a quanto elencato
dal salmista, le opere che il Signore ha compiuto nella sua vita, nell’anno
sociale che si conclude. Il Signore ci ha liberati dai nemici multiformi che
fuori e dentro di noi attentano alla nostra vita, libertà, gioia, umanità, «perché
eterna è la sua misericordia». Inizieremo il nuovo anno di attività, con la
forza ricavata dal riconoscerci amati in modo incondizionato, coperti
dall’ombra dell’infinita accoglienza di Dio.

Per molti giovani in questo tempo
inizia il conto alla rovescia dei giorni che li separano dalla Giornata
Mondiale della Gioventù del prossimo luglio 2016. Anche quel raduno che porterà
migliaia di persone a Cracovia sarà sotto il segno del tema giubilare: «Beati i
misericordiosi perché troveranno misericordia».

Prepariamoci dunque a vivere
un’estate, e poi diversi mesi ancora, nel segno dell’indulgenza e della grazia,
della vicinanza di un Dio innamorato della nostra vita.

Buona estate da amico,
Luca Lorusso

Luca Lorusso




Errata corrige: Quando i progetti non bastano

Dopo gli anni
Settanta e Ottanta in cui «cornoperare» significava fondi a pioggia e tanto
mattone, il mondo missionario ha vissuto – come tutta la cooperazione – una
sorta di panico da «cattedrale nel deserto», che ha tentato di superare con un
metodo di lavoro diverso capace di mettere al centro le comunità locali e la
loro capacità di trovare soluzioni. E i termini empowerment, capacity building, local ownership* sono diventati
protagonisti dei dibattiti e dei progetti. Ma i risultati non sempre sono
arrivati.

«Nel nostro quartiere, dove il 43 per cento della popolazione non va a
scuola, un progetto di formazione sarebbe anche utile. Per le ragazze che hanno
frequentato la scuola possiamo ipotizzare una specializzazione
nell’informatica, perché anche quelle che lavorano nel commerciale non vedono
mai un computer, fatta eccezione per quelle che hanno frequentato qualche
scuola seria, che però è verso il centro città (e non è accessibile a tutte);
molte a scuola si sono formate usando due o tre macchine da scrivere per
classe. Per le ragazze che hanno lasciato gli studi o non sono andate a scuola,
proporrei dei corsi di alfabetizzazione: è quello che già facciamo in piccolo
in parrocchia. Ma non basta fare studiare le persone: bisogna chiedersi quali
sono poi le effettive opportunità di lavoro. Altrimenti specializziamo la
disoccupazione».

Così padre Santino Zanchetta, missionario della
Consolata, riassume la situazione del quartiere di Saint Hilaire a Kinshasa,
Repubblica Democratica del Congo, nel quale da oltre vent’anni vive e lavora. Specializzare la disoccupazione: può sembrare una battuta, ma è anche un’istantanea
della situazione nella quale molti missionari si trovano a lavorare. Contesti
che, pur non mancando una scuola o un pozzo o un dispensario – quelli magari ci
sono e funzionano -, sono inseriti in un ambiente sociale e soprattutto
economico che non cambia, o cambia lentissimamente e non offre opportunità
diverse dal semplice sopravvivere giorno per giorno.

Così, formare un gruppo di donne in attività di
sartoria, inserendo nel corso anche sessioni di formazione igienico-sanitaria e
di gestione di micro-attività imprenditoriali, è indubbiamente un’iniziativa
che ha un’utilità a prescindere, ma si scontra con fenomeni più ampi su cui la
comunità locale non ha controllo.

«Le donne erano fortemente interessate a partecipare»,
spiega Suor Darlene Lima, delle Suore catechiste francescane, responsabile di
un corso di taglio e cucito a Boroma (Tete, Mozambico), «ma non è stato
semplice mantenere sempre alta la motivazione. Quando è il tempo della semina
nella machamba, il campo, molte donne saltano le lezioni per dedicarsi
alla terra, perché la fonte principale di sostentamento rimane l’agricoltura».
Insieme alle beneficiarie, suor Darlene e le animatrici hanno trovato una
soluzione dividendo le donne in due gruppi in modo che, a tuo, uno potesse
occuparsi della machamba e l’altro frequentare i corsi. Il corso era
stato concepito per consentire a queste donne di avviare poi attività
generatrici di reddito in ambito sartoriale per integrare i magri proventi che
l’agricoltura permette. Gli accordi presi con le scuole locali per l’acquisto
delle uniformi confezionate dalle corsiste hanno permesso alle donne di vedere
i risultati del loro sforzo. Ma le difficoltà non sono venute meno.

«Il prezzo di mercato di un’uniforme cucita dalle donne
del corso non sempre riesce a competere con quello delle uniformi importate già
disponibili sul mercato, spesso di fabbricazione cinese». Lo stesso vale per
gli abiti comuni: i mercati africani sono invasi di indumenti di seconda mano
arrivati dall’Europa e Stati Uniti e venduti a cifre tutto sommato accessibili
anche per il potere d’acquisto locale.

Anche in una realtà con un’economia più reattiva, com’è
il Kenya, è necessario a volte aggiustare il tiro: «Negli ultimi anni c’è stato
un cambio sostanziale nella formazione che il nostro istituto tecnico propone»,
spiega suor Rosa Waeni, una missionaria della Consolata direttrice della Irene
Technical Training Institute
di Maralal nella Samburu County dove si
è appena concluso un intervento finanziato dalla Conferenza episcopale
italiana, «perché i corsi di sartoria hanno sempre meno richiesta, mentre
moltissimi studenti si avvicinano alla nostra scuola attirati dalla possibilità
di specializzarsi in informatica o elettronica, le materie che danno loro un più
immediato accesso al mondo del lavoro di oggi in Kenya. Meglio allora
potenziare questi due corsi attrezzando i relativi laboratori».

Le comunità locali
alla prova della globalizzazione

In paesi come il Mozambico, in piena espansione
economica, l’esigenza che le comunità manifestano è quella di poter beneficiare
delle nuove opportunità economiche, locali o straniere che siano. Basta passare
la mattina presto nei pressi del ponte sullo Zambesi, a Tete, per vedere
schiere di operai mozambicani in tuta e casco in attesa del bus che li porterà
al lavoro nelle miniere della multinazionale brasiliana Vale (vincitrice nel
2012 dell’Oscar della vergogna – «Public Eye award» – come compagnia più
inquinatrice del mondo). Cambiando paese, basta guidare verso Nord Est sulla
Thika Road fra Thika e Sagana, in Kenya, e osservare le distese di ananas che,
a perdita d’occhio, si allungano sul lato destro della strada nella fattoria
Del Monte, o le palme da olio che hanno letteralmente invaso i campi nella zona
di Maria La Baja e Cordoba, sulla costa caraibica colombiana. Queste opportunità
economiche portano posti di lavoro ma anche salari bassi, rischi per la salute
dei lavoratori, abuso delle risorse naturali – acqua, suoli, foreste – e
conflitti legati ad esempio all’accaparramento delle terre (land grabbing, vedi articolo pag. 29) e alla distruzione della biodiversità.

È con questi fenomeni che si deve misurare oggi chi
lavora nello sviluppo. E anche quando se ne è consapevoli e si interviene con
l’intenzione di limitae gli aspetti dannosi, di estendere l’accesso a servizi
di base o di creare alternative economiche eque e sostenibili, il successo è
tutt’altro che garantito. Ne è un esempio il progetto Maji Matone (Gocce
d’acqua), realizzato da una Ong tanzaniana, Daraja (il Ponte), che ne
spiega il fallimento sul proprio blog in un articolo dal titolo «Maji Matone
non ha dato risultati. È tempo di accettare il fallimento, imparare e andare
avanti». Il progetto, concentrato su un distretto della Tanzania meridionale,
mirava a creare un sistema che foisse informazioni ai cittadini sui problemi
di approvvigionamento idrico rurale, permettesse loro di segnalare via sms i
guasti ai punti di distribuzione dell’acqua e inoltrasse le informazioni alle
autorità competenti perché potessero provvedere alle riparazioni. C’era poi un
accordo con i media locali perché dessero visibilità ai problemi segnalati in
modo da fare pressione mediatica sulle autorità per accelerae la reazione. «Perché
abbiamo fallito?», si chiedono i responsabili di Daraja. «Beh, non
abbiamo ancora raggiunto una conclusione definitiva, ma ci siamo fatti un’idea.
Motivare le persone ad agire è difficile, soprattutto quando si promette un
beneficio lontano nel tempo e poco chiaro. Forse avremmo potuto lavorare di più
sulla promozione del progetto, ma concentrandoci sulle aree rurali implica
avere a che fare con gruppi di persone più povere, meno istruite e meno
politicamente impegnate delle loro controparti che vivono nelle aree urbane. Può
esserci anche una questione di genere: nelle zone rurali della Tanzania sono le
donne a occuparsi della raccolta dell’acqua; ma hanno davvero sufficiente
accesso ai telefoni cellulari?». Nei casi in cui la segnalazione del guasto c’è
stata, le riparazioni sono effettivamente avvenute nel quaranta per cento dei
casi; ma mentre Daraja aveva ipotizzato il coinvolgimento di circa
tremila persone, di fatto sono arrivati solo 53 sms.

Per cominciare, continua l’auto-analisi di Daraja, ci siamo
concentrati troppo sugli aspetti tecnologici hi-tech del come scegliere
la piattaforma informatica adeguata per canalizzare tutte le informazioni da
condividere, e troppo poco sui problemi low-tech, cioè sul fatto che
nelle aree rurali il tasso di analfabetismo, la difficoltà ad accedere alla
rete cellulare, la mancanza di elettricità per caricare il telefonino sarebbero
stati ostacoli molto più seri. Inoltre non abbiamo affrontato in modo adeguato
le conseguenze della divisione delle responsabilità stabilita dalle istituzioni
per la gestione dell’acqua: riparare le fonti, stabilisce il ministero
tanzaniano dell’acqua, è responsabilità delle comunità locali. Questo, insieme
a una generalizzata mancanza di fiducia da parte dei cittadini nell’operato delle
autorità pubbliche, ha probabilmente portato la maggioranza dei beneficiari a
pensare che non valeva la pena mandare un sms, tanto non sarebbe servito a
nulla.

Ammettere i
fallimenti

A raccogliere esperienze simili a quella di Daraja
c’è Admitting Failure (Ammettere il fallimento), un sito lanciato dalla
sezione canadese di «Ingegneri Senza Frontiere» dove cooperanti appartenenti a
diverse organizzazioni raccontano la loro esperienza di progetti che non hanno
funzionato. Si trovano storie come quella del volontario dei Peace Corps
che in Benin avvia con quattro donne una piccola produzione di pane: 100
dollari procurati dal cornoperante e 20 da loro sono il capitale iniziale per
comprare il materiale di base. Tutto funziona molto bene, i soldi entrano: su richiesta
delle donne stesse è lui a gestire la cassa. Ma a un certo punto il volontario
decide che è il momento di cedere responsabilità alle donne, cassa compresa, e
di continuare ad affiancarle solo come supervisore della contabilità. È allora
che le donne si dividono i fondi in cassa e smettono di fare il pane, restando
senza risorse per continuare.

«Il motivo del fallimento», spiega l’operatore, «è che
avrei dovuto essere più paziente, aspettando che le donne fossero in grado di
mettere oltre il 75% del proprio capitale nel progetto; avremmo anche dovuto
iniziare con più fondi, 300 invece di 120 dollari. In questo modo, le donne
avrebbero potuto comprare subito tutto il materiale necessario e cominciare a
pagarsi invece di vedere i soldi accumularsi per i successivi acquisti di
attrezzature. Il capitale sarebbe stato in beni non liquidi, loro avrebbero
sviluppato un maggior attaccamento al progetto e non avrebbero avuto contanti
che non sapevano dove conservare senza che mariti e figli li vedessero e li chiedessero».

L’unico vero fallimento «cattivo» è quello che si ripete,
conclude Admitting Failure. E il britannico Overseas Development
Institute
(Odi), che è entrato nel dibattito sugli «Obiettivi Sostenibili
del Millennio» con uno studio dal titolo Adattare lo sviluppo, sembra
essere d’accordo: «Non bisogna aver paura di provare, fallire e riprovare», si
legge nel documento. Secondo l’Odi, che si rivolge ai governi, a chi fa le
riforme nei paesi in via di sviluppo, ai donatori inteazionali e alle Ong, i
fallimenti sono spesso dovuti al fatto che ci si concentra più su modelli
ideali che sui problemi concreti. Ad esempio, l’Uganda ha ottime leggi su
gestione dei fondi pubblici e lotta alla corruzione ma poi, nella pratica, le
leggi sono applicate pochissimo. Bisogna allora chiedersi prima di tutto che
cosa è fattibile e che cosa no in contesti politici difficili come quelli dei
paesi in via di sviluppo e sostenere i cambiamenti che nascono dentro questi
contesti per iniziativa dei diretti interessati: politici, società civile,
comunità e imprese locali.

Una tesi non dissimile era emersa chiaramente anche al
convegno «Africa, continente in cammino», organizzato dai missionari e
missionarie Comboniani nel marzo scorso: «Deve essere l’Africa a salvare
l’Africa», si era detto in quell’occasione. Il ruolo di chi fa sviluppo – non
solo in Africa – è quello di favorire, non dirigere (o peggio, ostacolare), il
cambiamento.

Chiara Giovetti

Tags: cooperazione, sviluppo, progetti

Chiara Giovetti




Religioni e violenza secondoMedha Patkar

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 30

Attivista indiana per
i diritti umani, ambientalista e donna politica, Medha Patkar mette in
evidenza, nelle sue riflessioni, il nesso tra violenza, religioni e potere
politico ed economico. In un contesto come quello indiano in cui il primo
ministro, Narendra Modi, è l’esponente di spicco del Partito del popolo
indiano: conservatore, nazionalista, di esplicita ispirazione induista.

«Occorre comprendere che la violenza,
l’emarginazione di ispirazione religiosa non è il solo problema dell’India,
dell’Orissa e del Kandhamal. Sovente il fattore religioso è pretesto per
accrescere la presa dei potenti sul territorio, per svendee le ricchezze
naturali a grandi compagnie, per espropriare tribali, aborigeni e contadini a
favore di colossali interessi agricolo-industriali o minerari».

A dirlo è Medha Patkar, attivista
indiana conosciuta per le sue battaglie ambientaliste. In tempi recenti ha
portato il suo impegno sul piano politico, ma senza cessare di sostenere la
trentennale lotta delle popolazioni interessate dalla controversa diga del
Sardar Sarovar sul fiume Narmada che coinvolge quattro stati dell’India
centrale. A lei si deve la fondazione, con altri, dell’«Alleanza nazionale dei
movimenti popolari» che si è impegnata contro globalizzazione e strapotere delle
grandi aziende, e che nel 2004 si è trasformata in movimento politico, il «Fronte
politico popolare». Una scelta non da tutti compresa, il passaggio
dall’attivismo ecologista alla politica attiva, che Patkar ha spiegato con la
necessità di portare impegno e lotte prima rivolte a obiettivi particolari, su
un piano più generale ma anche più incisivo: «Noi crediamo che i movimenti
popolari siano inevitabili in ogni democrazia per tenere vivo il processo
democratico e per sollevare e risolvere i conflitti tra stato e cittadini su
questioni di ampio interesse. Questo ruolo, lo diciamo con umiltà, è importante
e occorre proseguirlo. Contemporaneamente abbiamo sempre detto che la politica
elettorale non è intoccabile. Piuttosto la consideriamo complementare a quella
non elettorale.

Riteniamo necessario sfidare e
cambiare quella parte di cultura politica che è criminale e disgregatrice, che
sfrutta non solo la religione ma anche le caste come una forza per proseguire
con il gioco dei numeri».

Qualche tempo fa in un’intervista
alla scrittrice e giornalista Gargi Parsai, riflettendo su un tema a lei caro e
solo all’apparenza lontano dal suo impegno primario, la Patkar sosteneva che «è
vero, le caste dividono la società, e oggi sono strumentalizzate al punto da
mettere gli uni contro gli altri contadini e contadini, operai contro operai.
Anche le caste vengono contrapposte alle altre caste e così finisce che si
riduce la loro capacità di unirsi contro le ingiustizie, ma anche contro le
minacce crescenti all’ambiente. Di conseguenza, è tempo che le popolazioni
costrette a lasciare le proprie terre e gli emarginati si uniscano, in modo che
queste forme di ingiustizia possano essere affrontate in modo unitario e
efficace».

I massacri di
Kandhamal

Più di recente, nel 2014, in
occasione di un grande raduno che ha ricordato l’avvio dell’ondata persecutoria
anticristiana nello stato di Orissa, la Patkar ha avuto modo di riflettere su
questo aspetto del suo impegno che è di riconciliazione prima ancora che di
contrasto a abusi e discriminazioni.

«Sono davvero felice e allo stesso
tempo triste di vedere che a sei anni dai massacri del Kandhamal molti abbiano
ancora così tanto entusiasmo, tanta energia, coraggio e forza di opporsi al
governo dell’Orissa e a quello federale guidato da Narendra Modi.

I fondamentalisti (non importa a
quale religione appartengano), gli individui che hanno stuprato suor Meena e
coloro che hanno distrutto più di 300 chiese, 6500 case (ucciso più di cento
persone, ndr) e costretto 56mila persone a lasciare le proprie
abitazioni e a vivere per le strade, che hanno devastato i loro campi e
raccolti e altri mezzi di sostentamento, hanno trasformato uomini liberi in
schiavi».

L’attivista, in queste parole, faceva
riferimento ai gravi fatti – la peggiore persecuzione anticristiana della
storia modea del paese – che ebbero luogo nel distretto del Kandhamal, nello
stato orientale di Orissa. Iniziati nel Natale del 2007, quando radicali indù
sobillati da un leader locale, Laxmanananda Saraswati, bloccarono con una
serrata le celebrazioni cristiane, si concretizzarono violentemente dopo
l’uccisione dello stesso Saraswati il 23 agosto 2008. Un delitto di cui vennero
accusati i cristiani locali, in maggioranza convertiti da etnie animiste e
gruppi indù fuoricasta. L’evidente pianificazione del pogrom, con
l’arrivo organizzato di migliaia di fanatici da altre aree dello stato di
Orissa e del paese, fu negata a favore di una tesi che sosteneva invece la
spontaneità della persecuzione. Quegli eventi, che hanno segnato profondamente
la coscienza collettiva della comunità cristiana indiana, e la difficoltà da
parte delle vittime di avere giustizia a causa di un pesante clima di
intimidazioni e coperture, hanno chiarito i limiti della giustizia indiana e
accentuato i timori delle minoranze, in particolare sotto l’attuale governo
nazionalista e filoinduista del paese.

«Il Kandhamal è uno dei molti luoghi
in India segnati dalla violenza comunitaria. Ovunque si verifichino rivolte nel
nome della religione, a finire sotto attacco è l’umanità, che viene seppellita
– ha indicato la Patkar -. Comunque, deplorare questi incidenti, per quanto lo
facciamo con forza, non può essere sufficiente. Chi promuove un atteggiamento
violento nel nome della religione va condannato».

Estremismo induista

Convinzioni, quelle di Medha Patkar,
che trovano sempre più spazio nella società civile indiana – che va aprendosi a
tematiche come la discriminazione e la violenza sessuale, la lotta a malgoverno
e corruzione, la ricerca di unità in un paese sempre più frammentato e quindi
sempre più distante dall’integrazione sognata dai suoi fondatori –
contemporaneamente a un aumento della violenza religiosa. Quest’ultima è
incentivata dal movimento di riconversione all’induismo promosso da gruppi
estremisti che non agiscono più attraverso la sola coercizione o intimidazione,
ma anche proponendo incentivi materiali, e utilizzando metodi che ricalcano le
iniziative benefiche presenti, ad esempio, nella prassi cristiana che gli
stessi gruppi stigmatizzano come mirati alla conversione.

«È molto importante che comprendiamo
che cos’è la religione», ha segnalato la Patkar aprendosi a una tematica
raramente parte del suo impegno, ma che, come altre, riveste un ruolo
essenziale nel paese e nelle sue difficoltà attuali, a partire dal settarismo
che va diffondendosi. «Religione è prassi di vita, religione significa legge;
indica alcuni principi fondamentali e nient’altro che questo».

«Alcuni riconoscono Bhagwan (termine
generico per indicare dio nell’induismo, nda) o Allah, altri offrono namaaz
(preghiera islamica, nda) e altri fanno i rituali della puja (atto
di adorazione induista, ndr) e i nostri fratelli adivasi (aborigeni, nda)
trovano i fondamenti della loro religione tra gli alberi, sulle montagne e nei
fiumi. La comunità dalit (termine più attuale per fuoricasta, intoccabili, nda)
considera il dottor Ambedkar (che guidò il movimento per la loro emancipazione
negli anni Sessanta, nda) come loro divinità. Anche Buddha, Kabir,
Periyar, Vivekanand e Mahavir non hanno mai predicato la violenza, lo stupro,
la distruzione per diffondere le rispettive pratiche religiose o filosofiche.
In molti casi, tuttavia, i loro seguaci hanno intrapreso un cammino che
contrasta con gli ideali religiosi e ovunque questo succeda non sono soltanto
case e campi a essere devastati, ma è la stessa religione a essere distrutta».

Prove di pulizia
etnica

Si è spesso detto, in modo
particolare da parte della Chiesa cattolica la quale dal 2008 fronteggia con
coraggio la sfida dell’integralismo indù al fianco delle comunità di battezzati
sparse tra le foreste e le colline dell’Orissa, che la situazione vissuta in
Kandhamal è stata una prova di pulizia etnica. Una spallata alla convivenza e
all’integrazione, come già era avvenuto nell’enorme pogrom antimusulmano
del Gujarat nel 2002, quando la violenza integralista indù provocò 1044 vittime
accertate (di cui 790 musulmani), migliaia di feriti e mutilati, stupri di
massa, più di 60mila sfollati.

Per questo, segnala la Patkar, è
fondamentale capire che cosa è successo in Kandhamal: «Occorre partire dalla
conoscenza della sorte della popolazione interessata dalla persecuzione,
soprattutto delle donne e dei bambini. Le grida strazianti delle donne che ho
sentito, in un tempo in cui sono usate come puro oggetto di repressione, devono
essere ascoltate. Non è solo il mercato con le sue logiche a trattare le donne
come oggetti, ma a volte anche la religione».

In Kandhamal, obiettivi dei radicali
che scatenarono il pogrom erano dalit e adivasi cristiani. I richiami
alla calma furono ignorati e le violenze scoppiarono quando ai cristiani venne
attribuita la responsabilità dell’uccisione del leader radicale indù Swami
Laxmanananda Saraswati e di due suoi seguaci in un presunto centro spirituale
che altro non era che un luogo di cornordinamento delle strategie induiste nella
regione. Di fatto i cristiani furono scagionati subito dai guerriglieri maoisti
che rivendicarono di aver ucciso l’uomo per le sue attività persecutorie e per
il suo ruolo di apripista del controllo economico sul territorio dell’interno
dell’Orissa da parte di facoltosi correligionari.

«Le accuse comunque sfociarono in
violenze diffuse, vittime, conseguenze ancora presenti. Su che cosa furono
basate le accuse verso la pacifica comunità cristiana? Se ci fossero state
responsabilità concrete, la popolazione locale si sarebbe rivolta alle autorità.
Il fatto fu che a incentivare i disordini fu un gran numero di elementi
arrivati da fuori Kandhamal e anche da fuori Orissa, e a prolungarli contribuì
la latitanza della polizia in uno stato governato allora in coalizione da un
partito locale di centrodestra, il Biju Janata Dal, e dal Bharatiya
Janata Party
, gruppo di riferimento politico dell’estremismo induista, oggi
al potere centrale a livello federale».

Goveo e
fondamentalisti

Ogni anno ad agosto, gli estremisti
indù organizzano manifestazioni in cui accusano i cristiani di essere colpevoli
degli eventi del Kandhamal e di conversioni forzate. Allo stesso modo, i
cristiani, insieme ad altre organizzazioni della società civile locale e
nazionale, chiedono giustizia accusando gli indù di atteggiamento persecutorio.
A chi dovremmo credere? La risposta di Medha Patkar è chiara: «Ricordate: se c’è
violenza di ispirazione religiosa, la responsabilità ricade sia sul governo,
sia sui fondamentalisti. Dov’era il governo nei terribili giorni del Kandhamal,
dal 23 agosto 2008 in avanti? Chi aveva il potere allora in Orissa?
Evidentemente i due partiti della coalizione decisero di non intervenire, anche
se successivamente l’alleanza si allentò notevolmente. Gli ufficiali di polizia
che resero possibile alle violenze di propagarsi non sono stati puniti, come
pure i responsabili dello stupro di suor Meena. Ai profughi, espropriati di
case e beni viene ancora negata la possibilità del ritorno».

Politica (e
ingiustizia) in nome della religione

Questa problematica non è solo
limitata al Kandhamal, e il continuo accento, posto dalle istituzioni,
sull’unità e integrità del paese – a fronte di pratiche di segno opposto che
proprio la stessa politica e le stesse autorità incentivano o consentono – la
rende più evidente per contrasto.

«Fratelli e sorelle – concludeva
Medha Patkar lo scorso agosto il suo discorso in Orissa, mostrando una copia
del rapporto del Tribunale del popolo per il Kandhamal, impegnato a cercare
giustizia per le vittime – qui sono descritte le azioni che occorrerebbe
intraprendere, quali sono le leggi in base alle quali punire i criminali. La
gente non ottiene giustizia perché i politici fanno politica in nome della
religione. I cristiani sono soltanto il 3% della popolazione, i musulmani il
13%, gli adivasi il 9%. Perché i politici dovrebbero sostenerli? Quando i
partiti pensano così, il popolo non ottiene giustizia, i colpevoli non sono mai
puniti mentre innocenti finiscono in carcere per avere reclamato i propri
diritti. Perché non ci sono state indagini efficaci nel caso del Kandhamal?
Perché nessuno pone questa domanda? Questa è la mia domanda». 

Stefano Vecchia

Tags: Medha Patkar, Narenda Modi, Fondamentalismo, fondamentalismo indù, Orissa, intolleranza religiosa, persecuzioni

Stefano Vecchia




I Perdenti 5. Montezuma e Atahualpa

 

Montezuma (1466 circa – 29 giugno 1520),
ultimo imperatore azteco, prima di salire al potere era un capo locale
lungimirante e un buon amministratore. Fra i suoi compiti c’era anche quello di
esercitare il sacerdozio a servizio degli dei del suo popolo. Dopo la sua
ascesa al trono nel 1502, tutto cambiò: divenne dispotico e violento,
superstizioso e con un carattere insicuro e altalenante. Il giorno della sua
incoronazione fece uccidere diverse migliaia di prigionieri sacrificandoli agli
dei perché lo proteggessero e lo custodissero lungo tutta la sua vita.

Le poche volte
che si mostrava ai suoi sudditi si presentava sempre con abiti sfarzosi ed
eleganti. Viveva in una enorme reggia dove le sue due mogli e le numerose
concubine erano circondate da un lusso inimmaginabile.

Atahualpa (20 marzo 1497 – 23 agosto 1533), è
stato l’ultimo sovrano dell’Impero Inca, giunto al potere dopo aver sconfitto
il fratellastro Huascar alla fine di una lunga guerra civile, regnò di fatto
solo un paio d’anni, quelli cruciali dell’incontro delle due culture indigena
ed europea. Nelle diverse biografie che ci sono giunte viene presentato come un
sovrano che goveò senza saggezza il vasto impero che aveva conquistato. Di
famiglia nobile, era legato con vincoli di parentela alle famiglie che
controllavano porzioni del suo territorio, una situazione instabile che di
volta in volta determinava conflitti o accordi precari con vari maggiorenti
dell’impero.

Voi due siete gli
ultimi sovrani degli imperi Azteco e Inca. Avete vissuto un momento cruciale
della storia dei vostri popoli: l’incontro con due personaggi come Hean
Cortés e Francisco Pizarro, che incarnavano la sete di conquista e la bramosia
di ricchezza dei conquistadores.


Parlateci un po’ di voi, come si svolgeva la vita della vostra gente prima
dell’arrivo degli spagnoli?

Montezuma: Considerando che l’impero Azteco di
cui io ero il monarca assoluto, aveva praticamente sconfitto tutte le popolazioni
(Maya compresi) che vivevano in quello che adesso è grosso modo il territorio
del Messico, del Guatemala e di altri paesi centroamericani, si può dire che
vivevamo senza grosse preoccupazioni e con un certo benessere.

Atahualpa: Noi Incas vivevamo in quello che
adesso è il territorio del Perù, dell’Ecuador e del Nord del Cile. Un
territorio immenso di difficile controllo, tant’è vero che una delle attività
principali dei sovrani incaici era appunto quella di mantenere in buono stato
una rete di strade e sentirneri per far sì che i funzionari potessero arrivare
nel più breve tempo possibile fino ai villaggi posti agli estremi confini
dell’impero.

L’arrivo dei
conquistadores fu allora come un fulmine a ciel sereno.

Montezuma: In un primo momento fummo affascinati
da questi uomini bianchi dalle lunghe barbe, benché puzzassero oltre ogni
immaginazione; avevano strani bastoni lucenti che provocavano il tuono e la
folgore e ancora più strani ed enormi animali dai piedi di argento.

Atahualpa: Il fatto di vederli sopra quelle
bestie che noi non avevamo mai visto, in quanto gli animali più grossi presenti
nelle nostre terre erano il lama, l’alpaca e la vicuña, li rendeva ai nostri
occhi delle persone eccezionali, capaci di percorrere distanze molto superiori
a quelle che abitualmente facevamo noi a piedi.

Avevate coscienza che
prima o poi sarebbero arrivate genti da Oriente?

Montezuma: Rileggendo alcuni fatti antecedenti
l’arrivo dei conquistadores, capimmo una vecchia leggenda che annunciava alcuni
segni premonitori del crollo dell’impero Azteco. Infatti negli ultimi tempi era
apparsa una cometa in pieno giorno, alcuni avevano visto una colonna di fuoco
nel cielo notturno, un fulmine aveva colpito il tempio dei sacrifici e c’era
stata un’inondazione spaventosa come non se ne erano viste mai. Tutti segni di
morte che non lasciavano prevedere niente di buono per il futuro.

Atahualpa: I nostri saggi si tramandavano da
generazioni una profezia che parlava di genti diverse provenienti dal mare e da
terre lontane. Essi non entravano nei dettagli per non spaventare il popolo con
i foschi presagi della distruzione del nostro impero.

Quando vi siete
trovati davanti i conquistadores, qual è stata la vostra prima reazione?

Montezuma: Quando gli uomini bianchi arrivarono
nella nostra città, noi andammo loro incontro accogliendoli con tutti gli onori
dovuti agli ospiti e cercammo in ogni modo di soddisfare le loro richieste.

Atahualpa: Visto che non erano neanche un
centinaio, non mi preoccupai più di tanto, anzi, pensavo che proprio
l’accoglierli come ospiti di riguardo avrebbe permesso a me e alla mia gente di
vivere in pace con loro.

Quindi li faceste
entrare nei vostri palazzi.

Montezuma: Riservai a Cortés, il loro capo, uno
degli appartamenti regali e lasciai che i suoi uomini si sistemassero nelle
case di Tenochtitlan.

Atahualpa: Anch’io feci alloggiare il
comandante Pizarro in una casa riservata alla nobiltà, mentre i suoi uomini
venivano ospitati dalla gente che viveva vicino al palazzo imperiale.

Però dopo poco tempo
vi rendeste conto di quale fosse ciò che stava più a cuore a questi uomini.

Montezuma: Essi non facevano altro che
chiederci dove potevano trovare l’oro, se questo minerale fosse lontano dalla
costa e di come avrebbero potuto trasportarlo rapidamente alle loro navi.

Atahualpa: Anche da noi sembrava che la
richiesta maggiore fosse legata proprio all’oro, da noi utilizzato solo per
rendere più lucenti determinati oggetti di uso domestico.

Ma voi li sentivate
come avversari e nemici o come ospiti che, come erano giunti, prima o poi se ne
sarebbero andati?

Montezuma: La loro insistenza nel richiedere
oro e nell’avanzare pretese di ogni tipo riguardo le nostre donne, insinuò in
noi il dubbio che non fossero poi tanto cordiali come volevano presentarsi.
Anzi!

Atahualpa: Considerando le armi che possedevano
e gli animali che avevano, pensai addirittura di farmeli alleati per
fronteggiare eventuali nemici che insidiassero il mio Regno.

Come arrivaste ad
avere un conflitto con loro?

Montezuma: Ogni giorno che passava i nuovi
arrivati si comportavano sempre più da padroni, si appropriarono di quella che
era la nostra terra e quello che è peggio, prendevano i nostri giovani e li
facevano lavorare per loro trattandoli come schiavi.

Atahualpa: Si installarono nel mio palazzo e
praticamente mi tolsero ogni libertà di azione, pur rimanendo io il capo del
mio popolo, erano loro che davano gli ordini. Per la mia libertà arrivarono a
chiedere un riscatto: riempire un grande locale con tutto l’oro che riuscivamo
a trovare. Purtroppo anch’io caddi nella loro trappola invitando il mio popolo
ad assecondare i loro desideri.

Oltre a queste
richieste, ci furono altri motivi di attrito tra voi e gli spagnoli?

Montezuma: Cortés, comandante degli spagnoli,
diede ordine ai suoi uomini di distruggere tutte le immagini dei nostri dei e
le decorazioni sacre che li onoravano. Mentre compivano queste devastazioni, la
folla si sollevò dando così il pretesto per un eccidio che passò alla storia
come «Massacro del Tempio Grande». Per evitare ulteriori sofferenze mi
affacciai al balcone invitando la mia gente a ritirarsi. Credendo che io fossi
complice di quell’efferatezza, il mio popolo scagliò pietre e frecce anche contro
di me.

Atahualpa: I notabili spagnoli mi dissero che
essi erano giunti nelle mie terre perché il mio popolo si convertisse al
cristianesimo e noi riconoscessimo l’autorità di Re Carlo I di Spagna. Risposi
che io non sarei mai stato sottomesso a nessun re, a quel punto Pizarro diede
l’ordine di attaccare i miei uomini e di distruggere tutto ciò che trovavano
sul loro cammino. Fu una vera ecatombe, morirono migliaia di Incas, mentre io
durante la battaglia rimanevo in piedi circondato dai nobili più fedeli. Alla
fine fui catturato e imprigionato nel Tempio del Sole.

Questi avvenimenti
così drammatici posero fine alla vostra vita?

Montezuma: Ferito dalle pietre e dalle frecce
che mi avevano tirato, caddi a terra circondato dai conquistadores, i quali dopo
alcuni giorni mi tolsero la vita facendomi ingerire oro fuso.

Atahualpa: Nonostante il pagamento dell’enorme
riscatto, venni processato e condannato a bruciare sul rogo. Se avessi
accettato di convertirmi al cattolicesimo la mia pena sarebbe stata commutata.
Nella mia cultura era importante conservare l’integrità del corpo per accedere
all’immortalità, pertanto accettai di essere battezzato e fui ucciso mediante
strangolamento.

 

Con la morte dei loro
capi, il popolo Azteco e quello Inca, attraversarono un momento di sbandamento,
iniziarono la loro parabola discendente e vennero soggiogati dai nuovi
arrivati. La storia di queste comunità quindi, si mescola con la storia di
altri popoli precolombiani che subirono la stessa sorte. Gli spagnoli,
conquistate le loro terre, li inglobarono nella nuova realtà e nella società
che stava nascendo. Sterminate in larga misura le popolazioni amerinde e fatti
arrivare

dall’Africa gli
schiavi neri per sopperire alla scarsità di mano d’opera per le immense
coltivazioni che si avviavano in quegli anni, il continente americano diede
vita a una nuova umanità. Ben riassunta, questa, da una lapide posta nella
piazza delle Tre Culture a Città del Messico per ricordare l’incontro-scontro
fra popoli diversi, dove sono scolpite queste suggestive e commoventi parole:
«No fue triunfo ni derrota. Fue el doloroso nacimiento del pueblo mestizo que
es el Mexico de hoy». (Non fu trionfo né sconfitta. Fu la dolorosa nascita del
popolo meticcio che è il Messico di oggi).

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera