La politica di Dio (che è laico) | Rendete a Cesare – 7

«Non sei lontano dal Regno di Dio» (mc 12,34)

Un esodo al contrario

Il credente che sta nel mondo, sa di doverci stare come tutti gli altri, senza pretendere per sé alcun spazio particolare, alcun privilegio speciale, alcuna legge di favore. Anche se tutte queste cose fossero buone, o addirittura ottime, anche in vista di una migliore organizzazione del mondo, il credente dovrebbe avere in sommo grado il senso della varietà, tanto da rinunciare a ogni forma di privilegio, anche se fosse maggioranza e avesse la forza e i numeri di legiferare la società. Il credente nel Dio Creatore è colui che assume l’ultimo, il piccolo, il debole come «valore» supremo e ne garantisce non solo la sopravvivenza, ma la piena dignità. Anche se una società fosse tutta cristiana e al suo interno vi fosse una sola – soltanto una – persona non cristiana con usi e sistemi diversi, il credente dovrebbe essere il primo a tutelare il diritto di quella singola persona che è minoranza, prima ancora di affermare il diritto di sé come maggioranza. In questo deve essere esclusa qualsiasi forma di «tolleranza» perché il credente in Dio non può tollerare, può solo accogliere in nome di Dio «Padre Nostro». «Tollerare» significa sopportare per necessità ed è per questo che chi tollera è di norma «intollerante» e lo dimostra appena gli è permesso o pensa di poterlo fare.

Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive, come abbiamo visto nella puntata precedente, l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e la sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium, cap. VII [nn. 48-51]). Indole significa che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio che è presente nei regni degli uomini, pur non identificandosi con alcuno di essi. L’obiettivo del servizio «nel» mondo cioè mira a creare le condizioni affinché i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non di schiavi.

Il compito dei cristiani e, a maggior ragione dei vescovi e della gerarchia cattolici, non è tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi da spartire con i politici complici. Al contrario, obiettivo primario e fine supremo della presenza dei cattolici in politica è unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e sia distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo.

La politica prolungamento della creazione

Chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo»; chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto» ed è guidato dallo Spirito di Dio. I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire e ascoltare il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono cristiani o credenti, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e correi di corrotti e corruttori, immorali e amorali, non siamo più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste (19 maggio 2013) ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. Cesare non si cura di Lazzaro e lo abbandona alla pietà dei cani, mentre i figli di Abramo lo accolgono alla loro mensa e lo nutrono. A noi la scelta.

Dio è laico

Una forma concreta di attuazione di questa prospettiva evangelica di separazione integrata senza opposizione tra fede e mondo, si trova in un testo anonimo del sec. II, una lettera indirizzata ad un certo Diogneto, da cui prende nome (vedi i due box qui sotto).

Il cristiano è nel mondo per vocazione e missione; egli è il cultore della relativizzazione e l’assertore dell’Assoluto che è Dio. La Chiesa non può vivere in competizione con il mondo né può pretendere di esercitare il suo dominio sul mondo profano e/o secolarizzato. Essa non è chiamata a trasformare il mondo da profano in mondo cristiano perché rischia di ritornare a quella infausta «cristianità» che tanti mali ha arrecato alla Chiesa e al mondo e tanti ne arreca oggi, in cui il mondo clericale è abbagliato dalla ricchezza, dal compromesso e dall’alleanza con i potenti, pensando che saranno i potenti ad aiutarla a cristianizzare le istituzioni. Il mondo clericale deve rassegnarsi perché il Dio di Gesù Cristo è laico per natura e per essenza e laiche sono le istituzioni del mondo verso il quale la Chiesa ha il dovere e il diritto di osservare alla lettera il comando del Signore: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche» (Lc 9,3), perché solo la povertà e la fragilità dell’inviato può rendere testimonianza credibile al Signore della Storia e rendere visibile il suo volto per farlo apparire credibile attraverso la credibilità del proprio operato e della propria testimonianza, suscitando così il desiderio di Dio e la conseguente conversione.

Politica e carità

La prospettiva posta da Gesù con la questione del tributo a Cesare, è una prospettiva soprannaturale all’interno del criterio d’incarnazione la quale è la logica del chicco di grano che deve cadere in terra e morire se vuole portare frutto (cf Gv 12,24). Il cristiano non lotta per avere uno strapuntino di potere nel mondo, ma lascia ogni potere per assumere in pieno ciò che gli compete e gli appartiene di diritto: la testimonianza del servizio disinteressato. Alla luce di quanto detto, ancora oggi sono valide le parole di Pio XI in un discorso tenuto alla Fuci: la politica è «il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore». Ecco il punto di partenza che è anche il punto di arrivo: per i credenti, per i cristiani che credono in Dio, la politica è «il campo più vasto della carità», cioè dell’amore gratuito che è l’esatto contrario di ogni intrallazzo, compromesso, accordo a favore di pochi e a danno di molti.

[7 – continua con la prossima e ultima puntata]

 

Dalla lettera a Diogneto – 1

V.  1I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati giorniscono come se ricevessero la vita. 17Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio (A Diogneto, V,1-17).

 

Dalla lettera a Diogneto – 2

VI. 1A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. 4L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. 9Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare (A Diogneto, VI,1-10).

 

Paolo Farinella




Per «tutelare Dio»

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 13

Bestemmiare, cambiare credo e diffamare fede, persone o gruppi
religiosi è reato in diversi paesi. Le leggi «antiblasfemia» nascono con
l’intento di difendere la religione, ma nei fatti soffocano la libertà
religiosa. Mentre l’apostasia viene punita in 20 paesi, tutti a maggioranza
musulmana, la blasfemia è punita anche in paesi «insospettabili» come Grecia,
Germania, Danimarca, Italia.

Dal Pakistan all’India alla Turchia alcuni episodi sono saliti
alla ribalta dell’attenzione internazionale. In anni recenti, un gran numero di fatti di cronaca hanno
accentuato l’attenzione dei mass media sulle cosiddette «leggi antiblasfemia»
che in diversi paesi del mondo hanno portato, e portano, alla violazione del
diritto di libertà religiosa. Tali leggi e politiche governative, infatti,
nonostante siano giustificate per lo più dalla volontà di tutelare le fedi
della popolazione, sono invece spesso lo strumento per reprimere i gruppi
religiosi di minoranza, o espressioni «non ortodosse» del credo di maggioranza.
Sono il 47% del totale gli stati e i territori che nel mondo
applicano legislazioni contro la blasfemia1, l’apostasia2 o le varie forme di
diffamazione della religione3 secondo una recente analisi del Pew Research Center’s Forum on
Religion & Public Life
(centro di ricerca statunitense indipendente,
specializzato in tematiche religiose e sociali). Dei 198 paesi presi in esame
durante l’anno 2011 dal Pew forum, 32 avevano specifiche leggi
antiblasfemia, 20 provvedimenti che colpivano l’apostasia e 87 avevano leggi per
contrastare offese verso una religione, inclusi parole o atteggiamenti di
incitamento all’odio contro un gruppo religioso. Per raccogiere i dati e
attuare le analisi, la ricerca ha utilizzato, oltre al lavoro diretto sul
campo, ben 19 fonti facilmente accessibili: dal dipartimento di Stato Usa alle
Nazioni Unite, da Human Rights Watch ad Amnesty Inteational e Inteational Crisis Group.

Le indagini precedenti avevano sottolineato un elemento importante
per quanto riguarda la libertà di credo nei diversi paesi, confermato
nell’ultimo studio: i paesi che hanno nel loro ordinamento leggi contro la
bestemmia, l’apostasia o la diffamazione della religione tendono ad avere
maggiori restrizioni governative e tensioni sociali più forti riguardo al
fenomeno religioso.

Bestemmia
e diffamazione

Lo scorso anno ha fatto scalpore il caso di Rimsha Masih, una
14enne pachistana di religione cristiana arrestata e incarcerata perché
accusata di aver bruciato pagine di un libro propedeutico allo studio del
Corano. Dopo alcuni mesi di prigionia la ragazza è stata liberata perché le
prove erano state costruite dal suo accusatore, il quale, a sua volta
incolpato, è stato recentemente assolto (si veda pag. 8 di questo numero di
Mc
).

Da tempo l’uso strumentale della legge antiblasfemia è diventato
in Pakistan un ostacolo alla convivenza delle comunità religiose. Dal musulmano
Pakistan passiamo all’India, dove Sanal Edamaruku, presidente della Indian
Rationalist Association
, è stato incriminato, sempre nel 2012, per avere
dichiarato che una statua di Gesù particolarmente venerata a Mumbai per le sue
caratteristiche miracolose sarebbe stata un falso.

I due casi, pur essendo di natura simile, sono stati trattati in
modo diverso sul piano giuridico: il primo, infatti, è rientrato nell’ambito
della blasfemia, il secondo in quello della diffamazione della religione. I
casi che riguardano la blasfemia sono presenti soprattutto in paesi musulmani,
quelli riguardanti la diffamazione sono assai più diffusi. In ogni caso, sono
coinvolti in queste politiche di «protezione» della religione anche paesi «insospettabili».
La Grecia, ad esempio, ha una delle legislazioni più rigide, certamente la più
severa in Europa, riguardo la blasfemia. La Cina, paese formalmente guidato da
un’ideologia atea, il comunismo, che controlla in modo pesante le attività
religiose autorizzate, con la versione più aggiornata del Regolamento degli
Affari religiosi del marzo 2005 persegue la discriminazione e l’offesa
religiosa.

Nel 2011, sul totale già citato di 32 paesi che penalizzavano la
blasfemia, la maggior parte si trovava in Medio Oriente e nell’Africa
settentrionale. In 13 dei 20 paesi di quell’area la blasfemia è un crimine.
Nella regione Asia-Pacifico, sono nove su 50 i paesi con leggi analoghe, mentre
in Europa questa legge si ritrova in otto dei 45 paesi del continente (tra cui
anche l’Italia, si veda la tabella in questa pagina, ndr). Per quanto
riguarda l’Africa Subsahariana, sono solo due i paesi che applicano una legge
antiblasfemia: Nigeria e Somalia.

Il
disagio dell’Islam

Pare inevitabile, parlando di «bestemmia» e
di come le istituzioni di diversi paesi nel mondo cercano di contrastarla
attraverso provvedimenti mirati, concentrarsi quasi esclusivamente sull’Islam.
L’attuale influenza di una versione rigorista della dottrina musulmana, quella
wahhabita, elaborata nel medioevo islamico e predominante in Arabia Saudita e
in altri paesi della regione, sta segnando la pratica di fede nell’ecumene
musulmano e anche la vita di chi musulmano non è. Il wahhabismo, forte degli
abbondanti proventi del petrolio, ha incentivato una diaspora missionaria che
ha sostenuto la nascita di infinite scuole coraniche, moschee, centri di
studio, ma anche la diffusione di ideologie di extraterritorialità e
ribellione, e focolai di intransigenza religiosa. Facendo leva su povertà,
frustrazioni e aspirazioni di molte comunità islamiche, dalla Palestina alle
Filippine meridionali, è diventato anche elemento destabilizzatore per molti
paesi a maggioranza musulmana, provocando più vittime tra i correligionari che
non tra i non-musulmani. Un radicalismo che incentiva il senso di inadeguatezza
di ampie comunità islamiche asiatiche attraverso il continuo accento posto
sulla distanza tra i costumi di vita locali e la necessaria fedeltà all’Islam. È
da questo – ovvero dalla percezione di una identità islamica minacciata – che
derivano probabilmente molte delle legislazioni antiblasfemia. Da qui deriva
anche il contrasto continuo all’interno dei grandi paesi musulmani
sull’applicazione della legge coranica (Shari’a): la giurisprudenza
laicista la vorrebbe vincolante per i soli musulmani, gli oltranzisti invece erga
omnes
, ovvero imposta anche alle minoranze. Ulteriori complicazioni
derivano poi dalla presenza di leggi tribali o locali nei diversi ordinamenti.
Alla fine, nella pratica, la legge più
restrittiva s’impone a scapito delle istanze di uguaglianza e, sovente, di
sviluppo.

In carcere il
blasfemo turco

Un caso recente mostra che la legge si applica in modo esteso
anche ai nuovi media. A fine maggio 2013, alla Turchia è toccato condannare per la prima
volta per blasfemia un blogger, un cittadino turco di origini armene, Sevan
Nisanyan, ritenuto colpevole di «avere apertamente denigrato i valori religiosi
di una certa parte della popolazione» e per questo condannato a un anno e 45
giorni di detenzione.

Una condanna estesa dagli iniziali nove mesi chiesti dal pubblico
ministero perché il suo crimine, come segnalato dall’agenzia d’informazione
semi-ufficiale Anadolu, «è stato commesso attraverso un mezzo
d’informazione». Una sentenza che mostra insieme elementi purtroppo noti e
anche di novità, quella decretata in Turchia, paese dalle solide basi laiciste,
iscritte nella sua storia modea prima ancora che nella costituzione del 1982,
ma che sotto il governo islamista di Regep Tayyip Erdogan ha visto una sicura
svolta integralista. Non senza resistenze, intee ed estee al parlamento di
Ankara e anche sotto lo sguardo attento delle diplomazie inteazionali, a
partire da quelle dell’Unione Europea.

In un testo pubblicato sul suo blog lo scorso settembre, Nisanyan
(pubblicista e tra i pionieri delle nuove tendenze dell’industria turistica
turca) aveva parlato delle proteste inteazionali successive all’uscita del
film di produzione hollywoodiana Innocence of Muslims, una pellicola di
basso livello artistico e tecnico e ancor minore successo commerciale, che
metteva in ridicolo la figura del profeta Maometto. Dure poteste, con episodi
di violenza furono il risultato in diversi paesi  musulmani, tra cui Egitto e Libia. Mentre il
premier turco denunciava il film come «islamofobico», la sua popolazione si
limitava a proteste pacifiche e poco partecipate.

«Non è un crimine che chiama all’odio prendersi gioco di alcuni
leader arabi che molti secoli fa proclamarono di essersi messi in contatto con
Dio e ne ottennero, come conseguenza, benefici politici, economici e sessuali.
Si tratta di un caso quasi a livello di scuola matea di quella che noi
chiamiamo libertà di espressione», aveva scritto tra l’altro Nisanyan.

I casi
dell’Islam asiatico

L’Asia meridionale e il Sud-Est asiatico raccolgono la maggioranza
dei musulmani del mondo (il 62%), eppure il loro ruolo nell’Islam è ancora
subordinato ai paesi arabi. Le masse che alimentano ecumenismo e orgoglio
nell’Islam sono lì, in Oriente, ma devono sottostare a regole elaborate sotto
le tende beduine come negli uffici «glacializzati» che si affacciano sul Golfo.

L’Indonesia è il primo paese islamico al mondo con i suoi 250
milioni di abitanti all’87% musulmani; il Pakistan è il secondo con 182 milioni
di credenti; l’India, grande paese induista, è al terzo posto (almeno 140
milioni), all’incirca alla pari con il musulmano Bangladesh. Afghanistan,
Malaysia e Boeo sono altri stati a maggioranza islamica, mentre consistenti
comunità musulmane si trovano in Cina, Thailandia, Malaysia, Myanmar,
Filippine, Vietnam, Cambogia e Sri Lanka.

Tra tutti, il Pakistan si distingue per l’uso più concreto e anche
criticato della legge antiblasfemia. Strumento nato nel 1986 per garantire
all’allora dittatore militare Zia ul-Haq l’appoggio degli islamisti contro gli
oppositori. Gli articoli del codice penale collettivamente indicati come «legge
antiblasfemia» continuano a essere in Pakistan un’arma da usare contro
avversari politici, in faide personali e verso le minoranze. Un’arma a volte
letale che arriva a colpire anche bambini di dieci anni e persone mentalmente
incapaci.

Il governo di Islamabad nega di avere dati disponibili e le altre
fonti sono spesso contraddittorie, ma secondo le ricerche della Commissione
Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica pachistana, dal 1986
all’agosto 2009, sono almeno 964 i pachistani finiti sotto processo per
blasfemia: 479 musulmani, 340 ahmadi,
119 cristiani, 14 indù e una decina di fede ignota. Mancano i dati delle
condanne e di quanti stanno scontando la pena, ma sono certamente decine.
Diversi sono stati uccisi in carcere oppure subito dopo la liberazione
decretata dai giudici. Se è vero che a essere stati arrestati e giudicati sono
in misura rilevante musulmani «ortodossi» di appartenenza sunnita o sciita,
spesso critici verso il potere o verso l’estremismo religioso, è pur vero che
le minoranze, compresa «l’eresia» islamica Ahmadi, sono presenti tra gli
accusati in misura superiore. 

Stefano Vecchia
 
Note:

1.
Con blasfemia, o bestemmia, si intendono osservazioni o scritti
considerati sprezzanti, offensivi verso Dio.
2.
Con apostasia si intende l’abbandono di una fede religiosa per un’altra.
Ad esempio l’abbandono dell’Islam per diventare cristiano.
3.
Con diffamazione della religione si intendono la denigrazione o la
critica di un credo religioso.

Stefano Vecchia




Cirillo e Metodio apostoli degli Slavi

Cirillo
e Metodio, fratelli greci, nativi di Tessalonica, fin dall’inizio della loro
vocazione, entrarono in stretti rapporti culturali e spirituali con la Chiesa
di Costantinopoli. Entrambi scelsero la vita religiosa al servizio della
missione. Su richiesta del principe di Moravia, Roscislaw, all’Imperatore e al
Patriarca di Costantinopoli, furono inviati a evangelizzare i popoli slavi che
abitavano la penisola balcanica e le terre percorse dal Danubio. Per rispondere
al loro impegno missionario tra gli slavi inventarono un nuovo alfabeto e
tradussero nella lingua locale brani del Vangelo e libri a scopo liturgico e
catechetico, gettando così le basi di tutta la letteratura nelle lingue di quei
popoli. Giovanni Paolo II, nel 1980, con la lettera apostolica Egregiae virtutis, li ha proclamati
compatroni d’Europa associandoli così a san Benedetto da Norcia, per la loro
gigantesca opera culturale ed evangelizzatrice, svolta in condizioni molto
difficili in un secolo piuttosto oscuro. Essi sono considerati patroni di tutti
i popoli slavi.

Di fronte a due giganti della
missione come voi, uno si sente piccolo piccolo; anzi, di fronte al vostro
impegno missionario, qualunque cosa pensiamo di aver fatto sembra veramente
poca cosa.

Cirillo
e Metodio:
Siamo noi a sentirci imbarazzati, perché
sembra che chissà quali grandi opere abbiamo compiuto. In realtà, tutto ciò che
abbiamo fatto è opera della Spirito Santo che, attraverso di noi e dei nostri
discepoli, ha operato meraviglie in quei popoli che vivevano alla periferia
dell’impero bizantino.

Voi siete di origine e cultura
greca, parlateci un po’ della vostra famiglia.

Cirillo
e Metodio:
Siamo nati e cresciuti a Tessalonica
(l’attuale Salonicco) in una famiglia della nobiltà bizantina. Nostro padre era
comandante di una squadra navale della flotta dell’impero bizantino. Nella
nostra numerosa famiglia (eravamo 11 tra fratelli e sorelle) si è sempre
vissuto un forte anelito culturale, unito alla solida spiritualità che i nostri
genitori ci hanno trasmesso.

Come tutti i fratelli, immagino
che i vostri caratteri non fossero proprio uguali, o sbaglio?

Metodio:
Io presi il carattere di mio padre e anche le sue doti. Come figlio di un
ammiraglio dell’impero bizantino, anch’io ero piuttosto avveduto nelle scelte
che si dovevano fare e avevo una ferrea volontà nel portare avanti i compiti
che mi venivano assegnati. Per queste mie caratteristiche mi venne affidato per
un periodo di tempo il governo di una colonia slava in Macedonia.

Cirillo:
Alla inconcludente vita politica di Costantinopoli (non per nulla i
ragionamenti arzigogolati si chiamano «bizantinismi») preferivo la quiete dello
studio e le tranquille giornate a corte, dove fui per qualche tempo anche
paggio dell’imperatore. Ultimati gli studi alla scuola di Fozio, detto «il
Grande», intrapresi la carriera d’insegnante.

Uno amministratore, l’altro
professore di scuola, in realtà la vostra carriera non si è sviluppata secondo
le linee che tutti si aspettavano da voi in famiglia.

Cirillo
e Metodio
: Infatti ambedue, avvertendo dentro di noi
la chiamata al sacerdozio, ci mettemmo a disposizione per l’attività
missionaria.

Si può dire che la vostra
vocazione sia legata alla vostra città di origine e all’ambiente in cui siete
vissuti?

Metodio:
Certamente. Il fatto di crescere in un ambiente profondamente segnato dalla
fede in Cristo in una città come Tessalonica, dove erano presenti diverse
comunità con lingue e culture differenti, ci portava a pensare di annunciare il
Vangelo a gente che non apparteneva alla cultura greca e che parlava una lingua
diversa.

Cirillo:
In realtà fui battezzato col nome di Costantino e quando mi trasferii,
nell’842, a Costantinopoli per perfezionarmi negli studi di teologia e
filosofia, nella mia sete di cultura approfondii studi di astronomia,
geometria, retorica e musica. Per un certo periodo feci un’esperienza di vita
monacale, dove mi cambiarono il nome, imponendomi quello di Cirillo (che vuol
dire «consacrato al Signore») con cui sono conosciuto nella Chiesa e da cui
prende nome addirittura l’alfabeto che ho inventato, il Cirillico.

In un contesto linguistico così articolato
e variegato, penso che per voi non sia stato difficile imparare nuove lingue.

Metodio:
Certamente vivendo in una città multiculturale, oltre al greco e al latino, si
imparavano frasi delle diverse lingue delle comunità che vivevano a Tessalonica.
Ognuno sapeva più o meno qualcosa della lingua dell’altro.

Cirillo:
Oltre al greco e al latino, parlavo correttamente siriaco, arabo, ebraico e
alcuni dialetti slavi che risuonavano nella nostra città. Questo ci aiutò molto
quando iniziammo la nostra missione con gente che parlava lingue diverse.

Così completati gli studi e
ordinati preti, eravate pronti per iniziare la vostra meravigliosa avventura
missionaria tra i nuovi popoli.

Cirillo
e Metodio:
La prima missione evangelizzatrice fu in
Pannonia (l’attuale Ungheria, con la sua magnifica puszta [steppa], ai
nostri tempi molto più estesa di quanto potete immaginare). Mentre, nell’anno
862, il re Roscislaw della Grande Moravia chiese all’imperatore di Bisanzio
l’invio di missionari per rafforzare l’autonomia del proprio stato,
sottraendolo così alla dipendenza dal clero germanico, che corrispondeva di
fatto a una dipendenza politica e culturale dallo stato Franco. Fu in questa
occasione che si dispiegò completamente la nostra missione fra i popoli slavi.

Quale fu la più grande difficoltà
incontrata?

Cirillo
e Metodio:
Sicuramente la lingua, pur parlando diversi
idiomi non riuscivamo a intenderci con i nativi, perché quei popoli, avendo una
coltura prevalentemente orale non conoscevano la scrittura. Ovviamente c’erano
alcuni che sapevano leggere il greco e il latino, ma mai la lingua locale era
stata fissata nella scrittura.

Perché inventaste un alfabeto del
tutto nuovo?

Cirillo
e Metodio:
Per andare incontro alla sensibilità delle
popolazioni che si aprivano al Vangelo. Creammo una scrittura basata sul
dialetto slavo meridionale parlato nei dintorni di Salonicco. Questo alfabeto
(gli studiosi lo classificano come glagolitico antico) venne usato per la prima
volta in Moravia verso la fine del IX secolo, e vedendo che esso attecchiva con
sorprendente rapidità – perché evitava i caratteri latini, sottraendo questi
popoli all’influenza dei Franchi, popoli del Nord Europa che erano già venuti a
contatto con la grande cultura dell’impero romano, e lasciava da parte
l’alfabeto greco, egemonico nell’impero bizantino – decidemmo di applicarlo in
altre zone toccate dalla nostra azione missionaria.

Voi eravate stati inviati a
evangelizzare come esponenti della Chiesa di Costantinopoli, ma a Roma come si
seguiva il vostro lavoro?

Cirillo
e Metodio:
Noi svolgemmo il nostro impegno missionario
in unione sia con la Chiesa di Costantinopoli, dalla quale eravamo stati
mandati, sia con la Sede Romana di Pietro, dalla quale fummo confermati nella
originalità della nostra azione, in questo modo si manifestava visibilmente
l’unità della Chiesa, che durante il periodo della nostra vita e della nostra
attività, non era ancora stata colpita dalla sciagura della divisione tra
l’Oriente e l’Occidente.

Se non sbaglio veniste anche in
Italia?

Cirillo
e Metodio:
A Roma fummo accolti con onore dal papa
Adriano II e dalla Chiesa romana; ci diedero l’approvazione e l’appoggio per
tutta la nostra opera apostolica e anche il permesso di celebrare la liturgia
nella lingua slava, cosa non ben vista in certi ambienti «tradizionalisti». C’è
sempre qualcuno che pensa solo a criticare! La storia dell’umanità come della
Chiesa è piena di «ottusi», ai nostri tempi come ai vostri!

Pensate che oggi ci sia bisogno di
missionari, non dico capaci di inventare alfabeti nuovi, ma che sappiano
inculturarsi sempre di più tra i diversi popoli, come avete saputo fare voi con
i popoli slavi?

Cirillo
e Metodio:
Certamente. La missione evangelizzatrice
della Chiesa ha bisogno di gente decisa, che non arretri di fronte a nessuna
difficoltà, pronta a scegliere strade sempre più innovative per conquistare i
popoli a Cristo. In fondo la Missio ad gentes sarà sempre un compito
specifico dei discepoli di Cristo; guai a voi se vi limitate a chiudervi in
recinti più o meno sacri.

Cirillo
concluse a Roma la sua vita il 14 febbraio 869 e fu sepolto nella Chiesa di san
Clemente, mentre Metodio fu consacrato arcivescovo dell’antica sede di Sirmio e
fu rimandato dal Papa in Moravia per continuarvi la sua provvidenziale opera
apostolica, proseguita con zelo e coraggio insieme ai suoi discepoli e in mezzo
al suo popolo sino al termine della sua vita (6 aprile 885). Dopo la loro morte
i loro discepoli vennero osteggiati con ogni mezzo da più parti, specialmente
in ambito ecclesiale, per la tenacia con cui portavano avanti la loro opera di
evangelizzazione e la loro azione liturgica e culturale con l’uso del loro
alfabeto, da tutti ormai chiamato «cirillico» in onore di chi lo aveva ideato.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

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Mario Bandera




Cent’anni di Etiopia: dalle macchine Singer all’informatica,

La Missione nell’Etiopia di ieri e di oggi.

La presenza dei missionari della Consolata in un paese
tutt’altro che semplice.

La missione nell’Etiopia di ieri

«Con
santa letizia e sensi di viva gratitudine verso la S. Sede comunichiamo ai
nostri lettori un’importante notizia. La S.C. di Propaganda ha, con recente
decisione, creato una nuova prefettura Apostolica intitolata del Kaffa
meridionale, e l’ha affidata per l’evangelizzazione ai missionari del nostro
Istituto». Era il 1913, esattamente cento anni fa, quando sul numero di marzo
di La Consolata – come allora si chiamava la nostra rivista – veniva
dato l’annuncio dell’assegnazione ai missionari della Consolata della
prefettura del Kaffa in Etiopia, un territorio vasto «più che l’Italia
settentrionale (di cui) non è possibile dare notizie complete, essendo il
medesimo ancora in gran parte inesplorato». Ai missionari era affidato il
compito di portare avanti il lavoro cominciato nel 1846 dal cappuccino
monsignor Guglielmo Massaia, che fu però cacciato dall’Etiopia nel 1872.

Monsignor
Gaudenzio Barlassina, futuro superiore generale dell’Istituto Missioni
Consolata, partì nel dicembre del 1914 da Genova alla volta di Mombasa, per
entrare ad Addis Abeba due anni dopo, la sera di Natale del 1916 «travestito da
mercante, cavalcando un mulo» (vedi l’articolo Ieri e sempre di B.
Bellesi e G. Mazzotti su MC 02/2001). A rendere difficile l’entrata in Etiopia
dei missionari erano i delicati equilibri diplomatici interni e inteazionali
e la resistenza alla penetrazione di altre confessioni da parte del clero copto,
dal cui appoggio politico i regnanti etiopi non potevano prescindere.

I
primi passi della missione in Etiopia furono all’insegna della prudenza:
dall’incontro con Ras Tafari, il futuro Haile Selassie, all’epoca reggente –
mentre imperatrice era Zauditù, una delle figlie del precedente imperatore
Menelik II, – Monsignor Barlassina comprese che un permesso dato dal principe a
missionari cattolici avrebbe provocato una levata di scudi da parte del vescovo
copto che il reggente non poteva permettersi di affrontare. Barlassina decise
perciò di «travestire» la missione da impresa commerciale. Con la
collaborazione di Felice Gullino, un torinese che aveva stabilito ad Addis
Abeba un laboratorio di ebanisteria, fu creata una società che fra il 1917 e il
1918 aprì due negozi a Ghimbi e Billo, avamposti nel territorio della nuova
prefettura. Si aggiunsero poi laboratori di sartoria e, nel 1919, la
rappresentanza commerciale per le macchine da cucire Singer. Dopo il viaggio di
perlustrazione del Kaffa effettuato da Barlassina fra il gennaio e l’aprile del
1919 (e descritto nel libro di E. Borra, La carovana di Blass e in
quello di G. Tebaldi, L’ultimo carovaniere, entrambi editi da EMI), il
prefetto si fece un’idea precisa del territorio della sua prefettura e programmò
l’espansione delle missioni con l’apertura di nuove stazioni. Nel 1924
arrivarono sei suore della Consolata, autorizzate a stabilirsi nel paese come
infermiere. Questo evento rappresentò di fatto il primo passo verso l’uscita
dalla clandestinità per i missionari: «Le suore non si potevano nascondere» –
scrive padre Giovanni Crippa nel libro
I missionari della Consolata in Etiopia (Edizioni Missioni Consolata
1998), sul quale si basa questa ricostruzione. «La prudenza aveva imposto ai
missionari botteghe da mercanti e abiti civili. Le grandi sottane delle suore e
i loro crocifissi difficilmente potevano passare per un tipico costume europeo».

Agli
ambulatori – prima ad Addis Abeba e poi nel Kaffa – si affiancarono,
lentamente, le scuole, mentre più timidi e nascosti, sebbene non inesistenti,
rimanevano la ricerca di cattolici occulti e il sorgere di vocazioni fra gli
etiopi. Quando, nel 1933, Barlassina fu eletto superiore generale dei
missionari della Consolata e rientrò in Italia, la missione nella prefettura
del Kaffa poteva dirsi consolidata e godeva di una buona libertà d’azione. Il
conflitto italo–etiope portò poi nel 1935 all’espulsione dei missionari che
cominciarono a tornare in Etiopia l’anno successivo con l’occupazione fascista
in veste di cappellani militari. La parola d’ordine era «rientrare al più
presto», riporta ancora Crippa, ma l’essere al seguito di una potenza europea
affamata di colonie e accecata dal mito dell’impero rese la missione funzionale
al sistema coloniale e l’azione missionaria ne fu stravolta. Nel 1942, in
seguito alla vittoria delle truppe britanniche su quelle italiane, i missionari
vennero di nuovo espulsi dal paese.

Si
dovette attendere quasi un trentennio perché i missionari della Consolata
potessero fare ritorno in Etiopia: nel 1970 padre Giovanni De Marchi ottenne il
visto per l’entrata nel paese ma si presentò come membro dei Fatima Fathers,
per evitare di richiamare alla memoria le passate esperienze degli anni
Quaranta. Inizialmente i missionari si stabilirono nel vicariato apostolico di
Harar e solo nel 1980 assunsero la nuova prefettura di Meki dove, nel giro di
tre anni, furono messe in funzione quattro parrocchie con le relative attività
di promozione umana, cioè scuole matee, elementari, professionali, dispensari,
centri di assistenza ai bambini disabili e ai non vedenti (vedi l’articolo di
B. Bellesi su MC 05/2003, I grandi missionari: Padre Giovanni De Marchi).
Gli anni Settanta furono anche quelli dell’arrivo dei missionari della
Consolata a Gambo dove nel 1980, su richiesta delle autorità etiopi, si iniziò
ad adibire una parte del già esistente lebbrosario a ospedale generale.

Anche
oggi, a cent’anni dall’assegnazione del Kaffa all’Istituto, l’Etiopia continua
a essere un paese nel quale l’entrata e la permanenza sono tutt’altro che
scontate. Fino a poco tempo fa, riferiscono i padri attivi in Etiopia, la
Chiesa Cattolica aveva lo status di resident charity (istituzione
benefica residente) e i missionari erano autorizzati a operare in quanto membri
di tale istituzione e con incarichi specifici, determinati e a termine. Oggi,
sebbene sia di recente cambiata la legislazione, il principio sembra essere
rimasto lo stesso: la presenza nel paese è vincolata alla realizzazione di
progetti di carattere sociale e cioè nell’ambito dell’istruzione, della sanità,
della formazione.

Uno sguardo sull’Etiopia di oggi

Per
accorgersi che l’Etiopia è un paese peculiare che mal si adatta a essere
sommariamente etichettato come africano non occorre essere antropologi o
storici: basta ascoltare gli etiopi. Il loro senso di unicità, la distanza
culturale, religiosa e storica che li separa dagli altri popoli che con essi
condividono il continente sono, a loro dire, evidenti. «Pochi altri popoli
possono vantare radici così antiche», spiegava a chi scrive un adolescente
incontrato durante una visita in Etiopia nel 2009, «e probabilmente anche il
fatto di non essere mai stati colonizzati ci rende diversi dagli altri».

Che
la presenza dello stato sia più capillare e la resistenza all’occidentalizzazione
sia più decisa risulta chiaro anche a un primo sguardo alle vie di Addis Abeba:
i grandi centri commerciali e gli enormi cartelloni che pubblicizzano bibite o
capi d’abbigliamento sportivo così frequenti in molte metropoli africane sono completamente
assenti nella capitale etiope. Al loro posto ci sono piuttosto piccoli
supermercati che vendono prevalentemente prodotti locali o di importazione
cinese e poster celebrativi dell’autorità, come quello che negli anni
del governo di Meles Zenawi (morto esattamente un anno fa) ritraeva il primo
ministro con il braccio proteso in avanti come ad indicare la via verso un più
roseo futuro a un gruppo di bambini sorridenti. Sull’immagine campeggiava la
scritta «Un leader africano impegnato per la democrazia, pace e lo sviluppo» (vedi
foto qui sotto
).

Ma,
al di là dei simboli e delle generalizzazioni, l’Etiopia occupa davvero una
posizione particolare nel panorama del continente: sede dell’Unione Africana e
della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite, il paese è
letteralmente inondato di programmi (e fondi) delle agenzie inteazionali.
Secondo i dati Ocse, l’Etiopia è il paese africano che riceve più aiuti
pubblici allo sviluppo dopo la Repubblica Democratica del Congo, con un totale
nel 2011 pari a oltre tre miliardi e mezzo di dollari. E, se gli Stati Uniti «corteggiano»
l’Etiopia – che Washington ritiene cruciale dal punto di vista geopolitico e
strategico – a suon di aiuti allo sviluppo, la Cina dal canto suo controbatte
con la strategia che sta applicando in tutto il continente, quella degli
investimenti massicci. Solo per citare il più recente, il Financial Times
riporta che Huajian – un’azienda cinese che produce scarpe da donna per brands
come Tommy Hilfiger, Guess, Naturalizer, Clarks e che ha già una
fabbrica vicino a Addis Abeba dove lavorano seicento persone – si è ora
impegnata a investire insieme alla China Development Bank due miliardi
di dollari nei prossimi dieci anni per creare una zona di produzione in Etiopia
che dovrebbe arrivare a impiegare circa centomila persone.

Con
tassi di crescita a volte anche a due cifre, l’Etiopia si trova oggi sospesa
fra la povertà oggettiva dei suoi ottanta milioni di abitanti e una politica
ambiziosa per il futuro. Il più recente e clamoroso episodio che testimonia
questa ambizione è il progetto di costruzione della «grande diga della
Rinascita» sul Nilo Azzurro, iniziativa che ha scatenato le ire dell’Egitto –
dove la maggior parte della popolazione vive nella striscia di terra bagnata dal
fiume – al punto da spingere il presidente Mohamed Morsi a dichiarare che gli
egiziani «difenderanno con il sangue ogni goccia del Nilo». Le dichiarazioni di
Morsi sono state subito ridimensionate, ma la tensione resta palpabile.
L’Etiopia, che ha affidato all’italiana Salini la realizzazione
dell’opera monumentale, ha scommesso il tutto per tutto su questa diga. Di
fronte al rifiuto da parte delle agenzie inteazionali di finanziare il
progetto in mancanza dell’assenso dei paesi rivieraschi, l’Etiopia ha deciso di
realizzae autonomamente la costruzione, che costerà circa cinque miliardi di
dollari, esortando la popolazione ad acquistare obbligazioni.

I
tempi della clandestinità di padre Barlassina sono ormai lontani; ma, oggi come
allora, la voglia di affermazione e di rivalsa del paese hanno certamente un
ruolo non secondario nel fare dell’Etiopia un luogo dove occorre sempre
chiedere permesso.

Chiara Giovetti

       Gambo, informatizzare l’ospedale                                                    

Uno dei progetti che in questo momento Mco sta sostenendo è quello
dell’informatizzazione dell’ospedale di Gambo. Dato il suo grande bacino
d’utenza – sulla carta sarebbe di circa centomila persone, ma la provenienza
dei pazienti suggerisce che quella servita sia un’area molto più ampia –
l’ospedale deve gestire una quantità notevole di pazienti e quindi di
informazioni, documenti, cartelle cliniche. Attualmente la registrazione dei
pazienti avviene in modo manuale su supporto cartaceo, ma questo metodo genera
problemi per l’identificazione univoca del paziente, la conservazione dati, la
comprensione grafica, la completa e corretta compilazione dei documenti e crea
difficoltà di cornordinamento fra i reparti dell’ospedale, il laboratorio, la
farmacia e l’amministrazione. Può succedere, cioè, che il paziente smarrisca documenti
come le prescrizioni mediche o che il personale impieghi ore nella ricerca
delle cartelle dei pazienti, a volte accatastate anche sul pavimento (vedi
foto). Con il progetto di informatizzazione si vorrebbe dunque procedere
all’acquisto di macchine e server, all’installazione dei programmi di gestione
e alla formazione del personale per l’utilizzo del sistema. I benefici
derivanti dalla realizzazione di questo progetto saranno un minor rischio di
perdita di informazioni relative al paziente e alla terapia e un alleggerimento
del carico di lavoro, oggi davvero pesante, per il personale dell’ospedale. (Chi.Gio.)

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Chiara Giovetti




La Politica del cristiano | Rendete a Cesare – 6

«Perché il mondo sia salvato per mezzo di lui…» (Gv 3,17)

«Non prego perché tu li tolga dal mondo» (Gv 17,15)

Cattolici finti e politica evangelica

Ogni volta che tra i cattolici, e oggi tra chiunque, si accenna a «politica» o, peggio ancora, ai «politici», ci si trova di fronte a un senso di ribrezzo e di nausea, perché «politica» è diventata sinonimo di corruzione, di sporcizia, di malaffare, e nel caso più benevolo di furbizia. Il merito principale è dei politici professionisti che si professano cattolici, ma i cui comportamenti e le cui scelte sono sistematicamente in contraddizione con la loro asserita appartenenza religiosa. Essi non hanno scelto di servire il loro popolo in nome di una superiore carità che ha come obiettivo il «bene comune», al contrario, essi si servono del loro stato di credenti per approfittare dei benefici ideologici e materiali che la loro condizione di eletti offre loro senza che essi facciano alcuna fatica. La cronaca è piena di questi cultori di «sistemi di peccato» che trafficano tra il diavolo e l’acqua santa con noncuranza e senza problemi di coscienza: la maggior parte degli inquisiti, dei condannati con sentenze di tribunali sono cattolici dichiarati. Cattolici che si vantano di essere tali e non perdono occasione di mettersi in mostra come praticanti e osservanti religiosi, che addirittura fanno parte di associazioni e movimenti religiosi «impegnati», qualcuno anche con «voti» espliciti, e che al tempo stesso militano alacremente in partiti dove la corruzione scorre con dovizia, sostengono governi che legiferano a favore di mafiosi e delinquenti, votano contro gli arresti di camorristi, rubano direttamente e sostengono sistemi perversi, dove l’economia è a favore dei più forti e potenti e a danno dei più poveri e indifesi.

Per un cristiano, «la Politica» dovrebbe essere il prolungamento del Vangelo, l’ambito e l’obiettivo della propria azione di testimone del Regno, perché è strettamente legata all’Eucaristia, dove il Pane indiviso è «spezzato» sull’altare che convoca tutti i popoli della terra per realizzare la profezia del «sentiero di Isaia» (cf Is 2,1-5). Tutte le volte che il credente celebra l’Eucaristia, prima di partecipare la comunione al Pane, si ferma e guardando negli occhi chi gli sta vicino, di fronte e dietro, proclama «Padre Nostro», dove l’aggettivo possessivo «nostro» diventa o profezia o condanna. La teologia che il «Padre Nostro» esprime, infatti, riguarda l’orizzonte della ecclesialità, perché Gesù non ci ha insegnato a pregare dicendo «Padre Mio», ma sempre e solo «Padre Nostro», forma inclusiva dei singoli individui, senza esclusione di alcuno. La paternità di Dio, infatti, per definizione è reale solo se include la fraternità, senza condizione. Anzi, la fraternità totale è segno e sacramento della presenza della paternità di Dio, altrimenti questa può essere un’illusione. Don Lorenzo Milani traduceva tutto questo principio in una affermazione lapidaria di altissima pedagogia: «Politica è sortirne tutti insieme. Sortirne da soli è l’avarizia» (Lettera ad una professoressa, Lef Firenze 1966, 14). Il Cristianesimo è per sua natura «assemblea», cioè il contrario di individualismo; è progetto d’insieme, che è il contrario dell’interesse privato; è convenire insieme, che è il contrario di vagare da soli.

Celebrare l’Eucaristia è dunque l’atto più politico e rivoluzionario del credente sulla terra perché da un lato esprime la missione senza confini propria della proclamazione della Parola e dall’altro enuncia la profezia dei segni del pane e del vino che non sono «dati» per essere mangiati in santa pace, ma perché a chi li mangia diano il vigore e la forza di spezzarsi e distribuirsi a loro volta con la stessa volontà e libertà del Signore Gesù. «Mangiare» insieme è la prima forma di religiosità basilare e in tutte le religioni, il cibo ha una valenza sovrumana perché accomuna il cielo e la terra e in terra convoca i diversi per farne un «solo corpo e un solo Spirito» (Preg. eucar. II). I cristiani dovrebbero amare «la Politica» e custodirla dai predatori che per tornaconto e interesse personale o di gruppo la scempiano e la deturpano in modo inverecondo. «La Politica» per il credente è l’azione santificatrice dello Spirito del Risorto che fa emergere l’identità di figli di Dio che converte alla condivisione. Politica è pregare agendo e agire pregando. Tra i cattolici, solo chi ha un altissimo senso di Dio e della propria insufficienza, solo chi ha sperimentato l’incontro con il Signore, solo chi è immerso nello Spirito missionario del risorto dovrebbe e potrebbe spingersi a operare in politica, come sacramento visibile della Presenza di Dio che pone la sua tenda in mezzo al mondo di ogni tempo e cultura.

Gesù politico-servo

Gesù fu un grande politico perché non guardò mai al suo interesse, ma ad esso antepose sempre il benessere materiale e spirituale delle folle che lo cercavano. Gesù esercita in sommo grado la politica come servizio e disponibilità verso i bisogni della povera gente, come sfamare gli affamati, guarire i malati, consolare i dubbiosi, prendersi cura dei piccoli e dei deboli. Nello stesso tempo, egli prende le distanze dai potenti che fanno della politica lo strumento della loro sete di onnipotenza per avere sempre più potere per i propri interessi. In tutto il Vangelo, Gesù opera prevalentemente lontano dalle grandi città, specialmente se sono centri di potere e predilige i villaggi, anche non ebrei, ma abitati da pagani, ai quali offre lo stesso servizio e gli stessi segni che opera per i Giudei. è il criterio della «Politica generale», quella che non fa preferenze, ma guarda all’umanità nella sua globalità di creatura del Padre.

Le beatitudini nella versione di Luca sono una chiara e inequivocabile «scelta preferenziale per i poveri» (cf Lc 6,20-26). Gesù non è il Messia adattabile a tutte le stagioni o l’uomo per tutti: egli esige non solo la conversione interiore, come atteggiamento morale personale, ma impone l’obbligo di una scelta radicale, come fa con l’uomo ricco, al quale impone di «vendere» le ricchezze per diventare suo discepolo. Sappiamo com’è andata a finire e sappiamo anche perché: «Aveva molte ricchezze» (Mc 10,21-22).

Gesù non prende mai le difese dei ricchi e quando li incontra li obbliga a prendere coscienza del valore sociale e comunitario dei loro beni (ricco epulone, Zaccheo, uomo ricco, ecc.). Nessuna ricchezza è individuale perché la creazione non può mai essere privata, avendo ricevuto fin dalle origini una destinazione universale. Gesù si differenzia sempre da chi esercita il potere con i quali non cerca mai il conflitto diretto e se può opera in periferia, mai a Cesarea, sede del governatore romano. Affronta però il conflitto, quando è inevitabile. In questo modo egli afferma la sua prospettiva che non è mai confusione di ruoli o di competenze.

La prova che la distinzione tra la «regalità» di Gesù e il «potere» di qualsiasi Cesare non è questione di aree d’influenza o di gestione di leggi, ma di prospettive e quindi, in conseguenza, di logiche che comportano decisioni, scelte, valutazioni, discernimento, sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17 di Giovanni, dove  Gesù stesso equipara  i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

«Essere nel mondo» significa vivere la stessa sorte di tutti gli esseri viventi, partecipare all’esistenza dell’umanità. Null’altro. Infatti, essere cristiani o credenti non implica diritti particolari o privilegi o «statuti» diversi da quelli di chiunque altro. L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo, inteso come complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini o un disincarnarsi dall’umano, ma il rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia, della prevaricazione, del potere basato sulla forza o, peggio ancora, del potere che nasce dalla corruzione e che genera corruzione. Dove c’è corruttela, infatti, c’è lo spirito del mondo che è opposizione al mondo di Dio. I cristiani non sono speciali, ma vivono in modo speciale perché stare nel mondo è un servizio che nasce dal senso della giustizia animato dall’agàpē e nello stesso tempo portano nel mondo «un metodo» di presenza e di «utilizzo» che esprime la gratuità di Dio che si rapporta con tutti e chiama tutti al suo convito. Se, sul piano della mistica, si ostenta fino all’esasperazione l’immagine del cristiano, «alter Christus», occorre che la stessa immagine diventi visibile sul piano delle scelte economiche, sociali, quando tocca interessi diretti e impone scelte che esigono separazione da metodi e sistemi che nulla hanno a che vedere con Cristo.

La politica come credibilità di Dio

Un credente che evade le tasse, che non svolge con competenza e impegno il proprio lavoro, che approfitta delle proprie conoscenze per prevaricare sugli altri, che usa la religione per avere contatti «importanti» o leggi o denaro o qualsiasi altro vantaggio per sé e la propria istituzione, tradisce il Regno di Dio e allontana la città degli uomini dal volto divino di Dio perché solo con la propria non coerenza rende visibile l’incredibilità di Dio. Questo, infatti, è il compito della religione: rendere credibile Dio, che non si vede, attraverso le azioni, le scelte, le parole (pensieri, parole, opere e omissioni) di chi dice di credere. La persona religiosa è una persona condannata a essere coerente fino allo spasimo perché ogni suo gesto, ogni suo respiro testimonia Dio o lo nega.

«Nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (Conc. Ecum. Vatic. II, Gaudium et Spes, n. 19).

C’è mondo e mondo

In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

a) Il mondo geografico, ambiente materiale, il contenitore dove l’umanità vive.
b) Il mondo come genere umano considerato nel suo complesso, senza alcuna qualificazione.
c) Il mondo dell’incredulità o delle tenebre: coloro che combattono Dio e lo negano «a prescindere».
d) Il mondo della fede o della luce: coloro che avendo visto la «Gloria di Dio» nel Figlio, lo rendono ancora più visibile nella loro vita e nel loro operato.

I primi due significati sono abbastanza neutri, mentre gli ultimi due acquistano una valenza morale e teologica alternative, anzi contrapposte. Non possono coesistere, anche se possono convivere nel mondo come ambiente o come umanità. La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo … non sono del mondo» perché il valore semantico della parola «mondo» è molteplice: il primo indica il mondo come creazione, come «luogo» della vita; il secondo, invece, indica il mondo come condizione di vita, come prospettiva di esistenza e quindi di scelte morali. Con questa espressione, Gesù intende affermare la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. La Chiesa non può gestire potere mondano perché è destinata a scomparire, una volta instaurato il Regnum Dei. «Nel», ma non «del» mondo: è il rapporto tra lo stato in luogo e l’appartenenza interiore. Se Gesù è/sta «nel mondo», è una creatura che ha in comune con tutte le creature l’esistenza, la ricerca, la fatica, la riuscita, il fallimento, la condivisione, il conflitto, tutto ciò che fa umanità, nel bene e nel male. Questo esige la coscienza che il mondo è sinonimo di diversità: uomo/donna; ricco/povero; giusto/ingiusto; credente/non credente; religioso/indifferente; osservante/non osservante. Stare «nel mondo» vuol dire acquisire questi binomi e assumerli nella propria vita, come condizione esistenziale «previa». «Nel mondo» deve prevalere quello che unisce, cioè l’umanità e la fragilità, su quello che può differenziare come, ad es., essere credente o non credente.

 [6 – continua]

Tasse

L’esempio delle tasse è devastante. Si è diffusa la mentalità che siccome la tassazione è alta, in un certo senso, sarebbe «morale» autodetassarsi, cioè evadere, come ha addirittura incitato a fare un presidente del consiglio dei ministri in campagna elettorale per guadagnare qualche voto in più (Il Corriere della Sera, 17-02-2004). Nessuna reazione da parte del mondo cattolico a questo invito che guardava con benevolenza agli evasori costringendo gli onesti a pagare sempre di più. Chi sta al governo dovrebbe educare al senso dello stato e della partecipazione come condivisione dei servizi per lo sviluppo della personalità, la tutela della famiglia, il progresso ordinato e congruo della comunità. Quando manca il senso di Dio, è fortemente carente anche l’etica dello stato. Si ha un bel dire di essere cristiani o d’ispirarsi alla dottrina sociale della Chiesa, ma se si evadono le tasse, ci si mette fuori dall’amore di Dio, che s’incarna nell’amore del prossimo, e dal diritto di pretendere dallo stato servizi essenziali (sanità, scuola, assistenza, trasporti, pensioni, ecc.).

Chi non paga le tasse, non solo costringe chi le paga onestamente a pagarne sempre di più, ma non ne ha nemmeno lui stesso un beneficio diretto, in quanto alla fine deve pagare di più i servizi che lo stato non può erogare per mancanza di fondi. Pagare le tasse è condivisione evangelica oltre che dovere civile di altissima responsabilità. Per questo bisogna mandare al governo persone oneste che garantiscano non i privilegi in nome della religione, ma che amministrino con grande senso di responsabilità il denaro di tutti, verso il quale dovrebbero, se credenti, avere lo stesso rispetto che hanno per il Corpo di Cristo perché sono chiamati a servire e curare i corpi e gli spiriti di coloro con i quali Cristo si è identificato in tutti i tempi (cf Mt 25, 31-46). Il mondo del diritto e della trasparenza, dell’onestà e della condivisione è il mondo proprio dei credenti che devono anche farlo diventare il mondo proprio della politica e dello stato.

Paolo Farinella




l’Italia religiosa tra disinteresse e sospetto

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 12
A fine maggio, diversi studiosi riuniti a Camaldoli (Arezzo)
hanno riflettuto sull’assenza in Italia di un quadro legislativo chiaro
riguardante la libertà di religione, e per formulare proposte da offrire al
parlamento. Molte le valutazioni sulla situazione odiea: il disinteresse
della politica porta conseguenze negative sulla convivenza civile nella nostra
Italia sempre più multiculturale e multireligiosa, la marginalità del tema
religioso porta alla mimetizzazione di gruppi e movimenti e alla scissione
dell’identità religiosa dall’identità civile. È necessario creare una nuova
sensibilità che porti a nuovi strumenti legislativi inclusivi e promotori di
dialogo
.

L’Italia ha
una legislazione inadeguata in materia di libertà religiose, nonostante un
programma costituzionale attento e, per certi aspetti, esauriente.

L’interpretazione del dettato costituzionale
è controversa: non tanto sul generale valore della libertà, sulla valutazione
che la religiosità sia un comportamento umano costituzionalmente apprezzato e
protetto, quanto sul sistema di attuazione della protezione. Secondo alcuni,
l’opera delle istituzioni civili sarebbe limitata dall’incompetenza statale in
materia religiosa, e fondata sul riconoscimento di una competenza quasi
esclusiva delle organizzazioni della religiosità collettiva (le confessioni
religiose). Secondo altri, l’attuazione delle libertà religiose sarebbe oggetto
di un’ampia e diretta competenza dell’autorità civile, fatta salva l’autonomia
delle dette organizzazioni. È principalmente da questo divario dottrinale e
politico, che investe i fondamenti del nostro metodo democratico, che si
produce una situazione di stallo istituzionale a causa della quale non si
riesce a emanare una legge generale. Vi sono forze che non vogliono una tale
legge e altre che ne auspicano l’emanazione. Molti, in entrambi i fronti,
dubitano che la nostra civiltà democratica attuale sia capace di porre rimedio
anche ai guasti unanimemente riconosciuti della situazione.

La Carta di Camaldoli

Partendo da queste considerazioni, la
rivista «Quadei di diritto e politica ecclesiastica», edita da Il Mulino, ha
riunito a Camaldoli (Ar) diversi docenti italiani di diritto ecclesiastico e
canonico. Dall’incontro è nata l’idea di costituire un gruppo di lavoro in
grado di elaborare una proposta da trasmettere al parlamento per favorire la
redazione di una legge organica sulla libertà religiosa nel nostro paese.

La politica, tra  disinteresse e
sospetto

Le politiche conceenti la libertà
religiosa e di coscienza nel contesto italiano soffrono di un problema di
relazione tra centro e periferia: le istituzioni e il legislatore faticano a
comprendere la trasformazione sociale e si perdono in tecnicismi normativi che
si scontrano con le varie dimensioni decisionali: regolamenti regionali,
amministrazioni locali, leggi statali e sovranazionali. In tal senso il fatto
che l’art. 117 della Costituzione attribuisca al governo centrale la competenza
esclusiva in materia di rapporti fra stato e confessioni religiose non comporta
che le questioni di politica ecclesiastica occupino un ruolo rilevante
nell’agenda dell’esecutivo. Infatti, fatte le dovute eccezioni, la prassi
politica e amministrativa testimonia che sui temi della libertà religiosa e di
coscienza domina un sostanziale disinteresse. Lo dimostrano i programmi
strategici delle diverse forze partitiche, per le quali il tema della libertà
religiosa è un «non problema», e la laicità, osserva il professor Nicola
Colaianni (già giudice della Corte suprema di Cassazione fino al 2003,
professore di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, nell’Università di
Bari), un mero «orpello con cui infiorettare i punti programmatici sui diritti».

La verità è che la classe dirigente si
occupa del problema della libertà religiosa solo quando alcuni fatti acquistano
rilievo sul piano politico nazionale, com’è avvenuto, ad esempio, con i casi
Lautsi (l’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici, ndr) e
Englaro. Fuori da queste circostanze non si può negare che i nodi problematici
sollevati dai comportamenti di natura religiosa, o motivati da ragioni di
coscienza, rimangano marginali nel dibattito politico, e di limitato interesse
per la pubblica amministrazione. Non è una provocazione affermare che esiste un
diffuso sospetto verso il pensiero religioso e un generale analfabetismo
storico-teologico. Quest’ultimo emblematicamente rappresentato sia
dall’esclusione dell’insegnamento della teologia nelle università pubbliche
(avallata nel 1873 dalla stessa Chiesa cattolica), sia dalla marginalità, nel
panorama culturale ed editoriale italiano, di quella parte del lavoro
filosofico-politico – pensiamo ad autori come Rensi, Capitini o De Giorgis –
attenta a disvelare l’attualità e la forza del pensiero religioso nel
superamento della frattura fra fede e modeità.

Ciò che viene meno

Le conseguenze pratiche di tutto ciò sono
molteplici: innanzitutto la scarsa attenzione e sensibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso, in contrasto con quanto richiesto nel 2007
dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) con le Guidelines
di Toledo [Art. 19: Tutti hanno
diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di fae propaganda e di esercitae in privato o in
pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. /
Art. 20. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una
associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni
legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità
giuridica e ogni forma di attività]. in materia d’insegnamento delle religioni nelle scuole
pubbliche, e, ancor più, dal libro bianco sul dialogo interculturale, Vivere
insieme in pari dignità
, e dalla Raccomandazione n. 12 del Consiglio
d’Europa sulla Dimensione delle religioni e delle convinzioni non religiose
nell’educazione interculturale
rivolta, nel 2008, ai ministri
dell’educazione dei quarantasette paesi membri. Ma soprattutto ciò che è più rilevante
è che la marginalità del dibattito sulla libertà religiosa ha portato a
ritenere secondario il problema della realizzazione di un maturo pluralismo
religioso. Come evidenzia il professor Carlo Cardia (docente di Diritto
Ecclesiastico all’Università degli Studi di Roma 3, avvocato, giurista ed
editorialista di Avvenire): «È nel conflitto e nel cortocircuito tra
intransigenza cattolica e correnti laiciste che sta la radice di una chiusura
provinciale che in Italia condiziona le relazioni ecclesiastiche» e,
aggiungeremmo, influisce negativamente su un potenziale dibattito costruttivo
in materia, e su un progetto di politica ecclesiastica innovativo e di ampio
respiro.

L’identità separata dal diritto di credo?

La perifericità del religioso nel dibattito
politico-istituzionale italiano emerge anche sotto altre forme. Innanzitutto
nella tendenza sempre più accentuata del governo a separare i temi sensibili
connessi all’identità e all’appartenenza etnico-religiosa dalla sfera del
diritto alla libertà di credo, come dimostra, ad esempio, il parere formulato
dal comitato per l’Islam italiano in materia di burqa e del niqab.
Quest’ultimo invita il legislatore a «deconfessionalizzare» la questione del
velo integrale, disgiungendola dall’esercizio del diritto di libertà religiosa.
D’altronde lo stesso Consiglio di stato, nella decisione del 15 aprile 2008, ha
assunto in materia una posizione neutrale, riconducendo l’uso del velo
integrale a pratiche innanzitutto etnico-culturali.

È senza dubbio ascrivibile alla medesima
debole sensibilità ai temi della libertà religiosa il complesso problema del «mimetismo»
cui ricorrono non poche organizzazioni, tra cui quelle musulmane, al fine di
ottenere il riconoscimento di alcuni diritti riconducibili alla sfera degli
art. 19 e 20 della Costituzione1. Nascondere le finalità religiose e di culto per vedere
crescere le probabilità di successo delle proprie attese testimonia la
marginalità sul piano dell’argomentazione politica, del diritto alla libertà
religiosa.

L’Italia religiosa in mutamento

La Carta di Milano 2013, redatta dal Forum delle
religioni
di Milano in occasione dei 1700 anni dell’Editto di Costantino,
ha evidenziato che l’Italia religiosa sta profondamente cambiando, e non si
tratta solo della ricorrente immagine, che tanto timore suscita in una parte
dell’opinione pubblica e della classe dirigente, di un Islam minaccioso, o
dell’ambigua presenza di nuovi movimenti religiosi. Il cambiamento sta
coinvolgendo lo stesso cattolicesimo, «vero basso continuo» della storia
nazionale italiana, osserva Enzo Pace, ordinario di sociologia presso la Facoltà
di Scienze Politiche dell’Università di Padova, studioso e autore di molti
saggi sul fondamentalismo. La communio fidelium (comunione dei fedeli),
nell’interesse della quale fu confermato a Villa Madama nel 1984 il patto di
collaborazione (concordato) tra stato italiano e Chiesa precedentemente siglato
nel febbraio del 1929, sta profondamente mutando. Essa sta subendo
contaminazioni del tutto inedite e inattese, inimmaginabili nella prima metà
degli anni Ottanta: cattolici africani, asiatici, latinoamericani si sono
stabiliti nel nostro paese a seguito delle migrazioni transcontinentali. Essi
cominciano a popolare le parrocchie a fianco dei circa duemila parroci non
italiani che hanno nel frattempo coperto i vuoti lasciati dalla crisi di
vocazioni e dall’invecchiamento del clero nostrano.

Il processo di cambiamento che si sta
velocemente e inesorabilmente attuando sta dunque modificando radicalmente il
paesaggio religioso italiano, da sempre caratterizzato da un’accentuata
monocultura confessionale.

Nuova sensibilità e nuovi strumenti cercasi

Tutto ciò richiede, oltre a una nuova
sensibilità culturale, un rapido adeguamento degli strumenti normativi. Questo
significa che le istituzioni della repubblica hanno l’onere di rivedere le
ragioni del diritto confrontandole con quelle dell’etica sociale; ridefinire il
confine fra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, perché contrario ai
diritti fondamentali della persona; ridefinire ciò che può essere incluso e ciò
che deve essere escluso dal sistema di relazioni sociali; trasformare
l’estraneità in solidarietà gestendo il complesso e difficile rapporto tra la
società multietnica e i valori fondamentali della nostra carta costituzionale.

L’atteggiamento assunto negli ultimi
trent’anni dalle istituzioni centrali della Repubblica italiana nei confronti
del crescente pluralismo religioso è stato improntato a una situazione di paura
sociale. Pur in maniera disomogenea e spesso contraddittoria, gli enti locali e
le regioni sono stati spesso obbligati dai fatti a optare per soluzioni
innovative e coraggiose sul piano delle politiche di integrazione e di dialogo.
L’amministrazione centrale dello stato, e ancor più il legislatore, invece,
hanno preferito perseguire strategie attendiste, nel timore di doversi esporre
dinanzi alle istanze, spesso più che legittime, provenienti dalla società
civile e dalle rappresentanze di alcune minoranze confessionali. In tutti
questi casi, come evidenzia il professor Alessandro Ferrari, docente di diritto
canonico ed ecclesiastico all’Università degli studi dell’Insubria, esperto in «intesa
tra stato e religioni» (in particolare l’Islam), lo stato, anziché fornire alle
nuove religioni un diritto e procedure certe con cui misurarsi, ha preferito
optare per «la via meno impegnativa e più aleatoria e dall’incerto valore
giuridico di tentare di subordinare il godimento dei profili più positivi del
diritto di libertà religiosa alla loro adesione a carte di impegno o carte di
valori predisposte dalle pubbliche amministrazioni, e costituenti una
reinterpretazione e una riscrittura selettiva dei principi e dei valori già
espressi dalla Costituzione».

Solo il tempo lo dirà

Basti pensare all’uso che è stato fatto
della Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione del 2007:
da strumento di inclusione si è trasformata in mezzo funzionale all’esclusione
preventiva delle realtà religiose percepite come scomode e distanti dal sentire
comune. Ancora, non è forse vero che i pareri della Consulta giovanile per il
pluralismo religioso e culturale, del Comitato per l’Islam italiano o della
Conferenza permanente per il pluralismo religioso sono principalmente serviti a
legittimare decisioni già assunte da tempo dal potere politico, senza che di
fatto i veri nodi del pluralismo religioso venissero risolti?

Le nuove intese sottoscritte nel febbraio
2013 per regolare i rapporti tra stato italiano e l’Unione induista italiana e
l’Unione buddista italiana (Ubi), di grande rilievo simbolico perché le prime
che lo stato italiano approva con confessioni non cristiane – a eccezione degli
accordi con le Comunità ebraiche nel 1989 -, arricchiscono il pluralismo
religioso. Tuttavia, non si può negare che siano stati scelti gli interlocutori
meno ostici.

In un futuro non lontano lo stato italiano
sarà così coraggioso da adottare anche nei confronti delle comunità religiose
più problematiche, come quella musulmana, la stessa procedura innovativa? Un
organo così strategico come il Dipartimento per le libertà civili e
l’immigrazione del ministero dell’Inteo sarà disposto a collaborare
fattivamente, e non soltanto con formali patrocini, su progetti coinvolgenti le
questioni politicamente più delicate e sensibili del pluralismo religioso e
dell’integrazione? Solo il tempo aiuterà a dare una risposta a questi
interrogativi da cui dipende buona parte del destino della libertà religiosa in
Italia.

Luca Rolandi

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Luca Rolandi




Latte materno (1)

Mi è capitato di sentire affermare da qualcuna
delle mie allieve, durante una lezione di anatomia e fisiologia della mammella,
che se avessero avuto un figlio non avrebbero mai voluto allattarlo.
Incuriosita, ne ho chiesto il motivo, che per lo più è risultato essere di
carattere estetico: la paura di perdere la linea. In alcuni casi ho invece
constatato qualche opposizione di tipo psicologico. In verità, allattare un
figlio al seno non solo è naturale, ma è il modo normale di nutrire un neonato
per un appartenente alla classe dei mammiferi, quale è l’essere umano. Eppure
l’idea dell’allattamento al seno non è così universalmente accettata. Del resto
basta dare un’occhiata alle riviste o alle trasmissioni in cui si parla di
qualche stella o stellina dello spettacolo appena diventata mamma, per
osservare che la donna in questione, a poca distanza dal parto, ha in genere
miracolosamente riacquistato un fisico da modella, viene fotografata a spasso
con il bebè, quasi mai però
nell’atteggiamento di allattarlo al seno. Anche alle bambine viene inculcata
l’idea che l’allattamento del neonato è qualcosa che passa attraverso un
biberon. Si pensi a tutti quei bambolotti-neonato muniti di corredino e
immancabile biberon con finto latte a scomparsa, per simulae lo svuotamento.
Per non parlare delle pubblicità di tettarelle, poppatorni di ogni forma,
scaldabiberon e di tutto quanto serve per l’allattamento artificiale, che fino
a qualche anno fa potevamo vedere ovunque. Da qualche tempo questa pubblicità
in Italia è quasi scomparsa, perché, nel 2011, è stata emanata una norma1 che vieta di pubblicizzare qualsiasi sostitutivo del
latte materno adatto all’utilizzo al di sotto dei 6 mesi d’età, limita la
pubblicità del latte di proseguimento o di altri alimenti per lattanti e prevede
sanzioni per le violazioni. La norma fa seguito ad altri due decreti
ministeriali del 2005 e del 2009, che avevano avvicinato la normativa italiana2, senza però prevedere sanzioni per le violazioni, a
quella degli altri paesi, aderenti al «Codice internazionale sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno». Quest’ultimo fu approvato
nel 1981 dall’Assemblea mondiale della salute (Ams) e in seguito fu
aggiornato con alcune risoluzioni. Tale codice venne fatto proprio dall’Unicef,
per cui spesso se ne parla come del Codice Oms/Unicef. Lo scopo del Codice è
quello di proteggere l’allattamento al seno dalla concorrenza dei sostituti del
latte materno e dall’enorme giro d’affari delle multinazionali produttrici sia
dei latti in formula e degli alimenti per l’infanzia, che degli oggetti in uso
per l’allattamento artificiale. Nonostante a tale codice abbiano formalmente
aderito anche le multinazionali suddette (e anzi abbiano partecipato
attivamente con i loro rappresentanti alla sua stesura, in modo da difendere il
più possibile il loro giro d’affari), e nonostante molti paesi aderenti abbiano
legiferato in maniera più o meno aderente a esso, il marketing del latte
artificiale e di tutto ciò che l’accompagna è sicuramente uno dei fattori che
contribuisce a mantenere i tassi di allattamento al seno inferiori a quelli
raccomandati dall’Oms. Secondo quest’ultima, l’allattamento al seno dovrebbe
essere esclusivo per i primi sei mesi di vita (a richiesta del bebé e senza
orari prefissati), dopodiché è raccomandato che venga protratto fino a due
anni, contemporaneamente all’assunzione di alimentazione complementare. La
realtà dei fatti è invece ben diversa e con conseguenze spesso tragiche,
soprattutto nei paesi del Sud del mondo, dove le tecniche di marketing
delle multinazionali produttrici di latti in formula, Nestlè in testa, sono
particolarmente aggressive e consistono solitamente in iniziali foiture
gratuite di tali latti ai presidi ospedalieri, che li distribuiscono alle
neomamme per indue la dipendenza.

Secondo l’Oms e l’Unicef, nei paesi a basso
reddito ogni anno muore circa un milione e mezzo di bambini per non essere
stati allattati al seno. L’alimentazione artificiale dei neonati infatti
comporta due tipi di problemi. Innanzitutto l’alto costo dei latti in formula
non può essere sostenuto dalle madri, che – dopo avere provato il latte in
omaggio – si ritrovano ad avere perso il proprio (la mancata suzione al seno
riduce progressivamente la montata lattea fino ad azzerarla) e ad essere
costrette a proseguire con l’allattamento artificiale. L’unica soluzione
trovata da queste madri per fare fronte alla spesa ingente è quella di diluire
il latte fino a compromettee il valore nutritivo, quindi il neonato diventa
progressivamente denutrito, con possibili danni neurologici e rischio di morte.
L’altro grave problema è rappresentato dalla carenza di igiene nella pulizia
dei biberon, oppure dall’uso di acqua contaminata per la diluizione del latte,
fattori che possono scatenare gravissime infezioni gastrointestinali, spesso
letali. A queste si possono aggiungere altrettanto gravi infezioni respiratorie
e otiti, per il mancato sviluppo del sistema immunitario poiché il latte in
formula, a differenza di quello materno, non apporta anticorpi. I vari tipi di
latte artificiale, per quanto reclamizzati come umanizzati, mateizzati, ecc.,
non potranno mai essere nemmeno lontanamente paragonabili al latte materno, che
è una sostanza viva, derivante direttamente dal sangue ed è altamente «specie-specifico»
(quindi diverso da specie a specie di mammiferi). Nel latte materno si trovano
numerosi componenti presenti in bassa concentrazione, che non sono strettamente
correlati all’aumento ponderale del bambino, ma al corretto e normale sviluppo
del suo apparato digerente, di quello immunitario e del sistema nervoso. Solo
il latte umano contiene elementi specie-specifici che sono necessari al momento
della nascita per la normale colonizzazione batterica del tratto
gastro-intestinale del neonato (come l’immunoglobulina A secretoria o SIgA, la
lattornalbumina ed oltre 100 tipi di oligosaccaridi). Vi sono poi elementi che
promuovono la maturazione dell’apparato digerente e ne riducono la permeabilità
(nucleotidi, oligosaccaridi, fattori di crescita e la lattoferrina). Inoltre la
SIgA, la lattoferrina, la lattornalbumina e gli oligosaccaridi – insieme con il
lisozima, gli acidi grassi ed i leucociti – combattono le infezioni e le
infiammazioni. Infine i nucleotidi, i fattori di crescita, la SIgA e gli ormoni
favoriscono e modulano lo sviluppo del sistema immunitario del bambino.
Inoltre, il «colostro», cioè la prima secrezione mammaria prodotta nei primi
due giorni di puerperio in quantità variabile tra 70 e 200 cc. e con
composizione nettamente diversa da quella del latte, è di fondamentale
importanza per il neonato perché la sua composizione facilita notevolmente il
passaggio dalla nutrizione placentare a quella attraverso l’intestino. Esso
inoltre contiene enzimi capaci di iniziare la digestione delle proteine, dei
grassi e degli zuccheri, oltre a discrete quantità di anticorpi e di vitamina
A, B6 e C ed ha un maggiore contenuto di proteine e minore di zuccheri e di
grassi rispetto al latte (nel quale si trasformerà successivamente). In realtà,
l’allattamento al seno è vantaggioso tanto per il bambino, che per la mamma.
Tra i vantaggi per il bimbo ci sono: una migliore conformazione della bocca;
una minore probabilità di contrarre gastroenteriti (o di contrae di minore
gravità); protezione da infezioni come polmoniti, otiti, infezioni urinarie e
da Haemophilus influenzae; una minore probabilità di sviluppare
allergie; un miglioramento della vista e dello sviluppo psicomotorio; un
miglioramento dello sviluppo intestinale con minore rischio di occlusioni; una
protezione da malattie croniche, come il diabete di tipo 1, la cistite
ulcerativa ed il morbo di Crohn; una minore probabilità di ammalarsi di diabete
di tipo 2 e di obesità nell’adolescenza o nella vita adulta. Per quanto
riguarda la mamma i vantaggi sono: ripresa dal parto, con ritorno dell’utero
alla conformazione e alle dimensioni normali, più rapida; riduzione delle
perdite ematiche e corretto bilanciamento del ferro; prolungamento del periodo
di infertilità dopo il parto; recupero del peso-forma dopo la gravidanza;
riduzione del rischio di cancro alla mammella prima della menopausa e di cancro
all’ovaio; riduzione del rischio di osternoporosi. Inoltre il latte artificiale
può essere contaminato anche prima di aprire la confezione, è costoso e non è
mai a «chilometri zero». Esattamente il contrario del latte materno. Un altro
aspetto importantissimo dell’allattamento al seno è la sua capacità di favorire
al meglio il rapporto madre-figlio e di rispondere alle esigenze affettive del
bambino. È quindi evidente quanto sia importante promuovere l’allattamento al
seno e quanto sia importante l’istituzione delle «banche del latte», presso gli
ospedali, in modo che possano essere nutriti con latte umano anche quei bambini
le cui madri non possono allattare. In natura peraltro la percentuale di donne
che, dopo il parto, non producono per nulla latte è bassissima e si attesta
intorno all’1%, per lo più per insufficienza delle ghiandole mammarie o per
problemi tiroidei non curati. È altrettanto evidente che il consumo di latte
artificiale dovrebbe essere molto inferiore a livello mondiale rispetto a
quello effettivo e che il numero delle mamme che effettuano con successo
l’allattamento al seno – almeno per il periodo minimo indicato dall’Oms (6
mesi) – dovrebbe essere molto più elevato.

In Italia, secondo un’indagine Istat del
2004-2005 le donne che avevano allattato i figli al seno nei cinque anni
precedenti la pubblicazione dell’indagine erano state l‘81,1% delle neomamme.
La durata media del periodo di allattamento era salita da 6,2 mesi nel
1999-2000 a 7,3 mesi al momento della pubblicazione. Il 64,5% delle donne
aveva, per un certo periodo, allattato al seno in modo esclusivo o
predominante. L’Italia insulare è quella con il minore numero di donne che
allattano (74,2%) e quella in cui lo fanno per minore tempo (solo il 26,6%
aveva allattato per più di 6 mesi). Nel Nord Est si rilevano le quote più
elevate di mamme che allattano (86,1%) e che lo fanno per 7 mesi o più (36,8%).
Tra i maggiori ostacoli all’allattamento al seno c’è un’eccessiva
medicalizzazione del parto e dei primi giorni dopo la nascita del piccolo, che
non sempre viene attaccato al seno subito dopo la nascita. Inoltre c’è
l’aumento numerico dei parti cesarei. Risultano invece essere di grande aiuto
per un buon esito dell’allattamento al seno i corsi di preparazione al parto,
così come anche i pediatri. Per promuovere l’allattamento al seno, nel 1992 è
stato lanciato a livello internazionale dall’Oms e dall’Unicef il progetto Baby
friendly hospital iniziative
, recepito da alcune regioni italiane, per
attuare l’osservanza del Codice nei reparti ospedalieri.

Ancora prima della stesura del Codice sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno era già attiva l’Ibfan (Inteational
Baby Food Action Network
), cioè la «Rete internazionale di azione per
l’alimentazione infantile», per il controllo delle attività di mercato delle
principali compagnie produttrici di sostituti del latte materno (di biberon,
tettarelle, ecc.). Dal 1981 tale rete si è impegnata in un attento controllo
delle violazioni del Codice, anche grazie alle segnalazioni dei singoli
cittadini, pubblicando periodicamente rapporti dal titolo «Il Codice violato»,
la cui stesura è possibile grazie all’attività di Ibfan Italia
(www.ibfanitalia.org), un’associazione di volontariato costituita ufficialmente
nel 2005, ma già operante in modo informale dalla metà degli anni ’90. Le
strategie di mercato messe in atto dai produttori, che a parole rispettano il
Codice, ma lo violano continuamente, sono molteplici. Alle compagnie
produttrici è proibito contattare direttamente le neomamme in ospedale (anche
se in passato, soprattutto nei paesi più poveri, è capitato che qualche loro
operatore si sia intrufolato in ospedale, travestito da infermiere, per
avvicinare più facilmente le mamme). Esse aggirano l’ostacolo donando ad ogni
puerpera una valigetta contenente campioni di tisane (ma non di latte in
polvere, poiché questa pratica è proibita in Italia) e di prodotti per l’igiene
del piccolo, riviste per genitori piene di pubblicità, libri ricchi di consigli
e ricette per lo svezzamento, ma che di solito presentano al fondo svariate
pagine pubblicitarie, qualche pannolino, un succhiotto, talvolta un diario su
cui annotare tutti gli eventi della giornata del piccolo. Tra le prede più
ambite dai produttori ci sono gli operatori sanitari, perché è chiaro che un
tipo di latte consigliato da un medico, da un’ostetrica o il cui nome sia
scritto (come prodotto consigliato al momento del bisogno) nel libretto della
salute del bambino che viene consegnato ai genitori al momento della dimissione
dall’ospedale vale ben più di tante pubblicità su riviste o in televisione.
Oltre a fornire gli operatori sanitari di gadget di ogni tipo (penne,
ricettari, calendari, blocchetti per appunti, materiale illustrativo, ecc.)
recanti il logo del produttore, spesso le aziende produttrici sponsorizzano
convegni, pagano iscrizioni ai congressi e permanenze in lussuosi alberghi in
amene località turistiche, per pediatri ed altri specialisti del settore. Come
minimo ci si deve aspettare che le prescrizioni ed i consigli degli specialisti
alle neomamme siano oltremodo favorevoli per tali aziende. Poiché la legge
italiana proibisce la pubblicità del latte in formula per neonati, cioè del
tipo 1, una strategia utilizzata dai produttori è quella di vendere i latti di
proseguimento con la stessa confezione del tipo 1 (cambiandone magari solo il
colore), in modo da fae comunque pubblicità (rischiando però di generare
pericolose confusioni in un acquirente distratto). I tipi di latte artificiale
variano infatti per composizione: i latti a mezza crema, per i primi 3 mesi
contengono 10-12 gr. di grassi per 100 gr. di polvere, mentre quelli interi, da
usare dopo il terzo mese, contengono 16-28 gr. di grassi. Altra strategia di
mercato è quella di evidenziare in etichetta che il latte in questione è
addizionato di prebiotici, probiotici, acidi grassi omega3, vitamine, ecc.,
magnificandone le capacità di favorire lo sviluppo cerebrale, di migliorare la
vista e quant’altro. Tali caratteristiche sono naturalmente presenti e con
molto altro ancora nel latte materno, che fa molto di più, ma questo non è
detto dalla pubblicità, anche se 
attualmente sulle confezioni deve essere scritto che, laddove è
possibile, è da preferirsi l’allattamento al seno. C’è inoltre un nutrito
mercato di prodotti per aumentare la quantità di latte materno e migliorae la
qualità. Apparentemente si tratta di prodotti favorevoli all’allattamento al
seno, ma in realtà insinuano nella mamma il dubbio che il suo latte non sia più
in grado di nutrire al meglio il bambino, inducendola a passare più o meno
rapidamente al latte artificiale. Le violazioni al Codice si rilevano molto
spesso anche nei punti vendita, dove facilmente si trovano sconti, promozioni,
regali omaggio per i vari tipi di latte, oltre che su biberon e tettarelle.
Quando tali promozioni riguardano il latte di tipo 1 non solo è violato il
Codice, ma anche la legge italiana3. Il decreto in questione proibisce la pubblicità e la promozione
del latte per lattanti, cioè il tipo 1 e ne vieta l’offerta di campioni o
qualsiasi altro espediente promozionale, che possa indurre a passare
dall’allattamento al seno a quello artificiale. In realtà spesso gli sconti e
le promozioni riguardano proprio questo tipo di latte. Nel caso capitasse di
osservare queste e altre infrazioni è possibile e doveroso fare una
segnalazione all’Ibfan, oppure ai Nas («Nucleo antisofisticazioni e sanità» dei
carabinieri).

Il mestiere del genitore è il più difficile
del mondo dato che i bimbi nascono senza il libretto d’istruzioni.
Un’informazione alternativa al battage pubblicitario è fondamentale per
i genitori, i quali innanzitutto non dovrebbero mai dimenticare che la natura
ci ha ampiamente foiti di quanto serve per allevare i nostri piccoli e sono
rari i casi in cui non sia possibile farvi ricorso.

Rosanna Novara Topino

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Rosanna Novara Topino




(Cana 35) E io dissi: «Chi sei, o Signore?»

«E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”»  (At 26,15)

Gv 2,9b: «L’architriclìno… non sapeva da dove è (il vino), ma sapevano i diaconi/servitori…».

Siamo quasi alla fine del nostro lungo pranzo nuziale, durato non alcune ore come è tradizione, ma più di due anni; prima di riflettere sugli ultimi due versetti, è necessario aggiungere ancora qualche tassello alla puntata precedente e capire il pensiero dell’autore che è sfuggente come un anguilla, costringendoci a inseguirlo «dove» lui sa di volerci portare. L’obiettivo del racconto infatti non è cronachistico né agiografico.
Sarebbe ben strano se il racconto fosse agiografico, perché di Gesù nulla sappiamo se non le poche e scarne notizie essenziali, funzionali in Giovanni alla sua personalità di Figlio di Dio: sappiamo che naque a Betlemme (ma non sappiamo quando), che ebbe una madre di Nàzaret e un padre legale; che svolse la professione di falegname prima e «rabbino» nell’ultimo tratto della sua vita, ma non sappiamo se per uno o due o tre anni; sappiamo che fu molto polemico con il potere religioso, con il quale cercò di evitare lo scontro finché poté, defilandosi in località lontane dai palazzi che contavano; sappiamo che alla fine dovette accettare lo scontro frontale e non si tirò indietro, correndo il rischio della sua stessa vita senza scendere a compromessi; sappiamo che morì a causa della instabilità istituzionale che la sua esistenza e le sue parole rappresentavano per la religione formale, alleata con il potere politico per farlo fuori e riuscendoci in modo illegittimo e illegale.
Valore teologico del racconto
Il racconto e l’importanza che assume, collocato al «principio» del «libro dei segni» (Gv 2-12), hanno valore «teologico» nella prospettiva dell’intero vangelo che la tradizione attribuisce alla scuola di Giovanni. Esso serve a mostrare la personalità di Gesù e ad aiutarci a scandagliare la sua «identità». Tante volte abbiamo detto che il IV vangelo (ma anche Marco) ruota attorno alla domanda: «Chi è Gesù?». In altre parole: come «conoscere/sapere» la sua identità? «Dove» incontrare la sua straordinaria personalità? Il racconto di Cana anticipa i temi di tutto il vangelo dalla prospettiva dell’alleanza del Sinai, che l’autore non considera superata, ma la condizione per un rinnovamento radicale che passi di nuovo attraverso il tema profetico della nuzialità (cf Os 2), del ritorno di Dio in mezzo al suo popolo dopo l’esilio e l’abbondanza della vita come ritorno al giardino di Eden (cf Is 40) dopo la siccità della separazione e abbandono.
Per questo, alla fine del racconto, che termina col versetto 10, l’autore si riserva di annotare che l’architriclino, cioè il rappresentante ufficiale della religione formale, non sapeva di «dove» veniva il «vino bello», qui simbolo della presenza di Dio, visibile in Gesù. Sul «dove» ci siamo soffermati nella puntata precedente, qui vediamo in breve il senso cristologico dell’avverbio «dove – pòthen», che nel IV vangelo ricorre 13 volte, su 29 occorrenze in tutto il NT, quasi la metà, per cui si può dire che è un termine importante nella teologia giovannea. In Gv 1,48 Natanaèle chiede a Gesù: «Dove mi conosci?» e Gesù risponde: «Ti conoscevo già prima che Filippo ti chiamasse». Qui il dove per due volte si relaziona con la conoscenza per fare emergere la vera consistenza del capo del popolo (Natanaèle è membro del sinedrio) che non ha una consuetudine con «i segni dei tempi» (Sir 42,18; Mt 16,3), ma si barcamena nella banalità dell’ordinario, standosene sotto il fico. Incontrare Gesù significa scoprire il proprio dove, affinare la propria prospettiva, orientare la direzione della propria vita per riconoscere da dove egli viene e accogliere i doni che egli offre, in primo luogo la «alleanza nuova» (Ger 31,31).
Sapere da dove viene il Signore
Il primo aspetto riguarda «l’origine» di Gesù e quindi la sua relazione col Padre: gli abitanti di Gerusalemme, disorientati di fronte al comportamento dei loro capi, sono perplessi sulla persona e l’operato di Gesù, ma hanno una certezza: «Costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia» (Gv 7,27); per due volte ricorre l’avverbio «dove – pòthen». Gesù risponde loro di non illudersi, perché possono arrivare a conoscere il «luogo» della sua nascita, ma senza attitudine spirituale non potranno mai scoprire la «sua origine», quella che lo mette in relazione con «chi mi ha mandato… e voi non conoscete» (Gv 7,28). Ancora una volta il «dove» è intimamente legato alla «conoscenza», che non è cognizione di dati, ma esperienza di vita.
Da parte sua Gesù conosce il suo «dove» d’origine e anche quello del suo compimento, a differenza dei farisei che invece si ostinano nel loro limite, impedendosi da soli qualsiasi conoscenza e qualsiasi prospettiva: «So da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado» (Gv 8,14).
Gli avversari di Gesù non possono accettare di non avere sotto controllo anche Dio perché per avere il monopolio della religione devono imbrigliare Dio nei loro schemi e nei loro riti: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato» (Gv 9,16). Essi arrivano ad addomesticare alle loro mire e pensieri anche la tradizione dietro la quale si rifugiano per fuggire dalle novità di Dio: «Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia» (Gv 9,28-29).
A essi pensava il profeta nel riportare le parole del Signore: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Solo l’esperienza salvifica (la guarigione dalla cecità) libera l’anima e il cuore da ogni condizionamento prevenuto e legge la realtà per quello che è, chiamandola per nome: «Voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi» (Gv 9,30). È la religione del dovere che si contrappone alla fede della ricerca. Scomodano anche Mosè, senza rendersi conto che se avessero ascoltato il condottiero, avrebbero fatta propria la sua preghiera e oggi la sperimenterebbero compiuta: «Mosè disse al Signore: “Il Signore, il Dio della vita di ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore”. Il Signore disse a Mosè: “Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo spirito”» (Nm 27,15-18)1.
Il Profeta pari a Mosè
In ebraico il nome «Yehosuàh» nella forma lunga, oppure «Yoshuàh» nella forma corta, significa «Giosuè/ Gesù». La Bibbia greca della Lxx, traduce sempre con «Iēsoûs – Gesù». Il nome è come di solito «teofòrico» perché ha il significato di «Dio salva»2. Nel libro dei Numeri, Giosuè è successore di Mosè, ma nel libro del Deuteronomio c’è la promessa al popolo e a Mosè di suscitare un profeta «pari a» Mosè stesso, il profeta più grande di tutti i tempi: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15).  
Ecco, il profeta di Dio è ora davanti a Israele, al popolo di Gerusalemme, ai capi, agli scribi e farisei e costoro prendono per sé il Mosè accomodato ai loro bisogni e non si rendono conto che la sua preghiera è stata esaudita nella persona di Gesù che parla «in mezzo a loro»; ma essi perduti nel deserto della loro religiosità senza Dio, non sanno «di dove sia».
Si spiega così perché non possono accogliere i doni dell’abbondanza che egli annunzia: il vino bello delle nozze dell’alleanza rinnovata (Cana in Gv 2,9), l’acqua viva della coscienza delle proprie scelte (Samaritana in Gv 4,11) e il pane che sfama (il pane/eucaristia dell’abbondanza in Gv 6,5). Essi sono ciechi pur vedendo, miscredenti pur praticando la religione, sazi di sé, nella presunzione di credersi i rappresentanti della volontà di Dio. A loro è precluso il soffio dello Spirito che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove (pòthen) viene né dove va» (Gv 3,8). Per cogliere lo Spirito e il suo «dove» bisogna essere disposti a staccarsi dalle proprie sicurezze per correre tra le spire del vento e lasciarsi portare in luoghi e «dove» inesplorati e forse mai sognati.
Nel IV vangelo pare che l’unico interessato a sapere il «dove» di Gesù sia l’uomo più lontano da lui, per compito e per stato: Pilato, il procuratore romano, rappresentante di quel potere antagonista con il servizio annunciato e vissuto da Gesù ed espressione di una potenza deificata, tanto che il suo imperatore è «divino» per antonomasia. Incuriosito dal mistero che circonda quell’uomo che si trova di fronte, non esita a chiedere, disarmante: «“Di dove sei tu?”. Ma Gesù non gli diede risposta» (Gv 19,9). Non è tempo di discussione tra concezioni di vita e di poteri: il dramma è agli sgoccioli e anche Pilato è nelle mani di un gioco più potente di lui, perché la sua legittima domanda è immediatamente stritolata nelle maglie dell’alleanza tra la religione e il potere, la spada e l’altare: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare!» (Gv 19,12).
Se Cesare prende il posto di Dio
Ai capi dei sacerdoti interessa non l’amicizia di Cesare né tantomeno quella di Pilato, ma che non si rompa il patto di stabilità tra il potere religioso e quello politico, pagando il prezzo della consegna di Gesù che afferma di essere «Figlio di Dio», anzi proprio per questo. Qui si svela il «dove» dei capi dei sacerdoti, cioè delle guide, coloro che si vantavano di essere discepoli di Mosè, il padre dell’esodo e il maestro del Sinai, il profeta dell’alleanza sponsale, colui che guidò il suo popolo, gli antenati dei capi di oggi, a scegliere Dio come proprio Re, trasformandolo in popolo regale (cf Es 19,6; 1Pt 2,9). Essi sono apostati perché rinnegano il Dio del Sinai e danno nome al vitello d’oro chiamandolo Cesare, il come di un imperatore qualsiasi, una caricatura di re, di norma pazzo e assassino: «Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,15) che è il capovolgimento della promessa unica e solenne: «Quanto ha detto il Signore, lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7). È l’apostasia totale.
Solo in questa prospettiva si può capire l’economia del racconto di Cana come midràsh dell’alleanza del Sinai: Cana è l’invito, anzi l’appello alla coscienza di Israele ad abbandonare la teoria dei Cesari che hanno dominato la sua vita e il suo cuore per tornare al Dio di Abramo, al Dio di Isacco, al Dio di Giacobbe, al Dio dei Padri (cf Es 3,16), lavandosi e purificandosi non già nell’acqua delle giare che sono vuote e abbandonate, ma nel sangue, cioè nella vita di Dio stesso che non esita a darsi per amore (cf Gv 15,13). Il racconto delle nozze di Cana è un affresco mite e seducente di un Dio prossimo che viene a cercare chi si era smarrito nei patti scellerati con il potere, aderendo a una religione di comodo che fa a meno di Dio, pur servendosene peccaminosamente, perché non può vivere senza il guinzaglio del «cesare» di tuo.
Per questo l’architriclino non ha saputo o potuto riconoscere il vino bello dell’alleanza sinaitica nuova perché non aveva il collirio adatto (cf Ap 3,18) per vedere e contemplare che «lo sposo di quelle nozze (Cana) raffigurava la persona del Signore» (Sant’Agostino, In Johannis Evangelium. Tractatus cxxiv 9,2). Abbiamo qui una prova del metodo di Giovanni: il significato materiale delle singole parole o dei personaggi (la figura dello sposo, più allusa che reale) è simbolo di un altro Sposo che solo chi possiede o è posseduto dallo Spirito può cogliere e assaporare (cf 1Cor 2,11).
L’apparenza, il simbolo e la realtà
Nelle nozze degli umani, il vino buono si spreca all’inizio perché l’obiettivo è fare «bella figura» con gli ospiti e, alla fine, quando tutti sono ubriachi e nessuno è più in grado di distinguere il vino dall’acqua, si mette in tavola vino scadente; nelle nozze del Regno, al contrario, poiché si guarda all’evento in sé, quando il Messia porterà a compimento la storia e il suo senso, che oggi può apparire confuso e complicato, allora, e solo allora si gusterà il «vino bello» della comprensione di ciò che si è vissuto. Nella prospettiva del Regno non si guarda alla «figura», cioè all’apparenza, ma si è proiettati verso la dimensione escatologica, «in quel tempo» unico e assoluto, quando contempleremo la Sposa di Dio, la Gerusalemme del cielo «adoa per il suo Sposo» (Ap 21,2), pronta a riscattare il pianto di «Rachele (che) piange i suoi» (Ger 31,15; Mt 2,18), perché ora accoglie l’umanità intera invitata a prendere parte alle «nozze dell’Agnello» (Ap 19,7), sigillo definitivo e supremo dell’alleanza aperta e conclusa nel segno della Parola sul monte Sinai, quando Dio scelse Israele e Israele si consacrò al suo Signore (cf Es 19,8; 24,3.7).
Il racconto di Cana s’interrompe in modo brusco, senza conclusione, restando in sospeso, perché ogni lettore sia costretto a fermare il suo pensiero e a immaginare ciò che non è scritto, perché lo riguarda direttamente: qual è il mio posto di lettore in questo racconto? Quale personaggio descrive il mio stato d’animo, la condizione della mia fede, il mio «dove» nel cammino della mia ricerca?
In altre parole, il racconto di Cana resta «sospeso» perché aspetta la risposta all’interrogativo di fondo: a che punto sono della mia storia della salvezza? Sono seduto al banchetto delle nozze dell’Agnello o sono ancora nel giardino di Eden alla ricerca dell’albero «gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6)? Sono schiavo in Egitto, in attesa dell’irruzione di Dio, nella quale forse non spero più? Sono forse nel deserto a rimpiangere il passato, preferendo la schiavitù alla fatica del cammino verso la libertà? Ho preferito il «dio facile», rappresentato dal vitello d’oro, o il Dio esigente della coscienza sulla cima del monte che consegna le «dieci parole» di responsabilità? Non è affatto scontato che ciascuno di noi sia nel NT, accanto a Gesù Cristo, Messia e garante. No, non è proprio scontato.
Chi è Gesù per me?
Si può essere papi, vescovi, preti, consacrati, cristiani, studiosi della Bibbia da generazioni e generazioni e si può essere benissimo fuori della stanza nuziale, senza abito della festa (cf Mt 22,10-14), lontani dall’alleanza e dal Dio dal volto umano manifestato in Gesù di Nàzaret. La domanda cruciale è solo una e non può essere posta in altro modo: «Chi è Gesù per me?».
A questa domanda si deve rispondere e non si può rimandare; non è neppure sufficiente dare risposte prefabbricate, come fanno gli apostoli che riportano le «opinioni» degli altri: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta (cf Mt 16,14) o come fa Pietro stesso che crede di risolvere tutto affidandosi all’attesa messianica: «Tu sei il Cristo!» (Mt 16,16). Anche la sua risposta, che poteva venire dallo Spirito, è invece così generica e imprecisa che Gesù si sente in dovere di snudare la superficialità e doppiezza fino a chiamarlo satana: «Satana! Tu sei a me di scandalo» (Mt 16,23).
La domanda «Chi è Gesù per me?» impone al lettore di andare oltre il racconto di Cana, di scendere tra le pieghe delle parole che lo descrivono e di immergersi nel cuore dei sentimenti nascosti nel pozzo dello spirito. È il momento supremo della coscienza, che non può ingannarsi davanti a un evento che attende solo di essere vissuto: lo Sposo è giunto, le nozze possono cominciare! Si accendano le lampade (cf Mt 25,6).
È il momento della verità senza sconto: Gesù è un sistema di conoscenze catechetiche? Una struttura di dogmi o di etica? Un marcatore di civiltà da contrapporre ad altre? La chiave di un codice di potere? Lo strumento per esigere privilegi e «valori», magari non negoziabili? Oppure è una Persona che vuole essere incontrata, accolta, amata e frequentata?
Se è una Persona, c’è spazio per i sentimenti profondi fino all’innamoramento che fa sì che «quella Persona» diventi l’asse portante, il referente, il punto di arrivo e di partenza della vita, delle scelte, degli eventi, della morale, del pensiero, della fede e della speranza: «Il Dio della mia vita» (Sir 23,4).
(35 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (25) Da madre a donna

Il racconto delle nozze di Cana (25)

«Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse:
“Ecco mia madre e i miei fratelli!”»  (Mc 3,34)

Gv 2,4a: «[E] dice a lei Gesù: “Che cosa a me e a te, o donna?”»
[(kài) lèghei ho Iesoûs: Tí emòi kaì soí, gýnai?]

Questioni letterarie
La prima parte del versetto ha fatto scrivere migliaia e migliaia di commenti di cui qui non possiamo dare ragione1. L’ultima versione della Bibbia-Cei (2008) traduce: «E Gesù le rispose: “Donna, che vuoi da me?”». La traduzione rispetta il senso, ma elimina la pregnanza misteriosa del testo, che preferiamo riportare alla lettera per sottolineare alcune osservazioni importanti, utili alla comprensione del testo nel suo complesso e nella sua interezza e anche per potere fare confronti con testi analoghi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Tutti sanno che la traduzione-Cei non è tra le migliori, perché i vescovi alla fedeltà letteraria del testo originario (ebraico, aramaico e greco), hanno preferito la comprensione immediata del testo proclamato nella liturgia. Possiamo dire che la Cei, consapevole che i cattolici non hanno dimestichezza con la Parola di Dio a causa di una catechesi più dottrinale che biblica, hanno voluto facilitare la comprensibilità immediata piuttosto che la problematicità del testo. Hanno operato una traduzione liturgica.
Da un punto di vista della critica del testo, rileviamo due elementi: la congiunzione d’inizio versetto messa tra parentesi quadre [«e»] è omessa dal papiro 75 (175-225) e pochi altri, mentre è riportata dal papiro 66 (200 ca.) e dal codice sinaitico (sec. IV) e da quasi tutti gli altri per cui la si mantiene, ma per prudenza si mette tra parentesi.

Nota filologica. La «e» è una congiunzione cornordinante e copulativa, cioè lega il precedente al seguente con un nesso stretto. Nel versetto precedente troviamo: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”» (Gv 2,3), a cui corrisponde immediatamente con la congiunzione «e» la risposta istantanea di Gesù: «[E] dice a lei Gesù…» (Gv 2,4). Senza la congiunzione «e» si avrebbe la stessa risposta, ma con meno simultaneità, quasi vi fosse un tempo intermedio di riflessione; invece non c’è respiro tra la costatazione della madre che «vino non hanno» e la risposta di disapprovazione e fastidio data da Gesù.
Qualcuno potrebbe pensare che queste osservazioni siano di «lana caprina» o «spezzare il capello in quattro», mentre per noi esprimono la necessità di non essere mai superficiali con la Parola di Dio, anche perché Gesù ci ha detto espressamente: «Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18). In ebraico le parole in corsivo suonano così: «Lò’ yòd echàt ‘ò qòtz echàd» che potremmo tradurre in italiano con la nota frase: «Non si cambia neppure una virgola», quando vogliamo definire l’immodificabilità di un fatto o di un documento.
Cogliamo questa osservazione di Gesù per imparare qualcosa di più della Bibbia e del suo mondo. Lo iota (gr.: iôta) è la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico, la decima lettera, che in italiano corrisponde alla «y/i»; il termine italiano «trattino» traduce in modo comprensibile il termine greco «keràia» che significa alla lettera «corno» e a sua volta traduce l’ebraico «qòtz» che significa «spina» e corrisponde a un piccolissimo oamento che hanno molte lettere dell’alfabeto ebraico, quindi un elemento quasi insignificante. Gesù in questo modo esprime un pensiero diffuso al suo tempo. Il midràsh Genesi Rabbà afferma: «Tutto ha una fine – cielo e terra hanno una fine –, solo una cosa non ha fine. Cos’è? La Toràh» (Gen R. 10,1) a cui fanno eco Esodo Rabbà: «Nessuna lettera sarà mai abolita dalla Torah» (Es R., 6,1) e Levitico Rabbà: «Se tutte le nazioni del mondo si radunassero per eliminare una parola della Toràh, esse non sarebbero in grado di farlo» (Lv R., 19,2). Con questa espressione Gesù esprime l’intenzione che anche i segni apparentemente insignificanti hanno un senso nell’economia dell’intera Bibbia: tutto anche le «congiunzioni» hanno il loro valore e devono essere prese come Parola di Dio.

Dal passato al presente
La seconda osservazione riguarda il verbo «lèghei – dice». Essendo l’autore a parlare, dovrebbe usare il passato remoto (in greco il tempo aoristo) che è il tempo narrativo per eccellenza, invece usa quello che tecnicamente si chiama «presente storico», nel senso che, pur riferendosi a un fatto passato, usa il presente, rendendolo vivacemente attuale, quasi contemporaneo al lettore, che così è coinvolto nello sviluppo degli eventi. Il tempo passato (remoto/aoristo) lascia il lettore spettatore distaccato, mentre il presente storico lo immerge in quello che accade e da osservatore neutro lo trasforma in attore.
Sia la «madre» del versetto precedente, sia «Gesù» adesso, usano lo stesso presente storico, come se tutti e due fossero, come sono, davanti al lettore che ascolta, quasi con il desiderio di volere interloquire. Non si tratta di un fatto passato, ma di qualcosa che accade «adesso» e riguarda ciascuno di noi.
Spesso la nostra superficialità di vita e di approccio alla Parola di Dio ci fa perdere di vista le «congiun-zioni» e molti «presenti storici», isolandoci e impedendoci così di assaporare la Presenza di Dio che parla «ora» e non ieri, perché la sua Parola non è uno strumento di narrazione di fatti passati da osservare acriticamente, ma è Parola di salvezza che risuona «oggi» per noi: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,20).
Spesso ci nutriamo di parole morte perché le usiamo come proiettili per dimostrare, per separare, per colpire, finendo per rompere l’unità interiore che è la condizione essenziale della nostra vita di persone e di persone credenti.
Senza le «congiunzioni cornordinate e copulative» che la Parola di Dio ci offre, la nostra vita scorre slegata, separata, isolata. Viviamo smembrati in noi stessi, così disarticolati da arrivare all’obbrobrio di leggere la Parola in modo ovvio, accontentandoci del significato più esteriore che fa velo a quello nascosto e interiore, il significato «secondo» o altro, che, specialmente in Giovanni, è il vero senso e la vera misura.
Senza coniugare il verbo della nostra vita al «presente storico» della Scrittura, rischiamo di diventare «specialisti di Dio», addetti al sacro, tecnici della Bibbia che magari conosciamo a memoria, maneggiandola con sapere e disinvoltura, illudendoci di «conoscere» Dio, mentre in effetti siamo solo acculturati di Dio.
Se sappiamo coniugare il nostro presente storico davanti alla Shekinàh/Dimora/Presenza, possiamo aspirare a diventare «Parola incarnata», lettere viventi dell’alfabeto di Dio che attraverso di noi scrive ancora oggi la sua Bibbia e la legge al mondo in un linguaggio comprensibile perché «presente» e visibile.

Una espressione ordinaria
L’espressione, per noi enigmatica: «Che cosa a me e a te, o donna?», tecnicamente si definisce un «idioti-smo» (dal gr.: idiôttēs = particolare/privato), cioé costruzione tipica di una specifica lingua, in questo caso quella semitica; si trova anche nella letteratura greca extrabiblica, come in Euripide, Erodoto, Aristofane (sec. V a.C.), Demostene (sec. IV a.C.), Epitteto (sec. I-II d.C.)2. L’espressione evangelica «che cosa a me e a te – a tí emòi kaì sói?», tradotta in ebraico è «mah lî walàk» (aramaico: mah laî welàk). Nell’AT si trova circa 15 volte ma, a nostro avviso solo 11 casi possono essere equiparati al testo del vangelo per forma sintattica e vocabolario. Di seguito riportiamo i testi:

a) Nell’Antico Testamento:
1.    Gs 22,24: «L’abbiamo fatto perché siamo preoccupati che in avvenire i vostri figli potrebbero dire ai nostri: “Che avete in comune voi con il Signore, Dio d’Israele?” (mah lakèm weladonài ‘elohê Ysra’el?)».
2.    Gdc 11,12: «Iefte inviò messaggeri al re degli Ammoniti per dirgli: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), perché tu venga contro di me a muover guerra nella mia terra?”».
3.    2Sam 16,10: «Il re rispose: “Che ho io in comune con voi (mah lî welakèm), figli di Seruià?”» (cf anche 2Sam 19,23 con l’identica espressione).
4.    1Re 17,18: [La vedova di Sarepta] «disse a Elia: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?”».
5.    2Re 3,13: «Eliseo disse al re d’Israele: “Che cosa c’è tra me e te? (mah lî walàk). Va’ dai profeti di tuo padre e dai profeti di tua madre!”».
6.    2Re 9,18: «Uno a cavallo andò loro incontro e disse: “Così dice il re: ‘Tutto bene?’”. Ieu disse: “Che c’è tra te e la pace? [cioè il «tutto bene»] (mah lek ulshalòm)”». (cf. 2Re 9,19 con la stessa identica espressione).
7.    2Cr 35,21: «Quegli [Necao, re d’Egitto] mandò messaggeri a dirgli: “Che c’è fra me e te (mah lî walak), o re di Giuda? Io non vengo oggi contro di te”».
8.    Os 14,9: «Che ho ancora in comune con gli idoli (mah lî ’ôd la’zabîm), o Èfraim?».
9.    Gl 4,4: «Anche voi, Tiro e Sidone, e voi tutte contrade della Filistea, che cosa siete per me? (mah ‘attèm lî)».

b) Nel NT l’espressione idiomatica ricorre appena 5 volte:
1.    Mc 1,24: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro cominciò a gridare, dicendo: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
2.    Mc 5,7: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro, urlando a gran voce, disse: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”».
3.    Mt 8,28-29: «Due indemoniati… si misero a gridare: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Figlio di Dio?”».
4.    Lc 4,33-34: «Un uomo che era posseduto da un demonio impuro… cominciò a gridare forte: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
5.    Lc 8,27-28: «Un uomo posseduto dai demòni … vide Gesù, gli si gettò ai piedi urlando, e disse a gran voce: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”» (cf. anche Mt 27,19, ma solo in senso lato).

Mancanza di vino, eccesso mariano
Abbiamo riportato tutti i testi chiari per fare vedere «visivamente» che l’espressione di Gesù a sua madre non è strana e non è oscura, come si vorrebbe far credere, ma è una espressione «tipica» del parlare del suo tempo per indicare, a seconda del contesto, disapprovazione, dissuasione, non condivisione del punto di vista, non gradimento, discontinuità tra due situazioni, disinteresse e chiusura di qualunque rapporto tra due interlocutori.
Probabilmente a complicare le cose gioca un ruolo determinante l’eccessiva devozione mariana con cui si è letto e, in certi ambienti fondamentalisti, si legge ancora il racconto delle nozze di Cana. Al di fuori del contesto ebraico, si fa fatica ad ammettere una risposta sgarbata di Gesù a sua madre che, da questo punto di vista è considerata la protagonista per eccellenza del racconto perché è lei che, apparentemente, risolve un caso di opportunità sociale: la vergogna degli interessati che non hanno calcolato il vino necessario per la festa.
Spesso è visto, errando, il racconto delle nozze di Cana come un piedistallo mariano, da cui domina la Vergine Maria che viene in soccorso dei bisogni dei suoi figli, memori delle parole sublimi di Dante nella preghiera di San Beardo nell’ultimo canto del Paradiso: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (DANTE, Divina Commedia, Par., XXXIII, 15-18).
Senza nulla togliere a Maria, nel contesto delle nozze di Cana, una simile interpretazione è ben povera perché annega in un «bicchiere di vino» (è il caso di dirlo!) la prospettiva storico-salvifica di Giovanni, che guarda le nozze nella prospettiva dell’alleanza del Sinai e non alla devozione mariana, totalmente estranea all’evangelista.
Il popolo cattolico in particolare per la sua strutturale «ignoranza delle Scritture», è indotto a leggere e commentare la Bibbia con le proprie precomprensioni teologiche o peggio devozionali, per cui, nel nostro caso, la Madonna diventa la figura di primo piano nel racconto delle nozze di Cana, facendo così piazza pulita di tutti i sensi simbolici che l’autore del IV vangelo vi ha posto e ci obbliga ad indagare.
Da questa prospettiva mariana, e la catechesi spicciola vi è egregiamente riuscita, bisognava ridurre l’impatto della contrapposizione tra Gesù e sua madre, arrivando fino a dire che l’appellativo «donna» è un titolo onorifico e di rispetto, travisando così il senso anche ovvio del vangelo.
Rivolgendosi a sua madre, Gesù la chiama «donna» (nel testo greco senza articolo e senza alcuna qualifi-ca), esprimendo un passaggio epocale nella storia di Gesù. La «madre» dei versetti precedenti (cf. Gv 1,1-2) e seguenti (cf. Gv 2,12; 19,25-27) diventa ora solo «donna», creando un nuovo rapporto nella vita della madre e in quella del figlio, Gesù. Nel momento in cui Gesù entra in scena, saltano tutti i rapporti di parentela precedenti e si stabiliscono relazioni nuove per un orizzonte nuovo.
La «madre» era alle nozze in rappresentanza di Israele/sposa, e ambedue, madre e popolo, giacciono là «giare di pietra», simbolo dell’alleanza sinaitica che ora è chiamata da Gesù a salire di senso: dal vino materiale al vino messianico. «Che c’è fra te e me, donna?» sta a significare: popolo d’Israele, mia sposa e madre, non perdere tempo con le cose insignificanti, ma guarda in alto e in avanti ed entra nella nuova prospettiva del Regno di Dio.
La madre/Israele deve prendere coscienza che è arrivato il rinnovatore: «Ecco, io faccio nuove tutte le co-se» (Ap 21,5), colui che supera le cose passate e proietta verso il Regno del futuro, la nuova economia della salvezza: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43, 18-19).
Chiamando la madre «donna», in maniera assoluta, senza alcuna qualifica e articolo, Gesù la scaraventa dal piano affettivo/familiare a quello storico salvifico identificando in modo assoluto la madre/donna a Israele/sposa del Messia/sposo che inaugura la «nuova alleanza» preannunciata dal profeta (cf. Ger 31,31) che concluderà definitivamente nella «sua ora», l’ora della morte e risurrezione. 
(25 – continua)

di Paolo Farinella

1.    Per una bibliografia abbastanza completa cf. A. SERRA, Le nozze di Cana, 273-303, special. le note).
2.    Cf. i testi per esteso riportati da A. SERRA, Le nozze di Cana, 274-275 alle note 468-472, specie la nota 472, che riporta i testi di Epitteto, i quali per tempo e forma sintattica sono più vicini al vangelo rispetto agli altri autori che hanno espressioni simili, ma non uguali.

Paolo Farinella




Storia del Giubileo 1. Francesco, papa profeta


C
on la Bolla «Misericordiae Vultus»
(MV) dell’11 aprile 2015, Papa Francesco ha indetto un
Giubileo Straordinario dedicato alla Misericordia. Il
Giubileo durerà un anno, dall’8 dicembre 2015, cinquantesimo anniversario della
chiusura del concilio Vaticano II, al 20 novembre 2016, memoria liturgica della
festa di «Cristo Re dell’universo». Il Papa ha esteso a tutte le chiese
cattedrali diocesane e a quelle più significative di tutto il mondo le stesse
prerogative delle Basiliche vaticane di Roma, per cui – e questo è anche il
desiderio di Papa Francesco – non sarà necessario andare a Roma, come per tutti
gli altri Giubilei, ma si potrà partecipare intimamente anche dalle proprie
città e diocesi.

Questa
scelta è importante perché il Papa, in questo modo, afferma «l’ekklesìa»
universale che si realizza ovunque si celebri la Misericordia di Dio che lo
stesso Francesco nella Bolla di indizione definisce «l’architrave che sorregge
la vita della Chiesa» (MV, n. 10), la quale «vive un desiderio inesauribile di
offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del
Padre e la sua forza diffusiva».

La
rivista MC ha deciso di predisporre dieci puntate (una al mese e quindi per
l’intero anno giubilare) per approfondire il significato del Giubileo nella
Bibbia, quali sono i suoi contenuti, e quale ne è stato lo sviluppo nella
storia della Chiesa, che vide il primo Giubileo nel 1300, indetto da Papa
Bonifacio VIII con intenzioni ben diverse da quelle di Papa Francesco.
Cercheremo di capire meglio – almeno lo speriamo – le ragioni e le motivazioni
interiori che hanno spinto il Papa a fare questo gesto e con modalità diverse
da quelle degli altri Giubilei. Sono grato a MC di avermi affidato questo
compito che, pur essendo impegnativo, mi permette di compiere un atto di
devozione e di ossequio ai nostri lettori, verso i quali MC non può che nutrire
sentimenti di gratitudine.

Non
possiamo però cominciare il racconto della storia del Giubileo senza domandarci
chi sia Papa Francesco. Se è vero, come lui stesso ha detto la sera della sua
elezione a vescovo di Roma (13 marzo 2013), che i «cardinali sono andati a
prenderlo quasi alla fine del mondo», è anche vero che fin dall’inizio egli ha
compiuto gesti e ha detto parole incisive per le persone, per lo stesso papato
e anche per chi non crede. Questo Papa non lascia indifferenti.

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Una profezia scontata

 

Devo iniziare con un riferimento personale. Me ne scuso, ma è
necessario. Nel 1999, quando vivevo a Gerusalemme, pubblicai un romanzo dal
titolo «Habemus Papam, Francesco». Alla vigilia del Giubileo che segnava il
passaggio tra il II e il III Millennio, immaginavo l’arrivo di un papa che
prendesse il nome «Francesco» e cominciasse a riformare sul serio la Chiesa che
già allora, nel declino del pontificato di Giovanni Paolo II, viveva i sintomi
di un sistema ecclesiastico che iniziava a precipitare.

Nel 2012, a richiesta dei lettori, il romanzo fu ripubblicato
dall’Editore Gabrielli con il titolo «Habemus Papam. La leggenda del Papa che
abolì il Vaticano». Questa seconda edizione fu aggiornata al pontificato di Papa
Ratzinger, durante il quale il Vaticano fu teatro di fatti scandalosi e di
corruzione, così gravi da portare lo stesso Papa a rassegnare le dimissioni, le
prime dopo quelle del 1294 di Celestino V, il Papa che con l’istituzione della «Perdonanza»
di Collemaggio (L’Aquila), anticipò di quattro anni il primo Giubileo della
Chiesa Cattolica, proclamato per l’Anno Santo del 1300 dal suo successore, Papa
Bonifacio VIII della famiglia «Cajetani».

L’idea di un papa che prendesse il nome Francesco, anticipata di
tredici anni e poi ribadita l’anno precedente la sua realizzazione, non fu una
preveggenza perché il cristiano non ha bisogno di arti magiche per leggere il
futuro, gli è sufficiente avere gli strumenti adatti alla lettura dei «segni
dei tempi» (Mt 16,2-3; cf Lc 12,54-56; Vangelo [apocrifo] di Tommaso,
n. 91) che sono il Vangelo e la Storia, accostati senza prevenzioni. Usare
questi strumenti è il modo «ordinario» per conoscere il senso e la profondità
di ciò che accade e anche di quello che verrà.

Oggi, ascoltando il papa, spesso gli sento pronunciare le stesse
parole del Papa del romanzo o vedo che compie gesti simili al Francesco
letterario, e non mi meraviglio perché il Papa crede che lo Spirito Santo guidi
la storia e le ragioni profonde dell’agire. Non ha quindi idee o interessi o
privilegi da difendere. Con il cuore libero sa disceere le esigenze del Regno
di Dio, distinte dagli schemi dei propri convincimenti. Papa Francesco è
isolato all’interno del «sistema clericale» e alcuni non lo nascondono nemmeno:
sono gli stessi che prima difendevano il «primato del Papa», ma solo perché il
pensiero del Papa di tuo coincideva con il loro. È sufficiente che un Papa
pensi secondo Dio con spirito di servizio, combattendo la perversione del
potere e lo spirito di casta, che di solito degenera nella corruttela, ed ecco
montare un muro di resistenza strisciante.

Papa Francesco ha il senso di Dio perché è affamato di umanità e
sa di rappresentare sulla terra quel Cristo, che è «Lògos [che] carne fu fatto»
(Gv 1,18). Si presenta all’umanità non come maestro di princìpi e dispensatore
di dottrina, difensore di tradizioni passate e fustigatore di costumi, ma
semplicemente come il servo del Dio incarnato che viene a misurarsi con il
passo delle persone alle quali prospetta e offre un orizzonte che solo nella
libertà e nell’amore è possibile.

Si può dire che Papa Francesco esprima l’anelito e l’ansia
pascaliani di non preoccuparsi del Dio della filosofia e delle dimostrazioni
apologetiche, ma unicamente del Dio incontrato e sperimentato nella sua storia
e in quella dei suoi compagni e compagne di viaggio: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio
di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo»
(B. Pascal, Memoriale; cf anche Pensieri, 5, 362, 366, 556; 602,
730).

Qualche giorno dopo la morte di Blaise Pascal (1623-1662), un domestico trovò
cucito nella fodera di un suo indumento, un foglio autografo in cui filosofo e
scienziato faceva riferimento a un’esperienza, forse mistica, avvenuta nella
notte del 23 novembre 1654. Il breve documento è conosciuto come «Memoriale» e
riporta la celebre frase: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di
Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo».



 


Da sommo pontefice a «servo
dei servi»

 

Per capire Papa Francesco e la scelta d’indire un Giubileo
Straordinario sulla Misericordia, bisogna ritornare a quella sera straordinaria
del 13 marzo 2013, quando dopo la fumata bianca e l’annuncio del cardinale
protodiacono: «Habemus Papam … Franciscum», il primo latinoamericano della
storia e il primo gesuita papa, si è affacciato alla loggia delle benedizioni.
Da subito gli addetti del mestiere hanno capito che molto era cambiato, già
solo al vederlo vestito di bianco e senza la mozzetta scarlatta e la stola
cosiddetta di «Pietro e Paolo». Accanto al Papa, alla sua sinistra, stava
terreo e sudato il cerimoniere pontificio che sul braccio teneva piegata la
stola pontificia.
È
stata una scena indimenticabile perché ha segnato il confine irreversibile tra un
«prima» e un «poi» (cf V. Gigante – L. Kocci, La Chiesa di tutti,
prefazione di Paolo Farinella, Altraeconomia, Milano 2013). Per la prima volta
nella storia, un Papa appena eletto non si presentato come «pontefice», ma come
Vescovo di Roma e ha voluto mostrarlo in modo visibile perché nella Chiesa i
simboli sono essenziali. Egli ha rinunciato alla «mozzetta rossa, oata di
ermellino», residuo della clamide rossa indossata l’imperatore come simbolo
della sua autorità di massimo magistrato dello stato. Rinunciando all’indumento
imperiale, il Papa rinunciava a presentarsi come «Sommo Pontefice», titolo
riservato all’imperatore e simbolo del potere temporale. Non indossando la
stola che di solito i Papi portano quando esercitano la loro funzione di capi
di stato, il Papa si è offerto al suo popolo «nudo» come Francesco di Assisi e
ha trasformato in un colpo solo il potere in servizio.

L’ultimo gesto sconvolgente è stata la richiesta al popolo
romano, cioè il «suo» popolo ecclesiale, d’invocare la benedizione di Dio su di
lui vescovo, prima che questi benedicesse il popolo, dando corpo alle parole di
sant’Agostino che nell’anniversario della sua ordinazione diceva ai cristiani
di Ippona: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano» (Sermones,
340, 1 PL 38, 1483). La sera del 13 marzo 2013 dalla loggia centrale del
Vaticano non si è presentato il rappresentante del potere temporale, anche se
stilizzato, il Papa-Re, anche se di un minuscolo Stato di 0,44 km
2, ma «il servo
dei servi di Dio». Non si è presentato soltanto. Ne ha anche avuto coscienza.

 

L’appellativo «Servus servorum Dei» fu utilizzato per la prima volta da Papa
Gregorio I (1145-1241) in risposta al Patriarca di Costantinopoli Giovanni IV Nesteutés,
che significa Digiunatore (582-595), che nel 587 aveva assunto il titolo di
Patriarca «Ecumenico». Papa Gregorio si definì «Servo di Dio» che nell’Amtico
Testamento è un titolo onorifico, sinonimo di ambasciatore/rappresentante, e
per sottolineare l’umiltà del ministero aggiunse «dei servi di Dio», cioè il
Popolo santo dei credenti. L’appellativo, per le circostanze in cui è nato, ha
un richiamo esplicito al profeta Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo
ti ascolta» (1Sam 3,9-10).



 

La misericordia nel sangue

Francesco di Assisi andava in giro per la città predicando
il Vangelo «sine glossa», cioè senza alcun commento, ma testimoniandolo con la
vita e l’esempio e assumendo la povertà assoluta come misura della sequela di
Cristo. Papa Francesco, che prende il nome del poverello di Assisi, si condanna
da sé a essere inchiodato a una vita di austerità e povertà, anche esteriore,
perché quel nome non è un nome qualsiasi, ma quello di uno che «fece sul serio».
Papa Francesco è coerente e due anni di servizio petrino lo dimostrano: egli è
quello che appare e fa quello che dice (cf Mt 23,3).

Nell’esortazione apostolica «Evangelii Gaudium», Papa
Francesco scrive facendo eco al Santo suo ispiratore e facendo suo il metodo
del «sine glossa»:

«È vero che, nel nostro rapporto con
il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come
nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto chiaramente avvertiti: “Sia
fatto con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16), e “se possibile, per quanto dipende
da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18). Siamo anche esortati a cercare di
vincere “il male con il bene” (Rm 12,21), senza stancarci di “fare il bene”
(Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando “gli altri
superiori a se stesso” (Fil 2,3). Di fatto gli Apostoli del Signore godevano “il
favore di tutto il popolo” (At 2,47; cfr. 4,21.33; 5,13). Resta chiaro che Gesù
Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come
uomini e donne del popolo. Questa non è l’opinione di un Papa né un’opzione
pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così
chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che
toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole sine glossa, senza
commenti. In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la
vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del
mondo» (EG, 271).

Questo è l’uomo che ha indetto il Giubileo Straordinario
della Misericordia, parola che segnava la vita di Bergoglio già prima di essere
eletto. Quando nel 1992 era stato eletto Vescovo, secondo la tradizione come
suo motto episcopale scelse il motto latino: «Miserando atque eligendo». La
frase è tratta dalle Omelie di san Beda, detto il Venerabile (672-735),
il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo,
scrisse: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore
[in latino: miserando = avendone misericordia] e lo scelse, gli disse:
Seguimi» (Omelia 21; CCL 122, 149-151).

Non è più tempo di difendere i princìpi a forza di
manifestazioni o urla, oggi è l’umile tempo del sacramento della testimonianza
con la vita, che è il vero martirio che il Vangelo chiede a quanti vogliono
avventurarsi per questa via, senza esaurirsi in una religiosità esteriore e di
convenienza. Annunciando il Giubileo, Papa Francesco, come novello Giona,
attraversa la Ninive della storia, annunciano a tutti non la «Misericordia di
Dio», ma che «Dio è Misericordia». In questo modo egli resta fedele alla sua
storia personale e alla sua vocazione, dando spazio alla Dimora/Shekinàh dello
Spirito nella sua vita. Da Papa ha coscienza di dovee testimoniare la realtà
davanti al mondo e davanti a chiunque incontri. D’altra parte anche Gesù ha
iniziato il ministero pubblico nella sinagoga di Nàzaret, scandalizzando i
cultori del Dio «castigamatti», annunciando per tutti un Dio dal Volto non solo
umano, ma amorevole e carico di tenerezza e di amore a perdere:

«18Lo Spirito del Signore è sopra di me; / per questo mi ha
consacrato con l’unzione / e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto
annuncio,/ a proclamare ai prigionieri la liberazione/ e ai ciechi la vista;/ a
rimettere in libertà gli oppressi,/
19a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 1,18-19).


Ogni tempo è «anno di grazia» perché il tempo di ciascuno è
diverso dal tempo degli altri, ma il tempo di Dio è sempre un «kairòs
occasione propizia» da afferrare, perché Dio ha tutta l’eternità per perdere il
suo tempo con noi, suoi figli e figlie, oggi e domani. Sempre.

 

Paolo Farinella, prete

Paolo farinella