La cooperazione nel carrello della spesa

 

In questo numero proponiamo una riflessione e qualche indicazione per chi vuole fare solidarietà internazionale tutti i giorni. A partire dalla spesa al supermercato. O, meglio ancora, nel piccolo negozio di quartiere e di paese.

Cominciamo con un esempio concreto. Sono le sette di sera e ti trovi al supermercato di quartiere per fare la spesa settimanale. Mentre metti nel carrello i soliti prodotti, tuo figlio, accanto a te, ben esposto a un bel po’ di cartoni animati mescolati a pubblicità, sta facendo di tutto per sottrarti la guida del carrello e condurlo a velocità supersonica lungo le corsie de negozio. All’improvviso si ferma come folgorato davanti al banco frigo: ha visto la sua merendina preferita. Cerchi di convincerlo a provae un’altra, che costa un po’ meno e forse è anche più sana, ma lui pianta una grana epocale che rischia di finire con lacrimoni caldi e grida disperate fra gli sguardi indignati degli altri clienti. Alla fine cedi: dopo una lunga giornata di lavoro e a pochi minuti dalla chiusura del supermercato non hai proprio le energie per gestire una scenata.

Toi a casa e, dopo cena, t’imbatti in un articolo sul giornale: la multinazionale Merendinia, produttrice del dolcetto tanto amato da tuo figlio, è accusata di sfruttare il lavoro minorile in Costa d’Avorio, nelle piantagioni di cacao dalle quali viene uno degli ingredienti della merendina. Ripensi allo scorso Natale, quando hai donato cinquanta euro a un’organizzazione che lavora proprio in Costa d’Avorio, dove i bambini sono spesso costretti a lasciare la scuola per andare a lavorare, in condizioni di semi schiavitù, nelle piantagioni locali. L’obiettivo dell’organizzazione è quello di contrastare il fenomeno sostenendo attraverso il microcredito le famiglie dei bambini e riportando questi ultimi a scuola.

E se fossero gli stessi bambini? Se è così, allora significa che con cinquanta euro dati all’associazione per Natale fai studiare un bambino, mentre con un euro di merendina a settimana per cinquanta settimane all’anno finanzi chi impedisce a quel bambino di andare a scuola.

Sull’onda della scoperta appena fatta ti metti a navigare su internet e poi a esplorare la tua casa: il detersivo per i piatti, nell’etichetta posteriore, reca il logo di un’altra grande multinazionale, anche questa accusata di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori, così come il cibo per la gatta, che leggi essere prodotto con pesce pescato da piccoli schiavi birmani in Thailandia. Te ne vai a dormire con un bel mal di testa: sembra che qualsiasi cosa faccia (o compri), sbagli.

behind-the-brandsChe cosa c’è a monte?

È ovvio che questa ricostruzione del quotidiano di una persona è fittizia e si limita a connettere fra di loro alcune informazioni: è difficile risalire con questa accuratezza la catena che porta nelle nostre case cibo e oggetti la cui produzione ha causato un danno a un preciso essere umano in Africa, Asia, America Latina.

E, tanto per complicare ulteriormente la faccenda, c’è anche il panorama visto dal Sud del mondo: i lavoratori delle piantagioni Del Monte in Kenya, infatti, non hanno alcuna intenzione di boicottare la multinazionale. Dicono: «Noi la vogliamo eccome, la Del Monte, perché ci dà lavoro. Vogliamo solo che ci paghi meglio e che non ci faccia perdere la salute». Che dire poi del latte in polvere – spesso Sma milk (prima di proprietà della farmaceutica Pfizer e dal 2012 della Nestlè) o Bebelac (Danone) – che si vede fra le braccia dei bambini nei campi di rifugiati siriani? Ovvio che nell’immediato serve il latte Danone in Siria e serve il lavoro offerto dalla Del Monte in Kenya. Ma che cosa sta a monte della malnutrizione dei bambini siriani o delle lotte dei contadini keniani? Se c’è un campo rifugiati con dei bambini malnutriti è perché c’è un’emergenza umanitaria generata da un conflitto. Se i lavoratori keniani chiedono salari più alti e diritti basilari è perché non li hanno.

Il punto, allora, è come evitare che una soluzione immediata – il latte, il lavoro – ipotechi una soluzione più duratura, stabile ed equa. Come evitare, cioè, che una multinazionale sia così potente da imporre sempre, e non solo nei casi di emergenza, il latte in polvere? O che le grandi piantagioni trasformino i paesi del Sud del mondo in infei ambientali abitati da masse di salariati a basso costo dove non è più possibile alcuna iniziativa autonoma locale e da cui le persone continueranno a emigrare, come e più di oggi?

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Il potere del consumatore

Ma che c’entrano il genitore e la merendina con questi fenomeni così vasti e lontani? C’entrano per il fatto stesso di fare la spesa. Facendo la spesa si compie un gesto apparentemente insignificante: basta mettersi sul cavalcavia di un’autostrada e osservare il gran numero di camion che trasportano i prodotti che consumeremo per sentire noi stessi e la nostra borsa della spesa irrilevanti.

Ma il consumo può essere un’arma molto potente. In un piccolo supermercato di quartiere, in un negozio di paese, la scelta di un solo cliente sposta poco o nulla. Ma quella di dieci consumatori già appare nelle tendenze di vendita che il negoziante esamina a fine mese. E quella di cento consumatori lo costringe a cambiare gli ordini ai fornitori.

Sulle conseguenze economiche e politiche delle scelte consapevoli di consumo è in corso una approfondita riflessione: il «votare con il portafoglio» di cui parla ad esempio l’economista Leonardo Becchetti.

Il mondo del consumo consapevole, però, non è né semplice né lineare. Somiglia, in certe sue sfaccettature, al mondo che ci hanno raccontato le nonne, in cui era impensabile mangiare lasagne di martedì, si lavavano i panni con la cenere e non si buttava niente. Dopo decenni di ipermercati e di consumo compulsivo, quella sobrietà sta – per scelta o per necessità – tornando pian piano ad apparire nel dibattito pubblico. Ma la narrativa delle origini a volte sembra più che altro al servizio del marketing e rimanda alla naturalità di un’età dell’oro forse mai esistita. Non negli ultimi cent’anni, almeno, se è vero che anticrittogamici e concimi chimici erano in uso in Italia già negli anni Venti del secolo scorso e che a partire dagli anni Sessanta diverse varietà di frumento sono state irradiate: uno degli esempi più noti è il grano Creso, ottenuto nel 1974 dopo un processo di irraggiamento del grano Senatore Cappelli.

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Il chilometro zero

Ma veniamo agli aspetti del consumo consapevole legati alle economie (e quindi agli abitanti) del Sud del mondo e limitiamoci per brevità all’ambito alimentare. Uno dei principi molto in voga negli ultimi anni è quello del chilometro zero, cioè, in estrema sintesi, il consumo di prodotti il più vicino possibile alla zona di produzione. Al di là dell’ovvio vantaggio per i produttori locali, il chilometro zero favorirebbe l’ambiente perché trasporti più brevi implicano meno emissioni di CO2. Quelle stesse emissioni di cui tanto s’è parlato al Cop21 – la conferenza sull’ambiente che si è svolta a Parigi alla fine dello scorso anno – e il cui effetto nefasto sul clima colpirebbe specialmente i paesi del Sud del mondo. Ecco dunque che il consumo locale in Europa o Stati Uniti aiuta indirettamente anche i paesi del Sud del mondo attraverso la riduzione delle emissioni. Tutto bene, allora? Quasi. Se il consumo locale viene da serre riscaldate con impianti fotovoltaici forse sì. Ma se, per alzare la temperatura nelle serre, si bruciano tonnellate di gasolio, allora forse no. In questo caso può darsi che trasportare frutta dall’Africa o dall’America Latina produca meno danno all’ambiente del chilometro zero di serra. La stagionalità dei prodotti, dunque, è l’altro elemento da considerare: a gennaio sono sostenibili i cavolfiori, non i pomodori.

Ma non è finita qui: secondo uno studio del britannico Istituto Internazionale per l’ambiente e lo sviluppo (Inteational Institute for Environment and Development), circa un milione e mezzo di coltivatori africani dipendono dal consumo dei loro prodotti nel Regno Unito. Vale la pena, si chiede lo studio, di privare del sostentamento un milione e mezzo di persone per ridurre le emissioni britanniche dello 0,1 per cento eliminando i voli dall’Africa carichi di frutta e verdura? Non sarebbe meglio ridurre invece gli oltre duecento chilometri che in media un inglese percorre in auto annualmente per andare ad acquistare cibo? Le emissioni prodotte da questi spostamenti rappresentano lo 0,38 per cento del totale annuale, quattro volte quelle generate dal trasporto aereo di frutta e verdura dall’Africa.

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Il commercio equo

Altro grande protagonista del consumo consapevole è il commercio equo e solidale, o fair trade di beni provenienti dal Sud del mondo prodotti con criteri non solo orientati al profitto ma anche a garantire un reale beneficio per le comunità locali. Le più recenti critiche al fair trade vengono da una ricerca di un’università inglese, la Scuola di studi Orientali e Africani (Soas), e dallo studio dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylla della Rosa Luxemburg Foundation. In breve, le conclusioni raggiunte dallo studio Soas sono che in Etiopia e Uganda – i paesi presi in esame dalla ricerca – le condizioni dei lavoratori appartenenti al circuito del commercio equo sarebbero addirittura peggiori rispetto a quelle dei lavoratori del circuito tradizionale, mentre Sylla insiste specialmente sui limiti del sistema di certificazione per ottenere il «bollino fair trade» che, a detta del ricercatore senegalese, penalizza proprio i paesi più poveri e meno organizzati, in particolare quelli africani. A partire dallo studio di Sylla, l’Economist si è spinto a concludere che il commercio equo è servito più a tranquillizzare le coscienze nei paesi ricchi che a contrastare seriamente la povertà nei paesi in via di sviluppo. Come se l’eticità stessa fosse anch’essa un bene di consumo che si compra insieme alle banane. Secondo i critici del fair trade, insomma, il cibo soddisfa un bisogno fisico, il fatto che il cibo sia «etico» soddisfa un bisogno morale, ma entrambe le cose sono, in definitiva, merce.

La risposta di Agices, l’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale, non si è fatta attendere: il presidente Alessandro Franceschini ha ammesso che, in effetti, su «15 milioni di euro di importazioni da produttori di commercio equo da parte delle organizzazioni nostre socie, solo l’11% arriva dal continente africano». E che «c’è ancora molto da lavorare». Ma ha anche sottolineato che lo studio Soas prende in considerazione solo due paesi foendo perciò una lettura parziale. Quanto alle certificazioni, il sistema rappresentato da Agices si basa sulla relazione tra organizzazioni nel Nord e nel Sud del mondo, «il cui lavoro è reciprocamente garantito», più che sulla certificazione.

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Quasi un secondo lavoro

Si potrebbero fare molti altri esempi, non solo relativi al cibo, di come le nostre scelte di consumo pesano sui luoghi e le persone nel Sud del mondo che hanno prodotto ciò che consumiamo. Come si fa a orientarsi? Difficile sottoscrivere senza riserve affermazioni come: se compri prodotti fair trade, se fai acquisti a chilometro zero, allora sei sicuro di non far danni. E questa forse è una prima indicazione: aderire una volta per tutte, in maniera fideistica, a una linea di consumo critico è… acritico.

Per informarci su quel che consumiamo ci sono strumenti come il sito promosso dalla Ong Oxfam Scopri il Marchio che, per ogni prodotto selezionato, mostra una valutazione della multinazionale produttrice basata sul trattamento dei lavoratori, sul rispetto del diritto alla terra, sull’attenzione per l’ambiente. Altro strumento è il rapporto diretto e fiduciario con chi vende, un rapporto che la Grande distribuzione organizzata (Gdo) ha indebolito ma che ci permetterebbe di ottenere informazioni e chiedere conto della provenienza di quel che acquistiamo.

Inutile illudersi: tutto questo si scontra con i colossi della Gdo e della grande produzione, con le loro efficientissime macchine di marketing che remano nella direzione opposta, e trovare le informazioni per contrastare questi fenomeni richiede tempo, a volte così tanto che sembra quasi un secondo lavoro.

E, naturalmente, il presupposto è che fare questa operazione di conoscenza ci interessi: il genitore che fa la spesa di corsa e probabilmente con un limite di spesa preciso spesso non ha né tempo né voglia di approfondire e compra quel che è più conveniente. Ma il prezzo di questo apparente risparmio di tempo e denaro è piuttosto salato: significa rinunciare in partenza a tentare di scegliere non solo quello che mettiamo nel carrello, ma anche quali salari avremo domani se il mercato mondiale ci impone di renderli competitivi con il quelli bassi del Sud del mondo, o quanti migranti economici e ambientali busseranno ancora alle porte dell’Europa perché i loro paesi sono stati devastati da cambiamento climatico, monocolture su grande scala, estrazione mineraria selvaggia.

Chiara Giovetti




Ipazia d’Alessandria

PAZIA dIpazia, figlia del responsabile della famosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, Teotecno detto Teone, visse negli anni a cavallo del IV e V secolo dopo Cristo, epoca in cui la decadenza dell’Impero Romano cominciava a farsi sentire, mentre in contemporanea nasceva un nuovo ordine politico e sociale. Filosofa, astronoma e matematica, Ipazia era una stimata studiosa e un simbolo di tolleranza nella sua città cosmopolita. Sebbene le sue opere scientifiche siano andate perdute, la testimonianza che ci ha lasciato è quella di una donna forte che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca e allo studio pur vivendo in un’epoca di scontri religiosi e in cui tendenze culturali differenti si contrapponevano ferocemente.

Ritratto-immaginario-di-IpaziaIpazia, sei stata una donna fortunata, non solo perché Teone, tuo padre, era il responsabile della biblioteca di Alessandria d’Egitto, ma anche perché sei cresciuta in quella che ai tuoi tempi era ritenuta la capitale del sapere dell’Impero Romano.

La mia città natale, per quei tempi, era veramente un contenitore eccezionale dello scibile umano, basti pensare che nella famosa biblioteca erano conservati più di cinquecentomila volumi e rotoli in cui era contenuto tutto il sapere prodotto fino a quel tempo nel mondo allora conosciuto. Grazie a questa particolarità, Alessandria era ritenuta uno dei principali poli culturali ellenistici.

Ma oltre a questo mondo accademico culturalmente ricco e vivace che ti circondava, hai potuto conoscere altre realtà dell’Impero?

Feci dei viaggi in Grecia e in Italia, venendo così a contatto con gli illustri pensatori e filosofi dell’epoca, ero stimolata poi da mio padre affinché approfondissi gli studi e accrescessi il mio bagaglio culturale. Mi attirò molto la scuola neoplatonica che studiai a fondo, tanto da diventare insegnante di questa corrente filosofica oltre che di matematica.

Possiamo dire che benché fossi una donna diventasti un’autorità e un indiscusso punto di riferimento culturale nello scenario dell’epoca?

Lo studio mi appassionò sempre, fin da bambina, e una volta raggiunti certi traguardi scrissi trattati di matematica e compilai anche tavole astronomiche sui moti dei corpi celesti che ebbero un notevole rilievo.

È vero che insieme a tuo padre fosti l’autrice di un commento in tredici volumi sull’Almagesto di Tolomeo, una mastodontica opera che conteneva tutte le conoscenze astronomiche e matematiche dell’antichità?

Non solo, mi occupai anche di meccanica e di tecnologia applicata, arrivai persino a costruire uno strumento per determinare il peso specifico di un liquido e a progettare un astrolabio che serviva per calcolare il tempo, per definire la posizione del sole, delle stelle e dei pianeti.

Una donna colta come te era una rarità in quei tempi caratterizzati dalla misoginia aristotelica. Per questo venivano da ogni parte dell’Impero per ascoltare le tue lezioni…

Alcuni ritenevano che, dal punto di vista filosofico, io avessi aperto dei sentirneri nuovi che prospettavano un orizzonte sconfinato per quanto riguardava l’intelligenza umana. Questo in germe fu l’origine dello scontro con la nuova religione che si andava diffondendo, ovvero il cristianesimo, in quanto i più fanatici del gruppo neoplatonico ritenevano inconciliabile il razionalismo che affondava le sue radici nella filosofia greca con il cristianesimo.

La nomina del vescovo Cirillo a patriarca di Alessandria nel 412, fu una vera iattura non solo per te ma per l’intero mondo alessandrino.

Io non riesco a capire come una religione fondata sull’amore e sulla misericordia di Dio, potesse indurire a tal punto il cuore degli uomini. I cristiani che uscivano da secoli di persecuzione, una volta raggiunto il potere si comportavano esattamente come gli altri. Cominciarono col cacciare gli ebrei della città e iniziarono una metodica epurazione degli «eretici» neoplatonici.

Per te, pagana dalla condotta e morale irreprensibile, maestra e punto di riferimento per il mondo culturale, non solo della tua città, non dovevano esserci problemi, anche se ti trovavi a vivere in mezzo a tensioni non indifferenti.

La situazione in città diventava ogni giorno più critica: i cristiani, incredibile ma vero, erano sempre più intolleranti. Dopo aver avuto con l’Imperatore Costantino nel 313 il permesso di praticare la propria fede alla luce del sole, con l’editto di Teodosio nel 380, che faceva del cristianesimo la religione ufficiale dello stato, divennero il gruppo dominante in grado di influire sulle scelte dell’Imperatore e di imporre la propria volontà anche a quelli che cristiani non erano. Questo loro atteggiamento influenzò in modo deleterio tutta la vita sociale della città.

Infatti il vescovo Cirillo entrò in rotta di collisione con il prefetto Oreste che cercava di mantenere l’ordine sul territorio.

È vero, Oreste, incapace di mantenere l’ordine in città dopo che gli ebrei, una notte, massacrarono molti cristiani, e di conseguenza, il vescovo li aveva fatti cacciare confiscando i loro beni, chiese l’intervento dell’Imperatore d’Oriente Teodosio II a Costantinopoli. L’imperatore però, influenzato dalla sorella Pulcheria, non soddisfò le richieste di Oreste. Pulcheria era molto legata al vescovo Cirillo di cui si considerava discepola e, di fatto, agiva come se fosse l’imperatrice perché il fratello era ancora minorenne.

Cirillo nella sua ottusa e rigida visione religiosa del mondo mal sopportava il consenso e la stima che buona parte della società del tempo ti attribuiva.

Con il passare del tempo si convinse che l’ostacolo maggiore all’affermazione del messaggio della nuova religione fossi proprio io, e incominciò a ostacolarmi e diffamarmi in tutti i modi possibili e immaginabili.

Si può dire quindi che il mandante del tuo assassinio sia stato proprio lui?

Egli istigò un gruppo di monaci parabolani, una confrateita cristiana che nella Chiesa alessandrina si dedicava alla cura dei malati, specie degli appestati, e alla sepoltura dei cadaveri, sperando così di morire per Cristo. Tra i compiti che si erano attribuiti c’era anche quello di difendere il vescovo e gli altri cristiani.

Com’è che ti catturarono?

Mi tesero un agguato e, dopo avermi legata, mi trascinarono fino alla chiesa che era stata costruita sopra il Cesareion (un tempio sacro a Cesare), quasi volessero compiere una sorta di sacrificio umano. Strappatemi le vesti, mi scorticarono fino alle ossa con ostrakoi (conchiglie di ostrica o cocci di vasi o di tegole). Dopo avermi fatto letteralmente a pezzi, trasportarono i brandelli del mio corpo in un posto detto Cinaron e bruciarono il mio cadavere per non lasciare tracce.

Considerando il clima di terrore che Cirillo aveva instaurato, ovviamente nessuno aprì un’inchiesta sul tuo assassinio.

Per la verità il prefetto Oreste chiese che fosse fatta luce su quanto era accaduto. L’Imperatore da Costantinopoli mandò ad Alessandria un suo emissario per approfondire la faccenda, ma questi, come giunse in città, fu contattato da Cirillo che lo corruppe con una forte somma di denaro. Con la sua richiesta Oreste ottenne soltanto dei provvedimenti per arginare l’ingerenza politica dei vescovi nei poteri civili.

Quindi il tuo sacrificio rischiava di essere dimenticato?

Fu un filosofo neoplatonico, Damascio, che, quasi un secolo dopo, incolpò Cirillo del delitto. Uno storico ariano mio contemporaneo, affermò che il mio assassinio non fu opera di un linciaggio della folla come si volle far credere, ma di alcuni fanatici appartenenti a un gruppo di monaci che aveva trasformato il messaggio cristiano in un’ideologia da imporre a ogni costo, anche con la forza, spadroneggiando sulla città e tutti i suoi abitanti. Certo è che Cirillo, anche se non direttamente responsabile della mia morte, colse l’occasione per cancellare ogni memoria di me, ordinando la distruzione di tutti i libri da me scritti e degli strumenti scientifici da me inventati.

Dopo la tua morte, Alessandria si avviò a una rapida decadenza perdendo tutto lo splendore che faceva di quella città egiziana una perla dell’Impero Romano.

Non solo, oltre alla decadenza della città ci fu anche il crepuscolo del pensiero greco, la filosofia neoplatonica venne addirittura tolta dall’insegnamento dall’Imperatore Giustiniano, un fatto che ebbe ripercussioni negative non solo sulla città ma sull’intero mondo romano bizantino.

 

La figura e la testimonianza di Ipazia si staglia lungo i secoli fino ai nostri giorni. Essa viene ricordata ancora oggi come la prima donna filosofa e matematica della storia. Bisognerà attendere il diciottesimo secolo, il secolo dei lumi, per trovare altre donne come lei, quali furono Maria Agnesi e Sophie Germain, studiose e insegnanti matematica e filosofia.

Nel celebre affresco di Raffaello: «La scuola di Atene» l’unica figura femminile rappresentata, secondo gli esperti, è proprio lei: Ipazia di Alessandria.

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La_scuola_di_Atene. Ipazia

Nota redazionale.

La storia di Ipazia ha avuto nuova popolarità nel 2010 all’apparire del film «Agorà», pellicola diretta dal regista cileno premio Oscar Alejandro Amenabar incentrata sulla vita della filosofa neoplatonica barbaramente uccisa da monaci cristiani nel V secolo (vedi foto qui sopra).

Nell’intervista immaginaria di queste pagine, è stata scelta una posizione molto critica nei confronti dei cristiani e del loro vescovo Cirillo. In realtà è impossibile descrivere in poche pagine la complessità della situazione del tempo e soprattutto riuscire a spiegare bene quello che realmente è successo. L’assassinio di Ipazia, certo vittima di fanatismo e intolleranza, si colloca in un periodo particolarmente convulso e teso della vita di Alessandria, sia dal punto di vista politico che religioso. Un certo revival pagano, l’ostilità degli ebrei che avevano perpetrato un massacro di cristiani e la presenza di gruppi di monaci con una religiosità al limite dell’eresia, non facilitavano le cose. Inoltre Cirillo di Alessandria non è stato un villano fanatico qualunque, ma un santo amato e venerato dalla Chiesa sia cattolica sia ortodossa come «padre della Chiesa» e maestro della fede. Una visione che stride con quella che lo descrive come mandante frustrato e geloso di un assassinio così brutale.

L’unico autore contemporaneo ai fatti che ne scrive, Socrate Scolastico (380-440ca.), nel suo racconto non accusa Cirillo dell’assassino, anche se conclude che essi causarono «una non piccola ignominia» sia al vescovo che a tutta la comunità cristiana di Alessandria. È solo Damascio (458-538), un filosofo neoplatonico che ha scritto la sua storia quasi un secolo dopo, ad accusare apertamente Cirillo.

In rete si può trovare del materiale per l’approfondimento. Da notare che in Wikipedia i testi in italiano sono molto poveri e un po’ partigiani, mentre nella versione inglese si trova una documentazione più articolata e approfondita.
Interessante pure l’articolo Ipazia di Alessandria: verità e menzogne, pubblicato in mirabilissimo100.wordpress.com il 6 maggio 2010.




2016 gennaio-febbraio sommario


Il numero di gennaio 2016 si apre con l’editoriale “Vinci l’indifferenza”, presenta un forte dossier sulle “Immutabili ingiustizie del sistema economico”, ospita don Paolo Farinella sul Giubileo della Misericordia, Gian Carlo Caselli sul terrorismo, ci aggioa sul Burkina Faso, ha le nuove pagine sul Beato Allamano e molto di più. Buona lettura.


 

Vinci l’Indifferenza
di Gigi Anataloni | Ai lettori/editoriale

Cari Missionari
(lettere a MC) | Lettere dai lettori

Le immutabili ingiustizie del sistema economico
In ricchezza e in povertà
di Bruno Amoroso, Aldo Antonelli, Andrea Baranes, Francesco Gesualdi, Paolo Moiola, Aldo Maria Valli | Dossier

Cercando la Democrazia
di Marco Bello | Burkina Faso

La Guerra facile dei Droni
di Enrico Casale | Africa

Colori sgargianti, ma… fibre sintetiche
di Claudia Caramanti | Myanmar /1

La Forma dello Spirito
di Silvia C. Turrin | Francia

Il lungo cammino prima del Giubileo
di Paolo Farinella | Misericordia Voglio /4

Il terrorismo nella nostra Storia
di Gian Carlo Caselli | Legalità e Giustizia

Diritto di Libertà interiore
di Alberto Fabio Ambrosio | Libertà Religiosa /33

Poografia del dolore
di Chiara Giovetti | Cooperando

La Rosa Bianca
di Mario Bandera | I Perdenti /11

Allamano /1
a cura di Sergio Frassetto




Storia del Giubileo 4. Un lungo cammino prima del giubileo

This handout picture released by the Vatican press office shows Pope Francis making the symbolic gesture by opening a "Holy Door" at Bangui Cathedral on November 29, 2015, in the Central African Republic capital. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO/HO RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / OSSERVATORE ROMANO / HO
Apertura della porta santa della cattedrale di Bangui.

Comunemente si pensa che l’istituto del Giubileo sia una norma antica, da sempre presente nella Bibbia perché si trova nel Pentateuco, ma non è così perché se guardiamo i testi, cioè le fonti letterarie, scopriamo subito che esso è lo sviluppo di un’altra istituzione precedente che è l’Anno Sabatico. Di questi due istituti giuridici si parla solo in tre libri: Esodo, Levitico e Numeri, cui bisogna aggiungere alcuni accenni in Deuteronomio e Isaia. Possiamo quindi dire che non abbiamo molto. E quel poco che abbiamo è tardivo, non antico; certamente risalente a non prima del sec. VI/V a.C., dopo l’esilio di Babilonia.

Nulla toglie che qualche stralcio di questa tradizione esistesse anche anteriormente, nella tradizione che fa capo al Deuteronomio (sec. VII-V a.C. ca.). Per capire l’importanza, ma anche la natura e il senso dell’istituto giubilare, a beneficio di chi non conosce la storia della Bibbia al di là di quanto appreso al catechismo, è sufficiente riportare alcune date in ordine cronologico per avere uno sguardo d’insieme e collocare gli eventi nel loro contesto sia storico sia teologico. Tratteremo pertanto sia l’Anno Sabatico sia il Giubileo, che spesso sono confusi, mentre sono due realtà distinte e separate, anche se connesse tra loro.

Quadro storico

Di solito si pensa che i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe siano vissuti nel 2° millennio a.C. e da essi avrebbe avuto inizio tutta l’avventura «divino-umana» che è raccontata nella Bibbia. Un lettore che cominciasse a leggerla dalla prima pagina in poi, progressivamente, avrebbe due sensazioni: la prima di trovarsi di fronte a un’opera scritta a tavolino in modo ordinato e uniforme; la seconda quella di provare una «difficoltà» inestricabile per cui molto presto abbandonerà la lettura. Vediamo come stanno le cose e come e quando è nato l’istituto giuridico del Giubileo.

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La cronologia che, in genere, si trova nei libri è la seguente

  • – 1850 ca.: Abramo, profugo da Ur di Caldea (Iraq) approda in Canaan (Palestina).
  • – 1800-1700 ca.: vita dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe in Palestina.
  • – 1700-1250 ca.: peregrinazioni degli Ebrei verso l’Egitto e schiavitù.
  • – 1250-1230 ca.: esodo dall’Egitto e arrivo al Sinai.
  • – 1220-1200 ca.: ingresso nella terra promessa e sua conquista con Giosuè.
  • – 1150-1000 ca.: epoca dei Giudici (confederazione di tribù).
  • – 1010-970 ca.: regno di Davide.
  • – 970-931 ca.: regno di Salomone. Divisione del regno in «Israele» (Nord) e «Giuda» (Sud).
  • – 931-724 ca.: regno d’Israele con venti re che si succedono.
  • – 721: assedio degli Assiri e deportazione degli Ebrei del Nord («Israele») in Assiria.
  • – 931-587 ca.: regno di Giuda con diciotto re che si susseguono.
  • – 597: Gerusalemme è conquistata da Nabucodonosor che deporta gli Ebrei in Babilonia.
  • – 587: seconda conquista e distruzione di Gerusalemme. Deportazione. Fine del regno di Giuda.
  • – 538: editto di liberazione del persiano Ciro (dall’attuale Iran) e ritorno di alcuni Ebrei in Palestina.
  • – 520-430: inizio della ricostruzione del tempio di Gerusalemme (Giudea).
  • – 330: costruzione sul monte Garìzim del tempio dei Samaritani.
  • 323: Giudea dominata dai Tolomei d’Egitto e traduzione della Bibbia dei «Settanta» in greco.
  • – 200: Giudea dominata dai Selèucidi di Antiochia.
  • – 143-134: nascono le correnti dei farisei, dei sadducei ed esseni (Qumran).
  • – 63: Pompeo occupa Gerusalemme.
  • – 7/6 (a.C.): nasce Gesù di Nàzaret.
  • – 1/8 (d.C.): nasce Paolo di Tarso.
  • – 30: muore Gesù.
  • – 34: conversione di Paolo di Tarso.
  • – 66-70: rivolta giudaica antiromana. Distruzione di Gerusalemme. 1a diaspora ebraica.
  • – 74: presa di Masada e divieto agli Ebrei di risiedere in Gerusalemme.
  • – 132-135: rivolta di «Bar Kochba – figlio della stella» in Galilea, sotto Adriano.
  • – 135: Vittoria romana, proibizione agli Ebrei di risiedere in Palestina; 2a e definitiva diaspora.

Nozioni bibliche elementari

La tabella che riportiamo (sopra) serve come riferimento per collocare non solo gli avvenimenti, ma anche le idee, altrimenti si fanno confusioni indebite che non aiutano la chiarezza. In base all’insegnamento catechistico tradizionale, se si prende la Bibbia senza esame critico, i libri di Levitico e Numeri dovrebbero essere collocati tra il 1250 e il 1200, il periodo cioè in cui la cronologia tradizionale collocava l’esodo e l’ingresso nella terra promessa. Purtroppo le cose non stanno così.

In ebraico i libri prendono il nome dalla prima o dalle due prime parole del testo (come avviene oggi per le encicliche papali), mentre la Bibbia greca dei LXX mette come titolo una parola che sintetizza il contenuto. La Vulgata latina di San Girolamo, mentre per il contenuto è più fedele al testo ebraico, per i titoli segue la LXX. Di seguito diamo i titoli greco-latini del Pentateuco e tra parentesi in ebraico:
1. Genesi-Origini (Bereschìt-Nel principio): riporta testi tramandati e scritti dal sec. X al sec. V d.C.
2. Esodo-Uscita (Shemòt-I nomi): riguarda eventi tra il 1250 e il 1200 a.C., rivisitati e scritti nel sec. VI a.C.
3. Levitico-Tribù-di-Levi, addetta al culto (Wayqrà’-E chiamò/convocò);
4. Numeri-Censimento (Bemidbàr-Nel deserto);
5. Deuteronomio-Seconda-Legge (Devarim-Parole).

La tradizione ebraica e, per molto tempo, anche quella cristiana, attribuivano la formazione dei primi cinque libri della Bibbia («Pentateuco») a Mosè, tesi che già dal sec. XVII (Jean Astruc, 1694-1766) ha cominciato a essere messa in dubbio e che nel corso del sec. XIX è stata definitivamente accantonata. Oggi la totalità degli studiosi, con qualche differenza di accentuazione, alla luce delle scoperte archeologiche e letterarie, ormai definitive, è giunta a conclusioni certe, almeno allo stato dei fatti.

La Bibbia non è un libro storico, ma il racconto dell’esperienza religiosa di un popolo che interpreta eventi, situazioni e fatti, alla luce del proprio credo religioso che espone anche attraverso racconti di natura storica, mitica e comunque interpretati religiosamente. È quella che comunemente chiamiamo «Storia della salvezza», espressione equivoca perché il concetto di «storia» degli antichi non è lo stesso che hanno gli storici di oggi.

Di Abramo, Isacco e forse anche Giacobbe, dal punto di vista storico non sappiamo nulla perché le uniche informazioni su di loro si trovano nella Bibbia. La «storia dei Patriarchi» si perde nella notte dei tempi e potrebbe essere anche una «invenzione» posteriore, di quando, dopo l’esilio di Babilonia, si ha la necessità di dare un fondamento «antico» e «teologico» alla ricostruzione non solo del tempio di Gerusalemme, ma anche e specialmente allo spirito del popolo e alle sue istituzioni politiche, sociali, economiche e religiose.

Con questo non si vuol dire che «i Patriarchi» siano frutto di fantasia, ma che non abbiamo documentazione verificabile, se non incerti spiragli insufficienti a fare storia. L’archeologia, per esempio, nulla è riuscita a dirci di Abramo e Isacco, perché, allo stato attuale, essa si ferma, forse, a Giacobbe, il padre dei dodici figli che danno origine alle dodici tribù d’Israele, di cui qualcosa si trova negli scavi di Bersabea, l’ultimo avamposto palestinese verso l’Egitto, via Sinai, prima di avventurarsi nel deserto del Neghev.

È possibile che la memoria collettiva delle antiche tribù o gruppi abbia tramandato ricordi, racconti, saghe, che via via si sono sedimentate come «storia di fondazione». In questo modo, quando si pone mano alla riforma radicale dell’organizzazione della vita del «nuovo Israele», dopo l’editto del persiano Ciro (538) che ha sconfitto e annesso Babilonia, quelle memorie siano state utilizzate e narrate come «radici», cioè pilastri fondativi del nuovo mondo che stava sorgendo.

Dopo l’esilio

Dopo cinquant’anni di esilio, in cui ciascuno era rimasto abbandonato a se stesso, senza autorità e tessuto sociale, la depressione e lo sconforto avevano pervaso chi era rimasto in Palestina (per lo più anziani e poveri). Il senso di rivalsa di coloro che ritornavano da Babilonia pretendeva di rientrare in possesso delle proprietà perdute con l’esilio, ponendo gravi problemi di coesistenza. In questo periodo nascono i due libri, Levitico e Numeri, dove si trovano le norme che riguardano l’Anno Sabatico e il Giubileo. Siamo nel sec. V a.C., il tempo di Esdra e Neemia, autorizzati da Ciro a ricostruire Gerusalemme e il tempio, con il culto connesso, insieme alla vita sociale e civile. Nel 444 a.C. si forma definitivamente il libro del Pentateuco o Toràh per gli Ebrei, come lo possediamo oggi e che costituisce la redazione finale di un processo che ebbe inizio nel sec. X a.C., alla corte di re Salomone in Giudea, e forse anche prima, attraverso la trasmissione orale di generazione in generazione.

Con l’editto di Ciro, gli Ebrei sono autorizzati a ritornare in Palestina. Non tutti gli Ebrei presenti a Babilonia ritornano, ma solo una parte degli esiliati decide di rientrare in Palestina e ricominciare daccapo nella terra d’Israele. Molti, forse la maggioranza, specialmente coloro che erano nati in Babilonia e si erano ormai fatti una vita e una posizione sociale, decidono di restarvi non più da schiavi, ma da cittadini autonomi e liberi di avere una propria vita, un proprio lavoro, un proprio futuro per sé e i propri figli. Molti di costoro si erano accasati «mescolandosi» ai Babilonesi per cui c’erano famiglie «miste» che preferirono continuare la vita ormai avviata e non ritornare per ricominciare dal nulla distruggendo le proprie famiglie, come imponeva la nuova legge.

Il capitolo 10 del libro di Esdra racconta la tragica scelta di rimandare a casa loro le donne non ebree e i figli avuti con loro perché questo sembrava l’unico modo per ridare una identità «certa» all’ebraicità del nuovo popolo postesilico. Da quel momento, vale la norma che è ebreo solo chi nasce da madre ebrea. Questa legge è valida ancora oggi in Israele. Il libro del Levitico serve allo scopo di «fondare» l’identità del «popolo di Dio», ancorandola alla purità cultuale e religiosa. La religione diventa discriminante sociale: chi è ebreo di nascita può fare parte del popolo della ricostruzione, chi non è ebreo, non può nemmeno rientrare nella «terra santa». Le donne babilonesi con i loro figli avuti dagli ebrei sono drasticamente separate e rimandate al loro paese. Famiglie intere sono distrutte in nome di un’esclusività di appartenenza che da questo momento, non prima, farà del popolo ebreo, il popolo di elezione, il popolo «separato tra gli altri popoli», arrivando alla distinzione teologica tra Israele «’am haheloìm – popolo di Dio» e i «goìm – i popoli altri / pagani». Da questo momento la religione non è solo un rapporto con Dio, ma si trasforma in un’identità etnica che in futuro sarà foriera di tragedie immani, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

L’At riporta due istituzioni, l’Anno Sabatico e il Giubileo, che sono distinti, ma strettamente connessi perché sembra che il secondo sia uno sviluppo del primo. Di questo parleremo nella prossima puntata.

Paolo Farinella, prete
(4, continua)




Diritto di libertà interiore

La tensione alla libertà interiore, ricercata comunitariamente, è uno dei cardini del sufismo, e anche uno dei motivi per cui è sempre stato considerato pericoloso, sia dal potere teocratico che da quello laicista. Una storia raccontata dal «santo» sufi Jalâl al-Dîn Rûmî, detto Mawlânâ, illustra, come una parabola, la strada per realizzarla.

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La purificazione interiore è l’obiettivo verso cui tende il sufi nel suo rapporto con il Dio Altissimo, Onnipotente e Misericordioso (che è lo stesso Dio del musulmano «ordinario»). Raggiungere uno stato di «annientamento», di spoliazione da tutto, dall’individualismo, dall’egoismo, dalle passioni disordinate che possono governare l’uomo, e divenire libero di innalzarsi verso Dio. Si tratta del fanâ’, di quella condizione che talvolta viene confusa con una specie di nirvana. Ma nel nirvana non si sa dove sia l’anima o la creatura, mentre il sufi sa perfettamente dove si trova, anche quando è sospeso tra il cielo e la terra, in quello stato particolare definito «tra i due mondi», la barzakh.

Il sufismo, nella sua tensione verso la purificazione mistica, è un fatto della vita pratica, vissuta: riguarda l’esistenza concreta del fedele. Non si può percepire in profondità cosa sia questa corrente mistica dell’Islam, se non si scende nel concreto della vita, se non si assiste, ad esempio, alla pratica dello zikr, la ripetizione del nome di Dio, se non si partecipa alla danza dei dervisci rotanti. E non si può partecipare della sua forza liberatrice se non si vive comunitariamente: perché quella dei sufi non è una ricerca individualista, ma bensì comunitaria. Ricercano insieme la liberazione interiore. È questo il motivo per cui la loro esistenza fa temere i diversi poteri, tanto quelli religiosi integralisti quanto quelli politici laicisti (cfr MC ago.-sett. e nov. 2015). Il fatto che esistano dei gruppi di ricerca interiore, mette in scacco, da un lato la frammentazione della società voluta dai regimi laicisti, e dall’altro il conformismo uniformante dei regimi teocratici, tra cui quelli musulmani. La ricerca di una spiritualità della libertà interiore può infatti sfociare anche in una ricerca di libertà sociale.

La poesia di Dio

Per comprendere come avviene l’elevazione dell’animo e della persona del sufi, c’è una complessa rete di pratiche rituali che sarebbe utile conoscere. Ma per comprendere il cuore delle aspirazioni mistiche dei sufi, di liberazione interiore, può bastare leggere alcuni dei suoi testi tradizionali.

Il sufismo si esprime eminentemente in poesia, e non è un caso che nei paesi musulmani la poesia sia ancora oggi un mezzo di contestazione sociale. Alcuni mistici trasmettono l’anelito alla libertà interiore e, spesso, a quella civile, proprio tramite la poesia. Lo si intuisce bene da una storia contenuta nel poema Mathnawî di Jalâl al-Dîn Rûmî, quasi una parabola con un pappagallo e il suo padrone come protagonisti, in cui è contenuta tutta la tensione del sufismo verso la purificazione e liberazione.

C’era un mercante che aveva un pappagallo

«C’era un mercante che aveva un pappagallo; un bel pappagallo imprigionato in una gabbia1. Il mercante si preparò per un viaggio: decise di andare in India. Generosamente disse ad ogni schiavo […]: “Che cosa vuoi che ti porti?”. Ognuno gli chiese ciò che più desiderava: il brav’uomo si impegnò con tutti. Poi disse al pappagallo: “Che regalo ti piacerebbe che ti portassi dal paese dell’India?”. Il pappagallo rispose: “Quando laggiù vedrai i pappagalli, spiega loro la mia sventura e dì loro: ‘Il tal pappagallo, che ha nostalgia di voi, per desiderio del Cielo è nella mia prigione. Vi saluta, chiede giustizia, e desidera conoscere da voi un rimedio e un modo per essere ben guidato’. E dice ancora: ‘È bene che, avendo nostalgia di voi, io renda lo spirito e muoia nella separazione? È giusto che mi trovi in una crudele prigionia, mentre voi siete sui teneri arbusti o sugli alberi? È questa la fedeltà degli amici?’”. […] Il mercante accettò quel messaggio e promise di portare il saluto del pappagallo ai suoi simili.

Giunto ai limiti più estremi dell’India, scorse nella pianura un gruppo di pappagalli. Fermò il suo cammello, poi trasmise il saluto, adempiendo così al suo incarico. Ed ecco che uno dei pappagalli si mise a tremare violentemente, il suo respiro si fermò e cadde morto. Il mercante si rammaricò di aver dato quelle notizie, e disse: “Sono venuto a distruggere questa creatura. Certamente era un parente del mio pappagallino […]. Perché ho fatto questo? Perché ho portato quel messaggio? Con una parola stupida ho distrutto questa povera creatura”. […].

Il mercante concluse le sue faccende e toò a casa col cuore lieto. Portò un dono a ogni schiavo, fece un regalo a ogni schiava. “Dov’è il mio regalo? – chiese il pappagallo -. Raccontami ciò che hai detto e che cosa hai visto”. “No – egli rispose – veramente mi pento, torcendomi le mani e mordendomi le dita. Perché mai, per ignoranza e follia, ho portato un messaggio tanto stupido?”. “Padrone – disse il pappagallo – di che cosa ti penti? Che cosa mai ti provoca collera o dolore?”. “Ho riferito i tuoi lamenti – rispose – a un gruppo di pappagalli simili a te. Uno dei pappagalli capì il tuo dolore, che gli spezzò il cuore, tremò e morì. Mi sono addolorato. Pensavo: ‘Perché ho detto ciò?’ Ma a che serve pentirsi dopo aver parlato?” […].

Quando l’uccello udì ciò che quel pappagallo aveva fatto, tremò violentemente, cadde e rimase stecchito. Il mercante, vedendolo cadere così, diede un balzo e gettò in terra il suo berretto; si buttò per terra e si lacerò il vestito […]. Gridava: “Oh, bel pappagallo dalla voce soave! Che cosa ti è successo? Perché sei diventato così? Oh! Ahimé per il mio uccello dalla dolce voce! Oh! Ahimé per il mio amico intimo e mio confidente! Oh, ahimé per il mio uccello melodioso, vino del mio spirito, mio giardino e mio dolce basilico!” […]. Il mercante, logorato dal dolore, dall’angoscia e dalla nostalgia, pronunciava centinaia di frasi, a volte in polemica con se stesso, a volte giustificandosi, a volte supplicando, a volte appassionato di verità, a volte di irrealtà […].

Dopo di ciò, lo buttò fuori dalla gabbia. Il pappagallino volò via fin su un alto ramo. Quel pappagallo morto prese il volo come quando il sole balza in avanti da Oriente. Il mercante rimase stupefatto per ciò che l’uccello aveva fatto; senza capire, improvvisamente intuì i segreti dell’uccello. Alzò il volto e disse: “Oh, fammi la grazia di spiegare questo fatto. Che cosa ha fatto quel pappagallino laggiù perché tu imparassi il modo di preparare questo cocente stratagemma per me?”. Il pappagallo disse: “Con la sua azione, mi ha consigliato: ‘Rinuncia al fascino della tua voce e al tuo affetto, poiché è stata la tua voce che ti ha condotto alla schiavitù’. Esso ha fatto finta di essere morto per darmi questo consiglio intendendo: ‘Tu che sei divenuto un cantore per il fior fiore della società e per la gente comune, per ottenere la libertà muori come faccio io’”. Così il pappagallo gli diede uno o due consigli pieni di saggezza, poi gli rivolse il saluto della separazione. Il mercante gli disse: “Va’, che Dio ti protegga! Adesso mi hai mostrato una nuova via”, e disse a se stesso: “Questo consiglio è per me; seguirò la sua via, poiché quella via è radiosa. La mia anima sarebbe forse inferiore a quella del pappagallo? Ogni anima deve seguire una via così buona”».

Commento al racconto

Si tratta di un testo con intenti performativi: leggendolo si ha l’impressione di crescere nella libertà e si può immaginare il sufi che si lascia portare dalle sue parole aprendosi sempre più a Dio.

Il pappagallo incarna l’anima del sufi, o anche il desiderio umano di vera pace e di vera liberazione. È anche il simbolo dell’essere che ripete senza una vera logica le parole ascoltate: esso ripete, ma senza capire necessariamente i suoni che pronuncia. La storia inizia con la presentazione della situazione: il pappagallo è imprigionato, come l’anima dell’uomo. Il mercante è il suo padrone incontestato. C’è in questo passaggio tutta la visione del sufismo: l’anima profonda e autentica dell’uomo è in gabbia, imprigionata in mille lacci che la tengono legata al mondo. Il mercante è simbolo della più bassa mondanità dell’uomo che viaggia per il mondo in cerca di godimento. La sua logica tiene in scacco tutti, servi e pappagallo: «Cosa vuoi che ti porti dall’India?». Per mantenere i servi asserviti e il pappagallo in gabbia, promette regali. Ma il pappagallo ha un guizzo di profonda intelligenza interiore, e chiede al padrone di portare il suo lamento e la sua domanda di liberazione ai suoi simili.

Il pappagallo è attanagliato dalla domanda più lancinante che abita l’animo umano: la condizione in cui si trova, e che gli sembra naturale, è una condizione che porta alla libertà?

Il pappagallo della storia ci dice che il sufi si domanda in continuazione se quel che sta vivendo è una prigione dell’anima che porta alla libertà, oppure è inganno. Se la gabbia fosse davvero la sua situazione naturale – si potrebbe dire metafisica -, allora perché desiderare uscire di gabbia? Il pappagallo, in fondo, non desidera uscire di prigionia, ma soltanto conoscere la verità. È la verità, in realtà, che rende liberi, e se il pappagallo conoscerà la verità grazie ai suoi amici dell’India, sarà pago e felice.

La storia ci dice inoltre che la verità si conosce anche grazie alla compagnia degli amici. La ricerca, che tende a una spiritualità della libertà interiore, è comunitaria, è possibile solo in gruppo, ha quindi dei risvolti sociali.

Il racconto prosegue con il mercante che si reca in India, e qui trova dei simili del suo animale domestico. Dopo aver comunicato loro il messaggio del suo pappagallo, uno di essi cade morto. Il mercante è assalito dalla tristezza, ma sembra che essa non provenga dalla compassione per la sorte dell’animale, quanto piuttosto dal pensiero della morte in sé, e quindi della propria morte, tant’è vero che poi se ne torna a casa «lieto». Si scoprirà poi che il pappagallo indiano non è morto davvero, ma il mercante non sa andare al di là delle apparenze terrene che lo tengono schiavo.

In contrasto con la stupidità mondana del mercante, il pappagallino sa interpretare correttamente la morte bizzarra del compagno indiano. Egli intuisce immediatamente la comunicazione profonda che il suo simile gli invia tramite il mercante. E applica quanto gli è stato suggerito: fa finta di morire.

Se il pappagallo capisce subito il segreto inviatogli, il mercante invece rimane ingabbiato nel suo più profondo egoismo individualistico: piange e si dispera, ma dalle parole che pronuncia si capisce che non è il pappagallo a interessargli, quanto piuttosto la sua voce soave, e «l’intimo confidente, giardino e dolce basilico». Il suo amore è tutto intriso di motivi individualistici. Nel suo soliloquio si accusa e si giustifica, supplica e chiede di vedere la verità. Il suo agitarsi dipende dal fatto che non accetta che il suo io sia scosso da un fatto apparentemente privo di logica umana: il mercante non sa andare al di là dell’apparenza della morte.

Allora ecco il colpo di scena: il pappagallo «morto» trova la libertà proprio attraverso la morte. Ha appreso ciò che cercava, la verità della sua situazione, cioè che non è libero, che viene tenuto imprigionato dalla sua stessa voce melodiosa. Ha capito che deve morire a se stesso per trovare la totale liberazione. Il sufi ama ripetere la parola del profeta Muhammad: «Morire prima di morire», che significa proprio questo, sopprimere da sé, dal proprio animo, tutto quanto è negativo e impedisce la liberazione e la purificazione.La storia si conclude con le parole del mercante che esprimono la sua nuova consapevolezza: tutto ciò che è successo con il suo pappagallo è un insegnamento per lui, perché anche lui possa trovare la libertà. La libertà interiore infatti è contagiosa, e diffonde libertà attorno a sé.

I sufi grazie al loro intimo anelito alla liberazione totale diffondono quindi un messaggio di libertà, del diritto di ciascuno alla salvezza da tutto ciò che tiene ostaggio l’animo umano.

Alberto Fabio Ambrosio

Note

1 – Per tutta la storia, si veda: Jalâl al-Dîn Rûmî, Mathnawi. Il poema del misticismo universale, Bompiani, Milano 2006, vol. 1, pp. 187-210.




Pornografia del dolore

Qualcuno la chiama «pornografia del dolore», e la definisce uno sfruttamento dei drammi altrui per ottenere denaro. Qualcun altro, invece, pensa che mettere lo spettatore di fronte a immagini forti serva per spingerlo a reagire a un’ingiustizia. Il dibattito va avanti da anni e, nel mondo della cooperazione, con particolare intensità. Lo riprendiamo ora per capire a che punto siamo.

 

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Per parlare delle immagini con cui rappresentiamo i paesi in via di sviluppo bisognerebbe cominciare dal principio. Cioè dalla fonte dell’immagine, colui o colei che ne è il soggetto. A chiunque abbia passato più di qualche giorno in viaggio in Africa è capitato di puntare l’obiettivo della macchina fotografica o della videocamera e di trovare, dall’altra parte della lente, una mano aperta a coprire il volto e la voce di qualcuno che dice pas de fotos, no picture: niente foto (o video). Chiedere perché no? ottiene una serie di possibili risposte. Fra queste: «perché ho vergogna», «perché poi la usi per fare soldi», «perché in Europa fate vedere solo che siamo poveri». Queste frasi non rappresentano, ovviamente, l’unico punto di vista, ma sarebbe fuorviante non tenee conto.

Quando ci si trova in un paese in via di sviluppo perché si è operatori di Ong o organizzazioni inteazionali, però, le persone con cui si hanno contatti sono nella maggioranza dei casi i beneficiari dei progetti di cooperazione. È raro che una mano si frapponga fra volto e obiettivo perché in genere c’è un rapporto di fiducia fra chi raccoglie le immagini (di solito un membro dell’organizzazione oppure un professionista da questa incaricato) e chi viene ritratto, che è informato e consapevole.

Però, anche con queste premesse, che uso è davvero corretto fare di quelle immagini? È giusto mostrare persone in un momento di sofferenza, dolore, difficoltà estrema se lo scopo è coinvolgere attraverso tv e giornali quanta più gente possibile a sostenere iniziative che mirano a eliminare quella sofferenza, difficoltà e dolore? Ed è lecito tentare di allargare l’audience servendosi di personaggi famosi in grado di catturare l’attenzione di quella parte di pubblico che meno s’interessa di questi problemi? Queste sono le domande intorno alle quali ruota il dibattito che, ciclicamente, rimette in discussione i metodi usati dalle organizzazioni per la raccolta fondi.

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Spot contro la fame o fame di spot?

L’episodio che negli ultimi mesi ha riaperto la polemica è uno spot della ong Save The Children, che dal 2013 ha lanciato una campagna di raccolta fondi sostenuta da video. L’ultimo, dell’inizio 2015, mostra «John», un bambino malnutrito, che respira con affanno, con la pancia gonfia, la pelle disidratata e lo sguardo intontito. Dopo di lui, una bambina piange sommessamente e un altro piccolo è appoggiato al fianco della madre, debolissimo e con le ossa visibili sotto la pelle. (La versione inglese del video include anche, alla fine, l’immagine di una borsa con il logo della ong che i donatori riceveranno come ringraziamento per il contributo).

«Immagini strazianti che durano un’eternità», hanno commentato Pier Maria Mazzola e Marco Trovato di Africa, la rivista dei Padri Bianchi, in un editoriale dal titolo Fame di spot. Dopo i bambini degli altri video, rincarano gli autori, «adesso tocca a John impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese». Questo «ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano», spinge Mazzola e Trovato a chiedersi che ne è stato della Carta di Treviso, il protocollo su informazione e minori approvato nel 1990 da Ordine dei giornalisti italiani e Telefono Azzurro: è un documento che disciplina solo l’informazione giornalistica, «ma la questione riguarda tutti». Al punto 7 la Carta afferma che «nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi a un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona». «Vale solo per i bambini bianchi?», chiedono gli autori.

Quello della tutela dei minori non è l’unico problema. Ce n’è un altro al quale, ammettono gli editorialisti, anche i missionari in passato hanno contribuito: quello di rafforzare «il già ben radicato immaginario coloniale dell’Occidente sull’Africa». Cioè di continuare a dipingere il continente – e il Sud del mondo in genere – come un luogo bisognoso e indifeso il destino del quale deve essere deciso altrove, sdoganando così un colonialismo «a fin di bene».

Daniele Timarco, direttore dei programmi inteazionali di Save the Children Italia, intervistato da Eleonora Camilli su Redattore Sociale, ha opposto che quelle immagini sono quelle viste ogni giorno dagli operatori impegnati sul campo: «Proprio perché inaccettabili, sono immagini anche giuste da trasmettere con l’obiettivo di sensibilizzare e spingere le persone a reagire con indignazione». «Le immagini sono state realizzate con il consenso dei genitori», ha aggiunto Timarco, «con il coinvolgimento dei bambini e delle bambine e della comunità stessa. Molto spesso sono le famiglie stesse che ci chiedono di raccontare la loro vera storia, di far vedere la drammaticità delle loro situazioni». Quel che interessa Save the Children, ha concluso il suo funzionario, è «toccare la coscienza delle persone al di là del contributo economico».

Di confine fra sensibilizzazione e pornografia del dolore, peraltro, si era già parlato con Mission, il «reality umanitario» che vedeva impegnati diversi personaggi televisivi – Al Bano, Paola Barale, Emanuele Filiberto di Savoia e altri – in viaggi su campo in diversi paesi africani e latinoamericani. In quell’occasione la reazione del mondo delle Ong fu altrettanto polemica e le argomentazioni a favore e contro molto simili (vedi MC 3/2014 p. 74).

La situazione normativa

Il dibattito si è riaperto lo scorso novembre con la proposta di Nino Santomartino, responsabile della comunicazione dell’Associazione delle ong italiane (Aoi), di avviare un tavolo di lavoro con organizzazioni no profit, realtà della comunicazione e dell’informazione, professionisti, consulenti e ricercatori. Obiettivo: arrivare a «un codice di condotta e a un organismo autonomo di autodisciplina». I riferimenti normativi non mancano, vedi il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale emanato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria. L’articolo 46 del codice è tutto dedicato alla comunicazione sociale, che deve evitare di «sfruttare indebitamente la miseria umana nuocendo alla dignità della persona, né ricorrere a richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustificatamente allarmismi, sentimenti di paura o di grave turbamento».

Vi sono poi diversi testi che possono orientare la riflessione, come le linee guida elaborate dalla soppressa Agenzia per il Terzo settore o la Carta di Trento per una migliore cooperazione, documento la cui redazione ha coinvolto molte realtà no profit italiane. Molto citato è il Codice di condotta adottato dalle Ong irlandesi: i principi cardine richiedono, fra le altre cose, di rappresentare non solo il contesto specifico ma anche quello più ampio, di evitare immagini e messaggi che possano creare uno stereotipo, discriminare persone, situazioni o luoghi o creare sensazionalismo, di non utilizzare immagini, messaggi, e casi di studio senza la piena comprensione, partecipazione e autorizzazione dei soggetti coinvolti, garantendo loro la possibilità di comunicare le loro storie o versione dei fatti e rispettare la loro volontà di essere o meno nominati o identificati.

Ma il problema sta nelle immagini?

In attesa delle evoluzioni normative che il tavolo di lavoro proporrà, vale comunque la pena di chiedersi se questa vicenda non sia il riflesso di un insuccesso che ha radici più lontane.

Save the Children ha fatto sapere che la campagna ha permesso alla ong di «acquisire più di 14.000 nuovi donatori regolari». Il punto, allora, non è solo «il cliché dello scheletrino africano», il punto è che quel cliché funziona. I donatori di Save the Children sono «colonialisti a fin di bene»? Forse. Impegnarsi a contribuire ogni mese non è più il non informarsi per pigrizia e il limitarsi a lavarsi la coscienza per Natale. Però, forse, potrebbero fare un salto di qualità in più, che non riescono ancora a fare perché nessuno ha fornito loro le informazioni che permetterebbero di tenere a bada le emozioni e di ragionare, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris, sul fatto che «la fame ha cause legate alla iniqua distribuzione delle terre fertili, alla mancanza d’acqua, al cambiamento climatico, alle guerre, alle dittature che usano gli aiuti in cambio di consenso, alla scarsa produttività agricola e zootecnica: la pancia gonfia è l’effetto».

Chi doveva fornire queste informazioni se non le organizzazioni che lavorano sul campo e perché, dopo trent’anni di cooperazione, ancora questi temi faticano a uscire dal recinto degli addetti ai lavori?

Mettere un limite normativo all’uso d’immagini è un modo per evitare di diffondere un messaggio parziale e fuorviante. Trovare un modo efficace di diffondere un messaggio corretto, però, è un’altra storia. La mani aperte a proteggere i visi dagli obiettivi probabilmente servono anche a dire che è mancato questo.

Chiara Giovetti

 

5 domande a padre Gigi Anataloni

direttore di Missioni Consolata

 

Direttore, la compassione è un tema caro ai cristiani e mai come ora, con il Giubileo sulla misericordia in atto. Come si distingue fra compassione e pietismo?

Compassione è «patire con». Ha compassione non tanto chi versa una lacrima, mette una monetina o stacca un assegno e poi continua come prima, ma chi si sporca le mani, chi fa diventare l’emozione uno stimolo per cambiare il suo stile di vita oltre che per aiutare gli altri a migliorare la propria.

«Poografia del dolore» significa usare il dolore per vendere. Sei d’accordo con questa definizione, usata da chi critica l’uso d’immagini forti per le campagne di raccolta fondi?

L’espressione è provocatoria e fa riflettere. La condivido, certo, e mi chiedo perché proprio quel mondo che ha criticato tanto i missionari del passato accusandoli di patealismo, oggi senta il bisogno di comunicare così. Mi sa tanto di una mossa quasi disperata in risposta all’assuefazione e all’indifferenza, alla crisi economica che attanaglia tutto e tutti, ai tagli degli aiuti pubblici per la cooperazione, al moltiplicarsi di onlus (anche micro) che erodono l’efficacia del 5×1.000 e frammentano la base dei sostenitori, e all’aggravarsi dei problemi di tutti in questa situazione di «terza guerra mondiale» e di emergenza climatica. Il rischio, nell’uso di immagini simili, è quello di peggiorare sia l’assuefazione che l’indifferenza. Ma quando le proposte ragionate non funzionano, che fare?

Lo spot di Save The Children, come a suo tempo il reality Mission, sono solo gli episodi più recenti di un fallimento comunicativo che sembra avere radici più lontane. Che cosa si doveva fare diversamente – anche nel mondo missionario – per comunicare il Sud del mondo senza pietismi e stereotipi?

Più che di fallimento comunicativo direi che si tratta di un cambiamento profondo nel modo di comunicare. Un tempo, e vado indietro anche cent’anni, erano solo le poche riviste missionarie, come MC, che pubblicavano immagini forti. Anzi, posso dire che le edulcoravano perfino per renderle più accettabili al nostro pubblico (per esempio, mettevano i vestiti a chi normalmente non li aveva). Il risultato era comunque garantito, sia nel cercare di presentare con rispetto che nel suscitare sentimenti di partecipazione. Oggi, invece, le immagini forti arrivano a tutti: tante, troppe, insistenti. Il disastro diventa spettacolo e si confonde con la fiction. Di conseguenza, ecco il problema: come far capire che non si tratta di una fiction e come catturare l’attenzione abbastanza a lungo da far sì che l’emozione diventi azione, sia pur breve, puntuale e mirata? Ecco le immagini che toccano prima il cuore, nella speranza che arrivino anche alla ragione. Un nome, una storia, un’immagine penetrano più di un ragionamento. Solo una minoranza – e sono quelli che già si impegnano nella solidarietà a vari livelli – hanno voglia di andare oltre le prime emozioni per approfondire e cambiare il proprio modo di vivere.

Credo che il mondo missionario cerchi da anni di offrire una comunicazione onesta sul Sud del mondo. Il risultato? Forse un frutto sono le centinaia (o migliaia) di Ong (e le persone che in esse si impegnano non solo a dare qualcosa ma anche a camminare con…) che fanno una cooperazione diversa e responsabile. Perché altrimenti ci sarebbe da essere scoraggiati: le riviste missionarie sono drasticamente ridimensionate, i missionari sono una specie in via estinzione, al volontario subentra il volonturista, le disuguaglianze sociali sono aumentate ovunque – primo mondo compreso, c’è la «pornografia del dolore»…

Immagini «pugno nello stomaco», gadget, accessori alla moda in regalo ai donatori: le Ong si sono adeguate a un approccio più tipico del profit. E il profit, dal canto suo, si sta avvicinando, almeno superficialmente, alla cooperazione allo sviluppo (vedi iniziative delle aziende, specialmente quelle più grandi, volte a farle apparire impegnate nel sociale). Come giudichi questa «contaminazione»?

Mi confonde che Ong e onlus, ma anche noti santuari e Istituti di carità, si affidino ad agenzie specializzate nell’e-commerce e fundraising, soprattutto in periodi ad alto impatto emotivo come il Natale. O dovrei consolarmi con «il fine giustifica i mezzi»? Mi domando però cosa possa significare in questo contesto la frase di Gesù «semplici come colombe e scaltri come serpenti». E non ho risposte certe. Conosco la difficoltà oggettiva di chi ha urgenza di fondi e non riesce a convincere i donatori nel modo corretto e nel rispetto dei beneficiati. Allora, anche per i più motivati e responsabili, c’è il rischio di cedere alla tentazione del «lassativo» del diavolo, come diceva un vecchio missionario: «Il denaro è sterco del diavolo, ma se trovassi il lassativo giusto gli farei avere una bella diarrea». Però – e credo fortemente in questo – penso che a lungo temine sia meglio rischiare l’impopolarità della correttezza che cercare il risultato immediato. Anche una sola persona in più che aiuti per le giuste ragioni è più importante di cento che sganciano soldi per togliersi il disturbo o per sentirsi a posto.

Sulla base di quali criteri e principi MC sceglie le immagini che pubblica?

Bellezza, rilevanza, verità. L’immagine deve essere «bella» e presentare bene e con rispetto la persona che vi è rappresentata. Idealmente l’immagine dovrebbe essere quasi un’opera d’arte. Poi deve essere «rilevante» rispetto alla storia raccontata ed essere «veritiera» (rispecchiare quanto più possibile la verità della situazione e dei fatti, senza manipolarla). In quale ordine usare questi tre criteri? Dipende. Certo la bellezza passa a volte in secondo piano, perché molti dei nostri corrispondenti non sono fotografi professionisti e fanno foto esteticamente «povere», nonostante abbiano molta verità da comunicare.

La verità, però, non è sempre piacevole. E se è discutibilissimo che un’Ong debba sfruttare l’immagine dei vari piccoli «John» del mondo, è ancor più discutibile, anzi è vergognoso, che esistano ancora dei bambini che vivano nelle condizioni di quel piccolo. E questo bisogna avere il coraggio di dirlo, con forza.

Chi.Gio.




I perdenti 11: i giovani della rosa bianca

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La «Rosa Bianca» è il nome assunto da un gruppo di giovani universitari di Monaco di Baviera che si costituirono in un piccolo ma significativo movimento di resistenza all’interno della Germania nazista. Il gruppo era composto da 5 studenti: Hans Scholl, sua sorella Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, tutti poco più che ventenni. A essi si unirà il professore universitario Kurt Huber. Sebbene tutti fossero studenti universitari, i ragazzi avevano fatto il servizio militare partecipando agli eventi bellici sia sul fronte francese che su quello russo dove erano stati testimoni delle atrocità commesse contro la popolazione civile e in modo particolare contro gli ebrei. Essi erano convinti che la guerra scatenata dal nazismo avrebbe portato alla distruzione e alla sconfitta della Germania. Il loro modo di pensare si era formato seguendo le tesi del Quickbo (Sorgente di vita), un movimento culturale fondato e seguito dal sacerdote di origine italiana Romano Guardini (1885-1968).

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La loro resistenza al nazismo si svolse principalmente all’interno dell’ambiente universitario della Baviera, riuscendo a stampare e distribuire clandestinamente sei volantini il cui contenuto avrebbe dovuto risvegliare la coscienza del popolo tedesco. Più la guerra si prolungava, più il gruppo della «Rosa Bianca» assumeva una posizione decisa contro Hitler, non solo distribuendo opuscoli all’interno dell’università, ma addirittura incollandoli sui cancelli di ingresso e dipingendo slogan anti hitleriani sui muri di Monaco e all’interno dell’edificio universitario. Scoperti da un bidello nazista, vennero arrestati dalla Gestapo, torturati e condannati a morte per decapitazione il 22 febbraio 1943 dopo un processo di poche ore.

Con i fratelli Hans e Sophie Scholl abbiamo voluto approfondire la loro storia di oppositori al nazismo. Sebbene calpestati, vilipesi e di fatto perdenti di fronte alla tirannia scatenata da Hitler, restano nella coscienza collettiva dei tedeschi e degli europei in generale, i veri vincitori dello scontro che avvenne in quegli anni.

la_rosa_biancaSophie e Hans, come vi è venuto in mente di opporvi al nazismo in una forma che era già fin dall’inizio destinata all’insuccesso?

Dopo la sconfitta di Stalingrado nel febbraio 1943 fu chiaro, anche se non si osava dirlo apertamente, che le sorti della guerra erano segnate e che la Germania sarebbe stata sconfitta.

Altri cittadini come voi avevano la stessa sensazione, eppure non mossero un dito. Cos’è che vi ha spinto ad agire così pericolosamente in un ambiente come quello universitario profondamente segnato dall’ideologia nazista?

Noi e i componenti del nostro gruppo rigettavamo la violenza nazista che la nostra patria, la Germania, stava attuando in gran parte d’Europa. Noi tutti credevamo in un’Europa federale che aderisse ai principi cristiani di tolleranza e giustizia.

Anche il fatto di avere come riferimento Romano Guardini, vi dava una spinta ulteriore per non restare con le braccia conserte di fronte alla rovina della vostra patria.

Oltre che da Romano Guardini il nostro modo di pensare e di agire era stimolato anche dal parroco di Soflingen, un quartiere di Ulm in cui era presente una forte resistenza cattolica al nazismo, da Franz Weiss, da Carl Muth e da Theodor Haecker, intellettuali cattolici antinazisti, il cui pensiero influenzò molto le scelte di resistenza non violenta del nostro gruppo.

Con questi riferimenti religiosi e culturali non vi limitaste a una resistenza passiva, ma decideste di agire stampando e distribuendo volantini.

Sì. E fu una cosa non da poco tenendo conto che la carta era razionata e tutto era controllato. Anche ottenere buste e francobolli a sufficienza richiedeva molta prudenza per non dare nell’occhio. Producemmo sei volantini, gli ultimi due più forti degli altri. Infatti l’intestazione che avevamo messo ci autodefiniva: «Il movimento di resistenza in Germania».

Se non sbaglio, anche altri in Germania agivano allo stesso modo.

Ad essere sinceri il nostro modo di agire fu ispitaro dalla lettura di un volantino che arrivò nelle nostre case riportando le idee del vescovo di Munster (Monaco), Clemes August Von Galen (1878-1946 – ora beato), il quale certamente non le mandava a dire a Hitler: le sue omelie erano un vigoroso atto d’accusa contro l’ideologia nazista. Von Galen, fu uno dei pochi vescovi tedeschi che si oppose apertamente a quell’ideologia, e per questo si guadagnò il titolo di «leone di Munster».

sophie-scholl-640x250Ma anche a casa vostra l’atmosfera che respiravate non era certamente favorevole al nazismo.

Nel gennaio del ’42 nostro padre Robert venne denunciato da una sua impiegata per aver definito Hitler «un flagello di Dio» e per aver detto che la guerra di Russia era un massacro insensato e che i sovietici avrebbero finito per conquistare Berlino.

Che conseguenze ebbe?

Prelevato dalla Gestapo, torturato e interrogato, venne condannato a 4 mesi di carcere che praticamente significarono la rovina economica della nostra famiglia, anche se un volta scontata la pena fu rilasciato.

Fu l’anticipazione di quello che in seguito successe a voi.

A quel tempo chiunque osava mettere apertamente in dubbio l’autorità del Führer e criticare quello che lui affermava, ovvero voler costruire un nuovo Reich che sarebbe durato oltre mille anni, veniva visto come un nemico della patria.

Quando decideste di passare all’azione?

Nell’estate del ’42, dopo aver battuto a macchina e ciclostilato qualche centinaio di copie del primo volantino, cominciammo a lasciarlo nei locali pubblici, alle fermate dell’autobus, nelle cabine telefoniche o a gettralo lungo le strade dai tram di notte.

Nessuno vi sorprese mentre compivate queste azioni di volantinaggio?

No, e sappiamo con certezza che anche la Gestapo, pur indagando meticolosamente su chi poteva essere il responsabile di queste azioni, non riusciva a cavare un ragno dal buco.

E voi non commetteste nessun errore compiendo queste azioni rischiose?

Purtroppo sì, il 18 febbraio del ’43, noi due all’interno dell’Università salimmo fino all’ultimo piano con una valigia contenente 1.500 copie del sesto (e ultimo) volantino. Una volta in cima alle scale, lanciammo verso gli studenti che stavano nell’atrio sottostante i nostri volantini. Un bidello ci vide e ci denunciò. Fummo arrestati e nel giro di pochi giorni la stessa sorte toccò agli altri membri della «Rosa Bianca», oltre a un’ottantina di persone che fiancheggiavano le nostre azioni contro il nazismo.

Alla Gestapo non pareva vero di avervi finalmente tra le mani.

Iniziarono subito a interrogarci, pestarci e a torturarci; alcuni di loro restarono sorpresi dal coraggio e dalla determinazione con cui rivendicavamo le ragioni del nostro dissenso all’ideologia nazista e a Hitler.

Prevedendo che vi aspettava la condanna a morte, quale fu il vostro atteggiamento di difesa?

Per prima cosa noi due cercammo di attribuirci interamente le colpe di cui tutti erano accusati allo scopo di scagionare gli altri membri della «Rosa Bianca». Allo stesso tempo, per far capire ai giudici nazisti che non eravamo un gruppo di esaltati, affermammo durante il processo: «Sono in tanti a pensare quello che noi abbiamo detto e scritto; solo che non tutti osano esprimerlo a parole».

Truccate le prove per la vostra condanna, il processo si concluse come volevano i gerarchi nazisti?

Naturale. Dopo un dibattimento farsa, il giudice Roland Freisler, emise il verdetto con queste parole: «In nome del popolo tedesco, gli imputati sono condannati a morte per favoreggiamento antipatriottico del nemico, alto tradimento e demoralizzazione delle forze armate. Inoltre il tribunale del popolo constatato che essi attraverso volantini hanno propagandato idee disfattiste, sabotato l’organizzazione militare e civile del sistema di vita del nazionalsocialismo del nostro popolo, insultato il Führer nella maniera più vile e infame aiutando in tal modo i nemici del Reich. Pertanto essi sono condannati a morte tramite ghigliottina».

 

I giovani del gruppo della «Rosa Bianca», composto da cattolici ed evangelici che cercavano di vivere con coerenza la loro fede, chiedono di ricevere i sacramenti prima dell’esecuzione. Cristoph Probst, l’unico a non essere battezzato, riceve il battesimo, la comunione e l’estrema unzione dal cappellano cattolico Heirich Sperr, al quale consegna un biglietto da dare alla madre su cui è scritto: «Ti ringrazio di avermi dato la vita. A pensarci bene, non è stata che un cammino verso Dio». I fratelli Hans e Sophie che vengono giustiziati in un’altra ala del carcere, vorrebbero un prete cattolico, ma non potendolo avere si confessano e celebrano la Santa Cena con il cappellano evangelico Karl Alt. Prima dell’esecuzione ai due fratelli viene permesso un ultimo e breve incontro con i genitori. Impressionato dal loro atteggiamento, uno dei secondini racconterà in seguito: «I giovani della “Rosa Bianca” si sono comportati con un coraggio fantastico, tutto il carcere ne fu impressionato. Perciò ci siamo accollati il rischio di riunire ancora una volta i condannati, volevamo che potessero fumare ancora una sigaretta insieme, non furono che pochi minuti ma certamente fu un gran regalo per loro». Le ultime parole di Cristoph Probst sono: «Fra pochi minuti ci rivedremo nell’eternità!». Poi si lasciano condurre alla ghigliottina senza battere ciglio, mentre viene condotto al patibolo Hans Scholl grida: «Viva la libertà!». Il 19 aprile 1943 sono processati tutti gli altri. Tredici sono ghigliottinati nei mesi successivi e altri trentotto incarcerati. Con la caduta del regime nazista vennero portate alla luce le molteplici attività che il gruppo della «Rosa Bianca» fece per opporsi al nazismo. Ancora oggi essi rappresentano la forma più pura di opposizione alla tirannia hitleriana in terra germanica, senza essere mossi da interessi personali o di partito, tutto il loro modo di vivere e di agire era mosso dalla fede cristiana e dall’amore per la libertà.

Don Mario Bandera, Missio Novara




Beato Giuseppe Allamano

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CAllamano logoari amici lettori,
è con piacere che vi presento questa edizione rinnovata della pubblicazione dedicata al beato Allamano. Non stamperemo più l’allegato che ricevevate tre volte all’anno, sostituito da ora in avanti da questo inserto che manterrà una sua precisa identità e apparirà cinque volte all’anno alternandosi con l’inserto «Amico».
Non vogliamo sia solo una operazione di risparmio, pur necessaria di questi tempi, ma speriamo sia un modo efficace per farvi avvicinare con più familiarità a un santo che per noi significa molto, il beato Giuseppe Allamano, il quale ha ispirato e cambiato la nostra vita con il suo stile semplice che insegna a essere «santi e missionari».

Gigi Anataloni




Storia del Giubileo 3. Giubileo, Misericordia e Volto


Come abbiamo anticipato nella puntata precedente (cf MC 11/2015, p. 45), approfondiamo le parole chiave della bolla di indizione del giubileo di Papa Francesco che troviamo già nel titolo: «Giubileo, Misericordia e Volto».

Giubileo

Il primo termine che esaminiamo è «Giubileo», parola di origine ebraica con una storia che potrebbe sorprendere qualche lettore. In ebraico «jobèl» (plurale jobelìm) significa «corno» (di montone), cioè dell’ariete, il maschio adulto della pecora (Gs 6,5), e unito alla parola «shenàt» (anno – shenàt hajobèl) significa «anno giubilare» (Lv 25,13). La domanda inevitabile è: che c’entra il Giubileo con il montone e le sue coa? Direttamente nulla, ma un nesso esiste, e per capirlo bisogna partire da lontano, da molto lontano.

Il termine «jobèl» ricorre nella Bibbia 21 volte, la quasi totalità delle quali nel libro del Levitico che è un libro formato durante e dopo l’esilio di Babilonia, quindi nel sec. VI-V a.C., per cui possiamo affermare con certezza che si tratta di testi «tardivi». Nel libro di Giosuè, che è un poco anteriore al libro del Levitico, si racconta che sette sacerdoti dovevano suonare sette «shopheròt hajobelìm», trombe di corno di ariete (Gs 6,4), prima di compiere la liturgia delle sette processioni attorno alla città di Gerico. Il nesso tra il suono del corno di ariete, «jobèl», e la celebrazione del Giubileo come ritorno alla libertà, è sviluppato dalla tradizione giudaica riflettendo sull’episodio del sacrificio di Isacco in Gen 22,1-19, racconto che può essere datato intorno al sec. VII a.C., quindi risalente allo stesso periodo del Deuteronomio e del libro di Giosuè.

Chi legge superficialmente la Bibbia, quando incontra il racconto del sacrificio di Isacco, rimane scandalizzato da un Dio disumano che chiede a un padre di sacrificare il figlio per provare la sua fede. Come si permette questo Dio disumano di osare tanto? A una lettura più attenta però scopriamo che l’obiettivo è esattamente l’opposto, ma perseguito secondo i criteri e le modalità di racconto degli antichi, la cui vita era vissuta in riferimento alle divinità e interpretata solo ed esclusivamente alla luce della religiosità diffusa.

Una contestazione di pratiche disumane

Nel 2° millennio a.C. era diffusa la pratica dei sacrifici umani. Il Dio di Israele rifiuta questo culto perché lui dà la vita, non la toglie. L’autore biblico, afferma questo principio con il racconto in cui Dio mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare la garanzia del suo futuro: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco… e offrilo in olocausto». Mai padre si era trovato in questa angoscia. Come ubbidire? Il figlio che Dio gli ha dato nella vecchiaia, ora gli viene richiesto indietro. Per avere una posterità deve ucciderlo. Il fatto che Dio metta alla prova Abramo è un modo per dire che tutto dipende dal Creatore: la vita e la morte, il presente e il futuro. Nulla ha senso fuori di Dio.

Abramo si fida, perché Dio gli ha dato un figlio quando era certo di non potee più avere, e perché tutto quello che gli aveva promesso si è sempre verificato. Anche se «adesso» non capisce, Abramo sa che Dio non può venire meno alla sua parola; per questo si abbandona totalmente alla sua volontà, buttandosi nel vuoto e nel buio della fede e affidandosi totalmente alla Parola.

Avendo saggiato il suo abbandono senza riserve, Dio, l’incomprensibile, «ora» restituisce ad Abramo il figlio come se il patriarca lo avesse generato per la seconda volta. Isacco non è solo figlio della natura, ma «ora» è anche figlio dell’obbedienza e della fede.

La tradizione ebraica non si ferma qui – benché il racconto fosse già sufficiente a contestare i sacrifici umani -, e va oltre, facendo fiorire leggende su leggende: insegnano i padri che Isacco avesse 37 anni al tempo dell’episodio del sacrificio, e che, mentre il padre lo legava come un agnello, egli, invece di protestare, lo supplicava di non esitare e di legarlo bene perché non accadesse che per paura si mettesse a scalciare, rendendo nullo il sacrifico. Nel tempio di Gerusalemme vi era un rituale minuzioso per legare gli agnelli del sacrificio, perché potessero essere uccisi in modo da non invalidare il rito.

 

La fedeltà oltre l’irrazionale

Il figlio unigenito incoraggia il padre a legarlo per ubbidire al Signore che sa quello che fa, anche se noi non ne vediamo il senso e la ragione. Isacco, legato alla legna del sacrificio sull’altare di pietra, sul monte Mòria, dove secoli dopo sarebbe sorto il tempio di Gerusalemme, nella tradizione cristiana diventa il simbolo di Cristo, il Figlio Unigenito, legato al legno della croce e ucciso sull’altare dell’espiazione all’età di circa 37 anni.

Aggiunge la Bibbia che Dio fermò Abramo provvedendo per il sacrificio un «ariete» al posto di Isacco: «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le coa in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e l’offrì in olocausto invece del figlio» (Gen 22,13).

La tradizione giudaica aggiunge che Abramo, compiuto il sacrificio dell’ariete, si rivolse a Dio chiedendogli che, in considerazione dell’atteggiamento di Isacco che non si era ribellato, ma che, anzi, lo aveva incitato a obbedire senza esitare al comando di Dio, quando in futuro i figli di Isacco lo avessero pregato, egli li ascoltasse proprio in memoria dell’Aqèdah – legatura. Per i meriti del figlio Isacco, Abramo ricevette l’alleanza da Dio. Per i meriti di Cristo legato alla croce, noi siamo salvati.

 

Dal simbolo alla storia perenne

Per questo motivo in Israele si suonava il corno di ariete nel tempio di Gerusalemme all’inizio della preghiera, prima di cominciare il «Rosh-ha-shannàh» (anno nuovo), a conclusione dello «Yom Kippur» (capodanno), all’apertura del «Giubileo» ogni sette anni e, ancora oggi, all’inizio dello «Shabàt» (il sabato) e nel giorno d’insediamento del presidente dello stato.

La storia non è una successione di eventi e fatti, in senso cronologico, ma una rete di connessioni e di implicanze, una serie di legami tra cause ed effetti, tra ragioni e motivazioni che illuminano il passaggio tra ieri e oggi e domani, dando all’individuo il senso pieno di appartenenza a una storia che ha le radici in cielo e lo sviluppo in terra. Il Giubileo è il frutto maturo che si realizza tra la promessa di Dio e la fedeltà dell’uomo nella rete della convivenza civile, come vedremo spiegando, nei prossimi numeri, il significato biblico del Giubileo stesso.

Misericordia

Il secondo termine-chiave è «Misericordiae», sostantivo femminile della 1a declinazione latina, derivato dall’aggettivo misericors, composto dalla radice miser – misero /sciagurato / malato e cor-cordis – cuore. Esso esprime un nobile sentimento che nasce dal «cuore» e si muove verso chi è nel bisogno (il misero), un movimento interiore di pietà che diventa attenzione.

Nella lingua corrente popolare ha acquisito anche un senso negativo, in quanto «avere misericordia / pietà di qualcuno» può significare anche un sentimento di disprezzo, se chi lo prova è maldisposto. Nel Medioevo si chiamava «misericordia» il pugnale con cui si dava il colpo di grazia ai guerrieri agonizzanti e senza possibilità di guarigione; in questo caso si era «misericordiosi» perché si dava la morte per compassione: una forma di eutanasia ante litteram. In Toscana dal sec. XIII è il nome di un sodalizio/confrateita che nei secoli passati si prendeva cura dei poveri, dei malati, dei carcerati e dava sepoltura ai morti abbandonati. Oggi prosegue nella stessa direzione e svolge la funzione di pubblica assistenza. Nel parlare popolare è anche un’invocazione di stupore / paura o disappunto: «Misericordia!».

 

Una prospettiva di vita

Se andiamo indietro nel tempo e cerchiamo la radice del senso della parola «misericordia» nella Bibbia, vediamo che il ventaglio semantico si allarga e ci travolge. I lettori di Mc non sono nuovi a questo genere di approfondimenti, perché ne abbiamo parlato diverse volte in questi anni, specialmente nel commento alla parabola del «Padre che fu madre» di Lc 15, più comunemente conosciuta come parabola del «Figliol prodigo». Ciononostante è utile rinfrescarsi le idee, secondo l’adagio latino che «repetita iuvant», anche se a volte anche «stufant». Vedremo di aiutare senza stufare.

In italiano un sinonimo di «misericordia» è «compassione» (da cum-pàti – partecipare lo stesso pàthos / sentimento), anch’esso termine logorato dall’uso, come avviene per «misericordia», per cui assume un senso ambiguo e riduttivo, equivalente a «provare pena». Nella Bibbia tutto questo gruppo di sentimenti è riportato a una sola parola ebraica che è rachàm – ùtero (plurale: rachamìm – viscere). Da qui deriva che il sentimento della misericordia / compassione ha attinenza con la generazione della vita e quindi con la responsabilità della crescita che avviene nella relazione. Avere misericordia o provare compassione, nella Bibbia significa «generare alla vita, essere legati per la vita».

La Bibbia greca traduce questo complesso di significati con due termini «splànchna», che ha lo stesso significato dell’ebraico, e «ele?mosýn?» – simpatia / dono amorevole. Come si può ben comprendere, da questo termine deriva l’italiano «elemosina» che non ha il senso povero e degradato in uso oggi di «dare uno spicciolo a un povero», ma di avvolgere l’altro nella propria simpatia attraverso il dono di sé, tanto che il Siràcide attribuisce all’elemosina un valore sacrificale pari a quello dei sacrifici nel tempio: «L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina (gr. ele?mosyn?) espia i peccati» (Sir 3,30). [vedi nota*]

Possiamo concludere questa prima battuta, dicendo che la misericordia è nient’altro che il sentimento di tenerezza che Dio vive nei confronti dei suoi figli. Il Giubileo è un’immersione in questa tenerezza senza fine che assume per noi il «Volto del Signore Gesù».

Vultus

Il terzo termine è «vultus» che significa «volto / faccia / viso». Quando incontriamo qualcuno, il volto è la prima realtà che guardiamo, e dalla sua espressione intuiamo lo stato d’animo. Nell’AT nessuno può vedere il volto di Dio: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Infatti davanti a Dio «Mosè si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6). Con la morte di Gesù scompare questa impossibilità di vedere Dio, perché possiamo contemplarlo anche nella sofferenza. Nel momento della morte, «il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (Mc 15,38) rendendo compiuto il desiderio dei Greci che nel vangelo di Giovanni anelano di «vedere Gesù» (Gv 12,20). Il centurione romano, contemplando la morte di Gesù, riesce a vedere «il Figlio di Dio» (Mc 15,39).

Il volto è la persona, e il Dio di Gesù Cristo non è più una divinità astratta e asettica, ma è il Dio dei volti e dei nomi, «il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,16). È il Dio che si può sperimentare e incontrare perché ora è possibile «toccare il Lògos della vita» (1Gv 1,1) e, come per Giacobbe durante la lotta con l’angelo, è possibile vederlo «faccia a faccia» (Gen 32,31) o, come per Mosè, parlargli «faccia a faccia, come un uomo parla con un altro uomo» (Es 33,11).

Il Giubileo non è un’occasione per assicurarsi un’indulgenza o darsi una sciacquata allo scopo di lavarsi via qualche peccatuccio, perché «non si sa mai».

«Giubileo del Volto della Misericordia» significa sprofondare nell’esperienza di Dio, toccarne la vita, assaporae la visione, perché solo nella misericordia Dio compie la pienezza della propria giustizia e del proprio mistero.

Nella prossima puntata esamineremo le ragioni che hanno portato a creare gradualmente due istituti giuridici come l’Anno Sabbatico e il Giubileo, che sono i frutti di una lunga storia.

Paolo Farinella, prete
3, continua

 


[*] vedi anche Sir 7,10; 12,3; 16,14; 29,8.12; 40,24; cf. anche Pr 16,6; 17,5; Tb 4,7-11; Sal 51/50,3.
Nel Nuovo Testamento:
ele?mosyn?: Mt 6,2.3.4; Lc 11,41; 12,33;
eleos: Mt 9,13; 12,7; 23,23; Lc 1,50.54.58.72.78; 10,37;
elee?: Mt 5,7; 9,27; 15,22; 17,15; 18,33(2); 20,30.31; Mc 5,19; 10,47.48; Lc 16,24; 17,13; 18,38.39;
splanchnizomai: Mt 9,36; 14,14; 15,32;18,27; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22; Lc 7,13; 10,33; 15,20;
splanchnon: Lc 1,78; At 1,18; 2 Cor 6,12; 7,15; Fm 7.12.20.




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