I perdenti 11: i giovani della rosa bianca

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La «Rosa Bianca» è il nome assunto da un gruppo di giovani universitari di Monaco di Baviera che si costituirono in un piccolo ma significativo movimento di resistenza all’interno della Germania nazista. Il gruppo era composto da 5 studenti: Hans Scholl, sua sorella Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, tutti poco più che ventenni. A essi si unirà il professore universitario Kurt Huber. Sebbene tutti fossero studenti universitari, i ragazzi avevano fatto il servizio militare partecipando agli eventi bellici sia sul fronte francese che su quello russo dove erano stati testimoni delle atrocità commesse contro la popolazione civile e in modo particolare contro gli ebrei. Essi erano convinti che la guerra scatenata dal nazismo avrebbe portato alla distruzione e alla sconfitta della Germania. Il loro modo di pensare si era formato seguendo le tesi del Quickbo (Sorgente di vita), un movimento culturale fondato e seguito dal sacerdote di origine italiana Romano Guardini (1885-1968).

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La loro resistenza al nazismo si svolse principalmente all’interno dell’ambiente universitario della Baviera, riuscendo a stampare e distribuire clandestinamente sei volantini il cui contenuto avrebbe dovuto risvegliare la coscienza del popolo tedesco. Più la guerra si prolungava, più il gruppo della «Rosa Bianca» assumeva una posizione decisa contro Hitler, non solo distribuendo opuscoli all’interno dell’università, ma addirittura incollandoli sui cancelli di ingresso e dipingendo slogan anti hitleriani sui muri di Monaco e all’interno dell’edificio universitario. Scoperti da un bidello nazista, vennero arrestati dalla Gestapo, torturati e condannati a morte per decapitazione il 22 febbraio 1943 dopo un processo di poche ore.

Con i fratelli Hans e Sophie Scholl abbiamo voluto approfondire la loro storia di oppositori al nazismo. Sebbene calpestati, vilipesi e di fatto perdenti di fronte alla tirannia scatenata da Hitler, restano nella coscienza collettiva dei tedeschi e degli europei in generale, i veri vincitori dello scontro che avvenne in quegli anni.

la_rosa_biancaSophie e Hans, come vi è venuto in mente di opporvi al nazismo in una forma che era già fin dall’inizio destinata all’insuccesso?

Dopo la sconfitta di Stalingrado nel febbraio 1943 fu chiaro, anche se non si osava dirlo apertamente, che le sorti della guerra erano segnate e che la Germania sarebbe stata sconfitta.

Altri cittadini come voi avevano la stessa sensazione, eppure non mossero un dito. Cos’è che vi ha spinto ad agire così pericolosamente in un ambiente come quello universitario profondamente segnato dall’ideologia nazista?

Noi e i componenti del nostro gruppo rigettavamo la violenza nazista che la nostra patria, la Germania, stava attuando in gran parte d’Europa. Noi tutti credevamo in un’Europa federale che aderisse ai principi cristiani di tolleranza e giustizia.

Anche il fatto di avere come riferimento Romano Guardini, vi dava una spinta ulteriore per non restare con le braccia conserte di fronte alla rovina della vostra patria.

Oltre che da Romano Guardini il nostro modo di pensare e di agire era stimolato anche dal parroco di Soflingen, un quartiere di Ulm in cui era presente una forte resistenza cattolica al nazismo, da Franz Weiss, da Carl Muth e da Theodor Haecker, intellettuali cattolici antinazisti, il cui pensiero influenzò molto le scelte di resistenza non violenta del nostro gruppo.

Con questi riferimenti religiosi e culturali non vi limitaste a una resistenza passiva, ma decideste di agire stampando e distribuendo volantini.

Sì. E fu una cosa non da poco tenendo conto che la carta era razionata e tutto era controllato. Anche ottenere buste e francobolli a sufficienza richiedeva molta prudenza per non dare nell’occhio. Producemmo sei volantini, gli ultimi due più forti degli altri. Infatti l’intestazione che avevamo messo ci autodefiniva: «Il movimento di resistenza in Germania».

Se non sbaglio, anche altri in Germania agivano allo stesso modo.

Ad essere sinceri il nostro modo di agire fu ispitaro dalla lettura di un volantino che arrivò nelle nostre case riportando le idee del vescovo di Munster (Monaco), Clemes August Von Galen (1878-1946 – ora beato), il quale certamente non le mandava a dire a Hitler: le sue omelie erano un vigoroso atto d’accusa contro l’ideologia nazista. Von Galen, fu uno dei pochi vescovi tedeschi che si oppose apertamente a quell’ideologia, e per questo si guadagnò il titolo di «leone di Munster».

sophie-scholl-640x250Ma anche a casa vostra l’atmosfera che respiravate non era certamente favorevole al nazismo.

Nel gennaio del ’42 nostro padre Robert venne denunciato da una sua impiegata per aver definito Hitler «un flagello di Dio» e per aver detto che la guerra di Russia era un massacro insensato e che i sovietici avrebbero finito per conquistare Berlino.

Che conseguenze ebbe?

Prelevato dalla Gestapo, torturato e interrogato, venne condannato a 4 mesi di carcere che praticamente significarono la rovina economica della nostra famiglia, anche se un volta scontata la pena fu rilasciato.

Fu l’anticipazione di quello che in seguito successe a voi.

A quel tempo chiunque osava mettere apertamente in dubbio l’autorità del Führer e criticare quello che lui affermava, ovvero voler costruire un nuovo Reich che sarebbe durato oltre mille anni, veniva visto come un nemico della patria.

Quando decideste di passare all’azione?

Nell’estate del ’42, dopo aver battuto a macchina e ciclostilato qualche centinaio di copie del primo volantino, cominciammo a lasciarlo nei locali pubblici, alle fermate dell’autobus, nelle cabine telefoniche o a gettralo lungo le strade dai tram di notte.

Nessuno vi sorprese mentre compivate queste azioni di volantinaggio?

No, e sappiamo con certezza che anche la Gestapo, pur indagando meticolosamente su chi poteva essere il responsabile di queste azioni, non riusciva a cavare un ragno dal buco.

E voi non commetteste nessun errore compiendo queste azioni rischiose?

Purtroppo sì, il 18 febbraio del ’43, noi due all’interno dell’Università salimmo fino all’ultimo piano con una valigia contenente 1.500 copie del sesto (e ultimo) volantino. Una volta in cima alle scale, lanciammo verso gli studenti che stavano nell’atrio sottostante i nostri volantini. Un bidello ci vide e ci denunciò. Fummo arrestati e nel giro di pochi giorni la stessa sorte toccò agli altri membri della «Rosa Bianca», oltre a un’ottantina di persone che fiancheggiavano le nostre azioni contro il nazismo.

Alla Gestapo non pareva vero di avervi finalmente tra le mani.

Iniziarono subito a interrogarci, pestarci e a torturarci; alcuni di loro restarono sorpresi dal coraggio e dalla determinazione con cui rivendicavamo le ragioni del nostro dissenso all’ideologia nazista e a Hitler.

Prevedendo che vi aspettava la condanna a morte, quale fu il vostro atteggiamento di difesa?

Per prima cosa noi due cercammo di attribuirci interamente le colpe di cui tutti erano accusati allo scopo di scagionare gli altri membri della «Rosa Bianca». Allo stesso tempo, per far capire ai giudici nazisti che non eravamo un gruppo di esaltati, affermammo durante il processo: «Sono in tanti a pensare quello che noi abbiamo detto e scritto; solo che non tutti osano esprimerlo a parole».

Truccate le prove per la vostra condanna, il processo si concluse come volevano i gerarchi nazisti?

Naturale. Dopo un dibattimento farsa, il giudice Roland Freisler, emise il verdetto con queste parole: «In nome del popolo tedesco, gli imputati sono condannati a morte per favoreggiamento antipatriottico del nemico, alto tradimento e demoralizzazione delle forze armate. Inoltre il tribunale del popolo constatato che essi attraverso volantini hanno propagandato idee disfattiste, sabotato l’organizzazione militare e civile del sistema di vita del nazionalsocialismo del nostro popolo, insultato il Führer nella maniera più vile e infame aiutando in tal modo i nemici del Reich. Pertanto essi sono condannati a morte tramite ghigliottina».

 

I giovani del gruppo della «Rosa Bianca», composto da cattolici ed evangelici che cercavano di vivere con coerenza la loro fede, chiedono di ricevere i sacramenti prima dell’esecuzione. Cristoph Probst, l’unico a non essere battezzato, riceve il battesimo, la comunione e l’estrema unzione dal cappellano cattolico Heirich Sperr, al quale consegna un biglietto da dare alla madre su cui è scritto: «Ti ringrazio di avermi dato la vita. A pensarci bene, non è stata che un cammino verso Dio». I fratelli Hans e Sophie che vengono giustiziati in un’altra ala del carcere, vorrebbero un prete cattolico, ma non potendolo avere si confessano e celebrano la Santa Cena con il cappellano evangelico Karl Alt. Prima dell’esecuzione ai due fratelli viene permesso un ultimo e breve incontro con i genitori. Impressionato dal loro atteggiamento, uno dei secondini racconterà in seguito: «I giovani della “Rosa Bianca” si sono comportati con un coraggio fantastico, tutto il carcere ne fu impressionato. Perciò ci siamo accollati il rischio di riunire ancora una volta i condannati, volevamo che potessero fumare ancora una sigaretta insieme, non furono che pochi minuti ma certamente fu un gran regalo per loro». Le ultime parole di Cristoph Probst sono: «Fra pochi minuti ci rivedremo nell’eternità!». Poi si lasciano condurre alla ghigliottina senza battere ciglio, mentre viene condotto al patibolo Hans Scholl grida: «Viva la libertà!». Il 19 aprile 1943 sono processati tutti gli altri. Tredici sono ghigliottinati nei mesi successivi e altri trentotto incarcerati. Con la caduta del regime nazista vennero portate alla luce le molteplici attività che il gruppo della «Rosa Bianca» fece per opporsi al nazismo. Ancora oggi essi rappresentano la forma più pura di opposizione alla tirannia hitleriana in terra germanica, senza essere mossi da interessi personali o di partito, tutto il loro modo di vivere e di agire era mosso dalla fede cristiana e dall’amore per la libertà.

Don Mario Bandera, Missio Novara




Beato Giuseppe Allamano

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CAllamano logoari amici lettori,
è con piacere che vi presento questa edizione rinnovata della pubblicazione dedicata al beato Allamano. Non stamperemo più l’allegato che ricevevate tre volte all’anno, sostituito da ora in avanti da questo inserto che manterrà una sua precisa identità e apparirà cinque volte all’anno alternandosi con l’inserto «Amico».
Non vogliamo sia solo una operazione di risparmio, pur necessaria di questi tempi, ma speriamo sia un modo efficace per farvi avvicinare con più familiarità a un santo che per noi significa molto, il beato Giuseppe Allamano, il quale ha ispirato e cambiato la nostra vita con il suo stile semplice che insegna a essere «santi e missionari».

Gigi Anataloni




Storia del Giubileo 3. Giubileo, Misericordia e Volto


Come abbiamo anticipato nella puntata precedente (cf MC 11/2015, p. 45), approfondiamo le parole chiave della bolla di indizione del giubileo di Papa Francesco che troviamo già nel titolo: «Giubileo, Misericordia e Volto».

Giubileo

Il primo termine che esaminiamo è «Giubileo», parola di origine ebraica con una storia che potrebbe sorprendere qualche lettore. In ebraico «jobèl» (plurale jobelìm) significa «corno» (di montone), cioè dell’ariete, il maschio adulto della pecora (Gs 6,5), e unito alla parola «shenàt» (anno – shenàt hajobèl) significa «anno giubilare» (Lv 25,13). La domanda inevitabile è: che c’entra il Giubileo con il montone e le sue coa? Direttamente nulla, ma un nesso esiste, e per capirlo bisogna partire da lontano, da molto lontano.

Il termine «jobèl» ricorre nella Bibbia 21 volte, la quasi totalità delle quali nel libro del Levitico che è un libro formato durante e dopo l’esilio di Babilonia, quindi nel sec. VI-V a.C., per cui possiamo affermare con certezza che si tratta di testi «tardivi». Nel libro di Giosuè, che è un poco anteriore al libro del Levitico, si racconta che sette sacerdoti dovevano suonare sette «shopheròt hajobelìm», trombe di corno di ariete (Gs 6,4), prima di compiere la liturgia delle sette processioni attorno alla città di Gerico. Il nesso tra il suono del corno di ariete, «jobèl», e la celebrazione del Giubileo come ritorno alla libertà, è sviluppato dalla tradizione giudaica riflettendo sull’episodio del sacrificio di Isacco in Gen 22,1-19, racconto che può essere datato intorno al sec. VII a.C., quindi risalente allo stesso periodo del Deuteronomio e del libro di Giosuè.

Chi legge superficialmente la Bibbia, quando incontra il racconto del sacrificio di Isacco, rimane scandalizzato da un Dio disumano che chiede a un padre di sacrificare il figlio per provare la sua fede. Come si permette questo Dio disumano di osare tanto? A una lettura più attenta però scopriamo che l’obiettivo è esattamente l’opposto, ma perseguito secondo i criteri e le modalità di racconto degli antichi, la cui vita era vissuta in riferimento alle divinità e interpretata solo ed esclusivamente alla luce della religiosità diffusa.

Una contestazione di pratiche disumane

Nel 2° millennio a.C. era diffusa la pratica dei sacrifici umani. Il Dio di Israele rifiuta questo culto perché lui dà la vita, non la toglie. L’autore biblico, afferma questo principio con il racconto in cui Dio mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare la garanzia del suo futuro: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco… e offrilo in olocausto». Mai padre si era trovato in questa angoscia. Come ubbidire? Il figlio che Dio gli ha dato nella vecchiaia, ora gli viene richiesto indietro. Per avere una posterità deve ucciderlo. Il fatto che Dio metta alla prova Abramo è un modo per dire che tutto dipende dal Creatore: la vita e la morte, il presente e il futuro. Nulla ha senso fuori di Dio.

Abramo si fida, perché Dio gli ha dato un figlio quando era certo di non potee più avere, e perché tutto quello che gli aveva promesso si è sempre verificato. Anche se «adesso» non capisce, Abramo sa che Dio non può venire meno alla sua parola; per questo si abbandona totalmente alla sua volontà, buttandosi nel vuoto e nel buio della fede e affidandosi totalmente alla Parola.

Avendo saggiato il suo abbandono senza riserve, Dio, l’incomprensibile, «ora» restituisce ad Abramo il figlio come se il patriarca lo avesse generato per la seconda volta. Isacco non è solo figlio della natura, ma «ora» è anche figlio dell’obbedienza e della fede.

La tradizione ebraica non si ferma qui – benché il racconto fosse già sufficiente a contestare i sacrifici umani -, e va oltre, facendo fiorire leggende su leggende: insegnano i padri che Isacco avesse 37 anni al tempo dell’episodio del sacrificio, e che, mentre il padre lo legava come un agnello, egli, invece di protestare, lo supplicava di non esitare e di legarlo bene perché non accadesse che per paura si mettesse a scalciare, rendendo nullo il sacrifico. Nel tempio di Gerusalemme vi era un rituale minuzioso per legare gli agnelli del sacrificio, perché potessero essere uccisi in modo da non invalidare il rito.

 

La fedeltà oltre l’irrazionale

Il figlio unigenito incoraggia il padre a legarlo per ubbidire al Signore che sa quello che fa, anche se noi non ne vediamo il senso e la ragione. Isacco, legato alla legna del sacrificio sull’altare di pietra, sul monte Mòria, dove secoli dopo sarebbe sorto il tempio di Gerusalemme, nella tradizione cristiana diventa il simbolo di Cristo, il Figlio Unigenito, legato al legno della croce e ucciso sull’altare dell’espiazione all’età di circa 37 anni.

Aggiunge la Bibbia che Dio fermò Abramo provvedendo per il sacrificio un «ariete» al posto di Isacco: «Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le coa in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e l’offrì in olocausto invece del figlio» (Gen 22,13).

La tradizione giudaica aggiunge che Abramo, compiuto il sacrificio dell’ariete, si rivolse a Dio chiedendogli che, in considerazione dell’atteggiamento di Isacco che non si era ribellato, ma che, anzi, lo aveva incitato a obbedire senza esitare al comando di Dio, quando in futuro i figli di Isacco lo avessero pregato, egli li ascoltasse proprio in memoria dell’Aqèdah – legatura. Per i meriti del figlio Isacco, Abramo ricevette l’alleanza da Dio. Per i meriti di Cristo legato alla croce, noi siamo salvati.

 

Dal simbolo alla storia perenne

Per questo motivo in Israele si suonava il corno di ariete nel tempio di Gerusalemme all’inizio della preghiera, prima di cominciare il «Rosh-ha-shannàh» (anno nuovo), a conclusione dello «Yom Kippur» (capodanno), all’apertura del «Giubileo» ogni sette anni e, ancora oggi, all’inizio dello «Shabàt» (il sabato) e nel giorno d’insediamento del presidente dello stato.

La storia non è una successione di eventi e fatti, in senso cronologico, ma una rete di connessioni e di implicanze, una serie di legami tra cause ed effetti, tra ragioni e motivazioni che illuminano il passaggio tra ieri e oggi e domani, dando all’individuo il senso pieno di appartenenza a una storia che ha le radici in cielo e lo sviluppo in terra. Il Giubileo è il frutto maturo che si realizza tra la promessa di Dio e la fedeltà dell’uomo nella rete della convivenza civile, come vedremo spiegando, nei prossimi numeri, il significato biblico del Giubileo stesso.

Misericordia

Il secondo termine-chiave è «Misericordiae», sostantivo femminile della 1a declinazione latina, derivato dall’aggettivo misericors, composto dalla radice miser – misero /sciagurato / malato e cor-cordis – cuore. Esso esprime un nobile sentimento che nasce dal «cuore» e si muove verso chi è nel bisogno (il misero), un movimento interiore di pietà che diventa attenzione.

Nella lingua corrente popolare ha acquisito anche un senso negativo, in quanto «avere misericordia / pietà di qualcuno» può significare anche un sentimento di disprezzo, se chi lo prova è maldisposto. Nel Medioevo si chiamava «misericordia» il pugnale con cui si dava il colpo di grazia ai guerrieri agonizzanti e senza possibilità di guarigione; in questo caso si era «misericordiosi» perché si dava la morte per compassione: una forma di eutanasia ante litteram. In Toscana dal sec. XIII è il nome di un sodalizio/confrateita che nei secoli passati si prendeva cura dei poveri, dei malati, dei carcerati e dava sepoltura ai morti abbandonati. Oggi prosegue nella stessa direzione e svolge la funzione di pubblica assistenza. Nel parlare popolare è anche un’invocazione di stupore / paura o disappunto: «Misericordia!».

 

Una prospettiva di vita

Se andiamo indietro nel tempo e cerchiamo la radice del senso della parola «misericordia» nella Bibbia, vediamo che il ventaglio semantico si allarga e ci travolge. I lettori di Mc non sono nuovi a questo genere di approfondimenti, perché ne abbiamo parlato diverse volte in questi anni, specialmente nel commento alla parabola del «Padre che fu madre» di Lc 15, più comunemente conosciuta come parabola del «Figliol prodigo». Ciononostante è utile rinfrescarsi le idee, secondo l’adagio latino che «repetita iuvant», anche se a volte anche «stufant». Vedremo di aiutare senza stufare.

In italiano un sinonimo di «misericordia» è «compassione» (da cum-pàti – partecipare lo stesso pàthos / sentimento), anch’esso termine logorato dall’uso, come avviene per «misericordia», per cui assume un senso ambiguo e riduttivo, equivalente a «provare pena». Nella Bibbia tutto questo gruppo di sentimenti è riportato a una sola parola ebraica che è rachàm – ùtero (plurale: rachamìm – viscere). Da qui deriva che il sentimento della misericordia / compassione ha attinenza con la generazione della vita e quindi con la responsabilità della crescita che avviene nella relazione. Avere misericordia o provare compassione, nella Bibbia significa «generare alla vita, essere legati per la vita».

La Bibbia greca traduce questo complesso di significati con due termini «splànchna», che ha lo stesso significato dell’ebraico, e «ele?mosýn?» – simpatia / dono amorevole. Come si può ben comprendere, da questo termine deriva l’italiano «elemosina» che non ha il senso povero e degradato in uso oggi di «dare uno spicciolo a un povero», ma di avvolgere l’altro nella propria simpatia attraverso il dono di sé, tanto che il Siràcide attribuisce all’elemosina un valore sacrificale pari a quello dei sacrifici nel tempio: «L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina (gr. ele?mosyn?) espia i peccati» (Sir 3,30). [vedi nota*]

Possiamo concludere questa prima battuta, dicendo che la misericordia è nient’altro che il sentimento di tenerezza che Dio vive nei confronti dei suoi figli. Il Giubileo è un’immersione in questa tenerezza senza fine che assume per noi il «Volto del Signore Gesù».

Vultus

Il terzo termine è «vultus» che significa «volto / faccia / viso». Quando incontriamo qualcuno, il volto è la prima realtà che guardiamo, e dalla sua espressione intuiamo lo stato d’animo. Nell’AT nessuno può vedere il volto di Dio: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20). Infatti davanti a Dio «Mosè si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6). Con la morte di Gesù scompare questa impossibilità di vedere Dio, perché possiamo contemplarlo anche nella sofferenza. Nel momento della morte, «il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (Mc 15,38) rendendo compiuto il desiderio dei Greci che nel vangelo di Giovanni anelano di «vedere Gesù» (Gv 12,20). Il centurione romano, contemplando la morte di Gesù, riesce a vedere «il Figlio di Dio» (Mc 15,39).

Il volto è la persona, e il Dio di Gesù Cristo non è più una divinità astratta e asettica, ma è il Dio dei volti e dei nomi, «il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,16). È il Dio che si può sperimentare e incontrare perché ora è possibile «toccare il Lògos della vita» (1Gv 1,1) e, come per Giacobbe durante la lotta con l’angelo, è possibile vederlo «faccia a faccia» (Gen 32,31) o, come per Mosè, parlargli «faccia a faccia, come un uomo parla con un altro uomo» (Es 33,11).

Il Giubileo non è un’occasione per assicurarsi un’indulgenza o darsi una sciacquata allo scopo di lavarsi via qualche peccatuccio, perché «non si sa mai».

«Giubileo del Volto della Misericordia» significa sprofondare nell’esperienza di Dio, toccarne la vita, assaporae la visione, perché solo nella misericordia Dio compie la pienezza della propria giustizia e del proprio mistero.

Nella prossima puntata esamineremo le ragioni che hanno portato a creare gradualmente due istituti giuridici come l’Anno Sabbatico e il Giubileo, che sono i frutti di una lunga storia.

Paolo Farinella, prete
3, continua

 


[*] vedi anche Sir 7,10; 12,3; 16,14; 29,8.12; 40,24; cf. anche Pr 16,6; 17,5; Tb 4,7-11; Sal 51/50,3.
Nel Nuovo Testamento:
ele?mosyn?: Mt 6,2.3.4; Lc 11,41; 12,33;
eleos: Mt 9,13; 12,7; 23,23; Lc 1,50.54.58.72.78; 10,37;
elee?: Mt 5,7; 9,27; 15,22; 17,15; 18,33(2); 20,30.31; Mc 5,19; 10,47.48; Lc 16,24; 17,13; 18,38.39;
splanchnizomai: Mt 9,36; 14,14; 15,32;18,27; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22; Lc 7,13; 10,33; 15,20;
splanchnon: Lc 1,78; At 1,18; 2 Cor 6,12; 7,15; Fm 7.12.20.




I Perdenti 8. ANTÔNIO Conselheiro di Canudos

Nella
diocesi di Paulo Afonso, nello stato della Bahia in Brasile, sorge la cittadina
di Canudos; il nome di una località che agli italiani dice ben poco, ma che in
Brasile ha invece un significato molto profondo in quanto città di Antonio
Conselheiro (1830-1897), il carismatico fondatore di una originale comunità di
vita impeiata sulla condivisione dei beni, sull’uguaglianza dei membri e
sulla fratellanza reciproca che andava oltre le condizioni sociali ed
economiche e il colore della pelle di ciascuno.

La
comunità si organizzò stabilmente nel 1893 fondando il villaggio di Canudos in
quella che era una fazenda vicino alla cittadina di Monte Santo. Fu il
tentativo di costruire un’alternativa possibile a una concezione di stato che,
sostenuto dai grandi latifondisti, si basava sulla supina sottomissione dei
neri, degli indios, dei meticci e dei braccianti senza terra. La comunità di
Canudos, fin dal suo inizio, fu considerata dalle autorità politiche e militari
dell’appena nata Repubblica brasiliana come un «bubbone» da estirpare a
qualunque costo per evitare che le idee egualitarie che essa propugnava si
propagassero a macchia d’olio.

Canudos
venne abbattuta a cannonate dall’esercito nell’ottobre 1896. I suoi abitanti
furono tutti sterminati, comprese le donne e i bambini. Una comunità profetica
che ricercava l’ideale evangelico di vita non «poteva» sussistere nel
territorio dei latifondisti. La sua radicalità era uno scandalo troppo
evidente, perciò «doveva» essere distrutta. Da quell’eccidio nacque la leggenda
di Canudos, il cui spirito aleggia ancora oggi nel vento che accarezza i mandacarù
(i cactus selvatici) nella calura quotidiana che caratterizza il sertão
del Nordeste brasiliano. Con il suo carismatico fondatore abbiamo voluto
rievocare non solo le giornate di allora ma anche gli ideali di libertà che
attraversano ogni epoca.

Antonio Conselheiro come ti venne l’idea
di fondare Canudos?

Ai miei tempi il sertão brasiliano, zona arida
caratterizzata da periodi di forte siccità dove dovevi spaccarti la schiena per
ricavare dalla terra quanto necessario per vivere, era un territorio in cui
vagavano molti ex schiavi africani liberati, indigeni (indios) che avevano
perso completamente la loro identità e la loro terra a causa
dell’incontro-scontro con i latifondisti e coloni che avevano portato anche
nuove malattie e un alcolismo devastante, e fuoriusciti bianchi in fuga dalla
legge o dai debiti con padroni esosi e usurai. Questi disperati vivevano in
condizioni di grande miseria senza che nessuno si curasse di loro. Ero convinto
che i principi di giustizia e frateità del Vangelo e l’esempio della comunità
degli Atti degli Apostoli potessero essere le basi per costruire con loro un
mondo dove tutti potessero avere uguale dignità.

 

 

Se non vado errato, in quei tempi nel sertão
brasiliano si muovevano molte figure carismatiche.

È vero, predicatori del Vangelo ce n’erano in abbondanza, ma il
personaggio che più di ogni altro ha incarnato l’anima nordestina, è stato
Padre Cicero (Romão Batista, 1844-1934, zelantissimo sacerdote considerato
santo dai nordestini, anche se morto ufficialmente scomunicato. Oggi il vescovo
della diocesi di Crato nel Cearà ne ha avviato il processo di riabilitazione, ndr),
che percorse il sertão in lungo e in largo, a piedi o in groppa a umili
somarelli per migliaia di chilometri sotto il sole cocente per predicare,
confessare e celebrare l’Eucarestia in posti dove nessun sacerdote aveva messo
mai piede. Per noi, abitanti del sertão, è stato un sacerdote santo e
capace di miracoli e accorrevamo da ogni parte per ascoltarlo, confessarci e
mettere a posto la coscienza.

E tu come ti collocasti in questa realtà?

Considerando la violenza imperante ai miei tempi in quella zona,
ebbi l’idea di creare una comunità in cui si vivesse radicalmente l’ideale
evangelico, cominciai così ad accogliere gli ex schiavi (circa l’80% della
comunità) e gli indigeni sbandati.

 

Ma c’erano anche bianchi nella tua comunità?

Certamente. C’erano marinai che si erano ammutinati sulle loro
navi, in fuga dalla dura disciplina che regnava a bordo e che, una volta a
terra, avevano trovato rifugio nel sertão. Così c’era anche chi, avendo
problemi con la legge, non poteva più rimanere nelle città e si rifugiava
nell’interno disabitato, nella caatinga autentico cuore del sertão
(caatinga, lett. foresta grigia, è l’unico bioma esclusivamente
brasiliano e si trova solo negli stati del Nordeste, ndr). Erano tutti
accomunati da uno stato di povertà e di esclusione sociale. Non per questo
erano tutti pacifici e inermi. Tra loro c’era anche gente dura, abituata a
combattere per sopravvivere.

Dal 1877 il Nordeste fu colpito da una
delle sue tipiche devastanti siccità aggravando gli effetti di una crisi
economica e sociale già molto grave.

Si, migliaia di persone (banditi, flagellanti, miserabili senza
terra) vagavano affamate senza alcun aiuto dal governo, contando solo
sull’aiuto divino. Ma la miseria è una pessima consigliera, così molti,
ritenendo che «rubare per ammazzare la fame» non fosse peccato, assaltavano le
grandi fazendas e i piccoli proprietari.

In più, a partire dal 1888, quando in Brasile fu ufficialmente
abolita la schiavitù, molti ex schiavi, tutti di origine africana, si
ritrovarono allo sbando senza nessuna risorsa e, quel che è peggio, senza una
terra su cui vivere.

Vedendo questa gente vagabondare senza meta nel sertão,
cominciai a radunarla in un nuovo piccolo villaggio chiamato appunto Canudos,
in un territorio disabitato, dove ognuno riceveva un pezzo di terra da
coltivare e metteva poi a disposizione dell’intera collettività i prodotti
ricavati dal suo lavoro. Ciò permetteva loro di guardare con speranza al
futuro.

 

Canudos divenne quindi un punto di
riferimento importante per molti disperati.

Alla fine del 1800, Canudos poteva contare su un totale di circa
30mila abitanti. Il movimento popolare che avevamo avviato ispirandoci al
Vangelo, crebbe rigogliosamente. Eravamo ben organizzati, quasi una «comune»
religiosa. Canudos era diventata la seconda città della Bahia, dopo Salvador.
Le autorità politiche e anche religiose, però, cominciarono ben presto a
preoccuparsi di una presenza così scomoda e autonoma che di fatto non
riconosceva il governo centrale, non pagava le tasse, si autogestiva
collettivamente e aveva leggi proprie.

Erano gli anni in cui il Brasile si era
appena staccato definitivamente dalla monarchia portoghese per diventare una
Repubblica a tutti gli effetti.

Il Brasile era diventato indipendente dal Portogallo nel 1822 e si
era dato una monarchia costituzionale, ma l’imperatore Pietro II era della
stessa famiglia del monarca del Portogallo. Negli anni era cresciuto un forte
movimento repubblicano che aveva contagiato anche l’esercito, il quale nel 1889
depose l’imperatore con un golpe militare. C’era quindi, in quegli anni, un
clima politico sociale caratterizzato da una cronica instabilità istituzionale,
la nuova Repubblica cercava di rafforzarsi e Canudos era fuori dal sistema,
anzi a qualcuno sembrava una roccaforte di restaurazione monarchica.

Tu, Antonio, eri favorevole alla nuova
Repubblica o eri un nostalgico dell’impero?

Fuori dal mondo come eravamo là nel sertão, la questione
non ci toccava molto. Non avevo certo molte simpatie per i repubblicani i quali
avevano separato – per me in un modo anticristiano – Chiesa e Stato, ma non ho
mai pensato di fomentare una restaurazione. Purtroppo è anche vero che la
Repubblica non fece molto per farsi amare dai poveri, anche se erano stati i
repubblicani a far abolire la schiavitù. Ma gli ex schiavi erano stati
abbandonati a se stessi e uno dei primi atti della Repubblica era stato un
pesante aumento delle tasse sia sulla terra che su tutti i prodotti. E, come al
solito, chi ci rimetteva di più erano i più poveri, non i ricchi.

 

Il tuo progetto poteva sembrare a molti la
realizzazione di un sogno, ma le autorità brasiliane non erano certamente
disposte a lasciare una zona franca nel bel mezzo del
sertão.

Purtroppo era cosi! Accusandoci di essere ribelli e monarchici,
tra il 1896 e il 1897 mandarono ben quattro spedizioni militari contro di noi.
La resistenza di Canudos fu straordinaria. C’è da dire che, oltre al coraggio
della comunità, potevamo contare su uomini valorosi dall’invidiabile acume
tattico e una profonda conoscenza della natura aspra e impervia del sertão
nel quale i soldati, provenienti dalle città della costa, erano impreparati a
sopravvivere. Respingemmo facilmente le prime due spedizioni e anche la terza,
ma con perdite pesantissime.

Ma il vostro desiderio di vivere in pace e
armonia, liberi da ogni legge eccetto quella di Dio, non poteva durare…

Sì, e in più l’esercito repubblicano si era sentito umiliato da
straccioni come noi. Così l’ultima spedizione fu organizzata con molta cura
dallo stesso ministro della guerra, il maresciallo Carlos Machado Bittencourt.
Furono messi in campo circa 4.000 soldati con le armi più modee del tempo.
L’attacco cominciò a settembre. La mia gente era provata da fame e
denutrizione, male armata, senza scorta di munizioni e demoralizzata dalla mia
morte avvenuta il 22 settembre 1897 a seguito di molti giorni di penitenza,
preghiera e digiuno per la pace. Dopo un terrificante bombardamento durato
diversi giorni che incendiò le case e rase al suolo Canudos, la maggioranza dei
superstiti si arrese il 5 ottobre, ma i soldati sterminarono ugualmente uomini,
donne e bambini tra terribili violenze. Di circa 30mila persone della comunità,
ufficialmente ci furono solo 150 superstiti. Di essi le donne giovani furono
vendute nei bordelli di Bahia. Il mio corpo fu riesumato e la mia testa
tagliata e fatta esaminare dagli scienziati per provare che ero stato un matto
fanatico. Messa poi nel Museo della Scuola di Medicina di Salvador, un
incendio, più pietoso degli uomini, la consumò nel 1905.

 

L’unica relazione sulla «guerra di Canudos» ci è pervenuta tramite
gli scritti di Euclides da Cunha, corrispondente del giornale O Estado de São
Paulo
, che era stato inviato nel sertão brasiliano al seguito dell’esercito
(embedded, si direbbe oggi). Con il passare del tempo i luoghi della
battaglia di Canudos caddero nel dimenticatornio dell’imbarazzo collettivo e la caatinga
ebbe il sopravvento.

Ma la memoria storica dell’esperienza di Antonio Conselheiro e
della sua comunità non è mai scomparsa e si è tramandata nei racconti della
gente semplice e umile del sertão fino a quando è stata recuperata tra
le pieghe della storia e le è stata ridata la sua importanza, grazie anche a
libri e film (purtroppo non tradotti in italiano, ndr). Si può dire che
lo spirito di Canudos scorre ancora oggi come un fiume carsico sotto la crosta
dura e solida dell’arida terra del sertão, dove i nordestini imparano
fin dalla nascita che devono misurarsi con le asprezze della natura e con i
cataclismi sociali che i potenti di tuo ciclicamente rovesciano loro addosso.
Questa gente speciale ha bisogno di esempi di libertà e figure eccezionali per
continuare a sperare, Canudos e Antonio Conselheiro proprio per l’ansia di
libertà che incarnano, indicano ancora oggi la strada da percorrere.

Don Mario Bandera,
 Missio Novara

Mario Bandera




Amico

 

Hai
lottato con tutte le tue forze e risorse. Non eri solo, ma non avevi con te
niente che ti desse sicurezza, nessun rifugio, nessuna ricetta magica. Eri
esposto alla contingenza vertiginosa della vita, all’assenza di garanzia. Hai
scacciato demoni di ogni tipo: strambi, spaventosi, insensati. Hai unto di olio
molti infermi, e li guarivi con lo stupore di avere ricevuto davvero
potere sugli spiriti immondi. Hai incontrato molti che desideravano rinascere,
e molti altri che invece rifiutavano (cfr. Mc 6, 7-13.30-34).

Hai fatto molto, e vorresti fare
ancora. Ma vieni ora. Vieni con me. In disparte, in un luogo deserto. Riposati
un po’. Qui non hai più nemmeno il tempo per nutrirti, per introdurre in te la
luce necessaria a trovare la guarigione che vi ho posto.

Vieni in un luogo solitario. Sali
su questa piccola barca, e attraversiamo le acque profonde del tuo mare
solcandone con calma la superficie. Non temere: questo pezzo di legno, per
quanto precario, ti proteggerà dall’abisso, perché Io sono con te. Tu starai
con me e potrai osservare su quali creature splendide e lucenti sei sospeso, ma
anche su quali mostri spaventosi e su quale mistero irriducibile ti muovi.

Lo so che tu desideri arrivare
dall’altra parte e trovare riposo sull’altra sponda, distante da queste acque.
Temi di venie inghiottito, di perderti in esse. Ma non puoi riposare di là:
appena sbarcato troverai molte cose nuove da fare. Molte pecore senza pastore.
Troverai innumerevoli incrinature nell’architettura del mondo che ti
chiederanno di essere accolte, un po’ raddrizzate forse, giusto il minimo per
evitare il crollo dell’edificio, ma tant’è: sarai di nuovo preso dalla lotta.

Lo so che vorresti attraversare
il mare in fretta, ma il tuo deserto e il tuo riposo non sono là.

È qua, su questa barchetta al
pelo dell’acqua, il deserto.

È in quel «vieni», in quello «stai
con me», il tuo riposo.

Quando sbarcheremo, allora sarai
pronto per «dare loro da mangiare».

amico.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




TTIP, sogno  o incubo?

Qualcuno ne parla
come di una «Nato economica», pensata per rafforzare le relazioni commerciali
nel blocco Usa-Ue, che da solo conta 850 milioni di persone e rappresenta il
40% del Pil mondiale. Altri lo dipingono come il peggiore dei mali:
consegnerebbe le nostre economie alle multinazionali e cancellerebbe anni di
lotte per i diritti di consumatori e lavoratori. A che punto siamo e che cosa
sappiamo sul Ttip, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli
investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership).

«Con il Ttip vogliamo aiutare i cittadini e le imprese, grandi e piccole,
attraverso le seguenti azioni: apertura degli Usa alle imprese dell’Ue;
riduzione degli oneri amministrativi per le imprese esportatrici; definizione
di norme per rendere più agevole ed equo esportare, importare e investire». Così
la Commissione Europea, nella guida Il Ttip visto da vicino, riassume
gli obiettivi dell’accordo che dal 2013 è oggetto delle negoziazioni fra la
stessa Commissione e il governo statunitense. Si tratterebbe, in sostanza, non
solo di eliminare i dazi doganali, che peraltro sono già molto ridotti (circa
al 3%) per la maggior parte dei beni, ma soprattutto di ridurre le cosiddette
barriere non tariffarie, cioè tutto quell’insieme di norme, standard e
regolamenti che di fatto impediscono l’ingresso delle merci in un mercato. Ma
la riduzione di tali barriere avrebbe conseguenze devastanti, controbattono i
detrattori del Ttip. Un esempio? È grazie agli standard Ue, più elevati
rispetto a quelli Usa, che la carne dei bovini americani, allevati con ormoni,
non ha potuto, fino a ora, arrivare sulle tavole europee. Tale uso, infatti, è
consentito negli Usa e vietato in Europa. Lo stesso vale poi per gli organismi
geneticamente modificati e per i prodotti alimentari trattati con pesticidi
banditi nel vecchio continente ma non negli Stati Uniti (se ne contano ben 82).

Altro tema caldo del trattato è il meccanismo di
arbitrato internazionale per risolvere eventuali controversie in materia di
investimenti, il cosiddetto Isds, Investor-State Dispute Settlement, che
prevede il ricorso a un tribunale indipendente nel quale gli arbitri – si legge
sul sito del Parlamento europeo – non sono giudici a tempo pieno, ma avvocati
specializzati in diritto commerciale. Per capire come funziona in concreto
l’Isds, basti pensare ai due casi «Vattenfall contro Germania». Nel primo caso,
la Vattenfall, azienda svedese del settore energetico e costruttrice della
centrale a carbone di Amburgo, fece ricorso contro i parametri che la città
tedesca nel 2009 voleva imporre per legge allo scopo di migliorare la qualità
delle acque che la centrale a carbone della compagnia svedese riversava nel
fiume Elba. Nel secondo caso, il ricorso della Vattenfall fu invece contro
l’abbandono del nucleare deciso dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nel
2011 dopo il disastro di Fukushima: l’azienda svedese gestiva infatti due
centrali atomiche nel Nord del paese. In entrambi i casi il colosso svedese
sostenne che le decisioni tedesche generavano aumenti dei costi o perdite, in
violazione del Trattato energetico europeo, che protegge gli
investimenti nel settore energetico, e chiese compensazioni per 1,4 miliardi di
Euro nel primo caso e per 3,7 nel secondo.

 

Tutto in gran segreto

Prima ancora che il Ttip nei suoi contenuti, comunque, a
scatenare la polemica è stata la segretezza delle trattative, affidate a un
gruppo di negoziatori guidati, per l’Ue, dallo spagnolo Ignacio Garcia Bercero,
capo della Direzione Generale del Commercio e, per gli Stati Uniti, da Dan
Mullaney, rappresentante commerciale aggiunto degli Usa per l’Europa e il Medio
Oriente. Dal luglio 2013 al luglio 2015 si sono svolti dieci round di
negoziati, ma i dettagli dell’accordo sono rimasti per lo più segreti. In più,
quando la Commissione ha deciso, lo scorso gennaio, di rendere pubblica una
parte dei documenti, lo ha fatto in modo ambiguo: lo scorso agosto, infatti, il
giornale britannico The Independent, rivelava che ai parlamentari
europei è possibile prendere visione dei documenti riservati solo in
un’apposita sala di lettura sorvegliata, alla quale non si può accedere con
dispositivi elettronici come cellulari e tablet. La vicenda ha anche assunto
contorni da spy story quando Wikileaks ha messo una sorta di taglia
sul Ttip, lanciando una raccolta fondi per centomila euro da consegnare come
premio a chi sia in grado di fornire informazioni e documenti segreti
riguardanti i negoziati.

Il dato certo, per il momento, è che c’è un vero e
proprio abisso fra gli scenari inquietanti di «macdonaldizzazione» dell’Europa
tratteggiati dai movimenti contrari, come la campagna Stop-Ttip, e le
rassicuranti e un po’ asettiche infografiche della Commissione europea che
cercano di smontare i «falsi miti sul trattato».

 

I numeri del Ttip

Secondo uno studio indipendente citato dalla
Commissione, il Ttip dovrebbe portare un incremento annuo di 120 miliardi di
euro all’economia europea e di 95 miliardi a quella statunitense entro il 2027,
facendo espandere di mezzo punto percentuale il Pil del vecchio continente e
dello 0,4% quello a stelle e strisce. Per le famiglie europee tutto questo si
tradurrebbe in un guadagno di cinquecento euro all’anno.

Le esportazioni dall’Europa agli Usa aumenterebbero di
quasi un terzo per un totale di 187 miliardi di euro. I benefici, continua lo
studio, interesserebbero quasi tutti i beni e servizi, ma toccherebbero in
particolare i settori del metallo, dei cibi lavorati, dei prodotti chimici, e
dei mezzi e attrezzature di trasporto. A vivere un vero e proprio boom sarebbe
il settore automobilistico: l’export di veicoli europei crescerebbe infatti del
149%. Si creerebbero quindi decine di migliaia di nuovi posti di lavoro su
entrambe le sponde dell’Atlantico, e le ricadute sul commercio planetario
indurrebbero un incremento del Pil mondiale di ulteriori cento miliardi di euro.

Un’occasione da non perdere, insistono i promotori
dell’accordo, forti dei numeri riportati nello studio.

 

Che cosa dicono i critici

Lo studio citato dalla Commissione è tutto meno che
indipendente, oppongono i detrattori: il suo autore è, infatti, il britannico
Cepr, Centre for Economic Policy Research, che dedica una pagina del suo
sito web ai ringraziamenti nei confronti dei suoi finanziatori, fra i quali
figurano tutte le banche centrali europee e i colossi bancari mondiali, da
Citibank e JP Morgan alle italiane Intesa San Paolo e Unicredit.

E questo è ancora il meno: la Commissione, infatti,
sostiene che a beneficiare del Ttip saranno in primis i cittadini
europei, ma allora – si chiede il centro di ricerca canadese Global Research
– perché nei 597 incontri a porte chiuse con le parti interessate, la
Commissione si è confrontata nell’88% dei casi con i lobbisti del mondo del
business, e solo nel 9% dei casi con gruppi che si occupano di temi di pubblico
interesse come l’ambiente o i diritti dei consumatori e dei lavoratori? E, se
il Ttip ha come obiettivo di aiutare «le imprese, grandi e piccole», perché la Direzione
generale Ue del Commercio
, fra il 2012 e il 2014 – cioè nelle fasi preparatorie
e nei primi cicli di negoziati – ha avuto la stragrande maggioranza degli
incontri con sei raggruppamenti di lobby fra cui Efpia (European Federation
of Pharmaceutical Industries and Associations
– Federazione europea di
Industrie e associazioni farmaceutiche), che rappresenta, fra gli altri,
GlaxoSmithKline, Pfizer, Novartis, Sanofi e Roche, e FoodDrinkEurope, il più
grande gruppo di pressione dell’industria alimentare europea, che dà voce agli
interessi di Nestlé, Coca Cola e Unilever? Dal canto loro, le associazioni di
categoria come l’Unione europea dell’artigianato e delle piccole e medie
imprese
(Uapme) – di cui fanno parte, ad esempio, Confartigianato e Cna –
vedono di buon occhio il trattato ma insistono sulla necessità di salvaguardare
gli standard di qualità europei e di essere maggiormente coinvolte nel processo
negoziale.

I segnali preoccupanti riguardanti il grande peso dei
poteri forti, in effetti, non mancano, se è vero – come riporta il quotidiano
inglese
The Guardian – che all’inizio di quest’anno alcuni
alti funzionari Ue avrebbero insabbiato uno studio che avrebbe contribuito a
identificare e mettere al bando trentuno pesticidi contenenti sostanze che
alterano la funzionalità del sistema endocrino. L’insabbiamento sarebbe avvenuto
in seguito a pressioni esercitate da funzionari del commercio statunitensi, e
anche da colossi della chimica come Bayer e Basf. Questo nonostante diversi
studi scientifici associno le sostanze contenute in quei pesticidi a un aumento
delle mutazioni genitali, dell’infertilità maschile, delle anomalie del feto e
della riduzione del quoziente intellettivo, e stimino in 150 miliardi di euro i
costi sanitari connessi ai danni provocati.

 

Le raccomandazioni del Parlamento europeo

In questa ridda di voci, fughe di notizie, smentite e
precisazioni, un punto fermo che chiarisce almeno un po’ che cosa c’è sui
tavoli negoziali, è la risoluzione adottata lo scorso 8 luglio dal Parlamento
europeo
. Essa contiene una serie di raccomandazioni, tra cui una
riguardante il meccanismo dell’arbitrato internazionale che propone un sistema
alternativo nel quale «i possibili casi siano trattati in modo trasparente da
giudici togati, nominati pubblicamente e indipendenti durante udienze pubbliche».

Vi è poi la richiesta dell’europarlamento ai negoziatori
di escludere dal trattato ambiti nei quali le legislazioni Ue e Usa sono molto
diverse: «I servizi sanitari pubblici, gli Ogm, l’impiego di ormoni nel settore
bovino, il regolamento Reach [relativo alle sostanze chimiche, ndr]
e la sua attuazione, e la clonazione degli animali a scopo di allevamento».
Altre raccomandazioni riguardano la protezione dei dati personali dei cittadini
europei, la tutela delle indicazioni geografiche, la garanzia della
tracciabilità ed etichettatura, il rispetto della normativa sul lavoro. I
critici del Ttip hanno accolto con disappunto anche questa risoluzione perché
colpevole, a loro dire, di essere troppo vaga e di costituire di fatto un
avallo al trattato.

«Se il Ttip sarà un accordo misto (cioè con competenze
condivise fra Unione europea e Stati membri, ndr)», ha dichiarato il
presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, «e ne sono certo, i Parlamenti
nazionali e quello europeo dovranno sottoporlo ad attenta verifica, secondo il
proprio ordinamento». Il commissario europeo per il commercio, Cecilia Malmström,
ha affermato che l’impegno è quello di concludere entro il 2015: l’anno
prossimo infatti terminerà il secondo mandato di Barack Obama e gli Stati Uniti
avranno una nuova amministrazione che potrebbe ridefinire le priorità
statunitensi. In più

Washington sta negoziando anche un secondo trattato, il
Tpp, con undici Stati del Pacifico.

 

I risvolti per i paesi in via di sviluppo

Gli analisti concordano nel dire che attualmente è
ancora presto per immaginare quali potranno essere le ripercussioni
dell’eventuale accordo Usa-Ue per i paesi in via di sviluppo. Tuttavia, alcune
considerazioni preliminari sono emerse, anche di segno positivo: ad esempio
quelle che sottolineano come l’esistenza di un blocco nordatlantico con regole
unificate permetterebbe ai produttori dei paesi terzi di adeguare i loro
prodotti a un solo standard per l’esportazione verso Europa e Stati Uniti, e
non più a due, con un possibile calo dei costi di produzione.

Ma c’è anche chi è più cauto e invita a fare studi più
approfonditi: lo scorso febbraio, la commissione sviluppo del Parlamento
europeo chiedeva ai negoziatori di Bruxelles di considerare il rischio di una «possibile
deviazione degli scambi e degli investimenti per alcuni paesi in via di
sviluppo». Il direttore di Oxfam Germania, Marion Lieser, chiarisce il punto: «Se
l’Unione europea e gli Stati Uniti aprono ulteriormente i loro mercati, le
importazioni da paesi terzi, fra cui quelli in via di sviluppo, potrebbero diminuire.
Prendiamo il caso della Florida, stato della costa orientale statunitense
produttore di frutta esotica: se aumentasse il flusso di questi prodotti dalla
Florida verso l’Europa è plausibile che simili frutti provenienti dai paesi in
via di sviluppo perdano parte della loro quota di mercato». Solo a negoziati
conclusi sarà possibile azzardare previsioni più precise.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




I Perdenti 7. San Tommaso Moro


Tommaso Moro nacque il 7 febbraio 1477 (o 1478) a Londra da una famiglia benestante, il padre era giudice. In gioventù si dedicò agli studi giuridici, diventando avvocato. Sposatosi nel 1505, ebbe quattro figli. Pur avendo un ruolo istituzionale di rilievo, condusse una vita ascetica in stile francescano. Rimasto vedovo nel 1511, si risposò quasi subito, accogliendo in casa la figlia della nuova sposa e, cosa nuova per quei tempi, volle che le figlie ricevessero la stessa alta educazione dei figli, dando un esempio alle famiglie nobili del tempo.

Nel 1504 entrò alla Camera dei Comuni, ricoprendo incarichi sempre più importanti e diventando sempre più conosciuto per le sue capacità e la sua integrità. Segretario personale e consigliere del re Enrico VIII, seguì il cardinale Thomas Wolsey (1471-1530), dal 1515 Cancelliere del Regno, in diverse missioni diplomatiche in Europa per favorire la pace tra i vicini litigiosi come il re di Francia e l’imperatore di Spagna e Germania e per sostenere il papa alle prese con la nascita e lo sviluppo del protestantesimo luterano. Fu eletto Speaker nel 4° parlamento convocato da Enrico VIII nel 1523. Nel 1529, caduto in disgrazia Wosley, Moro venne nominato Lord Cancelliere del Regno d’Inghilterra. Durante questo periodo usò tutta la sua autorità per fermare la diffusione del protestantesimo luterano. Ma dopo solo tre anni, nel 1532, restituì al re l’incarico e il sigillo di Cancelliere adducendo motivi di salute.

In realtà aveva maturato un insanabile disaccordo con Enrico VIII circa la gestione dell’annullamento del matrimonio con la regina Caterina d’Aragona, per sposare Anna Bolena. Fedele e devoto cattolico, non concordava con le misure che il re andava prendendo per escludere ogni influenza del papa nella vita e organizzazione della Chiesa inglese. Nel 1533 si rifiutò di partecipare all’incoronazione di Anna Bolena come regina d’Inghilterra, facendo aumentare l’ostilità nei suoi confronti. Difesosi con successo da diverse accuse di tradimento e corruzione, il 13 aprile 1535 gli fu richiesto di giurare fedeltà all’Atto di Successione (che riconosceva Anna come legittima regina d’Inghilterra). Si rifiutò però di accettare un secondo documento a esso connesso: l’Atto di Supremazia che nominava il re capo supremo della Chiesa d’Inghilterra disconoscendo il primato del papa su tutta la Chiesa. Quattro giorni dopo fu incarcerato nella Torre di Londra con l’accusa di tradimento. Durante la sua detenzione fu interrogato più volte ma non cedette né alle lusinghe né alle minacce. Il primo giorno di luglio venne condannato a morte per «avere parlato del re in modo malizioso… e diabolico» e il 6 luglio dello stesso anno fu decapitato.

Tommaso, tu sei stato una delle persone più in vista del tuo tempo, noto in tutta Europa sia come statista che come uomo di cultura, polemista e strenuo sostenitore della Chiesa e del Papato. Dal tuo ritratto più famoso sembri anche un tipo arcigno. è proprio così?

Macché. La mia fede mi dava una grande pace e serenità interiore. Ero un uomo dallo spiccato senso dell’humor e non lo perdevo neanche nelle situazioni più scabrose.

Ma l’humor non è una caratteristica di tutti i sudditi di sua maestà?

Magari fosse così! Purtroppo, anche ai miei tempi c’era gente dal brutto carattere, arcigna e irascibile che non sorrideva mai e spesso e volentieri perdeva le staffe.

Ti riferisci forse a Enrico VIII, che quando veniva contraddetto, andava subito in “ebollizione”?

Enrico era un uomo intelligente, ma passionale, impetuoso e impaziente. A lui ho dedicato molto del mio impegno politico, prima come membro del Parlamento inglese, poi come segretario personale del re, vicesceriffo della città di Londra, cancelliere del ducato di Lancaster, Speaker del Parlamento e infine come Gran Cancelliere del Regno, cercando di moderare le sue intemperanze e di aiutarlo a prendere decisioni che fossero per il vero bene del paese.

Prima di addentrarci in quella che è stata la causa della tua condanna, parlarci un po’ di te…

Venni al mondo il 7 febbraio 1477 da una famiglia non nobile della piccola borghesia londinese. A tredici anni fui mandato a fare il paggio di John Morton, cancelliere del Re d’Inghilterra e futuro cardinale. Quindi proseguii i miei studi in campo giuridico, diventando un avvocato. Frequentando l’ambiente universitario ebbi modo di conoscere una delle personalità più in vista dell’Europa del mio tempo: Erasmo da Rotterdam (1466-1536, teologo, umanista e filosofo olandese, ndr).

Fu in quel periodo, in cui eri ritenuto unanimemente una delle menti più brillanti del mondo accademico inglese, che scrivesti L’Utopia, l’opera per la quale ancora oggi sei conosciuto e considerato con rispetto in campo filosofico, oltre politico?

Attraverso il mio romanzo «Utopia» volevo esprimere ciò che era il sogno di tutti gli intellettuali del Rinascimento europeo, descrivendo una società segnata dalla correttezza di relazioni fra le persone che vi abitano, in cui è la cultura a dominare e regolare la vita degli uomini. In un certo qual modo volevo ri-esprimere con un linguaggio adatto ai miei tempi quello che Platone aveva scritto nella sua opera «La Repubblica» in cui parlava esplicitamente di una città ideale. L’ispirazione di quest’opera, molto apprezzata nelle varie università, mi venne lavorando con Erasmo da Rotterdam alla traduzione dal greco al latino di alcuni scritti di Luciano di Samosata (120-190 ca.).

Tra te ed Erasmo nacque anche un rapporto di stima e di affetto reciproco.

Con Erasmo rimasi sempre legato da una profonda amicizia, tant’è vero che in una lettera mi descrisse come un «credente ardentemente ansioso di verace religiosità, agli antipodi di ogni forma di superstizione», e anche quando fui imprigionato le sue lettere furono un fermo incoraggiamento e una profonda consolazione.

Ma oltre a Erasmo anche i tuoi familiari ti furono sempre accanto…

La mia prima moglie Jean Colt mi diede quattro figli: Margaret, Elisabeth, Cecily e John. Purtroppo la mia cara Jean morì a soli 23 anni, io rimasi con quattro bambini da accudire, per questo mi risposai dopo pochi mesi con Alice Middleton, anch’essa vedova che portava con se una figlia grandicella. Le mie spose e i miei figli furono sempre un rifugio caldo e accogliente in ogni stagione della mia vita, in modo particolare quando mi trovai imprigionato nella Torre di Londra.

Nonostante i tuoi molti meriti nell’amministrazione dello stato e nella gestione dei rapporti interazionali del tuo paese, il re entrò in contrasto con te sulla questione dell’annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena.

Il fatto che Caterina d’Aragona fosse la zia di Carlo V, re e imperatore di Spagna (sul cui impero «non tramontava mai il sole»), creava già per sé complicazioni interazionali. Però quel matrimonio era stato celebrato rispettando tutte le leggi della Chiesa, con documenti stilati con cura dai più competenti giuristi del tempo. Era quindi valido a tutti gli effetti e pressoché impossibile da sciogliere.

Ma la passione acceca l’animo degli uomini e in questo i re non sono da meno dei comuni mortali…

Vero. Però se la passione aveva la sua parte, la ragione principale era un’altra: il re voleva a tutti i costi un erede maschio, mentre tutti i figli di Caterina erano morti appena dopo il parto e solo Maria (che sarebbe diventata poi regina) era sopravvissuta. Per questo Enrico VIII volle l’annullamento del matrimonio con Caterina per sposare Anna Bolena. Dopo di lei ebbe altre quattro mogli. Delle sei, da due divorziò, una morì nel 1537 dopo il parto dell’unico figlio maschio del re (il futuro Edoardo VI), una gli sopravvisse e due furono decapitate per ordine suo. Una di queste fu proprio Anna Bolena, che pur avendogli dato una figlia – la futura Elisabetta I -, fu accusata di adulterio, incesto e stregoneria, e decapitata il 19 maggio 1536.

Il papa fu irremovibile nel rifiuto dell’annullamento del primo matrimonio e la conseguenza fu che il Regno d’Inghilterra si staccò completamente dalla Chiesa Cattolica.

E pensare che papa Leone X l’11 ottobre 1521 aveva conferito a Enrico VIII, primo monarca europeo a riceverlo, il titolo di Defensor fidei (difensore della fede) come riconoscimento al libro che il re aveva scritto: «Difesa dei sette sacramenti», un’opera a sostegno soprattutto del sacramento del matrimonio e della supremazia del papa. Quell’opera fu vista come un importante attacco contro la nascente Riforma protestante, e specialmente contro le idee di Martin Lutero. A seguito della decisione di Enrico VIII di rompere i rapporti con la Chiesa cattolica e di fondare la Chiesa d’Inghilterra, papa Paolo III revocò il titolo e scomunicò il re.

Come reagisti quando nel 1532, ricattando il clero inglese, Enrico VIII si fece proclamare «unico protettore e capo supremo della Chiesa Anglicana»?

Come laico non ero tenuto a giurare su quel documento, ma, non condividendolo, il giorno dopo restituii al sovrano il sigillo – segno della mia carica di Cancelliere – e mi ritirai a vita privata, preparandomi ad affrontare una dura povertà in quanto perdevo ogni stipendio dalla Corte e ogni altro introito professionale, e non avevo risparmi, avendo dato tutto ai poveri e badato al sostentamento della mia numerosa famiglia.

Con che animo, quando Anna Bolena il 1° giugno del 1533 venne incoronata regina a Westminster, partecipasti alla celebrazione?

Io quel giorno mi astenni dal partecipare alla cerimonia, rimasi a casa con la mia famiglia adducendo motivi di salute. Così facendo mi attirai le ire della nuova regina, la quale, neanche troppo velatamente tramò perché io fossi sempre più emarginato.

Il re non ti diede scampo e ti invitò a prendere una posizione netta e ufficiale sulla questione.

C’erano tre punti che avrei dovuto accettare con un giuramento: che il matrimonio tra Caterina e il re Enrico VIII era nullo e quindi mai esistito; che Anna Bolena era la legittima regina di Inghilterra; e che il re aveva la supremazia sulla Chiesa d’Inghilterra non solo per le materie temporali ma anche quelle spirituali. Riconobbi che il Parlamento aveva il diritto di dichiarare Anna regina di Inghilterra, ma rifiutai categoricamente di accettare come valido l’annullamento del matrimonio con Caterina e soprattutto non feci il giuramento con il quale avrei dovuto riconoscere l’Atto di supremazia del re sul papa anche in materia di religione. Fui l’unico laico in tutta l’Inghilterra a rifiutare tale giuramento. Del clero rifiutarono soltanto il vescovo John Fischer e alcuni monaci certosini, che vennero anch’essi giustiziati.

Possiamo dire che i contrasti che hai avuto con il Re erano dei problemi di coscienza?

Mano a mano che procedeva il dialogo a distanza con il Re e con i suoi funzionari incaricati di convincermi a firmare, mi rendevo sempre più conto che era mio preciso dovere, come credente, rivendicare il primato della coscienza per cui ognuno deve scegliere tra l’osservanza della legge di Dio e quella degli uomini.

Quando fosti interrogato nella Torre di Londra, ti torturarono?

Torture fisiche no, ma ero sempre alla presenza di diverse persone, giudici agguerriti che cercavano in ogni modo di cogliermi in fallo. Nel corso di quattro drammatici interrogatori, tenni testa con pacata fermezza alle minacce e blandizie dei giuristi asserviti al monarca. Ma alla fine fui condannato a morte: «per avere parlato del Re in modo malizioso… e diabolico».

È vero che non perdesti il tuo senso dell’umorismo neanche negli ultimi istanti della tua vita?

Mentre salivo gli scalini che mi portavano al patibolo inciampai e caddi, dissi al boia: «Per favore mi aiuti a salire, a scendere non ce ne sarà più bisogno».

La condanna a morte e l’esecuzione di Tommaso Moro fu recepita come un fatto clamoroso da tutte le Corti europee. La notizia attraversò come un lampo tutto il vecchio Continente e la devozione verso questo integerrimo servitore dello stato e della Chiesa ebbe subito inizio.

Leone XIII lo proclamò Beato nel 1886 e Pio XI lo fece Santo il 19 maggio 1935. Nel 1980 la Chiesa Anglicana d’Inghilterra ha aggiunto Tommaso Moro e l’arcivescovo John Fisher alla lista dei «Martiri ed eroi della Riforma» e ne celebra la festa il 6 luglio. Il 31 ottobre del 2000, Giovanni Paolo II lo ha nominato protettore di tutti i politici e amministratori pubblici. Con la sua vita, e con la sua morte, Tommaso Moro ci ricorda che c’è ancora qualcosa o Qualcuno per cui valga la pena di accettare il martirio. Aveva tratto dalla sua fede e dall’entusiasmo umanistico del suo tempo, il desiderio di essere un vero uomo, totalmente uomo. Ma un giorno comprese che ci sono situazioni in cui un cristiano, proprio per essere pienamente «uomo», deve consegnare a Cristo tutta la sua umanità; situazioni in cui c’è posto solo per questa alternativa: o la disumanità, o l’Umanità del Risorto. O osservare le leggi dello stato o seguire la propria coscienza. La sua scelta è un esempio ancora oggi per tutti coloro che vogliono vivere con coerenza la propria fede.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 

Preghiera del buonumore

Dammi o Signore, una buona digestione
ed anche qualcosa da digerire.
Dammi la salute del corpo,
col buonumore necessario per mantenerla.
Dammi o Signore, un’anima santa,
che faccia tesoro
di quello che è buono e puro,
affinché non si spaventi del peccato,
ma trovi alla Tua presenza
la via per rimettere di nuovo
le cose a posto.
Dammi un’anima che non conosca la noia,
i brontolamenti, i sospiri e i lamenti,
e non permettere
che io mi crucci eccessivamente
per quella cosa troppo invadente
che si chiama «io».
Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo,
concedimi la grazia
di comprendere uno scherzo,
affinché conosca nella vita un po’ di gioia
e possa farne parte anche ad altri.

San Tommaso Moro

 

Mario Bandera

 

 




Moringa, l’albero contro la fame

La moringa oleifera è
una pianta nativa dell’Himalaya e diffusa specialmente in India ma molto
presente anche nel resto dell’Asia e in Africa. È oggetto di attenzione
crescente per il suo alto valore nutrizionale. Vi proponiamo un excursus sullo
stato delle conoscenze a proposito di questa pianta e sul ruolo che potrebbe
avere nella lotta alla malnutrizione.

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«Questa pianta potrebbe da sola risolvere metà dei problemi nutrizionali del paese. Anzi, dell’Africa». Non aveva dubbi padre Julius Gichure Mwangi, quando a Cuamba, Mozambico, nel luglio 2014, facendomi visitare il centro nutrizionale gestito dai missionari della Consolata, indicava le piccole tondeggianti foglie verde brillante che tremolavano sui rami di un albero accarezzato dal venticello dell’inverno australe. «Il fatto è che la gente non sempre lo sa: qui nel Niassa, ad esempio, la usano come ultima risorsa, quando non hanno più carne o pesce o altre cose più saporite con cui accompagnare la chima (polenta di manioca o di mais diffusa in tutta l’Africa con diversi nomi che vanno da fufù a ugali a, appunto, chima o shima, ndr). Per questo va benissimo monitorare il peso dei bambini e distribuire cibo, ma altrettanto importante è formare le mamme, informarle su che cosa è meglio che mangino. Contro la malnutrizione hanno un’arma potente che cresce spontaneamente dietro casa e magari nemmeno la conoscono».

Le foglioline verdi, i rami e l’albero a cui sono attaccati vanno sotto il nome botanico di moringa oleifera e mai come negli ultimi anni si è parlato di questa pianta, che è presente sul pianeta in una decina di specie oltre alla oleifera. Sul sito della Fao, che l’ha nominata coltivazione del mese nel settembre 2014, si legge che «la moringa è una coltura importante in India, Etiopia, Filippine e Sudan» e diverse specie della pianta sono coltivate in quasi tutta l’Africa, l’Asia tropicale, l’America Latina, i Caraibi, la Florida e le isole del Pacifico. La moringa oleifera è la specie dal valore economico più elevato. In Africa anglofona è spesso chiamata drumstick tree, «albero delle bacchette da tamburo», per via della forma allungata dei baccelli che ne contengono i semi, mentre in Asia è nota come malunggay.

Ma vediamo nel dettaglio quello che sappiamo per certo e quello che ancora è da verificare circa i benefici di questa pianta.

Che cosa sappiamo sulla moringa

Andreas Ebert del World Vegetable Center, citato dalla rivista Nature, sostiene che la moringa è una delle piante più salutari, sia dal punto di vista nutrizionale che medico.

l Secondo uno studio FAO del 2012 sulla composizione degli alimenti dell’Africa Occidentale, la moringa, a parità di porzioni da cento grammi, ha più potassio della banana, più vitamina C dell’arancia - ne basta mezza porzione per soddisfare il fabbisogno giornaliero di un adulto - quasi tre volte il calcio contenuto in uno yogurt, poco meno delle proteine foite dall’equivalente quantità di uova, più vitamina A e addirittura quattro volte il beta-carotene delle carote. Ha inoltre numerose altre sostanze nutritive, antiossidanti, antinfiammatorie.

l Dalle ricerche effettuate dall’Università di Uppsala (Svezia)è emerso che i semi della moringa sono inoltre efficaci nella purificazione dell’acqua: le proteine dei semi macinati, infatti, si legano meglio di altre sostanze alle particelle contenute nell’acqua, «catturate» e aggregate le quali diventa più semplice ottenere acqua potabile attraverso il filtraggio.

l La polvere di moringa, inoltre, è efficace come detergente per le mani. Uno studio, pubblicato nel 2014 e condotto da ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine, ha dimostrato che quattro grammi di moringa hanno lo stesso effetto del normale sapone nel rimuovere gli E.coli, batteri coliformi responsabili di diverse gastroenteriti e della diarrea che ancora oggi uccide annualmente mezzo milione di bambini sotto i cinque anni.

l Altro aspetto importante dell’uso della moringa oleifera è quello relativo alla produzione di latte vaccino: è molto citata in rete una ricerca effettuata dieci anni fa in Nicaragua da due studiosi austriaci che dimostrerebbe un incremento anche del trenta per cento nel latte prodotto da vacche che abbiano visto inserita nella propria dieta la moringa.

l Ulteriore uso della pianta è quello derivante dai suoi semi: da maturi, contengono fra il trenta e il quaranta percento di olio che può fare da combustibile per lampade. è in fase di approfondimento il suo utilizzo come agrocombustibile per un impiego su più ampia scala. Il valore aggiunto sarebbe che, oltre a fornire olio adatto alla combustione, la moringa è anche una pianta commestibile e dall’alto valore nutrizionale e per questo la sua coltivazione porterebbe benefici sia in termini di sicurezza alimentare che di energia sostenibile. Altre coltivazioni di agrocombustibili, ad esempio la jatropha - che pure aveva conosciuto all’inizio degli anni Duemila un momento di grande popolarità -, hanno al contrario il limite di sottrarre terra e acqua alla produzione di cibo.

 «L’albero dei miracoli», così chiamano la moringa diversi siti web che ne promuovono l’utilizzo e la commercializzazione sotto forma di integratori, polvere e foglie essiccate per infusi. «Un supermercato sopra un tronco», la definisce più prosaicamente il rapporto del 2006 Lost Crops in Africa citato dalla rivista Nature. Ma alcuni aspetti necessitano ancora di maggiori verifiche.

Che cosa non sappiamo

l Innanzitutto occorrono studi più rigorosi per stabilire l’eventuale differenza nell’efficacia delle foglie a seconda che si consumino crude, cotte o essiccate. La cottura, ad esempio, pare diminuire il contenuto di vitamina C ma aumentare la fruibilità di altre sostanze, come il ferro.

l Anche l’uso della moringa nella medicina tradizionale - ampiamente documentato ad esempio in India - ha ricevuto nell’ultimo decennio maggiori attenzioni. Già nel 2005 Jed W. Fahey, del Dipartimento di Farmacologia e Scienze molecolari della Johns Hopkins School of Medicine, affermava che «una pletora di richiami della medicina tradizionale ne attestano il potere curativo», ma «purtroppo, molti di questi richiami non sono supportati da sperimentazioni cliniche randomizzate e controllate contro placebo, né sono stati pubblicati in riviste ad alta visibilità».

l Altra importante verifica, direttamente connessa alla precedente, è quella del possibile ruolo della moringa oleifera nella prevenzione e nel trattamento di particolari patologie: il sito web The inteational moringa germplasm collection cita studi che sembrano deporre a favore della sua efficacia nel ridurre i livelli di glucosio nel sangue, dato rilevante per la cura del diabete, e della sua attività antibiotica nel proteggere dall’Helicobacter pylori, batterio che può causare l’ulcera; altri studi ancora suggeriscono un’efficacia della moringa nella prevenzione e cura del cancro e nella riduzione degli effetti collaterali della chemioterapia. Ovviamente la comunità scientifica mette in guardia contro il sensazionalismo e i facili entusiasmi a cui alcuni siti web sembrano cedere e annuncia il primo «Simposio internazionale sulla moringa» che si terrà a Manila, Filippine, dal 15 al 18 novembre prossimi. Il titolo dell’evento, che per le Filippine è il sesto simposio nazionale su questo tema, sarà «Moringa: un decennio di progressi nella ricerca e nello sviluppo».

Perché è importante

In un articolo dell’agosto 2014 dal titolo «Fame zero» pubblicato sulla rivista Science, uno dei padri della cosiddetta «rivoluzione verde» in India, Mankombu Sambasivan Swaminathan - peraltro aspramente criticato dall’attivista Vandana Shiva proprio per aver promosso la meccanizzazione e l’uso di prodotti chimici imposti da quella rivoluzione negli anni Sessanta - afferma che oggi occorre puntare non più sulla sicurezza alimentare ma soprattutto sulla sicurezza nutrizionale. «L’impulso a ridurre la fame nel mondo si è largamente poggiato su colture come il grano e il riso per fornire calorie. Ma aumentare solo le calorie non va bene. Diete migliori e buona salute richiedono un rinforzo nutrizionale. L’agricoltura commerciale», continua Swaminathan, «tende a promuovere monocolture più sensibili alle leggi di mercato che alla corretta nutrizione, mentre quella familiare è più diversificata e per questo è più adatta a soddisfare i bisogni nutrizionali specifici di ciascun luogo. Vegetali come le patate dolci, il frutto dell’albero del pane, la moringa e vari tipi di bacche, tutti ricchi in micronutrienti come ferro, zinco, vitamina A e vitamina C, dovrebbero trovare uno spazio maggiore nell’agricoltura familiare».

D’altra parte, anche papa Francesco ha sottolineato nell’enciclica Laudato si’ l’importanza di questo genere di agricoltura. «Vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala», scrive Francesco, «che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in piccoli appezzamenti agricoli e orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale». Tuttavia, continua il papa, gli sforzi di diversificazione si infrangono contro l’impossibilità per molti di questi produttori a accedere ai mercati locali o globali o contro l’infrastruttura di vendita e di trasporto asservita alle grandi imprese.

Ecco, dunque, che cosa dovranno tenere d’occhio nell’immediato futuro coloro che hanno a cuore la lotta alla malnutrizione: che la ricerca chiarisca sempre meglio il potenziale di risorse come la moringa e altre piante «dimenticate» e che la priorità sia utilizzarle per creare contesti di agricoltura sostenibile che mirino a contribuire innanzitutto alla corretta nutrizione delle popolazioni maggiormente svantaggiate, evitando che questi alleati naturali diventino l’ennesima preda dei colossi agro industriali da trasformare magari in cosmetici, rimedi anti età e integratori per diete dimagranti.

A questo proposito Mark Olson, esperto di dell’Instituto di Biologia all’Università Nazionale Autonoma del Messico e principale autore del sito sopra citato, The inteational moringa germplasm collection, efficacemente ironizza: «Se puoi mangiare broccoli, perché dovresti preferire la moringa? Se hai bisogno di vitamina A mangia qualche carota o cucinati un po’ di patate dolci. Se hai voglia di qualche buona verdura verde, fatti un piatto di spinaci, di bietole, di cavolo riccio coltivati da qualche produttore della tua zona. […] Il punto è che la moringa è l’albero dei miracoli non perché offre a persone ricche in paesi temperati quel che hanno già in abbondanza. La moringa è l’albero dei miracoli perché offre a chi non li ha gli stessi benefici finora riservati a chi vive nei paesi ricchi».

Chiara Giovetti
Chiara Giovetti




Sufismo sprigionato

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 31

Il sufismo,
dall’Africa sub sahariana all’Estremo Oriente, dall’Europa al Maghreb,
rappresenta la via mistica dell’Islam. Affonda le sue radici nelle origini
della fede musulmana, e attraversa i secoli fino a oggi, con i grandi maestri e
i moltissimi membri dei suoi ordini. Bandito dalla Turchia laica di Ataturk nel
1925, oggi assume nuove forme continuando a nutrire la spiritualità dell’intero
paese.

Il sufismo (tasavvuf) viene
considerato, comunemente, l’ambito mistico della religione islamica. Questo è
parzialmente vero, nel senso che alcuni sufi sono stati o sono dei mistici,
altri semplicemente dei sufi. Se la mistica, infatti, è in un certo senso
l’unione con Dio o, meglio ancora, l’esperienza immediata e diretta della
divinità, allora il sufismo è mistica nel suo obiettivo più elevato.

Un abito di lana grezza

Il termine «sufismo» proviene da una
radice, molto probabilmente siriaca (sûf), che designa un abito di lana
grezza, un po’ come quello di San Francesco. Questo termine passa col tempo a
indicare il povero alla ricerca della saggezza divina. Anche i due termini più
affini indicano lo stesso significato: «derviscio» e «fâqir» (il nostro
fachiro). Al di là dell’aspetto puramente terminologico, quel che è importante
sottolineare riguardo al sufismo è il suo fine ultimo, rappresentato dal
desiderio del sufi di mondare la propria interiorità – specialmente la volontà
che si oppone a Dio – fino ad arrivare allo stadio di completa purificazione in
Dio, di «annientamento» nella divinità (fanâ‘). Come ricorda uno dei
primi sufi, Junayd (morto nel 911): «Il sufismo è che Dio ti faccia morire a te
stesso e ti faccia vivere in Lui». L’aspirazione più intensa del sufi è
raggiungere la libertà più vera. Il sufismo è quindi una via di liberazione
interiore verso l’oceano della divinità, dell’unità divina.

Il sufi non mette in questione
minimamente la professione di fede musulmana, «non c’è alcun Dio all’infuori di
Dio» (lâ ilâha illâ Allah), ma anzi la mette in pratica a tal punto che
non esiste null’altro che l’Essere divino, nel quale si perde come una goccia
nel mare. Si potrebbe allora dire che il sufismo propone una via di
purificazione e di liberazione interiore che conduce lo spirito a uscire dalla
prigione del corpo.

Ansârî (morto nel 1088), altro grande
mistico del sufismo, afferma infatti che senza essere pervenuti a questa
liberazione, si è come in una prigione: «O Dio! Nessun’altra gioia se non nella
Conoscenza tua, nessuna gioia se non nella Manifestazione tua! Colui che vive
senza di Te è come un cadavere in prigione, la vita senza Te è la morte stessa!
Colui che vive in te è eterno». Una liberazione che è tutta interiore, mistica,
e conduce a concentrare tutte le forze nel Dio Uno e Unico.

Seguire un maestro per «annientarsi»
in Dio

Il sufismo è tuttavia un fenomeno
religioso storicamente e socialmente più vasto del solo ambito mistico. Dal XII
secolo a oggi, tutto il mondo musulmano ha visto il fiorire di gruppi di sufi
che si riuniscono intorno a un maestro fondatore di una confrateita (tarikat:
vie). Due sono i principi del sufismo così come esso viene vissuto nelle
confrateite: l’obbedienza cieca al maestro sufi e la pratica della
ripetizione del nome di Dio (zikr). Riguardo all’obbedienza, si potrebbe
pensare che essa sia un principio contrario a una vera liberazione o libertà
interiore, invece, secondo la dottrina sufi, il discepolo si dona interamente
nelle mani del maestro proprio per essere condotto su una via di libertà e di «annientamento»
in Dio. Sia la pratica di affidarsi completamente alla guida di un maestro che
l’aspirazione all’annientamento in Dio solleva dei sospetti nell’Islam più «ufficiale»,
ed è una delle ragioni per cui il sufismo è stato, ed è, perseguito dalle
correnti più rigoriste dell’Islam. Anche se lungo la storia, il sufismo ha
incontrato delle opposizioni, non bisogna cedere alla tentazione di pensare che
esso non faccia parte dell’Islam. Anzi, ne fa parte appieno e in certi casi
esso è addirittura più espressivo del messaggio coranico di altre forme
ritenute più canoniche.

Il sufismo e le confrateite sufi si
diffondono in tutto il mondo musulmano, in tutte le regioni in cui c’è una
presenza islamica. Questo è segno che esso ha una sua potenzialità di libertà
rispetto alle forme più conosciute di Islam, come il wahhabismo e il salafismo,
e infine i gruppi estremi. Il sufismo come interpretazione dell’Islam
indipendente dalla versione «ufficiale», ne fa un movimento estremamente
interessante proprio per comprendere l’evoluzione della religione del Profeta.

Tra Impero ottomano e
Repubblica turca

La storia del sufismo si può grosso
modo suddividere in due fasi: quella dei carismatici sufi della prima ora
(VIII-XII secolo) e quella della seconda ondata legata alle confrateite
(XII-XXI secolo). Nell’arco di questa storia
si può dire che l’Impero ottomano dal XVI secolo in poi, e la Repubblica
di Turchia dall’inizio del XX secolo, costituiscono degli esempi interessanti
di paesi in cui il sufismo si è sviluppato in maniera estremamente capillare.
Durante l’epoca ottomana, il sufismo, attraverso le numerose confrateite
musulmane, era particolarmente vivace. Le tarikat, o vie mistiche di
realizzazione del credente musulmano, avevano diverse provenienze e tendenze.
Alcune di queste erano diffuse in molte regioni del mondo musulmano oltre che
sul territorio ottomano. Altre erano invece tipicamente ottomane perché diffuse
soprattutto nel territorio governato dal Sultano (ad esempio la Mevlevîyye).
Con l’avvento della Repubblica turca (1923), tutti questi gruppi dovettero
subire una grave battuta d’arresto. Nel 1925, infatti, la Grande Assemblea
della giovane Repubblica decretò la chiusura di tutte le confrateite e la
cessazione di tutte quelle pratiche spirituali che potevano imparentarsi con il
sufismo. Nei primi decenni della storia repubblicana, quindi, il sufismo, i
dervisci e la vitalità spirituale delle tarikat vennero espulsi
dall’ambito pubblico e dalla vita sociale e confinati alla vita privata.
Permaneva invece lo spirito sufi che impregnava tutti coloro che erano, prima
della proibizione, legati a una spiritualità o a un cammino iniziatico. A
partire dagli anni ’50 del XX secolo, cioè quando alcune leggi del governo
favorirono la visibilità sociale dell’Islam, anche il sufismo, attraverso le tarikat,
riprese a vivere, anche se sotto un aspetto più culturale e folcloristico. È il
caso tipico dei dervisci danzanti (i Mevlevîs): le antiche confrateite
che avevano subito profonde trasformazioni, potevano, grazie alla formazione
d’associazioni culturali in Turchia, garantire la trasmissione del loro
patrimonio spirituale, ma i nuovi gruppi che s’ispirano al sufismo hanno creato
nuove forme di vita, meno strutturate delle più antiche confrateite.

Le confrateite cambiano
forma

La loro designazione, quella di cemaat
(comunità), indica l’idea di un consorzio più ampio che s’ispira e che
obbedisce al carisma di un maestro e del suo insegnamento. Quello che era
tipico della tarikat, il patto d’obbedienza a un vero maestro spirituale
(shaykh), viene sostituito da una fedeltà che si realizza anche solo
attraverso la lettura dei suoi scritti e un legame interiore alla sua figura.
Le pratiche fondamentali nelle organizzazioni tradizionali, il rito della
ripetizione del nome di Dio (zikr) e la danza sacra (semâ‘), sono
sostituite da altre formule più comunitarie di espressione, come la diffusione
stessa del pensiero del maestro. Il gruppo che oggi è certamente più conosciuto
in Turchia è quello che si richiama alla figura di Fethüllah Gülen (nato nel
1941) che, grazie alla fedeltà di tanti simpatizzanti, ha potuto costituire una
vera e propria comunità spirituale, diffusa sia in Turchia che all’esterno del
paese. Altre organizzazioni, anche di donne, s’ispirano all’antica struttura
delle confrateite sufi che avevano influenzato la religiosità dell’Impero
ottomano. Si potrebbe dire ancora che, come nell’ambito della vita religiosa
cristiana il modello del monaco rimane essenziale, così per il sufismo turco,
il modello della tarikat permane fondamentale.

Nel tessuto del popolo turco

Al di là delle caratteristiche
specifiche dei singoli gruppi, quello che è degno di nota è la grande impronta
che lo spirito del sufismo ha impresso nella religiosità turca. Jelâl ed-Dîn Rûmî
(m. 1273), Yûnus Emre (m. 1320) sono due delle figure del misticismo più
autentico dell’Islam, e i loro scritti, così come il loro pensiero, sono
penetrati nel tessuto del popolo turco. È questa mistica, profonda e anche
tollerante, che ha segnato il carattere spirituale dei Turchi, un aspetto del
sufismo in Turchia ancora poco studiato, che è probabilmente un’eredità della
storia ottomana e una peculiarità dell’Islam in questo paese.

Si potrebbe analizzare in modo
sintetico il sufismo turco tenendo conto di tre elementi che lo caratterizzano.
Il primo elemento è certamente costituito dal pensiero e dagli scritti dei
grandi sufi. Il secondo elemento è rappresentato dal patrimonio che la
tradizione delle confrateite sufi ha consegnato alla storia presente della
Turchia. Infine, il terzo elemento è una certa libertà, tipicamente turca,
nella creazione di nuove modalità e di nuove formule di esistenza spirituale.
Grazie a questi elementi, la Turchia, paese laico, sperimenta una vera
religiosità e una spiritualità profonda.

Una presenza tutt’altro che
marginale


Oggi, tanto in Turchia quanto in
numerosissimi altri paesi a maggioranza musulmana, le confrateite sufi sono
una presenza tutt’altro che marginale. Sono, in certi casi, capaci di cambiare
le sorti di un paese o di orientare tanto la religiosità quanto addirittura la
compagine politica. Nella Turchia repubblicana, questo è evidente nell’azione
delle confrateite più tradizionali e dei nuovi movimenti, le comunità.

Questi caratteri del sufismo, seppur
tratteggiati rapidamente, conducono a una riflessione più ampia sul suo ruolo
all’interno dell’evoluzione del mondo musulmano. Infatti, sia nella storia
primordiale di questo movimento ascetico e spirituale, che nel prosieguo, i
sufi hanno affermato una capacità di resistenza e di affermazione della propria
spiritualità e interiorità a costo di condanne e persecuzioni.

Espressione fedele
dell’Islam

Ancora una volta bisogna affermare
che il sufismo è un elemento interno alla religione del Profeta e che non si
discosta in nulla, nelle sue parti fondamentali, da essa. Il sufismo è semmai
un’interpretazione più interioristica e, certe volte, iniziatica. È forse
questo aspetto che fa sprigionare il sufismo nella sua capacità di formare le
persone alla dipendenza assoluta da Dio – la «classica sottomissione» di cui
parla l’Islam – ma in termini di liberazione interiore. Pur rimanendo legato al
Dio uno e unico dell’Islam, il sufi cerca di sperimentare una purificazione e
una libertà intima. A questo aspetto più spirituale fa seguito anche una certa
passione per la libertà fondata proprio sul desiderio di esprimersi liberamente
nelle confrateite sufi. La libertà interiore a cui aspira il sufi si riflette
quindi anche nel suo desiderio di libertà a livello sociale, soprattutto in
società segnate da un certo contenimento dello spazio individuale.

Alberto Fabio Ambrosio
Fine prima puntata

Sufismo tra rifiuto e
accettazione

Secondo l’Inteational
Religious Freedom 2013
del dipartimento di stato degli Usa, i sufi hanno
subito negli ultimi anni discriminazioni e abusi in diversi paesi nel mondo: in
Somalia Al-Shabaab ha distrutto luoghi di culto e tombe di chierici e religiosi
sufi, ha ucciso civili e funzionari di governo di orientamento sufi tramite
assassinii mirati denunciandoli come non-musulmani o apostati; gruppi salafiti
hanno vandalizzato e distrutto siti sufi in Libia, oltre ad aver rivendicato
l’uccisione di un religioso sufi; salafiti hanno attaccato decine di santuari
sufi anche in Tunisia; attacchi sono stati registrati contro i sufi in
Pakistan, Iran, Iraq, Siria.

Nel rapporto The
World’s Muslims: Unity and Diversity
, pubblicato nel 2012, il Pew Centre
(autorevole organizzazione con base negli Usa) dedica una certa attenzione al
sufismo mostrando come esso e le sue pratiche vengano percepiti nelle diverse
regioni del mondo musulmano: «In Asia meridionale i sufi vengono ampiamente
considerati come musulmani (dal 77% della popolazione, ndr), mentre in
altre regioni tendono a non essere molto conosciuti, oppure a non essere
accettati come parte della tradizione islamica (vengono considerati musulmani
da circa il 50% in Medio Oriente, dal 32% in Russia e nei Balcani, dal 24% nel
Sud Est asiatico e dal 18% nell’Asia centrale, ndr). Opinioni divergenti
ci sono anche per quanto riguarda certe pratiche tradizionalmente associate a
particolari ordini sufi. Ad esempio, recitare poesie o cantare in lode di Dio
sono pratiche generalmente accettate nella maggior parte dei paesi musulmani,
ma la Turchia è l’unico paese in cui la maggioranza dei musulmani accolgono la
danza devozionale come una forma accettabile di culto, probabilmente a causa
dell’importanza storica in quel paese dell’ordine Mevlevi o dei “dervisci
rotanti”».

Alcuni dati particolarmente interessanti riguardano il
continente africano, per il quale il Pew Centre scrive: «L’identificazione con
il sufismo è più alto in Africa sub sahariana. In 11 dei 15 paesi esaminati
nella regione, un quarto o più dei musulmani affermano di appartenere a un
ordine sufi. Significativo il caso del Senegal nel quale il 92% degli
intervistati dice di appartenere a una confrateita sufi. L’ordine Tijaniyya è
il più comune in tutta la regione, con almeno un musulmano su dieci: Senegal
(51%), Ciad (35%), Niger (34%), Camerun (31%), Ghana (27%), Liberia (25%),
Guinea Bissau (20%), Nigeria (19%), Uganda (12%) e Repubblica Democratica del
Congo (10%). Il secondo movimento più diffuso è la confrateita Qadiriyya, che
è seguito dall’11% dei musulmani in Ciad, dal 9% in Nigeria e dall’8% in
Tanzania. Inoltre, l’ordine Muridiyya è prevalente in Senegal (34%), ma non
dispone di un ampio seguito tra i musulmani negli altri paesi esaminati».

L’affiliazione
ai vari ordini sufi è percentualmente meno rilevante nel resto del mondo
musulmano. Tra i paesi presi in considerazione dall’indagine del Pew Centre,
gli unici con una proporzione di aderenti a qualche confrateita sufi più
ampia del 10% sulle rispettive popolazioni di fede islamica sono: Bangladesh
(26%), Russia (19%), Tagikistan (18%), Pakistan (17%), Malesia (17%), Albania
(13%) e Uzbekistan (11%). Parecchi ordini sono importanti in singoli paesi, come
la Naqshbandiyya in Tagikistan (16% di tutti i musulmani), Chistiyya in
Bangladesh (12%) e Bektashiyya in Albania (12%).

Luca
Lorusso

Danza coi sufi

Il libro di Alberto Fabio Ambrosio, Danza
coi sufi. Incontro con l’Islam mistico
, (San Paolo, Milano 2013, pp. 165, € 9,90) è il racconto di un incontro personale, quello dell’autore
domenicano – uno dei maggiori studiosi cristiani dell’Islam mistico – con il
sufismo: appassionato già di mistica cristiana, scopre che anche la religione
del Profeta ha una sua ricca storia di misticismo. Ma è soprattutto il racconto
dell’evoluzione di questa particolare via della spiritualità islamica,
concentrato in particolar modo sui primi secoli, le prime figure di grandi
mistici, i primi ordini sufi: a partire da Maometto (m. 632), considerato «il
prototipo dei Sufi», passando per Hasan al-Basri (m. 728), Rabi’a al-’Adawiyya
(m. 801), Harith al-Muhasibi (m. 857), fino ai grandi maestri del XIII secolo,
Ibn ‘Arabi (m. 1240) e Mawlana Rumi (m. 1273), quest’ultimo fondatore dell’ordine
dei Mevlevi, più conosciuti come Dervisci danzanti.

«Il sufismo, potremmo dire, è il lato simpatico di un
Islam che rischia sempre di fare paura. I mistici non fanno paura a nessuno,
forse a torto, perché sono i più rivoluzionari di tutti; coloro che cercano di
togliersi l’armatura delle sicurezze umane e di tuffarsi nel mare della divinità».

Il domenicano
Ambrosio non manca di esprimere più volte, nel corso degli otto capitoli, i
dubbi che negli anni gli sono sorti, o gli sono stati posti da altri, circa la
liceità, o anche solo l’utilità, di spendere la sua vita di sacerdote cristiano
nello studio del misticismo musulmano. La risposta a tali dubbi viene da sé,
viene dalla lettura di questo e altri testi che sono nutrimento per il dialogo
interreligioso, e viene anche dai molti legami, le molte analogie, che lo
studioso mette in luce tra il misticismo sufi e il Vangelo: «Quando noto come
la spiritualità cristiana si possa alleare a quella musulmana, mi sembra di
essere più completo, di essere più forte. Forse è per questo che studio,
osservo, contemplo e talvolta mi nutro della spiritualità dei miei amici (sufi,
ndr), in uno spirito di solidarietà e di comunione naturale. […] Il
Cristo per me segna la rotta; ma tutto (e dico proprio tutto) può diventare
barca, remo, vento… soffio dello spirito che mi sospinge verso Lui, perché so
che in ultima analisi, è Lui che mi cerca».

Luca Lorusso
Piccolo glossario

• Misticismo: esperienza immediata di Dio o della divinità.
Molte religioni comportano una parte di misticismo, tra cui l’Ebraismo, il
Cristianesimo e l’Islam.

• Ordine
(confrateita) sufi:
un ordine sufi nasce
da un sufi carismatico che può avvalersi dell’insegnamento di un altro maestro
accreditato. In ogni ordine sufi ci sono dei «conventi», a capo dei quali si
trova un maestro. Attoo al maestro si riuniscono dei discepoli. Un ordine
sufi non ha però una struttura giuridica né spirituale come gli ordini
religiosi cattolici. I sufi non vivono in comunità, ma si ritrovano con
regolarità attorno al proprio maestro, non fanno voto di castità ma vivono nel
mondo, con una professione, e insieme a una famiglia. Rari sono i sufi che non
si sposano.

• Wahhabismo: il movimento di ritorno alle origini
musulmane iniziato con Ibn ‘ad Al-Wahhab nell’Arabia del XVIII secolo. Questa
corrente di interpretazione è diventata il credo ufficiale dell’Arabia Saudita,
e da questo paese si è diffuso nel resto del mondo musulmano (vedi MC
1-2/2015, p.38)
.

• Salafismo: indica di fatto lo stesso movimento
iniziato da Al-Wahhab ma, mentre con wahhabismo ci si riferisce soprattutto al
movimento storico, con salafismo si indica la dottrina e la pratica di ritorno
alle origini. Il salafismo ha conosciuto numerose «riforme» che tentano sempre
di propugnare la purezza iniziale dell’Islam, eventualmente anche con l’uso
della forza, com’è il caso del salafismo jihadista.

• Danza sacra: con questo termine si intende in generale
ogni danza o movimento danzante che tende al raggiungimento di una certa
esperienza spirituale o mistica. Nel caso del sufismo, la danza sacra per
eccellenza è quella dei dervisci danzanti che permette il raggiungimento
dell’esperienza dell’unità divina.

• Shaykh e dhikr: termini riferiti ai due principi del
sufismo, soprattutto di quello che storicamente si incarna negli ordini sufi.
L’obbedienza al maestro (shaykh) il quale è rappresentante del Profeta e, in
ultima analisi, di Allah, e il rituale della ripetizione dei nomi di Dio, lo
dhikr.

• Religione
iniziatica:
è quella in cui per
diventae membro è richiesto un rito «segreto», di accoglienza o di
iniziazione appunto, in cui il candidato, passando delle prove, viene accettato
dagli altri adepti. Anche il cristianesimo, in un certo senso, comporta
l’iniziazione (il battesimo) con la differenza che il rito non è nascosto ma
pubblico.

 

Sufismo: breve
cronologia

• VII-XII secolo: epoca dei «grandi maestri spirituali», tra
cui Bistâmî, Junayd, Rabi’a.

• 922: morte di al-Hallaj. La sintesi della sua
dottrina si può riassumere così: «Se Dio è tutto e io sono nulla, io sono anche
Dio, poiché tutto è nulla e solo Dio è». Il sufismo diventa «ufficialmente»
sospetto.

• XI secolo: Glâzâlî (m. 1111) scrive la Revivificazione
delle scienze religiose, una sorta di Summa theologica islamica in cui viene
ufficialmente trattato il sufismo.

• 1240: morte di Ibn ‘Arabî, filosofo mistico
dell’Islam.

• 1273: morte di Rûmî, uno dei più grandi mistici e
poeti dell’Islam.

• XII-XXI secolo: il sufismo si realizza negli Ordini sufi.

• Dal XVIII secolo: i sufi subiscono la persecuzione dei
wahhabiti in Arabia Saudita e, in seguito, in altre regioni.

• 1925: il sufismo e gli ordini sufi sono banditi
dalla Repubblica di Turchia.

A.F.A.

Alberto Fabio Ambrosio




I Perdenti: 1. I Charrua

Nel Prado di Montevideo, un grande
parco situato nel cuore della capitale dell’Uruguay, c’è un monumento in bronzo
e in pietra intitolato Gli ultimi Charrua, gli indios che popolavano
quelle terre prima dell’arrivo degli spagnoli. I quattro indigeni raffigurati
furono trasportati in Francia dove vissero gli ultimi anni della loro vita come
attrazione principale di un circo che voleva mostrare lo stile di vita degli
indios prima dell’arrivo dell’uomo bianco.

I Charrua, che
abitavano le rive del Rio De La Plata erano una etnia della famiglia dei Tupì-Guaranì,
la grande e multiforme popolazione indigena che si estendeva dalle rive
dell’Atlantico all’estremità del Paraguay e del nord dell’Argentina, diffusa
nella fascia sub tropicale del continente latinoamericano.
I nomi dei quattro Charrua deportati in Europa erano: Senaqué, Tacuavé, Vaimaca
Pirù e Guyunusa. Parliamo con Senaqué, sciamano.

La vostra storia può
essere presa come emblema di tante altre storie di membri delle diverse etnie
indigene che abitavano il continente latinoamericano prima dell’arrivo dei
conquistadores.

In un
certo qual modo è proprio così. Los Minuanos, los Guinuanes, los Boanenses, los
Yaros e los Chanaes, erano tribù indigene nostre sorelle che abitavano in
quelli che attualmente sono i territori dell’Uruguay, del Rio Grande do Sul in
Brasile e delle province di Corrientes, Entre Rios, Santa Fe in Argentina.
Erano installate in quelli che sono i grandi fiumi confluenti nell’estuario del
Rio De La Plata, cioè: il Rio Uruguay, il Rio Ibicuy, il Rio Negro e il Rio
Paranà.

Voi eravate quelli
che vivevano nelle distese sconfinate che formano l’interno dell’attuale stato
dell’Uruguay.

Come
si sa, la ricchezza di corsi d’acqua della zona e la natura pianeggiante del
territorio, ci ha permesso di vivere raccogliendo bacche e frutti che la natura
ci offriva, cacciando gli animali e pescando i pesci che popolavano quelle
terre.

Più o meno quanti
eravate?

Non
esistono cifre precise, ma possiamo, con un certo grado di esattezza, dire che,
all’arrivo degli spagnoli, eravamo dalle trenta alle quarantamila persone.
Avevamo un’organizzazione sociale per la quale ogni comunità eleggeva il suo cacique
(capo), responsabile di guidare e custodire la sua gente.

La vostra economia su
che cosa si basava?

Per
vivere ci bastava quanto ci dava la natura, la carne ci era foita soprattutto
dai ñandù, una specie di struzzo di dimensioni più piccole che viveva
nelle nostre zone e che noi cacciavamo con le bolas, cioè tre pietre
legate alle estremità di lacci che facevamo ruotare sopra la testa. Esse si
aprivano a mo’ di raggiera di una ruota e, una volta lanciate, si
attorcigliavano attorno alle zampe degli animali facendoli cadere. Le zone dove
si andava a cacciare erano ben delineate, nessuno di noi poteva andare a caccia
nei territori di altre tribù.

Sbaglio o avevate
anche una certa fama di guerrieri?

Non
sbagli affatto, eravamo gelosi della nostra terra e del nostro fiume, così,
come tutte le altre etnie erano attaccate alla loro. Ci difendevamo con le
unghie e con i denti quando altri ci assalivano o volevano portarci via la
cacciagione che faticosamente avevamo messo insieme.

Ma la vostra grinta
leggendaria non servì a molto quando arrivarono gli europei, nella fattispecie
gli spagnoli…

Eh sì!
Ci accorgemmo ben presto che bolas, lance e frecce, non erano
assolutamente in grado di misurarsi con gli archibugi, le spingarde e i
cannoni. In più gli spagnoli avevano anche i cavalli che noi non avevamo mai
visto. Tutto ciò dava a loro una superiorità tecnologica e militare al cui
confronto le nostre modeste armi non potevano certamente competere.

Quando Juan Diaz de
Solis, al comando delle navi spagnole, primo europeo che risalì il corso del
Rio De La Plata, si incontrò con la vostra gente, capiste subito che la
superiorità non solo tecnico militare ma anche di navigazione, avrebbe
significato per voi la fine della vostra presenza in quelle zone.

Juan
de Solis risalendo il Rio De La Plata si incontrò con i nostri avi e non fu
certo un incontro facile: ogni volta che i conquistadores sbarcavano nei
villaggi situati sulle rive del grande fiume, si comportavano da padroni,
occupavano le nostre terre, prendevano le nostre donne e ci cacciavano
dall’ambiente in cui noi avevamo vissuto fino a quei giorni.

In uno di questi
conflitti Juan Diaz de Solis rimase ucciso, non è così?

È
vero, però noi non sapevamo di aver ucciso il comandante in capo, perché subito
il comando fu preso da altri uomini della spedizione, e il modo di comportarsi
nei nostri confronti non cambiò per nulla. Gli spagnoli, quando catturavano
qualcuno di noi e lo facevano prigioniero, lo riducevano in schiavitù e lo
vendevano al miglior offerente. Inoltre gli adolescenti di ambo i sessi
venivano forzatamente messi a servizio delle dimore dei conquistadores.
Cresceva quindi in noi un grande astio verso queste persone che in un primo
momento avevamo accolto come ospiti. Ci rendemmo conto ben presto che a loro
interessavano solo l’oro e l’argento. E quando non li trovavano, occupavano la
nostra terra dichiarandola loro proprietà.

Questa concatenazione
di avvenimenti, di scaramucce, contrasti, lotte in campo aperto tra voi e gli
spagnoli, portò a un episodio particolarmente vergognoso, ricordato come il
genocidio di Salsipuedes. Puoi raccontarci come andò?

Il
generale Fructuoso Rivera si accordò con i portoghesi, anche loro presenti
sulle sponde del Rio De La Plata, precisamente alla Laguna Merin, per delineare
i confini tra Brasile e Uruguay. Lui cedette ai portoghesi una larga fascia di
terra a condizione che questi non interferissero nella sua politica di
eliminazione degli indigeni. Il nipote di Fructuoso, Beabé Rivera, con le sue
truppe spinse molti Charruas sulle rive del torrente Salsipuedes, e lì, l’11
aprile 1831, fece una vera mattanza eliminando quasi tutta la presenza charrua
nell’Uruguay. Quei pochi che si salvarono scapparono verso il Nord o verso il
Brasile, trovando accoglienza nelle varie tribù, ma si può dire che, come
comunità, i charrua si estinsero del tutto.

Per
ironia della sorte, suo zio, il generale Fructuoso, nel 1830, era stato eletto
primo presidente dell’Uruguay!

Così voi quattro
foste inviati in Francia per essere mostrati agli europei…

Non
solo, anche per essere studiati come uomini della pietra che avevano vissuto
per secoli senza conoscere le varie invenzioni che si erano succedute nel
mondo. Però dopo gli studi sul nostro corpo, sulla nostra testa, sulla nostra
lingua, fummo venduti a un circo che, girando per l’Europa, mostrava gli «Indios
del Rio De La Plata».

Però il nome Charrua
non è scomparso del tutto, e pur essendo l’Uruguay una nazione formata quasi
esclusivamente da discendenti dell’emigrazione europea, la «Celeste», ovvero la
nazionale di calcio del piccolo paese sudamericano, è conosciuta come la
nazionale «Charrua».

Si
vede che per cancellare i crimini commessi, gli attuali abitanti dell’Uruguay,
che non hanno nessuna colpa del loro passato, e per identificarsi di fronte al
resto delle nazioni latinoamericane, si onorano del termine «Charrua», un po’
come i neozelandesi del rugby che, pur essendo quasi tutti discendenti dai
coloni inglesi, prima dei loro incontri si esibiscono nella «Haka», la danza
tipica degli indigeni Maori originari della Nuova Zelanda.

L’attuale popolazione
dell’Uruguay non include al suo interno minoranze indigene precolombiane.
Quando arrivarono gli spagnoli all’inizio del sedicesimo secolo, le malattie
che questi portarono contribuirono all’estinzione della popolazione indigena. I
Charrua furono i più fieri avversari dei conquistadores. Qualche secolo dopo,
l’eroe nazionale dell’Uruguay, Josè Gervasio Artigas, integrò i pochi indigeni
Charrua rimasti nel suo processo di liberazione dal giogo coloniale,
promettendo loro terra da coltivare una volta conquistata l’indipendenza. Ma già
verso la metà del secolo XIX rimanevano solo pochi nuclei di indigeni che
sempre più si ritiravano in zone disabitate dell’interno e lentamente ma
inesorabilmente si ridussero di numero. Oggi non rimane più nessuna traccia di
questa etnia del Rio De La Plata.

A
ricordare questo popolo resta solamente lo struggente poema epico di Juan
Zorrilla de San Martin: «Tabaré», pubblicato nel 1888, nel quale, con versi
straordinari, il grande scrittore uruguayano racconta la storia di un amore
impossibile tra il cacicco indio, Tabaré, e Blanca, una donna spagnola
espressione di un altro mondo e di un’altra cultura. Un poema che, meglio di
qualunque romanzo, esprime l’anima profonda del sentimento nazionale degli
uruguayani narrando l’incontro-scontro tra l’innocente naturalezza degli
indigeni e la violenza assurta quasi a mistica di vita dei nuovi arrivati.

Gli
usi e costumi, i miti e le tragedie del popolo Charrua, sconfitto sul piano
storico, diventarono così il racconto epico, quasi una saga leggendaria della
nascente nazione uruguayana, un marchio indelebile che suggellerà per sempre
l’anima profonda del «Pueblo Oriental» del Rio Uruguay. Possiamo dire allora
che il popolo Charrua, un popolo perdente come tanti altri popoli indigeni
precolombiani, si è preso la sua rivincita lasciando un nome glorioso come una
eredità culturale che va ben al di là di un succinto richiamo storico. Le
tradizioni Charrua permeano tutt’oggi la vita di un popolo che non vuole
dimenticare, e men che meno ripetere, gli errori del passato.

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera