Perdenti 14: Antonio Meucci


Alla fine la verità ha trionfato: l’inventore del telefono non è Alexander Graham Bell, come continuano a recitare i libri di testo nelle scuole degli Stati Uniti d’America, bensì l’immigrato fiorentino Antonio Meucci che morì in povertà a New York nel 1889 dopo essere stato defraudato del brevetto. Meucci nato a San Frediano, popolare quartiere di Firenze il 13 aprile 1808, emigrò giovanissimo nel Nuovo Mondo. Dopo alcuni anni passati a Cuba lavorando come tecnico di scena in una compagnia teatrale che si esibiva all’Avana, decise di trasferirsi negli Stati Uniti, anche per sfuggire il micidiale clima caldo-umido dell’isola caraibica che influiva negativamente sulla salute della moglie Ester.

Lasciata Cuba il 1º maggio 1850, i coniugi Meucci sbarcarono a New York, stabilendosi quasi subito a Clifton, un piccolo quartiere nell’isola di Staten Island, dove rimasero fino alla morte. Qui Antonio acquistò un cottage e aprì una fabbrica di candele, fatte secondo un progetto di sua concezione. La sua casa divenne ben presto un riferimento importante per gli immigrati italiani che arrivavano a New York. Anche Giuseppe Garibaldi venne ospitato da Meucci tra il 1850 e il 1853 e, per tutto il tempo della permanenza negli Stati Uniti, lavorò nella sua fabbrica.

La passione per le comunicazioni elettriche, che covava da sempre nella sua mente, gli fece trasformare ben presto la casa in un laboratorio: allestì un collegamento permanente con la stanza al secondo piano dove stava la moglie che soffriva di un’artrite deformante e per lunghe ore non poteva muoversi. Da quell’apparecchio costruito in maniera molto approssimativa, Meucci sognava di far giungere la sua voce il più lontano possibile. Era la sua idea fissa, quasi un’ossessione, che lo accompagnò per tutta la vita.

Il riconoscimento postumo e tardivo del suo genio, arriverà l’11 giugno 2002 quando il Congresso degli Stati Uniti, su iniziativa del deputato italoamericano Vito Fossella, ha riconosciuto Antonio Meucci come il primo inventore del telefono. Dopo la riabilitazione di Sacco e Vanzetti, i due anarchici ingiustamente condannati a morte per terrorismo negli anni ’20, questo è stato un altro trionfo per la generazione degli immigrati italiani che spesso furono vittime di pregiudizi e discriminazioni negli Stati Uniti d’America.

 

Caro Antonio, si può dire che nonostante le tue capacità e soprattutto la sorprendente genialità che avevi per la comunicazione, tu abbia avuto una vita tutt’altro che fortunata. Parlaci un po’ di te.

Cresciuto nel Gran Ducato di Toscana, dove le condizioni di vita della mia famiglia erano piuttosto grame e difficili, e coinvolto nei moti rivoluzionari del 1831 a causa delle mie convinzioni politiche e per le mie idee liberali, fui costretto ad andarmene dalla terra natia, per cui appena sposato presi la decisione di emigrare in America.

La tua prima tappa però non furono gli Stati Uniti d’America.

Infatti, dopo lunghe peregrinazioni nello Stato Pontificio e nel Regno delle due Sicilie, mi imbarcai per Cuba dove trovai lavoro come meccanico teatrale, fino ad essere responsabile di tutto l’impianto scenografico. Là ebbi la possibilità di approfondire le mie conoscenze in elettrotecnica e di fare esperimenti vari. Divenni anche uno dei primi a praticare la galvanostegia di oggetti (ricoprire cioè oggetti di metallo normale con oro o argento tramite un processo elettrico), è questo mi rese ricco e popolare. Fu proprio a Cuba che ebbi le prime intuizioni sulla possibilità di comunicare a distanza grazie all’elettricità.

Però non rimanesti a lungo nell’isola caraibica.

Nel 1850, scaduto il mio terzo contratto con il teatro all’Avana, su suggerimento di amici, mi trasferii negli Stati Uniti stabilendomi a New York dove aprii una fabbrica di candele steariche di mia concezione.

A New York in quegli anni incontrasti anche Giuseppe Garibaldi.

Proprio così. Fra me e Garibaldi sorse e si sviluppò una solida amicizia e lui per tutto il tempo che si fermò (1850-1853) negli Stati Uniti, fu ospite a casa mia e lavorò anche nella mia fabbrica. Purtroppo la fabbrica, pur unica nel suo genere, non ebbe molto successo. La trasformai prima in una fabbrica di birra e poi fui costretto a venderla, anche se il nuovo proprietario mi permise di viverci fino alla mia morte.

Fu in quel periodo che ti venne l’idea di un apparecchio che mettesse in comunicazione due persone che stavano in lontananza.

Avevo già fatto dei primi esperimenti in Cuba, ma il fatto che mia moglie fosse costretta a stare per lunghe ore della giornata a letto per colpa di una forma grave di artrite reumatornide, stimolò il mio ingegno. Allestii quindi un collegamento permanente tra il laboratorio, che era nello scantinato della casa, e la stanza di mia moglie situata al secondo piano.

Se eri un genio per quanto riguarda le comunicazioni, non avevi certamente talento per il lucro, né la sola simpatia della comunità italiana poteva fare molto per te.

Vero. Io continuai i miei esperimenti con il «telettrofono», come chiamavo la mia invenzione, e migliorai considerevolmente la comunicazione fra la mia adorata Ester, ormai paralizzata nella sua stanza, e il mio laboratorio. Negli anni tra il 1851 e il 1871 provai e riprovai fino a trenta modelli diversi e ottenni ottimi risultati. Il laboratorio era pieno di disegni e prototipi.

Poi ti dissanguasti economicamente, un po’ per pagare le cure sanitarie di tua moglie, un po’ per tanta sfortuna, e ti riducesti sul lastrico.

In fondo non desistevo, anche se mi riempivo di debiti, sognavo il giorno in cui non avrei più avuto problemi economici. Mi accorgevo sempre di più di essere un vecchio in miseria con la moglie ammalata e un’invenzione che, lo posso dire veramente, sarebbe stata al servizio dell’umanità, ma di cui, per colpa dei raggiri di cui ero vittima, non potevo godee i frutti.

Per colmo di sfortuna, il 30 luglio 1871, lo scoppio della caldaia del traghetto Westfield che mi stava riportando a casa a Staten Island da New York, causò l’incendio e l’affondamento dello stesso. Gravemente ustionato, finii in ospedale per mesi. Fu il tracollo finanziario. Per sopravvivere, mia moglie fu costretta a svendere i miei bozzetti e i prototipi di telettrofono per 6 dollari a un rigattiere. Una volta dimesso, ancora convalescente, provai a ricominciare da capo.

È vero che scrivesti anche in Italia alla ricerca di capitali per lanciare la tua invenzione sul mercato europeo?

Sì, ma non ottenni grandi risultati. Fondai anche una compagnia con altri italiani, ma non si venne a capo di nulla e si sciolse dopo un anno.

Tra tutte queste disgrazie non ci fu un momento in cui il vento della sfortuna modificò la sua direzione?

A fine dicembre 1871 riuscii a pagare i dieci dollari necessari per avere un caveat dall’ufficio brevetti a Washington. Il documento descriveva la mia invenzione, che avevo chiamato «Sound Telegraph». Purtroppo valeva solo un anno e non avevo i soldi necessari per il rinnovo né tanto meno per pagare il brevetto.

Ma accanto a queste vicissitudini, ce ne furono altre poco chiare e abbastanza disoneste che t’impedirono di accedere al brevetto.

Forte del caveat, nell’estate del 1872 andai a far vedere il mio prototipo e i miei progetti all’American District Telegraph Co. di New York, sperando mi lasciassero sperimentare il mio apparecchio sulle loro linee. La notizia venne anche pubblicata con un certo rilievo sul giornale italiano che in quegli anni si stampava a New York. Ma non abbi alcuna risposta dalla Company. Anzi continuarono a tergiversare, senza restituirmi i disegni. Alle mie insistenze, dopo ben due anni, mi dissero che li avevano smarriti. Consulente della compagnia era Alexander Graham Bell. Il che dice tutto.

Qualche anno dopo persi ogni speranza di un riconoscimento ufficiale da parte delle autorità degli Stati Uniti quando, dopo che il mio caveat era spirato nel 1874, nel 1876 lessi sui giornali di New York che Bell aveva «inventato» il telefono. Nel 1877 fondò la «Bell Telephone Co.».

Di fronte a questa defraudazione pura e semplice non ti difese nessuno?

La comunità italiana fece quadrato attorno a me e dopo un decennio di ricorsi ai tribunali, ci fu l’intervento del governo il quale decise di annullare temporaneamente il brevetto di Bell in quanto ottenuto per frode e dichiarazione del falso. Cosa che venne poi confermata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Allora aveva ragione Garibaldi, il quale diceva che tu eri un genio, ma nel fondo restavi un gran brav’uomo che in una società come quella capitalista americana eri come una colomba in una stanza piena di volpi!

Spiace dirlo, ma è proprio così. Quel volpone di Bell riprese i miei modelli, li mise in produzione, mentendo e truffando li fece passare per suoi e, avendo mezzi e appoggi di ogni genere, fece fortuna con il frutto della mie ricerche.

 

Per oltre un secolo, ad eccezione dell’Italia, è stato universalmente considerato inventore del telefono Alexander Graham Bell. Il fatto che il sistema legislativo degli Stati Uniti d’America abbia finalmente riconosciuto – sia pur con molto ritardo – che questa invenzione fosse da attribuire ad Antonio Meucci, è un postumo quanto doveroso risarcimento morale all’inventore fiorentino, che, gioverà ricordare, morì povero e dimenticato da tutti in una terra rimasta sempre straniera.

Don Mario Bandera – Missio Novara




Cinque per mille: un po’ meglio ma non basta


Riprendiamo il dibattito sul cinque per mille per vedere a che punto è arrivato il processo di semplificazione e aumento della trasparenza, auspicato dalla Corte dei Conti, dal 2013 a oggi. La più recente deliberazione della Corte, la 9/2015/G dello scorso ottobre, segnala ancora molti punti irrisolti.

Mancano circa due mesi alla prima delle scadenze per la presentazione della dichiarazione dei redditi (quella cioè relativa al modello 730) e per la contestuale scelta da parte dei contribuenti della destinazione del proprio cinque per mille. L’istituto del cinque per mille gode di parecchia popolarità, che emerge in maniera netta a confronto, ad esempio, con la destinazione del due per mille ai partiti politici, opzione introdotta dal 2014. Quest’ultima ha riscosso un ben più misero successo – poco più di un milione di contribuenti, contro gli oltre diciassette milioni che sottoscrivono il cinque per mille – e un ben più magro bottino: 9,6 milioni di euro contro i quasi 390 milioni del cinque per mille. Il primo beneficiario del cinque per mille, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, incassa da sola quasi sei volte tanto tutti i partiti messi insieme.

La Corte dei Conti, ente di controllo della gestione delle risorse pubbliche, è intervenuta con tre deliberazioni (nel 2013, 2014 e 2015) per analizzare il funzionamento del meccanismo del cinque per mille e per evidenziae diverse storture: ne avevamo parlato nel giugno 2015 (Cinque per mille, la lunga strada verso la chiarezza). Vediamo a oggi che cosa è stato corretto e che cosa invece, a detta dei magistrati contabili, resta ancora da fare.

Stabilizzazione e elenchi dei beneficiari, un passo avanti

Stabilizzazione. Il cinque per mille è stato introdotto con la legge finanziaria del 2006 «a titolo iniziale e sperimentale»; è rimasto un istituto provvisorio fino due anni fa, quando la legge 190 del 23 dicembre 2014 ne ha sancito la stabilizzazione, cioè lo ha reso un contributo certo e non più soggetto a rinnovo di anno in anno mediante introduzione nella legge di stabilità. Inoltre, il tetto di spesa – cioè la somma massima che il governo si impegna a erogare per il totale dei contributi – è aumentato da 400 a 500 milioni di euro.

Elenco enti. Altra spunta all’elenco delle cose da fare è quella relativa alla lista totale degli enti ammessi in una o più categorie di beneficiari fino al 2013, che l’Agenzia delle entrate ha pubblicato sul proprio sito, insieme a un motore di ricerca che rende possibile individuare i soggetti beneficiari cercando per denominazione, codice fiscale o provincia.

Trasparenza. Infine, un parziale miglioramento della trasparenza si è registrato, a partire dal 2015, anche nella casella dei beni culturali e paesaggistici: ora è infatti precisato che il cinque per mille di chi sceglie questa opzione va a organismi privati, mentre la dicitura precedente poteva portare il cittadino a pensare che il suo contributo andasse al ministero per i Beni, le Attività culturali e il Turismo (Mibact) o ad altri enti pubblici.

Quel che ancora non va

Ma la lista dei provvedimenti presi, purtroppo, si ferma qui. Molto più lunga è quella delle storture rilevate già nelle precedenti sentenze e non ancora corrette.

Intermediari. La prima sulla quale insiste la deliberazione è quella delle irregolarità nei comportamenti degli intermediari, di coloro, cioè, che assistono i contribuenti nella compilazione dei modelli. L’Agenzia delle entrate ha avviato, su richiesta della Corte dei Conti, una serie di controlli sui Caf, i centri di assistenza fiscale. I Centri presi in esame sono stati: il Caf Mcl, il Caf Acai, il Caf Servizi di base, il Caf Anmil e il Caf Acli e il risultato degli interventi di vigilanza ha mostrato che nel 3,7 per cento dei casi esaminati «le scelte del contribuente non risultano trasmesse correttamente dal Caf».

Più trasparenza. Secondo la Corte, alla stabilizzazione dell’istituto non si è ancora accompagnata una sua riorganizzazione: c’è ancora molto da fare, ad esempio, riguardo alla trasparenza. Strumenti utili a questo fine, ripetono i magistrati contabili, sarebbero la pubblicazione dei bilanci, una più uniforme e chiara rendicontazione delle somme ottenute, e anche meccanismi «per espellere gli organismi non meritevoli della fiducia accordata dai contribuenti» nel caso di omessa o non adeguata rendicontazione.

Selezione. Serve anche una maggior selezione degli enti. Secondo la Corte, infatti, «benché il proliferare dei beneficiari esprima la frammentazione dei bisogni della società contemporanea», occorre una più rigorosa selezione dei beneficiari per «non disperdere risorse per fini impropri: i fruitori, infatti, superano ormai il numero di 50mila».

La Corte si riferisce in particolare alle tante onlus ed enti di volontariato che ottengono meno di 500 euro e a quelli che non hanno avuto nemmeno una scelta, e ribadisce l’effetto distorsivo per cui le organizzazioni che possono contare sul sostegno di contribuenti facoltosi ottengono importi rilevanti anche con un numero molto basso di firme. La Corte, insomma, non prende di mira la frammentazione in sé, ma quanti tradiscono le intenzioni del legislatore e lo spirito dell’istituto, non producendo un effettivo «valore sociale». Una critica che si estende anche agli enti beneficiati da chi sceglie di supportare la cultura: i «rilevantissimi tagli di bilancio» che il Mibact ha subito negli ultimi anni, recita la deliberazione, dovrebbero indurre a un utilizzo delle risorse del cinque per mille a favore dello Stato e degli altri enti pubblici; invece queste risorse vengono dirottate su enti privati «che sviluppano, peraltro, spesso, progetti non di particolare interesse per i contribuenti».

Lentezza cronica. Pure sulla rapidità nell’accredito delle quote c’è ancora molto da migliorare: nel 2015 la pubblicazione delle quote assegnate (relative all’anno fiscale 2013) è avvenuta a metà maggio, risultando quindi più lenta rispetto agli anni precedenti. Concentrare i pagamenti in capo a un’unica struttura, insiste la magistratura contabile, potrebbe velocizzare i tempi. Oggi, a essere coinvolti sono diversi ministeri e l’Agenzia delle entrate che comunicano fra di loro in modo non abbastanza efficiente.

Anagrafe unica. Resta ancora da realizzare «l’unione in una sola anagrafe degli albi, degli elenchi e dei registri attualmente presenti». In più sarebbe auspicabile un «database pubblico con dati provenienti dall’Agenzia delle entrate, dalle Camere di commercio, dal Coni e dalle altre amministrazioni coinvolte, che consenta di valutare più compiutamente l’operato degli enti con finalità sociali».

Come sempre, spetta al legislatore recepire e applicare le raccomandazioni della Corte. E il legislatore, ricorda la deliberazione, è al lavoro sulla riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e del servizio civile universale (e sulla sua successiva attuazione), che «annuncia importanti novità in materia di cinque per mille attraverso una riforma strutturale di questo istituto».

Le polemiche sulle campagne promozionali

Al di là degli aspetti legislativi e contabili, il cinque per mille torna ogni anno al centro del dibattito sull’uso delle immagini e sull’aggressività delle campagne per convincere i contribuenti ad aderire. Nel febbraio 2016, la rivista «Africa» è tornata (duramente) sull’argomento riferendosi in particolare alle organizzazioni che operano nel Sud del mondo: «Si è aperta la caccia al 5 per mille degli italiani. Come ogni primavera, migliaia di onlus e Ong sono impegnate a convincere i contribuenti con campagne che toccano le corde emotive (…). Ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano ha sempre una presa forte sul pubblico che, impietosito, allarga i cordoni del borsellino e dona all’associazione». La rivista dei padri bianchi invita «tutti coloro che condividono questa battaglia a scegliere di destinare il proprio 5 per mille solo a chi non fa un uso delle immagini dei bambini lesivo dei loro diritti».

Contro la «pornografia del dolore» anche Mco si è schierata chiaramente da queste pagine sul primo numero di questo 2016. Sembra che il vecchio adagio «il fine giustifica i mezzi» sia davvero duro a morire. Non solo in certe Ong e onlus, ma anche nella testa di certi missionari, di più o meno vecchio stampo, che, eccessivamente preoccupati di far quadrare i conti dei «loro» pur santi progetti, in questa situazione di crisi non vanno troppo per il sottile per fidelizzare i loro benefattori.

Il 5×1000 a Mco

Questo resoconto di storture, ritardi e polemiche, per di più con tanto linguaggio «burocratese», non è esattamente un assist da campioni per chiedervi di destinare a Mco il vostro cinque per mille, lo sappiamo.

Ma la verità è che noi non siamo dei maghi della comunicazione. Perché siamo figli di un Fondatore che ci ha detto di «fare bene il bene» (e fin qui tutto bene), ma anche di «farlo senza rumore».

E allora, sì, metteremo qualche foto, qualche richiamo, qualche pagina sulla rivista, e quel fastidiosissimo pop up che troverete sul sito. Ma nulla di più… rumoroso.

La verità è che non ci piace l’idea che a convincervi sarà, o sarebbe, una bella campagna e qualche bella foto all’ultimo minuto.

Preferiamo pensare di avervi persuasi durante tutto l’anno, con i nostri progetti, i nostri articoli, le nostre adozioni a distanza, l’informazione che condividiamo sui social. O, ancora di più, di avervi convinto in oltre cent’anni di lavoro sul campo, come si dice in gergo, o in missione, come viene più facile dire a noi.

Anche perché, se non vi abbiamo convinti così, non c’è testimonial Vip che tenga.

Quel che più di tutto ci piace pensare è che non solo vi abbiamo persuaso, ma soprattutto vi convinceremo ancora attraverso quello che realizzeremo grazie a voi. E lo diciamo in anticipo: «Grazie. A voi».

Chiara Giovetti




Migranti nuovi untori


Tubercolosi, epatiti, scabbia, Hiv, gonorrea, sifilide, morbillo, rosolia. L’elenco delle patologie è lungo. Il quesito è: sono in aumento (anche) a causa dell’arrivo dei migranti? Cosa accadeva quando i migranti eravamo noi?

L’ultimo immigrato è sempre il peggiore. L’ondata di migranti che arriva sulle coste italiane e sui confini europei genera nelle popolazioni residenti mille preoccupazioni e spesso senso di rifiuto. Esattamente come accadde, tra la metà del XIX secolo e la metà del XX secolo, alle masse di emigranti che lasciarono l’Europa e l’Italia. Circa 25 milioni si sparsero in tutti i continenti e gli Stati Uniti, insieme a Argentina e Brasile, furono tra le mete principali, come si evince dai registri di Ellis Island, la piccola isola posta nella baia dell’Hudson davanti a New York, che, tra il 1892 ed il 1954, divenne il principale punto d’ingresso negli Usa. Qui i migranti venivano sottoposti a umilianti ispezioni mediche e poliziesche, prima di ottenere il visto d’ingresso nella nazione. Mentre fino al 1875 l’ingresso negli Usa era libero, successivamente furono poste restrizioni. Nel 1891 venne promulgato il Federal Act, che prevedeva l’esclusione degli «idioti», dei malati (soprattutto quelli contagiosi), dei poveri e di tutti quelli che potevano rappresentare un carico per la società. Non potevano inoltre entrare donne gravide non sposate (per timore che fossero prostitute), criminali, poligamici e lavoratori a contratto. A Ellis Island, dopo una prima rapida visita medica fatta in circa 6 secondi, in cui si controllava tra l’altro la presenza di tracoma con l’uso di uncini per rivoltare le palpebre, le persone giudicate non idonee venivano marchiate e fermate per ulteriori approfondimenti. Poteva seguire un periodo di ricovero più o meno lungo (la quarantena), oppure direttamente l’espulsione. In questo caso le navi, che avevano trasportato i migranti avevano l’obbligo di riportarli ai paesi d’origine. Chi superava la visita medica veniva poi sottoposto ad accertamenti per escludere pregressi guai giudiziari. In pratica gli accertamenti medici dovevano stabilire che chi entrava potesse aumentare validamente la forza lavoro necessaria al progresso della nazione e non fosse portatore di malattie contagiose pericolose per i residenti.

La stessa preoccupazione che, in questi anni, assale molti alla vista dei migranti che raggiungono l’Italia o altri paesi europei. Le domande a cui cercheremo di dare risposta sono dunque le seguenti: i migranti sono un pericolo per la nostra salute? Essi sono davvero portatori di malattie infettive, che potrebbero generare un’emergenza sanitaria per l’Italia e l’Europa? Le paure sono giustificate?

Paure e opportunismo politico

Nell’estate del 2015, alcuni comuni del savonese con giunte di centrodestra, tra cui Alassio, emisero ordinanze per impedire l’ingresso degli stranieri senza fissa dimora e privi di certificato medico attestante l’assenza di malattie infettive trasmissibili quali Hiv, tubercolosi, ebola, scabbia. Il Viminale chiese prontamente la revoca di tali provvedimenti. Per non parlare di quanto avvenne ad Asotthalom, un comune ungherese al confine con la Serbia, guidato da un sindaco appartenente a un partito di ultradestra, antisemita e anti Ue. Qui, l’estate scorsa, alle stazioni dei bus vennero affissi manifesti recanti avvisi e foto shoccanti, in cui si dichiarava che i migranti sono portatori di malattie infettive, per cui esisterebbe un reale pericolo di contagio, e si invitava a non toccare oggetti lasciati dai migranti senza guanti di protezione. In caso di contatto accidentale con tali oggetti e in presenza di sintomi come diarrea, vomito, esantemi cutanei, si raccomandava di contattare prontamente un medico. Oltre alle autorità municipali, tale avviso venne firmato anche da un rappresentante locale del governo di Budapest.

Le patologie

Leggendo il rapporto del 2014 dell’Ecdc (European Center for Disease Control) dal titolo «Valutazione del carico delle malattie infettive nella popolazione di immigrati nell’Unione Europea», ci si rende conto che, pur essendo presenti tra i migranti casi di malattie infettive, il maggiore pericolo che ne deriva per la nostra comunità è rappresentato dalla difficoltà di accesso alle cure per queste persone, con conseguente possibilità di contagio per patologie non curate. Questo rapporto ha preso in considerazione le più diffuse malattie infettive sia tra i migranti che nelle popolazioni ospitanti ed è basato sull’analisi di dati del sistema europeo di sorveglianza delle malattie infettive (European Surveillance System, Tessy), su una revisione della letteratura e su una indagine condotta da una rete di esperti selezionati in tutti i paesi Ue. In particolare il rapporto si è occupato di Hiv, tubercolosi, epatite B e C, gonorrea, sifilide, morbillo, rosolia, malaria e malattia di Chagas. Proviamo a dae un breve quadro.

Hiv – Tra il 2007 e il 2011, i migranti rappresentavano il 39% di tutti i casi di sieropositivi presenti sul territorio. In questo intervallo di tempo, l’incidenza di nuovi casi di Hiv è aumentata debolmente. Le popolazioni di migranti con maggiore incidenza sono state quelle latinoamericane e quelle dell’Europa centrale e dell’Est, mentre quelle dell’Africa subsahariana hanno dimostrato una diminuzione. Il 92% dei casi di Hiv tra i migranti è stato riscontrato negli stati dell’Europa occidentale e la maggior parte di essi riguardava persone provenienti dall’Africa subsahariana. Un elevato numero di casi di Hiv era dovuto a rapporti eterosessuali. Il modo predominante di trasmissione dell’Hiv tra i migranti tuttavia dipendeva dal paese d’origine. Per esempio, esiste un’alto numero di casi dovuti a rapporti omosessuali tra gli uomini latinoamericani. Il rapporto evidenzia inoltre che certe popolazioni di migranti sono a rischio di contrarre l’Hiv dopo il loro arrivo in Europa. Non si tratterebbe quindi di casi di «importazione», ma di migranti suscettibili a contrarre l’infezione una volta arrivati nell’Ue, probabilmente a causa di comportamenti a rischio e mancanza di modelli di prevenzione. La diagnosi tardiva di Hiv per i migranti è una questione chiave in alcuni paesi dell’Ue. Inoltre queste persone spesso presentano meno indicatori clinici e immunologici al momento della diagnosi, rispetto ai casi di Hiv europei. L’età media degli immigrati con sieropositività è di 32 anni. Circa il 35% degli immigrati Hiv positivi è di origine nigeriana, ma se si considera il tasso standardizzato (che tiene conto della distribuzione della popolazione per età, ndr) il paese di provenienza più rappresentato è il Camerun. Il 78% di nuove diagnosi in Italia riguarda stranieri irregolari. Le principali co-diagnosi registrate con la diagnosi di Hiv sono anemia, epatopatie, infezioni dell’apparato genitale e mutilazioni genitali femminili.

Tubercolosi – La maggioranza dei casi di tubercolosi (Tb) in Europa si riscontra tra le popolazioni native. Tuttavia questa patologia viene frequentemente riscontrata anche tra i migranti. La percentuale di casi di tubercolosi tra i migranti ha avuto un aumento dal 10% nel 2000 al 25% nel 2010. Vi sono però significative differenze nel numero di migranti colpiti, a seconda del paese ospitante. Nel 2011, nazioni come Cipro, Islanda, Olanda, Norvegia, Svezia e Regno Unito hanno registrato fino a più del 70% di casi di tubercolosi fra i migranti, mentre altri paesi hanno registrato pochi o nessun caso. Il picco di questa patologia si verifica per la classe di età 25-34 anni, la più rappresentata nei paesi ospitanti. Sicuramente, e questo riguarda tutte le patologie prese in esame, esiste un certo grado di sottonotifica della malattia e inoltre la frammentarietà dei dati varia tra i diversi gruppi etnici, per via della percentuale di immigrati irregolari nelle diverse comunità. Il rischio di sviluppare la tubercolosi è maggiore nei primi due anni dalla data di arrivo. I dati del Sistema di notifica italiano mostrano come fino al 2007 i casi di tubercolosi tra i migranti insorgevano prevalentemente entro i primi due anni di permanenza in Italia, mentre dal 2008 c’è stata un’inversione di tendenza, con un aumento dei casi insorti a cinque anni e oltre dall’arrivo. In generale, sebbene l’incidenza della tubercolosi sia diminuita negli ultimi anni, la popolazione immigrata presenta un rischio relativo di contrarre la malattia 10-15 volte superiore rispetto alla popolazione italiana e a quella della maggior parte dei paesi europei.

Trattamento Tb – La proporzione di casi di Tb trattati con successo a 12 mesi dall’inizio della malattia risulta inferiore per i migranti rispetto ai nativi. In Italia i casi di tubercolosi tra gli immigrati sono aumentati considerevolmente, passando dal 10% delle notifiche nel 1995 al 58% nel 2012. Secondo i dati dell’Oms, nel 2014 in Italia sono stati notificati 3.600 casi di tubercolosi totali, con 290 decessi, di cui 31 pazienti Hiv positivi. Il tasso d’incidenza stimato è stato pari a 6 casi su 100.000 abitanti, valore che pone l’Italia tra i paesi a più bassa incidenza per la tubercolosi. Uno studio condotto sulla frequenza di nuovi casi di Tb nella popolazione straniera non ha registrato un aumento dei tassi di incidenza (il conteggio annuale dei nuovi casi di una determinata patologia, ndr) della patologia, indicando che l’aumento dei nuovi casi sarebbe da ascriversi alla crescita degli stranieri in Italia. Questo dato dovrebbe contribuire a ridimensionare la preoccupazione riguardante la diffusione della tubercolosi in forma epidemica. Tuttavia sono talora segnalate delle criticità nella gestione dei pazienti e nella loro accessibilità ai servizi socio sanitari. In particolare alcuni studi hanno evidenziato una perdita al follow up (i controlli medici successivi alle terapie, ndr) superiore tra gli stranieri che tra gli italiani. Inoltre, gli immigrati hanno spesso dimostrato una bassa adesione ai protocolli terapeutici sia per la loro elevata mobilità, sia per difficoltà di comunicazione con gli operatori sanitari. Le barriere culturali e linguistiche spesso giocano un ruolo particolarmente importante nei confronti di una patologia come la tubercolosi, che richiede trattamenti di lunga durata in soggetti spesso asintomatici. Ci sono poi gli immigrati irregolari, che possono sfuggire ai sistemi di sorveglianza per timore di essere espulsi. Tutto questo potrebbe provocare un incremento di forme resistenti ai farmaci, sul nostro territorio, del mycobacterium tuberculosis, il micobatterio della tubercolosi. In Europa i migranti colpiti da tubercolosi provengono soprattutto dall’Asia e dall’Africa, oltre che da altre regioni europee. In Italia, le nazioni di origine più rappresentate tra gli affetti da Tb sono: Etiopia, Pakistan, Senegal, Perù, India, Costa d’Avorio, Eritrea, Nigeria, Bangladesh e Romania. I dati a nostra disposizione dimostrano che la malattia colpisce i migranti a un’età inferiore rispetto a quella dei nativi, che la possibilità di contrarre forme di «Tb extrapolmonare» (che colpisce organi diversi, ndr) è doppia tra i migranti, mentre tra loro è meno comune la «Tb multi-resistente» (agli antibiotici, ndr).

Coinfezione Hiv/Tb – Ciò che è emerso dagli studi è che l’immigrato proveniente da paesi ad alta endemia di Tb e Hiv ha un elevato rischio di sviluppare una o entrambe le malattie, una volta giunto nel paese ospitante. La migrazione costituisce infatti di per sé un fattore di rischio per il cambiamento dello stile di vita a cui vanno incontro queste persone, caratterizzato da precarie condizioni socio economiche e sistemazione in luoghi spesso particolarmente sovraffollati e privi di ogni genere di comfort. L’attiva ricerca di nuovi farmaci per contrastare l’Hiv si contrappone all’innovazione di una terapia antitubercolare stabile da più di mezzo secolo. Inoltre l’infezione da Hiv rappresenta il maggiore fattore di rischio di sviluppo della tubercolosi in soggetti con Tb latente. Infatti il rischio di sviluppo della Tb è da 20 a 37 volte maggiore tra i sieropositivi, rispetto ai sieronegativi da Hiv. Si stima che più di un milione di persone nel mondo abbiano una coinfezione Hiv/Tb, soprattutto nell’Africa subsahariana e in Asia. I dati italiani dimostrano un’elevata cutipositività alla tubercolina (test atto a scoprire i soggetti infettati dal bacillo, ndr) tra gli immigrati al momento dell’arrivo nel nostro paese, indice di pregressa infezione. Sulla base di questi dati si può ipotizzare che lo sviluppo della malattia sia conseguenza, nella maggior parte dei casi, di riattivazione di pregresse infezioni allo stato latente. Dal momento che la maggior parte degli episodi di malattia si manifesta precocemente, si può ipotizzare il ruolo primario delle condizioni socio economiche dei migranti, particolarmente sfavorevoli nel primo periodo di migrazione.

Gonorrea e sifilide – I dati relativi ai migranti colpiti da queste due malattie veneree sono disponibili solo in poche nazioni europee e sono spesso incompleti. Facendo un confronto con i dati delle popolazioni autoctone, si osserva che, nel 2010, l’11% dei casi di gonorrea ha riguardato i migranti, contro il 50% dei casi nei nativi, mentre si sono riscontrati casi di sifilide nel 7,3% dei migranti e nel 55,4% dei nativi. Tra il 2000 ed il 2010, la percentuale di casi di gonorrea e sifilide tra i migranti è rimasta stabile. Tuttavia, per quanto riguarda la gonorrea, il rapporto maschi/femmine per i nativi colpiti dalla malattia è rimasta stabile, mentre per i migranti sono aumentati i casi di donne malate. I dati a disposizione suggeriscono che i migranti acquisiscono la gonorrea con i rapporti eterosessuali quattro volte più facilmente che con quelli omosessuali. La percentuale dei casi di gonorrea tra i «lavoratori del sesso» è decisamente superiore tra i migranti, che tra i nativi ed appare significativamente in aumento dal 2006. Per quanto riguarda la sifilide, essa viene contratta maggiormente con i rapporti eterosessuali dai migranti e con quelli omosessuali dai nativi.

Epatite B – Nel 2011, 18 nazioni europee hanno fornito dati relativi ai casi di epatite B tra i migranti per il 39,1% di tutti i casi riportati all’Ecdc. Di questi ultimi, più della metà, cioè il 52,6%, erano casi «importati». Il 6,3% di questi casi era di tipo acuto e l’81,5% di tipo cronico. I dati a disposizione dimostrano una prevalenza di casi di epatite B cronica tra i migranti, rispetto ai nativi. Inoltre si evince che la prevalenza dei casi di epatite è maggiore tra i migranti provenienti da paesi ad alta endemia come quelli dell’Europa dell’est, dell’Asia e dell’Africa subsahariana. Mentre i casi di epatite B tra gli europei si riscontrano più frequentemente in gruppi a rischio come gli omosessuali ed i consumatori di droghe per via endovenosa, i casi tra i migranti sono stati più frequentemente acquisiti nei paesi d’origine, spesso con trasmissione verticale madre-figlio.

Epatite C – Sebbene i dati a disposizione al riguardo siano molto frammentari, essi suggeriscono una prevalenza di infezioni croniche tra i migranti. I dati provenienti da Francia, Regno Unito, Spagna e Olanda suggeriscono una prevalenza dei casi di epatite C soprattutto tra i migranti provenienti da paesi in cui la malattia è endemica, rispetto alla popolazione totale. Al momento tuttavia i dati a disposizione sono insufficienti per valutare il trend.

Morbillo e rosolia – Dei 10.271 casi di morbillo riportati nel 2013 dal sistema Tessy, solo il 2,7% erano «importati» e lo 0,3% correlati a migranti. I dati a disposizione suggeriscono che i figli dei migranti si ammalano di morbillo più facilmente di quelli degli europei perché la loro copertura vaccinale è inadeguata.

Per quanto riguarda la rosolia, dei 201 casi riportati dal Tessy nel 2011, l‘8,5% è risultato di «importazione». Anche in questo caso il maggiore fattore di rischio è rappresentato dalla vaccinazione inadeguata tra i migranti, in particolare tra le migranti gravide.

Malaria – Il 99% dei casi di malaria riportati dai paesi europei sono di «importazione». I casi indigeni in Europa potrebbero essere dovuti alla presenza dei vettori della malattia e a favorevoli condizioni di trasmissione della medesima, combinate con l’arrivo e il rapido tu over dei lavoratori stagionali migranti da zone dove tale malattia è endemica. In una serie di studi, gli immigrati da poco tempo e quelli che periodicamente tornano nel loro paese d’origine rappresentano dal 5% all’81% del totale dei casi di malaria registrati in Europa. In particolare coloro che spesso tornano nel loro paese d’origine hanno dimostrato una maggiore suscettibilità all’acquisizione della malaria. Tra costoro, le persone più a rischio sono le donne gravide ed i bambini. Anche il paese d’origine influenza il profilo della malattia. La malaria dovuta al Plasmodium falciparum, ad esempio, si sviluppa principalmente in migranti provenienti dall’Africa subsahariana.

Malattia di Chagas – Nota anche come tripanosomiasi americana, è una parassitosi, causata dal protozoo Trypanosoma cruzi. I vettori sono insetti appartenenti alla sottoclasse delle cimici ematofaghe di generi diversi. È presente in Europa a seguito della migrazione da paesi latinoamericani, in cui è endemica. Sebbene la malattia non sia sistematicamente monitorata nelle nazioni europee, tuttavia il numero di casi è aumentato nell’ultimo decennio, al punto da destare preoccupazione. Spagna, Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Olanda sono le nazioni più colpite.

 

Ebola – Dato l’elevato grado di letalità di questo virus, che ha un periodo d’incubazione di 21 giorni e che, dopo avere provocato una malattia estremamente debilitante, uccide in pochi giorni e in considerazione della lunghezza temporale delle migrazioni, che normalmente durano mesi, è estremamente improbabile che qualche persona colpita riesca a raggiungere l’Europa. Infatti finora non sono stati segnalati casi di Ebola tra i migranti.

Dall’analisi dei dati dell’Ecdc risulta che i migranti normalmente non sono portatori di malattie esotiche, ma solitamente sono persone partite sane dai paesi d’origine, che però si trovano ad avere necessità di assistenza sanitaria per malattie dovute alle nuove condizioni esistenziali.

Da Manzoni ai giorni nostri

Fatte queste premesse, nella prossima puntata cercheremo, tra l’altro, di rispondere a un quesito che la quotidianità e certa politica ci propongono: gli immigrati sono i nuovi «untori» di manzoniana memoria?

Rosanna Novara Topino

(fine prima parte)




Missione Europa: dalla memoria all’azione


Due anni fa, come missionari e missionarie della Consolata abbiamo promosso in tutte le nostre comunità sparse per il mondo un anno speciale dedicato al beato Giuseppe Allamano. Lo scopo di quell’iniziativa era di riscoprire e rinnovare il legame affettivo con la persona del nostro fondatore, per scongiurare il rischio di lasciare arrugginire il rapporto vitale con la nostra storia.

Quando uno entra a far parte dei missionari della Consolata,  è chiamato a vivere una relazione speciale con l’Istituto, che l’Allamano ha sempre considerato come una famiglia. In questa maniera non banalizza né narcotizza nella routine quotidiana uno stile di vita per la missione che invece va continuamente rivitalizzato e rinnovato. La missione non si vive per abitudine, ma richiede di essere riscoperta, rivissuta e ripresentata con forza in modo appassionato e coinvolgente.

Se questa riflessione è valida per tutti i missionari sparsi nei vari continenti, in Europa è ancora più urgente, a causa della profonda trasformazione che il continente sta vivendo. Una situazione che offre spunti di enorme interesse alla riflessione sulla missione. Per anni l’Europa è stato lo scrigno della nostra tradizione. Ma ora rischia di essere la nostra tomba. Senza voler essere irriverenti, dobbiamo oggi estrarre il «tesoro» del beato Allamano che abbiamo chiuso nel sepolcro in cui egli è venerato, allo scopo di proiettarlo, senza bisogno di troppe parole ma attraverso la nostra vita e le nostre scelte, nelle periferie geografiche ed esistenziali dell’Italia, del Portogallo, della Spagna e della Polonia, i paesi europei in cui lavoriamo.

Siamo quindi chiamati oggi a coltivare una duplice spiritualità: della memoria e dell’azione. Innanzitutto della memoria: qui siamo nati, qui l’Istituto ha mosso i primi passi, qui si è sviluppato e da qui ha vissuto la propria missione, dedicandosi all’animazione missionaria della Chiesa locale, alla ricerca di aiuti e vocazioni per le missioni. Qui alcuni grandi confratelli e consorelle hanno dedicato con zelo e passione la loro vita per mantenere e far crescere la dimensione missionaria della Chiesa in Europa. Riscoprire la figura dell’Allamano sacerdote in Europa, e quella dei confratelli che ne hanno continuato lo spirito, è il primo compito che ci proponiamo. Saremo forse nani sulle spalle di giganti, come diceva Wittgenstein dei grandi filosofi dell’antichità, ma dall’alto di quelle robuste spalle che ci sostengono, vogliamo guardare lontano.

La memoria da sola non basta, va perciò coniugata con una spiritualità dell’azione per capire come tradurre in atteggiamenti concreti lo spirito del missionario della Consolata in un contesto come quello europeo. Senza abbandonare quella che era «l’animazione missionaria», oggi abbiamo in atto tante nuove esperienze di consolazione e annuncio all’interno delle chiese europee. L’apertura di nuove presenze in quartieri marginali, l’accoglienza di profughi e migranti in alcune delle nostre case, il servizio alle comunità etniche o alle donne sfruttate, le molteplici attività di consolazione dirette a curare l’uomo di oggi ferito dalla solitudine e dal sentirsi uno scarto della società, la vicinanza ai giovani ormai lontani dalla vita ecclesiale, eppure così desiderosi di qualcuno che parli loro di Dio …

Possiamo riscoprire la nostra vocazione di annunciatori della Buona Notizia nei «nostri» paesi diventati un terreno fertile per vivere la nostra vocazione delle origini: il primo annuncio del Vangelo.

Ugo Pozzoli

 




Storia del Giubileo 7. Il giubileo biblico incompiuto


Nel libro del Levitico si prescrive una contraddizione: da una parte il giubileo deve farsi ogni 49 anni e dall’altra, si dice di celebrarlo ogni 50.

«8Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. 10Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi toerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. 11Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. 12Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi» (Lv 25,10-12).

Queste espressioni sono la spia non solo di tradizioni diverse confluite nella redazione finale del testo giunto fino a noi, ma anche la prova della praticità della religione ebraica. In tutte e due le versioni, comunque, si afferma l’idealità teorica, non la concretezza storica del Giubileo perché dal sec. V a.C. al tempo di Gesù, cioè durante tutto il periodo del secondo tempio, ricostruito da Esdra e Neemia, il giubileo non fu mai praticato, come abbiamo già visto. Lo stesso capitolo 25 del libro del Levitico, pochi versetti prima, imponeva il riposo sabbatico per la terra ogni sette anni:

«2Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: 3per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; 4ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. 5Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra» (Lv 25,2-5).

Se questa è la dimensione in cui bisogna muoversi, bisogna convenire che ogni «sette settimane di anni», cioè ogni quarantanove anni venivano a coincidere sia il riposo sabbatico (settennale) sia il giubileo (cinquantesimo), per cui sarebbe stato obbligatorio che la terra restasse incolta per due anni di seguito. Questa realtà era talmente presente e preoccupante che Alessandro Magno prima e Giulio Cesare poi esentarono gli Ebrei dal pagare le tasse negli anni giubilari; l’esenzione fu abolita nel sec. II d.C. dall’imperatore Adriano (117-138 d.C.) che odiava il popolo ebraico.

Dopo la seconda rivolta palestinese capeggiata da «Bar Kokba – figlio della stella», che molti identificarono come il Messia, l’imperatore Adriano nel 135 comminò l’espulsione definitiva degli Ebrei non solo da Gerusalemme, ma da tutta la Palestina, dando inizio alla transumanza perenne che fu il marchio d’infamia del popolo eletto. Scelto per possedere una terra «promessa», divenne il popolo senza terra, in balia di chiunque, reietti da tutti, fino ad arrivare all’apice dell’abiezione che fu l’orrore della «Shoàh». La quale non arrivò all’improvviso come un fulmine estivo, ma fu la logica conseguenza, preparata da venti secoli di emarginazione, persecuzione e disprezzo, alimentati teologicamente dalla Chiesa che ne aveva fatto un punto nevralgico della propria catechesi ordinaria fino all’arrivo del papa profeta, Giovanni XXIII, che volle modificare il Messale della liturgia, facendo togliere dalla preghiera del Venerdì Santo l’intercessione «pro pèrfidis Iudèis».

Se la terra è di Dio, nessuno è proprietario

Lo scopo di tutte queste prescrizioni dettagliate, oseremmo dire pignole, non è quello di creare un «istituto giuridico periodico», ma di sviluppare una teologia per la formazione del popolo: il concetto affermato dal Giubileo è che la terra, tutta la terra, è di Dio e l’uomo non ne può mai essere il proprietario, ma solo l’usufruttuario. In questo modo si svuotava di senso l’idea di «proprietà privata». Un esempio chiarirà meglio: se una donna era sposata a un uomo di una tribù diversa, l’eventuale eredità di una terra non poteva passare nella disponibilità proprietaria del marito, perché la terra doveva restare nella tribù di appartenenza. Per questo motivo si tentava di sposarsi solo tra membri delle rispettive tribù, o addirittura all’interno della stessa cerchia parentale con enormi problemi sul piano delle malattie ereditarie. In questo modo si affermava che solo Dio è il creatore e l’uomo, a cominciare da Àdam ed Eva, è perennemente ospite provvisorio della terra:

«Mia infatti è tutta la terra … al Signore, tuo Dio, appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene … Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Es 19,5; Dt 10,14; Lv 25,23).

Questa teologia è sviluppata nel libro di Giobbe, scritto nel dopo l’esilio, in cui si narra di un israelita cui Dio ha tolto tutto. Il pio Giobbe formula il principio dei riformatori e cioè che nessuno è proprietario di nulla in questo mondo: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritoerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,10). Si è fatto passare questo povero Giobbe come l’uomo della pazienza, svilendo così il senso del libro, di grande portata sociale e religiosa: la relativizzazione della proprietà privata.

Siamo forestieri e ospiti, non proprietari o, peggio, dominatori, ritornando così «al principio» di Genesi, quando Dio «pose Àdam nel giardino di Eden perché gli ubbidisse e lo ascoltasse» (Gen 1,15, testo ebraico): l’uomo è al servizio della terra, come se questa fosse sua figlia. Non ci troviamo davanti a una norma civile, ma di fronte a una professione di fede che deve stabilire il rapporto dell’uomo con il creato e la sudditanza del primo al secondo, non il contrario. È ciò che afferma Papa Francesco nell’enciclica «Laudato si’» con un grido di allerta all’umanità tutta, alla politica, all’economia perché tornino alla coscienza del «principio» e si aprano alla consapevolezza del limite che è il contrario del delirio di onnipotenza che sta devastando tutto il creato.

Dio creatore aveva dato consistenza al creato e all’umanità in sette giorni, simbolici della totalità della perfezione. Ora l’Ebreo deve contare il tempo di sette anni in sette anni, poi in sette settimane di anni «perché mia è la terra», simboleggiando così che lo scorrere della storia è guidato da Dio. In questo modo si stabilisce un rapporto molto stretto tra Dio e il tempo: se il tempo della vita che dipende dal nutrimento della terra è scandito da Dio, si afferma l’antropologia teologica che l’uomo non è Dio e quindi non può pretendere di essere «onnipotente» come fece Àdam che, infatti, trasformò il giardino di Eden in un inferno di spine e sofferenze.

Il Giubileo tutela i poveri senza riuscirvi

Come abbiamo visto nelle puntate 5a e 6a, la differenza tra Anno Sabbatico e Giubileo era questa: nel primo era prescritto il condono dei debiti di qualsiasi natura e la restituzione della libertà agli schiavi; col secondo si doveva, teoricamente, rientrare in possesso della terra data in pegno per qualsiasi motivo, affinché si potesse ricostituire il patrimonio preesistente e quindi ristabilire l’assetto proprietario tra le tribù: ciò valeva solo nelle campagne, ma non nelle città, dove il principio non poteva essere applicato alle abitazioni.

Comunque sia, la pratica ha fatto sì che gli ideali dell’Anno Sabbatico (condono) e del Giubileo (proprietà) fossero in un certo senso intercambiabili, considerata la loro natura di fondamento per una maggiore equità sociale e comunitaria che si attribuiva direttamente alla volontà di Dio. In altri termini più modei, si direbbe una più equa distribuzione della ricchezza e l’affermazione solenne dell’uguaglianza di tutti davanti a Dio.

Dal Giubileo è estranea ogni idea d’indulgenza, concetto assente nella Bibbia, e qualsiasi pratica di pellegrinaggio come spostamento verso un luogo privilegiato perché Giubileo e Anno Sabbatico si compiono dovunque vi sono due Ebrei in relazione tra loro. Il pellegrinaggio, invece, ha preso il sopravvento nel Cristianesimo, e successivamente nel Islam, con il viaggio a Gerusalemme per Cristiani e Musulmani, poi trasferito dal sultano alla Mecca per quest’ultimi. Gli Ebrei non hanno il senso del pellegrinaggio come visita, ma l’idea del ritorno annuale a Gerusalemme, come simbolo escatologico della ricostruzione del popolo d’Israele attorno al tempio del Signore ricostruito e quindi come fine dell’esilio e della diaspora. Ancora oggi, la sera di Pasqua, gli Ebrei, ovunque sono nel mondo, concludono la cena, con un sospiro di desiderio che si fa preghiera e anche augurio: «Hashanàh haba’à beYerushallàyim – l’anno prossimo a Gerusalemme», auspicando la ricostruzione del tempio e la ricomposizione di Israele come popolo di Dio nell’unica terra che è la terra d’Israele, terra di Dio.

Durante il Giubileo, dunque, si doveva fare riposare la terra: non si doveva seminare, né potare o vendemmiare la vigna; i frutti dovevano restare sugli alberi e sulla vite; chi aveva riserve in cantina, poteva usarle fino a che gli stessi frutti restavano naturalmente sull’albero, ma quando cessava la stagione, dovevano essere distrutte anche le riserve nei depositi, che di solito erano appannaggio dei ricchi. Con ciò si affermava la parità assoluta tra ricchi e poveri e si ristabiliva un criterio di giustizia che metteva un freno alle prevaricazioni.

Nell’anno del Giubileo, infine, non si doveva pretendere la restituzione del debito. Quest’ultima norma ha avuto effetti micidiali, perché, all’approssimarsi del Giubileo, nessuno faceva più prestiti ai poveri con la conseguenza di aumentare la povertà, vanificando così il dettato divino, anzi capovolgendolo. Alla luce di questa tragica situazione, alcuni anni prima di Gesù, il grande rabbì Hillèl, di cui fu discepolo l’apostolo Paolo di Tarso, stabilì la norma che i debiti fossero trasferiti al tribunale che ne garantiva il riscatto, venendo in aiuto ai poveri. Si potrebbe dire che, come in tutte le culture e in tutti i tempi, fatta la legge, si è trovato l’inganno.

Ritrovare il senso del tempo e dello spazio

Da un punto di vista teologico, poiché il Giubileo riguardava un determinato periodo di anni in relazione a un determinato territorio fisico, è coerente pensare che esso sia il primo germe di una Teologia della Storia perché pone al centro della riflessione due elementi costitutivi della fede cristiana: il tempo e lo spazio, cioè l’ambito «umano» in cui si svolge l’esperienza dell’alleanza e quindi si vive la salvezza  (in campo cattolico, indichiamo a modo di esempio solo due autori: H. Urs Von Balthasar, Teologia della storia. Abbozzo, Morcelliana, Brescia 1969; W. Kasper, Fede e storia, Queriniana, Brescia 1985).

Il tempo biblico non è la ruota ciclica (O) dei Greci che s’identifica con il destino, in quale si attua indipendentemente dalla volontà dell’individuo che soggiace al volere degli dèi. Non è nemmeno la linea retta (?) dei Romani che avanzano senza mai fermarsi come una legione a testuggine, verso un progresso senza limiti. Il tempo biblico è la sintesi del cerchio greco e della retta romana che si trasforma in una spirale, cioè non un semplice ritorno (Greci) né un inesorabile progresso lineare (Romani), ma una ripresa costante di ciò che precede, amalgamato con quello che segue, salendo di un gradino verso l’alto: la spirale appunto, un cerchio aperto che procede in avanti perché sale.

Questa immagine ridefinisce il concetto di tempo che non è più una dimensione cronologica (una cosa dopo l’altra), cioè una successione anonima di fatti che capitano per essere subìti in una rassegnazione sistematica. La spirale porta in sé l’idea di una circolarità arricchita da occasioni coscienti, messe in atto dagli eventi, ma specialmente dalle persone, capaci di dare una svolta all’anonimato, e quindi anche di cambiare il senso e la direzione della storia. È il concetto di «kairòs – occasione» che mette in evidenza l’aspetto di qualità del tempo. Vi sono fatti indifferenti e fatti che cambiano il corso della storia. È questo il caso dell’Anno santo della Misericordia di Papa Francesco.

In altre parole l’uomo biblico non subisce meccanicamente il susseguirsi della cronologia, ma con le sue scelte può influire, nel bene e nel male, inducendo la storia ad andare in una direzione o in un’altra. È il concetto di responsabilità che si richiama direttamente alla coscienza. In rapporto a Dio, il tempo dell’uomo diventa «liturgico», in quanto «regalato» al rapporto con il divino attraverso riti e atti stabiliti da un protocollo (rituale). Ciò esige per sua natura anche la riserva di uno spazio dove il tempo celebrato possa trovare espressione e dimensione: nascono il tempio, i santuari, le chiese, le moschee come simboli della sintesi tra tempo e spazio.

L’uomo tende a sacralizzare perché nel consacrare o nel separare ambiti (spazio) e dimensioni (tempo), definendoli «sacri» in quanto distinti dal «profano», trova una garanzia e una sicurezza garantita dalla ripetitività dei gesti, delle liturgie e delle parole (rubriche) che offrono un certo grado di inamovibilità e perennità, quasi a volere lambire così il mondo di Dio. Per questo, nella vita di ciascuno si individuano cinque tappe «storiche» da consacrare come appuntamenti quasi «giubilari»: la nascita (battesimo), la crescita (cresima), la fecondità (matrimonio), la sofferenza (unzione infermi), la morte (esequie).

Paolo Farinella, prete
(7, continua)

 




Storia del Giubileo 6. Il Giubileo


Abbiamo già visto che tutto ruota attorno alla questione della proprietà della terra, dopo l’editto di liberazione del re Ciro (538 a.C.), contesa tra i possessori di fatto che non erano stati deportati e gli esiliati rientrati che vantavano il diritto legale alla proprietà.

Schiavi per debiti

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Il rientro dall’esilio, quindi, non è stato quel trionfale e giornioso ritorno descritto dai testi sacri, ma un doloroso incidente che ha portato quasi a una guerra civile. Da un lato, per i residenti che non erano stati deportati, i nuovi arrivati erano intrusi, anzi «stranieri», venuti a scombussolare la loro tranquilla, anche se povera, esistenza. Erano passati cinquant’anni da quei fatti dolorosi e l’esilio era un ricordo nella memoria. Da parte loro, gli immigrati ritornati, pretendevano di rientrare in possesso di tutte le proprietà che erano stati costretti a lasciare per la violenza dell’invasore di allora. Si erano dunque creati due partiti contrapposti, di cui abbiamo un indizio forte nel capitolo 5 del libro di Neemia.

Quando una famiglia povera faceva un debito gravoso, dava in pegno un figlio o una figlia «come schiavo» che poteva essere trattenuto per sei anni, ma non oltre (cf Dt 15,12). Nella situazione di estrema povertà di quel tempo, i ricchi erano arrivati a prendere come ostaggi-schiavi molti ebrei, cioè fratelli dello stesso popolo e della stessa religione. Neemia aveva imposto il condono dei debiti e la libertà delle persone, proibendo in nome di Dio che un ebreo potesse essere schiavo di un ebreo. Qui troviamo già il primo nucleo di quello che si svilupperà in seguito e che prenderà il nome «Giubileo», che è dunque un istituto giuridico per rispondere ai problemi sorti con il ritorno degli esiliati nella terra d’Israele.

Il Giubileo è la risposta che Israele produce per la soluzione di questi problemi che apparivano senza apparente sbocco: due contendenti avanzavano diritti sulla stessa proprietà. Districare la matassa dopo cinquant’anni non era facile. Solo una scelta drastica poteva imporsi e allo stesso tempo essere stimolo per un progetto futuro. Nasce così il Giubileo che è lo sviluppo naturale dell’Anno Sabatico. Mentre questo riguardava un periodo relativamente corto (sette anni), per il Giubileo si prende la misura «cinquantenaria» che era il periodo di tempo che interessava nella disputa tra residenti e rientrati.

A circostanze nuove, nuova teologia

Oltre che ricostruire il tempio, Esdra e Neemia dovettero riorganizzare la religione, il culto annesso e le leggi che regolavano la vita cultuale del santuario, dimora di Dio. In questa prospettiva si raccolsero testi e tradizioni del passato, specialmente della tribù di Giuda, ma anche di alcune delle dieci tribù del regno del Nord, facendo una straordinaria opera di redazione finale della raccolta di «scritture» che divennero poi quello che oggi conosciamo come «Toràh» (ebraica) o «Pentateuco» (greco). Ciò avvenne intorno al 444 a.C. Si ripensò anche la cosmogonia, cioè l’origine dell’universo, inventato da Dio per creare lo scenario nel quale si sarebbe svolta la storia dell’alleanza tra il «Dio Onnipotente e Creatore» e il «più piccolo tra tutti i popoli» esistenti sulla terra.

La narrazione della creazione, che non è un racconto storico (anche il più sprovveduto se ne rende conto), ha anche uno scopo pedagogico perché l’autore vuole fare un’analogia: come Adamo è stato posto nel giardino di Eden in qualità di custode e servo, così, allo stesso modo, il popolo eletto è stato collocato nella terra promessa d’Israele perché la abiti, la coltivi e la custodisca come corpo prolungato dei Patriarchi e come segno della fedeltà di Dio. Anzi come corpo esteso di Dio perché la terra è «lo sgabello» del trono della sua gloria: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi» (Is 66,1). Questo testo è la conclusione del libro del Terzo Isaia, vissuto in esilio con i deportati. Egli, sviluppando la teologia universalistica del profeta Isaia storico, quello vissuto nel sec. VIII, consola gli esiliati e li incita al ritorno, facendo rivivere la loro storia attuale come una ripetizione di eventi antichi, come l’esodo e la creazione che vengono «ingigantiti» per motivi di natura teologica.

Nuovo concetto  di «proprietà»

Il concetto di «popolo eletto» come «proprietà [di Dio] fra tutti i popoli» (Es 19,5), diventa una chiave teologica con la quale s’interpreta presente, passato e futuro. Tra il VI e il IV secolo in Babilonia e a Gerusalemme nasce un laboratorio in cui tutto si rinnova. Dalla storia passata, che viene riletta e ingigantita, nasce l’istituto del «sabato» come cuore della vita d’Israele e del culto, in sostituzione dei sacrifici; si crea il canone della Bibbia (intorno al 444 a.C.) nella forma dell’attuale Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). E la storia «sacra», essendo «scritta», diventa «Sacra Scrittura», cioè testo normativo e immutabile della volontà di Dio.

Per dare «peso» alla« ricostruzione del futuro», fondato sulla religione e sull’appartenenza al «popolo eletto», tutto è ripensato e riformulato: i riti e i culti, la circoncisione, il sabato, le leggi di purità, i sacrifici, la Pasqua, il calendario e l’uso della terra. Tutto è proiettato «alle origini», trasformando una normale storia di tribù, spesso banale, in una grande epopea, una saga di natura «storica» rivisitata come in un fantasmagorico «kolossal» proiettato nella notte dei tempi. Esso legge la storia contemporanea (ritorno dall’esilio) come un processo che parte dall’iniziativa di Dio sul Sinai, e prima ancora dalla liberazione dalla schiavitù d’Egitto (assonanza con la schiavitù in Babilonia).

Nel primo racconto della creazione (Gen 1), scritto in ambienti sacerdotali, si afferma con chiarezza che nell’atto di creare Adamo ed Eva, Dio stesso li pose nel «giardino di Eden perché gli ubbidissero e lo custodissero» (Gen 2,15). Si ribalta il concetto di «proprietà»: non è l’uomo proprietario della terra, ma è la terra che indica come deve essere ascoltata e custodita. L’uomo diventa il custode, il servo del creato sul quale solo Dio esercita la sua autorità, mediata certamente dall’uomo che è «immagine di Dio» (Gen 1,27). Lo stesso concetto di «sottomettere la terra» (Gen 1,28) non è assoluto, perché è connesso alla luogotenenza esercitata da Adamo in nome di Dio di cui è plenipotenziario e da cui dipende. È Dio che controlla il comportamento dell’uomo.

L’esodo però è la risposta alla promessa fatta ai Patriarchi, che a loro volta sono l’esito della fedeltà che è il contrario della ribellione di Adamo ed Eva che a loro volta erano stati i protagonisti e i signori della creazione regalata loro da Dio come premessa e promessa della terra d’Israele, la terra dell’Alleanza e del tempio del Signore. Il raccordo tra i Patriarchi e la terra d’Israele è la figura di Mosè che ha il compito di dare compimento alla volontà di Dio. Mettendo l’istituto dell’anno sabatico tra le norme di Esodo e Levitico, facendolo risalire addirittura a Mosè, i redattori del Pentateuco stabiliscono il criterio «teologico» per risolvere il contenzioso sorto tra residenti e rimpatriati dall’esilio sul possesso della terra.

Nei libri di Levitico s’inseriscono le regole che riguardano il Giubileo, dando loro il valore di una norma antica proveniente direttamente da Dio, in base al principio, formulato in questo periodo, che la terra d’Israele è «esclusiva proprietà di Dio». Se la terra è di Dio nessuno può avanzare diritti e ciascuno deve avere la coscienza di essere solo un usufruttuario temporaneo. La terra di Palestina è per Israele «terra promessa» ai patriarchi, quindi terra di ospitalità su cui nessuno può avanzare diritti.

Il nome «Giubileo»

18/12/2015 Papa Francesco apre la Porta santa presso la sede della Caritas a Roma, vicino a Stazione Termini. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO/HO RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / OSSERVATORE ROMANO / HO
18/12/2015 Papa Francesco apre la Porta Santa presso la sede della Caritas vicino alla Stazione Termini a Roma. AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO

In ebraico l’anno giubilare si chiama «Shenàt jòbel» che tradotto alla lettera significa «Anno dell’Ariete» perché l’inizio e la fine dell’anno giubilare erano annunciati dal suono del «qéren jobèl – corno di ariete» che richiama uno degli eventi più importanti della Toràh e successivamente della tradizione giudaica: il sacrificio di Isacco sul monte Moria (Gen 18,1-19). Poiché il racconto è conosciuto, non ci attardiamo su di esso, ma rileviamo solo gli elementi che interessano il nostro discorso sul «Giubileo».

Dio chiede ad Abramo di sacrificargli il figlio unigenito. Abramo, uomo dalla fede indiscussa, non mette in dubbio l’intenzione di Dio e ubbidisce, perché Dio sa quello che fa, e si appresta a sacrificare il figlio, sebbene il suo cuore sanguini e le sue lacrime si mescolino a quelle del figlio. Secondo la tradizione giudaica, Isacco incoraggia il padre Abramo a ucciderlo rispettando tutte le regole prescritte per i sacrifici offerti a Dio per non rendere invalida, anche involontariamente, l’offerta della sua vita. Abramo quindi supplica Dio, in nome della fede di Isacco, che ha accettato liberamente l’aqedàh-legatura alla legna del sacrificio, che in futuro, quando i suoi discendenti, pregando, chiederanno qualunque cosa in nome dei meriti di Isacco, Dio li esaudisca in ogni loro richiesta. La tradizione cristiana ha visto in Isacco una prefigurazione di Cristo «legato al legno della croce»: come Isacco stava per essere immolato all’età di 37 anni (Gen R 55,4), così Gesù fu legato e sacrificato sulla croce alla stessa età (cf L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei, II. Da Abramo a Giacobbe, Adelfi Edizioni, Milano 1997, 97-102).

Il racconto ha un valore di contestazione dell’usanza diffusa dei sacrifici umani per motivi religiosi: infatti il Dio che apparentemente chiede la morte sacrificale del primogenito di Abramo, sospende la mano del padre obbediente che non osa discutere l’ordine di Dio e lo sostituisce con un «ariete» che Abramo scorge impigliato tra i rami. Il messaggio è chiaro: il Dio d’Israele non vuole la vita umana, lui che la crea e Abramo e Isacco, padre e figlio, ringraziano Dio con un olocausto che Dio stesso «ha provveduto sul monte».

Qui sta la ragione per cui si suona il «corno dell’ariete – qèren yobèl» sia per il Giubileo sia l’Anno Sabatico, sia al tramonto del venerdì per annunciare l’arrivo dello Shabàt, sia in tutte le feste importanti della vita d’Israele. Dio ha salvato Isacco, e il suono del corno di ariete ricorda a Israele che Dio salva il suo popolo, anche quando non lo merita. Il suono del corno diventa il simbolo, il segno della liberazione di Dio e viene proiettato indietro, fino alle pendici del Sinai, dove Dio parlava a Mosè al suono del corno di ariete (cf Es 19,13.19). Il suono del corno precede l’arca dell’alleanza e guida alla battaglia della presa di Gerico (Gs 6,4-6.13).

Il suono del corno squillerà ogni 49 anni per dare inizio al giubileo del cinquantesimo anno, anno di grazia e di liberazione, di salvezza e di perdono totale:

«10Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi toerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. 11Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. 12Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. 13In quest’anno del giubileo ciascuno toerà nella sua proprietà. 14Quando vendete qualcosa al vostro prossimo o quando acquistate qualcosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. 15Regolerai l’acquisto che farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli venderà a te in base agli anni di raccolto. 16Quanti più anni resteranno, tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo, tanto più ribasserai il prezzo, perché egli ti vende la somma dei raccolti. 17Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore, vostro Dio. 23Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. 24Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni» (Lv 25, 10-17.23-24).

Questo è il punto di partenza dell’istituto del Giubileo che, in una fase di riforma religiosa e sociale, è codificato nella tradizione posteriore che però viene addirittura fatta risalire a Mosè, agli eventi del Sinai per dare a questa norma un peso di notevole importanza e coagulare attorno ad essa l’unità di tutto il popolo nuovo di Israele, composto dai residenti che mai lasciarono la terra di Palestina, ma anche dai rimpatriati che, liberati da Ciro, rientravano come stranieri nella «loro» terra che non avevano mai visto né conosciuto perché spesso erano nati e vissuti solo in terra d’esilio. La riforma non riguarda solo la terra, ma si presenta come una legge complessa che concee le persone, l’economia, il latifondo, la redistribuzione della ricchezza e il concetto di proprietà «privata», la quale nell’insegnamento biblico non ha mai attecchito.

In un tempo di crisi socio-religiosa (post esilio) nulla di più spontaneo che ritornare indietro, alle proprie origini, ripensarle alla luce dei nuovi eventi e «riscrivere» la storia come premessa per un nuova avventura, incastonata dentro un contesto ampio, antropologico, cosmico che si perde nella notte dei tempi e che raggiunge il cuore di Dio creatore che come all’inizio creò l’universo, ora crea di nuovo il suo popolo. Sacerdoti e classi dirigenti si servono della religione che ripensano e riformulano rivisitando narrazioni, tradizioni, epopee e preghiere del passato per dare risposta ai nuovi problemi che la Storia di «oggi» pone, imponendo una soluzione. Il Giubileo è un momento di questo processo che appartiene a un passaggio cruciale, una svolta decisiva che bisogna cogliere, se non si vuole perdere l’appuntamento con se stessi e il futuro.

Paolo Farinella, prete
(6, continua)




Allamano sacerdote missionario


La Pasqua che stiamo celebrando riassume tutta l’azione di Dio che per amore ha mandato a noi il suo Figlio. Egli ha portato a compimento la salvezza. È il vertice dell’Antico e del Nuovo Testamento. Per questo la Pasqua è considerata «la festa delle feste», «a cui convergono tutti i misteri della nostra religione» (S. Leone Magno). Ha anche un richiamo esplicito alla Missione. Alle prime persone che incontra, il Risorto dice: «Andate ad annunziarlo»; e agli apostoli: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi»; e prima di salire al cielo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Gv 20,21; Mc 16,15).

beato Giuseppe Allamano

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La Pasqua è anche la «festa della fedeltà». Richiama il battesimo e le promesse a esso collegate, l’ascolto della Parola di Dio e l’invito a farsene annunziatori e testimoni. Per i missionari della Consolata vi è un ulteriore richiamo: a essere fedeli alla loro vocazione secondo il carisma e lo spirito del beato Allamano. Per questo egli ha dato «come speciale protettore» dell’Istituto S. Fedele da Sigmaringen: missionario, primo martire di Propaganda Fide. Il 24 aprile 1900, nel giorno della celebrazione liturgica del Santo, l’Allamano spedì la lettera al Card. Richelmy per la fondazione dell’Istituto, dopo averla posta sull’altare durante la celebrazione della Messa. E a noi raccomanda: «Imitatelo nella fedeltà ai vostri doveri presenti e futuri; fedeltà universale, cordiale e semplice, nelle cose grandi e piccole; nel corrispondere alle grazie di Dio e a lasciarvi formare… per riuscire degni missionari».

Ma la Pasqua richiama un’ulteriore fedeltà, anch’essa testimoniata dall’Allamano: essere fedeli alla vocazione sacerdotale. Tutto quello che ha fatto, ha nel sacerdozio la motivazione. Per lui il sacerdote è missionario di natura sua. Anche se incardinato in una diocesi, il sacerdote non può preoccuparsi soltanto dei problemi del suo territorio, deve aprirsi a tutto il mondo. È la qualifica data all’Allamano dal Decreto sulle sue virtù eroiche: «Nella mirabile schiera di Servi di Dio fioriti nella Chiesa Torinese… si distinse per aver percepito il dovere di ogni Chiesa locale di aprirsi alla missione universale». Una missione che, come ribadisce il Concilio Vaticano II, riguarda ogni sacerdote. L’ordinazione sacerdotale, infatti, «non destina a una missione limitata e ristretta, ma a una vastissima missione, fino ai confini del mondo, come quella di Cristo». Lo hanno ripetuto i Papi più recenti ed è un richiamo insistente di Papa Francesco sulla «Chiesa in uscita» verso le periferie non solo geografiche, ma anche umane.

padre Gottardo Pasqualetti

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Kenya lago Turkana vento di sviluppo


La zona intorno al lago Turkana è la più povera e lasciata a se stessa del Kenya. Da qualche anno a questa parte, però, qualcosa è cambiato: un giacimento di petrolio, il progetto dell’impianto eolico più grande d’Africa, la diga sul tratto etiope del fiume Omo, un enorme bacino sotterraneo d’acqua hanno portato l’area al centro dell’attenzione. E davanti a una sfida decisiva.

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Quando si cerca di descrivere Loiyangalani, villaggio «dalle molte piante» sulle rive del lago Turkana, è facile venire colti dall’ansia da prestazione. D’istinto, viene voglia di cercare una combinazione di parole originale, unica e definitiva per un posto che non ha niente di già visto, per un posto che somiglia solo a se stesso. Qualcuno parla di paesaggio lunare, altri dell’angolo remoto di mondo dove Dio ha accatastato tutti i sassi che erano avanzati dalla creazione, altri ancora di tempo sospeso, promemoria per un’umanità che dovrebbe ricordarsi da dove viene.

Forse l’unica operazione davvero onesta è quella della semplice elencazione: montagne di pietre nere, colline di roccia marrone, sabbia ocra, sassi bianchi, l’acqua del lago: turchese la mattina, verde petrolio a mezzogiorno, blu turbante di tuareg la sera. Donne turkana coperte di rosso e di collane di perline, pochissimi uomini, almeno durante il giorno, perché la gran parte sono fuori dal villaggio col bestiame. Capanne a forma di igloo di paglia gialla, ghiaia grigia, chiazze di erba cresciuta dove il sole s’è distratto, dimenticandosi di seccarla. Capre, cammelli, zebù, qualche asino. Le acacie, quelle sì identiche ovunque, capaci di crescere anche fra i sassi, testarde e indifferenti. L’antenna  bianca e rossa della rete cellulare, rare casette squadrate di cemento.

Un elenco, certamente non completo, per descrivere un luogo speciale.

Le piaghe: siccità, conflitti, analfabetismo

Quel che è certo, invece, è che la zona intorno al lago Turkana è la più povera del Kenya. Tanto per cominciare, è collegata malissimo con il resto del paese: da Nairobi a Loiyangalani, occorrono tre giorni di 4×4, due per i più audaci; gli abitanti della zona parlano di «andare in Kenya» quando si accingono a uscire dal loro distretto.

La parte a Ovest del lago, la Turkana County, e quella a Est, la Marsabit County, hanno tassi di povertà del 94 e del 91 per cento. Seicentomila persone vivono con meno di 1.562 scellini keniani al mese (circa 15 euro) nelle zone rurali, e 2.913 (circa 30 euro) nelle zone urbane. Con trenta gradi d’inverno e quarantacinque d’estate, frequenti ondate di siccità e qualche rara ma devastante inondazione, la popolazione della zona vive prevalentemente di pastorizia, integrata con la pesca. Il tasso di analfabetismo è intorno all’85 per cento (96 per le donne), quello di infezione da HIV oltre l’undici per cento, circa il doppio di quello nazionale. Gli scontri fra gruppi etnici, connessi principalmente ai furti di bestiame e alle conseguenti rappresaglie, non hanno mai assunto le dimensioni di un conflitto su ampia scala, ma hanno accompagnato la storia della convivenza nell’area da tempo immemorabile, con tutti i morti e i feriti che inevitabilmente si contano in un luogo dove anche una banale ferita come un taglio può essere fatale, vista la carenza di centri sanitari. Qualcuno calcola che ogni maschio, dai 17 anni in su, abbia un AK47 e il banditismo è un fenomeno tutt’altro che sconosciuto.

Questo è il contesto, già di suo non certo facile, sul quale si sono innestate negli anni Dieci di questo secolo una serie di scoperte e di eventi che mettono il Turkana davanti a un bivio: da una parte la strada del salto di qualità, dall’altra quella della distruzione senza appello.

Acqua che viene, acqua che va

Nel 2013 il governo del Kenya e l’Unesco hanno annunciato che la ricerca da loro condotta con finanziamenti giapponesi ha portato alla scoperta nella Turkana county (dall’altra parte del lago rispetto a Loiyangalani) di un enorme riserva sotterranea di acqua. Si tratta di due bacini, uno vicino alla città di Lotikipi e l’altro, molto più piccolo, a Lodwar (capitale della county e sede della diocesi). Solo Lotikipi dispone, a una profondità di circa trecento metri, di oltre duecento miliardi di metri cubi, pari a circa nove volte le riserve totali del Kenya. Lo sfruttamento delle risorse idriche, una volta portata l’acqua in superficie, sarebbe anche sostenibile, perché il bacino ha un rifoimento annuale spontaneo più che sufficiente – 3,4 miliardi di metri cubi – grazie all’acqua proveniente dalle montagne dell’Etiopia. A fronte di un consumo annuale di acqua pari a 2,7 miliardi di metri cubi all’anno per tutto il paese, la stima è che il bacino garantirebbe acqua all’intero Kenya per settant’anni.

Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Intanto perché il trovare l’acqua e il renderla disponibile, con tutto l’investimento in perforazioni e infrastrutture connesso, sono due cose molto diverse. E poi perché nel marzo 2015 alcuni test su pozzi scavati a Lotikipi hanno rivelato che l’acqua è troppo salina per il consumo umano, almeno secondo il Rift Valley Water Services Board, e dovrebbe quindi subire un lungo e costoso processo di desalinizzazione. Altre fonti suggeriscono invece che i rapporti basati sui test sono troppo pessimistici, che in altri pozzi il grado di salinità sarebbe molto inferiore e che comunque l’acqua sarebbe adatta almeno per usi agricoli e per abbeverare il bestiame.

Mentre le ricerche per stabilire la fruibilità di quest’acqua sono ancora in corso, gli effetti di un altro mega-progetto idrico, stavolta in un paese confinante, rischiano invece di essere drammatici. La diga Gibe III sul fiume Omo, in Etiopia, è entrata in funzione lo scorso ottobre. Secondo Addis Abeba, la diga dovrebbe aumentare del 234 per cento la produzione elettrica etiope: 1.870 megawatt che andranno ad alimentare le ambizioni industriali nazionali e ad aumentare l’esportazione di energia all’estero. Regolando il flusso del fiume, inoltre, la diga servirà i progetti di irrigazione su larga scala che il governo etiope intende realizzare nella vallata dell’Omo.

Ma, avverte Survival inteational, l’Omo fornisce al lago Turkana circa il novanta per cento delle sue acque e l’irrigazione in Etiopia potrebbe ridurre della metà l’afflusso idrico facendo abbassare il Turkana di venti metri. Il danno per l’ecosistema sarebbe pesantissimo, inducendo non solo una drastica riduzione della disponibilità di pesce ma anche un inasprirsi della siccità che porterebbe a ulteriori conflitti, anche transfrontalieri, fra le migliaia di pastori della zona in cerca di acqua per gli animali.

Le promesse non mantenute del petrolio

A complicare ulteriormente il quadro è arrivata, nel 2012, la scoperta di un giacimento di petrolio – dalla capacità quantificata in seicento milioni di barili – fra Lokichar e Lodwar, nell’area a Ovest del lago.

La multinazionale anglo-irlandese Tullow Oil, insieme alla compagnia partner canadese Africa Oil e, più di recente, alla danese Maersk, prevede di cominciare lo sfruttamento commerciale dei pozzi nel 2020 ma, a dar retta al quotidiano online Business Daily, il governo keniano sta spingendo per anticipare i tempi. In ballo, funzionale all’esportazione di petrolio, c’è la costruzione dell’oleodotto Lapsset (Lamu Port Southe Sudan-Ethiopia Transport), che collegherebbe il porto di Lamu (sull’Oceano Indiano), alla città di Isiolo, nel centro del Kenya, per biforcarsi poi in due bracci, uno diretto in Etiopia e l’altro in Sud Sudan e Uganda.

Mentre la Tullow Oil si è affrettata fin dal 2012 a pubblicizzare sul proprio sito i progetti di cooperazione che sostiene nell’area del giacimento e a istituire borse di studio per studenti keniani, sul campo le difficoltà non hanno tardato a manifestarsi. In un articolo dello scorso luglio, l’Economist raccontava delle diffidenze fra le compagnie petrolifere, che lamentano la difficoltà a trovare localmente personale qualificato, e la comunità locale, che teme di essere «scippata» degli impieghi migliori a favore di personale proveniente da altre aree, e minaccia ricorsi contro i possibili danni ambientali.

Nel 2013, un gruppo di quattrocento lavoratori ha attaccato gli impianti di trivellazione chiedendo più lavoro e più benefici, mentre nel 2014 il crollo del prezzo del petrolio ha indotto un altro ridimensionamento, almeno nell’immediato, delle speranze delle popolazioni del Turkana: finché il greggio resta sotto i 70 dollari al barile, stimano gli esperti, non è conveniente continuare le operazioni di estrazione. E infatti la Tullow negli ultimi mesi ha decisamente spinto sul freno.

Il vento dello sviluppo

Se il petrolio frena, il vento accelera: il mega-progetto della wind farm, il parco eolico, sarà completato entro ottobre 2016, annuncia la Kenya Electricity Transmission Company (Ketraco), che sta supervisionando i lavori di costruzione. La Lake Turkana Wind Power Limited, consorzio titolare del progetto prevalentemente composto da aziende private nordeuropee, prevede di produrre i primi 50 megawatt a settembre, mentre i 310 megawatt totali dell’impianto a pieno regime saranno immessi nella rete elettrica kenyana entro luglio 2017.

Siamo ora sulla riva orientale del lago Turkana, a una quarantina di chilometri da Loiyangalani. Qui verranno installate 365 turbine con una capacità di 850 kilowatt ciascuna su una superficie di circa 160 chilometri quadrati, per un costo complessivo vicino ai 700 milioni di dollari: l’investimento privato più consistente nella storia del Kenya indipendente, capace di fornire al paese circa un quarto dell’energia di cui ha bisogno. Il Turkana è particolarmente indicato per lo sfruttamento dell’energia eolica, poiché il vento in questa zona permette di raggiungere un fattore di capacità – cioè il rapporto fra l’energia effettivamente prodotta e quella che l’impianto è capace di produrre in condizioni ottimali costanti – del 62 per cento, contro il 25-35 per cento degli altri impianti. La Banca Mondiale, all’inizio fra i sostenitori del progetto, si è sfilata nel 2012 dopo avere sollevato dubbi sulla capacità del sistema kenyano di assorbire davvero tutta quell’energia, sottolineando il rischio per i consumatori di pagare annualmente l’equivalente di cento milioni di dollari per elettricità di fatto non utilizzata.

Nessuno dei membri del consorzio, per la verità, ha fatto una tragedia del ritiro della Banca, anzi, pare che alla Ketraco qualcuno abbia perfino commentato: meglio così, tanto creava solo inutili ostacoli. Tanto più che, se ancora c’erano dubbi sull’affare rappresentato dal parco eolico, ci ha pensato Google a fugarli, buttando sul piatto quaranta milioni di dollari per riservarsi il 12,5 per cento delle quote una volta che l’impianto sarà funzionante. Il colosso statunitense ha così voluto ribadire il suo interesse per le energie sostenibili e, ovviamente, anche per l’opportunità di aumentare i propri clienti, dal momento che elettricità e Inteet vanno a braccetto.

Pro e contro

Anche nel caso del parco eolico non mancano le perplessità e i contrasti, a cominciare dalle difficoltà di comprensione del progetto da parte della popolazione locale nella fase iniziale delle consultazioni. In più ci sono anche ricorsi legali da parte dei rappresentanti comunitari contro le violazioni del diritto alla terra (soprattutto per garantire il diritto di pascolo) nelle aree dove saranno installate le turbine. A questo si aggiungono poi – come per gli impianti petroliferi – le aspettative non sempre soddisfatte delle comunità riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro (i locali non sono preparati per un lavoro così diverso dalla pastorizia e dalla pesca), l’arrivo di personale esterno e l’incremento del flusso turistico grazie a strade migliori, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento dei prezzi, incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e impatto complessivo su una comunità finora fortemente isolata.

Da ultimo, a complicare la situazione, ci sono i contrasti sulla spartizione dei benefici tra la Marsabit county (con i Turkana e altre etnie) e la Samburu county (prevalentemente Samburu) che condividono gli incerti confini proprio nell’area del wind park.

Progetti come questi, come minimo inducono un miglioramento dal punto di vista delle infrastrutture, a cominciare dalla costruzione delle strade e, come dice un  leader comunitario citato dal Guardian, «offrono ai bambini una scelta che i loro padri e nonni non hanno avuto». Ma è proprio su questo che si gioca la partita: se non ci sarà una chiara ed equa ripartizione dei benefici e un coinvolgimento reale delle comunità, il Turkana non sarà un modello di sviluppo per tutta l’Africa ma un incubo fatto di sfruttamento, devastazione degli ecosistemi e migrazione forzata di migliaia di persone verso le già affollate e dolenti periferie urbane.

Chiara Giovetti

 




I perdenti 13 i Cristeros e il beato Miguel Agustin pro


Nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica del mondo, il Messico, tra il 1925 e il 1929, visse un periodo tragico della sua storia. Al governo della Repubblica si era installato un gruppo di potere formato in prevalenza da massoni anticlericali, denominato «gli uomini di Sonora». Tra i vari provvedimenti che essi presero, spicca l’inasprimento delle leggi anti religiose. Con il presidente Plutarco Elia Calles, queste leggi vennero imposte in maniera rigorosa in tutta la Federazione Messicana. Alla Chiesa venne tolta ogni autonomia giuridica, furono espulsi tutti i sacerdoti stranieri e furono confiscati tutti i beni delle istituzioni cattoliche: chiese, conventi, seminari, scuole, istituti di carità, ecc. Dall’agosto del 1925 la Chiesa sparì completamente dalla vita pubblica del religiosissimo popolo messicano. Fu a questo punto che accadde una cosa incredibile: migliaia di persone di ogni condizione sociale si diedero alla macchia dando vita a una insurrezione spontanea, motivata dal fatto che se «Cesare diventa un tiranno, il popolo ha diritto di difendere la propria libertà».

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I generali dell’esercito federale pensavano di sconfiggere in poco tempo quegli insorti inesperti e male armati, tuttavia l’organizzazione si consolidò in quanto sostenuta dalla maggioranza della popolazione e nacque così la «Cristiada», l’insurrezione di «Cristo Re», che coinvolse milioni di persone, preoccupò le Cancellerie di mezzo mondo e costrinse i papi a intervenire. L’esercito cristero in poco tempo si organizzò e divenne una formidabile difesa per la popolazione inerme. La reazione dello stato centrale fu rabbiosa e fece massacri indiscriminati, campi di prigionia, impiccagioni di massa.

In quegli anni furono scritte pagine luminosissime da parte di umili e semplici cristiani che volevano vivere la loro fede. Ne parliamo con padre Miguel Agustin Pro (nome completo José Ramón Miguel Agustín Pro Juárez), che fu uno dei martiri di quel periodo convulso della storia del Messico.

Padre Miguel, come ebbe inizio questa tragedia?

Dopo il trentennale governo di Porfirio Diaz, un presidente che si era convertito dopo la morte della moglie, presero il potere elementi giacobini e radicali chiamati «gli uomini di Sonora», i quali fecero approvare dal parlamento una costituzione ferocemente anti religiosa. La Chiesa accusata di essere retrograda e responsabile di tenere il popolo nell’ignoranza dei propri diritti, fu privata di ogni possibilità di intervento sul piano religioso e sociale a favore della popolazione.

Ovviamente questa era una campagna di menzogne fatte circolare ad arte in certi ambienti per privare la popolazione di un supporto istituzionale sicuro.

Mai menzogna nel mio paese fu più ignobile di questa, in quanto i cattolici erano i più attivi nel paese. Il vivace laicato messicano aveva elaborato ambiziosi programmi di sviluppo ispirandosi all’enciclica «Rerum Novarum» di papa Leone XIII; inoltre c’erano associazioni di mutuo soccorso, patronati di beneficenza e una miriade di gruppi che si prendevano cura dei giovani e dei più poveri. C’erano anche molte cornoperative sociali, per aiutare i più bisognosi.

Ma tutto ciò non fu sufficiente a fermare la crudeltà di chi aveva preso il potere.

Certo che no. La requisizione dei beni fu accompagnata da uno spietato controllo poliziesco che impediva ogni forma di manifestazione religiosa pubblica o privata. Questo spinse prima pochi gruppi di persone, poi interi villaggi a darsi alla macchia per conservare gli ideali e i principi religiosi che da secoli caratterizzavano il popolo messicano.

Nasceva così la «Cristiada», una resistenza armata per difendere la Chiesa e i cristiani.

Questi rebeldes, come venivano definiti dal potere massonico, erano in gran parte contadini, ma tra le loro fila vi erano anche operai, impiegati, funzionari, avvocati, studenti e altra gente di città. La lotta era sostenuta, nelle aree urbane, anche da una resistenza passiva che ricorreva a boicottaggi, foiva false informazioni alle truppe federali e, nel contempo, cercava di far continuare la vita sacramentale, come era già avvenuto in passato nell’Inghilterra anglicana e, solo pochi anni prima, nella Russia sovietica.

Quale ruolo ebbero le donne in questa insurrezione?

Migliaia di donne, inquadrate nelle brigate di Santa Giovanna d’Arco, sfidando ogni sorta di pericolo, procuravano munizioni ai Cristeros i quali, lungo gli anni, erano cresciuti di numero arrivando a essere quasi cinquantamila combattenti. A causa dell’assenza dei loro uomini dai villaggi, erano loro a portare avanti il lavoro nei campi, a organizzare incontri di preghiera e a provvedere in ogni modo all’educazione dei figli.

Cosa ha contribuito a far sì che i Cristeros diventassero un’armata capace di tenere in scacco l’esercito regolare?

Enrique Gorostieta, un generale che si definiva ateo ma affascinato dall’ideale dei Cristeros, si era unito ai ribelli e in breve ne era diventato il comandante. Grazie alla sua capacità professionale i Cristeros non persero più una battaglia, sconfiggendo l’esercito federale dovunque, e tenendolo in scacco per anni, nonostante che quest’ultimo godesse di un massiccio appoggio economico e logistico da parte delle logge massoniche degli Stati Uniti.

Una guerra, anche se di difesa, comunque provoca sofferenze, lutti e distruzione.

La prova che il Messico ebbe ad affrontare fu devastante sotto ogni aspetto, il paese restò diviso tra zone controllate dai Cristeros e zone controllate dai Federali. L’economia crollò, i morti furono decine e decine di migliaia, gli storici parlano di circa centomila vittime, contando anche coloro che morirono di malattie e di fame nei campi di prigionia.

La festa religiosa di Cristo Re era stata istituita da Pio XI nel 1925. «Viva Cristo Re» fu il grido che gli insorti adottarono per sostenersi a vicenda nei conflitti che ebbero con i federali.

Il grido di «Viva Cristo Re» si udiva sempre più frequentemente e nella comunità cristiana lo si ripeteva in continuazione. Insieme a questa invocazione si gridava anche «Viva la Vergine di Guadalupe», con ciò si riaffermava la divinità di Cristo Re dell’Universo e ci si poneva con fiducia sotto la protezione della «Morenita» (così il popolo messicano chiama la Madonna di Guadalupe).

La guerra della «Cristiada», con i suoi morti, i suoi martiri e i suoi umili eroi, è poco conosciuta anche in America Latina, al di fuori del Messico è pressoché ignorata.

È vero. Eppure siamo di fronte al caso eclatante di un esercito che vince tutte le battaglie ma perde la guerra perché depone le armi su richiesta dei propri vescovi, e di riflesso della Santa Sede, che volevano evitare un ulteriore bagno di sangue specialmente alla popolazione inerme ed innocente. Non furono le armi a sconfiggere i Cristeros, ma la diplomazia internazionale con gli Arreglos (accordi) del ’29, che ponevano fine agli eventi bellici: la Chiesa accettava pesanti limitazioni pur di mantenere la libertà della pratica religiosa.

I cristiani messicani diedero una bella testimonianza di fede nonostante l’uragano antireligioso che si era abbattuto sul tuo paese.

Nella tormenta di quegli anni il Signore fece emergere persone meravigliose. Voglio ricordare in particolare un adolescente di appena 14 anni: José Luis Sanchez Del Rio, che si unì ai Cristeros diventandone il loro portabandiera. Nel corso di una battaglia il piccolo Josè cedette la propria cavalcatura al generale Luis Guizar Morfin perché si mettesse in salvo dicendogli: «La vostra vita è più utile della mia». Catturato dai federali non gli fu fatto nessun processo ma si accanirono su di lui percuotendolo e seviziandolo, gli spellarono le piante dei piedi, lo fecero camminare sul sale e lo condussero al cimitero, dove esasperati dalle sue continue grida:« «Viva Cristo Re», lo uccisero con un colpo di pistola.

Stessa sorte toccata anche a te o sbaglio?

Nato nel 1891, nel 1911 ero entrato nella Compagnia di Gesù. Inviato a completare gli studi in Belgio, fui ordinato sacerdote nel 1925. Venuto a conoscenza di quanto stava succedendo nella mia patria, chiesi ai miei superiori di tornare in Messico. Una volta rientrato iniziai a svolgere clandestinamente un’intensa attività assistenziale e pastorale, celebrando la Messa nelle case private e portando l’Eucaristia di nascosto agli ammalati e a coloro che me lo chiedevano (a volte oltre 500 al giorno). La mia allegria e la mia chitarra mi aprivano molte porte. Ero anche l’animatore spirituale della Liga Nacional para la Defensa de las Libertades Religiosas, una delle tante organizzazioni nate tra il popolo per resistere alla repressione anticattolica.

E quando ti scoprirono, che successe?

Nel 1927 venni arrestato con la falsa accusa di aver partecipato a un attentato contro il generale Alvaro Obregón, candidato alla presidenza repubblicana. Ignorando tutte le testimonianze in favore della mia innocenza e senza farmi nessun processo, il 23 novembre 1927 mi portarono davanti ad un plotone di esecuzione insieme a mio fratello Humberto. Mentre i soldati scaricavano su di me il piombo dei loro fucili, consegnavo il mio corpo all’amata terra messicana e rendevo la mia anima a Dio gridando: «Viva Cristo Re».

 

Il 20 novembre 2005 papa Benedetto XVI ha beatificato sia il piccolo José Luis Sanchez Del Rio che padre Miguel Agustin Pro insieme ad altri 11 martiri di quella persecuzione decisa a estirpare il cattolicesimo dal Messico. Oggi possiamo dire che se quel paese è rimasto cattolico lo deve in gran parte a quegli umili, piccoli-grandi eroi, che sacrificarono la vita per la causa del Vangelo e per il diritto alla libertà religiosa. Va detto che gli Arreglos, ovvero gli accordi tra lo Stato Federale Messicano e la Chiesa Cattolica, posero fine alla lotta armata ma non alle malversazioni che il governo centrale continuò a esercitare sulla Chiesa e i suoi fedeli. I Cristeros che fecero ritorno alle loro case, una volta disarmati, subirono numerose e feroci vendette dai militari federali nonostante le garanzie verbali di incolumità loro promesse. Morirono più Cristeros dopo gli accordi che durante la guerra. Vi fu una caccia all’uomo spietata, la repressione andò avanti in forma surrettizia fino alla fine degli anni ’30 e la Costituzione messicana con risvolti anticlericali rimase in vigore fino al 1992.

Quando Papa Wojtyla si recò a Puebla nel 1979, per aprire i lavori dell’Assemblea dell’Episcopato dei paesi latinoamericani, fu accolto dalle autorità messicane come «Signor Wojtyla», ma il calore entusiastico della gente semplice, che Giovanni Paolo II sperimentò lungo le strade del Messico, fece capire al Papa e al mondo intero che il sacrificio dei Cristeros non era stato consumato invano.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 Video e films.

 




siè spento il sole

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Si è spento il sole. Era mezzogiorno quando si è eclissato, e ancora non torna. Il mondo è diventato cieco. Non vediamo più nulla. Nonostante qualche lume sia stato acceso dai centurioni lassù, sotto la tua croce, da questa distanza non riusciamo nemmeno a capire se sei ancora vivo.

E il terrore che le tenebre possano davvero avere vinto sulla luce ci sconvolge. Forse mai più toeremo a vedere?

Nell’angoscia che scuote le nostre viscere ci domandiamo perché hai permesso che ti prendessero? Perché non sei sceso dal patibolo? Perché non ha dimostrato a tutti che davvero eri il Figlio di Dio? E perché Dio non ha mandato i suoi angeli a salvarti? Quasi che fosse impotente.

Ci stringiamo gli uni agli altri nel buio, per sentirci meno persi, e percepiamo quanto siamo piccoli di fronte a tanta oscurità. Perché ci hai abbandonati, Signore? Quante cose ancora non avevamo capito, quante cose ancora dovevi insegnarci? Siamo solo creature fragili, fallaci. Con te ci sentivamo invincibili. Pensavamo che non avremmo più sofferto. Né fame, né malattia, né guerra, né tristezza, né morte. Invece sei proprio tu che muori, oggi. E le tenebre ci stringono per soffocarci.

Ma ecco che l’eclissi arretra. Non era definitiva, allora. La luce torna, e disegna impietosa la forma del tuo corpo inerme. Non sei più in vita. Ci sentiamo sconfitti, eppure sentiamo inspiegabilmente una piccola pace prendere posto in noi, in mezzo all’angoscia. Eri veramente Dio, eppure veramente uomo. Veramente capace di morire. Come noi. È come se il tuo morire ci dicesse che la nostra vita è così piena di dignità, per come è, da non avere bisogno di correttivi. Nemmeno per la morte.

Vediamo Maria. È lì, sotto il tuo corpo, Signore. Schiacciata dal peso della tua sofferenza, e della sofferenza del mondo intero. Eppure sta in piedi. Riusciamo a immaginare i suoi occhi, intensi come sempre, rapiti nella meditazione del tuo mistero. Accanto a lei c’è Giovanni. Ci fa un segno. Pare chiederci di aspettare qui, insieme. Poi sentiamo la voce di Pietro che ci si era avvicinato durante l’oscurità, dopo ore che non lo vedevamo più: «Non sia turbato il vostro cuore – sembra dire più a se stesso che a noi -. Abbiate fede, abbiate fede». Lo guardiamo, stupiti all’udire quelle parole che riportano alla memoria ciò che tu ci avevi detto, Gesù. Poi ci voltiamo di nuovo verso Maria. Sta venendo, in fretta, verso noi.

Buon cammino verso la Pasqua da amico.

Luca Lorusso