Cooperazione progetti micro


Micro progetti per grandi problemi. Cibo, scuola, sanità, acqua, diritti. Sono molti i nostri missionari che si spendono ogni giorno per costruire un mondo più vivibile, non solo annunciando la Parola, ma ponendo quotidianamente piccoli gesti di frateità verso i più piccoli e i più poveri. Ecco alcune attività significative in Africa e America Latina. Tutte, casualmente, sono portate avanti da missionari della Consolata africani.

Costa d’Avorio,
una cucina per la scuola di Blessoua

Durante la stagione delle piogge, nei villaggi della brousse (savana), le fragili costruzioni in terra e paglia faticano a resistere alle forti folate di vento e alle precipitazioni torrenziali. La cucina della scuola elementare di Blessoua, nella Costa d’Avorio meridionale, era una di queste casette precarie e risultava inservibile quando la pioggia si faceva troppo battente. Perciò l’ora del pranzo per i 423 bambini della scuola non poteva più essere mezzogiorno ma, molto più imprevedibilmente, l’ora in cui smetteva di piovere. Le conseguenze sulla didattica sono facili da immaginare, con i quindici maestri sempre a rischio di dover interrompere la lezione e gli alunni sempre meno concentrati e più stanchi per l’attesa del pasto. Per questo padre James Gichane, keniano di Nakuru, in missione a Blessoua, ha chiesto di poter costruire una cucina più solida che permetta al cuoco di lavorare in tranquillità e ad alunni e insegnanti di concentrarsi sulle lezioni. La scuola riunisce figli di ivoriani ma anche di togolesi, burkinabè e beninesi venuti in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di cacao: la socializzazione fra questi bambini è un mattone basilare nelle fondamenta della pace che il paese sta costruendo dopo essere uscito da una guerra civile che si alimentava anche della manipolazione dell’odio fra ivoriani e stranieri.

Kenya,
energia pulita per la «meglio» scuola secondaria della Laikipia

Quasi cinquemila chilometri più a Sud Est, in un’altra scuola – stavolta secondaria – il responsabile padre David Mbgua ha invece potuto installare un sistema fotovoltaico alla Mary Mother of Grace Secondary School di Rumuruti nella contea di Laikipia, Kenya: il risparmio sulla bolletta della luce gli permetterà di liberare risorse da utilizzare per la didattica, di evitare i black out che impedivano ai ragazzi di studiare dopo il tramonto del sole e di alimentare la scuola con energia rinnovabile, tema questo tutt’altro che secondario in un paese che sta dibattendosi fra richiesta energetica sempre in crescita ed esigenza di sostenibilità ambiatele.

La Mary Mother of Grace fu aperta nel 1992 da padre Giuliano Gorini, recentemente scomparso. Ha 216 alunni e si trova in una zona abitata da pastori nomadi in costante movimento per seguire il bestiame, dove i casi di banditismo sono frequenti. Padre Gorini stesso, ricordava nel 2013 un articolo sul quotidiano Daily Nation, si è trovato più di una volta una carabina puntata in faccia mentre, sdraiato a terra, ascoltava i banditi chiedergli soldi. La scuola vanta uno dei migliori insegnati di fisica del Kenya secondo i risultati degli esami di maturità: le sue classi del 2009 e del 2013 hanno ottenuto 11,5 e 11,58 punti sul massimo di dodici del sistema di valutazione keniano. E non solo, la scuola che, come regola, accoglie ragazzi provenienti da famiglei povere, desiderosi di studiare, si piazza ogni anno tra le primissime di tutto il paese.

Tanzania,
a Pawaga contro i danni del clima impazzito

Se le piogge privavano i bambini ivoriani della loro mensa scolastica, in Tanzania non sono state da meno nel rendere dura la vita della gente di Pawaga, villaggio in un’area semi arida a un’ottantina di chilometri dalla città di Iringa, nel centro del paese: a febbraio di quest’anno le piogge, di solito scarse e brevi, sono state così abbondanti da provocare inondazioni e costringere centinaia di persone a sfollare mentre le loro proprietà sono state distrutte. Passate le piogge, l’acqua stagnante ha favorito il moltiplicarsi delle zanzare e i casi di malaria sono aumentati notevolmente rispetto alle medie locali. Per questo padre Vitalis Oyolo, missionario keniano e responsabile dei progetti in Tanzania, ha segnalato la necessità di acquistare e distribuire farmaci antimalarici e zanzariere in modo da contrastare l’espandersi dell’epidemia. A Itundundu, vicino Pawaga, i missionari gestiscono inoltre un dispensario che, grazie al supporto di un donatore statunitense, segue e cura circa 450 bambini malnutriti.

Congo RD,
acqua e salute a Neisu

L’acqua invece non è mai troppa quando si tratta di soddisfare le esigenze di una rete sanitaria come quella dell’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo, che serve circa settantamila pazienti e conta, oltre alla struttura principale, anche tredici centri e posti di salute, il più lontano dei quali si trova a sessantacinque chilometri dall’ospedale. L’ospedale è costantemente alle prese con situazioni al limite dell’emergenziale: lo scorso aprile David Bambilikpinga-Moke, missionario congolese rientrato in patria dopo anni di lavoro nell’Amazzonia brasiliana e ora responsabile dell’ospedale, scriveva: «In questo momento stiamo registrando una epidemia di malaria in cui la maggior parte dei pazienti sono bambini di meno di dieci anni (attualmente 183). È già la seconda volta in quattro mesi che ci troviamo di fronte a questa situazione».

I centri e posti sanitari hanno un ruolo fondamentale nel raggiungere pazienti che non potrebbero altrimenti affrontare lo spostamento fino all’ospedale. Per il loro corretto funzionamento l’acqua pulita è indispensabile e fra il 2010 e il 2012, grazie ai fondi dell’otto per mille della Tavola Valdese e della Water Right Foundation della Toscana, sei centri hanno potuto avere il loro pozzo, ma ne servono ancora sette per altrettanti centri o posti che ne sono sprovvisti. Due saranno finalmente realizzati entro la fine del 2016.

Brasile,
scuola di diritti a Serrinha

Quasi alla stessa altezza sull’Equatore rispetto a Neisu, ma sull’altra sponda dell’Atlantico, i problemi legati all’acqua e all’istruzione si intrecciano con la resistenza dei popoli indigeni contro chi li vuole, continua a volerli, cittadini di seconda categoria.

La scuola statale Índio Prurumã II si trova nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Brasile. È la scuola della comunità indigena Serrinha, conta 85 alunni, nove insegnati e richieste di iscrizione crescenti di anno in anno. Nonostante il riconoscimento pubblico della comunità e della scuola, lo stato non fornisce nessun sostegno concreto alle strutture e alla didattica: un triste espediente, questo, che svuota nei fatti i diritti dei popoli indigeni sanciti per legge. A far pressione sul governo statale in questa direzione sono i grandi latifondisti e gli altri potentati economici del Roraima, peraltro spesso familiari o membri loro stessi della classe politica locale, che vedono nella presenza degli indios semplicemente un fastidioso ostacolo alla possibilità di appropriarsi della terra.

Le scuola aveva solo quattro aule, tutte di fango, lamiera, pali e assi di legno e la comunità non disponeva di fonti d’acqua affidabili e igienicamente sicure. Fra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, inoltre, un’ondata di siccità particolarmente forte aveva messo in difficoltà la popolazione locale, costretta a dipendere gioalmente dall’arrivo delle autobotti inviate dal municipio o a utilizzare fonti d’acqua di fortuna. I progetti in corso, seguiti dal missionario congolese Jean Tuluba, permetteranno di migliorare la struttura delle quattro aule e scavare un pozzo artesiano che serva la scuola e la comunità intorno.

Brasile,
a Maturuca agricoltura biologica e sanità

Maturuca è il cuore della lotta indigena a Raposa Serra do Sol: è lì che si trova la grande maloca comunitaria dove possono riunirsi fino a mille persone provenienti da tutta la regione per unire le forze e le idee nelle loro battaglie. È il luogo della promessa con cui nel 1977 i tuxaua (capi delle comunità) cominciarono la lotta all’alcolismo che fiaccava la determinazione delle loro comunità a opporsi a chi voleva spazzarli via; è stata il punto nevralgico della campagna Indios Roraima del 1988-89 e del progetto ad essa legato, «Una mucca per l’indio», che ha permesso a Raposa Serra do Sol di passare da poche vacche a 42 mila capi di bestiame.

Oggi Raposa si trova a dover consolidare e rafforzare questi risultati per lottare contro la tentazione per i più giovani di spostarsi in città, e per puntare a una sempre maggiore autonomia economica di un’area che rimane isolata e, negli ultimi anni, esposta a cambiamenti climatici che hanno ridotto le piogge e reso più difficile l’agricoltura. A questa sfida cerca di rispondere il progetto di padre Philip Njoroge Njuma, missionario keniano in forza a Maturuca. Il progetto, che si chiama Terra Madre, vuole offrire ai giovani una scuola di formazione all’agricoltura biologica per autoconsumo e vendita e creare un efficiente sistema di irrigazione che permetta di coltivare contando sull’acqua. A questo si affianca poi un altro progetto che permetterà di aprire tre centri sanitari: diverse comunità hanno già provveduto in autonomia alla costruzione del proprio centro ma ci sono ancora aree non raggiunte dai necessari servizi di tutela della salute.

Colombia,
il teatro degli oppressi a Cali

Sempre a minoranze e gruppi vulnerabili è rivolto il progetto «Teatro degli oppressi» che si realizza a Cali, grande città della Colombia occidentale. Qui il keniano padre Venanzio Mwangi Munyiri sta lavorando da anni con i giovani discendenti degli schiavi deportati dall’Africa a partire dalla fine del XVI secolo. La popolazione afro-colombiana ha subito da sempre discriminazioni molto simili a quelle patite dalle popolazioni indigene, alle quali si sommano oggi, in città come Cali, i problemi tipici delle periferie urbane coi le loro sacche di marginalizzazione e povertà.

Questo insieme di condizioni, spiega padre Venanzio, ha indotto negli afro-discendenti un senso di impotenza e rassegnazione alla subalteità che li spinge a ripiegare su metodi di sostentamento degradanti e li espone al reclutamento da parte delle organizzazioni criminali.

Il progetto di sei mesi, a cui contribuiscono anche le amministrazioni locali, prevede una fase di sensibilizzazione delle comunità, la formazione degli animatori e un programma didattico che valorizzzando il teatro aiuti i partecipanti a riscoprire e apprezzare la propria identità e cultura e quella degli altri al fine di crescere nell’accettazione e nel rispetto delle diversità culturali.

Harambee, insieme

Per tutti i progetti la comunità locale ha fornito un contributo: manodopera, vitto e alloggio per gli operai, trasporto dei materiali oppure una parte delle risorse. Il contributo è una combinazione della minga colombiana, del mutirão brasiliano, dell’harambee kenyano o di altre forme di partecipazione comunitaria. Sono termini in lingue diverse che condividono un principio di base: è attraverso il fare insieme che la comunità, oltre a risolvere il problema pratico di procurare risorse, promuove la propria autoconservazione.

Chiara Giovetti




Perdenti 16 Iqbal Masih

iqbal-masih-1Iqbal Masih nacque in Pakistan nel 1983 in una famiglia cristiana poverissima a Muridke, abitato a Nord di Lahore, città con la più grande comunità cristiana del paese, nella provincia del Punjab. A causa di un indebitamento, contratto quando Iqbal aveva 5 anni, i suoi genitori furono costretti a «cederlo» a un fabbricante di tappeti per l’equivalente di 12 dollari. Il bimbo iniziò a lavorare 12 ore al giorno, per sette giorni alla settimana, incatenato al telaio, senza la possibilità di uscire dalla fabbrica, subendo maltrattamenti, con uno stipendio pari a una sola rupia al giorno (corrispondente a pochi centesimi di euro). Gli interessi del debito invece crescevano negando a Iqbal la possibilità di riscatto. Lavorò fino all’età di nove anni, quando, durante una fuga, fortuitamente venne a conoscenza delle attività di un’organizzazione in difesa dei diritti dei bambini lavoratori. Grazie a essa ritrovò la libertà, e iniziò a impegnarsi per la liberazione degli altri bambini. Una serie di circostanze favorevoli lo portarono alla ribalta dell’opinione pubblica internazionale e la sua testimonianza fu determinante per rompere il silenzio di omertà che copriva lo sfruttamento dei minori nel mondo. Il giorno di Pasqua del 1995, mentre andava a messa, fu ucciso da ignoti.

Iqbal, come ti ritrovasti a lavorare più di dodici ore al giorno a un telaio per fabbricare tappeti?

La mia famiglia era poverissima, mio papà per uscire dalla situazione economica molto precaria in cui ci trovavamo contrasse dei debiti con delle persone poco raccomandabili, praticamente degli strozzini che gli proposero di restituire il debito mandando uno dei suoi figli a lavorare per loro in una fabbrica di tappeti.

E tu ti offristi per andare a lavorare da quella gente per aiutare la tua famiglia?

Sì, perché mio padre era malato e poteva lavorare poco. A casa nostra si faceva una gran fatica a racimolare i pochi soldi necessari per vivere, per questo fin da piccoli tutti noi eravamo coinvolti nel trovare aiuti necessari per la sopravvivenza della nostra famiglia.

In cosa consisteva il tuo lavoro?

Io e gli altri bambini della fabbrica facevamo tappeti. Lavoravamo su dei telai tradizionali che richiedevano molta destrezza e mani piccole. Le nostre piccole dita si infilavano agevolmente nell’ordito e nella trama del tessuto: potevamo così realizzare disegni molto raffinati ed elaborati. Bisognava però lavorare giorno e notte, con tui massacranti. Ci tenevano incatenati l’uno all’altro per paura che fuggissimo. Ma io, almeno all’inizio, non avevo alcuna intenzione di fuggire perché dovevo aiutare la mia famiglia. Il padrone ci teneva sotto controllo ogni istante e se sbagliavamo a fare i nodi nel disegno di un tappeto ci puniva severamente. A volte ci costringeva a stare senza mangiare e bere dentro una scatola di lamiera sotto il sole.

Capitò anche a te di subire quel tipo di punizione?

Sono finito due volte lì dentro, una volta da solo e un’altra insieme a un ragazzo malato ai polmoni. Dopo qualche giorno è morto senza che nessuno avesse chiamato un medico per curarlo.

Non cercaste mai di scappare?

Una volta fuggii e mi rivolsi alla polizia, ma venni riportato alla manifattura e bastonato per punizione. Un’altra volta uscii dalla fabbrica insieme ad altri bambini di nascosto, e per caso assistemmo alla celebrazione della «Giornata della Libertà» organizzata dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato (Bounded Labour Liberation Front – Bllf). Per la prima volta sentii parlare dei diritti dei bambini e descrivere la nostra condizione di schiavitù.

Quello fu un momento importante per te…

In quell’occasione conobbi Eshan Ullah Khan, leader del Bllf, il sindacalista che sarebbe stato la mia guida verso una nuova fase della mia vita, dedicata alla difesa dei diritti dei bambini.

Cosa successe dopo?

Ritornato nella manifattura, mi rifiutai di riprendere il lavoro malgrado le percosse. Il padrone disse alla mia famiglia che il debito contratto anziché diminuire era aumentato a diverse migliaia di rupie. Nel conto aveva inserito anche il cibo (sebbene scarso) che mi era stato dato, gli errori di lavorazione e altre menzogne. La mia famiglia fu costretta dalle minacce ad abbandonare il villaggio e io fui ospitato in un ostello dalla Bllf. Lì potei cominciare a studiare.

Il fatto di essere accolto da una struttura che, invece di sfruttarti, ti proteggeva, ti mise nelle condizioni di diventare un testimone dei soprusi che venivano compiuti verso voi bambini.

Dopo che incominciai a raccontare e a esporre al pubblico le terribili condizioni di vita a cui erano sottoposti i miei coetanei, il mio racconto venne ripreso e pubblicato dai giornali locali, da lì, per una serie di fortuite coincidenze, la storia rimbalzò sui mass media di tutto il mondo.

Così diventasti portavoce e simbolo del dramma dei bambini lavoratori in Pakistan, come in altri paesi in tutto il mondo.

Nel 1993, quando avevo dieci anni, invitato da diverse organizzazioni mondiali, cominciai a viaggiare e a partecipare a conferenze inteazionali, sensibilizzando l’opinione pubblica sui diritti che nel mio paese erano negati ai minori e contribuendo al dibattito sulla schiavitù mondiale e sui diritti inteazionali dell’infanzia.

Con le tue denunce e nella tua veste di «sindacalista bambino», non temevi per la tua vita?

Sulle prime avevo paura, ma con il tempo mi passò. A un certo punto mi accorsi di non avere più paura dei padroni, anzi, prendevo atto che erano i padroni che avevano paura di me e di noi bambini lavoratori e della nostra ribellione. Maturai anche l’idea che da grande sarei andato all’università per conseguire la laurea da avvocato per difendere coloro che erano oppressi e che vivevano situazioni intollerabili.

È vero che la tua fede religiosa ti fu molto di aiuto e ti sostenne nei momenti più duri e difficili?

Proveniente da una famiglia cristiana in un paese a stragrande maggioranza islamica, pregavo il Signore Gesù che mi desse la forza di rendere testimonianza della fede che avevo in lui e questo lo affermai in diverse occasioni nei miei viaggi per gli incontri inteazionali.

Se non vado errato hai anche ricevuto dei riconoscimenti inteazionali?

Nel dicembre del 1994 ottenni un premio di 15.000 dollari, con il quale decisi di finanziare una scuola in Pakistan. Ricevetti anche una borsa di studio per studiare all’estero, ma la rifiutai perché avevo deciso di rimanere in Pakistan, per portare avanti la mia campagna in favore dei più piccoli.

La tua attività come difensore dei bambini e la tua determinazione nel far conoscere al mondo il dramma del lavoro minorile sortì qualche effetto nella tua terra?

Circa tremila piccoli schiavi come me poterono uscire dalla loro condizione: sotto la pressione di alcuni organismi inteazionali, il governo pakistano iniziò a chiudere decine di fabbriche di tappeti che sfruttavano i minori.

 

Il 16 aprile 1995, domenica di Pasqua, all’età di 12 anni, Iqbal Masih venne assassinato, mentre si stava recando in bicicletta in chiesa. L’edificio era nei pressi della casa di sua nonna dove poi sarebbe andato con i suoi cugini. Alla notizia della sua morte, Ullah Khan affermò che si era trattato di un complotto «della mafia dei tappeti». Qualcuno si era sentito minacciato dall’attivismo di Iqbal, la polizia fu accusata di collusione con gli assassini. Di fatto molti dettagli di quel tragico giorno sono ancora oggi avvolti dall’oscurità. Alcuni testimoni affermarono di aver visto una macchina (dai finestrini oscurati) avvicinarsi al ragazzo in bici, dall’auto sarebbero partiti dei colpi di arma da fuoco.

Nel 2000 Iqbal fu il primo a ricevere, sia pur alla memoria, il World’s Children’s Prize, premio per i diritti dei bambini. Nel messaggio di fine anno del 31 dicembre 1997, il presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro ricordò il grande sacrificio di Iqbal Masih.

I suoi assassini, spezzandone la vita, hanno collocato la sua figura nel Pantheon dei testimoni che sacrificano la loro esistenza illuminando il cammino dell’umanità e ne hanno fatto un piccolo grande rivoluzionario.L’esempio che Iqbal ha seminato in Pakistan, come nel mondo intero, resta indimenticabile per tutti.

Il Bllf continua la sua difficile campagna per la liberazione da qualsiasi tipo di schiavitù, soprattutto contro l’asservimento dei bambini, per l’aumento delle paghe e per il cambiamento della legislazione.

Mario Bandera, Missio Novara




Quello che già abita la tua vita. Abramo

Quando li hai visti comparire, lì, alle querce di Mamre, non li hai riconosciuti subito. Eri seduto alla porta della tua tenda, nell’ora più calda del giorno, e facevi la guardia per difendere la tua abitazione precaria dalla desolazione del deserto. Eri lì, sulla soglia tra fuori e dentro, indeciso se fosse più inaccettabile l’inospitale arsura estea o l’ombroso disordine interno. Ed eri impreparato, rallentato dalla fiacchezza delle promesse non realizzate, dal desiderio dimenticato.

Hai alzato gli occhi e te li sei trovati attorno a te. Li attendevi da molto, e molte volte avevi immaginato come accoglierli, ma non li aspettavi in quel momento, in quella condizione così imprecisa. Appena messi a fuoco e riconosciuti, ti sei prima alzato, e poi prostrato fino a terra: «Mio signore – hai detto –, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo». Li hai serviti con solerzia, hai preparato un ristoro abbondante, come non ne concedi mai nemmeno a te stesso. Ti sei dato da fare mettendo in gioco le tue risorse migliori, hai organizzato tutto con straordinaria efficacia. Così, mentre stavi presso di loro, quelli hanno mangiato. Ma non li hai fatti entrare nella tua tenda.

Alzati gli occhi da quanto tu avevi loro offerto, li hanno rivolti a te, e guardandoti ti hanno domandato: «Dov’è Sara, tua moglie?». Tu hai risposto: «È là, nella tenda». E non hanno detto altro. Non ti hanno chiesto perché non li hai fatti entrare, non hanno rifiutato le tue offerte, non ti hanno prescritto cosa aggiungere alla tua vita. Ti hanno chiesto solo di riconoscere quello che già la abitava.

E la promessa è stata rinnovata.

Buona estate da amico,

Luca Lorusso

Contenuti:
– Uno schema di preghiera con le parole del papa per la giornata mondiale della gioventù (http://amico.rivistamissioniconsolata.it/articoli.php?azione=dettaglio&categoria_id=8&id=505)

– Il secondo (di tre in programma) schema di incontro per ragazzi e giovani sulla Laudato si’ (http://amico.rivistamissioniconsolata.it/articoli.php?azione=dettaglio&categoria_id=6&id=508)

– Il decalogo del missionario secondo Camerlengo (http://amico.rivistamissioniconsolata.it/articoli.php?azione=dettaglio&categoria_id=18&id=507)

– l’approfondimento biblico sulla misericordia (http://amico.rivistamissioniconsolata.it/articoli.php?azione=dettaglio&categoria_id=4&id=506)

– una piccola riflessione su Abramo alle querce di mamre (http://amico.rivistamissioniconsolata.it/articoli.php?azione=dettaglio&id=504&categoria_id=1).




Europa la missioni ci sfida alla novità


La visita di Papa Francesco a Lampedusa e quella più recente all’isola di Lesbo hanno contribuito, attraverso il potere forte delle immagini, a rendere l’idea che la missione in Europa sta cambiando. Anzi, ha già modificato il suo volto: basta guardarsi in giro, esplorando facce e contesti. Questa trasformazione esige oggi risposte diverse rispetto a quelle che la Chiesa e gli Istituti missionari erano abituati a dare in passato.

Il fenomeno delle migrazioni di massa che hanno riversato nelle nostre vie e nelle nostre vite persone di differente credo e cultura si è incrociato con il progressivo invecchiamento della chiesa. Questa appare sterile ed incapace di coinvolgere le nuove generazioni nell’entusiasmo evangelico e nell’incontro/confronto con la complessa realtà secolarizzata e scristianizzata di gran parte dell’Europa.

Questo cambiamento epocale interpella innanzitutto la nostra chiesa locale, e, dentro di essa, gli Istituti missionari che non possono semplicemente stare a guardare, ma sono chiamati a offrire risposte adeguate e competenti, mettendo a disposizione il loro carisma specifico con determinazione e originalità. Serve, oggi, un «progetto missionario» per l’Europa che individui obiettivi e ambiti specifici in cui la nostra missione venga definita con chiarezza e illumini le nostre scelte. Il momento critico che stiamo vivendo può diventare un’opportunità in cui, di fronte alla tentazione, ormai ben radicata nella mentalità di molti, di creare muri e barriere, si possa opporre il modello delle nostre «comunità ponte», interculturali e segno di frateità universale.

Il primo passo in questa direzione consiste nel coltivare una maggiore consapevolezza della nostra identità, riandando all’essenza del nostro carisma e confrontandolo con la mutevole realtà del continente. Se siamo missionari, lo siamo ovunque, anche qui in Europa. Il nostro carisma non ci spinge ad essere missionari soltanto per l’Africa, l’America Latina o l’Asia, ma per tutti coloro che non sono cristiani, dovunque essi siano. Come missionari, destinati a un primo annuncio del Vangelo, sentiamo l’urgenza di andare verso quelle persone e popoli che ancora non conoscono la Buona Notizia o l’hanno completamente dimenticata. Quindi anche in Europa.

Se questo è il criterio di fondo, resta da approfondire in che ambiti e con che stile siamo chiamati a essere missionari oggi in Europa.

Il mondo giovanile, quello dei poveri e degli emarginati, il complesso mondo dei media in cui far risuonare la Buona Notizia, sono contesti che sempre ci hanno visti impegnati nella nostra attività evangelizzatrice e con cui dobbiamo oggi continuare a confrontarci. Nel fare ciò, è però necessario che il missionario si caratterizzi e contraddistingua per scelte di campo precise, che non snaturino ed appiattiscano il suo carisma originale uniformandolo a quello di altre forze ecclesiali.

Oggi, la presenza del nostro Istituto in Europa, tradizionalmente dedicata all’animazione missionaria e vocazionale e alla formazione di futuri missionari, richiede di trovare nuove vie.

Una di esse potrebbe essere quella di guardare alla realtà con gli occhi dei nostri confratelli giovani, in gran parte provenienti da altri continenti. La loro sensibilità e il loro modo di vedere può cogliere aspetti nuovi e offrire proposte alternative agli schemi tradizionali. Il confronto di questa nuova sensibilità con l’esperienza di chi, nato in Europa, si è arricchito con anni di impegno missionario in altri continenti può dare frutti inediti. Se novità ed esperienza si incontrano, da una parte si può superare la frustrazione di una sterile ripetitività, dall’altra si tracciano nuove piste sulla solidità di un bagaglio umano e spirituale maturato negli anni.

E la missione in Europa sarà capace di scoprire le mille meraviglie che Dio continua a operare in questo continente.

Ugo Pozzoli




Storia del Giubileo 8. Il giubileo snaturato

Messaggio giubilare per oggi

È chiaro che il Giubileo, com’è descritto nella Bibbia, non ha più senso se preso alla lettera, ma diventa un eccezionale strumento di fede e di vita se si cala nella condizione del tempo di oggi, sia nella dimensione dello spazio (terra) sia in quella del tempo (relazioni). Esso, infatti, non è l’occasione per una conversione morale intimistica, basata sull’accumulo di qualche «chilogrammo d’indulgenze» da riscuotere alla cassa della fine-vita, ma il «kairòs – occasione propizia» per prendere coscienza definitiva della responsabilità che abbiamo sia sul versante della distruzione annunciata della terra sia sul versante delle relazioni umane con l’estensione della povertà a livello planetario per colpa di processi economici e sociali perversi, cioè senza Dio, perciò disumani.

Non è un caso che a ridosso del Giubileo della Misericordia, papa Francesco abbia voluto pubblicare l’enciclica «Laudato si’» sull’urgenza di salvare la Madre Terra, la «casa comune», mai come adesso in pericolo per le scelte scellerate di progresso aggressivo e omicida che il capitalismo di mercato o di stato ha sviluppato perseguendo solo il profitto di pochi a danno del benessere di molti.

Il Giubileo esige in primo luogo un esame di coscienza profondo e radicale, poi una conoscenza di tutte le responsabilità individuali e collettive degli stili di vita che generano morte o distruzione, infine il proposito di convertirsi con azioni operative di segno opposto. Non basta recitare qualche preghiera per tranquillizzarsi la coscienza, è necessario sentire e scegliere di stare dalla parte di Dio che, per conto suo, sta sempre dalla parte di chi è più fragile ed emarginato.

Oggi sarebbe più che mai opportuno che almeno la Chiesa proponesse il condono dei debiti dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi che continuano a dilapidare ciò che non producono, ciò che non hanno. Occorrerebbe dichiarare forte la necessità di restituire la libertà a tutti i prigionieri per idee, religione, politica. Nessuno dovrebbe essere imprigionato per le proprie idee. Entrare dalla porta della Misericordia comporta un cammino da un modo di essere a un altro, passare da uno stato di autosufficienza (peccato di Àdam ed Eva) e di potere, a una volontà di scegliere «il bene comune» come orizzonte per le scelte in economia, in politica, nel sociale, nella vita di tutti i giorni, nelle piccole scelte come fare la spesa, usare l’automobile, evadere le tasse che sono condivisione della vita della comunità civile e così via.

Celebrare il Giubileo è la ripresa dell’invito di Gesù alla «conversione», in Mc 1,15 espresso con il verbo «metanoèite» che ha il significato profondo di «metànoia – cambiamento-di-pensiero». Graficamente si raffigura come un’inversione a U. Chi accetta di lasciarsi «convertire» mette in discussione il proprio «modo di pensare», cioè il nucleo più intimo di sé che presiede la coscienza e il comportamento. La conversione, infatti, non riguarda gli atteggiamenti o i comportamenti esteriori, ma il centro vitale e decisionale della persona, che la Bibbia chiama cuore, e noi coscienza: il fulcro da cui nascono le scelte di vita e i comportamenti

Convertirsi vuol dire modificare i criteri del pensiero per mettere in movimento un processo di relazione, descritto, sempre in Mc 1,15, con il termine: «pistèuete en t? euanghelì? – credete nel vangelo», dove «Vangelo» è sinonimo della persona di Cristo Gesù (cf Mc 1,1). Convertirsi e credere sono i due momenti dello stesso dono che sperimentiamo nella vita: entrare in comunione con Dio insieme a tutti i fratelli e le sorelle. Sia la conversione sia la fede non provengono dalla carne e dal sangue (cf Gv 1,13), ma dallo Spirito Santo che suscita in noi il desiderio di Dio e il modo di arrivarci. In questo senso, il Giubileo è non più il ristabilimento della proprietà della terra, ma del «principio» fondatore del nostro essere figli di Dio, sua immagine e somiglianza; ritornare al progetto iniziale di Dio che ha come mèta il suo regno, cioè un nuovo modo di relazionarsi lungo la storia per rigenerare una nuova umanità di uguali che viva in armonia con tutti e con Dio, specialmente con i poveri che sono i «beati» della nuova storia.

8. Il Giubileo snaturato

La prova di forza di Bonifacio VIII

Dedichiamo le terzultima e penultima puntata ad alcune pennellate sulla storia dei Giubilei «cristiani-cattolici» che non hanno niente in comune con l’idea del Giubileo biblico. Riserveremo l’ultima all’attualità cui ci richiama papa Francesco che ha indetto un anno straordinario nella cifra della «Misericordia» per celebrare i cinquant’anni della chiusura del concilio ecumenico Vaticano II. In questo modo il papa ha modificato la natura stessa del Giubileo, ma pochi se ne sono accorti.

Dalle crociate

Con l’avvento del Cristianesimo, cala il sipario sul Giubileo, non solo come cadenza periodica, ma anche come ideale. Dalla diaspora degli Ebrei dalla Palestina verso il mondo e dalla dispersione dei Cristiani nel mondo allora conosciuto, fino a Roma, divenuta il nuovo centro della nuova religione, bisogna aspettare il 1300 per sentire di nuovo la parola «Giubileo». Dodici secoli di silenzio non sono innocui e, infatti, quando Bonifacio VIII (Papa Benedetto Caetani) indice il primo Giubileo del II millennio cristiano, non c’è più alcun rapporto né con la Bibbia né con la tradizione giudaica.

Prima del giubileo del 1300 che apre la serie degli «Anni Santi», vi erano state alcune premesse significative, che accenniamo in poche battute. Nell’anno 1033, primo millennio della redenzione, si diffuse nel mondo cristiano la convinzione che, una volta completata la ricostruzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme, verso cui si indirizzavano sempre più folle di pellegrini certe che la vicinanza al luogo supremo della cristianità avrebbe accordato la salvezza eterna, ci sarebbe stata la fine del mondo.

Papa Urbano II, da Avignone, nel 1095 bandì il primo pellegrinaggio armato, la «crociata», sia per proteggere i pellegrini verso Gerusalemme, sia per la riconquista del Sepolcro di Cristo, da circa venti anni caduto nelle mani dei Musulmani. La prima crociata, detta anche «dei Pezzenti» (1096), fu un totale fallimento. Già da quarant’anni (1054) si era consumato lo scisma d’Oriente con la scomunica di Papa Gregorio VII contro l’imperatore Bizantino Niceforo III e il Patriarca di Costantinopoli, Cerulario.

Il viaggio in «terra santa» diventò il pellegrinaggio per antonomasia per cui si misero per strada orde di delinquenti, assassini, ladri e falliti con il miraggio del «perdono totale», una volta giunti a toccare il Santo Sepolcro. Tutti furono invitati a partecipare «spontaneamente» alle crociate, liberando per un verso l’occidente della loro presenza, ma ponendo le premesse della violenza, del saccheggio, degli stupri e di ogni malefatta di cui le crociate furono portatrici. Il riformatore del monachesimo occidentale, Beardo di Chiaravalle (1090-1153), riteneva tranquillamente che la seconda crociata (1147-1149) fosse un «annus remissionis» e addirittura «annus vere jubilaeus», espressioni che lo stesso Papa Onorio III avrebbe poi fatte sue per la V e la VI crociata che sarebbero restate solo un pio desiderio.

… alla «Perdonanza»

Nel 1216 Papa Onorio III concesse un’indulgenza plenaria a Francesco di Assisi per tutti i fedeli che si fossero recati alla Porziuncola di Assisi il 2 agosto, equiparandola così a un pellegrinaggio capace di «lucrare» lo stesso beneficio (indulgenza plenaria) di chi partiva per la crociata, quasi a identificare la Porziuncola come una nuova Gerusalemme: «ad instar Sancti Sepulchri – a somiglianza del Santo Sepolcro». Lo stesso Onorio III nel 1220, nel cinquantesimo anniversario del martirio di Tommaso Becket (+ 29 dicembre 1170 a Canterbury), concesse l’indulgenza plenaria a quanti si recavano alla tomba del santo.

Circa settant’anni più tardi, Papa Celestino V (Pietro da Morrone), uomo spirituale e non avvezzo alle trame di palazzo e al mercato delle cose religiose, aveva avuto l’intuizione della «Perdonanza» con cui accordava la remissione dei peccati a tutti coloro che tra la sera del 28 e quella del 29 agosto di ogni anno (anniversario della sua elezione a papa) fossero entrati nella basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila, dove il Papa era stato incoronato e dove aveva fissato la propria residenza per essere lontano dalla curia di Roma, che egli giudicava luogo di perdizione.

Celestino, eletto nel 1294 dai cardinali che non riuscivano a trovare un compromesso tra le varie fazioni del patriziato romano, dopo appena quattro mesi, rassegnò le dimissioni, fuggendo verso Napoli e la Grecia, ma fu intercettato e fatto prigioniero dal suo successore (Caetani – Bonifacio VIII) che ne temeva i contraccolpi. Nel 1296 fu trovato morto nella sua cella, con grande sollievo di papa Caetani che così si liberò di una presenza ingombrante.

La novità della «Perdonanza» celestina consisteva nel fatto che fu concessa a tutti senza alcuna distinzione, purché fossero «veramente pentiti e confessati». In un tempo in cui spesso anche il perdono dei peccati e i riti religiosi erano oggetto di mercimonio e di tassazione in denaro, il gesto di Celestino fu rivoluzionario sul piano spirituale e il popolo, che comprese immediatamente, rispose. La «Perdonanza» celestina, ancora oggi, si pone al di fuori dei Giubilei «storici» sia per metodo che per contenuto, ma non può essere taciuta perché forse tra tutti, fino al Giubileo di Papa Paolo VI del 1975 (dopo ben sette secoli), fu l’unica che si pose un obiettivo esclusivamente spirituale e religioso senza altri fini di qualsiasi natura, specialmente di lucro.

Trenta Giubilei

Nella storia della Chiesa, dal 1300, giubileo di Papa Bonifacio VIII, fino al 2016, «Anno Santo della Misericordia» di Papa Francesco, si sono svolti trenta Giubilei, divisi in ordinari e straordinari. Papa Bonifacio VIII stabilì che il Giubileo fosse celebrato ogni 100 anni. Poi ci si accorse che un secolo era troppo e lo si portò a 50 anni, infine lo si ridusse a 25. Ecccone l’elenco cronologico come presentato da Alberto Melloni, Il Giubileo, una storia,
Editori Laterza, Roma-Bari 2015, 137-138.

1300  Bonifacio VIII (Benedetto Caetani)

1350  Clemente VI (Pierre Roger)

1390  indetto da Urbano VI (Bartolomeo Prignano),

aperto da Bonifacio IX (Pietro Tomacelli)

1400  Bonifacio IX (Pietro Tomacelli)

1423  Martino V (Oddone Colonna)

1450  Niccolò Quinto (Tommaso Parentucelli)

1475  indetto da Paolo II (Pietro Barbo), e aperto da Sisto IV (Francesco della Rovere)

1500  Alessandro VI (Rodrigo Borgia)

1525  Clemente VII (Giulio de’ Medici)

1550  indetto da Paolo III (Alessandro Faese, e aperto da Giulio III (Giovanni M. Ciocchi Dal Monte)

1575  Gregorio XIII (Ugo Boncompagni)

1600  Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini)

1625  Urbano VIII (Maffeo Barberini)

1650  Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili)

1675  Clemente X (Emilio Altieri)

1700  aperto da Innocenzo XII (Antonio Pignatelli), e concluso da Clemente XI (Giovanni F. Albani)

1725  Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini)

1750  Benedetto XIV (Prospero Lambertini)

1775  indetto da Clemente XIV (Gian Vincenzo Antonio Ganganelli), e aperto da Pio VI (Giovanni Angelo Braschi)

1825  Leone XII (Annibale Clemente Sermattei della Genga)

1875  Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti)

1900  Leone XIII (Gioacchino Pecci)

1925  Pio XI (Achille Ratti)

1933  Pio XI (Achille Ratti): anno santo della redenzione

1950  Pio XII (Eugenio Pacelli)

1966  Paolo VI (Giovanni Battista Montini): anno santo per la chiusura del concilio

1975  Paolo VI (Giovanni Battista Montini)

1983  Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a): anno santo della redenzione

2000  Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a)

2015-16 Francesco (Jorge Mario Bergoglio): anno santo della misericordia nel 50° del concilio.

L’invenzione del giubileo

Il vero inventore del Giubileo nella storia della Chiesa fu Bonifacio VIII, anche se in un primo momento fu riluttante fino al punto di tentare di abolire le concessioni date dai predecessori Onorio a Francesco e Celestino V alla cattedrale di Collemaggio (L’Aquila), ma senza riuscirci. Egli si dovette rassegnare all’uso ormai invalso e, da fine politico, lo trasformò in strumento prezioso per affermare il suo potere sia sul piano interno della Chiesa, sia su quello prettamente politico internazionale.

Eletto il 24 dicembre 1294 e insediatosi il 23 gennaio del 1295 emanò subito una bolla pontificia con cui concesse l’indulgenza plenaria ai crociati che partivano, ai francescani che andavano in missione presso i Tartari, e a chiunque si fosse armato per combattere i Siciliani di Carlo d’Angiò e la famiglia dei Colonna che osavano mettere in discussione la legittimità della sua elezione. In cambio, si poteva commutare l’indulgenza con 300 libbre di toesi (moneta d’argento, ufficiale nella Francia di Filippo IV il Bello e nella Sicilia dei d’Angiò).

Con la pubblicazione della bolla «Unam Sanctam», il papa affermò in modo solenne la superiorità del suo potere su quello di qualsiasi principe e imperatore in base al principio che lo spirituale è superiore al materiale. Uno degli strumenti usati a questo scopo, fu appunto il giubileo del 1300.

Avendo visto che il popolo romano, al compimento del secolo, spontaneamente si ammassava in san Pietro e nelle altre basiliche perché convinto che nell’anno «centesimo» (il 1300) vi fosse automaticamente la remissione dei peccati, Bonifacio VIII il 16 febbraio 1300 (quasi due mesi dopo l’inizio del nuovo secolo) indisse un giubileo con valore retroattivo, a partire dal 25 dicembre del 1299 ed esteso fino alla Pasqua successiva. La remissione fu concessa a tutti coloro che, pur avendone avuta l’intenzione, non erano potuti arrivare a Roma o erano morti lungo il viaggio. Per dare più importanza al documento, fece modificare la data d’indizione, portandola al 22 febbraio, ricorrenza della memoria della «Cattedra di san Pietro», sottolineando così l’autorità papale assoluta e indiscussa.

Per l’occasione il papa fece organizzare una processione che attraversò Roma con una fila interminabile di preti, vescovi e cardinali che lo precedevano. Il papa, assiso su un cavallo bianco, le cui briglie erano tenute da due chierici. Davanti a loro, due palafrenieri portavano su cuscino rosso, una spada e una tiara bipartita, simboli dell’unione del potere temporale e di quello spirituale. In questo modo il papa intendeva dire al mondo e specialmente a Filippo IV di Francia chi era il capo indiscusso. Il successo del Giubileo fu così grande che lo stesso Bonifacio VIII stabilì che ogni cento anni se ne celebrasse uno.

La questione delle indulgenze fu affrontata dal punto di vista teologico, attraverso una ricerca storica, arrivando alla conclusione che esse sono fondate sui meriti di Gesù Cristo, morto e risorto; questo tesoro prezioso, affidato all’amministrazione della Chiesa, è concesso dal papa, la massima autorità in terra. Vedremo nell’ultima puntata come papa Francesco ribalta questa concezione, non solo non parlando mai d’indulgenze nel senso tradizionale del termine, ma sempre di «indulgenza di Dio», mai di «Giubileo», ma di «Anno della Misericordia», concetti apparentemente simili, ma profondamente differenti dal punto di vista teologico.

Se Bonifacio VIII, quando, spinto dalla pietà popolare, si rese conto della forza del Giubileo, se ne servi come strumento politico nella geografia mondiale del potere del suo tempo, papa Francesco oggi afferma solo il primato di Dio e la sua natura di «Padre a perdere» che non si dà pace finché anche uno solo dei suoi figli resta fuori dal suo affetto e dal suo amore. Non si tratta di riscuotere «buoni» per la salvezza a buon mercato, ma favorire l’incontro con Dio attraverso l’unica via possibile che è la persona fisica di Gesù, venuto non solo a «fare l’esegeta del Padre» (Gv 1,18), ma anche a «cercare ciò che era perduto» (Lc 19,10) perché «questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).

 Paolo Farinella, prete,
(8, continua)




Siccità quest’anno diverso


Etiopia, Swaziland, Brasile, solo per citare i paesi nei quali sono presenti i nostri
missionari. Ma ce ne sono molti altri colpiti dall’ondata di siccità che si è verificata fra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016 e che ancora fa sentire i suoi devastanti effetti sulle vite di milioni di persone e sulle economie di molte nazioni.

Il 2015 è stato l’anno più caldo di sempre, o almeno del periodo del quale disponiamo di rilevazioni costanti, cioè a partire più o meno da metà Ottocento. L’anno scorso l’aumento delle temperature è stato di 0,76 gradi centigradi sopra la media che si era registrata fra il 1961 e il 1990 e di un grado pieno rispetto all’epoca preindustriale, cioè antecedente al 1865. A questo si è aggiunto El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che ha origine nella fascia tropicale del Pacifico ma che può interessare anche altre parti del globo: nel 2015 si è manifestato in modo particolarmente forte.

Quali siano le relazioni fra El Niño e l’innalzamento della temperatura, se e come possano influenzarsi l’un l’altro e che cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro è qualcosa che la comunità scientifica sta studiando senza approdare, per il momento, a conclusioni definitive. Quel che è certo è che un’ondata di siccità particolarmente impetuosa ha colpito diversi paesi in America Latina e in Africa. Cominciamo dall’Etiopia, che dallo scorso dicembre è l’oggetto di ripetuti appelli delle organizzazioni umanitarie proprio per la quantità di persone che la siccità ha esposto al rischio di carestia.

Etiopia, la peggiore siccità

«Qui siamo benedetti», scrive dall’Etiopia fratel Francisco Reyes, missionario della Consolata e direttore dell’Ospedale di Gambo, in Oromia. «La siccità ci ha risparmiati. I casi di malnutrizione non sono aumentati». Riporta poi Aljazeera che a Jijiga (o Giggiga, in italiano), nella regione Nordorientale del Somali, lo scorso aprile le piogge sono arrivate addirittura in anticipo e sono state particolarmente impetuose, al punto da provocare inondazioni in cui hanno perso la vita ventotto persone.

Ma già a pochi chilometri dall’ospedale di Gambo, o nei dintorni di Jijiga la situazione è ben diversa. Insieme all’Afar, la regione Somali e l’Oromia sono le regioni più interessate dall’ondata di siccità, e di acqua non se ne vede quasi più.

Secondo i dati della «Direzione generale Europea per l’aiuto umanitario e la protezione civile» (Echo), diffusi lo scorso aprile, «l’Etiopia sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi cinquant’anni in seguito al mancato manifestarsi di due stagioni delle piogge». Più di dieci milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria immediata; nelle zone più colpite fra il cinquanta e il novanta per cento dei raccolti sono andati perduti e centinaia di migliaia di capi di bestiame sono morti. Gli sfollati interni hanno superato il mezzo milione in un paese che ospita anche 732 mila rifugiati eritrei, somali, sudanesi e sud sudanesi. Decine di migliaia di bambini hanno smesso di andare la scuola.

Cristina Coletto, volontaria in Etiopia dell’Ong Lvia, sul sito della suo organizzazione pubblica aggioamenti sulla situazione in Afar; racconta di livelli dei fiumi sempre più bassi, pascoli scomparsi, animali morti e pessime condizioni del bestiame ancora in vita. «I prezzi di alimenti base, come la farina», continua l’operatrice umanitaria, «sono aumentati a causa della scarsa disponibilità nei mercati locali», ai quali la gente è ora costretta a ricorrere non potendo più contare su risorse proprie. «Quasi 10.000 famiglie, cioè il 3% della popolazione dell’Afar, sono già migrate verso le vicine regioni Amhara, Oromia e Tigray, in cerca d’acqua e pascolo».

«In questa situazione», riferisce il superiore della Visitatoria salesiana dell’Etiopia, padre Estifanos Gebremeskel, al portale di informazione sui temi umanitari

Reliefweb, «aumenta il rischio per molte persone di cadere vittima di trafficanti di esseri umani, di essere sfruttate e schiavizzate».

Molti ricorderanno ancora la carestia etiope del 1984, quella la cui eco internazionale portò a una mobilitazione che ebbe la sua massima risonanza nel Live Aid, il concerto di sensibilizzazione e raccolta fondi organizzato da Bob Geldof a Londra nel luglio del 1985. L’Etiopia oggi non è lo stesso paese; il suo governo, insieme alle agenzie inteazionali, ha fissato a 1,4 i miliardi di dollari necessari per far fronte all’emergenza e si è impegnato a investie 380 milioni. A questi si sono aggiunti, ad aprile, i 120 promessi dalla Commissione europea, mentre la Fao, che aveva stimato in cinquanta milioni i fondi necessari per assistere circa due milioni di persone, ne aveva raccolti poco più di otto. Usaid, l’agenzia governativa americana per lo sviluppo internazionale, ha stanziato 267 milioni di dollari per il 2016 e, ad aprile, riportava che il totale dei fondi destinati dal governo etiope e dalle agenzie umanitarie ammontava a 758 milioni, circa metà del miliardo e quattro richiesto.

Swaziland, prezzi alle stelle

Anche quattromila chilometri più a Sud, nello Swaziland, la situazione non è rosea. A febbraio di quest’anno il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza a causa della siccità. La produzione di mais era già diminuita del trentuno per cento nel 2015 e l’inizio del 2016 ha segnato un peggioramento ulteriore. «I prezzi di cereali, legumi e arachidi», scriveva lo scorso marzo l’amministratore della diocesi di Manzini, padre Peter Sakhile Ndwandwe, «fluttuano normalmente seguendo un andamento stagionale. In genere i prezzi di questi alimenti si impennano poco prima del momento del raccolto. Ma quest’anno è diverso: i prezzi sono altissimi perché per il 95 per cento dei contadini che praticano agricoltura di sussistenza nel paese non è previsto alcun raccolto. Dieci chili di cereali costavano un mese fa 81 Lilangeni (valuta locale, un euro vale 17 lilangeni, ndr). Oggi gli stessi dieci chili costano 120 e continuiamo a registrare aumenti di settimana in settimana. Nel 2013 il prezzo per la stessa quantità di cereali era di 41 emalangeni».

Secondo le stime delle agenzie interazionali raccolte da Reliefweb, ad aprile trecentomila persone – pari a un quarto della popolazione dello Swaziland – aveva urgente bisogno di cibo e acqua, quasi novemila bambini soffrivano di malnutrizione da moderata a grave e sessantaquattromila capi di bestiame erano morti. Le persone in condizioni di insicurezza alimentare rischiano di raddoppiare; la semina, che di solito interessa i mesi di ottobre e novembre, è avvenuta in ritardo di due mesi, cioè molto più a ridosso dell’inverno australe (che corrisponde grossomodo alla nostra estate). Il rischio è che fino alla prossima stagione delle piogge, a ottobre 2016, le condizioni della popolazione swazi non migliorino.

Brasile, El Niño Godzilla

El Niño Godzilla – così lo hanno ribattezzato alcuni media – ha fatto danni anche nell’Amazzoni brasiliana: «Siamo molto preoccupati per la siccità terribile che sta causando la morte del bestiame nella savana e della selvaggina che è bruciata negli incendi forestali», ha scritto ai suoi amici nella lettera di Pasqua 2016 fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata, da Bõa Vista. «Molti ruscelli si sono completamente prosciugati e i villaggi devono spostarsi per poter avere accesso all’acqua. Molti pozzi sono secchi e le piantagioni sono ridotte quasi a zero».

Amazônia Real, agenzia di stampa indipendente brasiliana, riporta le testimonianze di diversi abitanti delle terre indigene Yanomami e Raposa Serra do Sol. «Nei fiumi principali – Uraricoera, Demini e Catrimani – c’è ancora acqua, ma gli affluenti sono secchi, morti», ha detto all’agenzia Dário Kopenawa, cornordinatore delle politiche pubbliche dell’associazione yanomani Hutukara e figlio dello storico leader indigeno Davi Kopenawa Yanomami. Gli incendi sono frequenti e il fumo che invade le aldeias, i villaggi, causa problemi respiratori specialmente ai bambini. Secondo Dário Kopenawa, gli effetti di El Niño si sommano a quelli della distruzione sistematica delle risorse naturali e dei danni ambientali provocati dai cercatori d’oro.

Anche a Raposa Serra do Sol, cinquecento chilometri più a Nord, gli abitanti raccontano di siccità e difficoltà inedite: secondo Geiza Duarte, indigena macuxi, per procurarsi l’acqua necessaria per cucinare e per l’igiene personale, le famiglie camminano per undici chilometri fino alla comunità vicina, dove ancora si trova acqua. Fortunatamente, almeno per Roraima, i nostri missionari ci confermano il ritorno di piogge abbondanti, anche con allagamenti, da aprile.

Rischio rifugiati ambientali?

Anche l’Asia è in difficoltà. In Indonesia, ad esempio, in sedici province su trentaquattro la siccità ha ridotto la disponibilità di acqua e danneggiato la produzione agricola, la pesca e le attività economiche legate alla foresta. Dal novembre 2015 l’Indonesia, terzo paese produttore di riso al mondo, ha iniziato a importare riso per garantire le scorte alla sua popolazione. La siccità, inoltre, ha indirettamente aggravato la piaga degli incendi che hanno distrutto finora due milioni di ettari di foresta, provocando infezioni respiratorie causate dal fumo a oltre mezzo milione di persone. Gli esperti indonesiani calcolano che lo smog generato da questi incendi provocherà perdite economiche per 14 miliardi di dollari fra produzione agricola e foreste danneggiate, danni alla salute, ai trasporti e all’industria turistica.

Davanti agli effetti di questa ondata di siccità, pensando anche agli altri fenomeni climatici che periodicamente infliggono gravi perdite umane ed economiche al pianeta, in molti si chiedono quali saranno in un futuro tutt’altro che lontano le conseguenze in termini di migrazioni umane.

Non esiste una categoria giuridicamente riconosciuta per i rifugiati, o profughi, ambientali. E sul fenomeno della migrazione causata da condizioni ambientali non ci sono statistiche univoche. Tuttavia, a detta dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) il fenomeno sta assumendo una rilevanza che sarà impossibile non tenere in considerazione. Le previsioni future, si legge sul sito dell’Oim, variano dai venticinque milioni al miliardo di migranti ambientali entro il 2050 che si sposteranno sia all’interno del proprio paese che oltre confine, in modo temporaneo o permanente. La cifra più frequentemente citata nelle previsioni è duecento milioni, numero che eguaglia la stima attuale dei migranti inteazionali nel mondo».

Chiara Giovetti




Perdenti 15: Sacco e Vanzetti


Il 23 agosto 1927, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati negli Usa, subirono l’esecuzione capitale tramite la sedia elettrica. Erano accusati di aver ucciso, nel corso di una rapina, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril. I dubbi sulla loro responsabilità e l’assoluta mancanza di testimoni non valsero a nulla. Nel penitenziario di Charlestown in Massachusetts, a distanza di sette minuti l’uno dall’altro, furono legati alla sedia elettrica e «giustiziati». Il 23 agosto 1977, a cinquant’anni esatti dalla loro morte, Michael Dukakis, durante il suo primo mandato di Goveatore del Massachusetts, riabilitò la memoria dei due italoamericani ammettendo che nel giudicarli erano stati commessi macroscopici errori e ingiustizie sia da parte della polizia che della magistratura americana.

Voi siete conosciuti in Italia e in America con i vostri cognomi, Sacco e Vanzetti, e considerando la provenienza geografica, si può dire che nel dramma che vi è toccato vivere, avete rappresentato con molta dignità l’Italia del Sud e del Nord, strettamente unita nella dura realtà dell’emigrazione.

Sacco: io sono pugliese, sono nato a Torremaggiore in provincia di Foggia.

Vanzetti: io, invece, sono piemontese e vengo da Villafalletto in provincia di Cuneo. Siamo emigrati negli Stati Uniti quasi contemporaneamente. Io arrivai a New York nel 1908, Sacco invece sbarcò a Boston nel 1909. Approdammo nel Massachusetts facendo diversi lavori, come del resto era consuetudine in quegli anni per i migranti che arrivavano in America.

Sacco: alla fine io trovai lavoro in una ditta che produceva scarpe e divenni un calzolaio provetto, mi sposai ed ebbi un figlio e una figlia, mentre il mio amico Bartolomeo, dopo molti sacrifici e aver cambiato tanti lavori, riuscì, nel 1919, ad aprire un piccolo negozio dove vendeva pesce.

Vi siete conosciuti in America?

Si, frequentavamo dei circoli anarchici e socialisti presenti in terra americana (pochi in verità), partecipando a scioperi e manifestazioni, che ci fecero avere problemi con la polizia. Nel 1916 ci conoscemmo e in poco tempo diventammo amici. Le nostre idee collimavano nel ricercare una giustizia sociale che fosse equa e rispettosa per tutti gli immigrati, inoltre eravamo due convinti pacifisti, tant’è vero che quando gli Stati Uniti intervennero nella Grande Guerra del ‘15-’18, ci rifugiammo in Messico con tutto il collettivo anarchico per non essere arruolati.

Finita la guerra tornaste negli Stati Uniti?

Si, riprendemmo il nostro lavoro nella società americana cercando di convincere altri immigrati a frequentare i nostri circoli e ad aderire alle nostre idee. Per la nostra fuga in Messico e per le nostre attività, eravamo però inclusi in una lista di sorvegliati speciali e segretamente controllati dalla polizia.

Come erano visti gli italiani negli Stati Uniti in quegli anni?

Molto male. Innanzitutto per il fatto di provenire da un paese cattolico e di trovarci in una cultura come quella degli Usa permeata dall’ideologia wasp (lett. vespa, ma in questo caso acronimo per White Anglo Saxon Protestant), eravamo considerati la feccia della società. Se a ciò si unisce il fatto che avevamo problemi con la lingua inglese in quanto non la parlavamo correttamente e che per sopravvivere eravamo disposti ad accettare i lavori più degradanti, eravamo visti come «paria» che occupano l’ultimo gradino della società.

Gli emigranti provenienti in genere dall’Europa e in particolare dall’Italia, portavano anche le idee socialiste e anarchiche che in quegli anni stavano sviluppandosi nel vecchio continente.

Quasi tutti noi eravamo contro la guerra, quindi abbastanza restii ad appoggiare le azioni belliche da qualunque parte venissero proposte. Molti immigrati si rifiutavano di iscriversi ai registri di leva e di lavorare nelle industrie che fabbricavano armi ed erano proprio i lavoratori europei, specialmente gli italiani, che animavano queste iniziative e organizzavano scioperi.

Anche la risonanza che arrivava dalla Rivoluzione Russa alimentava un’ostilità crescente non solo verso i migranti, ma proprio verso tutti coloro che si dichiaravano anarchici e socialisti?

Proprio così. Oltre tutto in quegli anni prese piede la così detta «red scare» (la paura dei rossi), con la quale il governo federale cercò di prevenire – con metodi al limite della legalità – il diffondersi di una ideologia ritenuta sovversiva e radicale. Per rispondere ai nostri sporadici, e tutto sommato abbastanza innocui, gesti di ribellione e per bloccare ogni nostra iniziativa, venne creato un apparato poliziesco imponente.

Va da sé che in un clima di così alta tensione e pieno di sospetto verso chi non era «wasp», ogni volta che succedeva un fatto criminale, gli immigrati venivano subito additati come colpevoli.

Il 15 aprile 1920, a South Braintree (Massachusetts), il cassiere del calzaturificio «Slater and Morril», Frederick Parmenter, e la guardia Alessandro Berardelli, stavano portando a piedi le paghe della settimana, 15.776 dollari, in due cassette di legno. Vennero assaliti con le pistole in pugno da due persone che spararono a bruciapelo e si allontanarono su un’auto che li stava aspettando. Immediatamente vennero sospettati degli italiani come gli autori del gesto. Noi due fummo arrestati perché trovati con una pistola e degli appunti per un comizio che stavamo organizzando. Ci trattennero in prigione senza nessuna assistenza legale.

Non vi chiedevate il perché di un arresto così anomalo?

Parlando tra di noi credevamo che ci avessero arrestati per motivi politici, al massimo per illegale possesso di armi. Per questo avevamo paura di essere espulsi, ma a nostro favore giocavano parecchie testimonianze giurate che dicevano che noi non eravamo nel luogo dove era avvenuto il gesto criminale, in quanto impegnati altrove. Ma il numero dei testimoni contro di noi, che la polizia andava raccogliendo qua e là, aumentava ogni giorno e, tra mille incertezze e contraddizioni, alcuni di loro dissero esplicitamente che noi eravamo i colpevoli. Venne quindi fatta un’incriminazione formale a nostro nome.

Raccogliendo delle testimonianze abbastanza deboli, ma avendo fretta di concludere l’istruttoria, tutto venne deciso per portare a termine il processo nel più breve tempo possibile.

Non solo, alcuni testimoni ritrattarono perché, a distanza di mesi, non erano più così sicuri delle loro dichiarazioni. Un portoghese di nome Celestino Madeiros, un comune criminale condannato in precedenza per rapina e omicidio, confessò la sua partecipazione al furto e al conseguente assassinio della guardia giurata, scagionandoci completamente dalle accuse a noi rivolte.

Ma tutto fu inutile in quanto la giustizia americana era alla ricerca di un capro espiatorio e voi incarnavate proprio quello che a loro serviva da presentare all’opinione pubblica, non è andata così?

Peggio, il pubblico ministero riuscì a eccitare i sentimenti patriottici e i pregiudizi della Corte, illustrando quelle che a suo avviso erano le idee sovversive del Movimento Anarchico del quale noi facevamo parte. La nostra renitenza alla leva e le nostre critiche al sistema capitalistico americano, vennero duramente attaccate dall’accusa, così facendo si processavano le nostre idee e non i fatti! Al momento della requisitoria il procuratore lanciò parole durissime contro gli stranieri e le idee che professavano. Anche il riepilogo del giudice fu pervaso da nazionalismo e pregiudizio; egli, anziché ricapitolare gli elementi di prova che la giuria avrebbe dovuto prendere in considerazione, espresse giudizi pesanti sugli stranieri presenti negli Stati Uniti. Paradossalmente non portò nessuna prova che inchiodasse noi al delitto di cui eravamo accusati. Nonostante ciò e nonostante gli elementi d’incertezza e i vistosi vizi procedurali che emersero durante il dibattimento, il 14 luglio 1921 la giuria pronunciò la sentenza di condanna a morte tramite sedia elettrica per tutti e due.

La condanna a morte di Sacco e Vanzetti provocò proteste in tutto il mondo, il governo italiano si fece sentire attraverso tutti i canali diplomatici, fior di intellettuali e personaggi di spicco di diverse nazioni scrissero al presidente degli Stati Uniti di concedere loro la grazia, in Italia ci fu un’ondata di antiamericanismo tale che bisognerà aspettare la guerra del Vietnam per vedee una uguale. In tutti i paesi culla di emigrazione verso gli Stati Uniti, ci furono manifestazioni di sostegno per i due italiani, anche negli Usa l’opinione pubblica si divise. Se per la destra veniva finalmente applicata una punizione esemplare a dei delinquenti comuni, altri cittadini, coscienti che veniva attuata un’ingiustizia macroscopica nei confronti di due italiani innocenti, non volendo che il loro paese apparisse come persecutore degli immigrati che proprio in quegli anni approdavano a migliaia negli Usa, manifestarono a loro favore.

Furono sette anni di inutili ricorsi, perché di fatto quello era ormai diventato un processo politico.

Il giudice Webster Thayer, l’uomo che aveva emesso la condanna a morte per Sacco e Vanzetti, disse a un amico: «Hai visto cosa ho fatto a quei due bastardi anarchici italiani, l’altro giorno?».

Vanzetti in una delle ultime sedute del processo prima dell’esecuzione, il 19 aprile 1927 fece un breve discorso in cui tra l’altro disse: «Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati, noi siamo condannati non per dei crimini che abbiamo commesso, ma perché siamo italiani e perché siamo anarchici, ma siamo così convinti di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarci due volte rivivremmo per fare esattamente le stesse cose che abbiamo fatto. E questo omicidio di stato non riuscirà a estinguere il nostro limpido e inalienabile diritto di esistere e di pensare secondo la nostra coscienza». Poi rivolgendosi al giudice che lo aveva condannato disse: «Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della terra ciò che io ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già».

Furono giustiziati – se questa è l’espressione giusta – sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927, a pochi minuti l’uno dall’altro. Le loro ceneri riposano ora a Torremaggiore.

Mario Bandera, missio Novara

 




Italia moschee negate


In Italia la questione dei luoghi di culto musulmani è all’ordine del giorno. Diverse regioni e città vi si confrontano. È impossibile passare sotto silenzio l’ormai stabile radicamento di circa due milioni di fedeli musulmani. E questo porta con sé la necessità di affrontare anche la questione della loro libertà religiosa. Partendo da una delle esigenze più essenziali: la disponibilità di luoghi in cui svolgere e celebrare in forma collettiva la preghiera, le festività e le altre attività e pratiche essenziali per la loro vita comunitaria.

L’apertura di un luogo di culto è sempre materia simbolica e, non di rado, delicata. Simbolica perché il luogo di culto rende evidente nello spazio pubblico l’esistenza di una comunità che si riunisce intorno a principi e valori non necessariamente condivisi da tutti. Delicata perché interpella le altre componenti sociali: dalla società civile alle istituzioni pubbliche alle altre comunità religiose, a partire, nel contesto italiano, dalla chiesa cattolica.

Non «se», ma «quali» luoghi di culto

A seconda delle vicende che accompagnano la sua apertura, il luogo di culto (in questo caso musulmano) può divenire strumento di integrazione culturale, sociale e civile, oppure di ghettizzazione, di chiusura, emarginazione e isolamento. In Italia i luoghi di culto musulmani rischiano di vivere più la seconda esperienza negativa che la prima positiva. Questo perché alla quantità dei luoghi musulmani presenti sul territorio, non ne corrisponde una uguale qualità. Infatti, dei circa 800 censiti, soltanto sei (Segrate, Brescia, Colle Val d’Elsa, Roma, Ravenna e Catania), o poco più, possono essere identificati come vere e proprie moschee. Gli altri sono semplici «sale di preghiera» collocate in capannoni, garage, seminterrati, magazzini e palestre. Luoghi riadattati e, non di rado, in condizioni poco dignitose e disagiate.

La questione, dunque, non è se aprire luoghi di culto musulmano in Italia (perché ci sono già), ma quali luoghi di culto musulmani vuole avere l’Italia: per l’esclusione o per l’integrazione?

Il carattere laico dello stato

La Costituzione, nell’interpretazione costante e sempre più approfondita della Corte Costituzionale, impone una scelta precisa: il luogo di culto è espressione del diritto di libertà religiosa. Lo stato centrale (dettando le norme fondamentali), e le regioni (predisponendo la legislazione di dettaglio), hanno il dovere di garantire a tutti i gruppi religiosi questo diritto, mostrando non indifferenza, ma adoperandosi per rendee concrete le possibilità di esercizio. In altre parole, l’apertura dei luoghi di culto è espressione non solo dello specifico diritto di libertà religiosa, ma, più in generale, del carattere laico (pluralista e non indifferente) della Repubblica italiana chiamata a valorizzare e integrare, su un piano di uguale libertà, tutte le formazioni sociali, anche quelle religiosamente connotate.

Le regioni fanno il bello e il cattivo tempo

Lo stato è intervenuto in materia facendo rientrare gli edifici di culto tra le opere di urbanizzazione secondaria, e dunque tra gli spazi pubblici di interesse comune. Le municipalità dovranno quindi pianificare i propri territori prevedendo la presenza di luoghi di culto, e disponendo per essi anche la possibilità di appositi finanziamenti pubblici.

Fissata questa regola essenziale, lo stato centrale non ha emanato alcuna disciplina organica di settore, lasciando l’attuazione del dettato costituzionale ai diversi legislatori regionali. Ed è qui che si sono incontrate le prime difficoltà. Infatti le varie leggi regionali in materia di edilizia di culto, in alcuni casi hanno portato a un’esplicita discriminazione contraria alla costituzione. Larga parte della legislazione regionale in materia mostra in particolare tre caratteristiche:

  1. la grande discrezionalità lasciata alle pubbliche amministrazioni nella valutazione delle istanze avanzate dai diversi gruppi religiosi;
  2. la ricorrente differenza di trattamento riservato alla chiesa cattolica rispetto agli altri gruppi;
  3. la tendenza a considerare come interlocutori soltanto le comunità religiose istituzionalmente organizzate e numerose, riservando minore attenzione ai gruppi più fluidi (non solo i musulmani, ma anche, ad esempio, gli evangelici), meno numerosi e, di fatto, più distanti dal «sentire» della maggioranza.

Da queste tre tendenze, alcune regioni (l’Abruzzo e, soprattutto, per ben due volte, la Lombardia) hanno fatto derivare l’esclusione delle confessioni religiose prive di Intesa con lo stato1 dai contributi pubblici per l’edilizia di culto (Abruzzo), o dalle ordinarie procedure per l’assegnazione degli spazi, sostituite da altre più onerose (Lombardia).

La Corte costituzionale ha reagito contro questa tendenza dichiarando incostituzionali le leggi in materia edilizia della regione Abruzzo (1993) e Lombardia (2002 e 2016). Tali leggi non riconoscevano che il diritto a disporre di un luogo di culto discende direttamente dall’art. 19 della Costituzione e, dunque, costituisce un elemento essenziale del diritto di libertà religiosa indipendentemente dalla stipulazione di un’Intesa con lo stato.

Nonostante il loro peso, gli interventi della Corte costituzionale tuttavia non sembrano diventati un patrimonio comune dei legislatori regionali e delle amministrazioni comunali che si trovano a governare collettività multiculturali e religiosamente differenziate.

La «questione musulmana»

All’interno di questo quadro, la «questione musulmana» ha costituito la cartina di tornasole per verificare la capacità del ceto politico-istituzionale italiano di dare corpo alla libertà religiosa e alla laicità dello stato. L’islam, infatti, porta con sé tutti gli ingredienti capaci di mettere in crisi una gestione statica degli spazi pubblici.

Non solo i musulmani ben si prestano a rappresentare lo stereotipo dell’incolmabile alterità, ma essi sono pure frammentati, privi di rappresentanza unitaria, etnicamente e culturalmente differenziati, diversificati anche per scuole e tradizioni religiose, nonché per i legami con i paesi di provenienza che perdurano, spesso con scorno delle nuove generazioni, anche molti anni dopo l’insediamento in Italia.

L’11 settembre e le altre tragiche date che ne sono seguite, fino agli ultimi attentati di Bruxelles, hanno favorito l’inquadramento dei musulmani sub specie securitatis, incentivando paure e logiche differenzialiste – ispirate all’eccezionalismo – anche nel godimento del diritto di libertà religiosa e di culto. Di fatto, il legittimo godimento di luoghi di culto per i musulmani è divenuto, oggi, assai problematico.

Si spiegano così le 800 «sale di preghiera» allestite in luoghi inadatti e disagiati, e le pochissime «moschee» presenti nel nostro paese.

Un circolo vizioso da rompere

Peraltro, ad aggravare la situazione concorre la circostanza che nessuno dei loro luoghi di culto è formalmente classificato e, dunque, trattato come tale. Qualche lacuna del diritto e l’indisponibilità politica producono da troppo tempo un circolo vizioso che deve essere interrotto. Nei confronti dei gruppi religiosi ancora privi di intesa con lo stato italiano, infatti, il nostro paese non dispone di una legge generale sulla libertà religiosa e si serve ancora della legislazione sui «culti ammessi» del 1929-1930. Questa normativa lascia grandi spazi alla discrezionalità politica, e le comunità musulmane, per loro ignoranza o sfiducia, o per rifiuti e ostilità subiti, non sono ancora riuscite a ottenere il riconoscimento quali «enti di culto». L’unico ente musulmano capace di ottenere tale riconoscimento è stata la Moschea di Roma nel lontano 1974. La data è importante: si era in piena crisi petrolifera ed era obiettivo della politica estera dei tempi avere buoni rapporti con il mondo arabo incarnato, appunto, da una moschea che non rappresentava tanto i «musulmani italiani», quanto gli stati a maggioranza musulmana. Nel suo consiglio di amministrazione siedono, infatti, gli ambasciatori dei «paesi musulmani» accreditati presso la Repubblica e la Santa Sede.

Per gli altri gruppi, fino a ora, la via di questo riconoscimento è stata interdetta. Come pure è stata interdetta (molto discutibilmente) dal Consiglio di Stato la possibilità di ottenere una personalità giuridica di diritto privato ricorrendo al codice civile: per il giudice amministrativo, infatti, quando la finalità religiosa è prevalente l’unica via per il riconoscimento della personalità giuridica è quella prevista dalla legislazione del 1929-1930.

Ma così si torna al punto di partenza. I musulmani sono stati indotti allora a optare per il mimetismo, organizzandosi attraverso associazioni no profit, onlus, associazioni di promozione sociale. Tutte forme idonee per l’esercizio di molte delle attività non cultuali delle comunità religiose, ma inidonee per lo svolgimento delle attività con fine di religione e di culto. Per questo le comunità vengono poi a scontrarsi con i dinieghi comunali – e regionali – nel momento in cui vogliano, attraverso dette associazioni, aprire e gestire un luogo di culto.

Due percorsi da intraprendere

È evidente che i percorsi per superare questa impasse sono fondamentalmente due:

  1. varare una nuova legge sulla libertà religiosa che superi definitivamente la legislazione dell’epoca fascista dettando nuove norme sull’associazionismo religioso nonché i principi fondamentali in materia di edilizia di culto;
  2. in attesa di tale intervento, favorire l’organizzazione delle comunità musulmane secondo un modello duale già sperimentato con successo in altri paesi: da una parte, l’associazione di culto (allo stato attuale, una semplice associazione privata non riconosciuta) quale rappresentante degli interessi religiosi dei fedeli musulmani residenti in un determinato territorio; dall’altra, tutte le forme associative previste dall’ordinamento italiano per l’esercizio delle attività non cultuali.

In questo modo, attraverso un dialogo aperto e trasparente, le amministrazioni comunali ben potrebbero rapportarsi con le «associazioni religiose» in vista dell’assegnazione di aree o edifici per il culto, anche con l’accompagnamento di specifiche convenzioni in cui fissare rispettivi oneri, obblighi e contributi pubblici di sostegno.

Leggi ostili generano esclusione e insicurezza

Purtroppo, il percorso più seguito è più spesso un altro: quello dell’interdizione e della chiusura.

Ne è stato un recente esempio la legge regionale lombarda n. 62 del 27 gennaio 2015. In base a questa normativa l’apertura di un luogo di culto da parte dei gruppi religiosi privi di intesa (leggi: i musulmani) finiva per essere condizionata da controlli e oneri particolarmente pesanti e totalmente discrezionali. Si evocava poi il ricorso a invasive misure di sorveglianza che esorbitavano dalle competenze regionali.

Il 24 marzo scorso è stata resa nota la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionali parti importanti della legge lombarda. Ma l’azione dei giudici non è sufficiente.

Le nuove misure approvate il 5 aprile scorso dal Consiglio regionale del Veneto si collocano, pur se con maggior prudenza, sulla stessa direttrice tracciata dal legislatore lombardo. Il luogo di culto come eccezione da definire e circoscrivere (anche spazialmente) più che come diritto fondamentale da regolare. Si evoca, ma a fini apparentemente descrittivi, evitando le conseguenze costituzionalmente illegittime, la distinzione tra chiesa cattolica, confessioni con intesa e confessioni senza intesa; si evoca il referendum e si introduce la possibilità di richiedere l’utilizzo della lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. Una norma che esorbita dalle competenze in materia urbanistica proprie del legislatore regionale e potenzialmente suscettibile di essere discrezionalmente strumentalizzata dai comuni, in occasione della stipula – e dell’esecuzione – delle convenzioni, contro l’apertura dei luoghi di culto delle comunità composte per la maggior parte da stranieri.

L’ostilità nei confronti dei luoghi di culto musulmani trascura la realtà (essi esistono già e vanno, piuttosto, ben regolati); offende la Costituzione; produce esclusione e insicurezza e, non da ultimo, contribuisce a erodere la comprensione del diritto di libertà religiosa che rischia di essere meno tutelato, per tutti.

Alessandro Ferrari*

* Alessandro Ferrari insegna diritto ecclesiastico e diritto canonico presso l’Università degli Studi dell’Insubria (Como-Varese). Autore di numerose pubblicazioni è membro del Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano istituito presso il ministero dell’Inteo.

Note:

1- Per approfondire il tema delle intese e della legge generale sulla libertà religiosa in Italia, si vedano gli articoli di questa rubrica in Mc 1-2/2015 (pp. 78-82), 3/2015 (pp. 66-69), 4/2015 (pp. 72-75) e 5/2015 (pp. 69-72).




La consolata: madonna missionaria


«La Consolata è madre nostra tenerissima e ci ama come la pupilla degli occhi suoi», disse l’Allamano ai suoi missionari nel giugno del 1915. «Lei ideò il nostro Istituto, lo sostenne in tutti questi anni materialmente e spiritualmente, qui e in Africa, ed è sempre pronta a tutti i nostri bisogni. Non v’è dubbio che tutto quello che si è fatto qui, tutto è opera della Consolata. Ha fatto per questo Istituto miracoli quotidiani… Nei momenti dolorosi intervenne in modo straordinario».

Un sacerdote torinese disse dell’Allamano: «È un santo che porta la Consolata in saccoccia», in tasca, con sé. Così i suoi missionari: ovunque vanno portano la loro Madonna.

Il 20 giugno si celebra con grande solennità la Consolata nel suo santuario di Torino e in varie parti del mondo dove si trovano i suoi missionari e le missionarie che portano lo stesso titolo mariano. L’Allamano che ha dato all’Istituto il nome della Consolata non si è mai sentito il suo vero fondatore. Ripeteva sempre che «Fondatrice è la Consolata». Ribadiva pure che la Madonna desidera più di tutto che il suo Figlio sia conosciuto e amato, perché è la salvezza dell’umanità. E aggiungeva, come conseguenza: «Per questo ha fondato il nostro Istituto», per la missione evangelizzatrice. A questo scopo l’Allamano ha fatto camminare la Consolata, madre di tutti, per il mondo. Così ha globalizzato l’attività più tipica della festa della Consolata: la grande processione nella città di Torino. L’8 maggio 1902, festa dell’Ascensione in cui si ricordavano le parole di Gesù agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15), l’Allamano inviò in Kenya i primi quattro missionari. E da allora la processione è proseguita, ha raggiunto altri paesi e continua ancora. Così non vi è più un solo santuario della Consolata a Torino, ma molti in tante parti del mondo, ovunque ci sono missionari e missionarie della Consolata. Questo cammino è iniziato appena Maria fu consolata dall’annuncio dell’Angelo che le disse: «Rallegrati. Il Signore è con te». Ricevuto Gesù nel suo seno, non lo tenne per sé. Andò, «corse in fretta», dice il Vangelo, dalla cugina Elisabetta, per parlare con lei delle grandi cose avvenute, magnificare il Signore, aiutare e «consolare» a sua volta. Infatti, quell’incontro provocò un’esplosione di gioia in Elisabetta, Zaccaria e Giovanni Battista che ancora nel seno della madre sentì la presenza di Gesù in Maria. Il beato Allamano raccomandava alle missionarie in partenza per la missione: «Lasciate il sapore dell’amore per Dio e per il prossimo dovunque andate»; e ai missionari: di essere «missionari della bontà». Maria è ispiratrice di una missione consolatrice, che ha di mira l’annuncio del Vangelo, il benessere e la felicità delle persone tramite l’istruzione, la cura della salute, la promozione della giustizia e della pace.

Gottardo Pasqualetti




Si trovavano insieme


Immersi nell’Anno giubilare della misericordia, con lo sguardo rivolto a Cracovia, Polonia, dove a luglio si celebrerà la Giornata mondiale della gioventù, leggiamo il brano di Luca che racconta la Pentecoste (At 2,1-11).

Una folla di persone di ogni nazione si mette a osservare, chi con partecipazione, chi con scetticismo, chi con ostilità, lo scompiglio creato da quel vento impetuoso, da quelle lingue «come di fuoco» che hanno abbattuto i muri del cenacolo. Immaginiamo quel medesimo vento sconvolgere i passi dei giovani in cammino verso Cracovia. E lo scompiglio che contagia anche chi osserva: «Come mai ciascuno di noi sente parlare delle grandi opere di Dio nella propria lingua? Com’è possibile che qualcuno conosca la grammatica del mio cuore? Che parli con il lessico della mia vita? Con la sintassi della mia storia?».

«Si trovavano tutti insieme nello stesso luogo», nella stessa città di Giovanni Paolo II, di santa Faustina (apostola della Divina Misericordia, il cui nome significa «felice»), per vivere la beatitudine di essere misericordiosi, e trovare misericordia. Si trovavano tutti insieme, benché venuti da ogni dove, ciascuno dalle proprie esperienze e ferite, dalle proprie giornie e fallimenti. Chiamati, dopo lo scompiglio, ad abituarsi ad altro scompiglio, quello ripetuto, ostinato, che colpisce senza risparmio per tutta la vita il discepolo divenuto apostolo, portatore di Parola, destinatario e strumento di misericordia.

Il nostro auspicio è che lo Spirito in forma di lingue, che dona la capacità di comprendere e parlare le lingue degli uomini del mondo, scompigli il cammino dei giovani che, anche dalle case dei missionari della Consolata, andranno a Cracovia nel prossimo luglio.

Da amico,
buona Pentecoste,
e buona missione.

Luca Lorusso