Sommario mc 10 ottobre 2016


In questo numero: l’editoriale s’interroga sulla presenza di Dio nei drammi dell’uomo. Siamo condotti alla scoperta di tre paesi di cui si parla poco da noi: l’Armenia, recentemente visitata da papa Francesco, la Papua Nuva Guinea dove è in atto un enorme crimine ecologico, e l’Etiopia, nazione emergente in Africa. Proviamo a capire qualcosa del terrore di Boko Haram in Nigeria e dintorni; una franca intervista con il nuovo presidente della CIMI in Brasile ci aiuta a capire la situazione dei popoli indigeni e andiamo a conoscere un nuovo santo, il cura Brochero dell’Argentina. E poi le rubriche: la Storia del Giubileo, i Perdenti, Cooperando e Amico. Poi le notizie dal mondo e le lettere… Buona lettura.

Dov’era Dio
di Gigi Anataloni | editoriale               pdf sfogliabile     |      pag. web classica

Cari Missionari
risponde il direttore | lettere dei lettori              pdf sfogliabile     |      pag. web classica


Dossier

Da immigrato a figlio: identità e diversità
Musulmani di seconda generazione
di Viviana Premazzi, a cura di Paolo Moiola             pdf sfogliabile     |      pag. web classica


Articoli

Armenia: Il peso della storia
di Simone Zoppelaro (BC)             pdf sfogliabile     |      pag. web classica

Papua Nuova Guinea:
Deforestazione, la rapina silenziosa

di Paolo Tosatti (China Files)             pdf sfogliabile     |      pag. web classica

Etiopia:
Addis Abeba, capitale d’Africa

di Alberto Zorloni             pdf sfogliabile     |      pag. web classica

Nigeria:
Boko Haram, Califfato made in Africa

di Marco Bello             pdf sfogliabile     |      pag. web classica

Brasile, Indigeni:
Grida perdute nell’indifferenza

di Paolo Moiola             pdf sfogliabile         pag. web classica

Argentina: Un pastore che odora di pecore,
il (santo) cura Brochero

di Juan Carlos Greco             pdf sfogliabile     |      pag. web classica


Rubriche

Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto             pdf sfogliabile  

Misericordia Voglio
Storia del Giubileo (12)
Tra Santi e putridume,
da Sisto IV e Papa Borgia fino a Lutero

di Paolo Farinella             pdf sfogliabile     |      pag. web classica

Cooperando
Piccoli numeri, grande efficacia /1
di Chiara Giovetti             pdf sfogliabile     |      pag. web classica

Amico (la Missione giovane)
a cura di Luca Lorusso             pdf sfogliabile     |      pag. web classica

I Perdenti (18)
Don Giovanni Minzoni
di Don Mario Bandera             pdf sfogliabile     |      pag. web classica

 

 




Storia del giubileo 11: santi putridume


Papa Sisto IV determinò una svolta nel papato e nella Chiesa per diversi motivi. Per la cronaca fu uno dei papi più nepotisti che la storia conosca, perché si circondò della numerosa sua famiglia alla quale concesse privilegi e cariche senza ritegno e misura. La sua elezione avvenne in odore di simonia a opera principalmente del nipote, Pietro Riario, figlio della sorella, che si prodigò con ogni mezzo affinché i voti dei cardinali si convogliassero sullo zio che, riconoscente, lo gratificò con il cardinalato, già nel primo concistoro, subito dopo l’elezione, insieme a diversi altri nipoti che ne condizionarono la vita e le scelte. Il giorno dell’incoronazione, fu assistito e intronizzato dal protodiacono Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, che l’avrebbe superato non solo in fatto di nepotismo, ma in ogni forma d’immoralità e indecenza.

Attese disattese

Sisto IV confermò il giubileo del 1475 con la cadenza dei 25 anni, in vista del quale intraprese grandi opere di ristrutturazione della città di Roma, trasformando in cantiere l’intero colle Vaticano. Fece costruire la Cappella più famosa del mondo, che, anni dopo, sarebbe stata affrescata da Botticelli e da Michelangelo, detta in suo onore «Cappella Sistina». Ripristinò il vecchio ponte romano, detto «ponte rotto» sul Tevere che da allora fu chiamato «Ponte Sisto»; rase al suolo e ricostruì più grande ed efficiente l’ospedale di Santo Spirito, fece costruire innumerevoli chiese e riorganizzò il sistema viario, anche per governare meglio i tumulti. Era diffidente di tutti e si narra che, non fidandosi di coloro che lo circondavano, per rendersi conto di quello che il popolo pensava realmente di lui, non poche notti si travestiva «da prete» per recarsi nelle tavee ad ascoltare dicerie e giudizi.

Il giubileo fu un completo fiasco perché, per le troppe guerre che infestavano l’Europa del Nord, non era affatto agevole muoversi e i pellegrini affollarono Roma solo in occasione della Pasqua. Tutte le derrate alimentari e i servizi approntati rimasero inutilizzati e furono una manna per il popolo romano perché i prezzi si abbassarono e la logica del «compri uno e porti (via) tre» divenne obbligatoria per potere almeno recuperare parte del denaro. Per ovviare a queste difficoltà il papa protrasse di un anno il giubileo, ma le condizioni di Roma si aggravarono a causa di piogge torrenziali che fecero straripare il Tevere. Roma fu così gravemente allagata e impraticabile da costringere il papa a trasferire alla città di Bologna le prerogative giubilari di Roma, dando un ulteriore colpo all’economia della città eterna. Concesse, inoltre, ai principi che erano in guerra la possibilità di lucrare le indulgenze del giubileo standosene a casa loro, ma a condizione che le offerte raccolte in quella occasione fossero tutte impiegate per finanziare la guerra contro i Turchi.

Alla fine, come ciliegia sulla torta, quasi a sancire una sfortuna senza fine, scoppiò ancora una volta la peste. Il papa, per paura del contagio, scappò con tutta la sua corte di nipoti e familiari da Roma che rimase con grandi opere in parte finite, in parte incompiute, ma senza giubileo di fatto, senza pellegrini e per giunta allagata e con la peste.

Ponte Sisto a Roma
Ponte Sisto a Roma

Dall’Immacolata all’Inquisizione

Sul piano religioso, Sisto IV fu il papa che con la bolla «Cum prœexcelsa» del 27 Febbraio 1477, istituì la festa dell’Immacolata Concezione, fissandola all’8 Dicembre; promosse la recita del Rosario e consacrò la Cappella Sistina a Maria Assunta. Sul piano storico, fu l’iniziatore, sebbene a malincuore, dell’Inquisizione spagnola, voluta a tutti i costi da Ferdinando II di Aragona che, avendo le casse vuote, cercava un modo indolore (per sé) per depredare il denaro degli Ebrei. La condanna, infatti, dell’Inquisizione per motivi di eresia, comportava anche la requisizione di tutti gli averi.

Uccidere in nome di Dio
Quando oggi si accusano i Musulmani di «usare il nome di Dio» per fare le guerre o utilizzare la religione per alimentare il terrorismo, sarebbe bene che ci fermassimo un poco e facessimo un esame di coscienza «storico» perché questo uso peccaminoso e blasfemo lo abbiamo praticato anche noi cattolici. Diciassette anni dopo il giubileo di Sisto IV, nel nuovo mondo scoperto da Cristoforo Colombo si sarebbe imposto il battesimo con la spada: o l’acqua o la morte, sistema che dal 1507, anno della sua ordinazione e fino alla morte nel 1566, vide l’opposizione ferma del vescovo spagnolo Bartolomé de Las Casas, uno dei pochi che difese strenuamente, in nome del vangelo, i nativi delle colonie. I cattolicissimi regnanti di Spagna, Ferdinando e Isabella (costei si confessava ogni giorno), usarono la religione per ammazzare, trucidare e depredare gli Ebrei dichiarando guerra al popolo di Abramo solo per avidità di denaro. La Spagna per tutto il 1500 e 1600 – e successivamente anche l’Europa – sarebbe stata segnata da quella piaga purulenta che fu l’Inquisizione, la quale agì, condannò e uccise in nome di Dio, ma senza Dio e contro Dio. Non basta dire che bisogna leggere i fatti nel contesto del loro tempo perché ciò vale per le valutazioni ordinarie, ma di fronte all’uso del nome di Dio e della religione per giustificare la decisione di rubare le ricchezze altrui, c’è una scelta chiara, lucida e determinata di volere compiere un delitto immorale. Anche costoro nel 1500 leggevano il vangelo che è limpido e chiaro, come acqua di sorgente, allora come oggi.

Vittima di questa malvagità cattolica, macchia peccaminosa approvata da papi e vescovi che resterà indelebile fino alla fine della storia, furono anche san Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila, nipote di un ebreo, costretto a convertirsi per salvare la vita della propria famiglia. Teresa d’Avila disprezzerà l’Inquisizione, da cui per altro fu sfiorata, e difenderà il suo compagno di fede e padre spirituale, Giovanni della Croce, usando un linguaggio cifrato, come si evince dai suoi scritti, per esprimere tutto il suo disprezzo e la sua amarezza. Alcuni suoi manoscritti furono bruciati.

Sisto IV, sostenuto dal suo vice cancelliere, Rodrigo Borgia (futuro Alessandro VI), non voleva l’Inquisizione, ma cedette al ricatto del re «cattolicissimo» di Spagna, e il 1 Novembre 1478 emanò una bolla con cui istituiva un inquisitore non in tutta la Spagna, ma solo nella regione di Siviglia, cioè la regione che interessava i cattolicissimi sovrani. Una volta aperto, il vaso di Pandora non può più essere richiuso. Forti di questa licenza, Re Ferdinando e Isabella di Castiglia, ottennero l’autorizzazione di nominare inquisitori di loro fiducia. Il temibile Torquemada fu da loro nominato inquisitore generale e Sisto IV dovette pure lui riconoscerlo e approvarlo.

Papa Borgia e l’invenzione delle «Porte Sante»

sala_dei_misteri_resurrezione_con_alessandro_vi_02Frattanto, sulla scena della chiesa si affacciavano due tragiche figure che avrebbero condizionato la Chiesa in modo che l’eco arriva fino a noi. Da una parte la figura triste e nevrotica di Girolamo Savonarola (1452-1498), che, ubriaco di un modello teocratico di città, predicava solo sventure e distruzione in chiave apocalittica; dall’altra quella comica e immorale di Rodrigo Borgia, catalano trapiantato a Roma ed eletto papa nel 1492, l’anno che con l’avventura di Cristoforo Colombo avrebbe cambiato non solo il volto ma anche il modo di pensarsi del mondo intero.

Egli assunse il nome di Alessandro VI (1431-1503), passato alla storia come uno dei papi più lascivi e corrotti, a cominciare dalla sua elezione al soglio di Pietro che fu contrattata dai suoi scherani, manovrati dal figlio Cesare, con emissari di cardinali greci e francesi «apud latrinas». Il conclave che lo elesse fu il primo ad essere celebrato nella Cappella Sistina, già affrescata da Botticelli, Perugino e Ghirlandaio. Papa Alessandro VI, tra i suoi innumerevoli figli, ne riconobbe ufficialmente almeno due, Cesare e Lucrezia, avuti da Vannozza Cattanei, locandiera romana, sua amante per quasi venti anni. Stanco di lei, l’abbandonò sostituendola con Giulia Faese, sorella del futuro papa Paolo III. Poiché era disdicevole dire pubblicamente che il papa avesse dei figli, la curia romana che ne sa sempre una più del diavolo, escogitò il sistema di presentare Cesare o Lucrezia Borgia ai diplomatici e nelle udienze pubbliche come «nipoti di un fratello del papa»: il papa aveva veramente un fratello e così salvata la capra della verità, si potevano tranquillamente salvare anche i cavoli della formalità, mandando in malora ogni residua moralità.

Il Giubileo del 1500, che apriva un nuovo secolo e si apriva anche sul nuovo mondo (scoperto solo otto anni prima da Cristoforo Colombo, «raddoppiando» il mondo esistente), fu carico di grande significato simbolico e Alessandro VI, da fine diplomatico e oculato amministratore qual era, vi prestò la massima attenzione e lo curò con particolare dedizione. Intanto per la prima volta il papa approvò un rituale scritto che prevedeva l’apertura di quattro porte sante nelle quattro Basiliche papali: San Pietro (che era ancora un cantiere), San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le Mura. Ancora oggi, mutatis mutandis, è il rituale in uso. Il mondano Papa Borgia non poteva non pensare il giubileo come un teatro, in cui l’elemento spirituale passava in seconda linea per diventare una rappresentazione «visiva» del papato e del suo splendore. Il punto centrale dell’inaugurazione giubilare fu l’apertura della porta, accompagnata da fuochi di artificio, da giochi, da feste e da ogni forma di divertimento perfino dentro il palazzo apostolico, avendo bandito ogni forma di austerità e penitenza.

Il Giubileo del sollazzo

Papa Borgia inventò anche il recupero del Colosseo che da allora divenne letteralmente teatro di manifestazioni spettacolari. Per il 1500 egli incaricò l’arciconfrateita del Gonfalone di rappresentarvi la passione del Signore e le passioni dei martiri, permettendo contemporaneamente al figlio Cesare di organizzare una spettacolare festa di carnevale, in pieno anno santo, arricchita da una grandiosa parata militare. Nella quaresima del 1500, papa Alessandro VI dovette recarsi a Piombino e per l’occasione radunò tutte le donne e le ragazze più belle della cittadina toscana per fare baldoria e mangiare carne, con disprezzo delle regole liturgiche che regolavano in modo rigoroso il digiuno quaresimale, verso il quale il popolo era molto sensibile. Lo scandalo fu grande.

Probabilmente nello stesso anno santo del 1500, presente il papa e quindi questi consenziente, Cesare Borgia diede uno spettacolo che sarebbe rimasto come un marchio indelebile sull’abisso di abiezione che distinse non solo il papa catalano, ma anche tutta la sua disonorevole famiglia, anche per la data scelta.

«… A saggio della profonda sua immoralità e del suo cinismo, basti dire che una volta (era il dì di Ognissanti) Cesare Borgia convittò nel palazzo pontificio cinquanta meretrices honestae, cortigianae nuncupatae [prostittute oneste (in possesso di permesso di esercizio), dette cortigiane], come dice monsignor Burcardo; poi le fece danzare ignude co’ servitori e con altre persone; poi altri osceni spettacoli, che furono rappresentati alla presenza del papa e della Lucrezia sua figlia … E si può conchiudere che la corte del vicario di Dio non era meno laida di quella di Nerone» (Bianchi-Giovini, 1860, 32-33.42).

Le innovazioni giubilari introdotte da Alessandro VI non ebbero nulla di spirituale, ma furono tutte esteriori, superficiali e immorali come i suoi comportamenti e in quelli della sua corte. Forse queste mondanità avevano lo scopo di distrarre le popolazioni dalla guerra con i Turchi che, in lotta con Venezia, scorrazzavano in Friuli, giungendo a lambire Vicenza, anticamera della Repubblica veneta. Tra il 1415 e il 1500 vi furono non meno di nove incursioni che diffusero il panico non solo in quelle regioni, ma in tutta l’Italia del Nord. Nel 1503 Papa Borgia morì. Il suo cerimoniere annota che «morì con i sacramenti». La sua salma gonfiò così tanto che la bara non riusciva a contenerlo: i necrofori furono costretti a chiuderlo dentro a forza.

Lutero alle porte

Se, da una parte, il sec. XVI è il secolo del Rinascimento che nella letteratura, nelle arti, nella scoperta degli autori greci e nella scienza appena agli esordi (medicina, astronomia, architettura, navigazione, ecc.) trova il massimo del suo splendore, dando inizio veramente «a un nuovo mondo» anche in Europa, dall’altra parte per la Chiesa fu una catastrofe perché fu il secolo delle maggiori nefandezze, con Papi che avevano sostituito il senso del vangelo con lo spirito del mondo, incarnando «quel mondo» per cui Cristo stesso non aveva voluto pregare (cf Gv 17,9).

Cosa era successo? La Chiesa di Cristo, la sposa senza macchia, fu oscenamente mostrata agli occhi lubrichi del mondo immersa nella corruzione di ogni livello, nelle trame più oscure finalizzate al mantenimento del potere. I papi furono solo mecenati per la loro vanagloria e l’interesse delle loro famiglie, crocifiggendo  il Cristo non una, ma dieci, cento, mille volte. I rappresentanti di colui che, scalzo, portò la croce per essere scannato come agnello per i peccati del mondo, scelsero la mondanità, incuranti del popolo e della fede. Essi furono papi miscredenti perché di tutto si curavano tranne che di essere fedeli al loro mandato.

I giubilei persero il loro senso spirituale e divennero occasione per «grandi affari», funzionali al papa di tuo che li usò come arma di potere e sollazzo della corte. Non a caso la Chiesa e il mondo si trovavano alla vigilia della reazione di Martìn Lutero, che, fattosi voce della necessità di una «rifondazione» della Chiesa, avrebbe acceso la miccia di una deflagrazione senza pari: nel 2017 ricorrono i 500 anni dell’affissione delle «95 tesi sulle indulgenze» di Lutero, avvenuta il 31 Ottobre 1517 alla porta della Chiesa del castello di Wittemberg. Fu l’inizio della Riforma Luterana (Protestantesimo) e il principio del fallimento del papato.

Paolo Farinella, prete
(11, continua)

 




Accoglienza: piccoli numeri grande efficacia


Da venti persone in giù. Le esperienze di accoglienza a Torino e dintorni che racconteremo in questo reportage parlano di piccoli gruppi, dai venti rifugiati del Cas di Alpignano al rifugio diffuso e all’accoglienza in famiglia. Queste sono realtà che permettono di dare attenzione alle persone – quelle accolte e quelle che accolgono – e di gestire incomprensioni e difficoltà in maniera efficace.

Il «Centro di accoglienza straordinaria» di Alpignano

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Un ragazzo africano sta in piedi in un campo di cipolle, immobile. Poi si china sulle piante, strappa le erbacce, le ammucchia. Sono le sette di sera passate e fa ancora caldo, ma lui indossa stivali di gomma, pantaloni lunghi, una felpa e anche un berretto di lana. Per una volta, però, quella che descriviamo non è una scena di sfruttamento del lavoro dei migranti in qualche torrida campagna italiana: lui è James (nome di fantasia, nda), richiedente asilo originario del Ghana, e il campo di cipolle è un pezzo dell’orto comunitario del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Alpignano, che occupa i locali di quello che prima era il centro di animazione dei missionari della Consolata. «In Ghana faceva il contadino», spiega Monia, operatrice della cornoperativa Pietra Alta Servizi cui è affidata la gestione del Centro con una presenza costante, notte e giorno, del personale. «Stare nei campi gli piace, appena ha un minuto libero corre nell’orto».

Anche gli altri giovani accolti dal Centro – venti ragazzi fra i diciotto e i vent’anni arrivati a partire da ottobre 2015 da diversi paesi dell’Africa occidentale – hanno ciascuno la propria attività d’elezione. «Ce ne sono alcuni», racconta Fabrizio, collega di Monia, «che se la cavano con l’idraulica o l’elettricità, altri bravi ai fornelli». «E poi c’è lui», dice Jacob, uno dei due mediatori interculturali presenti al Cas, indicando un giovane chino su un libro, «che ama studiare e appena può si mette in un angolo tranquillo a leggere. Oppure lui», e ride indicando con la mano un giovane nel cortile fuori dalla finestra, «che vuole fare il calciatore per forza: sta sempre in divisa e scarpette e prende a pallonate il muro».

Queste attitudini dei ragazzi sono state utili per capire a quali tirocini avviarli con le borse lavoro. L’inserimento lavorativo è un’ulteriore tappa di un cammino cominciato lo scorso inverno con il corso di italiano obbligatorio, che si è svolto presso il Centro per l’Istruzione degli Adulti (Cpia) di Grugliasco, oltre che presso il centro grazie all’aiuto dei volontari cornordinati dagli operatori. Parallelo a questa prima fase è stato poi il percorso di assistenza psicologica presso il Centro Migranti Marco Cavallo a Barriera di Milano.

A queste attività, il Cas di Alpignano ne affianca altre: i corsi di cucina, i laboratori teatrali, il calcio. Sono tutte iniziative, precisano gli operatori, utili per motivare i ragazzi – che hanno davanti una lunga attesa prima di ottenere il responso alla loro richiesta di asilo – a darsi obiettivi e assumersi responsabilità.

«Certo, non va sempre tutto bene», ammettono Monia e Fabrizio. Ci sono state incomprensioni. Una ha riguardato un ragazzo che ha lasciato Alpignano ed è andato in Austria per raggiungere dei conoscenti. «Vieni, gli avevano detto via cellulare: qui c’è lavoro». Una volta là, però, questo fantomatico lavoro si è rivelato inesistente; il giovane è rientrato in Italia e ha chiesto di poter tornare al Cas di Alpignano. «Ma noi, a quel punto, non abbiamo più potuto accoglierlo», racconta Fabrizio.

I migranti possono trascorrere fuori dal Cas fino a un massimo di tre notti, giustificando l’uscita e lasciando un recapito al quale trovarli. Passate le 72 ore, i responsabili del Centro segnalano alla prefettura il mancato rientro. In questi casi i migranti conservano il diritto ad aspettare l’esito della valutazione della loro domanda d’asilo ma perdono quello all’ospitalità presso la struttura che li aveva accolti.

«La parte frustrante», riprende Monia, «è che a volte i ragazzi si fidano di più delle notizie sentite attraverso il tam tam fra migranti – che rischiano di essere parziali se non false – che di quello che diciamo noi. C’è voluta un po’ di pazienza per “smontare” le informazioni sbagliate e superare la diffidenza di alcuni nei nostri confronti». Diffidenza che non di rado nasce ascoltando alla televisione le notizie relative al cosiddetto «business dell’accoglienza» e generalizzandole. «Magari un amico, un connazionale dice loro: “Altro che aiuto, questi dei centri d’accoglienza ci fanno i soldi su di te!”, e i ragazzi diventano guardinghi, ostili. Allora bisogna sedersi, parlare, smentire con dati reali quelli distorti, ricostruire un rapporto di fiducia».

È in queste situazioni che si rivela cruciale il supporto dei mediatori interculturali al lavoro con Monia e Fabrizio: Jacob e Mor sono entrambi di origine africana, della Guinea Conakry uno e del Senegal l’altro. «Io sono arrivato qui che ero un bambino», dice Jacob, ora poco meno che trentenne, «la Guinea la conosco poco, ma una parte della mia famiglia, che sento regolarmente, vive lì. Conosco quindi la realtà e le difficoltà di un paese dell’Africa occidentale e parlo le lingue degli ospiti del Centro. Per questo mi percepiscono come qualcuno che può capirli e aiutarli a capirsi con gli altri».

È quasi ora di cena e i ragazzi convergono al refettorio. Ogni volta che uno di loro passa davanti all’ufficio degli operatori, Monia, Jacob e Fabrizio lo chiamano, si informano di come ha risolto quel problema che aveva segnalato, scherzano, discutono. Di giorno i richiedenti asilo entrano ed escono dal Centro, vanno in paese, si muovono nella città. Ma, fra il corso di italiano, le attività organizzate al Cas e i tirocini, l’immagine dei migranti che stanno a bighellonare e delinquere qui non trova conferma. «Con venti persone lo puoi fare», concordano gli operatori, «puoi seguirli uno per uno e avere un confronto e un dialogo anche con i cittadini del quartiere, o del paese».

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L’accoglienza in appartamento

Se a misura d’uomo è un luogo che accoglie venti persone, altrettanto se non di più lo sono realtà ancora più piccole e più domestiche. Nell’appartamento di Porta Palazzo, Torino centro, dove vivono da più di un anno sette giovani rifugiati afghani, il clima è quello di una casa di studenti lavoratori. In cucina Mustafa, l’ingegnere civile del gruppo, dà il tocco finale al kabuli palaus, piatto afghano a base di riso, carne, uvetta e cumino, mentre Sardar, il più osservante dei sette – barba folta, pantaloni e lunga camicia bianchi, calotta da preghiera sul capo – stende sul pavimento del salone i teli su cui posare stoviglie e pietanze. Maruf, Moinkhan e Hawaldar intanto guidano gli ospiti nel giro della casa: un salone, un bagno, tre stanze da letto, e spiegano che si cenerà senza uno di loro perché lavora al negozio di kebab e, durante il Ramadan, è subito dopo il tramonto che i clienti arrivano numerosi.

I ragazzi, in attesa del responso alla loro richiesta di asilo, stanno studiando l’italiano. Alcuni hanno già iniziato i tirocini come aiuto-cuoco, addetto agli scaffali in un supermercato, incaricato della manutenzione in un centro sportivo. Mustafa è contento del suo tirocinio da operaio edile e ha trovato nel capo cantiere – anche lui straniero ma a Torino da tanti anni – un punto di riferimento. Certo, spera che questa sia una soluzione temporanea e che, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, gli sia possibile lavorare in ruoli diversi. Ma un buon ingegnere deve conoscere il cantiere, dice, perciò per ora va bene così.

Antonello è uno degli operatori che segue i sette giovani. Lavora per la cornoperativa Terremondo, nata più di dieci anni fa da alcuni educatori attivi all’Asai, associazione fondata nel 1995 e fra i pionieri del lavoro con i migranti a Torino. Scherza con i ragazzi, guarda con loro la partita di calcio in Tv, si informa di com’è andata la giornata. «Allora, sei andato a scuola o ancora non ti senti bene?», chiede Antonello a uno dei giovani, che di recente ha avuto problemi di salute. «No scuola, no pocket money!», avvertono gli altri ridendo. «Ci sono delle regole precise», spiega Antonello, «e, sempre in un clima di dialogo e di disponibilità a confrontarsi, il ruolo degli operatori è anche di ricordare queste regole». Ad esempio, i ragazzi possono avere ospiti per i pasti, ma non di notte. I giovani afghani vivono soli in questa casa; gli operatori e i volontari di Terremondo passano a trovarli almeno un paio di volte a settimana e sono in contatto costante.

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Il rifugio diffuso

Ma c’è un modo di fare accoglienza ancora più «molecolare»: il rifugio diffuso, nel quale sono le famiglie ad aprire la porta di casa a un migrante. Alessia, dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti (Upm) della Diocesi di Torino, racconta com’è nata questa esperienza: «Tutto comincia nel 2008 con “Adotta un rifugiato”, iniziativa del Comune e di alcune associazioni, che ha avviato oltre un centinaio di accoglienze in famiglia. Dati i buoni risultati, poi, questa modalità è entrata nello Sprar», il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati istituito dalla legge «189/02 Bossi-Fini» e affidato dal ministero dell’Inteo all’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani. Le esperienze di accoglienza presso abitazioni private e nuclei familiari, si legge nel Rapporto annuale Sprar 2015, sono attivate nei comuni di Torino, Parma e Fidenza, con una sperimentazione in corso nel comune di Milano.

A Torino, sono l’Ufficio stranieri del Comune, diverse associazioni e l’Upm a cornordinare il progetto: quello attuale è iniziato nel 2014 e ha quasi concluso l’inserimento di 28 rifugiati usciti dai centri di prima accoglienza.

Il contributo alla famiglia che accoglie, finanziato con fondi Sprar per i sei mesi previsti, è di 413 euro al mese per le spese di vitto, alloggio e utenze della persona accolta; si consiglia alle famiglie di dare circa 90 euro al rifugiato come argent de poche.

«Il ruolo dell’Upm e delle associazioni», spiega ancora Alessia, «è quello di segnalare al comune i richiedenti asilo che hanno i requisiti. Per essere coinvolti nel progetto, infatti, queste persone devono conoscere la lingua e aver manifestato la volontà di investire le proprie energie per inserirsi nel territorio. Si fa una valutazione anche sul profilo professionale, per favorire l’inserimento lavorativo. Finora i beneficiari sono in maggioranza uomini fra i venti e i trent’anni che hanno competenze nella ristorazione, nell’agricoltura e nell’allevamento, spesso perché in questi ambiti lavoravano già nel loro paese. C’è una sola donna, nigeriana, ex vittima di tratta».

Anche con le famiglie si fa un lavoro preparatorio per spiegare i dettagli del progetto e cercare di prevenire possibili problemi: «Quella che nasce è a tutti gli effetti una convivenza e il suo obiettivo è quello di rendere autonomi i rifugiati». Come? Permettendo loro di migliorare l’italiano, di conoscere altre persone e di venire a contatto con le opportunità di lavoro.

La preparazione con le famiglie cerca di evitare che queste ultime si creino aspettative, ad esempio quella di avere un po’ di compagnia – desiderio che emerge a volte quando ad accogliere sono persone anziane – o di ricevere un aiuto in casa, magari nell’assistenza ai malati. Nulla vieta che relazioni di questo tipo possano svilupparsi, se il rifugiato e la famiglia lo vogliono; ma il punto di partenza è quello di una condivisione di spazi nel reciproco rispetto.

Anche qui, non va sempre tutto bene. È il caso di una convivenza conclusa dopo soli quindici giorni per screzi legati al cibo e forse anche ad aspettative deluse. Ma non sono la norma, spiega Alessia, gli esempi positivi sono tanti: ci sono famiglie che accantonano i 413 euro e, alla fine dei sei mesi, consegnano al rifugiato il denaro così risparmiato. E ci sono migranti che a loro volta si offrono per accogliee altri, come a voler restituire l’aiuto che hanno ricevuto.

«Accomunare le realtà come il Cas di Alpignano, l’appartamento di Porta Palazzo o il rifugio diffuso alle accoglienze in massa, magari in strutture fatiscenti, o alle occupazioni è fuorviante», commenta Sergio Durando, direttore dell’Upm.

Chiara Giovetti
(fine prima puntata)




L’atto di uscire. Giuseppe e la strage degli innocenti


Mi sono messo in viaggio senza sapere cosa mi aspettasse. Non sapevo nemmeno da quale pericolo mi allontanassi. Ho solo sentito che la tua presenza, per non venire meno, mi chiedeva di aprire gli occhi sulle tenebre, di infilare i piedi nei sandali e uscire. Mi chiedeva di mettermi in movimento (cfr Mt 2,13-18).
Mi sono destato nel cuore della notte e ti ho preso con me per salvarti. Ora so che, salvandoti, sei stato tu a salvare me. Misteriosamente mi hai indicato la strada. Mi hai condotto fuori da quella notte verso qualcosa che non conoscevo, un paese straniero che non sapeva di attenderti e che ti ha accolto mentre accoglieva me.
Della strage ho saputo solo dopo diverso tempo, mentre eravamo ancora in viaggio io, te e tua madre, Maria, con la nostra cavalcatura precaria di migranti. Non ricordo il nome del villaggio in cui eravamo quel giorno, nemmeno quello dell’uomo che ci ha riferito di tutto quel sangue versato. Ricordo però che erano circa le tre e che l’ora più calda del giorno stava appena iniziando a ridurre il suo fuoco sulla sabbia. Ho sentito tua madre pronunciare un versetto di Geremia, quello che parla di Rachele che piange i suoi figli, e che non vuole essere consolata. Ho voltato gli occhi sul tuo viso e tu stranamente in quel momento non sorridevi, come se, nonostante la tua piccola età, avessi capito la notizia portata dallo sconosciuto. Non ti nascondo che mi sono chiesto se tutta quella morte da cui eravamo scampati fosse arrivata a causa tua. Ho trattenuto il respiro per non scoppiare a piangere. Poi, d’improvviso, guardando il tuo volto, ho capito: non è stata la morte ad arrivare per causa tua, ma il contrario, tu sei arrivato a causa di quella morte, per stanarla, per sanarla.
In quel momento ho percepito con certezza che il nostro viaggio, in qualche modo, non si sarebbe mai fermato, e che sarebbe proseguito anche dopo di noi in chiunque ti avesse preso con sé.
L’atto di uscire dalle tenebre per causa tua, per dono tuo, alla tua presenza, si sarebbe ripetuto in altri luoghi, fino agli estremi confini della terra, e per tutti i giorni, fino alla fine del mondo.

Buon viaggio e buon mese missionario da amico.

Luca Lorusso




Perdenti 18 don Minzoni martire del fascismo


La sera del 23 agosto 1923 don Giovanni Minzoni, mentre faceva ritorno a casa, fu attaccato da squadristi fascisti e ucciso a bastonate. Aveva trentotto anni. Nato a Ravenna il 29 giugno 1885, cresciuto in una famiglia medio borghese, studiò in seminario e nel 1909 fu ordinato sacerdote. L’anno seguente fu nominato cappellano ad Argenta (provincia di Ferrara ma diocesi di Ravenna), da cui partì nel 1912 per studiare alla Scuola sociale di Bergamo, dove si diplomò. Animato da un profondo amore per la Chiesa e dotato di acuta sensibilità per i problemi sociali, si interessò subito alla vita politica e civile del paese avviando numerose iniziative per i parrocchiani più bisognosi. Le sue opere di carità, unite a un’intensa attività pastorale e sociale, avrebbero fatto di lui un coraggioso leader dell’organizzazione della gioventù cattolica della sua zona. Chiamato alle armi nell’agosto 1916, inizialmente prestò servizio nella Sanità in un ospedale militare di Ancona. Successivamente chiese di essere inviato al fronte dove giunse come tenente cappellano del 255° Reggimento di fanteria. Durante la battaglia del Piave, dimostrò un coraggio tale da essere decorato sul campo con la medaglia d’argento al valore militare. Al termine della Grande guerra toò ad Argenta. Aderì al Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo, ma ciò non gli impedì di essere amico del sindacalista socialista Natale Gaiba, prima vittima nel 1921 della violenza delle camicie nere fasciste. Questo fatto e altri episodi lo portarono a rifiutare con convinzione l’ideologia fascista e di conseguenza avviare fra i giovani una robusta formazione civica e morale per lo sviluppo della democrazia; una prassi pastorale che in seguito pagò a caro prezzo.

Caro don Giovanni a leggere la tua succinta biografia si capisce subito che per te, il messaggio evangelico non doveva essere solo proclamato, ma bensì calato nella realtà anche in situazioni non tanto propense ad accogliere la Parola di Cristo.

La zona dove sono nato e cresciuto, da secoli aveva fama di essere piuttosto indifferente all’azione della Chiesa. Durante il Risorgimento era un’area franca per i «mazziniani repubblicani», il che è tutto dire! Se a questo aggiungi il carattere «sanguigno» dei romagnoli avrai modo di capire che il nostro universo era (ed è) molto particolare.

Oltre a questo, la tua spiccata sensibilità umana e sacerdotale ti precludeva di percepire il fascismo sotto una luce positiva.

I metodi violenti con cui il fascismo si era impadronito del potere mi impedivano di accettarlo come soluzione dei problemi sociali d’Italia. Nell’ottobre del ’22, per esempio, fui tra i pochi sacerdoti che si rifiutarono di esporre la bandiera tricolore davanti alla canonica per celebrare la marcia su Roma.

Tutto sommato, però, questo era un gesto, per quanto grave agli occhi dei fascisti, abbastanza scontato.

Sì, ma devi tener conto che poco prima avevo rifiutato di esser nominato cappellano della milizia fascista, creando non poco disappunto fra le loro file.

E non solo.

Avevo il «maledetto vizio» di prendere sistematicamente le difese dei braccianti agricoli nelle loro rivendicazioni salariali contro i proprietari terrieri quasi sempre privi di scrupoli, complici, finanziatori e spesso mandanti dello squadrismo fascista.

In Romagna le squadracce fasciste facevano capo a Italo Balbo e proprio ad Argenta avevano ucciso Natale Gaiba, sindacalista socialista.

Con Natale, pur essendo lui un socialista, eravamo in ottimi rapporti. Nella circostanza della sua morte condannai apertamente con parole di fuoco il barbaro assassinio e ignorai le ripetute minacce e gli avvertimenti anonimi che mi arrivarono a raffica.

Si vede che eri proprio immerso nella vita del tuo popolo, ne condividevi fino in fondo le preoccupazioni e desideravi un futuro diverso, in modo particolare per i contadini.

In una lettera a un amico avevo scritto: «Quando un partito (quello fascista, nda), quando un governo, quando uomini in grande o in piccolo stile denigrano, violentano, perseguitano un’idea, un programma, un’istituzione quale quella del Partito Popolare e dei Circoli Cattolici, per me non vi è che una sola soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole imporre».

Parole forti, non c’è che dire…

Gli avversari mi davano la colpa per l’influenza non solo spirituale ma soprattutto morale che io avevo sui giovani del paese e della zona, ma sono ben lieto che loro seguissero i miei insegnamenti, tutta la mia azione pedagogica era ispirata al Vangelo e non al vanto di appartenere a una razza superiore o a un movimento politico che per imporsi adottava metodi violenti.

Certo è che il coraggio non ti mancava.

Anni prima per la salvezza della Patria, offersi la mia vita condividendo la trincea come cappellano militare insieme a migliaia di altri giovani italiani. Con l’arrivo del fascismo mi accorsi che una battaglia ben più aspra era in atto.

Puoi spiegarti meglio?

Di fronte al Movimento fascista che andava sempre più crescendo, invitai i miei giovani a prepararsi ad una lotta tenace utilizzando un’arma per noi cattolici democratici sacra e divina, ovvero quella dei primi martiri cristiani: preghiera e bontà. Tirarsi indietro equivaleva a rinunciare a una missione fondamentale per la nostra Italia.

Ma per i fascisti queste tue idee erano davvero pericolose.

Per questo il massimo esponente dello squadrismo locale invitava apertamente i suoi sgherri a impartirmi una sonora «lezione di stile», in quanto il mio impegno pastorale era visto come un ostacolo alla piena fascistizzazione della zona.

E così fu…

Infatti a due sicari, qualcuno dice al servizio di Italo Balbo e su mandato della Federazione fascista di Ferrara, venne comandato di prepararmi un agguato e di riempirmi di botte.

funerale-don-minzoni

In un’afosa serata estiva, don Giovanni Minzoni viene aggredito e ucciso a colpi di spranga sulla soglia della sua canonica. Tanto gli esecutori materiali quanto i mandanti del delitto verranno assolti in un processo farsa condotto in un clima intimidatorio e conclusosi a Ferrara nell’estate del 1925. Il «Corriere Padano», giornale fascista di Italo Balbo nell’edizione del 1° agosto 1925, esalta la mirabile e travolgente arringa dell’onorevole De Marsico che porta all’assoluzione di tutti gli imputati.

Bisognerà aspettare il 1947 perché il processo venga rifatto e i responsabili condannati, però ormai il reato è caduto in prescrizione.

Quanto alla Santa Sede, le proteste ufficiali si fanno sentire lungo tutto il ventennio fascista, ma riguardano propriamente gli episodi di aggressione ai singoli o alle organizzazioni e non mostrano alcuna critica di principio all’azione e ai metodi del governo fascista. Del resto Mussolini impone di riappendere il Crocifisso negli uffici pubblici con grande sollievo di gran parte della popolazione. L’Osservatore Romano sorvola sull’assassinio di don Giovanni Minzoni per mantenere gli equilibri che faticosamente si stanno costruendo tra il governo fascista e la Santa Sede.

La salma di don Minzoni riposa oggi nella Chiesa di Argenta, ove è stata trasferita da Ravenna nel 1983. Per quella cerimonia Giovanni Paolo II inviando un messaggio ricordò: «L’eccezionale significato assunto dal sacerdote martire del fascismo per l’intera nazione italiana», additando in don Minzoni un punto di incontro tra i credenti e coloro che, pur privi del dono della fede, ne riconoscono i valori.

Don Mario Bandera

Il cappellano militare don Giovanni Minzoni celebra la messa al campo in un bosco sul fronte del Carso
Il cappellano militare don Giovanni Minzoni celebra la messa al campo in un bosco sul fronte del Carso




Cari missionari si scrive crisi, migranti, Valmiki e tanto altro

Tempi di crisi

Egregio padre,
leggo nel numero di maggio di MC dei tempi difficili dovuti alla crisi, molto diversa, dice Lei giustamente, da quelle passate e della quale non siamo solo spettatori ma che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere stravolgendo valori e relazioni minando le nostre sicurezze.

Appunto perché è molto diversa da quelle del passato, è necessario debba essere trattata con maggior risolutezza. La crisi che stiamo vivendo ha ormai assunto dimensione planetaria e come tale i singoli stati non hanno né la capacità politica né quella morale di risolverla. Solo l’Onu avrebbe la possibilità di fare qualcosa per la straordinaria emergenza. L’Onu dovrebbe dire chiaro e forte quali sono gli stati dove esiste un reale «stato di guerra» e non semplici sollevazioni e diatribe politiche tra concorrenti al potere dove coloro che si sentono perseguitati vogliono cambiare semplicemente patria, da qui moltissimi migranti con tutti i problemi relativi.

Una volta individuati questi stati, le ambasciate di paesi che intendono accogliere con scopi umanitari coloro che vogliono fuggire, potrebbero essere autorizzate a farli espatriare mediante viaggi organizzati e quindi sicuri. La grande maggioranza dei migranti invece, dopo gli onerosi costi per il «passaggio», sono spesso vittime di soprusi e violenze nei luoghi di raccolta e infine corrono il rischio di perdere la vita durante il trasporto. Il tutto, spiace dirlo, con la complicità di coloro che zitti zitti (tranne qualche «bisbiglio» su alcuni organi di stampa), dovrebbero invece muoversi con decisione per evitare tale oscena barbarie. Non ci si mette dalla parte della ragione dicendo semplicemente: «accoglienza, accoglienza» sapendo per certo, (le statistiche sono lì a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) che molti di questi poveretti periranno durante il viaggio (mentre scrivo potrebbero essere in procinto di annegare parecchie persone, bambini compresi).

Pertanto tutti quei poveri cadaveri (migliaia, dicono le statistiche), che stanno marcendo in fondo al Mediterraneo sono vittime sacrificali di: stupidità, sciocco buonismo e altruismo interessato, spesso a fini elettorali. Questo a causa del vergognoso menefreghismo di coloro che dovrebbero denunciare con decisione la condizione di abbrutimento di quei poveretti trattati come immondizia anziché come esseri umani.

Mi riferisco non solo a tutti i capi di stato e di governo, interessati al problema migratorio, ma anche a intellettuali, giornalisti, esponenti religiosi d’ogni fede, ossia gente che «conta», che dovrebbe sollecitare l’Onu per interventi miranti a fermare una volta per sempre tutte quelle organizzazioni, quasi sempre criminali, che favoriscono l’indegno commercio umano.

Il silenzio dei potenti allora diventa criminale. Papa Francesco, oltre che a Lampedusa, dovrebbe andare all’Onu, anche se non invitato, e urlare forte (magari togliendosi anche una scarpa, come ha fatto
Kruscev picchiandola sul leggio) a tutti quegli altezzosi rappresentanti del pianeta, che qualcuno definisce «maestri di imbecillità burocratica», di impegnarsi concretamente per far cessare il ributtante mercato. Mentre l’ignavia fin qui dimostrata non fa che renderli complici di inaudite violenze su vittime innocenti.

Per concludere è forse esagerato dire di coloro che potendo parlare forte invece tacciono sono anime sporche? Grazie per l’attenzione. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
Daverio (Va), 28/05/2016

Caro Angelo,
l’argomento da lei toccato è scottante e spesso affrontato in termini fuorvianti. Ne è prova la virulenza faziosa dei giorni di fine agosto, appena dopo il tragico terremoto nelle Marche e nel Lazio. Gli attacchi ai migranti che vivrebbero a spese nostre in hotel di lusso mentre i poveri terremotati battono i denti al freddo, dimostrano quanto si parli e straparli per sentito dire deformando dati che sono facilmente verificabili, usando la menzogna senza alcun pudore.
Certo l’Onu dovrebbe poter fare molto di più per prevenire le cause di tutte le migrazioni e non soltanto intervenire, come sta facendo in molti luoghi del mondo con grande competenza e professionalità, per gestire gli immensi campi dei rifugiati.

Creare ponti

Caro padre Gigi,
in riferimento all’editoriale di giugno è vero che i bambini creano spontaneamente dei ponti; sono degli «ingegneri» e degli «architetti» che non solo con i pezzi del Lego o con altri materiali giocano cercando di risolvere i problemi della staticità delle costruzioni con il vuoto sotto e gli appoggi distanziati, ma con facilità intraprendono legami interpersonali. La mia esperienza, tuttavia, mi suggerisce che se da un lato i bambini sono favoriti nella formazione di relazioni che includano, dall’altro lo fanno se trovano un contesto di adulti che li sostengano in tale percorso, con motivazioni e facilitazioni, in quanto i bambini sono anche i primi a cogliere differenze di vario genere. Creare ponti è quindi complesso a tutte le età in quanto le valutazioni, le conoscenze e l’esercizio della volontà implicati costituiscono un elevato investimento di energie. Negli ambiti in cui sono impegnata, familiare, pedagogico, giudiziario e della disabilità, è necessario creare ponti ininterrottamente per prevenire, per quanto possibile, conflitti, conclusioni sommarie ed esclusioni. Mi rendo conto però che non sono in gioco solo le differenze che si possono cogliere nell’immediatezza, quali, ad esempio, il ritardo cognitivo o il colore diverso della pelle, ma anche le idee e i meriti, ossia i valori di verità e di giustizia oltre ai diritti e agli interessi. Tali ponti domandano perciò volontà, manutenzione, ristrutturazione e, se necessario, abbattimento e ricostruzione; tutto ciò richiede non solo ingegneria ed architettura ma anche eroismo ed incessante preghiera per non essere soli nell’edificazione.

Milva Capoia
08/07/2016

Valmiki

Egregio signor Iazzolino,
innanzitutto la ringrazio di cuore. Nel marzo scorso ho trovato in chiesa una copia di MC e sono rimasto molto scosso dal suo articolo «A mani nude». Non riesco a togliermi dalla testa le realtà che lei descrive, riportando anche testimonianze dirette. Così la ringrazio e la stimo perché a mio avviso è molto importante far conoscere tali realtà in cui vivono tanti nostri fratelli. Mi sono subito abbonato alla rivista, che leggo volentieri ogni mese. Ho visto in internet delle foto di Valmiki con le ceste di vimini e le scopette, ma mi permetterei di chiederle, se può confermarmi che talvolta i manual scavengers usano addirittura le mani nude, senza scopetta (art. cit., p. 10) o se per caso non si tratta di un errore di stampa! O se per caso lei ha addirittura visto coi suoi occhi una cosa simile. La ringrazio in anticipo per la sua attenzione e resto in attesa di una sua cortese risposta. Cordiali saluti, in Cristo.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 05/08/2016

Gentile dott. Carlo,
la ringrazio profondamente per la sua email, che mi è stata inoltrata dalla redazione. Sono missive come la sua che danno un senso a quel che facciamo a Missioni Consolata. Con il nostro reportage dall’India, la mia collega fotografa Eloisa D’Orsi e il sottoscritto abbiamo provato a trasmettere l’intensità di un’esperienza che pure, ci rendiamo conto, abbiamo colto solo a un livello superficiale. La realtà dei Dalit, e dei raccoglitori manuali, è viva e pulsante, nelle grandi città indiane e ancora di più nelle aree rurali più remote, dove violenze e abusi sono all’ordine del giorno. Per rispondere alla sua domanda, una delle donne da noi intervistate ci ha raccontato della scopetta che oggi usa come di una conquista, realizzata anche grazie all’organizzazione che citiamo nel testo, e che sta facendo un ottimo lavoro per portare il tema al centro del dibattito politico.

Personalmente, ritengo che sia utile vedere questa situazione di violenza strutturale attraverso la lente di rapporti di potere consolidati nel tempo, e che oggi, alla luce di cambiamenti sociali ed economici epocali che l’India sta vivendo, sta provocando il colpo di coda delle caste più alte. È una realtà che sta vivendo delle trasformazioni drammatiche e, nonostante la violenza che la resistenza a queste trasformazioni sta suscitando, un numero crescente di Dalit sta acquisendo consapevolezza dei propri diritti. Non è sicuramente un processo lineare, e le trasformazioni in senso neoliberista dell’economia indiana rischiano di cambiare solo la forma, ma non la sostanza, della marginalità Dalit. Ma abbiamo conosciuto molti attivisti e persone comuni che negli ultimi anni hanno cominciato a rifiutare lo status quo.

Spero di poter tornare a raccontare presto queste trasformazioni in un paese così complesso e affascinante come l’India. La ringrazio ancora per la sua email e le porgo i miei più cordiali saluti.

Gianluca Iazzolino
08/08/2016

Caro Gianluca,
la ringrazio per la sua pronta e cortese risposta. Sono i reportage come il vostro che scuotono e fanno progredire le coscienze. Denunciare all’opinione pubblica è già un modo per combattere quelle pratiche raccapriccianti, che rovinano tante vite. Perciò spero e le auguro che Missioni Consolata ed altre pubblicazioni possano far conoscere al maggior numero di persone quelli e altri soprusi che affliggono tanti nostri fratelli. Si legge ad esempio in internet che per i membri delle caste superiori stuprare una dalit non è immorale, anzi, purifica la vittima, però mi piacerebbe sapee di più da fonti certe. Le porgo i più cordiali saluti.

Dott. Carlo Caiato
Mestre (Ve), 08/08/2016

Di migranti e di Ius soli

Carissimo padre Gigi,
dopo aver letto il numero di luglio di MC non posso fare a meno di scriverLe ancora una volta. La premessa è sempre la stessa: non sono interessato alla polemica ma semplicemente alla discussione.

Riguardo all’articolo «Risorse migranti»: lodevole l’iniziativa Coro Moro, spero di avere occasione di ascoltarli (ormai Gipo non c’è più, le canzoni nella mia lingua sono difficili da ascoltare). Ma siamo sicuri che tutti i mòro (così mi dice vada scritto Gioventura Piemontèisa) richiedenti asilo siano onesti? Non conosco le condizioni dei paesi citati, ma il collega ghanese che siede nel mio ufficio dice che non c’è ragione per loro di scappare dal Ghana. Credo all’articolo «buonista» di Giulia Bondi o al mio collega che fa il master all’Università di Ulm (Germania, ndr) e lavora part time con me?

Non è che magari loro come me hanno lasciato il paesello natio per semplici motivi economici? Hanno preso una scorciatornia, ovvero immigrare clandestinamente per poi chiedere asilo politico e sperare nelle lungaggini burocratiche? Il tutto a discapito degli stranieri regolari come il mio collega (oppure mia moglie, ora italiana, che tutte le volte che veniva in Italia da fidanzati era dotata di visto turistico ed a seguire di permesso di soggiorno).

Vengo ora all’appello per lo Ius soli. Quale sarebbe la precarietà esistenziale per gli stranieri minori nati in Italia? L’unica differenza tra un italiano e uno straniero sta nel diritto al voto, se minore comunque non può votare anche se italiano. Se un francese nasce in Italia e a due anni torna in Francia con la famiglia è italiano? Al momento penso che la cittadinanza, ai minori, vada legata alla famiglia. Quale sarà il vantaggio per la società italiana se concediamo lo Ius soli?

Luca Medico
Neu-Ulm (Germania), 13/08/2016

Caro Luca,
provo a condividere con lei alcuni punti.

Migranti economici o rifugiati politici. È un fatto ormai ben documentato che i migranti economici sono in aumento, segno anche che le nostre nazioni (nonostante la percezione negativa che noi ne abbiamo) sono ancora ben più ricche e floride di quelle da cui provengono i migranti. Le previsioni sono che i migranti economici continueranno ad aumentare anche a causa del cambiamento climatico che rafforzerà i fenomeni di siccità e fame in molti paesi. Un fatto però è certo: sta diventando sempre più difficile distinguere tra rifugiati politici e migranti economici, anche perché, in molti paesi, le due realtà (politiche vessatorie e economie disastrate o schiavizzanti) sono strettamente collegate. Tenga poi conto che molte di queste situazioni sono mantenute e sostenute da un sistema economico (di cui noi siamo parte beneficiaria e spesso anche vittima) che perpetua le ingiustizie e favorisce i regimi basati sul privilegio di un’élite, per poter continuare a sfruttare impunemente risorse naturali e umane di tanti paesi a beneficio dell’arricchimento sfacciato di pochi (i 62 super ricchi che oggi controllano metà della ricchezza mondiale, secondo l’Ong Oxfam, e diventano sempre più ricchi nonostante la crisi).

Ius soli. La proposta oggetto del nostro appello chiede che il diritto di cittadinanza venga riconosciuto «agli immigrati di seconda generazione, nati e cresciuti nel nostro paese, che oggi sono costretti ad attendere fino all’età di 18 anni prima di poter ottenere la cittadinanza. A tale obiettivo mira la riforma della legge 91 del 1992 che assicura ai figli di immigrati nati in territorio italiano da almeno un genitore con permesso di soggiorno di lungo periodo (ius soli temperato) o a seguito di un percorso scolastico (ius culturæ), il diritto a diventare cittadini». Essa è una richiesta strettamente legata alla famiglia del minore.
E non mi sembra che la differenza stia solo nel diritto di voto, pur importante. È piuttosto il sentirsi parte, l’inclusione e l’appartenenza, il sentirsi a casa. In fondo questi ragazzi vivono come in un limbo: non sono né italiani né del paese di origine dei loro genitori.

Quali i vantaggi per noi? Per noi ci sono tutti i vantaggi che vengono dall’immigrazione, senza la quale sicuramente nel 2050 saremo dieci milioni di meno di quanti siamo oggi e mediamente tutti più vecchi (vedi dati Eurostat resi noti in agosto) e con pensioni ridicole. Lo ius soli farà sì che i nuovi cittadini siano e si sentano italiani a tutti gli effetti e non apolidi appena tollerati e disprezzati.Forse non piace a certi difensori della purezza patria, ma conviene ricordare che noi italiani siamo tali proprio perché siamo una mescolanza incredibile di popoli diversi. La mescolanza di geni di genti autoctone con quelli di popoli Celti e Normanni del Nord, Arabi e nordafricani del Sud, Fenici, Greci, Ebrei, Slavi, Turchi e Mongoli dall’Est, e spagnoli e francesi dall’Ovest, ha fatto di noi quel paese bellissimo e contraddittorio che siamo. La mescolanza delle «razze» (per usare un termine scorretto e obsoleto) non porta alla degenerazione della «razza», ma la migliora e la rende più sana, intelligente e resistente alle avversità.

Moschee negate

Leggo sulla rivista di giugno l’interessante articolo sulle «Moschee negate». Nell’articolo si sottolinea il carattere «laico» dello stato. Mi si permetta di non essere d’accordo con l’aggettivo descrittivo «laico»: per molti oggi tale aggettivo connota o intende connotare uno stato non solo distante dai credenti, ma che addirittura li vorrebbe relegati in ambito «sacrestitoriale», lì zitti e buoni, solo ad incensare e far tiritere di preghiere. Mi pare ovvio che tale descrizione auspicata da tanti, non corrisponde ad una chiara posizione costituzionale sulla libertà religiosa, per cui i credenti hanno e debbono avere piena libertà d’azione e pari dignità in quanto cittadini alla pari degli altri. Allora perché non iniziate a definire lo stato come poi è in realtà per costituzione (costituenti furono anche i cattolici), come stato solo e sempre «plurale», di tutti, cioè, e per tutti?

Bruno Cellini
07/07/2016

Abbiamo chiesto all’autore dell’articolo, prof. Alessandro Ferrari un commento. Ecco quanto ci ha scritto:

Rispondo al volo.
Lo stato italiano è costituzionalmente laico proprio perché impegnato a rispettare il pluralismo confessionale e culturale, come ha affermato la Corte costituzionale nella sua notissima sentenza n. 203 del 1989. Di conseguenza, quando si parla di laicità come supremo principio costituzionale non c’è alcuna contraddizione con il principio pluralistico, anzi, lo si declina con particolare – specifica – attenzione al fattore religioso. La laicità costituzionale non è una laicità anticlericale, né una «sana laicità», non mira alla privatizzazione del fattore religioso ma ad assicurare che le legittime manifestazioni pubbliche delle fedi religiose e «convinzionali» possano esprimersi nel rispetto dell’uguale libertà di ciascuno.
Alla prossima,

Alessandro Ferrari
12/07/2016




Sommario agosto-settembre 2016


In questo numero: l’editoriale puntualizza sulla bestemmia della violenza in nome di Dio e altre bestemmie. Il dossier presenta quattro donne “straniere” che raccontano di cibo e di nostalgia di casa. Gli articoli spaziano dall’Honduras al Nagoo-Karabakh, dall’Ecuador inquinato al petrolio al Sud Sudan attanagliato da una guerra civile causata anche dal petrolio, dal cinema africano e alla ricostruzione in Nepal. Eticamente parla di paradisi fiscali; Cooperando si interroga sul cambiamento di linguaggio circa il Terzo Mondo; Madre Terra conclude la ricerca sul rapporto malattie e migranti; i Perdenti dialoga con l’eroe di Masada; Librarsi presenta diversi buoni libri e l’inserto Allamano continua a farci conosce meglio in nostro beato.



Bestemmie
di Gigi Anataloni | editoriale      pdf sfogliabile |pag. web classica

Cari Missionari
risponde il Direttore | lettere dai lettori              pdf sfogliabile |pag. web classica


Dossier

Aromi e sapori di Casa lontana
Il valore del cibo in racconti di donne “straniere”
testi di: Daniela Finocchi, Michaela Sebokova, Ramona Hanachiuc, Lydia Keklikian E Leyla Khalil
a cura di: Gigi Anataloni
per gentile concessione del «Concorso letterario nazionale Lingua Madre»
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Articoli

Honduras: Berta Cáceres si è moltiplicata
di Daniela Del Bene (Ejatlas)      pdf sfogliabile |pag. web classica

Nagoo Karabakh: Trincee dimenticate
di Simone Zoppellaro (Obc)        pdf sfogliabile |pag. web classica

Cinema: Africa in scena
di Mario Ghirardi           pdf sfogliabile |pag. web classica

Ecuador /4: una storia troppo sporca
di Paolo Moiola              pdf sfogliabile |pag. web classica

Sud Sudan: Guardandosi in cagnesco
di Marco Bello                pdf sfogliabile |pag. web classica

Nepal: Terremoto dimenticato
di Silvia C. Turrin            pdf sfogliabile |pag. web classica


Rubriche

Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto | notizie dal mondo    pdf sfogliabile

Reliquie e corruzione
di Paolo Farinella | Misericordia voglio / storia del giubileo 10         pdf sfogliabile |pag. web classica

Il paradiso non può attendere
(a proposito di paradisi fiscali)
di Sabina Siniscalchi | Eticamente           pdf sfogliabile |pag. web classica

La malattia non ha colore
Migranti e malattie: miti e realtà /2
di Rosanna Novara Topino | Madre Terra           pdf sfogliabile |pag. web classica

Un altro modo per dire il mondo
di Chiara Giovetti | Cooperando             pdf sfogliabile |pag. web classica

Librarsi
a cura di Luca Lorusso | libri per tutti     pdf sfogliabile

Dal cielo per il bene sulla terra
a cura di Sergio Frassetto | Allamano 4/2016     pdf sfogliabile |pag. web classica

Eleazar Ben Yair, eroe di Masada
di Mario Bandera | I Perdenti /17           pdf sfogliabile |pag. web classica




Storia del Giubileo 10. Reliquie e corruzione


Nella puntata precedente abbiamo descritto come l’istituto del giubileo da evento eccezionale, pensato a cadenza secolare da Bonifacio VIII, fosse diventato una tradizione elastica che ogni papa decideva di cadenzare secondo la sua personale esigenza o visione teologica.

La giostra dei Papi

Dopo la morte di Bonifacio IX (1404) e il breve ma turbolento pontificato di Innocenzo VII (Cosimo de’ Migliorati), durato appena due anni (1404-06), fu eletto papa di Roma Gregorio XII (Angelo Correr, 1335-1417). Per risolvere lo scisma che era fonte di confusione (basti pensare che Santa Caterina da Siena era fedele a Roma, mentre San Vincenzo Ferrer riconosceva il papa di Avignone), molti cardinali sia fedeli a Roma, sia fedeli ad Avignone, si riunirono a Pisa nel 1409, deposero il papa Gregorio XII e l’antipapa Benedetto XIII con l’accusa di scisma ed elessero un nuovo papa che assunse il nome di Alessandro V (Pietro Filargo, 1339-1410), che, come prima mossa papale, promise un nuovo giubileo per l’anno 1413, ma non visse abbastanza per realizzarlo.

Morto Alessandro, elessero Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa, 1370-1419) che a tutti gli effetti fu considerato antipapa, perché eletto essendo ancora vivo il papa legittimo, Gregorio XII, che era stato deposto in modo illegittimo. Si creò una situazione paradossale: i papi eletti da quella che passò alla storia come «l’obbedienza di Pisa», invece di risolvere lo scisma, lo aggravarono così tanto da sprofondare la Chiesa per sei anni dalla padella della sventurata «dualità» alla brace della «maledetta triplicità». Non più due, ma tre papi si contendevano la successione di Pietro. Gregorio XII rinunciò al pontificato nel 1415, sperando che anche l’antipapa Benedetto XIII di Avignone facesse lo stesso, ma questi si rifiutò, anzi sul letto di morte costrinse i pochi cardinali a eleggere il successore, Clemente VIII. Questi accortosi di essere diventato ormai ridicolo, rassegnò le dimissioni, riconoscendo il papa di Roma. Nel frattempo non un conclave, ma direttamente il concilio di Costanza, nel 1417 all’unanimità scelse Martino V (Oddone Colonna 1368-1431), il quale toò a Roma e in omaggio alla norma della memoria dei 33 anni di Cristo, indisse il giubileo per l’anno 1423.

Giubilei della redenzione ballerini.
Il giubileo di Martino V sarà l’ultimo della serie dei «33 anni», perché Niccolò V (Tommaso Perentucelli,1347-1455, nato a Sarzana, Genova), il suo secondo successore, riportò l’anno santo alla scadenza del cinquantesimo anno, abolendo quella dei 33 anni. Il giubileo di Martino V sarà così l’ultimo della serie della «redenzione», fino al 1933, quando un nuovo anno santo sarà indetto da Pio XI (Achille Ratti, 1857-1939) per celebrare la ricorrenza centenaria della redenzione; questo evento, con la stessa motivazione, si ripeterà ancora una volta, nel 1983, anno giubilare indetto da Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a, 1920-2005) in omaggio al 1950° anniversario della redenzione di Cristo.

Curiosità e dimissioni.
Dopo l’antipapa Giovanni XXIII, per cinque secoli, nessun nuovo papa assunse quel nome, come se fosse un nome maledetto. Fu il patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, che, eletto papa (28 ottobre 1958), da fine storico, non si lasciò impressionare, ma decise di assumere il nome di Giovanni XXIII, ponendo fine definitivamente alla discussione sugli antipapi. Eletto come papa di transizione per fare decantare il lungo e ingombrante pontificato di Pio XII, Roncalli smentì le attese di tutti e, volando alto sulle ali dello Spirito, diede inizio al concilio Vaticano II che cambiò il volto e il cuore della Chiesa.
Nella serie dei papi, Gregorio XII (Angelo Correr), fu il settimo papa ad avere rinunciato o ad essere stato costretto a rinunciare. Prima di lui rinunciarono Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI e, ultimo e più famoso tra tutti, Celestino V, predecessore di Bonifacio VIII. Dopo di lui, si ebbe solo la linea ufficiale e legittima dei papi di Roma e occorrerà aspettare 598 anni per vedere un papa rassegnare le dimissioni, questa volta non costretto da altri, ma liberamente per sua scelta, come fece Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger.

Clero alla berlina

Il giubileo del 1423, il primo di una chiesa riunita dopo lo scisma, porta un flusso straordinario di pellegrini a Roma da fare dire ai cronisti dell’epoca che Roma viene invasa «da sterco, sporcizia e pidocchi», conditi da una forte speculazione, se è vero che il papa emana un editto con cui vieta di far pagare più di 25 fiorini per la pigione nel quartiere di Parione «in occasione del giubileo oppure di un concilio celebrato a Roma o in occasione dell’arrivo dell’imperatore». In questo giubileo per la prima volta si apre «una porta santa» al Laterano (per la cronaca questa porta non è mai stata identificata), come varco apposito per il passaggio dei pellegrini. Finito l’anno santo, esso viene murato con dentro un bricco d’oro (a futura memoria).

La mancata riforma della Chiesa, voluta dal concilio di Costanza e non riuscita, specialmente quella attinente il clero che aveva una vita morale indecente, oltre alla sporcizia e ai pidocchi, alimentò un sentimento anticlericale e uno scollamento profondo tra popolo e clero. Della decadenza del clero si occupò anche la letteratura: le «Trecento novelle» di Franco Sacchetti (+ 1400ca.) portano al parossismo l’immoralità del clero e del mondo religioso. In forma più contenuta, questa feroce satira era stata iniziata una cinquantina di anni prima da Boccaccio con il «Decameron».

Se per i pellegrini del popolo, per lo più sentimentali e analfabeti, i giubilei erano l’occasione per fare incetta d’indulgenze allo scopo di evitare l’inferno dopo la morte, per il clero e le istituzioni, essi erano anche un grande fattore economico perché portavano a Roma un grande flusso di denaro e si sa bene che dove c’è la carogna i corvi abbondano. Il popolo di Dio, in ogni tempo, sarà pure ignorante, ma ha fiuto e giudica quello che vede e valuta comportamenti e atteggiamenti, e quasi sempre non sbaglia. Facendo le debite proporzioni, si può applicare qui il principio teologico tanto caro a Papa Francesco: «L’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina» (Antonio Spadaro, S.I., a cura di, «Intervista a Papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, n. 3918 [15 settembre 2013], 459). Il popolo dei giubilei, è un popolo caricato dai preti con mille paure, ma anche un popolo semplice, di una elementare religiosità, capace di distinguere il messaggio dagli strumenti inadeguati.

Una testimonianza agghiacciante.
«L’umanista Poggio Bracciolini, inorridito delle devianze morali del clero romano, scrisse al cardinale Giuliano Cesarini (+1444) che lo esortava a prendere gli ordini sacri: “Non voglio divenire sacerdote, non voglio benefici; ne vidi già moltissimi, che ritenevo uomini buoni… divenire, dopo aver assunto il sacerdozio, avari, non più dediti alla virtù, ma all’inerzia, all’ozio, al piacere. Timoroso che qualcosa del genere accada anche a me, ho deciso di concludere lontano dal vostro ordine ciò che mi rimane di vita terrena; vedo chiaro infatti, dalla tonsura dei sacerdoti che non sono solo i capelli a venir loro rasi ma anche la coscienza e la virtù”. Poggio Bracciolini era un intellettuale laico» (Mezzadri, 79).

Reliquie a gogò e fanatismo

Papa Martino V favorì il culto delle reliquie che fece esporre in tutte le chiese come mezzo per alimentare il desiderio del popolo per una chiesa più spirituale, scavalcando così il clero che, forse, lo stesso papa considerava un impedimento e quasi mettendosi direttamente in contatto con la chiesa dei semplici. Questo processo di spiritualizzazione culminò nel 1430, sette anni dopo il giubileo, quando la pietà popolare trovò una grande spinta nella traslazione a Roma delle reliquie di santa Monica, madre di sant’Agostino, durante la quale il papa tenne un sermone commovente. Purtroppo però, quando il desiderio di purificazione è abbandonato solo alla pietà popolare, è inevitabile che si creino mostri e si dia inizio a un irrigidimento moralistico che porta anche i santi a commettere delitti in nome della purezza della religione. Chiuso il giubileo della redenzione, che avrebbe dovuto imporre pensieri di misericordia e di perdono, sorse un movimento spontaneo assetato di «segni» visibili come armi per combattere il male che deve essere estirpato alla radice, senza più la logica della parabola del grano e della zizzania che mette a fuoco la pazienza come intrinseca caratteristica di Dio (cf Mt 13,24-30). Per istigazione di san Beardino prese vita e struttura «il rogo delle vanità» sulla piazza del Campidoglio, dove non si esitò nemmeno a bruciare viva una certa Finicella, accusata di essere strega:

«In quell’anno [1424] frate Beardino (di Siena, ch’era un buon frate) fece ardere tavolieri, canti, brevi, sorti, capelli che fucavano le donne, et fu fatto uno talamo di legname in Campituoglio, et tutte queste cose ce foro appiccate, et fu a 21 di iuglio.
Et dopo fu arsa Finicella strega, a di 8 del ditto mese di iuglio, perché essa diabolicamente occise de molte criature et affattucchiava di molte persone, et tutta Roma ce andò a vedere. Et fece frate Beardino in Roma de molte paci, et de molti abbracciamenti; et benchè ce fusse stato homicidio… et fece fare altre opere buone, sicchè da tutti era tenuto per sant’uomo». (Istituto storico Italiano, Fonti per la storia d’Italia, a cura di  Oreste Tommasini, Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, Forzani e C. tipografi del Senato, Roma 1890).

Il papa mecenate

Dopo Martino V, papa della potente famiglia Colonna, venne eletto il veneziano Eugenio IV (Gabriele Condulmer, 1383-1447) che fu costretto a fuggire a Firenze, perché scacciato dai romani aizzati dalla famiglia Colonna. Dopo di lui salì al soglio pontificio Niccolò V (Tommaso Perentucelli,1347-1455) che fu il vero primo papa mecenate, immerso, corpo e anima, nei nuovi tempi, diventando egli stesso non solo un protagonista, ma addirittura promotore di quell’umanesimo che Martino V di fatto detestava. Con il suo temperamento condiscendente e mai pungente, seppe guadagnarsi la stima e la simpatia di tutte le nazioni europee che gli riconobbero un’autorità morale e politica che prima di lui nessun papa ebbe in così alto grado.

Di fatto, il pontificato di Niccolò V risultò il collo d’imbuto del passaggio definitivo nel «nuovo mondo», chiudendo per sempre il Medio Evo ed entrando nel Rinascimento. Come ogni periodo di transizione, questo passaggio fu attraversato da una serie di problemi gravi e profondi come la corruzione, l’ipocrisia elevata a sistema di governo. Il clero ignorante e avaro, era inadatto alla propria missione, con una simonia diffusa in modo nauseante oltre ogni misura. Pullulavano eresie in ogni dove, come espressione di libertà e occasione d’inganno; era anche un modo per affermare la propria indipendenza non solo dal clero, ma anche dal concetto stesso di società teocratica che si dissolveva di fronte all’ideale «homo novus» che tutti sentivano e percepivano sia psicologicamente sia culturalmente e chi ne pagava le spese inevitabili fu il senso religioso che apparve come ostacolo al nuovo perché rappresentativo del vecchio.

Signori, le corti…

Le alte gerarchie come i cardinali si circondavano di corti personali pullulanti di letterati, filosofi, pittori in cerca di protettori paganti, ma anche come portatori dello spirito del nuovo mondo che era già iniziato. Nel 1449 il papa emanò una bolla con cui indisse per il Natale dello stesso anno l’inizio del giubileo del 1450. Si mise in moto un vero cantiere in tutta Roma per abbellire palazzi, chiese e ristrutturare quartieri, dando impulso a un entusiasmo collettivo contagioso. L’afflusso di pellegrini fu immenso, da ogni parte d’Europa e anche di fuori, convenivano a Roma pellegrini e ciascuno cantava e pregava nella propria lingua, dando l’impressione plastica di rivivere la Pentecoste narrata nel libro degli Atti al capitolo 2. Questa folla era ansiosa di partecipare all’apertura della porta santa di quello che fu definito «l’anno d’oro», anche perché in tutto il mondo cristiano Niccolò V era l’unico papa riconosciuto universalmente e non solo perché era rimasto senza più antipapi (l’ultimo fu Felice V, morto nel 1449), ma perché la sua autorevolezza morale era di dominio pubblico.

Poiché la folla era tanta da non potere essere gestita, il Papa concesse che la reliquia del Volto Santo della Veronica fosse esposta ogni domenica, le teste dei santi apostoli Pietro e Paolo, ogni sabato e, per permettere ai pellegrini di andarsene prima da Roma, perché veniva a mancare il pane, ridusse a soli tre giorni le visite alle chiese giubilari così che, lucrata l’indulgenza plenaria, molti potessero ripartire, avendo soddisfatte le esigenze del giubileo e alleggerendo i problemi di Roma.

Era inevitabile che nelle condizioni igieniche impossibili e senza controllo, scoppiasse la peste che fece molte vittime, anche tra i parenti del papa, il quale, terrorizzato, scappò da Roma per stabilirsi a Fabriano. Riferisce Vespasiano da Bisticci, un umanista e bibliofilo fiorentino, che «La corte di Roma è miseramente sparita e dispersa… Cardinali, vescovi, abati, monaci, ogni sesso, niuno eccettuato, tutti fuggono da Roma come Apostoli da nostro Signore durante la sua passione» (Mezzadri, 94-95).

Il successivo giubileo si celebrò nel 1475 perché il veneziano Pietro Barbo eletto papa col nome di Paolo II (1417-1471) portò la cadenza giubilare a venticinque anni, senza poterlo nemmeno inaugurare: a causa di una scorpacciata di meloni morì di apoplessia e il giubileo restò solo annunciato. Gli succedette il Francesco della Rovere, francescano dell’ordine dei Minori, che assunse il nome di Sisto IV (1414-1484) che determinò una svolta nella vita del papato e nella geografia della città di Roma, divenuta un cantiere a cielo aperto che ne trasformerà definitivamente la struttura e l’impianto.

Paolo Farinella, prete
(10, continua)

 

 




La malattia non ha colore


L’assistenza medica ai migranti è un atto dovuto. Facilitare l’accesso al Servizio sanitario nazionale a chi rimane è la soluzione migliore. Tra l’altro, questa è anche la strada economicamente più conveniente.

La prima parte di questa nostra inchiesta (MC maggio 2016, pp. 60-63) terminava con una domanda: gli immigrati rappresentano un pericolo sanitario per noi? Per dare una risposta è necessario esaminare le caratteristiche di coloro che arrivano nel nostro paese, le loro condizioni di vita e di lavoro, la loro possibilità di accesso al nostro sistema sanitario.

All’arrivo in Italia

Considerando solo coloro che giungono in Italia dal Mediterraneo, in primis occorre conoscere quale sia la situazione sanitaria dei migranti quando vengono portati a bordo delle navi italiane che effettuano i salvataggi in mare. Al loro arrivo i migranti presentano soprattutto patologie legate al viaggio: infezioni respiratorie, ipotermia, ustioni, traumi, lesioni da decubito dovute alla impossibilità di movimento sui barconi, peggiorate da agenti chimici quali acqua salmastra o gasolio. Sovente ci sono patologie indotte o aggravate dalle condizioni di trasporto: tra queste le più pericolose sono quelle dovute a disidratazione, che provoca talora gravi casi d’insufficienza renale. Capita che approdino donne in stato di gravidanza o subito dopo avere partorito. Spesso si tratta  di donne vittime di stupri avvenuti nei lunghi periodi di detenzione in Libia, quindi con gravidanze forzate.

Tra le patologie più frequentemente riscontrate allo sbarco vi sono quelle dermatologiche come scabbia, foruncolosi, impetigine e quelle del sistema respiratorio, in particolare infezioni delle prime vie aeree, bronchiti e sindromi influenzali. I pochi casi di tubercolosi vengono individuati a bordo delle navi militari, che sono attrezzate con aree di isolamento, terapia intensiva e medici a bordo. Grazie alla stretta collaborazione tra ministero della Salute e Croce rossa italiana è possibile effettuare operazioni complesse per evacuare in sicurezza le persone che hanno necessità di cure immediate. Ad ogni sbarco sale a bordo personale sanitario e personale Usmaf (Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera del ministero della Salute), che verificano le condizioni dei migranti prima che scendano a terra. Nel caso in cui ci sia un sospetto di malattia infettiva, il paziente viene isolato a bordo e vengono attivate immediatamente le procedure necessarie per diagnosticare il caso. Sulle nostre coste, la Croce rossa italiana assiste sistematicamente i migranti in arrivo dal 2011.

Nei Centri di prima accoglienza

Le condizioni dei migranti nei Centri di prima accoglienza presentano purtroppo notevoli criticità. Non esistono ancora collaudate procedure di rapida evacuazione dei richiedenti asilo altrove, in modo da offrire loro condizioni igieniche migliori. Secondo Medici senza frontiere (Msf), l’assistenza sanitaria in questi centri non è a carico del ministero della Salute, ma è gestita da enti privati. Senza un coordinamento efficace si verificano carenze che influiscono direttamente sulla salute dei pazienti, messa a rischio dalle condizioni di sovraffollamento e di promiscuità. Inoltre tra i migranti presenti nei Centri di prima accoglienza, ve ne sono molti che, avendo subito torture e altri traumi, presentano specifici quadri clinici psichiatrici come disturbo post-traumatico da stress, crisi d’ansia, depressione, disturbi di concentrazione e di memoria, tendenze suicide, per cui è indispensabile anche l’assistenza di tipo psichiatrico.

Migranti stabilizzati

Per quanto riguarda la salute degli immigrati presenti da tempo sul nostro territorio (o di altra nazione europea), bisogna considerare diversi fattori: quelli legati alle caratteristiche socioeconomiche dell’ambiente di vita e di lavoro, quelli individuali come lo stile di vita e gli eventuali comportamenti a rischio e infine la storia migratoria dei singoli individui (paese di origine, paese ospite, motivazione della migrazione, età all’arrivo, durata della permanenza nel paese ospite).

I problemi sanitari degli immigrati sono di tre tipi: di importazione, cioè quelli legati alle malattie endemiche nel paese di provenienza o alle caratteristiche genetiche (come la tubercolosi, alcuni tumori di origine infettiva e l’anemia mediterranea); di sradicamento, presenti soprattutto tra gli immigrati recenti e in particolare tra quelli forzati a causa di guerre e di persecuzioni e che coinvolgono in particolare la sfera psichica e mentale; quelli connessi con i fenomeni di acculturazione e di possibile emarginazione sociale.

Il processo di acculturazione comporta un adattamento degli immigrati agli stili di vita del paese ospite, che può però avere un effetto negativo sui comportamenti a rischio per la salute (fumo, alcolismo, tossicodipendenza, alimentazione scorretta). Peraltro esso porta alla conoscenza dei servizi sanitari di assistenza primaria e diagnosi precoce e ne favorisce l’accesso. L’acquisizione di comportamenti insalubri, quando avviene, si verifica in tempi più o meno rapidi, a seconda della storia migratoria (età all’arrivo, essendo più probabile tra i più giovani, cultura d’origine, livello d’istruzione individuale). Ci sono poi tutti gli svantaggi degli ambienti di vita e di lavoro, con tutte le forme di rischio per la salute tipiche delle fasce socio-economiche più svantaggiate anche tra la popolazione ospite (precarietà abitativa, sovraffollamento, scarsa sicurezza nei luoghi di lavoro, alimentazione carente, disagio psicologico, difficoltà di accesso ai servizi socio-sanitari). Gran parte delle disuguaglianze di salute degli immigrati è legata alle loro condizioni socio-economiche, al livello d’istruzione e alla loro distribuzione per area di residenza.

Secondo le indagini svolte dall’Istat ogni 5 anni e in particolare quella pubblicata nel 2014, lo stato di salute percepito dai cittadini stranieri è di livello inferiore per quelli che risiedono nel Mezzogiorno, rispetto a quelli che vivono al Nord o in Centro Italia. Questo vale soprattutto per quanto riguarda lo stato mentale degli stranieri residenti nel Sud, che presentano punteggi medi inferiori a quelli riportati dal resto della popolazione straniera.

Per chi ha conseguito solo la licenza elementare, le condizioni di benessere fisico, mentale e psicologico generalmente presentano valori inferiori alla media, specialmente per i meno giovani.

Inoltre possono incidere negativamente sulla salute degli immigrati i fenomeni di discriminazione razziale, le barriere linguistiche e culturali e i vincoli giuridici, in particolare per le persone provenienti dai paesi in via di sviluppo e per quelle prive di regolare permesso di soggiorno.

Migranti economici

Generalmente coloro che emigrano volontariamente (i migranti economici), scelgono di farlo essendo in buona salute, pertanto risultano mediamente più sani dei loro coetanei che non emigrano e di quelli della popolazione ospite. Si parla di effetto migrante sano, che non interessa invece i migranti forzati e i ricongiungimenti familiari. Dopo un po’ di tempo dall’arrivo, i migranti economici tendono a perdere il loro vantaggio in salute, per via dell’acquisizione di comportamenti a rischio e delle condizioni di vita e di lavoro, fino a giungere all’effetto «migrante esausto». Si osserva inoltre che spesso gli immigrati in cattivo stato di salute decidono di tornare nel loro paese d’origine per ragioni affettive o perché lì trovano un maggiore supporto familiare e sociale necessario a gestire la malattia che nel paese ospite.

Servizi sanitari e barriere

Nei primi tempi, i migranti presentano solitamente un quadro caratterizzato da eventuali malattie di importazione (che però hanno un peso ridotto sul carico complessivo di malattia) e soprattutto da problemi di salute tipici dei giovani adulti, in particolare quelli legati all’area materno-infantile per le donne e a quella traumatologica per gli uomini. Con l’invecchiamento compaiono invece tutti i problemi di morbosità cronica correlati al disagio sociale. In Italia le popolazioni con storie migratorie meno recenti, come quelle del Nord Africa, potrebbero cominciare a presentare patologie di tipo cronico, mentre i migranti dai paesi slavi, arrivati dopo, presentano ancora la prima categoria di problemi di salute.

Le potenziali barriere all’utilizzo dei servizi sanitari da parte degli immigrati sono numerose e classificabili in tre gruppi: i fattori individuali, come cultura e credenze d’origine, il livello d’istruzione, lo stato socio-economico, il sostegno sociale e familiare; le barriere rappresentate dalle caratteristiche logistiche e organizzative della specifica struttura sanitaria, a cui l’immigrato dovrebbe rivolgersi; le barriere di sistema, legate all’organizzazione e alle modalità dell’intera offerta sanitaria del paese ospite.

Il Parlamento europeo, con le risoluzioni 2010/2089 dell’8 febbraio 2011 e 2010/2276 del 9 marzo 2011, ha ribadito che gli immigrati devono essere compresi tra i gruppi a rischio di disuguaglianze sanitarie e ha invitato gli stati membri a mettere in atto interventi volti a ridurre al minimo il rischio di disparità nell’accesso alle cure, indipendentemente dal fatto che si tratti di persone regolarmente presenti o meno.

Una questione di codici

Secondo la Legge 40/1998, art. 33, in Italia è previsto l’accesso all’assistenza anche agli stranieri irregolari, a fronte di una compartecipazione alla spesa sanitaria (ticket) uguale a quella dei cittadini italiani. Tutte le persone presenti sul territorio italiano hanno infatti diritto alle cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, e ai programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva, con specifico riguardo a tutela della gravidanza e della mateenità, alla salute del minore, alle vaccinazioni, alla profilassi internazionale e alla profilassi, diagnosi e cura delle malattie infettive. In particolare è previsto che gli extra-comunitari senza regolare permesso di soggiorno possano richiedere uno specifico codice sanitario (codice Stp, «Straniero temporaneamente presente»), che non prevede segnalazione alle autorità giudiziarie e sostituisce l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale (Ssn). I cittadini comunitari non iscrivibili al Ssn perché privi dei necessari requisiti di residenza e di reddito, presenti sul nostro territorio da almeno tre mesi in maniera continuativa sono invece assistibili mediante il codice Eni («Europeo non iscrivibile»).

Purtroppo l’attuazione della normativa vigente risente di una forte variabilità territoriale, che ha portato la Conferenza stato-regioni ad approvare nel 2011 il documento «Indicazioni per la corretta applicazione della normativa per l’assistenza sanitaria alla popolazione straniera da parte delle regioni e province autonome italiane» per uniformare le modalità di offerta di assistenza.

Poiché le prestazioni rivolte a Stp o Eni avvengono dietro pagamento di un ticket (tranne quelle di primo livello, urgenze, gravidanza, patologie esenti, ecc.), gli immigrati in gravi difficoltà economiche spesso rinunciano all’assistenza o si rivolgono a reti di assistenza parallela, presso il qualificato terzo settore, oppure, con rischi maggiori ed esiti incerti, presso la propria comunità. Per ovviare a ciò, il cittadino con codice Stp privo di risorse economiche può chiedere, a seguito di una sua dichiarazione, il codice X01, che vale solo per la specifica prestazione effettuata e va emesso di volta in volta.

Rinunce e difficoltà

Nonostante il divieto di segnalazione della condizione di irregolarità del paziente alle autorità competenti (salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, come per i cittadini italiani), molti immigrati (circa 1/3 degli intervistati in un’indagine condotta in vari paesi europei tra cui l’Italia) riferiscono di avere comunque timore di denuncia e di rinunciare perciò all’assistenza. Cinque su mille intervistati hanno riferito di avere rinunciato al ricovero ospedaliero, pur avendone avuto bisogno, perché impossibilitati a farlo, con una incidenza doppia nel Mezzogiorno.

Inoltre le difficoltà linguistiche possono costituire un grosso ostacolo all’accesso al servizio sanitario per gli immigrati. Il 13,8% di loro ha infatti dichiarato di avere difficoltà nello spiegare al medico i sintomi della propria malattia, il 14,9% a capire ciò che il medico dice.

Il 12,9% ha riferito di avere avuto difficoltà nello svolgimento delle pratiche burocratiche necessarie per accedere alle prestazioni mediche. Il 16% degli stranieri dichiara di avere difficoltà ad effettuare visite ed esami medici per incompatibilità con gli orari di lavoro.

Per quanto riguarda gli atteggiamenti discriminatori, che possono condizionare l’accesso alle cure, il 2,7% degli stranieri ha dichiarato di avere subito discriminazioni in quanto tali, quando ha usufruito di prestazioni sanitarie.

Secondo i dati degli oncologi, gli immigrati che muoiono di tumore sono il 20% in più degli italiani con la stessa patologia tumorale, al punto che per favorire l’accesso alla diagnosi precoce è stata attivata la prima campagna di sensibilizzazione delle persone immigrate denominata «La lotta al cancro non ha colore», promossa da Aiom («Associazione italiana oncologia medica») e Fondazione Insieme contro il cancro. Secondo una ricerca della Caritas, il 36% delle immigrate non si è mai sottoposta a un Pap-test per il tumore della cervice uterina, il 54% delle cinesi non sa cosa sia una mammografia e la metà delle donne ucraine, filippine e latino-americane lamenta difficoltà nell’accesso al Servizio sanitario nazionale.

Le difficoltà di accesso alle cure sono ancora maggiori per i detenuti stranieri, che costituiscono oltre un terzo della popolazione detenuta in Italia, spesso a causa di un difficile rapporto di fiducia con gli operatori sanitari del carcere e per scarsa informazione circa i propri diritti.

Recentemente l’Agenzia europea per i diritti fondamentali ha pubblicato un report Cost of exclusion from healthcare: The case of migrants in an irregular situation («Costo dell’esclusione dal servizio sanitario: il caso degli immigrati irregolari»), uno studio condotto in Grecia, Germania e Svezia, che mostra come aprire le cure sanitarie anche agli irregolari consenta un risparmio fino al 16% rispetto alla cura di ictus e infarti e fino al 69% rispetto alla cura di bambini nati sottopeso. Se l’accesso alla medicina preventiva fosse uguale per tutti, ciò comporterebbe accessi ridotti al pronto soccorso (es. la Lombardia dà accesso alle cure agli immigrati solo attraverso il pronto soccorso) e costi minori di gestione di una patologia conclamata e più complessa da trattare. Molti pazienti del Nord Africa scoprono di essere affetti da diabete solo al pronto soccorso, quando i sintomi sono gravi, mentre basterebbe un semplice esame del sangue preventivo periodico.

La risposta

Alla luce di quanto visto finora possiamo rispondere alla domanda, da cui eravamo partiti, sulla possibilità che gli immigrati rappresentino un rischio per la nostra salute.

Ebbene, poiché molti immigrati tendono a vivere in comunità chiuse, già solo per questo raramente sono causa di epidemie nella popolazione autoctona. Le minoranze etniche non costituiscono un rischio rilevante per le comunità che le ospitano, in termini epidemiologici, ma eventualmente per i piccoli gruppi con cui hanno contatti regolari. È chiaro che la facilitazione del loro accesso al Servizio sanitario nazionale da un lato riduce notevolmente il rischio di diffusione delle malattie tra di loro e nella popolazione ospite e dall’altro riduce i costi sanitari della nazione d’accoglienza.

Rosanna Novara Topino
(seconda parte – fine)

 




Un altro modo di dire mondo


La Banca Mondiale ha deciso di non utilizzare più l’espressione «paesi in via di sviluppo» ed è probabile che le altre istituzioni inteazionali si allineeranno alla sua decisione. Ma che significato e quali conseguenze ha questa scelta? Da «Terzo Mondo» a «paesi a basso reddito», la forma e la sostanza delle parole che usiamo per descrivere il mondo.

Non c’è più il Terzo Mondo di una volta. E nemmeno i paesi in via di sviluppo, a quanto pare. Nell’edizione 2016 degli Indicatori di sviluppo – una delle pubblicazioni di riferimento per chiunque lavori nel settore e non solo – la Banca Mondiale ha deciso di dismettere l’espressione developing countries (paesi in via di sviluppo, appunto). «Sulla spinta dell’agenda universale degli Obiettivi di sviluppo sostenibile», si legge nel documento, «questa edizione introduce un cambiamento nel modo di presentare gli aggregati globali e regionali. Salvo ove specificato, non c’è più una differenza fra paesi in via di sviluppo (definiti nelle precedenti edizioni come paesi a basso e a medio reddito) e paesi sviluppati (ad alto reddito). I raggruppamenti regionali sono basati sull’area geografica […] e il cambiamento ha due conseguenze: che c’è un nuovo aggregato per il Nord America e che l’Unione europea è inclusa negli aggregati per Europa e Asia centrale».

Già da anni l’espressione «in via di sviluppo» si accompagnava nei rapporti della Banca Mondiale alla precisazione che il suo utilizzo era una questione di brevità, non significava che tutte le economie così denominate sperimentassero uno sviluppo analogo e non faceva in alcun modo riferimento a una soglia di sviluppo preferibile o finale, unica e uguale per tutti, che alcuni stati del mondo avevano raggiunto e superato e altri no.

Le premesse di questo cambiamento erano emerse in un articolo firmato da Tariq Khokhar e Umar Serajuddin, rispettivamente data analist e economista statistico della Banca, pubblicato sul blog istituzionale della World Bank nel dicembre del 2015: «L’essere umano ha una naturale tendenza a fare delle categorie – scrivevano – ma la classificazione è un’arte, non una scienza esatta». I due funzionari citavano Hans Rosling, medico, statistico e accademico svedese, che in una conferenza del giugno 2015 aveva detto: «Ho un nuovo nome per il mondo in via di sviluppo: io lo chiamo “il mondo”. È il posto dove vivono sei su sette miliardi di persone, perciò il mondo in via di sviluppo è la stragrande maggioranza».

I limiti della categoria, insistevano i due autori, emergono chiaramente quando si guarda ad esempio ai tassi di mortalità infantile e di fecondità, considerati come indicativi del benessere complessivo di un paese. Negli anni Sessanta questi due indicatori ebbero un ruolo importante nel definire le due grandi categorie: i paesi sviluppati erano quelli dove il tasso di fecondità e quello di mortalità infantile erano più bassi mentre i paesi in via di sviluppo, presentavano i valori più elevati. Oggi, con l’eccezione di pochi paesi, mortalità infantile e fecondità sono diminuite ovunque.

Lo stesso vale per le classificazioni basate sul reddito o sulla soglia di povertà estrema, fissata a 1,90 dollari al giorno: che senso ha, si chiedono i due funzionari della Banca Mondiale, che il Malawi e il Messico si trovino nella stessa categoria quando il primo ha un reddito nazionale lordo pro capite di 250 dollari e il secondo di 9.860? O considerando che a vivere con meno di un dollaro e novanta centesimi al giorno sia in Malawi il settanta per cento della popolazione e in Messico meno del tre per cento?

Gli antenati: c’era una volta il Terzo Mondo

«Terzo Mondo» è un’espressione coniata dall’economista francese Alfred Sauvy in un articolo dell’agosto 1952 quando, sulla rivista L’Observateur, scriveva: «Parliamo spesso dei due mondi protagonisti, della loro guerra possibile, della loro coesistenza, dimenticando troppo sovente che ne esiste un terzo, il più importante, il primo in ordine cronologico. È l’insieme di quelli che chiamiamo, con lo stile delle Nazioni Unite, i paesi sottosviluppati».

Per «due mondi» si intendeva da una parte il gruppo di paesi e loro satelliti del blocco capitalista occidentale e dall’altra quelli del blocco comunista sovietico. Nei fatti, però, l’espressione «Terzo Mondo» finì per sottintendere e avallare soprattutto l’idea che una buona parte del pianeta fosse poco più di uno sfondo per la contrapposizione Usa-Urss; inoltre, dal momento che i paesi di questo gruppo erano per la maggioranza poveri, «Terzo Mondo» divenne sinonimo di povertà prima che di non-allineamento alle due superpotenze. Nel 2003, in un’intervista a L’Express, l’autore stesso sottolineava il malinteso: «Per noi», spiegava l’economista francese, «non si trattava di definire un terzo insieme di nazioni […]; era piuttosto un riferimento al Terzo Stato dell’Ancien Régime, a quella parte della società che si rifiutava di “essere niente”, come recitava il pamphlet dell’abate Sieyès. La nozione designa dunque la rivendicazione delle nazioni terze che vogliono entrare nella storia». Questa idea, proseguiva Sauvy, aveva però conosciuto una lunga eclissi e sembrava essere in ripresa con l’emergere, fra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, di paesi come l’India, il Brasile e il Sudafrica e del loro rivendicare una identità peculiare rispetto all’Occidente.

Nord e Sud del mondo

Altre definizioni, poi, si sono alternate negli anni: la dizione «Nord e Sud del mondo», a guerra fredda finita, riprendeva la linea Brandt – dal nome del cancelliere tedesco Willy Brandt, presidente della commissione che nel 1980 produsse un noto rapporto sullo sviluppo internazionale – e intendeva fotografare la nuova linea di confine. Questa non correva più lungo la cortina di ferro separando l’occidente dal blocco sovietico dell’Urss e dell’Europa orientale, bensì lungo la linea che scindeva i paesi industrializzati del Nord America, dell’Europa occidentale, dell’ex Unione Sovietica, del Giappone e di altri paesi dell’Estremo Oriente – si stavano nel frattempo affermando anche le cosiddette Tigri Asiatiche – dall’America Latina, dall’Africa e dal Medio Oriente. Altre suddivisioni, frequentate per la verità più dagli accademici e filtrate solo di rado fino alle pagine dei giornali e nei dibattiti pubblici, erano quelle legate alle teorie della dipendenza che parlavano di centro ricco e periferia sottosviluppata e attribuivano al primo un ruolo di sfruttamento della seconda.

Di questo bouquet di espressioni, «in via di sviluppo» è stata la più longeva anche perché metteva d’accordo più persone o, se non altro, ne scontentava meno. Il suo richiamare il movimento («in via di») risultava incoraggiante per tutti, sviluppandi e loro tutori, e teneva a bada i critici perché era comunque meglio di «sotto-sviluppato»; infine – dettaglio fondamentale – piaceva ai media, sempre avidi di termini agili (in inglese «in via di sviluppo» diventa developing: un solo, pratico aggettivo).

Sviluppo in crisi

Ma poi, e molto prima che la Banca Mondiale decidesse il cambio di lessico, ad andare in crisi è stato lo sviluppo stesso, attaccato da ogni lato da dati e fenomeni che lo negano, o almeno ne stravolgono la fisionomia per come l’abbiamo conosciuta finora.

L’aiuto pubblico allo sviluppo è pari a un terzo delle rimesse dei migranti; il Brasile, l’India, la Cina, il Sudafrica da paesi assistiti sono diventati potenze regionali; a detta di analisti come la zambiana Dambisa Moyo, i mille miliardi di dollari in aiuti riversati sulla sola Africa in cinquant’anni hanno in larga parte mancato l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli africani e sono spesso finiti divorati da corruzione, spese di gestione e burocrazia kafkiana dei governi nazionali e delle istituzioni inteazionali.

E mentre, almeno in alcuni ambienti, ci si stava chiedendo se l’Occidente era poi davvero un modello di sviluppo, è arrivata la crisi finanziaria del 2008 a mostrare che il primo mondo, quello sviluppato, è molto più fragile e vulnerabile di quanto esso stesso pensasse di essere e ha al proprio interno sacche di povertà, emarginazione e degrado identiche a quelle dei paesi in via di sviluppo.

È in questo contesto che va collocata la decisione della Banca Mondiale di rivedere il lessico. I primi a riprendere la notizia sono stati paesi come l’India e il Messico, che la nuova classificazione «promuove» a paesi non più in via di sviluppo per il semplice fatto di non definire più nessuno stato come tale.

Che cosa cambia in concreto?

A dare retta a Charles Kenny, ricercatore presso il Centre for Global Development di Washington, alla variazione lessicale non si accompagna per ora un equivalente cambiamento della sostanza. Quello della Banca, avverte, è un piccolo passo e per di più traballante.

  • Innanzitutto, la suddivisione fra sviluppati e in via di sviluppo è ancora presente, eccome, nella versione on line – che sarà probabilmente la più consultata – del rapporto citato invece come spartiacque con il vecchio linguaggio.
  • Inoltre, aggiunge Kenny, la Banca continua nei fatti a decidere a chi concedere quali prestiti, dividendo i paesi del mondo in gruppi sulla base del reddito, li chiami o meno «in via di sviluppo».

Ed è esattamente questo il problema: servirebbe, piuttosto, una scala progressiva per cui ogni paese riceve l’aiuto di cui ha bisogno e nel contempo si impegna a dare il proprio contributo per risolvere i problemi globali. A maggior ricchezza maggior responsabilità e minor assistenza, insomma, non una rigida e binaria divisione fra stati «aiutanti» e «aiutati» a seconda che si trovino di qua o di là da una soglia di reddito.

Sana ironia

In attesa che si superi davvero la dicotomia e si conii eventualmente una nuova espressione, qualcuno sottolinea – con ironia – la necessità di un complessivo ripensamento del linguaggio dello sviluppo. L’organizzazione no-profit australiana WhyDev, ad esempio, indica «nove frasi dello sviluppo che odiamo (e i suggerimenti per un nuovo lessico)» [1].

Il capacity building? «Spesso è un eufemismo per dire che si stipano trenta persone in una stanza per un po’ di giorni e si cerca di ucciderle a forza di powerpoint, cartelloni e lavori di gruppo». L’espressione «in via di sviluppo»? «È semplicistico. Significa mettere i paesi del mondo in una scala da meno a più sviluppati, e lo scopo ultimo sarebbe quello di essere il più vicino possibile al nostro estremo della scala e il più lontano possibile dall’altro. E fidatevi, essere più vicini al nostro estremo significa somigliare ai Kardashian [famiglia statunitense di origini armene composta da imprenditori, attrici, modelle costantemente sulle riviste scandalistiche per i loro eccessi e lussi]. Nessuno può voler questo».

Il Development Research Institute dell’Università di New York è ancora più sarcastico nel suo dizionario dell’aiuto (AidSpeak Dictionary) [2]. La vera definizione di «sensibilizzare»? «Dire alle persone quello che devono fare». Gli «Obiettivi delle Nazioni Unite»? «Inventarsi soluzioni per problemi che non capiamo, pagando con soldi che non abbiamo». E che cosa intende davvero un professionista dello sviluppo quando dice di essere un esperto? «Beh, che ho letto un libro sul tema durante il volo».

Chiara Giovetti

[1] Weh Yeoh, Brendan Rigby and Allison Smith, 9 development phrases we hate (and suggestions for a new lexicon), in whydev.org, 13/09/2012.

[2] The AidSpeak Dictionary, in wp.nyu.edu, 19/09/2011.