L’anno più caldo di sempre


Si è svolta lo scorso novembre a Marrakech, Marocco, la ventiduesima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Cop22). Essa ha fissato le procedure e i metodi per arrivare entro il 2018 al regolamento di attuazione degli impegni presi a Parigi alla precedente conferenza. La Cop21 del 2015, stabiliva fra le altre cose l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale sotto i due gradi di aumento rispetto ai valori dell’epoca preindustriale.

Sulla strada tra Loyangallani e North Horr, Kenya.

Il 2016 si avvia ad essere l’anno più caldo di sempre. Lo diceva lo scorso novembre l’Organizzazione Meternorologica Mondiale (Wmo) delle Nazioni Unite, lo aveva anticipato a luglio 2016 la Nasa, l’agenzia aerospaziale statunitense. Occorrerà aspettare l’elaborazione definitiva delle rilevazioni 2016, ma i dati pubblicati dall’agenzia meternorologica a novembre in occasione del Cop22, la ventiduesima conferenza Onu sul cambiamento climatico, indicavano una temperatura di 0,88 gradi Celsius superiore alla media registrata fra il 1961 e il 1990 e più alta di 1,2 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Sempre secondo la Wmo, i dati preliminari di ottobre indicavano che le temperature continuavano a essere a un livello sufficientemente alto da restare ben sopra il valore annuale del 2015, che era stato di 0,77 gradi.

L’effetto di El Niño, che l’anno scorso veniva da alcuni studiosi indicato come fenomeno corresponsabile dell’innalzamento delle temperature, è terminato a maggio 2016 dopo aver lasciato una scia di episodi di siccità in Africa, Sudest asiatico, Sud America, India, Etiopia, Australia orientale e diverse isole del Pacifico occidentale tropicale.

Sempre lo scorso novembre il Washington Post riportava le segnalazioni di diversi osservatori secondo i quali le temperature all’Artico erano più alte della norma di circa venti gradi, mentre una vasta area di aria fredda si era spostata sulla Siberia. A questo si aggiungeva un più lento ricongelamento dell’acqua: la superficie della banchisa polare, infatti, normalmente raggiunge l’estensione minima a settembre, poi comincia a riformarsi. Ma quest’anno, almeno fino a novembre, lo ha fatto più lentamente del solito. L’area ghiacciata, riportava il quotidiano statunitense, era ancora più ridotta di quanto non fosse nel 2012, anno in cui l’estensione dei ghiacci aveva toccato i suoi minimi storici.

Fiume Kwanza, in Angola.

La situazione dei gas serra

Quanto ai dati sulla concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, riportava ancora il comunicato del Wmo, sembravano mostrare a novembre una tendenza al rialzo: nel 2015 la concentrazione media di anidride carbonica – il gas serra ritenuto più «colpevole» del riscaldamento globale – aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm) e, sebbene le medie 2016 non siano ancora disponibili, l’agenzia meternorologica riportava valori registrati sino a novembre dell’anno scorso in diverse stazioni di rilevazione nel mondo. Quella di Mauna Loa (Hawaii) aveva rilevato a maggio 407,7 ppm, il più alto valore mensile mai registrato. Diverso invece il trend delle emissioni di anidride carbonica, che si attestano su livelli praticamente stabili per il terzo anno consecutivo, nonostante un aumento del Pil mondiale pari al 3,4 per cento nel 2014 e al 3,1 nel 2015. La Iea, Agenzia internazionale dell’energia, rimarca che nei tre precedenti momenti storici in cui si era registrata una diminuzione delle emissioni – nei primi anni Ottanta, nel 1992 e nel 2006 -, la riduzione era associata a una «frenata» dell’economia mondiale; il dato attuale invece sarebbe imputabile alla progressiva sostituzione di fonti di energia da parte di Cina e Stati Uniti, i primi due paesi al mondo per emissioni di CO2 e responsabili, rispettivamente, del trenta e del quindici per cento delle emissioni stesse. Per quanto riguarda la Cina, «la ristrutturazione economica nella direzione di industrie a consumo energetico più basso e gli sforzi del governo per produrre energia elettrica usando sempre meno il carbone ha spinto in basso il consumo di quest’ultimo. Nel 2015 il carbone ha generato meno del settanta per cento dell’elettricità cinese (nel 2011 ne produceva l’ottanta per cento) mentre le fonti energetiche che comportano meno emissioni di CO2 – in particolare energia idroelettrica ed eolica – sono balzate dal 19 al 28 per cento. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno visto una riduzione delle emissioni pari al due per cento principalmente a causa del passaggio dal carbone al gas naturale. In aumento risultano invece le emissioni da parte di altri paesi asiatici e di quelli mediorientali mentre anche l’Europa segna un lieve incremento.

Cop22, i risultati

Quella di Marrakech è stata una Conferenza delle Parti (Cop) della diplomazia e del lavoro preparatorio. E non poteva che essere così. L’accordo di Parigi (si veda MC 5/2016), risultato della precedente Cop, prevede fra le altre cose, di contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali – facendo tuttavia il possibile per non superare gli 1,5° C – e di supportare attraverso fondi ad hoc i paesi più esposti ai danni prodotti dal cambiamento climatico, che spesso corrispondono ai paesi più poveri. L’accordo, entrato in vigore il 4 novembre 2016 e ratificato da 112 paesi su 197, richiede tuttavia un piano per essere attuato. Ed è di questo che si è discusso a Marrakech, stabilendo che il 2018 è la scadenza per definire i dettagli e i regolamenti che metteranno in atto l’accordo.

Carbon Brief, sito britannico di informazione su clima e politiche energetiche finanziato dalla European Climate Foundation – del cui consiglio fa parte quella Mary Robinson che è stata inviata speciale Onu per El Niño e il Clima – descrive così l’effetto dell’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa: «la più grande domanda che aleggiava sulla Cop22 era: [il nuovo presidente] deciderà di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi? Potrà quest’ultimo sopravvivere a un così duro colpo? Gli stornici negoziatori hanno continuato il loro lavoro nonostante una minaccia sostanziale, sebbene non confermata, incombesse. E il ritornello della conferenza è presto diventato: l’accordo di Parigi è più grande di qualsiasi paese o di qualsiasi particolare capo di stato. Saranno i prossimi quattro anni a dimostrare se è davvero così».

Deserto del Chalbi vicino a North Horr, Kenya.

Le critiche: per chi troppo, per chi troppo poco

James Hansen è l’ex direttore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, l’attuale direttore del Program on Climate Science, Awareness and Solutions alla Columbia University ed è considerato uno dei padri degli studi sul cambiamento climatico. La sua valutazione dell’accordo di Parigi all’indomani della sua adozione alla Cop21 era stata tutt’altro che lusinghiera: «È una frode, un falso» aveva dichiarato in un’intervista al britannico Guardian. «È una stupidaggine dire: “diamoci l’obiettivo dei due gradi e poi incontriamoci ogni cinque anni per cercare di fare meglio”. Sono parole vuote. Non c’è azione, solo promesse. Finché i combustibili fossili continuano ad essere i meno costosi, si continuerà a bruciarli». A Parigi aveva proposto di mettere una «quota, perché la parola “tassa” fa scappare la gente a gambe levate», di 15 dollari per tonnellata di carbonio che aumenti di 10 dollari l’anno, generando introiti pari a 600 miliardi solo negli Usa. Ma nessuno, nemmeno i gruppi ambientalisti, ha accolto la sua proposta.

E se quella di Hansen è una critica al troppo poco che, a suo dire, si sta facendo, non mancano le critiche dall’altro versante: quello dei cosiddetti climate change deniers, i negazionisti del cambiamento climatico, per i quali il clamore (e il giro d’affari) intorno all’argomento è fin troppo.

Valle Susa, Salbertrand (To)

I negazionisti

Le posizioni negazioniste si possono (brevemente e non esaustivamente) riassumere così: i negazionisti «duri e puri» che sostengono non ci sia nessun cambiamento climatico; i negazionisti più morbidi, secondo i quali il cambiamento climatico c’è ma non è indotto dall’uomo o almeno non in maniera determinante né chiaramente quantificabile; un ultimo gruppo, che negazionista non è ma che appare scettico rispetto alla gestione del fenomeno e sostiene che il cambiamento climatico c’è, è indotto anche dall’uomo ma è diventato un business, uno strumento di controllo attraverso l’allarmismo o, addirittura, una specie di nuova religione.

Ai negazionisti del primo gruppo possono essere ricondotti i creatori del documentario Climate Hustle (Truffa climatica), uscito lo scorso maggio negli Stati Uniti, che sostengono che il film «toglierà la maschera alla propaganda sul riscaldamento globale, mostrando quel che veramente c’è dietro questo multimiliardario imbroglio». Marc Morano, il narratore del documentario è citato dal Washington Post «come uno dei principali responsabili di campagne di deliberata disinformazione». A fargli compagnia il quotidiano statunitense mette il commentatore di Fox News, Steve Milloy, che in comune con Morano ha anche legami professionali ricorrenti con colossi dei combustibili fossili come ExxonMobile. Fra i «disinformatori» cita poi l’ex governatore dell’Alaska Sarah Palin e il magnate delle comunicazioni Rupert Murdoch.

Posizioni più moderate, sebbene scettiche, ha espresso ad esempio il senatore e premio Nobel per la Fisica 1984 Carlo Rubbia. Nel 2012 ha sostenuto che «non è riscontrabile un rapporto tra i cambiamenti climatici e le emissioni di CO2» e nel novembre 2014, durante un’audizione al Senato ha affermato che «il clima della Terra è sempre cambiato». Pensare che tenendo la CO2 sotto controllo il clima resterà invariato è un errore. Nello stesso intervento, Rubbia ha anche precisato che dal 2000 si è registrato non una crescita bensì una diminuzione della temperatura media della Terra pari a 0,2 gradi nonostante il continuo aumento delle emissioni di CO2 e che negli ultimi cento anni cambiamenti climatici si sono verificati prima che il cosiddetto effetto antropogenico (cioè l’effetto derivato dalle attività umane) esercitasse un’influenza significativa sull’ambiente. Questo non toglie che le emissioni di CO2 vadano limitate, sostiene lo studioso, che però è critico rispetto ad alcune scelte di politica energetica come quelle europee, a suo dire coercitive e costose, mentre l’investimento tecnologico in settori come quello del gas naturale ha permesso agli Stati Uniti non solo di creare business e posti di lavoro ma anche di diminuire le emissioni.

Infine, i critici più o meno feroci del cambiamento climatico o della sua gestione hanno trovato pane per i loro denti allo scoppiare del cosiddetto Climategate del 2009, quando l’hackeraggio di un server della Climate Research Unit dell’Università dell’East Anglia, Regno Unito – una delle istituzioni più autorevoli per quanto riguarda gli studi sul clima – rese pubbliche migliaia di email che i ricercatori britannici si erano scambiati fra loro e con il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, l’ente che nel 2007 vinse insieme al vicepresidente americano Al Gore il premio Nobel per la pace per l’impegno sul clima. Le email rubate vennero poi caricate su un server in Russia e da lì diffuse; dai messaggi emergeva, secondo i detrattori, la consapevolezza da parte dei ricercatori di non disporre di dati certi sul riscaldamento globale e la decisione di manipolarli per mostrare, invece, un aumento brusco delle temperature che confermasse la tesi antropogenica.

Alla pubblicazione delle email e allo scandalo che ne derivò fecero poi seguito otto inchieste – fra le quali quella della Camera dei Comuni britannica, della statunitense Agenzia per la protezione dell’ambiente e di diversi altri enti governativi e di ricerca – le cui conclusioni scagionavano i ricercatori britannici dall’accusa di aver falsificato i dati.

Le due facce di Soros

Una delle più recenti polemiche che ha investito i sostenitori della tesi del cambiamento climatico dovuto all’uomo e della necessità di affrontarlo è quello della provenienza dei finanziamenti al gruppo ambientalista di Al Gore, la ex Alliance for Climate Protection oggi Climate Reality Project. Il sito DCLeaks a giugno scorso ha fatto trapelare documenti riservati della Open Society Foundations che dimostrano l’appoggio di questa alle organizzazioni di Gore. E la Open Society Foundations è di George Soros, potentissimo e discusso magnate della finanza che da diversi decenni è molto attivo come filantropo e finanzia, fra gli altri, prestigiosi think tanks come Inteational Crisis Group o lo European Council on Foreign Relations.

La notizia che Soros ha sostenuto i gruppi di Gore (e altri enti simili) non è nemmeno una notizia, per la verità, poiché la scelta del magnate in favore della lotta al cambiamento climatico era nota da tempo; tuttavia questa informazione si è poi raccordata con quella dell’appoggio dell’uomo d’affari sia alla campagna presidenziale di Hillary Clinton sia a quelle di Barack Obama, e ha scatenato gli scettici del cambiamento climatico nel sostenere che quella del clima è una battaglia orchestrata ad arte dai poteri forti intenzionati ad usare l’allarmismo sul riscaldamento globale causato dal CO2 per creare consenso su politiche energetiche ben precise. Non bastasse, è dell’agosto 2015 la notizia che Soros ha continuato ad investire proprio in aziende produttrici di combustibili fossili, aprendo la strada alle ipotesi più disparate sulle reali intenzioni del finanziere americano: vuole semplicemente far soldi sfruttando gli ultimi colpi di coda di industrie destinate a chiudere, sostiene qualcuno; vuole dare il colpo di grazia all’industria del carbone per accelerare il passaggio alle energie pulite, sostengono altri.

Insomma, il tema è difficile e va ben oltre la già non immediata comprensione da parte del pubblico di fenomeni complessi come quelli climatici e tocca interessi giganteschi. Ad oggi, diversi studi hanno analizzato le varie ricerche sul riscaldamento globale e il risultato è stato che nella comunità scientifica l’accordo sul fatto che il riscaldamento globale è causato dall’uomo è del 97 per cento.

Fra i tentativi di dare una forma divulgativa a ciò che è accaduto al pianeta nei secoli dal punto di vista climatico va segnalato quello del sito di fumetti on line Xkcd (xkcd.com) che cita fonti usate anche dal sito SkepticalScience (www.skepticalscience.com), attivo nel cercare di spiegare la letteratura scientifica sul clima nel modo più fruibile possibile.

Chiara Giovetti




Perdenti 21: Tupac Amaru


Túpac Amaru (Cuzco, Perù, 1741 – 1781) era il pronipote di Juana Pilco-Huaco, figlia dell’ultimo sovrano inca, Túpac Amaru I, che era stato condannato a morte dagli spagnoli due secoli prima (1572). La sua formazione culturale e spirituale avvenne nel collegio dei gesuiti della sua città. Finiti gli studi, si mise in affari avviando un’attività redditizia di trasporto di prodotti minerari dall’interno del Perù ai porti. Il prestigio acquisito come apprezzato uomo d’affari e l’autorevolezza che aveva presso la sua comunità lo posero alla testa della ribellione che indios e meticci fecero scoppiare contro gli spagnoli per i tributi e le prestazioni obbligatorie di lavoro che l’autorità coloniale iberica imponeva. Egli, presentandosi come restauratore e legittimo erede della dinastia inca, mandò uomini fidati per tutto il territorio del Perù affinché si alimentasse la ribellione contro le autorità coloniali spagnole, mai però mise in discussione la lealtà alla corona di Spagna.

Caro Túpac, la conoscenza del tuo paese e della tua figura spesso si ferma ai «cliché». Ci puoi aiutare a superarli?

Sono ben felice di venire incontro a questa esigenza. Mi preme far conoscere la nostra storia.

Tu appartieni al secolo XVIII che ha visto consolidarsi, in quella che noi chiamiamo America Latina, il potere di Spagna e Portogallo.

Sì. Dopo due secoli di amministrazione iberica, pur appartenendo al glorioso popolo inca, anche io mi sentivo un leale suddito di Carlo III, Re di Spagna, monarca assoluto.

Gli spagnoli a Cuzco, nella tua città, attraverso l’azione culturale dei gesuiti, crearono delle ottime scuole per la formazione dei figli della nobiltà inca.

Anche questo corrisponde a verità. Io, così come molti altri giovani, frequentai i corsi accademici che i gesuiti tenevano nelle loro scuole aprendo i miei orizzonti sia culturali che spirituali.

Allo stesso tempo però mantenevi tutti i compiti a cui eri preposto per il culto e avevi la responsabilità di vegliare sui riti e sulle reliquie del tuo popolo.

Come membro di una delle famiglie inca più influenti ero incaricato dei riti tradizionali per onorare i defunti della nostra gente. Era mio fratello maggiore che usava tutta la sua abilità per contenere sul piano diplomatico le mire e le pretese che gli spagnoli avevano sulla nostra terra.

Ma l’opera di contenimento degli spagnoli non dava frutti.

Gradualmente prendevamo coscienza che era impossibile raggiungere accordi con i coloni spagnoli: a loro interessava solo trovare oro e argento da portare in Spagna. Per questo i nostri risentimenti nei confronti degli invasori crescevano, e con essi gli scontri. Ebbe origine una guerriglia costante tendente a sfiancare le truppe spagnole, sebbene noi fossimo armati solo di lance e frecce, mentre loro di archibugi.

La vostra era una situazione in continua ebollizione.

Pattuglie a cavallo, con la scusa di stanare coloro che non volevano convertirsi, si muovevano in tutto il nostro territorio cercando il fantomatico tesoro del Perù, ovviamente senza successo, e questo li rendeva ancora più rabbiosi.

Essendo tu parte della nobiltà nella società inca eri una preda piuttosto ambita da parte dei conquistadores.

Infatti cercai di fuggire per non farmi trovare, ma siccome mia moglie era incinta, volendo stare accanto a lei che stava per partorire, gli spagnoli ci raggiunsero. Fui fatto prigioniero, condotto a Cuzco e mi fu richiesto di abbracciare la fede cristiana.

Ma mica potevano obbligarti a convertirti?

Misero insieme le menti più brillanti del clero spagnolo presente in Perù in quegli anni e permisero loro di colloquiare con me quando volevano, anche tutti i giorni. Il loro sforzo ebbe successo e alla fine mi feci battezzare assumendo il nome di Pedro.

Nel frattempo in Europa si era avviata una disputa teologica e all’università di Salamanca a larghissima maggioranza fu affermato che anche gli indios avevano un’anima.

Proprio per questo è incredibile costatare che, mentre in Spagna veniva affermata la nostra dignità di uomini in quanto figli dello stesso Padre, a casa nostra eravamo calpestati e derisi in quanto ritenuti solo schiavi da sfruttare.

Conscio delle tue responsabilità, a un certo punto riuscisti a eludere la sorveglianza degli spagnoli e a metterti a capo di una massa di Incas che intendeva ripristinare l’antico regno.

Dopo alcune scaramucce in cui avemmo la meglio, gli spagnoli, forti di un contingente di 17mila uomini, ci sconfissero nella battaglia di Checacupe, il 6 aprile 1781, in cui io venni fatto prigioniero.

Gli spagnoli volevano risolvere il problema del regno inca eliminando tutta la classe dirigente.

Io e i miei compagni fummo condannati a morte. Molti ecclesiastici sollecitarono una misura di clemenza nei nostri confronti, ma fu inutile: il viceré di Spagna fu implacabile e, senza neppure lo straccio di un processo, decretò la condanna a morte per tutti noi. Il supplizio, nelle loro intenzioni, doveva essere esemplare per dare una lezione a coloro che non intendevano arrendersi.


Il 18 maggio 1781 Túpac Amaru venne giustiziato sulla piazza centrale di Cuzco. Affinché più nessuno osasse ribellarsi ai conquistadores, l’esecuzione fu una delle più terrificanti che si possano immaginare. Il corpo di Túpac Amaru, legato mani e piedi a quattro cavalli, indirizzati verso i quattro punti cardinali, venne squartato orribilmente. Ai cavalli, per farli correre il più lontano possibile con i resti del condannato, erano state conficcate delle spine di rovi nella pelle. Ma tanta ferocia non sortì l’effetto sperato, anzi creò la leggenda di un suddito del Nuovo Mondo leale e fedele alla corona di Spagna che si ribellò alle angherie dei conquistadores prendendo le difese della sua gente vilipesa e angariata. Gli ideali di giustizia e libertà a cui Túpac Amaru ispirò tutta la sua vita, alimentarono lungo i secoli in America Latina altri combattenti per la liberà che ne assunsero anche il nome. Basti pensare al Movimento di Liberazione Tupamaros, che in anni più vicini a noi in Uruguay, ribellandosi alla dittatura militare che con un colpo di stato aveva preso il potere nel piccolo paese affacciato sul Rio de la Plata, vollero definirsi appunto Tupamaros in omaggio al leader del passato morto combattendo per la dignità e la libertà del suo popolo.

Don Mario Bandera




Anno santo al rovescio


Abbiamo assistito, con gioia, all’apertura della prima porta santa del Giubileo a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana diventata, per l’occasione, «capitale spirituale del mondo». Un’apertura davvero missionaria. E, il 13 novembre scorso, alla chiusura delle varie porte sante sparse, con non poca fantasia, un po’ dovunque nel mondo. Mi è venuta, allora, in mente una lettera, nella quale don Tonino Bello raccontava: «Quando c’è stata l’inaugurazione dell’anno giubilare, mi sono avvicinato alla porta di ingresso della chiesa, ho battuto tre volte, la porta si è spalancata e io sono entrato nel tempio carico di luci, tutto il popolo dietro di me, la folla esultante. Io vorrei invece poter inaugurare, un giorno, un anno santo al rovescio. Tutti quanti in chiesa, il vescovo vicino alla porta chiusa, con il martello che batte, la porta che si apre e il popolo di Dio che esce sulla piazza per portare Gesù Cristo agli altri. Sì, perché oggi il problema più urgente per le nostre comunità cristiane è quello di aprire le porte che, dall’interno del tempio, diano sulla piazza… I battenti si schiuderanno. E voi, folla di credenti in Gesù Cristo, uscirete sulla piazza per un incontenibile bisogno di comunicare la lieta notizia all’uomo della strada». Questo “anno santo al rovescio”, immaginato dall’indimenticabile vescovo di Molfetta, mi è rimasto nel cuore e si è intrufolato nei sogni che normalmente si fanno all’inizio di un nuovo anno. Un anno da cominciare con la stessa ansia missionaria che viene dritta dal Vangelo e che ci è stata trasmessa dal nostro beato Fondatore, Giuseppe Allamano quando, ad esempio, con un’espressione colorita ma efficace, ci diceva: «Voi dovete essere missionari nella testa, nella bocca e nel cuore». Come dire: la Missione, l’annuncio, la testimonianza, “lo zelo (o passione) per le anime” – come si diceva una volta – sono i fili di una normalissima trama, entro cui dovrebbero scorrere i giorni che il Signore ci concederà in questo nuovo anno di grazia. Uscendo, condividendo, incontrando, facendo vedere, senza timori o paure, che il Signore Gesù è… la cosa più bella che potesse capitarci. E desiderando che gli altri lo sappiano. Per prolungare, così, quell’ondata di misericordia che l’Anno santo appena concluso ci ha spinto ad assumere come Dna della nostra identità cristiana. E per non essere missionari a metà, ma «nella testa, nella bocca e nel cuore». Auguri!

Giacomo Mazzotti

Leggi tutto nello sfogliabile




Sommario mc dicembre 2016

 


Dalla lettera a Gesù Bambino al dossier sulle droghe e la tossicodipendenza, questo numero spazia dal Congo Brazzaville alla Repubblica del Condo, dall’Ecuador al Brasile, dal Sudafrica all’Europa. In questo numero si conclude anche la storia del Giubileo, scritta da Paolo Farinella, prete.


Caro Gesù Bambino
di Gigi Anataloni | editoriale                   link al pdf sfogliabile | link a visione classica


2016_12-mc-sm_pagina_35_resizeDossier

Droghe e tossicodipendenze – Non è il paese delle meraviglie
Testi di: Luana Oddi, Sandro Calvani, Domenico Cravero e Paolo Moiola
Foto di: Chiara Grimoldi – A cura di: Paolo Moiola
dossier                                                    link al pdf sfogliabile | link a visione classica

 


Articoli

2016_12-mc-sm_pagina_10_resizeFocus sulla repubblica del Congo Brazzaville: petrolio, legname e diritti /2
Lo spettro della guerra
di Marco Bello
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

2016_12-mc-sm_pagina_16_resizeGiustizia di transizione. Le Commissioni per la Verità / 1
Nello spirito dell’Ubuntu
di Annaliza Zamburlini
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

2016_12-mc-sm_pagina_22_resizeCos’è «Ico», la rete mondiale delle città di accoglienza
Voci (perseguitate) fuori dal coro
di Giulia Bondi
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

2016_12-mc-sm_pagina_27_resizeGli «Incontri Matrimoniali» accolgono la sfida del Papa
Amoris Laetitia e famiglia missionaria
di Mario Barbero
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

2016_12-mc-sm_pagina_30_resizeEsperienza educativa al Kilombo do Kioiô
Dal Folclore, cultura e vita
di Diniz Viera
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

2016_12-mc-sm_pagina_51_resizeStorie e volti di radio /7
La fatica di essere diversi
di Paolo Moiola
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

2016_12-mc-sm_pagina_58_resizeNel Nord Kivu, un missionario a fianco del popolo della foresta
Piccolo uomo, fratello mio
di Silvia C. Turrin
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

 


Rubriche

Cari Missionari
risponde il Direttore | lettere dei lettori  
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto
link al pdf sfogliabile

Tra i due Concili Vaticani – Giubileo 13 (fine)
di Paolo Farinella | Così sta scritto
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

«Dopo di noi», una legge e la disabilità
di Rosanna Novara Topino | Nostra Madre Terra
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

2016_12-mc-sm_pagina_62_resizeCampagna di Natale 2016
3 realtà, 1 obiettivo: istruzione contro povertà
di Chiara Giovetti | Cooperando
               link al pdf sfogliabile | link a visione classica

20. Etty Hillesum, la Forza dentro
di Mario Bandera | I Perdenti
               
  link al pdf sfogliabile | link a visione classica

2016_12-mc-sm_pagina_69_resizeAmico,
dieci pagine di missione giovane per raccontare un estate speciale

a cura di Luca Lorusso
              link al pdf sfogliabile | link a visione classica

Rigoberta, il riscatto maya
Gianni Minà | Persone che conosco
link al pdf sfogliabile | link a visione classica

Indice dell’annata 2016
con ricerca per area geografica, rubriche, tematiche di interesse, personaggio e popoli

a cura della Redazione
link al pdf sfogliabile




Dossier droghe


Vai al Dossier Droghe e tossicodipendenze


Glossario essenziale

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

Dipendenza – Tossicomania – Craving

La dipendenza è considerata dall’OMS una malattia cronica ad andamento recidivante, che riconosce come eziopatogenetici fattori biologici, sociali e psicologici. Più corretto è parlare di addiction cioè di tossicomania: «condizione psichica caratterizzata da un comportamento sostenuto da una forte spinta (craving) intensa, sintonica e ricorrente verso la consumazione di un oggetto o di un atto, senza la capacità di limitare il comportamento anche in presenza di condizioni che producono conseguenze negative sul grado di accettazione e soddisfazione individuale» (Maremmani, Pacini – manuale trattamento ambulatoriale con metadone). Da un punto di vista neurobiologico la tossicodipendenza da eroina è un disordine del comportamento appreso e indotto dall’uso cronico delle sostanze alla cui base sono presenti precise alterazioni del sistema della motivazione e della gratificazione. Dal punto di vista comportamentale la dipendenza è caratterizzata da: perdita di controllo sull’uso; ricerca compulsiva della sostanza indotta dal craving (desiderio intenso, ossessivo e urgente per una sostanza psicoattiva, per un cibo o per qualunque altro oggetto o comportamento gratificante), uso delle sostanze nonostante le conseguenze negative.

Disforia

Alterazione dell’umore in senso depressivo, ma associata ad agitazione e irritabilità, sensazioni di frustrazione, fino a manifestazioni di aggressività sia fisica che verbale.

Free base

Sostanza ottenuta trattando il cloridrato con etere ed ammoniaca, che evapora sotto il calore generato da un apposito cannello (base pipe), permettendone la inalazione. Viene da molti considerato come una versione «europea» del crack e come quest’ultimo agisce rapidamente, con alto rischio di intossicazione acuta. La stessa letteratura scientifica è spesso ambigua nella classificazione e differenziazione di queste due forme di cocaina. In realtà entrambe queste forme hanno le stesse caratteristiche chimiche, essendo entrambe forme alcaloidi, e come tali fumabili, della cocaina, ma si usano con tecniche differenti. La cocaina freebase si ottiene dissolvendo, a caldo, la cocaina cloridrato nell’acqua e quindi aggiungendo una sostanza basica come l’ammoniaca. A tale soluzione viene aggiunto l’etere, solvente organico che ne permette l’estrazione per vaporizzazione. Tale sistema permette la rimozione di tutte le sostanze adulteranti solubili in acqua, dalla quale viene separato l’estratto in forma di piccoli cristalli, che sono pertanto più «puri» in quanto privi o contenenti minime quantità di sostanze da taglio. A causa della possibile permanenza di etere, però, i fumatori di cocaina sono ad alto rischio di ustioni, in quanto l’etere può causare esplosioni a contatto con la fiamma.

Merla – Oxi

Nel Nord America un’altra tipologia di cocaina fumata è la cosiddetta «Merla», un preparato fangoso derivato della cocaina contenente un’alta percentuale di solventi, in particolare acidi ottenuto da batterie per auto, a volte in combinazione con diversi solventi organici. Anch’esso riconosce il Brasile come terra originaria di provenienza.

Più recentemente un altro analogo del crack è circolante in Brasile, l’«oxi», una denominazione, che sta per oxidation e coniata dagli stessi consumatori di droga dello stato di Acre (situato nella parte nord-ovest della foresta pluviale amazzonica), da dove tale droga si sta diffondendo raggiungendo le principali città del Brasile, come Manaus e Brasilia, e negli scorsi anni, anche gli stati dell’America del nord. È fatta di avanzi di pasta di cocaina cucinati con quantità variabili di benzina o kerosene e calce (la diversa proporzione tra tali sostanze determina il colore della oxy, variabile dal viola al giallo al bianco). L’oxy, può essere fatta rientrare nel gruppo di quelle sostanze psicostimolanti diffusesi nel periodo della crisi e accomunate dai bassi costi e dalla facilità di produzione, così da poter essere sintetizzate in casa, dando una soluzione all’impossibilità di poter accedere alle sostanze del mercato della droga per mancanza di risorse monetarie. Tutto ciò a prezzo di danni fisici conseguenti all’uso, nella fase di preparazione, di additivi di scarsa qualità e spesso tossici.

Piramide di Maslow

La piramide dei bisogni di Maslow è una scala gerarchica dei bisogni, su cui si basa il modello motivazionale proposto nel 1954 dallo psicologo Abraham Maslow. Essa prevede la disposizione dei bisogni, dalla base al vertice della piramide, partendo da quelli primari (bisogni essenziali alla sopravvivenza), fino a quelli, salendo, più immateriali: la soddisfazione dei primi permette la elaborazione ed emersione di quelli superiori, più complessi. Sinteticamente le 5 classi di bisogni individuati da Maslow sono: i bisogni fisiologici (fame, sete, sonno); di salvezza (protezione e sicurezza); di appartenenza (essere amato e amare, far parte di un gruppo, partecipare, ecc.); di stima (essere rispettato, approvato, riconosciuto, ecc.); di autorealizzazione (realizzare la propria identità, occupare un ruolo sociale, ecc.).

Psicostimolanti

Sono le sostanze in grado di esplicare un’azione eccitante. Il più noto psicostimolante è la caffeina, la droga di uso più comune, che si trova in eguale quantità in the e caffè (circa 100-150 mg per tazza), nonché nel cacao e nelle bevande alla cola (circa 50 mg per tazza). Anche se si tratta senz’altro della sostanza psicostimolante più blanda, una overdose di caffeina può causare sovrastimolazione, tachicardia e insonnia. Tra gli altri psicostimolanti vi sono oltre la cocaina, la nicotina, gli antideoressivi e le anfetamine, quest’ultime causa di sensazioni di euforia particolarmente intense.

Sostanze psicotrope

Per sostanza ad azione psicotropa (o farmaco psicotropo o psicotropo) si intende un qualsiasi medicamento o principio attivo in grado di agire sulle funzioni psichiche e sul SNC, si da modificarle. Gli effetti psicotropi si riferiscono a tali modificazioni che possono essere di tipologia differente: depressiva (psicolettica), eccitatoria (psicoanalettica) e di alterazione (psicodislettica).

Ser.T

Acronimo di «Servizi per le Tossicodipendenze», che sono servizi pubblici ad accesso gratuito e diretto: non è richiesto il pagamento di ticket, né la richiesta del medico di base. In molte regioni le aziende sanitarie hanno mutato tale sigla in Ser.D. ad indicare, più correttamente, un servizio deputato alla cura delle Dipendenze Patologiche sia quelle derivanti dal consumo di una sostanza (tossicodipendenze) sia quelle cosiddette comportamentali o «senza» sostanza (gioco patologico, shopping compulsivo, web addiction, ecc.).

Servizi a bassa soglia

Nel campo delle tossicodipendenze si parla di bassa soglia qualora ci si riferisca a quei servizi che sono facilmente accessibili agli utenti e, come tali, anche in grado di raggiungere la potenziale utenza costituente il cosiddetto sommerso (persone che potrebbero aver bisogno di cure, ma non riescono a raggiungere i servizi stessi), andando loro incontro (lavoro di outreach, fuori dalle strutture). Per essere a bassa soglia di accesso, un servizio deve richiedere pochi ed essenziali requisiti alla persona, accogliendo questa nella sua condizione socio-sanitaria attuale. Per le dipendenze ciò si traduce in assenza di vincoli burocratici (accesso anche a persone senza una residenza anagrafica o stranieri non regolari) e di richiesta di disintossicazione o di trattamento volto all’interruzione del consumo.

Disturbo da uso

Nel DSM 5 l’uso patologico di sostanze psicoattive viene incluso nella categoria dei Disturbi Correlati a Sostanze, comprendenti sia i disturbi secondari all’assunzione di una sostanza di abuso (incluso l’alcornol), sia i Disturbi da Uso di Sostanze, che raggruppa in un’unica categoria sia la dipendenza che l’abuso.

Recidiva

Come da dizionario: «Ricomparsa dei sintomi di una malattia in un paziente che ne era stato colpito in precedenza e che ne era guarito». Nel caso dei disturbi da uso, la recidiva si riferisce alla ripresa delle condotte consumatorie e alla riattivazione del craving.

Anedonia

Come da dizionario medico; «incapacità di provare piacere», quadro psico-emotivo spesso associato alla depressione.


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

A cura di Luana Oddi
(medico tossicologo presso il Sert di Reggio Emilia)

Rapporti e relazioni

  • European Monitoring Centre for Drugs and Drugs Addiction (Emcdda) – Europol, EU?Drug Markets Report. In-depth Analysis, Lisbona 2016; http://www.emcdda.europa.eu
  • United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), World Drug Report 2016, Vienna 2016; http://www.unodc.org
  • Global Commission on Drugs, Guerra alla droga – Rapporto, Ginevra 2011; http://www.globalcommissionondrugs.org
  • Goveo italiano-Dipartimento politiche antidroga-Presidenza del Consiglio dei ministri, Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, Roma 2015; http://www.politicheantidroga.gov.it

Testi in inglese

Bastos FI, Bertoni N. Mendes A, et al. Smoked Crack cocaine in contemporary Brazil: the emergence and spread of Oxy. Letters To Editor. Addiction, 2011;106, 1190–1193.

Duff P, Shannon K, et al. Sex-for-Crack exchanges: associations with risky sexual and drug use niches in an urban Canadian city. Harm Reduction Joual, 2013;10:29.

Cruz MS, Fischer B, et al. Pattes, determinants and barriers of health and social service utilization among young urban crack users in Brazil. BMC Health Services Research, 2013;13:536.

DeBeck K, Wood E, et al. Public crack cocaine smoking and willingness to use a supervised inhalation facility: implications for street disorder. Substance Abuse Treatment, Prevention, and Policy, 2011;6:4.

EMCDDA. Cocaine and ‘base/crack’ cocaine 2001, selected issue. Annual report on the state of the drugs problem in the European Union, 2001.

Galera SAF. Coping with crack consumption. Rev. Latino-Am. Enfermagem, 2013;21(6):1193-4.

Guedes da Silva FJ Jr and Ferreira de Souza Monteiro C. The meanings of death and dying: the perspective of crack users. Rev. Latino-Am. Enfermagem, 2012;20(2):378-83.

Krawczyk N, Veloso Filho CL and Bastos FI. The interplay between drug-use behaviors, settings, and access to care: a qualitative study exploring attitudes and experiences of crack cocaine users in Rio de Janeiro and São Paulo, Brazil. Harm Reduction Joual, 2015;12:24.

Mendonca M, Silveira DX, Fidalgo TM. Injection of crack cocaine: a case report. Rev Bras Psiquiatr, 2015;37:80.

Nutt DJ, King LA, Phillips LD. Drug harms in the UK: a multicriteria decision analysis on behalf of the Independent Scientific Committee on Drugs. The Lancet, 2010.

Roselli Marques ACP, Laranjeira MR, Carvalho de Andrada N. Abuse and addiction: crack. Rev Assoc Med Bras 2012; 58(2):141-153.

Roy E, Bourgois P, et al. Drug use pattes in the presence of crack in downtown Montréal. Drug Alcohol Rev, 2012;31(1):72–80.

Seleghim MR, Marangoni SR, Marcon SS, Felix de Oliveira ML. Family ties of crack cocaine users cared for in a psychiatric emergency department. Rev. Latino-Am. Enfermagem, 2011;19(5):1163-70.

Sterk CE, DePadilla L, et al. Neighbourhood structural characteristics and crack cocaine use: Exploring the impact of perceived neighbourhood disorder on use among African Americans. Int J Drug Policy, 2014;25(3):616–623.

Ti L, Kerr T, et al. Difficulty accessing crack pipes and crack pipe sharing among people who use drugs in Vancouver, Canada. Substance Abuse Treatment, Prevention, and Policy, 2011;6:34.

Ti L, Kerr T. Factors associated with difficulty accessing crack cocaine pipes in a Canadian setting. Drug Alcohol Rev, 2012;31(7):890–896.

Articoli in italiano

EMCDDA. Relazione annuale sull’evoluzione del fenomeno della droga nell’Unione europea, 2001.

EMCDDA. Relazione europea sulla droga. Tendenze e sviluppi, 2016

Zuffa G. Cocaina, il consumo controllato. Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2010.

Zuffa G, Voller F, et al. Indagine sull’uso di sostanze legali e non nel mondo giovanile: i modelli, i contesti e le traiettorie dei consumi. ARS edizioni, 2012.

Libri in italiano

AA.VV., Cocaina. Consumo, psicopatologia, trattamento, Edz, Cortina Editori, 2009.

Aao G. Cocaina e crack. Usi, abusi e costumi, Edz. Feltrinelli, 1993.

Carlotto M, Carofiglio G, De Cataldo G., Cocaina, Edz. Einaudi, 2012.

Gessa GL., Cocaina, Edz Rubbettino, 2008.

Samorini G., Animali che si drogano, Edz. Shake, 2013.

Taussing M., Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca, Edz. Mondadori Bruno, 2007.




Storia del giubileo 13: due concili vaticani


Pio IX, papa Mastai Ferretti, suo malgrado esautorato da ogni forma di potere civile e politico, si chiuse in Vaticano, dichiarandosi prigioniero in casa propria, ma circonfuso della gloria della dichiarazione conciliare dell’«infallibilità», che seppur circoscritta nella forma, fu diffusa come una prerogativa assoluta e indiscutibile della persona del papa. Paradossalmente, la perdita del potere temporale contribuì non poco a incrementae l’autorità, trasformandolo, spiritualmente, in un monarca assoluto e indiscutibile quasi sinonimo esclusivo di «Chiesa».

Dal Giubileo del lutto del 1875 a quelli spirituali del sec. XX

Il papa, per non darla vinta alla masnada massonica di Casa Savoia, scomunicò Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, insieme all’artefice del Risorgimento, Camillo Benso conte di Cavour, e non si affacciò più al balcone esterno di San Pietro, dirottando tutte le manifestazioni religiose all’interno della basilica. Per il giubileo del 1875, in segno di lutto, ordinò di non eseguire il rito dell’apertura della porta santa, in compenso escogitò ogni casistica possibile per universalizzare l’evento e dare in tal modo uno schiaffo morale agli «invasori». Nonostante fosse prigioniero, il papa era sempre il vescovo universale della Chiesa cattolica che, in tutto il mondo, ne venerava l’autorità indiscussa.

Nel 1900 Leone XIII, il papa che per primo si rese conto di una «questione sociale» ben più grave della «questione romana», celebrò il giubileo secolare che apriva il XX secolo nel segno dell’attenzione alla spiritualità piuttosto che al risultato numerico ed esteriore. Le nazioni che per definizione erano «cattoliche», di fatto cominciavano a non esserlo più nell’era dell’industrializzazione e della grande sperequazione causata dallo sfruttamento del mondo operaio che spopolò le campagne per ammassare folle senz’anima in città impreparate. Paesi come la Francia e l’Italia, per ragioni diverse, diventarono «paesi di missione» e in quest’ottica Leone XIII consacrò il mondo al Sacro Cuore, nel tentativo di dare una chiave spirituale ai movimenti cattolici che si opponevano a qualsiasi rinnovamento sociale e religioso e allo stesso giubileo, dal momento che «il maggior bisogno dei tempi modei è il ritorno della società allo spirito cristiano» (Encicl. De Jesu Cristo Redemptore, 1900).

Il giubileo del 1900 fu usato da parte cattolica e combattuto da parte laica in chiave politica, per accentuare il prestigio del papa da un lato, o per dimostrare che solo lo stato poteva essere garante di libertà dall’altro. La stampa cattolica arrivò a parlare di «plebiscito giubilare» in contrapposizione al «plebiscito civile» del 1870 quando il popolo romano non mosse un dito per difendere il papa dagli invasori di Porta Pia. Lo scopo era evidente: si voleva arrivare a un accordo e ciascuno cercava di portare a casa propria più vantaggi possibili. Le questioni e gli eventi di questo giubileo di inizio secolo furono così tanti e così complessi che lo spazio a nostra disposizione non ci consente di affrontarli nemmeno superficialmente, per cui rimandiamo a qualche resoconto specifico, oggi reperibile facilmente.

Il giubileo del 1900 mutò lo statuto del pellegrino, il romeo che compiva il viaggio a piedi, trasformandolo in turista religioso, attraverso l’estensione delle ferrovie che, in quell’anno, a livello mondiale, raggiungeva ben 700 mila km. I treni viaggiavano anche a 50 km all’ora, accorciando notevolmente le distanze, abbassando i costi e limitando la perdita di giornate lavorative al minimo indispensabile. Non si spostarono più solo piccoli gruppi, ma comitive organizzate di migliaia di persone, il che favorì un turismo religioso di masse popolari, altrimenti escluse, e che mai si erano allontanate dai luoghi di nascita. Tutto questo non poteva non avere conseguenze «spirituali» perché, se il viaggio a piedi era simbolo sacramentale del pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste, ora la maggior parte del tragitto si consumava comodamente in treno. Cambiò anche lo statuto e il significato stesso di giubileo che divenne un percorso spirituale più intimistico, guidato e sostenuto da sussidi fatti appositamente, come opuscoli-guida, catechismi, foglietti per inculcare la necessità della confessione e le disposizioni per la comunione, a determinate condizioni, e definitivamente superò l’obbligatorietà della visita «a piedi» delle basiliche prescritte.

Mons. Giacomo Radini Tedeschi, futuro vescovo di Bergamo, di cui sarà segretario Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII, fu responsabile dell’organizzazione religiosa dei pellegrinaggi popolari del 1900 e l’ideatore dei «congressi», in parte anche scientifici, durante l’anno giubilare, che diventeranno norma anche per i giubilei del sec. XX. Per citae alcuni: il congresso internazionale dell’archeologia cristiana; il XVII congresso dei cattolici italiani e anche degli Studenti Cattolici Universitari, della Gioventù Cattolica, dei Terziari Francescani. L’elenco potrebbe continuare.

I giubilei tra le due guerre, tra fascismi e concordati

Il sec. XX, «secolo breve»», il più secolarizzato e scristianizzato della storia, annovera il più gran numero di giubilei della storia, segno che questo istituto era diventato strumento ordinario di governo della Chiesa. A seconda di come si considerano alcuni giubilei, se ne contano quattro «normali» (1900, 1925, 1950 e 1975), cui bisogna aggiungee altri di vario genere: uno formalmente per il 50° anniversario di ordinazione sacerdotale del papa stesso (1929), di fatto per celebrare la firma dei Patti Lateranensi con cui si pose fine alla «questione romana», aperta con l’unità d’Italia che tolse al Papa il potere temporale del regno pontificio; due della Redenzione (1933 e 1983) e addirittura due «mariani» (1954 e 1988), più uno per la gioventù (14-15 aprile 1984).

Il giubileo del 1925 si svolse dopo la fine della 1ª guerra mondiale, «l’inutile strage», come ebbe a definirla il papa genovese, Benedetto XIV, mentre la rivoluzione russa di Lenin (1918) scalzava lo zar e instaurava il comunismo, ateo per ideologia. In Italia Mussolini si assunse la pateità dell’omicidio di Giacomo Matteotti e concentrò su di sé il potere dittatoriale d’Italia (3 gennaio). In Germania iniziava l’ascesa di Hitler. Pio XI, per contrastare l’illusione di un’antropologia politica finalizzata a istaurare una religione civile, istituì la festa di Cristo Re che ebbe grande successo in Europa, dando impulso a uno spirito missionario non solo in terra di missione, ma anche a Roma, in Italia, in Europa e in Occidente. L’emblema di questo spirito fu la canonizzazione di Teresina di Lisieux, proclamata patrona delle missioni perché, pur senza mai spostarsi dal suo Carmelo, visse col desiderio di dare la propria vita alle missioni, e quella del Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, proclamato patrono del clero. La manifestazione più simbolica fu la Mostra Missionaria Mondiale, quasi una «Expo della fede» (A. Melloni), cui collaborò anche il giovane prete Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII, al tempo responsabile dell’Opera Missionaria Italiana. Durante il giubileo, la casa regnante dei Savoia sospese tutte le feste e i ricevimenti, lo stesso fecero gli uffici diplomatici e la nobiltà romana. Il carnevale fu rimandato, la logistica e l’accoglienza dei pellegrini che giungevano da tutto il mondo furono facilitati e favoriti, quasi a tendere una mano al Vaticano. Segni, come in un linguaggio cifrato, d’intese segrete che porteranno alla firma sia del Trattato sia del Concordato del 1929, con cui il papa cessava di rivendicare il potere temporale, ormai inutile, e si accontentava di quello morale e spirituale che avevano accresciuto la sua statura anche politica non solo in Italia. Tutto con un risarcimento in obbligazioni della stato italiano e la nascita del nuovo stato «Città del Vaticano». Il papa usciva purificato dall’avere perduto un regno di questo mondo che non gli apparteneva, e risultava ancora più forte e potente perché, libero da qualsiasi condizionamento, diventò figura sempre più simbolica e per questo potentemente condizionante anche sul piano politico, come la storia dell’ultimo secolo ha ampiamente dimostrato fino all’avvento del papa argentino, Francesco.

Il giubileo dell’onnipotenza senza regno

Il 1950 fu il giubileo della fine della seconda guerra mondiale, dell’inizio della «guerra fredda» con la conseguente divisione del mondo in due zone – Occidente/Usa e Oriente/comunismo – e della ricostruzione dell’Italia del dopo guerra. Al governo vi erano uomini cattolici indiscussi, come Alcide De Gasperi, e Roma ebbe un nuovo imperatore, papa Pio XII, che si offrì come unica autorità morale e politica che di fatto condizionò il parlamento italiano, il governo, l’economia e il paese, attraverso il cosiddetto «partito cattolico» della Democrazia Cristiana, erede del più laico e sano «Partito Popolare» di don Luigi Sturzo. Sul piano religioso, Pio XII fu un faraone che, dall’alto della sua sedia gestatoria imperiale, dominava non una Chiesa, ma una cristianità rigorosamente separata in clero e laicato, con quest’ultimo sottomesso al primo. Con l’escamotage della formazione delle coscienze, il clero sottomise i laici che erano sempre e solo «chiesa obbediente e ossequiente». Pio XII non fu scevro da una componente psicologica narcisistica, sfociata nel culto della personalità che lo portò a isolarsi e a diventare diffidente tanto da assommare in sé anche le funzioni subaltee, fino al punto di non nominare neppure il Segretario di stato, ruolo delicato e importante che riservò per sé, limitandosi ad avere due «sostituti» nelle persone di Domenico Tardini e Giovanni Battista Montini, il primo Segretario di stato di Giovanni XXIII e il secondo futuro Paolo VI.

Durante il corso del giubileo ci furono tre eventi, attentamente studiati e programmati da Pio XII nel contesto della sua politica.

  1. La beatificazione di Maria Goretti (24 giugno), una ragazzina che lottò contro il suo assassino per difendere la propria verginità, proclamata modello della gioventù del nuovo secolo, contro il rilassamento generale dei costumi che il dopo-guerra e la cultura statunitense avevano diffuso.
  2. L’enciclica «Humani Generis» (12 agosto) con cui il papa condannò gli «errori» che, secondo lui, minacciavano le fondamenta della religione cattolica, come lassismo, relativismo teologico, alcune interpretazioni della Scrittura e anche la teoria dell’evoluzionismo. Senza mai nominarli condannò l’insegnamento di giganti della teologia come Chenu, Congar, De Lubac e tanti altri che nemmeno dodici anni dopo sarebbero stati gli artefici del concilio Vaticano II che sancirà il loro insegnamento e le loro ricerche non solo come «cattoliche», ma come essenziali nel cammino di fede dell’intera Chiesa.
  3. La proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria al cielo (1 novembre) che vide un’enorme partecipazione di vescovi, popoli e autorità da tutto il mondo. Per la prima volta da ogni parte della terra si poté «partecipare» agli eventi sfavillanti del giubileo attraverso la radio e la tv che moltiplicherà l’impatto emotivo dei riti e della figura del Papa.

Quando tutto stava per concludersi secondo la norma e la prassi, Pio XII tirò fuori un colpo di scena, inatteso e travolgente: la vigilia di Natale del 1950, dopo avere sigillato la porta e pochi istanti prima di concludere il giubileo, annunciò personalmente al mondo il ritrovamento della tomba di Pietro che gli scavi archeologici nei sotterranei della basilica vaticana avevano confermato e certificato. La notizia si diffuse come un baleno in tutto il mondo, eccitò gli animi dei credenti e maggiormente dei non credenti, scienziati, storici e studiosi. A completare la notizia e quasi a prolungare la soddisfazione di avere posto ancora una volta il papato al centro del mondo, nonostante il mondo, Pio XII estese a tutto il 1951 le prerogative e le indulgenze dell’anno santo in corso. Ormai anche la Chiesa entrava nell’era della mondialità e ne approfittò. Se nel vangelo di Giovanni (12,20) i Greci aspiravano di «vedere Gesù», ora i pellegrini veri e anche quelli a domicilio, mediante radio e tv, anelavano solo a «vedere il papa» e questo gli bastava.

Il giubileo dubbioso e l’ingresso nel III Millennio

Nel 1975, dieci anni dopo la fine del Vaticano II, toccò a Paolo VI, il papa dubbioso per natura, celebrare il giubileo più controverso dell’età modea. Egli s’interrogò sulla necessità stessa di indire un giubileo e vi oppose obiezioni sostanziali: il concilio aveva indirizzato a una religiosità comunitaria piuttosto che di massa; la società era pluralistica e non più maggioritariamente cattolica; uno spirito secolare attestato era fonte di un sentire diffuso anticristiano per cui il giubileo avrebbe potuto essere controproducente; parlare di «indulgenze» sarebbe potuto apparire fuori luogo nel contesto di un cammino ecumenico ormai irreversibile; la «nuova teologia» andava crescendo e gli studi biblici avevano ricevuto un grande impulso dal superamento della paura di una condanna; vi era stato il referendum sul divorzio (1974), battaglia persa amaramente, in modo personale dal papa che si lasciò coinvolgere in una crociata senza senso da Amintore Fanfani, creando un evento traumatico per il cattolicesimo italiano tradizionalista e ancora sognante il ritorno alla «cristianità» medievale.

Il 9 maggio 1973, nell’indirlo, durante un’udienza pubblica, Paolo VI disse: «Ci siamo domandati se una simile tradizione [del giubileo] meriti di essere mantenuta nel nostro tempo…». Poi prevalse il rispetto della tradizione da attuare nei tempi nuovi, con spirito nuovo e più spiritualizzato. Il giubileo diventò non più espressione di fede, ma appello alla purificazione della religiosità per una ripresa più consapevole e genuina della fede in Gesù Cristo.

Il giubileo spartiacque tra il 1° e 2° millennio cristiano fu quello indetto dal papa polacco, Giovanni Paolo II, che stabilì sette anni di preparazione, quasi con un atteggiamento apocalittico. Il giubileo ebbe due epicentri: Roma e Gerusalemme, dove, per la prima volta, un papa ritoò «ufficialmente» dopo 2000 anni dalla partenza di Pietro per Roma, luogo che l’apostolo consacrò dando la vita per il suo Signore (la visita di Paolo VI nel 1965 a Gerusalemme fu una visita in terra di Giordania e non un ritorno in Palestina).

Chi scrive viveva stabilmente a Gerusalemme e fu testimone del ritorno di Pietro, quasi un bisogno di essenzialità e povertà che rimase come desiderio e tensione, ripresi oggi da papa Francesco che proclama il giubileo della Misericordia, offrendo ai credenti e al mondo il progetto di Chiesa delineata da Giovanni XXIII, nel discorso di apertura del concilio Vaticano II, l’unico progetto, valido secondo il vangelo e in tutti i tempi:

«La Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odiee, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» (Gaudet Mater Ecclesia, 7,2).

Il giubileo del 2000, comunque, è ancora contemporaneo a chi scrive e a chi legge non è necessario raccontae anche solo i fatti più rilevanti. Per questo, quindi, rimandiamo alla memoria di chi l’ha vissuto, consapevoli che l’ultimo, quello di papa Francesco, è un giubileo che ha aperto le porte della Misericordia e non le chiuderà mai più perché «il Santo, sia benedetto, non respinge alcuna creatura. Al contrario, tutte gli sono care e le porte sono sempre aperte per coloro che vogliono entrare» (Midràsh Esodo Rabbàh 19,4).

Paolo Farinella, prete
(13, fine)

 




Rigoberta Menchu


Rigoberta, il riscatto maya

In America Latina, ci sono figure profetiche che da sole spiegano e rappresentano il riscatto sociale di quel continente ancora oggi saccheggiato, ma non più completamente in balia delle nazioni occidentali. Una di queste è stata ed è Rigoberta Menchú, indigena maya del Quiché guatemalteco, che nel 1992, 500 anni dopo la «conquista» dell’America, la cosiddetta «scoperta» del Nuovo Mondo, fu insignita, per la sua dedizione alla causa dei presunti sconfitti (raccontata anche nella sua autobiografia Me llamo Rigoberta Menchú, ndr), del Nobel per la Pace. Proprio in quel lontano 1992 io avevo seguito Rigoberta Menchú in uno dei suoi tanti viaggi di speranza in aiuto al suo popolo. Con la generosità che la contraddistingue, Rigoberta aveva deciso di accompagnare il viaggio di ritorno di alcune migliaia di esuli della sua bellissima e martoriata terra, rifugiati in Messico o in altre terre del Centro America, nuovamente fiduciosi nella pace. Purtroppo quello non sarebbe stato il viaggio definitivo di ritorno a casa, né la fine di violenze, torture e desaparecidos (oltre 55mila vittime, secondo il rapporto Remhi, ndr) ma avrebbe rappresentato comunque l’inizio di una stagione di accordi di pace (firmata nel dicembre 1996, ndr) tra popolazioni autoctone e militari, pur se spesso violati o non rispettati.  Era una sera di fine anno. Al confine con lo stato di Campeche, uno dei tre dello Yucatan messicano, erano venuti a riceverla i ragazzi degli accampamenti limitrofi cavalcando rudimentali tricicli o risciò a pedali insieme a Blanche Petrich, una giornalista messicana che da tempo aveva sposato la causa degli indios guatemaltechi. L’unica luce per inquadrare questo tenerissimo benvenuto era stata il flash della cinepresa della mia troupe. Rigoberta Menchú, all’epoca 33enne, aveva scelto di trascorrere gli ultimi giorni di quel 1992 nei campi dei rifugiati del suo paese in Messico quasi come un esorcismo, sicura che le sofferenze del suo popolo stessero per finire.

Quella sera c’erano fratelli indigeni di tutte le etnie – Quiche, Kekchi, Kaqchikel, Mam, Tzutuhiles, Ixil, Kanjobal -, ai quali lei non si era stancata di predicare l’unità nella diversità e una vita che non rinnegasse i miti maya, ma fosse capace di conciliarli con una società solidale, laica, multietnica e pluralista. La figlia di Vicente, il catechista bruciato vivo nel 1980 nell’ambasciata di Spagna della capitale guatemalteca dalla repressione di un potere militare feroce, ci aveva insegnato, inoltre, a non disperare mai, come le aveva insegnato a sua volta sua madre Juana, comadrona (levatrice) nella sua terra millenaria, dove era stata torturata e uccisa.

Quella sera aveva aspettato il nuovo anno ballando il son al suono delle marimbe, mentre, attorno all’accampamento di Quetzal, facevano festa, con divertita compostezza, giovani donne che portavano come lei il delantal, un grembiule colorato segno della loro dignità e legame con la loro educazione e poi molte adolescenti, a piedi nudi, con un bambino al seno, e altre, giovanissime, con un fratellino sulla spalla o sul fianco legato con fasce coloratissime. I ragazzi vestivano con meno timidezza e avevano jeans, scarpe da ginnastica e atteggiamenti più vicini ai coetanei messicani. I vecchi, invece, erano meno numerosi, con i loro scavati profili maya e l’abitudine a osservare senza dire una parola. «Non si diventa vecchi in America Latina» ha scritto, non a caso, un poeta di quelle parti.

Per gli spietati militari del Guatemala, il premio Nobel a una indigena era stato un colpo durissimo, una notizia accolta con malcelato disagio. Il presidente dell’epoca, Jorge Serrano, l’aveva ricevuta al suo ritorno, dopo l’esilio messicano, con cortese freddezza, quasi redarguendola perché non creasse polemiche. «Una volta io, cristiana e credente – mi aveva confessato Rigoberta – venivo accusata di essere simpatizzante del comunismo, poi quando il comunismo si è dissolto, l’accusa è diventata quella di essere vicina alla guerriglia. La tecnica dei militari di casa mia, aiutata dagli istruttori israeliani, argentini e nordamericani, ricorda quella della mafia: quando non è possibile eliminare gli ostacoli rispettando le leggi, bisogna tentare di criminalizzare l’avversario. Adesso, per esempio, affermano che io voglio mettermi in politica e diventare presidente della Repubblica». Aveva concluso sorridendo.

Di tutte le battaglie che ha sostenuto negli anni, quella politica è stata la più azzardata. In due occasioni (nel 2007 e nel 2011, sempre ottenendo poco più del 3% dei voti, ndr) la sua candidatura alla Presidenza guatemalteca non ha avuto esito. È sorprendente e un po’ amaro per il prezzo che ha dovuto pagare la sua famiglia sterminata dai militari e per le lotte da lei combattute per i diritti dei fratelli maya e di tanti latinoamericani intrepidi e sognatori. Ma so che un giorno o l’altro la troverò ancora una volta in prima linea per difendere le aspirazioni di tutti, come ha fatto a New York l’11 settembre del 2001 quando l’hanno vista arrivare per prima all’Onu per offrire, se fosse stato necessario, il suo aiuto.

La ricordo in un pulmino zeppo di amici (Lula, Eduardo Galeano, Frei Betto, Dante Liano) che la accompagnavano in un giro culminato in una festa dell’Unità a Modena, dove gli organizzatori, scettici sul successo della presentazione del libro-denuncia Guatemala nunca mas, volevano cambiare il luogo della conferenza credendo che sarebbe andata deserta. Gli spettatori invece gremirono la sala. Tutti felici di premiare la caparbietà di Rigoberta e con lei tutti concordi nel non rinunciare ai propri ideali. Basta aspettare e non farsi ingannare dai bagliori della politica.

Gianni Minà




Cari missionari

Giustizialismo e furbetti

Dinnanzi a coloro che usano la parola «giustizialismo» i giudici hanno uno spettro di reazioni che va dall’arricciamento di naso all’indignazione profonda. Sicuramente anche il giudice Caselli (cfr. MC. 7/2016 p. 33) è tra coloro che non vanno matti per questa parola.

Per quanto mi riguarda, perplessità e disagi ancora più grandi me li creano anche la parola «furbate», la parola «furbetti» e certi complementi di specificazione che molti cultori della legalità o sedicenti tali, hanno preso l’abitudine di aggregare a queste parole. La domanda che vorrei porre è questa: i giudici del caso Tortora, che invece di chiedere scusa, invece di essere biasimati e di pagare per i grossolani e catastrofici errori compiuti, hanno fatto – grazie ad altri uomini di legge -, tutti quanti, una carriera da Mille e una notte, vogliamo definirli dei fedeli e integerrimi servitori dello stato?

Se è vero che la lotta contro i furbetti del quartierino, i furbetti dello scontrino, i furbetti del cartellino, deve continuare perché rappresenta un pezzo importante della lotta contro la corruzione, non è altrettanto vero che anche i furbetti del verbalino, i furbetti del bilancino, i furbetti del bisognino, dovrebbero essere adeguatamente sanzionati e condannati a restituire il maltolto? Siete sicuri che il vigile urbano beccato a timbrare in mutande sia più colpevole dei colleghi che, per far cassa e carriera, multano (e a volte ammazzano) i disabili, multano i veri invalidi, multano i senzatetto e il possesso del cartone da essi utilizzato come giaciglio per la notte?

Chi è più sporco, chi è più corrotto? Il soggetto che, in mancanza di meglio, fa un goccio di pipì dietro il cespuglio o i poliziotti che gli fanno la posta (o stalking?) per affibbiargli cinquemila euro di contravvenzione?

Vi sembra degno di un paese democratico e di una nazione civile – e qui mi rivolgo anche al giudice Caselli – che chi reagisce a tutto ciò dicendo «vergogna», dicendo «smettete di dir bugie», dicendo «smettete di mettere l’etica professionale dietro le esigenze di bilancio» debba beccarsi una condanna penale per oltraggio a pubblico ufficiale?

Distinti saluti.

Bartolomeo Valnigri
22/07/2016

Quello che lei dice purtroppo si basa sull’esperienza quotidiana. Ed è un fenomeno che ha radici antichissime, se anche un profeta come Isaia sentiva il bisogno di stigmatizzare con parole molto forti la corruzione dei potenti e di chi è in autorità: «I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri; tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge» (Is 1,23).

In questi anni, osservando certi stati africani, ho visto con tristezza il dilagare della corruzione, accelerata proprio dal cattivo esempio di chi è ai posti più alti del governo. Qui da noi, la disaffezione crescente verso la politica e i politici è aumentata esponenzialmente con il crescere della corruzione nei loro ranghi. Ma il rischio più grosso è che si perda il senso di quello che è giusto, il senso del dovere e della responsabilità sociale e che il cattivo esempio dei «grandi» diventi giustificazione per comportarsi male come loro.

È bello invece che rimangano delle persone, indipendentemente dalla categoria cui appartengono, che sono ancora capaci di avere un pensiero critico e autocritico e hanno il coraggio di dire la verità, anche quando è scomoda. Guai a noi se ci rassegnassimo perché «tutti sono corrotti».

Accoglienza

Egregio Padre,
ho letto il suo commento al mio scritto che avete pubblicato in MC 10/2016 con titolo «Tempo di crisi». Segno che l’argomento trattato è tuttora pressante. Dice, giustamente, che è spesso affrontato in termini fuorvianti. Certi commenti, come quelli da lei citati, sono il prodotto di ignoranza ed egoismo, tuttavia ciò, spesso, ha radici nel caos della gestione di una immigrazione di massa fuori controllo, con illegalità a tutti i livelli. Innanzitutto i nuovi schiavisti che gestiscono l’immondo commercio umano che le autorità di qualsiasi istituzione politica sociale o religiosa si guardano bene dal contrastare. Non è da molto che abbiamo smesso di criminalizzare gli schiavisti dei secoli passati mentre ora «tolleriamo» vergognosamente quelli attuali. Ciò ha generato migliaia di morti (solo quest’anno l’Onu dice che sono già 3.800 tra morti e dispersi).

L’accettazione indiscriminata senza regole spesso è fonte di comportamenti illegali da parte di questi «ospiti». Quasi ogni giorno viene violata la regola di ospitalità con comportamenti delinquenziali fino all’assassinio. Pertanto dire semplicemente: «Accoglienza accoglienza», senza regole, non fa che renderci complici, anche se indirettamente, di quelle migliaia di poveri esseri in fuga che sperando in una vita più degna di essere vissuta finiscono in fondo al Mediterraneo oltre a subire maltrattamenti e violenze durante le «trasferte» prima dell’imbarco, a cui si aggiunge il sospetto fondato del traffico di organi.

Questa «complicità», che viene tollerata per non offendere i buonisti a tutti i costi, fa pensare al pattume che si vuole nascondere sotto il tappetto. Purtroppo è verità scomoda e graffiante. Però la verità non fa sconti a nessuno. Mai. Come liquidare semplicemente per populismo la pressante richiesta di severe regole di ospitalità? Persino una signora di colore africana giunta anni fa in Italia ha detto recentemente durante una trasmissione televisiva «voi italiani siete bravi, mi avete accolto con amore, mi avete aiutato, ma ora con tutti quegli arrivi state esagerando». Anche lei populista allora?

Molto criticate le barriere anti immigrati in vari paesi. Certo. La causa principale è frutto della mancanza di regole che nessuno intende far applicare. Se in Europa ci fossero regole che a ogni manifestazione di insofferenza o peggio delinquenza l’immigrato venisse espulso non sarebbero necessarie barriere. Tutti populisti quelli che vogliono regole?

Persino Papa Francesco ha fruito di regole portandosi a casa dall’isola di Lesbo 12 migranti con passaporto, e (dicono alcuni giornali) con il visto per l’espatrio, mentre sulle nostre coste arrivano quasi tutti senza documenti. Populista anche lui?

Angelo Brugnoni
Daverio (VA), 02/11/2016

Continuiamo allora il dialogo iniziato su queste pagine lo scorso ottobre. Aggiorno solo la triste statistica dei morti nel Mediterraneo: 4.420 al 3/11/2016.

Comportamenti illegali e furbizie dei migranti.

Pochi giorni fa un amico mi raccontava, tra lo stizzito e il rattristato, di aver assistito a un corso di formazione per migranti nel quale 9 su 10 chattavano imperterriti sul cellulare invece di seguire la lezione. Altri amici mi hanno invece invitato ad andare a vedere un certo orto di cavoli ridotto peggio di quello, famoso, di Renzo.

Se uno volesse fare la lista di tutte le negatività nel comportamento dei migranti accolti in Italia, potrebbe scrivere un libro per la gioia di chi li considera semplicemente un problema e un pericolo.

Non sono un esperto in materia, ma credo che ci siano due ragioni fondamentali alla base dei comportamenti negativi: la prima è che molti di loro non vogliono stabilirsi in Italia, la seconda è che non si fidano degli operatori che incontrano. Senza la fiducia la relazione che ne risulta è quella di «guardie e ladri». Fare finta di non vedere queste situazioni difficili («buonismo»?) o vedere solo le situazioni negative («populismo»?) non aiuta né le persone che vogliamo accogliere né noi stessi.

Regole.

Se «buonismo» è chiudere gli occhi e dire «poverini loro», trattandoli patealisticamente e quasi con un senso di colpa, allora sono d’accordo a condannarlo. Ma neppure il moltiplicare le regole serve a molto. Anzi, più regole ci sono, più diminuisce la responsabilità e la libertà.

Avendo vissuto per molti anni in Africa, ho notato con preoccupazione come proprio in Europa si stia uccidendo la libertà, il buon senso e la responsabilità con un moltiplicarsi infinito di regolamenti su ogni cosa: dai cibi al commercio, dalla sanità all’etica, dalla famiglia al lavoro … Regolamenti che diventano poi così intricati da permettere ai furbi di abusae.

Detto questo, so bene che tra i rifugiati e migranti ci sono quelli che pensano di avere solo diritti e niente doveri, e anche coloro che sono arrabbiati con tutto il mondo (chi non lo sarebbe dopo aver passato quello che molti di loro hanno dovuto subire?). So anche che c’è chi crea nei migranti aspettative sproporzionate e fomenta i loro sospetti e diffidenze nei confronti di chiunque li voglia aiutare. Lo stesso succede anche per i cittadini dei luoghi di accoglienza. La strumentalizzazione politica in questo campo è ben nota.

L’accoglienza, complicata dal numero crescente dei migranti e rifugiati, è una realtà oggettivamente difficile da gestire. Per questo mi viene da chiedere se tutto il personale impiegato dalle moltissime cornoperative e onlus che con generosità si occupano di accoglienza, sia davvero all’altezza del delicato servizio che è chiamato a rendere e abbia ricevuto una formazione adeguata per diventare autorevole interlocutore di chi è nel bisogno.

Le regole ci sono, è importante osservarle e farle osservare, con fermezza sì, ma non con la forza, la paura o le botte (come ha denunciato recentemente Amnesty Inteational), piuttosto con persuasione, accompagnamento, formazione e necessaria autorevolezza.

Ricordo una storia contadina che ho sentito da bambino quando ancora si arava con l’aratro trainato dai buoi. C’erano quattro fratelli che, prestissimo al mattino, uscivano ad arare con un aratro trainato da due coppie di buoi. Tre di loro uscivano insieme, uno all’aratro e uno ciascuno per ogni coppia di buoi usando sempre urla e botte per farsi obbedire. Invece il quarto fratello usciva da solo per fare lo stesso lavoro, senza urla e senza pungolo. Il segreto? I tre fratelli si alzavano all’ultimo minuto e andavano subito fuori nei campi ad arare. Il quarto invece si alzava un’ora prima, nutriva e abbeverava bene i buoi e poi usciva ad arare, e gli bastava la voce per farsi obbedire.

Forse questa parabola c’entra poco, ma se invece di trattare i «miranti e rifugiati» come una categoria aliena e problematica, cominciassimo a considerarli semplicemente persone e a stabilire con loro rapporti «umani», faccia a faccia, forse sarebbe meglio per tutti. È la differenza tra chi erige barricate contro il «nemico» e chi improvvisa una festa di paese per il «fratello».

Probabilmente chi è trattato da «persona» è più disponibile a rispettare le regole di chi invece è trattato come un numero, un problema, un nemico.

Nel nostro paese, accanto a episodi negativi che finiscono facilmente in prima pagina – soprattutto quando servono agli interessi elettorali di alcuni -, abbiamo una marea di esperienze positive – vissute da persone normali – di cui si parla poco o niente, ma che sono la vera risposta «buona» a un dramma che è più grande di noi e di cui non si vede ancora la fine.

Fondamentalisti

Spett. redazione,
in merito alla risposta (il riferimento è a MC 7/2016 p. 5) vorrei fare alcune osservazioni. Definire fondamentalisti cristiani quelli che non riconoscono il papa è proprio degno di chi pensa di avere la verità in tasca come i cattolici. Fin dai primordi i padri fondatori del cristianesimo infischiandosene del detto: ama il tuo nemico, hanno creato apostati, eretici, hanno perseguitato e ucciso ebrei, pagani distruggendo i loro templi, streghe con una ferocia veramente paragonabile o anche superiore alle torture di oggi compiute da altri fondamentalisti, che sono soltanto assassini con una scusante religiosa, come lo erano gli inquisitori e persecutori del passato, non troppo passato. Pio IX applicava la pena di morte come gli altri papi ordinando di impiccare senza alcun rimorso. Inoltre molto prima delle multinazionali il Congo è stato terra di traffico di schiavi da parte dei gesuiti (ne possedevano12.000 nel 1666 così come i benedettini in Brasile fino al 1864). In Congo poi i belgi del cattolicissimo Leopoldo hanno creato uno sfruttamento superiore ad ogni concezione umana. Per i congolesi però nessun digiuno, come per i ruandesi o i vietnamiti. Come vede ogni setta ha la sua parte di orrori, come le ideologie e ogni credo. Che i sauditi abbiano fatto cadere i dittatori tolleranti è un fatto, e che siano amici di gruppi finanziari americani altrettanto, ma sono sempre le singole persone che compiono gli atti quindi loro vanno punite e non i libri da cui traggono idee. Non possiamo incolpare satana dei crimini umani visto che non si può arrestare come mandante, o no? Speriamo che in America vinca un pacifista che la smetta di impicciarsi del mondo e non un’ipocrita incapace di fare il segretario di stato. Come se la cava il cattolico Kerry per i conflitti in Africa? O se ne frega come tutti, tranne i sinceri missionari e volontari? La saluto cordialmente.

Luna verde
30/07/2016

Facciamo un’eccezione pubblicando una email anonima. Ecco alcune precisazioni.

Schiavi. Può darsi che i gesuiti avessero schiavi, ma certamente non in Congo (allora Regno del Congo) che era riservato ai frati Cappuccini.

I fondamentalisti cristiani non sono tali perché «non riconoscono il papa». Ci guardiamo bene dal considerare fondamentalisti gli Ortodossi, gli Anglicani, i Luterani, e via dicendo. Ma ci sono cristiani che sono fondamentalisti, nel mondo protestante, come anche in quello cattolico. L’enciclopedia Treccani così definisce il fondamentalismo: «Denominazione, sorta in ambito cristiano negli Stati Uniti agli inizi del 20° sec., ed estesa poi alle due altre religioni monoteiste, ebraica e musulmana, per indicare genericamente i movimenti, dapprima religiosi e culturali, poi anche sociali e politici, che, opponendosi a qualsiasi interpretazione evolutiva dei propri principi originari e fondamentali, ne propongono un’applicazione rigorosa negli ordinamenti attuali».

Verità in tasca e nefandezze varie.
Mi pare che i Cattolici abbiano cercato di imparare dai loro errori e che siano tra i pochi che abbiano chiesto perdono delle ingiustizie da essi perpetrate in nome della religione. Ha iniziato il Concilio Vaticano II, e papa Giovanni Paolo II e papa Francesco ne hanno continuato il cammino con coraggio. Mi sembra pretestuoso continuare ad andare a rivangare storie di secoli fa per togliere autorità morale oggi a chi cerca, senza nascondere un suo passato di errori, di vivere con coerenza il messaggio più originale e profondo del Libro (o dei «Libri» della Bibbia). Tenendo poi conto che questa testimonianza di amore, servizio e dialogo è stata pagata con oltre 100mila martiri nel solo XX secolo.

Quando queste righe saranno carta stampata sapremo già da un po’ chi ha vinto tra la Clinton e Trump (di fronte ai quali viene proprio da chiedersi cosa è successo agli Usa da essersi ridotti ad avere due candidati così). Ma definire Trump un pacifista, mi sembra proprio fuori luogo, anche solo per le simpatie che ha per Putin e il sostegno che riceve dalla lobby delle armi.

Bestemmie

Gentile redazione,
da parecchi anni si è notato un aumento di caccia a coloro che bestemmiano: non tanto nei nostri ambiti cristiani ma più da parte dell’Islam, ciò che conduce al sacrificio della vita stessa di coloro che non sanno difendersi e porre una adeguata spiegazione a titolo di scusa davanti ad enti competenti ed accusanti.

Dopo tanto tempo di riflessione, penso che la bestemmia, interpretata come offesa alla divinità, non può esistere: essa è indiscutibilmente nata come grido di aiuto rivolto a Dio, che poi è entrata in usanza come insulto. Ma come si può offendere la divinità? Può l’essere umano fare ciò? Come potrebbe essere giunto a tale idea? Assolutamente impossibile, per me è il grido a Dio di aiuto che aspetta ciò di cui più non riesce a rinunciare. La nostra religione cristiana per questo neppure ci condanna se chiediamo perdono, ma per i credenti dell’Islam è prevista perfino la pena mortale. Penso che si possa iniziare una ricerca atta a fare luce sulle origini della bestemmia. Distinti saluti, un vecchio lettore.

Gabriele Azzolini
21/10/2016

Non penso che la bestemmia sia nata come come «grido di aiuto», piuttosto come insulto e ribellione agli dei di un altro popolo (sia occupante e invasore o ritenuto inferiore al proprio). È infatti interessante che la bestemmia – come la intendiamo noi – non esista in mezzo ai popoli africani o altri popoli indigeni.

Che l’Antico Testamento e l’Islam abbiano sentito il bisogno di punire con la morte la bestemmia, è comprensibile se si guarda alla storia fatta di guerre di offesa e di difesa, combattute nel nome del proprio Dio quando non c’era distinzione tra sfera politica e quella religiosa.

Che poi Dio sia davvero offeso da una bestemmia è poco probabile. Parlare di «offesa» è un modo di dire nostro. Quando a metà ottobre, fermo ad un semaforo, ho sentito un motociclista snocciolare a gran voce le bestemmie più fiorite, non ho pensato che Dio fosse offeso da tanta stupidità – ero io a sentirmi offeso! -, piuttosto che provasse tanta pena per quella persona. Non sono le parole che offendono Dio, ma quello che c’è nel cuore delle persone, soprattutto quando ostinatamente rifiutano la sua logica di amore e si sentono realizzati nella loro rabbia, nella loro violenza e nel materialismo più egoista.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2148 scrive: «La bestemmia […] consiste nel proferire contro Dio – interiormente o esteriormente – parole di odio, di rimprovero, di sfida, nel parlare male di Dio, nel mancare di rispetto verso di lui nei propositi, nell’abusare del nome di Dio. […] È blasfemo anche ricorrere al nome di Dio per mascherare pratiche criminali, ridurre popoli in schiavitù, torturare o mettere a morte». Lo stesso vale per l’uso del nome di Dio per scopi di magia (n. 2149) o per giurare il falso (n. 2050).

Un super like

Io sono comunista e non credente, ma nella vostra pagina e nella vostra rivista ho trovato molto di buono. Ad esempio, tutto ciò che riguarda l’Africa. E se siete riusciti a piacere a un comunista, sempre acerrimo critico verso le gerarchie cattoliche, come potete non piacere a chi è credente e cattolico?

Salvatore T.
su FB il 21/10/2017

Sulla nostra pagina Facebook (www.facebook/missioniconsolata) c’era questo commento in risposta alla nostra richiesta di mettere un like e superare la soglia dei 4.000. Con oltre 47.000 copie distribuite in Italia e nel mondo, dovremmo poter andare oltre i 10.000 presto! Metti il tuo like!

 




Viaggio nella disabilità


È questo il nome di una legge approvata dal parlamento italiano lo scorso 14 giugno. Parla di assistenza alle persone con disabilità grave prive di
sostegno familiare. Una norma importante, una norma di civiltà, che ora passa alla (difficile) prova dei fatti.

Che succederà dopo di noi? Questa è da sempre la domanda che si pongono i genitori di figli portatori di handicap gravemente invalidanti. Per cercare di dare una risposta a queste famiglie, il 14 giugno 2016 la Camera ha approvato in via definitiva – con 312 voti a favore, 64 contrari e 26 astenuti – la legge n° 2.232, «Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare», detta anche legge «Dopo di noi». Questa norma fa seguito alla n° 104 del 1992, che per prima iniziò a occuparsi della nozione di «disabile grave», cioè delle situazioni dei soggetti che a causa di una minorazione, singola o plurima, abbiano una ridotta autonomia personale, anche correlata all’età, e abbiano quindi bisogno di un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale. Successivamente, nel 1998, con la legge n° 162 furono elaborati programmi di aiuto ai disabili presso comuni, regioni ed enti locali, ma fino alla legge promulgata quest’anno non era ancora stato preso alcun particolare provvedimento per quei disabili a cui viene a mancare il sostegno familiare.

Con la Dopo di noi, lo stato ha stabilito la creazione di un fondo per l’assistenza e il sostegno ai disabili privi di aiuto familiare e sgravi fiscali per privati, enti e associazioni che stanzieranno risorse per la loro tutela. Il fondo è compartecipato da regioni, enti locali e organismi del terzo settore e avrà una dotazione triennale così ripartita: 90 milioni di euro per il 2016, 38,3 milioni per il 2017 e 56,1 milioni per il 2018.

I requisiti di accesso al fondo sono individuati dal ministero del Lavoro e le regioni definiscono i criteri per l’erogazione dei finanziamenti, la verifica dell’attuazione delle attività svolte e le ipotesi di revoca dei finanziamenti.

Questa legge dovrebbe garantire la massima autonomia e indipendenza possibili alle persone disabili, permettendo loro di vivere nelle proprie case o in strutture gestite da associazioni, cioè case-famiglia o comunità, in modo da evitare il ricorso all’assistenza sanitaria. Le tutele sono estese anche ai soggetti disabili che, pur avendo ancora i genitori in vita, non possono fruire del loro sostegno.

Per quanto riguarda le agevolazioni fiscali previste dalla legge Dopo di noi, ci sono sia detrazioni sulle spese relative a polizze assicurative e contratti a tutela dei disabili gravi, sia esenzioni e sgravi sui trasferimenti di beni dopo la morte dei familiari, costituzione di trust (affidamento fiduciario istituito a favore di persona con disabilità grave accertata) e altri mezzi di protezione legale. In pratica dal 1 gennaio 2017 per le polizze sul rischio di morte finalizzato alla tutela delle persone con disabilità grave accertata, l’importo scaricabile passa da 530 euro (come era previsto in un aggioamento dell’art. 15 della legge n° 917 del 22 dicembre 1986) a 750 euro. Inoltre la legge prevede significative agevolazioni fiscali, come l’esenzione dall’imposta di successione e donazione, in caso di trasferimento di beni a titolo gratuito o mediante trust. Per non pagare queste imposte bisogna dimostrare che ogni trasferimento di beni ha come finalità l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza delle persone con disabilità. Per quanto riguarda la casa, è inoltre prevista l’esenzione delle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa, la riduzione di aliquote e di franchigie e l’esenzione per l’imposta municipale sugli immobili. Inoltre sono esenti dal pagamento del bollo le erogazioni liberali, le donazioni e gli altri atti a titolo gratuito effettuati da privati. Essi potranno essere deducibili nella misura massima del 20% del reddito imponibile e fino a 100.000 euro annui.

Secondo coloro che l’hanno votata, questa nuova legge permette di evitare l’isolamento dei disabili e il ricorso automatico all’ospedalizzazione per i non autosufficienti privi di sostegno familiare. Secondo chi ha dato parere sfavorevole, invece, la Dopo di noi crea pericolose disparità tra chi può permettersi di lasciare fondi in gestione ad altri per le cure ai figli invalidi dopo la propria dipartita e chi invece non può permetterselo e deve contare esclusivamente sull’assistenza pubblica. Il Coordinamento nazionale famiglie disabili (www.famigliedisabili.org) la definisce una legge per i ricchi. Secondo gli oppositori, come il Movimento 5 Stelle, questa legge favorisce moltissimo le assicurazioni private.

Inoltre, per quanto riguarda il fondo di assistenza, per il triennio 2016-2018 sono stati stanziati 184,4 milioni di euro, ma buona parte di queste risorse è destinata a finanziare le detrazioni delle spese sostenute per le polizze assicurative o per costituire i trust per la tutela dei disabili. Di fatto resta ben poco per le prestazioni sociali a favore dei disabili.

Qualche miglioramento al testo originale del disegno di legge è stato fatto con gli emendamenti passati in senato, grazie ai quali è stato introdotto il rispetto della volontà del disabile o dei genitori, circoscrivendo in tal modo l’eventualità di ricovero in strutture specializzate soltanto a casi estremi. E ciò per evitare il rischio che i soggetti più deboli siano rinchiusi con troppa facilità in qualche istituto.

Rosanna Novara Topino
(fine prima puntata- continua)




Cooperando: 3 realtà, 1 obiettivo: istruzione contro povertà


Quest’anno concentriamo la campagna di Natale su Venezuela, RD Congo e Tanzania. Sono tre realtà molto diverse fra loro che hanno però almeno due aspetti in comune: una situazione socio-economica difficile e contraddittoria, della quale fanno le spese le fasce più deboli della popolazione, e una carente e spesso fuorviante informazione internazionale su di essi.

dsc04353_resize

1. Venezuela, fra crisi e propaganda

Che il crollo del prezzo del petrolio abbia messo in ginocchio l’economia venezuelana sembra essere l’unico dato certo: su un paese che basa la propria economia su questa risorsa, la diminuzione del costo al barile dai 100 dollari del 2014 ai 50 attuali non poteva non avere ripercussioni pesanti. Ma su questo dato di fatto si contrappongono, sia all’interno del Venezuela che nel dibattito internazionale, visioni sideralmente lontane circa le responsabilità e le possibili soluzioni.

Tutta colpa della rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez, dicono i critici dell’ex presidente venezuelano – morto nel 2013 e sostituito dall’attuale capo di stato Nicolás Maduro -, e delle sue politiche socialiste, nazionalizzazione dell’industria petrolifera in testa. «Il Venezuela è una dittatura conclamata», scriveva lo scorso ottobre sul Washington Post Francisco Toro, che in un precedente articolo su The Atlantic indicava come «vero colpevole della crisi il chavismo, con la sua propensione alla cattiva gestione, agli investimenti folli, allo smantellamento delle istituzioni, alle politiche di controllo dei prezzi e del cambio e al ladrocinio puro e semplice». È vero che già all’inizio del 2014, cioè prima della caduta del prezzo del petrolio, l’economia venezuelana era entrata in recessione, risponde dalle pagine di Le Monde Diplomatique Marc Weisbrot, ed è vero che una profonda opera di riforma è necessaria, a cominciare da un riordino del mercato valutario: a oggi, ci sono tre tassi di cambio a cui si aggiunge quello applicato sul mercato nero, e vanno dai 10 bolivar (la valuta locale) contro un dollaro del cambio ufficiale ai 1.000 del mercato nero (un euro è quasi 700 bolivar con Weste Union dall’Italia).

Ma non bisogna dimenticare le ingerenze estee: il governo degli Stati Uniti promuove da quindici anni un «cambio di regime» a Caracas, ricorda ancora Weisbrot, e sta cercando di destabilizzae ulteriormente l’economia. Il Fondo Monetario è spesso particolarmente pessimista nelle stime sugli indicatori economici venezuelani e i media inteazionali fanno a gara a usare i termini più catastrofisti dimenticando di riportare anche i risultati ottenuti ad esempio dalle misiones, programmi governativi di lotta alla povertà lanciati nel 2003 da Chavez a sostegno dell’accesso alla salute, all’istruzione, al credito per la casa (vedi anche Le due piazze di Caracas di Paolo Moiola, MC 12/2015).

È degli ultimi giorni di ottobre la notizia della visita di Maduro a papa Francesco e dell’intenso lavoro della diplomazia vaticana per promuovere il dialogo tra le forze politiche ed evitare scontri e violenze.

La nostra proposta per il Venezuela

Al di là di queste diatribe, la situazione che i nostri missionari ci raccontano è davvero difficile: mai come quest’anno si sono resi necessari interventi per permettere alle persone di procurarsi cibo e farmaci. Nelle zone come Tucupita gli effetti della congiuntura attuale si accavallano a una situazione di povertà e marginalizzazione che da anni affligge la popolazione locale, appartenente per la maggioranza al gruppo indigeno warao.

La proposta dei nostri missionari è quella di impegnarsi in un progetto di contrasto all’abbandono scolastico dei bambini e adolescenti. Dal momento che il principale problema è l’acquisto del materiale scolastico, il cui prezzo è troppo alto per la maggior parte delle famiglie, il progetto prevede l’acquisto di penne, matite, quadei e altro materiale. Inoltre, coinvolge le famiglie a contribuire producendo esse stesse borse, astucci e piccolo mobilio per le classi come leggii e tavoli per lo studio, approfittando anche delle competenze acquisite dalla comunità warao grazie a iniziative realizzate in precedenza dai nostri missionari in ambito artigianale.


morogoro-consolata-day-care-children-with-their-tutors-_resize

2. Tanzania, fra Pil e ujamaa

La Tanzania cresce, eccome: le esportazioni fra il luglio 2015 e lo stesso mese del 2016 sono aumentate del 7,5% e lo scorso ottobre il paese ha firmato con il Marocco venti accordi di cooperazione bilaterale per poco meno di due miliardi di dollari nei settori energetico, minerario, tecnologico, agricolo, turistico, finanziario, sanitario e dei trasporti. Ma, come per altri paesi africani che stanno sperimentando simili espansioni, il rischio concreto è che larghe fasce della popolazione tanzaniana restino escluse dagli effetti della crescita. A differenza del turbolento vicino di casa congolese, in Tanzania – modellata dal mwalimu (maestro) Julius Nyerere, primo presidente e padre fondatore, sul principio dell’ujamaa (comunità-famiglia-fratellanza) – la pacifica convivenza fra gruppi etnici non è mai stata a rischio, ma le diseguaglianze sociali e le sacche di povertà sono tangibili, specialmente nelle aree rurali. Nel maggio di quest’anno, il Programma alimentare mondiale (Pam) ha pubblicato alcuni dati sul paese: nonostante la crescita economica, tre tanzaniani su dieci vivono nella povertà e uno su tre è analfabeta. L’ottanta per cento della popolazione vive di agricoltura di sussistenza e un terzo dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica.

La nostra proposta per la Tanzania

In Tanzania il nostro programma di sostegno a distanza è attivo a Mgongo, Mafinga, Iringa, Morogoro, Ikonda e Tosamaganga. Inoltre, contribuiremo al Day Care Centre di Morogoro, un centro che fornisce a 252 bambini istruzione prescolare. Secondo numerosi studi, infatti, i bambini che hanno fatto un percorso educativo fra i tre e i sette anni ottengono poi migliori risultati nel prosieguo dei loro studi e hanno maggiori probabilità di terminare il ciclo primario. Inoltre, frequentare un centro come questo permette ai bambini di avere una nutrizione più adeguata in anni fondamentali per lo sviluppo psico-fisico.

In particolare, acquisteremo materiale ludico e didattico, cattedre, banchi e sedie, adegueremo il corpo docente alla sempre maggiore richiesta di iscrizioni e doteremo il centro di kit per il pronto soccorso.


bayenga-img_2442_resize

3. RD Congo, la difficile via verso le elezioni

Quarantadue anni dopo il celebre incontro fra Muhammad Alì e George Foreman, il grido in lingua lingala che si alza dallo stadio di Kinshasa non è più «Alì, bomaye!», «Alì, uccidilo», ma «Kabila oyebela, mandat esili!», «Kabila, sappilo, il mandato è finito».

Il 19 dicembre termina infatti il secondo mandato di Joseph Kabila, il quarantacinquenne presidente congolese succeduto al padre Laurent Desiré nel 2001 e riconfermato alla presidenza nelle elezioni del 2006 e del 2011, una consultazione elettorale quest’ultima, molto discussa e giudicata irregolare da diversi osservatori fra cui l’Unione europea. Le elezioni erano previste per quest’anno, ma a ottobre un accordo tra il governo e una piccola parte dell’opposizione (nel dialogo intercongolese) ha acconsentito di rimandare il voto al più tardi ad aprile 2018. Si creerà un governo di unità nazionale affiancato da un comitato di accompagnamento, mentre Kabila potrà restare in carica per la transizione. Ma il grosso dell’opposizione politica e i movimenti sociali non sono d’accordo, così come i vescovi, che hanno abbandonato il «dialogo» a settembre. E, se il conflitto politico a Kinshasa non sempre si limita al confronto dialettico – lo scorso settembre almeno 47 persone sono morte negli scontri fra polizia e manifestanti anti Kabila -, l’Est del paese non ha conosciuto un minuto di vera pace dalla fine della guerra del 1997-2003. Lo scorso agosto i miliziani del gruppo islamista di origine ugandese Adf – uno dei circa settanta gruppi ribelli attivi in Congo – hanno decapitato o bruciato vive trentasei persone a Beni, Nord Kivu.

La nostra proposta per il Congo

I nostri missionari in Rd Congo lavorano da sempre per ampliare quanto più possibile l’accesso all’istruzione e per contrastare l’abbandono scolastico: secondo gli ultimi dati Unicef, i bambini che non vanno a scuola sono 13 su cento, dato che sale a 16 nelle aree rurali. Degli scolarizzati, inoltre, un quarto non arriva alla conclusione del ciclo primario. Le aree su cui ci concentriamo questo Natale sono Kinshasa e Bayenga. Nella capitale, è attivo un programma di sostegno a distanza per i 360 bambini che frequentano la scuola primaria san Giuseppe d’Arimatea, nel quartiere Sans Fils. Attraverso questo sostegno, la probabilità di abbandono scolastico si riduce drasticamente perché risolve a monte il principale problema delle famiglie, quello di coprire i costi per la retta, i libri, il materiale scolastico.

A Bayenga, villaggio in piena foresta pluviale nella provincia Orientale, i nostri missionari lavorano con la comunità dei pigmei Bambuti: qui l’iniziativa è quella di creare e rafforzare una scuola itinerante, che possa spostarsi da un campement (insediamento) all’altro e permettere agli oltre mille bambini non scolarizzati di avere un’istruzione che rispetti e valorizzi anche le specificità culturali del loro gruppo etnico, tuttora considerato, dalla maggioranza bantu, composto da cittadini di seconda categoria.

Chiara Giovetti

dscn3118_resize


Grazie perché

Ecco alcune delle iniziative (e non sono tutte!) per le quali ci avete aiutati in questo 2016.

Istruzione e sanità

Abbiamo scavato un pozzo a Guilamba, Mozambico, comprato le bici per gli insegnanti a Neisu, RD Congo, dotato di microscopio, centrifughe e altro materiale il laboratorio del dispensario di Mgongo, Tanzania, e messo nuovi banchi, sedie e pc portatili nel centro di formazione per bambini adolescenti e giovani di Tucupita, Venezuela.

Stiamo poi mettendo il fotovoltaico nella Secondary School Mary Mother of Grace di Rumuruti, Kenya, migliorando la cucina della scuola elementare di Blessoua, Costa d’Avorio, lavorando alla scuola di formazione in agricoltura e all’impianto di irrigazione a Maturuca, Brasile, continuando la formazione alla pace per i bambini e le loro famiglie a Cartagena de Chairá, Colombia, e sostenendo doposcuola e Day Care Centre a Arvaiheer, Mongolia.

Per questi nove progetti e altri 33 ringraziamo la famiglia della signora Piera Guaaschelli, che ha sostenuto i missionari della Consolata per lunghi anni.

Abbiamo attrezzato l’ospedale di Wamba, Kenya, per il servizio di dialisi, rinnovato il laboratorio, introdotto un sistema di gestione informatizzato, riattivato il servizio di cliniche mobili per i villaggi intorno all’ospedale, intensificato il programma nutrizionale e lanciato una campagna di iscrizione per i pazienti al fondo di assicurazione sanitaria keniano Nhif, che permette la copertura delle spese mediche sostenute. Per questo progetto, che ha concluso il primo anno e continuerà per altri due, ringraziamo la Conferenza Episcopale Italiana, che ci ha concesso un finanziamento totale di 232.233 euro.

Sostegno a distanza

Anche quest’anno abbiamo sostenuto a distanza circa duemiladuecento bambini, a cui abbiamo fornito istruzione, cibo, cure mediche. Il programma SaD è stato attivato o potenziato anche in Venezuela, Mozambico, Sudafrica, Kenya ed Etiopia.

Attività generatrici di reddito e formazione professionale

Continuiamo a sostenere il panificio a Kinshasa che, grazie alla generosità di donatori privati e di gruppi missionari, cammina sempre di più sulle sue gambe. Anzi, su quelle delle donne di Kin che vanno a vendere il pane prodotto dal panificio.

A Malindi, Kenya, abbiamo concluso il progetto agricolo per le donne e a Kinshasa, RD Congo, abbiamo completato l’ammodeamento del laboratorio di elettronica del Centro di formazione professionale per ragazzi non scolarizzati. Grazie a Caritas Italiana per questi e per gli altri microprogetti che ci hanno permesso di realizzare.

Acqua

Ringraziamo tutti quanti hanno dato il loro contributo per garantire un sempre più ampio accesso all’acqua per le persone di Mukululu, Kenya, dove si trova il Tuuru Water Scheme, un sistema idrico che serve 250 mila persone e 150 mila capi di bestiame.

Popoli indigeni

Ringraziamo i nostri donatori – organizzazioni e privati cittadini – per la loro sensibilità alla condizione dei popoli indigeni di
Roraima, da Catrimani a Raposa Serra do Sol, e il prezioso sostegno alla difesa dei loro diritti.

3.366 grazie

Vorremmo nominarvi e ringraziarvi tutti 3.366 – singoli privati, organizzazioni, associazioni, gruppi missionari, parrocchie, congregazioni, aziende, scuole – perché ci avete affidato il vostro denaro, magari togliendolo al budget per la spesa e passando i fine settimana a organizzare eventi per le missioni, ma, anche usando tutte le pagine di questa rivista, non ci sarebbe abbastanza spazio per descrivere che cosa ciascuno di voi ci ha permesso di realizzare.

Noi, però, conosciamo i vostri nomi uno per uno, e una per una rispettiamo le intenzioni che accompagnano la vostra donazione: quello che ci avete affidato è diventato quadei, pompe idriche, cibo, farmaci, microscopi, sementi, salari dei maestri, attrezzi agricoli, letti per il parto, avvocati che hanno difeso minoranze ingiustamente espropriate, cacciate, aggredite.

Grazie a voi, anche nel 2016 abbiamo scritto una bella storia: siamo pronti a scrivere insieme il prossimo capitolo.


Diamo i numeri

  • Con 6 euro regali 10 set scolastici (penna, matita, gomma, quaderno) agli alunni di Tucupita.
  • Con 40 euro doni un kit per il pronto soccorso al centro prescolare di Morogoro.
  • Con 120 euro copri per tre mesi i costi di spostamento della scuola itinerante a Bayenga.
  • Con 300 euro sostieni a distanza un bambino in Congo o Tanzania.

Clicca qui se desideri dare il tuo contributo.
Grazie.
Puoi anche usare PayPal e IlMioDono
(in alto a destra)