Insegnaci a pregare 2: Non sappiamo pregare


Separare lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo è un’operazione antistorica e contraria alla fede. Essa impedisce di sperimentare la presenza di Dio con cui instaurare un dialogo d’amore. Sant’Agostino, che pure è responsabile di quella separazione in occidente, così dialogava con il Signore: «Tu sei a me più intimo del mio [stesso] intimo e più profondo della mia [stessa] profondità – interior intimo meo et superior summo meo» (Confessioni, III, 6, 11). Non basta scegliere una chiesa vuota, magari buia o in penombra per illudersi di pregare. È solo un psicologismo riparatorio per consolarci e assolverci per la nostra sistematica assenza dalla vita di Dio. La preghiera non è «una» dimensione della spiritualità – in tal caso sarebbe un accessorio -; essa è uno «stato» permanente dell’essere credente, come l’aria che si respira lo è della vita.

Pregare è innamorarsi

Pregare! Parola magica e tragica insieme, piena di evocazione, parola difficile che spesso non sappiamo riempire, perché scomoda e di cui abbiamo smarrito il senso. Pregare! Che cosa significa? San Paolo, che ne ha vissuto dramma e consolazione, spina e tenerezza, ci avverte nella lettera ai Romani: «Noi non sappiamo pregare/chiedere» (cf Rm 8,26). La stessa Parola di Dio, quindi, ci mette sull’avviso che la preghiera si apprende, s’impara andando a scuola da Gesù, l’unico esegeta del Padre (cf Gv 1,18), il solo Maestro (cf Gv 13,13). San Paolo, ai Corinzi che s’inebriavano d’intelligenza e di «mente», scrive:

«11I segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio… noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato… 14Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito… 16Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? [cf. Is 40,13] Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor. 2,11-12.14.16).

Solo lo Spirito conosce Dio e, quindi, solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito. Per entrare in relazione con Dio, bisogna avere un rapporto stabile con lo Spirito che ci mette in contatto con il pensiero di Cristo, superando la tentazione di Àdam, sempre in agguato, che cerca di sostituire lo Spirito con le sue forze che si rivelano «follia» e presunzione. Occorre abbandonarsi alla tenerezza dello Spirito se non vogliamo precluderci «i segreti di Dio», cioè la sua intimità. Diversamente ci attorcigliamo nella follia del nostro narcisismo volontaristico per apparire chi non siamo, moltiplicando parole su parole, perdendo tempo senza raggiungere alcun frutto. Sapendo che ci saremmo impantanati nella preghiera di contrattazione mercantile, lo stesso Gesù, l’uomo spirituale per eccellenza, ci aveva già messo in guardia, prima di regalarci il «Padre nostro», avvertendoci: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8). Segue il «Padre nostro», composto da sette domande: tre sono centrate sulla persona di Dio e quattro sulle relazioni fondamentali tra le persone. Il numero sette in ebraico indica totalità, a dire che nel «Padre nostro» c’è tutto e il resto è superfluo. Il commento supplementare di Gesù al «Padre nostro» è la parabola degli «uccelli del cielo» e «dei gigli del campo» per confermarci che è tempo perso chiedere a Dio «ciò di cui abbiamo bisogno», perché lui conosce già le nostre necessità. Quando vogliamo pregare di solito entriamo in una chiesa o una cappella, o magari ci ritiriamo in un angolo quieto della casa, e subito cominciano a parlare e a chiedere. Ci siamo mai fermati a «perdere tempo» con Dio che pure diciamo di amare «sopra ogni cosa»? Ci siamo mai interessati a lui, indipendentemente dai nostri bisogni? Dio, come stai? Come è andata oggi? Sei stressato anche tu, in questo mondo frettoloso che si uccide da solo? Molto spesso trattiamo Dio non come un «Padre», né come un Amico, ma come un distributore automatico: entriamo, mettiamo la moneta e pigiamo il pulsante per avere quello che c’interessa. Buon giorno, buona sera e alla prossima puntata.

Abitudine e passione

Il problema, forse, è che non ci fidiamo abbastanza né di noi né di Dio e quando parliamo di Provvidenza, il nostro cuore pensa alla previdenza. Altro che Spirito! C’è uno scollamento tra la vita feriale e le parole che diciamo e per questo il mondo non può credere, perché noi non siamo credibili e non abbiamo mai pensato che dirsi credenti non significa «andare a Messa» o in processione, o «confessarsi e comunicarsi almeno a Pasqua»; ma soltanto assumersi la responsabilità della credibilità di Dio che passa attraverso la nostra credibilità. Parliamo di amore fraterno, di amore gratuito, di accoglienza, di poveri, di perseguitati, di crocifissi e poi nutriamo sentimenti razzisti davanti agli immigrati, guardandoci bene dal dirlo apertamente, ma pensandolo nel profondo della nostra paura. Dio, l’Eucaristia, la Parola sono un’abitudine che abbiamo ricevuto per tradizione e non sono mai entrati a circolare come sangue nelle vene della nostra esistenza di credenti in Dio. L’unico e il solo che ha preso sul serio questa pagina «sine glossa» è stato Francesco di Assisi, il solo di cui, come abbiamo accennato, si poté dire che «non era uno che pregava, ma era preghiera egli stesso».

La preghiera, infatti, non è un’attività, ma uno «stato» interiore di comunione/intimità tra Gesù e suo Padre, tra noi, Gesù e il «Padre nostro». È una consuetudine di dialogo affettivo e reale che si snoda lungo la vita, nella giornata, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Non è un processo psicologico emotivo, anche se questi aspetti sono presenti, ma è una dinamica di relazione tra due persone che si conoscono, si stimano, si accolgono, si desiderano. Pregare è essere presente, non per educazione, ma esclusivamente perché l’altro è importante: la persona più importante, senza della quale non si può vivere. Spesso confondiamo la preghiera con la recita di formule più o meno complesse che esprimono solamente il nostro bisogno psicologico di «sentirci» protetti e al sicuro, col rischio che si possa confondere la preghiera con il parlare con se stessi. Ci affidiamo alle parole perché abbiamo paura del silenzio che è la condizione dell’ascolto.

La persona narcisista che si parla addosso, non è capace di ascoltarsi e di ascoltare, per cui di norma resta estranea non solo agli altri, ma anche a se stessa. Anche se utilizziamo i salmi e ci serviamo della Liturgia delle Ore, non è detto che stiamo pregando. Se non sappiamo pregare, occorre imparare a capire chi si è, a quale livello di profondità e per quale scopo si vive e conoscere il perno attorno a cui ruota tutta la nostra esistenza. Essenzialità e priorità: abbiamo mai pensato a individuarle? Il primo passo della preghiera è «sapere cosa vogliamo» da noi stessi, «dove» siamo nel cammino della nostra vita e nella storia della salvezza. Da questa prospettiva la preghiera è la costante verifica di questo percorso, illimpidirsi lo sguardo per vedere «dove» si è e «dove» si va, per non correre invano o, peggio, a vuoto. La preghiera non è una routine che si consuma ogni giorno con le stesse modalità: Lodi al mattino, Ora media durante la giornata, Vespro la sera e Compieta prima di andare a dormire. Possibilmente trafelati. Molti religiosi e cristiani che pregano con il «Breviario» spesso s’illudono di pregare solo perché «recitano» la preghiera ufficiale della Chiesa, perché «obbligatoria» e quindi «per non fare peccato», limitandosi inevitabilmente alla materialità delle formule, in fretta e senz’anima. Non si rendono conto che hanno ingannato se stessi, illudendo gli altri che eventualmente li osservano.

Se pregare è un rapporto d’amore, occorre essere innamorati (è un concetto che ritornerà spesso in questa nostra riflessione) e, in ogni rapporto d’amore, i due innamorati devono sapere chi sono per se stessi e l’uno per l’altra, scoprendosi reciprocamente come l’uno sia la parte migliore dell’altra. Non si può essere innamorati a orario, allo stesso modo non si può pregare con lo scadenziario alla mano, come se pregare fosse una tassa da pagare. Un esempio chiarirà questo aspetto importante. Tutti dovrebbero sapere che l’Eucaristia è la preghiera per eccellenza della Chiesa, l’atto centrale della vita di Dio che si manifesta nella vita dell’ekklesìa perché è l’azione con cui il popolo di Dio offre al Padre il Figlio che si dona all’umanità e allo stesso tempo lo riceve come benedizione da spargere nel mondo con il sacramento della testimonianza della vita.

Altri tempi, altra preghiera

I martiri di Abitène (vedi Box) nel 304 non esitarono a morire per celebrare l’Eucaristia domenicale e, al procuratore romano che voleva costringerli a desistere, risposero senza tentennamenti: «Sine dominico, non possumus», cioè «Senza la Messa domenicale, non possiamo vivere» (Atti dei Martiri di Abitène, XII), perché qui è la Parola, il Pane, il Vino, il Perdono, la Fraternità, l’Universalità. In un soffio: qui è il Cristo condiviso.

L’Eucaristia è non solo «un sacramento», ma la vita stessa della Chiesa perché è l’annuncio al mondo che Cristo è risorto e «se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). Come può, dunque, l’Eucaristia diventare un’abitudine, un atto di devozione, un dovere/obbligo/precetto «per non fare peccato»? Si può amare per dovere? Se l’amore fosse un dovere, nessuno amerebbe e nessuno si sposerebbe e nessuno avrebbe figli e figlie. Si ama e si può amare solo per amore, e per amore a perdere, non per averne una contropartita. Certo, l’amore ha dei doveri, che però ne sono conseguenza, mai la ragione. La maggior parte dei credenti, fa tranquillamente a meno dell’Eucaristia domenicale e se va a confessarsi, mette tutto a posto con «ho perso qualche Messa». Nelle stesse comunità religiose, la Messa è «una pratica di pietà» banale da sistemare alla meno peggio. Se nell’Eucaristia cerchiamo una consolazione sentimentale o vi «andiamo» per compiere un dovere necessario, perché vi siamo obbligati dalla «legge», siamo ancora nel vecchio mondo, anzi restiamo morti e incapaci di cogliere la novità della storia, cioè che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù» (At 3,13). Partecipare all’Eucaristia è vivere esistenzialmente la preghiera piantati nel cuore di Dio perché il popolo convocato innalza sul mondo colui che è stato trafitto affinché tutti possano alzare lo sguardo su di lui e ricevere il dono dello Spirito: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; Zc 12,10).

Di fronte a questo evento che sconvolge la vita di Dio e quella della Chiesa, l’atteggiamento corrente è tragico: l’Eucaristia – la Messa – è trasformata in un «atto di devozione» privato e banale, «Dico Messa la mattina, così mi tolgo il pensiero per la giornata». Dire Messa! Una recita e null’altro. Nelle parrocchie le «Messe» sono misurate sulla persona del prete o delle intenzioni: Messe ripetute a ogni ora, anche se vi partecipano poche persone oppure tante Messe quanti sono i preti perché a ogni Messa corrisponde un’offerta. È un dramma avere legato l’Eucaristia a «un’offerta sinodale», mercificando anche il corpo di Dio. Quanti preti celebrerebbero la Messa se non fosse legata a una offerta? Non sta qui la ragione prima della secolarizzazione e dell’incredulità del mondo di oggi? I preti sono professionisti, non «sacramento» della gratuità di Dio. Non era questa l’intenzione, ma a forza di agire così si è arrivati a commercializzare anche l’atto supremo della preghiera e della gratuità fino a ridurlo a una pia pratica di devozione come tante.

Amare esige tempo

In molte parrocchie e chiese, per esempio, mezz’ora prima dell’Eucaristia, si recita il Rosario o si fa l’esposizione del Sacramento eucaristico che è o dovrebbe essere la conseguenza dell’Eucaristia celebrata. In questo modo «si riempie» il tempo con altri «momenti» perché non si è abituati né al silenzio né a essere silenzio di ascolto e di amore. Bisogna «fare», con l’esito finale che si finisce per fare male ogni cosa. In certi luoghi poi – molto di più nel passato, quando era un’abitudine – le parrocchie affittavano un confessore che stava fisso in confessionale durante tutta la Messa. Si «andava a Messa» per prendere due piccioni con una fava: «prendere Messa» e «mettersi a posto», finendo per non fare bene né l’una né l’altra cosa. Ciò che era importante era la presenza fisica, l’adempimento giuridico e formale, non l’atteggiamento spirituale del cuore. Determinante era arrivare alla Comunione «confessati». Pazienza se si era sacrificata la Parola di Dio, cioè la prospettiva vitale per cui Dio stesso si è scomodato per annunciarci il suo progetto di amore e si tornava a casa consci di aver compiuto il proprio dovere quantitativo… fino alla prossima volta. Le stesse Messe «a tutte le ore» erano finalizzate a facilitare la frequenza, senza alcun riferimento all’elemento comunitario, all’assemblea come «luogo» supremo dell’incontro d’amore tra Dio e il suo popolo. Tutte le Messe, tranne quella dei «bambini», erano deserte, con uno sparuto numero di presenti, sparpagliati nell’immensa chiesa, uno qua, l’altro là e il prete laggiù in fondo, quasi invisibile che recitava formule astruse per un dio sconosciuto. Ognuno per sé e Dio per tutti.

Raramente si sente dire: celebro l’Eucaristia nell’ora per me più importante della giornata. Gli Ebrei insegnano che ci vuole almeno un’ora di tempo per predisporsi all’incontro con Dio. Attenzione alle parole: non per incontrare Dio, ma solo per predisporsi all’incontro. Quando due innamorati si preparano per incontrarsi tra di loro, sono così contaminati dalla presenza, ancora assente, dell’altro che l’attesa è già più passionale dell’incontro perché la preparazione minuziosa e intensa si prende il tempo necessario, coinvolgendo tutta la gamma dei sentimenti umanamente possibili, dall’ansia al desiderio, dalla frenesia all’immaginazione. Tutto è finalizzato alla persona attesa che è potentemente presente prima ancora di averla incontrata. Se avviene questo nei rapporti umani perché a Dio consacriamo gli scarti di tempo e di energie? Pregare è come l’amore: perdere tempo per la persona amata. Lo sa bene il profeta Geremia che, dopo essersi lasciato sedurre, si abbandona, pur sapendo che soffrirà molto: «Mi hai sedotto e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7). Quando saremo in grado di pregare con queste parole, e queste parole avranno il sapore della carne e del sangue della vita, allora e solo allora, avremo finito il noviziato di apprendimento e potremo cominciare a entrare nella dinamica della vita di preghiera.

Paolo Farirella, prete
[2. – continua]


Abitène o Abitina

(in latino Abitinae) era una città della provincia romana, detta Africa proconsolaris, oggi Tunisia, a Sud Ovest dell’antica Mambressa, oggi Medjez el-Bab, sul fiume Medjerda secondo una indicazione di Sant’Agostino, vescovo d’Ippona (cf. Contra epist. Parmeniani, III, 6, 2 = CSEL 51,141; cf anche J. Schmidt, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der klassischen Altertumwissenschaft, I, 1, 101, s.v. Abitinae). Ad Abitène viveva una comunità cristiana. Il 24 febbraio dell’anno 303, l’imperatore romano Diocleziano aveva emanato l’editto contro i Cristiani, ordinando di distruggere i libri sacri, i luoghi di culto in tutto l’impero e proibendo, pena la morte, ogni assemblea per celebrazioni religiose. Il vescovo del luogo, Fundano, si adeguò immediatamente all’ordine imperiale, mentre 49 Cristiani, tra i quali vi era anche Dativo, senatore, e Restituta, continuarono a radunarsi illegalmente con il presbitero Saturnino, celebrando l’Eucaristia. Arrestati, furono tradotti a Cartagine, la capitale della provincia romana per essere processati, il 12 febbraio del 304, davanti al proconsole Anulino. Nessuno abiurò, ma tutti fieramente affermarono il loro diritto di essere cristiani e molti subirono la tortura, morendo. Uno di loro, Emerito, interrogato sul perché avesse disobbedito all’ordine dell’imperatore, rispose la frase ormai celebre: «Sine dominico non possumus – Non possiamo [vivere] senza [il giorno del] Signore», cioè senza la celebrazione dell’eucaristia domenicale (cf. Martyrologium Romanum, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001; «Passio SS. Dativi, Saturnini Presb. et aliorum», in Pio Franchi Dei Cavalieri, Note agiografiche. Studi e testi, n. 65, fsc. 8, Città del Vaticano 1935).




Convivere con l’autismo


È un disturbo del cervello e della mente che può manifestarsi in forme molto diverse. Si stima che nel mondo le persone autistiche siano 60 milioni. Per le famiglie dei 500 mila autistici italiani le difficoltà sono tante.

Nel 2007 le Nazioni Unite hanno indetto per il 2 aprile la Giornata Mondiale della consapevolezza sull’autismo. Questa celebrazione annuale ha lo scopo di sensibilizzare la popolazione su una sindrome in aumento e ancora difficile da comprendere e nel contempo di sollecitare le istituzioni a migliorare i servizi e l’assistenza alle persone colpite e alle loro famiglie. In questo numero di MC parleremo delle caratteristiche note della malattia, mentre nel prossimo articolo vedremo quali possibili implicazioni può avere l’inquinamento ambientale sulla sua insorgenza e, più in generale, sullo sviluppo del cervello umano.

Il disturbo autistico

Fino a qualche decennio fa si pensava che l’autismo fosse una conseguenza del rifiuto del figlio da parte della madre in sua attesa, per cui si sottoponevano a inutili sedute psicologiche sia la madre che il bambino. Le conoscenze attuali ci permettono di dire invece che l’autismo è un disturbo dello sviluppo biologicamente determinato, i cui sintomi compaiono nei primi tre anni di vita. È provato che questa patologia è associata a un disturbo dello sviluppo tanto del cervello (con alterazione delle strutture e delle funzioni nervose) che della mente (con alterazioni dello sviluppo psico-cognitivo ed emozionale).

Secondo il DSM IV-TR (Diagnostic Statistical Manual IV, redatto dall’American Psychiatric Association), il manuale dei disturbi mentali in uso presso gli specialisti, si tratta di una disabilità permanente, che perdura per tutta la vita. Le caratteristiche del deficit variano nel corso dello sviluppo di ogni individuo ed inoltre le manifestazioni della malattia possono essere molto diverse da bambino a bambino, andando da una lieve a una grave sintomatologia, tanto che si preferisce parlare di «Disturbi dello spettro autistico» o di «Disturbi pervasivi dello sviluppo». In realtà in questa categoria i clinici comprendono anche la sindrome di Asperger (che qualcuno considera una forma di autismo ad alto funzionamento, senza ritardo mentale), la sindrome di Rett, o altri disturbi (si veda la tabella). Circa il 50% degli autistici presenta ritardo mentale e il 30-40% epilessia.

Le principali aree di compromissione sono tre e riguardano l’interazione sociale, la comunicazione verbale e non verbale e il comportamento.

L’interazione sociale del soggetto autistico è caratterizzata dalla compromissione, dal ritardo o dall’atipicità dello sviluppo delle competenze sociali soprattutto nelle relazioni interpersonali. Il bambino mostra scarso interesse a relazionarsi con gli altri, tende all’isolamento e può mostrare un’apparente indifferenza emotiva agli stimoli o, al contrario, ipereccitabilità. Inoltre può esserci difficoltà a instaurare un contatto visivo.

La comunicazione dell’autistico è compromessa sia a livello verbale che non verbale. Si stima che circa il 25% degli autistici non sia in grado di comunicare verbalmente, mentre coloro che riescono a utilizzare il linguaggio spesso si esprimono in modo bizzarro, ad esempio con parole fuori contesto o con ecolalia, cioè con molteplici ripetizioni della stessa parola.

L’immaginazione risulta povera e stereotipata. Il bambino autistico difficilmente riesce a fare un gioco simbolico o di immaginazione. I suoi comportamenti sono ritualistici e ripetitivi e caratterizzati da scarsa flessibilità ai cambiamenti della routine quotidiana e dell’ambiente circostante, al punto da avere reazioni abnormi, come perdita di controllo, rabbia, aggressività nel caso in cui qualcosa cambi. Anche le posture e certe sequenze di movimenti possono risultare stereotipati.

Oltre alle tre principali aree di compromissione, la cui osservazione permette di porre la diagnosi di autismo, ci sono altri sintomi che da soli non bastano per fare questa diagnosi, ma che spesso sono presenti come la ipersensibilità agli stimoli sensoriali, le condotte autolesive e le aree di abilità. Ad esempio la capacità di contare un impressionante numero di oggetti in pochissimo tempo o di memorizzare l’elenco telefonico, come faceva il protagonista di Rain Man, film del 1988, che per la prima volta portò il problema dell’autismo sul grande schermo, mirabilmente interpretato da Dustin Hoffman nella parte del malato di autismo e da Tom Cruise, il fratello minore che se ne prendeva cura (in foto).

Più maschi che femmine

Per quanto riguarda la diffusione dell’autismo, non ci sono prevalenze geografiche o etniche, ma si tratta di una patologia ubiquitaria. C’è invece una prevalenza di sesso, poiché i maschi sono colpiti circa quattro volte più delle femmine. La stima di prevalenza più attendibile attualmente sembra essere di 10 casi su 10.000 bambini in età scolare. Secondo il Centers for disease control and prevention (cdc.gov), su dati 2012 riferiti a bambini di 8 anni, 1 su 68 è affetto da disordine autistico (aprile 2016). Confrontando questi dati con quelli del passato, si può dire che attualmente l’autismo è 3-4 volte più frequente di 30 anni fa. Molti studiosi pensano però che, più che un reale incremento della malattia, questa disparità di dati con il passato sia dovuta alla migliore capacità diagnostica di oggi, all’allargamento dei criteri diagnostici, all’abbassamento dell’età alla diagnosi, alla maggiore sensibilizzazione degli operatori e della popolazione in generale verso questo disturbo. Attualmente negli Stati Uniti le persone interessate sono circa 3,5 milioni. Nel mondo le persone autistiche sono circa 60 milioni e si stima che, in Italia, siano circa 500.000 (0,86% circa della popolazione), anche se tuttora nel nostro paese non esistono dati ufficiali.

Oltre al miglioramento della capacità di diagnosticare l’autismo, molti esperti imputano l’aumento del numero dei casi registrati negli ultimi trent’anni a cause genetiche ed epigenetiche. In NPJ Genomic Medicine sono stati pubblicati i risultati di uno studio condotto da S. Scherer all’Hospital for Sick Children di Toronto, in cui sono stati esaminati i campioni di Dna di 200 famiglie con un figlio autistico. In particolare sono state ricercate le mutazioni de novo, cioè quelle non ereditate dai genitori, ma insorte casualmente nel corso della vita nelle cellule germinali. È stato osservato che il 75,6% di tali mutazioni interessa gli spermatozoi e che la loro frequenza subisce un notevole incremento con l’aumentare dell’età del padre. Per quanto riguarda gli ovociti materni, le mutazioni de novo si presentano sotto forma di ammassi (cluster) dovuti a polimorfismi del Dna (variazioni nel numero delle copie di geni), che di solito vengono eliminati spontaneamente dal cromosoma materno. Le mutazioni de novo correlate allo spettro autistico riguardano in particolare geni coinvolti nella trasmissione sinaptica, nei meccanismi dell’espressione dei geni e nell’organizzazione della cromatina. Un’altra interessante ricerca condotta dagli scienziati del Centre national de la recherche scientifique di Marsiglia, mediante la risonanza magnetica nucleare effettuata su bambini di due anni di età, ha evidenziato nell’«area di Broca» del cervello (l’area che presiede alle funzioni del linguaggio e della comunicazione) una minore presenza di materia grigia nei cervelli dei bambini autistici, rispetto ai controlli normali. Questa ricerca ha il merito di avere dimostrato che un marcatore specifico dell’autismo è presente nel cervello già in tenerissima età. Da qui l’importanza fondamentale di una diagnosi precoce, che permetta l’avvio di interventi mirati capaci di sfruttare la neuroplasticità del cervello del bambino, in modo da attivarne le potenzialità, che rimarrebbero sopite con interventi tardivi.

Diagnosi e terapie

Fino a non molto tempo fa la diagnosi di autismo veniva posta tra i due e i quattro anni, ma attualmente gli specialisti ritengono che già intorno ai 18 mesi, quando i genitori si rendono conto che qualcosa non va, sia fondamentale sottoporre il bimbo a visita specialistica. Un esempio di grande recupero dalla malattia è rappresentato dalla dottoressa Temple Grandin, che – pur essendo autistica – è riuscita a conseguire un dottorato in zootecnica presso l’Università dell’Illinois e ha una carriera internazionale nell’ambito delle apparecchiature zootecniche. La Grandin, autrice di Emergence: Labeled Autistic (1986), sostiene che il suo recupero è avvenuto grazie all’intervento di insegnanti esperti a partire dai due anni e mezzo.

La scarsa conoscenza dei meccanismi biologici alla base dell’autismo è chiaramente un grosso limite per una terapia mirata, soprattutto in considerazione dei diversi gradi di disturbo dello spettro autistico. Questo implica l’indispensabilità di espandere la ricerca. Attualmente gli interventi a disposizione per migliorare la qualità della vita dei soggetti autistici sono di tipo farmacologico (limitati di solito ai momenti di maggiore instabilità) e di tipo abilitativo comprendenti diverse metodologie come le tecniche di analisi del comportamento, le tecniche di apprendimento basate sul rinforzo per migliorare le capacità cognitive e adattative, il gioco come tecnica di apprendimento, per migliorare gli aspetti emotivi relazionali. È fondamentale che i piani d’intervento siano personalizzati, così come lo è una stretta collaborazione e cornordinazione tra la famiglia del soggetto autistico, il servizio di neuropsichiatria infantile e la scuola.

L’Italia e la legge 134

Come si affronta il problema dell’autismo in Italia? Pur essendo noto da anni alla scienza, alla medicina e alla società, in Italia la prima legge dedicata specificamente a questo problema è la n. 134 emanata il 18 agosto 2015, contenente «Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie». Questa legge, che stabilisce le linee guida per i servizi, la formazione degli operatori sanitari, la definizione di équipe territoriali, la promozione dell’informazione e della ricerca, le buone pratiche terapeutiche ed educative e la cornordinazione dei vari interventi, rischia di rimanere però solo sulla carta poiché all’art. 4 si dice che «Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni interessate alla relativa attuazione vi provvedono con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente». In tal modo spesso solo le famiglie più abbienti possono fare curare efficacemente i propri figli autistici, rivolgendosi a centri privati. Oltretutto non sempre l’offerta privata è sicura poiché il rischio di incorrere in terapeuti improvvisati, in questo campo, è elevato. Inoltre la legge si disinteressa degli autistici adulti, che al compimento dei 18 anni perdono ogni diritto ad essere seguiti gratuitamente da medici specializzati e da insegnanti di sostegno, rischiando di retrocedere nelle abilità acquisite. Per loro è prevista al massimo l’indennità di accompagnamento. Insomma, l’autismo è per sempre, ma la legge italiana non lo sa. Anche se forse qualcosa si muove. I nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea), varati lo scorso 12 gennaio, recepiscono la citata legge n. 134 del 2015, per la diagnosi precoce, la cura e il trattamento individualizzato dei disturbi dello spettro autistico. Speriamo sia la volta buona.

Rosanna Novara Topino
(seconda puntata – continua)




La Costa d’Avorio in ostaggio /1


Reportage dalla Costa d’Avorio. Dall’arrivo ad Abidjan, capitale economica e culturale del paese, proprio nella settimana dell’ammutinamento dell’esercito e dello sciopero dei dipendenti pubblici, alla visita alle missioni di Marandallah e Dianra, nel Nord del paese dove operano i missionari della Consolata.

«Sei stata in Costa d’Avorio dieci anni fa? La troverai molto cambiata, allora. Abidjan ad esempio: ora ha strade nuove, un nuovo ponte con il pedaggio ed è molto, molto più pulita». Così mi dice durante il volo una trentenne ivoriana che vive da vent’anni in Germania, dove lavora in proprio come parrucchiera. Di Costa d’Avorio, in realtà, sa poco o nulla, ormai: torna una volta all’anno per vedere i fratelli e per godersi il buon cibo ivoriano: il foutou, una sorta di polenta fatta con la banana, la manioca o l’igname a seconda della zona e il pesce cotto al vapore dentro una foglia di banano.

Ammutinamento dei militari

All’uscita dell’aeroporto della capitale ivoriana, però, le notizie che raccogliamo non riguardano i passi avanti nell’urbanistica di Abidjan, ma l’ammutinamento dei militari del Nord del paese, in particolare a Bouaké. Non di tutti i militari, bensì degli anciens combattants, cioè i ribelli integrati nell’esercito che avevano sostenuto, nella fase di uscita dalla crisi, la corsa alla presidenza dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, detto Ado. L’attuale insubordinazione in seno all’esercito altro non è che il batter cassa degli ex ribelli, ai quali la compagine politica di Ado aveva promesso premi in denaro e privilegi in cambio del loro sostegno. Nel novembre 2014 c’era stata un’avvisaglia, ma si trattò di una semplice protesta; quello di oggi, gennaio 2017, è un vero e proprio ammutinamento iniziato la settimana successiva all’Epifania dalle città del Nord ed esteso poi agli ex ribelli nell’esercito di stanza in tutto il paese.

La richiesta al governo era chiara: soldi, miglioramento delle condizioni delle caserme e case per le famiglie dei soldati. Ouattara era in Ghana alla cerimonia di insediamento del suo omologo dopo le elezioni nel vicino anglofono. È rientrato in tutta fretta per convocare un Consiglio dei ministri e reagire all’emergenza. Dopo momenti di grande tensione culminati nel sequestro del ministro della Difesa inviato a Bouaké a trattare, un accordo è stato raggiunto e i militari sono rientrati nelle caserme. Ma il 13 gennaio, giudicando insufficienti i gesti del governo in direzione del rispetto degli accordi, i soldati hanno ricominciato a protestare creando disordini, stavolta più violenti.

Proteste e disordini

«Padre Alexander Likono, uno dei nostri confratelli, era a Bouaké per delle commissioni», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. «All’entrata in città ha trovato una cinquantina di militari: abbiamo preso Bouaké, dicevano, e prenderemo tutta la Costa d’Avorio. Poi gli hanno ordinato di scendere dalla macchina e di cederla a loro. Al suo rifiuto, lo hanno minacciato. Dopo una serie di negoziazioni e dopo avergli estorto denaro lo hanno lasciato andare, ma la paura è stata davvero tanta». I giornali hanno scritto che non ci sono stati incidenti seri, ma chi era a Bouaké parla di due morti e diversi casi di stupro.

«La situazione è grave», continua padre Ramón, «perché la popolazione, esasperata da una settimana di blocco delle attività economiche, si è ribellata ai militari, e questi hanno aperto il fuoco sulla folla. È un miracolo che non ci siano decine di morti».

Anche dopo i fatti del 13 gennaio governo e militari hanno siglato un accordo, ma il 17 gennaio c’è stata una terza ondata di disordini che ha causato quattro morti. A protestare non sono stati stavolta gli ex ribelli integrati nell’esercito, ma quelli entrati in forze alla gendarmerie e alla polizia, intenzionati a ottenere lo stesso trattamento dei «fratelli» militari. A peggiorare ulteriormente il clima è stato lo sciopero dei dipendenti pubblici a partire dal 9 gennaio, che ha portato, fra le altre cose, alla chiusura delle scuole per tre settimane.

La tensione sociale è alta: il governo avrebbe accettato, almeno sulla carta, l’esorbitante richiesta dei circa 8.500 militari ribelli, equivalente a circa 7.500 euro a testa (ma secondo altre fonti a questi si aggiungerebbero altri 10 mila euro da corrispondere in sette mesi), creando malumore in tutto il paese. I dipendenti pubblici, ad esempio, vivono la resa del governo come un’ingiustizia che aggrava l’inadeguatezza dei loro salari.

Il 7 febbraio le Forze speciali dell’esercito si sono ammutinate a Adiaké, città di confine con il Ghana. Reclamano pure loro premi economici come quelli accordati ai commilitoni.

Malumore popolare

Ma, ricorda ancora padre Ramón, il malcontento è diffuso soprattutto nella fascia più ampia della popolazione, quella che non può far valere le sue ragioni attraverso le armi né far sentire la propria voce con uno sciopero. Si tratta della gente comune, che un salario non lo ha mai visto e che vive di agricoltura e commercio. «Con quali soldi il governo pagherà i ribelli?», si chiede la gente. «Userà denaro pubblico sottraendolo agli investimenti in infrastrutture, sanità e scuola?».

La popolazione è disgustata dai militari che, riconvertendo i blocchi stradali del tempo di guerra in improvvisate frontiere interne, non hanno mai smesso di estorcere denaro a chi passa per trasportare cacao, anacardi, cotone o per andare a coltivare i campi. È stufa di non poter mandare i figli a scuola e di avere i servizi sanitari ridotti al minimo a causa dello sciopero. È, infine, spaventata dalla possibilità di ricadere in un conflitto – logorante, estenuante – come quello che solo dieci anni fa aveva trasformato il Paese modello dell’Africa Occidentale in una discarica di odio interetnico, di macerie di interi settori economici e di detriti di servizi pubblici e infrastrutture, sbriciolati dai tarli della corruzione. Alla data di chiusura di questo articolo la situazione sembra essersi stabilizzata, ma sono tanti a temere che il ritorno della tensione sia dietro l’angolo.

Marandallah, la missione del dialogo

Marandallah è una sottoprefettura nel Nord Ovest della Costa d’Avorio a poco meno di 500 chilometri da Abidjan. Siamo in piena zona koro, gruppo mandé presente in tutto il Nord ivoriano. Il 72 per cento della popolazione è musulmano, seguito da un 25 per cento che pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento. I cattolici sono 912 su un totale di 42mila abitanti.

«Date queste premesse», dice padre Alexander Likono, keniano missionario della Consolata che lavora a Marandallah (quello scampato al posto di blocco di Bouaké), «è facile capire come il dialogo interreligioso sia al centro del nostro lavoro qui. Al servizio del dialogo è anche il nostro impegno nel campo della sanità e dell’istruzione e formazione».

Le attività economiche principali della zona sono le coltivazioni dell’anacardo e del cotone. «I campi hanno un’estensione di un ettaro o due per famiglia», spiegano John Baptist Ominde Odunga, confratello e connazionale di padre Alexander. «A lavorare la terra sono, insieme agli adulti, anche i bambini, che spesso per questo smettono di frequentare la scuola primaria o addirittura non iniziano nemmeno il percorso scolastico.

La scuola secondaria conta circa 450 allievi, ma i professori – assegnati a settembre – hanno iniziato ad arrivare solo a gennaio. «È un luogo troppo isolato», continuano i due missionari, «qui gli insegnanti non ci vogliono venire. Per questo abbiamo proposto una soluzione temporanea ispirandoci a quel già avviene nel paese dal 2002 a causa della crisi: abbiamo coinvolto i giovani che hanno finito la secondaria chiedendo loro di darci una mano». A partire da novembre questi giovani sono impegnati come insegnanti volontari. Le famiglie degli studenti si auto tassano e riescono a dare ai volontari un piccolo rimborso di trentamila franchi al mese, pari a circa 45 euro, un quinto del salario di un insegnante statale. «Io stesso ho insegnato inglese», racconta Alexander. «Certo non può essere una soluzione definitiva, ma l’alternativa era lasciare 450 ragazzi senza scuola».

Il dialogo interreligioso e, più in generale, la reciproca conoscenza e cooperazione con la popolazione di Marandallah ha come luogo simbolo il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’amicizia), una sorta di parco poco fuori dal villaggio. Nel Jardin, ideato e curato da padre João Nascimento, missionario portoghese attivo a Marandallah fino a dicembre 2016, si svolgono, oltre alle celebrazioni cattoliche, momenti di aggregazione ai quali partecipano tutti gli abitanti del villaggio. Altro luogo di aggregazione è il centro per le attività sociali di fronte alla missione, che ha sale per la formazione, un piccolo ristorante, un campo da gioco. Vi è poi l’alfabetizzazione, che si svolge sia a Marandallah che nei villaggi intorno all’interno degli appatames, strutture aperte simili a paillotte (tettornie circolari aperte, con tetto di paglia).

Altra attività fondamentale dei missionari a Marandallah è il centro di salute Notre Dame de la Consolata. Il centro ha un dispensario, una maternità che segue fra le quaranta e le sessanta donne per mese, un laboratorio utilizzato anche per la diagnosi e il monitoraggio dei casi di Hiv. Dalla fine dello scorso anno, poi, la maternità dispone anche dell’ecografia. Il centro è una struttura di riferimento per la diagnosi e cura dell’Hiv/Aids in collaborazione con Sev-Ci, Ong ivoriana specializzata in questo campo. «La difficoltà maggiore», spiega ancora padre Likono, «è far capire alle persone quanto sia importante venire tempestivamente al centro di salute quando hanno un problema. Spesso tentano di curarsi con i metodi tradizionali e si trascinano per mesi malattie guaribili in pochi giorni. Lo stesso vale per quelle donne incinte che non vengono a farsi visitare durante la gravidanza e che, in caso di parti problematici, arrivano qui in condizioni terribili, a volte troppo tardi». Portare i pazienti all’ospedale più vicino, se il caso è troppo complicato per essere risolto al centro, significa far loro affrontare ore di viaggio in ambulanza su piste difficili, specialmente con le piogge, per un costo fra i 60 e i 90 euro.

Dianra. Salute, alfabetizzazione e microcredito

Ottanta chilometri di pista più a Nord – l’asfalto finisce una quarantina di minuti prima di arrivare a Marandallah ed è praticamente assente in tutto il Nord – si trova Dianra. Un bambino di una decina d’anni attraversa il cortile della missione nel buio della sera, ha in mano una busta di plastica con dentro penna, matita, quaderno e lavagnetta. Raggiunge gli altri circa 160 bambini e adulti che si intravedono nei quadrati luminosi di porte e finestre delle aule della missione, le teste chine sui banchi o protese verso la lavagna.

«Questi sono i corsi di alfabetizzazione, sono cominciati quindici anni fa», spiega padre Raphael Njoroge Ndirangu, un altro missionario keniano che lavora a Dianra. «Non sono decollati subito, ma poi piano piano le persone hanno cominciato a vederne l’utilità nel loro quotidiano». Hanno capito, ad esempio, che saper leggere e scrivere permette loro di gestire direttamente la vendita del cotone o degli anacardi che producono invece di mettersi nelle mani di intermediari che barano sul peso e si accordano con i compratori per spartirsi il maltolto. Oppure hanno visto tre loro colleghi degli anni passati superare l’esame di stato che riconosce il livello scolastico raggiunto e trovare così lavori che altrimenti non avrebbero potuto avere. «Certo, non è facile per loro rimanere concentrati dopo una giornata nei campi, ma sono motivati e in questo gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale». Altra attività che riesce a influire sul quotidiano delle persone è il microcredito, cornordinato da padre Manolo Grau, missionario spagnolo con all’attivo parecchi anni di Congo, poi approdato in Costa d’Avorio. «A oggi abbiamo 165 donne che partecipano al programma di microcredito, che è un’iniziativa stabile e, anzi, in crescita». A gestire le donne, suddivise in gruppi di cinque, sono sei responsabili, una delle quali è musulmana, a riprova che anche la missione di Dianra, come Marandallah, ha nel dialogo con le altre religioni uno dei suoi punti fermi. «Finora i vari gruppi di donne hanno semplicemente completato i cicli triennali di microcredito con percentuali di rimborso che non sono scese mai sotto il 98 per cento. Ora, dato il consolidamento dell’iniziativa, padre Manolo e le sei responsabili cominciano a pensare a un salto di qualità. «Potrebbe essere una cornoperativa, un orto comunitario, un’attività generatrice di reddito che riunisca alcune di queste donne in un progetto comune. Ma un’iniziativa del genere può funzionare solo se viene da loro. Il nostro lavoro è quello di accompagnarle nella riflessione e nell’eventuale formalizzazione di una proposta».

Un salto di qualità, invece, lo ha fatto nel 2016 il Centro di Salute Giuseppe Allamano a Dianra Village, località a 22 chilometri da Dianra. Padre Matteo Pettinari, missionario italiano e responsabile del centro, ha radunato tutto il personale nell’atrio del dispensario e Victor, infermiere recentemente entrato in forze al centro, guida la visita alla maternità, al laboratorio, allo studio dentistico terminati nel febbraio 2016. Questi completano il dispensario e la farmacia, che esistevano già; il centro così ampliato riceve crescenti richieste da parte di nuovi pazienti. I parti sono arrivati a circa 28 al mese.

«Grazie al sostegno di Amico, di Mco e di una parrocchia di Pesaro», spiega padre Matteo, «abbiamo inoltre costruito le cases de santé nei villaggi intorno a Dianra Village. Si tratta di piccole strutture presso le quali facciamo sanità di base e portiamo avanti il programma sulla lotta alla malnutrizione». «In quattro degli undici villaggi che serviamo», afferma Suzanne, ausiliaria responsabile con Victor del programma malnutrizione e membro dell’équipe mobile del Centro, «seguiamo 152 bambini malnutriti, ma prevediamo di ampliare progressivamente il programma anche agli altri piccoli che abbiamo individuato nei restanti villaggi».

Chiara Giovetti – [continua]




AMICO: La dramma perduta


Sei sola in casa. Contemplavi le tue dieci dramme mentre era giorno e quando è scesa la sera non te ne sei accorta. Non sai nemmeno tu come hai fatto. Forse eri presa dal cruccio di dover trovare un posto sicuro in cui conservare il tuo tesoro. È buio adesso: fuori e dentro. Distingui appena i contorni delle cose che tieni con te, ma ti sei abituata a stare nella penombra.

A un certo punto senti che qualcosa, chissà come, è venuto a mancare. Prendi coscienza poco per volta, per quanto l’oscurità te lo consente, che una dramma è perduta. L’hai persa in casa, è lì con te, ma non la trovi più.

È solo grazie alla scoperta di quella mancanza che decidi di accendere un lume per osservare meglio la tua casa interiore. Sposti gli oggetti, soprattutto quelli pesanti, quelli che paiono irremovibili a un primo sguardo, una dispensa, un armadio, un divano. Prendi la scopa e spazzi. Trovi cose dimenticate. Molte le butti, altre ti possono tornare di nuovo utili.

Durante la tua ricerca inizi a percepire che non sei sola. Quella dramma perduta sta a cuore anche a Lui.

A Lui stai a cuore tu.

Forse è Lui stesso quella dramma che cerchi.

Di certo Lui cerca con te quello che hai perso dentro di te.

La tua casa è sottosopra quando ritrovi la dramma perduta. Tu sei impolverata e spettinata, ma non resisti nemmeno un momento: esci e chiami le amiche. Non puoi tenere per te la dramma ritrovata. La spendi tutta per festeggiarla donandola.

Buona ricerca, buon ritrovamento e
buon cammino di quaresima da Amico.

Luca Lorusso


Amico, marzo 2017 – leggimi qui




I Perdenti 22. Madeleine Delbrêl


Madeleine Delbrêl, nasce il 24 ottobre 1904 a Mussidan, un piccolo comune dell’Aquitania francese, da una famiglia cattolica ma dalla pratica molto tiepida. A 15 anni, da acerba adolescente, si dichiara «strettamente atea», mentre a 17 anni sintetizza il suo pensiero sull’ateismo proclamando che «Dio è morto!». Verso i vent’anni l’incontro con alcuni giovani cattolici dalla fede cristallina la costringe a rivedere le sue sicurezze ideologiche, inizia così il suo cammino di conversione. La sua radicale inversione di marcia si può dire che è il frutto dell’inserimento e frequentazione amichevole in questo gruppo di coetanei credenti con i quali comincia a confrontarsi e, in particolare, con un certo Jean Maydieu, verso cui Madeleine prova una grande simpatia. Un bel giorno però Jean, seguendo il richiamo di una vocazione particolare, decide di entrare nell’Ordine dei Domenicani e di avviarsi verso il sacerdozio. La ribelle, anticonformista ed emancipata ragazza si trova così spiazzata. Si getta allora in un’appassionata e instancabile ricerca di quel Dio che è entrato così prepotentemente nella sua vita.

Da quel giorno si dà anima e corpo alla preghiera, coltiva sempre più il desiderio di scoprire e approfondire il messaggio evangelico, nel frattempo diventa un’efficiente capo scout e, insieme all’amore per la natura, ritrova la passione per la vita semplice e la solidarietà verso gli indifesi. Si diploma assistente sociale e nel 1933 si trasferisce con alcune compagne a Ivry-sur-Seine, quartiere dell’estrema periferia di Parigi, crogiuolo di tensioni e di lotte operaie, di scontri sociali e ideologici, lì vi resterà fino alla morte dando un’esemplare testimonianza di vita evangelica, non smettendo mai di ricercare il volto di Dio negli ambienti e fra le persone considerate dai benpensanti parigini «lontani dalla Chiesa» o peggio ancora «irrecuperabili alla fede».

Cara Madeleine, basta un semplice sguardo alla tua biografia e subito ci si rende conto che hai vissuto un’esperienza straordinaria, per quanto riguarda il cammino spirituale della tua vita.

Se ti rispondo dicendo che durante la mia adolescenza mi dichiaravo atea e pessimista, affermando che «Il mondo è un assurdo e di conseguenza la vita è un non senso», capirai che razza di «guazzabuglio» avevo per la testa.

Ma questo modo di pensare subì un drastico cambiamento durante la tua giovinezza.

Verso i venti anni incontrai alcuni giovani cattolici «ai quali Dio pareva essere indispensabile come l’aria che respiravano». Questo mi obbligò a pensare e a mettermi in discussione. Se fino a poco tempo prima guardavo il mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio, accettai l’ipotesi della sua possibile esistenza e decisi di iniziare un cammino del tutto nuovo per me. Per questo feci la scelta di dedicare tempo alla preghiera, perché ero convinta che quello fosse l’unico atteggiamento possibile e onesto per verificare l’esistenza di Dio. Con mia grande sorpresa attraverso la mia incerta e debole preghiera rimasi «abbagliata» da Dio.

Un ruolo molto importante in questa faccenda lo giocò un tuo amico, o sbaglio?

Proprio così, Jean Maydieu, un amico che mi era molto caro e che esercitava un forte fascino su di me e che un bel giorno decise di entrare nell’Ordine dei Domenicani per diventare sacerdote.

E tu come prendesti la sua decisione?

Da ragazza ribelle e anticonformista quale ero, con la stessa foga con cui anni prima avevo fatto aperta professione di ateismo, mi tuffai in un’appassionata e instancabile riscoperta di quel Dio che aveva folgorato i miei 20 anni, sconvolgendo in maniera così impetuosa la mia vita, facendomi intravedere un cammino nuovo da intraprendere, così come aveva indicato al «mio» Jean, la strada che doveva percorrere.

In questa situazione del tutto nuova quale orientamento pensavi di prendere?

Inizialmente pensai di entrare nel Carmelo, diventando suora di clausura. Però in seguito di problemi famigliari e grazie all’aiuto del mio padre spirituale, decisi che la mia strada doveva essere un’altra. Sentivo crescere in me una vocazione speciale: il mondo sarebbe stato il mio monastero.

In un’epoca in cui l’unica strada per la consacrazione di una ragazza era all’interno di un’istituzione religiosa, la tua scelta apparve di non facile comprensione anche per la comunità cristiana.

Come spesso succede in questi frangenti, all’inizio del nostro cammino non fummo, le mie compagne e io, subito capite sulla testimonianza che volevamo offrire alla Chiesa francese. Così, confidando nel Signore, nel 1933 partii per Ivry, sobborgo parigino operaio e marxista, assieme a un gruppo di ragazze che nel frattempo erano rimaste conquistate dall’ideale di condividere la vita dei poveri, vivendo in comunità e mettendo tutto in comune, per dare testimonianza del Vangelo in un contesto sociale di povertà e sfruttamento.

Una scelta coraggiosa specialmente per delle ragazze, non c’è che dire!

In quegli anni Ivry era la capitale del partito comunista francese, una città tappezzata da manifesti di propaganda sovietica, in cui ci si salutava con il pugno alzato e dove i bambini del quartiere prendevano a sassate i preti che incrociavano. Era una città divisa in due: da una parte un pugno di cattolici, soprattutto anziani e benestanti, e dall’altra una moltitudine di militanti comunisti, poveri e lontani dalla Chiesa. Tra queste due parti l’ostilità era fortissima, in ambito cattolico si discuteva molto su quale dovesse essere il rapporto fra cristiani e marxisti.

Come fu il vostro inserimento?

Decidemmo di risolvere la questione della convivenza in base a un principio molto semplice, considerando che Dio non aveva mai detto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso eccetto i comunisti». Con le mie compagne, spinte dal Vangelo, andammo in mezzo alla gente, aprendoci e parlando con tutti, rispettando ogni persona che incontravamo sul nostro cammino, soprattutto i più poveri ed emarginati.

La vostra testimonianza incentrata sulla presenza in mezzo a coloro che occupavano il gradino più basso della società francese non tardò a conquistare anche i «bolscevici» più incalliti, o no?

La nostra casa in breve tempo divenne un porto di mare, la nostra porta era sempre aperta per ogni tipo di incontro, per ogni forma di dialogo, dando aiuto e sostegno a chiunque. La nostra scelta di vivere «gomito a gomito» con la gente del quartiere, era contrassegnata allo stesso tempo da quella di tuffarsi in Dio con la stessa forza con cui ci si immerge nel mondo.

Un ideale che continua ancora oggi…

Grazie al Cielo, il nostro lavoro fra la gente non si è esaurito con la nostra attività, è presente in diverse nazioni e non mostra segni di cedimento.


Madeleine Delbrêl muore a 60 anni, il 13 ottobre 1964 a Ivry-sur-Seine, lasciando una gran quantità di scritti, poesie e testi sul suo tavolo di lavoro. Tali scritti stampati in migliaia di copie, hanno accompagnato la ricerca spirituale di intere generazioni. Il cardinal Carlo Maria Martini l’ha definita «una delle più grandi mistiche del XX secolo».

Il carisma di Madeleine Delbrêl è ancora presente a Parigi e Amiens attraverso l’opera silenziosa di un gruppo di donne consacrate che ne hanno preso il testimone. Un comitato di «Amici di Madeleine Delbrêl» oggi raccoglie un gruppo di oltre 500 persone nella sola Francia, in altri paesi continua a crescere e diffondersi la sua originale spiritualità così strettamente legata al mondo del lavoro. Il 12 maggio 1993, è stato concesso dalla Santa Sede il nulla osta per la causa di beatificazione; i vescovi di Francia, nel 2004, celebrando il centenario della nascita, affiancando la sua figura a quella di Santa Teresa di Lisieux, hanno definito la Serva di Dio Madeleine Delbrêl «Faro di luce per avventurarci nel terzo millennio».

Don Mario Bandera


Tu vivevi, io non ne sapevo niente

Tu vivevi, io non ne sapevo niente.
Avevi fatto il mio cuore a tua misura,
la mia vita per durare quanto Te,
ma poiché Tu non eri presente,
il mondo intero mi pareva piccolo e stupido
e il destino degli uomini insulso e cattivo.

Quando ho saputo che Tu vivevi,
Ti ho ringraziato di avermi fatto vivere,
Ti ho ringraziato per la vita del mondo intero.

(A ricordo dell’«abbagliante incontro con Dio» avvenuto il 29 marzo 1924, quando aveva vent’anni).

L’estasi delle tue volontà

Quando quelli che amiamo ci chiedono qualcosa,
noi li ringraziamo di avercelo chiesto. | Se a te piacesse, Signore, chiederci una sola cosa | in tutta la nostra vita, | noi ne rimarremmo meravigliati | e l’aver compiuto questa sola volta la tua volontà | sarebbe «l’avvenimento» del nostro destino.

Ma poiché ogni giorno ogni ora ogni minuto | tu metti nelle nostre mani tanto onore,| noi lo troviamo così naturale da esserne stanchi, | da esserne annoiati.
Tuttavia, se comprendessimo | quanto inscrutabile è il tuo mistero, | noi rimarremmo stupefatti |di poter captare queste scintille del tuo volere |che sono i nostri microscopici doveri.
Noi saremmo abbagliati nel conoscere, |in questa tenebra immensa che ci avvolge, | le innumerevoli | precise | personali | luci della tua volontà.
Il giorno che noi comprendessimo questo, andremmo nella vita | come profeti, | come veggenti delle tue piccole provvidenze, | come mediatori dei tuoi interventi.

Nulla sarebbe mediocre, perché tutto sarebbe voluto da te. | Nulla sarebbe troppo pesante, perché tutto avrebbe radice in te. | Nulla sarebbe triste, perché tutto sarebbe voluto da te. | Nulla sarebbe tedioso, perché tutto sarebbe amore di te.
Noi siamo tutti predestinati all’estasi, | tutti chiamati a uscire dai nostri poveri programmi | per approdare, di ora in ora, ai tuoi piani.
Noi non siamo mai dei miserabili lasciati a far numero, | ma dei felici eletti, | chiamati a sapere ciò che vuoi fare, | chiamati a sapere ciò che attendi, istante per istante, da noi.
Persone che ti sono un poco necessarie | persone i cui gesti ti mancherebbero, | se rifiutassero di farli.

Il gomitolo di cotone da rammendare, la lettera da scrivere, | il bambino da alzare, il marito da rasserenare, | la porta da aprire, il microfono da staccare, | l’emicrania da sopportare: | altrettanti trampolini per l’estasi, | altrettanti ponti per passare dalla nostra povertà, | dalla nostra cattiva volontà | alla riva serena del tuo beneplacito.

Madeleine Delbrêl




Volti della nostra storia

Addis Abeba, Etiopia, anni ’30

La ricorrenza dei 100 anni dei missionari e missionarie della Consolata in Etiopia (1916-2016) è stata per noi l’occasione per riguardare vecchie foto «di famiglia». Ne abbiamo trovate di straordinarie. Purtroppo non catalogate e quindi senza data e altre informazioni. Di sicuro precedenti al 1941, anno in cui i missionari sono stati espulsi dal paese per ritornarvi poi nel 1970.

Le due foto di questa pagina ritraggono alcuni ragazzi della scuola italiana di Addis Abeba, probabilmente a fine anni ’30. Se fossero ancora viventi, oggi dovrebbero essere ultra novantenni. Sarebbe eccezionale scoprire che alcuni di loro sono ancora vivi. In ogni caso, ricordarli è non solo bello, ma utile per ravvivare la memoria di un pezzo della nostra storia (quella coloniale e fascista) che abbiamo forse messo nel dimenticatornio. Una memoria vera può aiutare a evitare gli errori compiuti in passato.

Un vostro nonno o nonna, zio o zia ha vissuto la sua infanzia in Etiopia? Lo riconoscete tra questi volti? Se sì e ne conoscete la storia, condividetela con noi. Diamo un nome a questi volti. Raccontateci di loro. Scriveteci.

 

 




Sommario gen./feb. 2017


Da qui puoi accedere a tutti gli articoli del mese.

Questo numero si apre con il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale della pace, continua con padre Ugo per le strade di Seul in Corea del Sud, ci racconta del coraggio dei giovani di Brazzaville, entra nel mondo di un gruppo particolare di migranti (artisti, scrittori, professionisti, intellettuali …), riflette sulla “delusione” Europa, in Nicaragua ci fa incontrare la dinastia Ortega, svela le vergogne dell’inquinamento in Catalogna, si interroga su quale futuro con il presidente Trump, con il dossier entra nel mondo dei cinesi in Italia, inizia un cammino alla scoperta della Preghiera nella Bibbia … e tanto, tanto di più.


Messaggio di papa Francesco per la cinquantesima Giornata Mondiale per la Pace:
La nonviolenza, stile di una politica di pace.                                  
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Dossier

Breve viaggio dentro la comunità cinese:
Guanxi, Italia                               
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Articoli

Quattro passi per Seul
Good moing Korea
di Ugo Pozzoli
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Focus sulla Repubblica del Congo: petrolio, legname e diritti  /3
Voci dalla rivolta
di Marco Bello
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La risorsa intellettuale che arriva sui barconi
Cervelli migranti
di Mario Ghirardi
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Una dinastia famigliare al potere
Rosario e Daniel Ortega Spa
di Paolo Moiola
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Giustizia Ambientale/5 – La carovana della sovranità energetica
Catalogna toxic tour
di Daniela Del Bene
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Le elezioni di novembre e gli scenari futuri
Nelle Americhe di Donald Trump
di Massimo Faggioli
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Islam, una religione radicale /1a puntata
Comprendere (tra paure e diffidenze)
di Angela Lano
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La frateità di Romena
Un porto in terra
di Massimo Orlandi
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Rubriche

Cari Missionari
risponde il Direttore | lettere dei lettori
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Chiesa nel mondo
a cura di Sergio Frassetto
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Europa unita? Da speranza a delusione
di Sabina Siniscalchi | Eticamente
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Un cambiamento di prospettiva
di Paolo Farinella | Insegnaci a pregare /1
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L’anno più caldo di sempre. Di nuovo
di Chiara Giovetti | Cooperando
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21. Túpac Amaru
di Mario Bandera | I Perdenti
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Un Anno Santo a rovescio
a cura di Sergio Frassetto | Allamano 1/2017
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Librarsi
a cura di Luca Lorusso
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Cari missionari dialogo con i lettori

Un anno senza Romolo

Ci lasciava un anno fa Romolo Momo Levoni, poeta dialettale, esperto di tradizioni locali e campione di solidarietà, fondatore e presidente del Grg (Gruppo Resurrection Garden).

È stato un anno duro, il 2016, un anno passato senza la presenza abituale, familiare, patea, rassicurante di quel piccolo grande uomo che era Romolo Levoni, per gli amici della sua terra Momo. Chi era abituato a vederlo nelle piazze di tutta la provincia di Modena col suo mulino ad acqua e con gli amici del Grg, quest’anno non l’ha più ritrovato, chi frequentava gli appuntamenti fissi con la cena di Castelnuovo Rangone e la festa della Manyatta su ai Roncaccioli di Lama Mocongo, non ha voluto mancare comunque, chi aspettava il sabato per leggere le sue «brontolate» in dialetto sulla Gazzetta di Modena, si è dovuto rassegnare e ormai da dodici mesi deve fae a meno, e, infine, chi attendeva, con l’ansia dei bambini la notte di Natale, i suoi auguri, che, da 38 anni, sotto forma di filastrocca dialettale (zirudele si chiamano a Modena) arrivavano puntuali per posta, ha dovuto accettare che non siano arrivati, com’era successo nel 2015. Le migliaia di amici e affezionati lettori di Romolo, dopo trentotto anni, non hanno ricevuto quella fotocopia in bianco e nero, fronteretro, che ogni Natale allietava, con allegria e lucida sagacia, raccontando i più significativi fatti e personaggi dell’anno in una zirudela (filastrocca dialettale in rima baciata, «per gli uomini in lingua» come avrebbe detto lui). Romolo la pensava, la scriveva, la stampava e la spediva, quella zirudela, sapendo di far felici amici sparsi per l’Italia.

Ci ha fatto una brutta sorpresa, dodici mesi fa, l’amico Romolo, poeta dialettale, esperto e scrittore di tradizioni locali, il saggio montanaro, ma soprattutto infaticabile benefattore, andandosene a 83 anni e lasciandoci un po’ più soli.

Soli, ma non rassegnati, né tantomeno fermi, i «suoi» infaticabili volontari del Grg, l’associazione che Romolo aveva fondato nel lontano 1991, con l’adorata moglie Carmen, poi trasformata in onlus nel 1999, per consentire gli studi a bambini della baraccopoli di Soweto, a Nairobi, in Kenya, in strutture create e gestite dai Missionari della Consolata. Quella straordinaria e unica esperienza che si chiama Familia Ufariji.

Solidarietà che ha saputo, per strada e negli anni, coinvolgere e raccogliere sempre più amici pronti a donare tempo, idee, lavoro e passione per raccogliere fondi per i piccoli «poveri, sfortunati fratellini» come li chiamava lui.

Fratellini che sicuramente ricordano le svariate visite che Romolo fece loro, direttamente a Nairobi e dintorni, che sentiranno di sicuro la mancanza del suo sguardo buono, del suo sorriso sereno, dei suoi abbracci sinceri.

Ma siccome Romolo ha seminato bene, i «poveri sfortunati fratellini» possono, e potranno, continuare a contare sul Grg che, nonostante altre perdite dolorose, come quella di padre Ottavio Santoro, e di un altro dei volontari, il consigliere Franco Muzzioli, superato il legittimo momento di dolore e sgomento, si sono riorganizzati e sono ripartiti mantenendo regolari le attività in Italia e in Kenya.

Questo grazie anche al fatto di aver trovato due nuovi fondamentali interlocutori in Kenya, come padre James Lengarin, amministratore regionale, e padre Joseph Mwaniki, responsabile del Resurrection Garden, conosciuti personalmente nella straordinaria visita che alcuni rappresentanti hanno effettuato in Kenya questo 2016. Padre James e padre Joseph sono giovani, attivi e affidabili e rappresentano una garanzia di buon uso delle risorse affidate loro.

«Romolo ci ha lasciato – scrive il presidente Sotero Marasti nella lettera d’autunno – consegnandoci una bellissima eredità fatta di bimbi che grazie al Grg possono istruirsi e avere un pasto assicurato… abbiamo avuto in eredità una associazione sana, viva e vitale con tante persone che per essa s’impegnano».

Tra questi vanno sicuramente ricordati Emilio, lo chef laziale trapiantato in Toscana che ogni anno emigra per un giorno a Castelnuovo per organizzare impeccabilmente la cena d’autunno del Grg, o come il suo grande amico Ermes, l’oste dei gabbiani, al quale Momo aveva dedicato un libro nel 2006 «Un gabian a Modna» e proprio nelle ultime settimane il seguito virtuale «Un eter gabian», la sua ultima pubblicazione. E ancora vanno ricordate le tante associazioni come il circolo di Castelnuovo, il Gruppo Alpini di Pavullo, gli Amici di Ermes, il Filo di Marinetta, le ragazze del Banchetto di natale e i ragazzi del Mercatino di Natale, i tanti che collaborano e rendono possibili iniziative come il picnic sotto le stelle o la Festa della Manyatta del 26 giugno, ricorrenza della Madonna Consolata, dal cui istituto provengono i padri che operano col Grg in Kenya.

Ma Romolo ha pensato ai suoi bimbi della scuola della Familia Ufariji anche in altro modo, cioè con il suo testamento: ha lasciato al Grg parte dei suoi beni, compresa la preziosa sede nella quale i volontari operano.

Era nato a Castelnuovo, ma da molti anni, con la moglie Carmen, si era trasferito tra i monti di Lama Mocogno, dove poteva dedicarsi all’orto, alla terra e ai boschi tanto amati; dopo gli anni del lavoro, da capostazione, memore della figura del padre ferroviere e amatissimo, si è dedicato agli studi delle tradizioni locali e alla scrittura. Da «sapiente della montagna», come lo definì il prof. Fabio Marri, diventò alla fine degli anni ’70 un vero esperto delle tradizioni locali, scrivendo, dal 1979 al 2015, e pubblicando decine di volumi tra i quali ricordiamo «Rosch e Bosch», «Mo… cojozzi», «Don Mario e noi», «Magner in dialat», «Piazza nuova e vecchi giuochi», «Un gabian a Modna», «Castelnuovo, gente e vita, da la saraca all’aragosta», lucidissima disamina su come la nostra società sia diventata da rurale a industriale e tecnologica.

Tra i tanti amici che sentiranno la sua mancanza ci sono anche Ermes, l’oste più famoso di Modena, che in tante occasioni ha destinato i fondi raccolti con le sue iniziative a base di gnocco fritto al Grg e che aveva seguito Romolo anche a Nairobi, in mezzo ai bambini adottati nella Familia Ufariji, Angelo Giovannini, che proprio insieme a Momo ha realizzato la sua ultima opera «Un eter gabian», Roberto Alperoli, ex-sindaco di Castelnuovo e intellettuale vero, che lo definì «un discolo senza età, dagli occhi indaffarati e dalle mani febbrili, sempre intento a cercare di aggiustare (almeno un poco) il mondo».

Esattamente come aveva fatto fino a un anno fa. Ciao discolo, tranquillo… i tuoi ragazzi vanno avanti, il Grg e i tuoi bimbi hanno un futuro.

Angelo Giovannini
per il Grg, Modena, 06/12/2016

Fratel Carlo da Catrimani

Pubblichiamo qui, con qualche taglio, l’interessantissima lettera di Natale di fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata tra gli indios Yanomami. I titoletti sono nostri.

Amici carissimi,
[…] cercherò di aggioarvi su alcune situazioni locali e attività che stiamo svolgendo.

Invasioni

In questi ultimi tempi, abbiamo avuto parecchie notizie sulla situazione dell’invasione illegale della Terra Indigena Yanomami e Ye’kuana, da parte dei cercatori d’oro. L’attività non tende a scemare, anzi, pare si stia spargendo. Un’operazione militare è stata fatta lungo il corso del rio Uraricoera, il mese scorso. Era il luogo che apparentemente aveva la maggior concentrazione di «garimpeiros», che stavano aumentando a vista d’occhio. L’operazione ha portato alla distruzione di una dozzina di chiatte e relativi macchinari che erano usati per l’estrazione dell’oro dal fondale del fiume.

In seguito, è stata montata un’altra operazione che ha forzato alcune centinaia di cercatori d’oro ad abbandonare le località che avevano occupato. Si spera sempre che il governo la smetta di giocare al ritiro di «garimpeiros», come azione per far tacere le denunce. Di fatto, in seguito, gli invasori ritornano agli stessi luoghi in poco tempo, e il governo (polizia, militari, …) può giustificarsi dicendo che reprimono l’attività illegale, ma non «riescono» a impedire il ritorno degli invasori. Indagini fatte dalla stessa Polizia Federale hanno scoperto come funziona il tutto: chi finanzia gli invasori, quanto rende questa attività e come è «lavato l’oro estratto illegalmente, per mezzo di una compagnia di valori di São Paulo. Non ho conoscenza di persone punite per queste attività illegali. In questo contesto di impunità, chi finisce per avere la peggio sono gli Yanomani.

Uccisioni

Ciononostante non sono gli unici a soffrie le conseguenze. È stata confermata l’uccisione di sei «garimpeiros» da parte di un gruppo di Yanomami, in una regione non lontana dalle sorgenti del rio Catrimani. La notizia che si è sparsa dopo la denuncia anonima di un cercatore d’oro «sconosciuto», è stata poi confermata da alcuni Yanomami a mezzo radio. Essi hanno anche avvisato che avevano bruciato i cadaveri. Due settimane fa, il governo ha organizzato una spedizione per riscattare i cadaveri. La spedizione che si è recata sul luogo con un elicottero (si tratta di località di difficile accesso in piena foresta), ha riportato a Boa Vista i resti dei corpi che erano stati bruciati con un fuoco molto grande, probabilmente ottenuto con l’uso del combustibile che i «garimpeiros» usavano per azionare i motori necessari per l’estrazione del minerale. L’identificazione dei «corpi» è stata affidata a specialisti che avranno certamente molto lavoro per arrivare a stabilire a chi appartenevano.

Mi sono chiesto come può essere capitato questo «incidente». Non è facile poterlo affermare. Anche se, come sempre, si sa che il modo di fare degli invasori è quello di cercare di ingannare gli indigeni, facendo promesse, distribuendo piccoli regali, foendo un po’ di alimenti (riso, sale, …). In alcuni casi offrono armi da fuoco ai leaders più influenti (fucili da caccia), e poi li tengono buoni lesinando le munizioni. Mi è stato detto anche che sarebbero morti tre bambini in poco tempo, forse per causa di malattie introdotte involontariamente dai cercatori d’oro; un indigeno ha detto che i «garimpeiros» avrebbero minacciato qualcuno di loro. Sta di fatto che il famoso massacro di Haximu, nel quale persero la vita sedici Yanomami, in maggior parte bambini, avvenne molto vicino al nuovo luogo del conflitto; gli Yanomami erano al corrente di come il tutto era avvenuto in quell’occasione, e con ogni probabilità hanno riscontrato qualche analogia nel comportamento di quelli che a suo tempo avevano partecipato all’atto genocida.

Funai ridimensionata

Su un’altra questione, abbiamo finalmente ottenuto da un funzionario della Funai delle buone fotografie aeree del villaggio di indigeni isolati che da oltre un anno sono in una località prossima ad uno dei luoghi di «garimpo» clandestino, e senza la possibilità di controlli, a causa della ristrettezza di fondi che il Goveo Federale ha stabilito per la Funai. Ho l’impressione che, in alto loco, stiano tentando di rendere la Funai un organo decorativo. Ci sono parecchi indizi, non solo a Roraima, che questo stia avvenendo.

È abbastanza frequente che autorità di vari livelli si pronuncino sfavorevolmente circa il rispetto dei diritti dei popoli indigeni garantiti nella Costituzione Federale.

Ad ogni modo, per lo meno per ora, pare che il villaggio isolato goda di buona salute; sono sulle spine perché questa situazione può precipitare in qualsiasi momento e nessuno sta prendendo provvedimenti per cercare di evitarlo.

Più morti che in guerra

Saltando di palo in frasca. Vi riporto alcuni dati che ho trovato sul giornale EcoDebate, il giorno 08/11/16: «Secondo i dati dell’Istituto di Ricerca Economica Applicata (Ipea) e del Forum Brasiliano di Sicurezza Pubblica, il Brasile ha raggiunto la cifra record di 59.627 omicidi nel 2014, il che equivale a 160 morti al giorno. Giovani neri, con poca scolarità, e donne sono le principali vittime di un paese il cui popolo, al contrario di ciò che si divulga, non è allegro, né pacifico o tollerante in relazione alle differenze. In verità, il Brasile si è mostrato uno dei paesi più violenti del mondo, nel quale le morti banali e futili, sono più numerose di quelle che succedono in nazioni in guerra». La traduzione veloce è mia, per cui ci può essere qualche errore. Ho paura di dimostrare col mio scritto molto pessimismo, me ne scuso, e cambio argomento.

Centro di Documentazione Indigena

I consiglieri della nostra Regione missionaria hanno deciso che si può mandare avanti il progetto di costruzione di un edificio ad hoc per il Centro di Documentazione Indigena (Cdi); ora si tratta di trovare qualche tecnico che si incarichi di elaborae il progetto. Per ora il Cdi funziona in locali improvvisati, e mi sembra che stia riscuotendo sempre maggiori consensi tra gli indigeni e tra gli studenti e insegnanti specialmente delle università locali. Sono sempre più frequenti quelli che ci cercano e consultano i nostri archivi; inoltre gradualmente finiscono per ingaggiarsi nel nostro lavoro e nel nostro sport preferito che è quello della difesa dei diritti dei popoli indigeni. A tutti voi che seguite le nostre attività/avventure, un buon Natale e un anno nuovo degno di buoni missionari; vi ricordo sempre nei miei sciamanismi. Con affetto.

fratel Carlo Zacquini
Boavista, Roraima, 05/12/2016

Mafie e denaro pubblico

La trasformazione dell’economia normale in economia criminale

I soldi pubblici (provenienti da appalti, sovvenzioni, contributi, concessioni e così via) costituiscono lo scopo primario del potere delle nuove mafie in Italia e segnano il connubio tra organizzazioni criminali, mondo dell’imprenditoria e politica. Quest’alleanza genera un vero e proprio sistema criminale, parallelo a quello legale, poco rischioso e dai guadagni incalcolabili. La criminalità organizzata ormai ha esteso i suoi tentacoli in ogni regione italiana condizionando il settore dell’imprenditoria che lavora soprattutto con i soldi pubblici. L’infiltrazione nel sistema di assegnazione e gestione del denaro pubblico avviene attraverso imprese «immacolate» sotto ogni punto di vista ma che, di fatto, sono già controllate dalla criminalità organizzata. L’intimidazione è l’extrema ratio, in quanto la mafia, attraverso il sistema corruttivo e il sostegno economico a queste imprese, che spesso sono in crisi, riesce a gestire il tutto senza particolari clamori e nella massima trasparenza. Per far sì che le imprese «mafiosizzate» siano beneficiarie dei fondi pubblici la criminalità organizzata deve fare in modo che le altre imprese non presentino offerte o si ritirino dalle gare. Le organizzazioni criminali se riescono, fanno presentare offerte ad altre imprese che già gestiscono, in caso contrario, utilizzano il metodo mafioso «classico» (intimidazioni di ogni genere fino all’omicidio) per far sì che l’impresa che l’organizzazione ha cornoptato risulti aggiudicataria unica. Nel caso d’imprese non controllate ed escluse dalla gara, occorre impedire alle medesime di rivolgersi agli organi giudiziari ed anche in questa ipotesi, all’intimidazione si preferisce il meccanismo corruttivo mediante la promessa di vantaggi economici o di partecipazione a future gare, fermo restando che se non funziona il metodo «dolce» si utilizzerà quello violento. In questo sistema particolarmente articolato, svolgono una parte predominante imprenditori, politici, funzionari pubblici, progettisti, direttori dei lavori, tutti con funzioni e compiti specifici. Utilizzando lo strumento delle tangenti, la politica garantisce alle mafie l’erogazione dei soldi pubblici e il sistema del massimo ribasso costituisce il terreno fertile per l’infiltrazione mafiosa e per il perfezionamento dell’alleanza. L’alterazione della gara avviene sempre determinando in via preventiva i ribassi che ciascun’impresa deve indicare nella sua offerta. A questa situazione ormai endemica imposta dalle mafie, soggiacciono quasi tutte le imprese sul territorio nazionale che estendono i loro affari anche in ambito europeo e internazionale, poiché, di fatto, non avrebbero alternative plausibili. Come porre rimedio a una situazione a dir poco aberrante come questa in precedenza esposta? A tal proposito ci vengono in soccorso le intuizioni di Rocco Chinnici, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, secondo i quali bisognerebbe indagare sui flussi di denaro e sui complici «puliti» delle mafie, ad esempio, controllando tutte le ditte partecipanti a una gara, disciplinando in maniera ferrea il sistema della revisione dei prezzi, delle varianti in corso d’opera e degli enti appaltanti. A mio giudizio, andrebbe tassativamente eliminato il sistema del massimo ribasso che offre notevoli possibilità di falsare le gare pubbliche. In conclusione, vorrei ricordare che l’ex magistrato Antonio Ingroia, dichiarò dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Paolo Borsellino gli confidò di essere convinto che, attraverso il carteggio di Giovanni Falcone sull’inchiesta «Mafia e Appalti», si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Questo dimostra quanto importante sia il settore dell’erogazione di denaro pubblico e dunque occorre battersi per la prosecuzione delle attività e delle idee di Falcone e Borsellino. Prevenire, controllare e sanzionare ogni abuso in questo particolare settore significa non far passare più il messaggio che le mafie danno lavoro mentre lo Stato no! Oltre alla magistratura e alle forze di polizia occorrono adeguate forme di organizzazione e mobilitazione affinché tutti uniti si ponga fine a un sistema altamente nocivo che sta trasformando l’economia legale in economia criminale.

Vincenzo Musacchio,
giurista e direttore della Scuola di Legalità «don Peppe Diana» di Roma e del Molise, 19/11/2016

Colombia

Gentilissimo Dr. Moiola,
martedì scorso sono venuta in Via Cialdini per il documentario di Gianni Minà e ho preso uno dei numeri della Rivista MC Novembre 2016, che gentilmente offrivate. Già da tempo conosco i suoi articoli ed ora ho appena finito di leggere quelli sulla Colombia e voglio manifestarle tutto il mio apprezzamento per la chiarezza e il rigore con cui li costruisce. Leggere pagine come le sue, è un vero piacere! Ho ritrovato nomi di missionari e luoghi a me molto cari e non soltanto per aver parlato dei progetti Missionari per molti anni nelle mie lezioni, ma anche per evocazioni di un passato personale. Grazie ancora per la sua costante attenzione per la Colombia e per le sue popolazioni indigene! Molto cordialmente

Silvia Giletti
Progetto Diritti Umani e Globalizzazione, Università degli Studi di Torino, 26/11/2016

 




Europa unita


Un tempo i giovani vedevano l’Europa come portatrice di pace. Oggi l’Unione si associa a crisi, disoccupazione, respingimenti di migranti, paura. I populismi xenofobi guadagnano punti. Mentre l’Italia ha almeno il merito di puntare i piedi.

Per la mia generazione l’Europa unita era un bellissimo sogno, in grado di far battere il cuore. Guardavamo sereni al processo di unificazione, confidando in un avvenire di pace, cooperazione e sviluppo non solo per noi europei, ma per il mondo intero. A scuola e nelle università ci parlavano di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Konrad Adenauer, spiegandoci che il progetto di un’Europa forte e coesa era il frutto della loro grande statura politica e morale.

Nel corso degli anni questo sogno si è pian piano sgretolato sotto le rigide imposizioni del mercato, gli egoismi nazionali e lo strapotere delle tecnocrazie. Oggi nessun giovane sogna grazie all’Europa, anzi l’appartenenza europea suscita apprensione, è considerata, a ragione o a torto, la causa della disoccupazione e dell’impoverimento delle nuove generazioni.

Se si chiede a un giovane cosa rappresenti per lui l’Unione europea, la risposta più benevola è: burocrazia, eccesso di regole, costi esagerati, vertici inconcludenti. Ancora più triste sarebbe una risposta come: l’Europa è un giogo per i più deboli, un’inespugnabile fortezza per i poveri del mondo.

Non è una bella Europa quella che non apre le braccia a chi fugge dalla guerra e dalla miseria, che non si commuove di fronte alle migliaia di esseri umani che affogano nel Mediterraneo, che lascia soffrire di stenti e freddo chi si ammassa lungo i suoi confini.

Le idee e le parole che influenzano le scelte dei politici europei sono paura, minaccia, respingimenti, muri. Le stesse idee e parole che circolano tra la gente e ispirano il voto popolare più rozzo.

Ne consegue che l’accordo sulle quote, che pure riguarda numeri trascurabili – un totale di 160mila trasferimenti entro il 2017 – è bloccato da mesi, mentre l’Ue ha deciso di versare alla Turchia 3 miliardi di euro (e altri 3 nel 2018), perché si faccia carico dei migranti che essa non vuole, invischiandosi malamente con l’arrogante Recep Tayyp Erdogan che calpesta sistematicamente i diritti umani e viola le convenzioni inteazionali.

Si è creato un orribile circolo vizioso tra governanti e governati dove nessuno ha l’autorevolezza di proporre una visione differente.

Per questo ci ha favorevolmente colpito la presa di posizione di Matteo Renzi che, lo scorso novembre, ha posto il veto sul bilancio europeo, un gesto che, nella pratica, ha solo un effetto dimostrativo, ma riveste un alto significato politico: non vogliamo che si costruiscano muri con il denaro che l’Italia versa alla Ue.

Anche Emma Bonino, già stimata commissaria Ue e convinta europeista, ha predisposto una sorta di prontuario sull’immigrazione in cui sfata i falsi miti che alimentano sospetto e rifiuto.

Dimostra ad esempio che la cosiddetta invasione degli stranieri è un inganno: nell’Unione europea, su 510 milioni di residenti, solo il 7% è costituito da immigrati (35 milioni). La quota di stranieri varia notevolmente tra i paesi europei: il 10% in Spagna, il 9% in Germania, l’8% nel Regno Unito e in Italia, il 7% in Francia. Paradossalmente i paesi più ostili all’accoglienza degli immigrati sono quelli che ne hanno di meno: la Croazia, la Slovacchia e l’Ungheria, ad esempio, ne hanno circa l’1%.

Nel mondo ci sono 16 milioni di rifugiati, ma solo 1,3 milioni sono ospitati nei 28 paesi dell’Unione europea, meno del 10%. Nel mondo i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni), il Libano (1,1 milioni) e la Giordania (664mila).

E ancora, in Europa solo il 5,8 per cento della popolazione è di religione islamica, mentre il terrorismo – che tuttavia ha ben poco a che fare con la vera religione – colpisce molto di più al di fuori dei confini europei: le nostre vittime rappresentano meno dell’1% del totale, perché le maggiori e continue stragi avvengono in Siria, Afghanistan, Iraq, Nigeria, Niger e Somalia, proprio nei paesi da cui fugge la maggioranza dei migranti.

Nel dibattito e nelle scelte europee sull’immigrazione, l’Italia si distingue per umanità e capacità, e sono in gran parte italiani i mezzi e il personale, civile e militare, di pattuglia nel Mediterraneo, dove soccorrono decine di migliaia di esseri umani stremati. Non diamo retta alle proteste sguaiate della minoranza xenofoba, che purtroppo esiste anche nel nostro paese, godiamoci l’orgoglio di essere cittadini di una nazione che incarna nei fatti i valori della civiltà europea.

Sabina Siniscalchi




Insegnaci a pregare 1: Un cambiamento di prospettiva


Conclusa la storia del Giubileo (e dei Giubilei), vorrei riflettere per i lettori di Missioni Consolata su un argomento che mi è caro ed è centrale nella vita cristiana: la preghiera. Di essa non abbiamo una consapevolezza piena, ma subiamo le conseguenze di un’usanza che si tramanda per forza d’inerzia, senza entusiasmo. Relegata ad alcuni momenti (mattina e sera) e luoghi specifici (chiesa), la preghiera non innerva la vita perché è momento separato, chiuso in sé, quasi mai sinonimo di vita. Rito e vita, in questa visione, sono divisi e distanti. Pregare ha sempre significato adempiere un atto o dedicare un tempo, dire formule imparate a memoria, corrispondere a un dovere giuridico (vedi l’obbligo del breviario per preti). Raramente è stato insegnato che pregare è vivere e respirare la vita.

Di Francesco di Assisi, come vedremo meglio in seguito, il suo biografo diceva che non era uno che pregava, ma era preghiera egli stesso. Com’è possibile? Come si può essere preghiera? Quale è la distanza tra la natura cristiana della preghiera e il nostro modo di pregare? Per rispondere a queste domande che interrogano la nostra esperienza di vita, è necessario partire la lontano con una parentesi un po’ lunga (questa 1a puntata) sulla formazione catechistica e solo dopo potremo cominciare a riflettere, aprendoci a prospettive che, forse, non abbiamo mai preso in considerazione e che potrebbero aiutarci a verificare il nostro modo di essere oranti. Interrogheremo la Bibbia e la Tradizione giudaica.

Catechisti per caso

Chi scrive, e quasi certamente chi legge, proviene da una formazione catechistica deformante che ci ha educati più all’ateismo pratico che allo spirito del Vangelo. I catechisti della nostra infanzia, infatti, erano (in buona misura lo sono ancora oggi) brave persone di buona volontà, laici, più donne che uomini, mamme, a volte suore, raramente preti. Persone adorabili, impegnate in parrocchia, ma senza alcuna formazione pedagogica, e tanto meno biblica e/o teologica. Che strano paradosso! Per insegnare materie scolastiche bisogna essere laureati, per trasmettere la vita di Dio, basta improvvisare! Con una infarinatura superficiale, fatta dal parroco che forse ne sapeva meno di loro in fatto di Bibbia e di teologia, essi davano ieri, e danno oggi, quello che a loro volta avevano ricevuto da altre brave persone, anch’esse carenti in formazione. La conoscenza superficiale della Scrittura era conseguenza di un approccio «per sentito dire» e appresa e trasmessa come «storia sacra» (racconto), senza distinzione tra libri storici o profetici, poetici o sapienziali. Spiegando i Vangeli, per esempio, quasi sempre i racconti della vita di Gesù erano confusi con i quelli apocrifi e miracolistici, creando enormi confusioni. Inevitabile che catechismo e omelia avessero un’impronta moralistica: pretendevano d’insegnare «cosa fare», non di educare a «chi essere». Se si facesse un’indagine seria si scoprirebbe che chi ha frequentato il catechismo, probabilmente non ricorda le Beatitudini nella versione di Matteo o di Luca, confonde Bibbia e Vangeli, ma facilmente rammenta «i capricci» di Gesù bambino che rompe le brocche per poi riaggiustarle o crea uccellini di creta, facendoli volare o, da vera peste, fa morire i compagni per il piacere di risuscitarli, dopo i rimbrotti di sua madre.

La via facile

D’altra parte il catechismo, almeno dal sec. XVI (Concilio di Trento) e ancora oggi, non è mai stato finalizzato alla crescita nella fede della persona e dell’ekklesìa, ma solo alla «sacramentalizzazione», cioè alla preparazione della «Prima Comunione» o della «Cresima» o «del Matrimonio». Per quest’ultimo, poi, tutto si risolve in cinque o sei striminziti incontri per supplire il vuoto di una vita! La sofferenza e la morte sono altra cosa, perché fuori dell’orizzonte cristiano, cui si accede se non all’ultimo momento, quello della sepoltura, come fatto esclusivamente sociale. Finiti questi appuntamenti «occasionali», termina anche la fede perché i ragazzi non partecipavano più – né partecipano oggi – all’Eucaristia, che fino ad allora avevano vissuto come «obbligo» o peggio come «ricatto»: se non vai al catechismo e se non «vai a Messa», niente gioco o premio o gita. Chi ha frequentato le scuole cattoliche ricorda ancora oggi, spero con orrore, «l’obbligo della Messa quasi quotidiana», e se ne è ritenuto dispensato per il resto della vita, una volta finita la tortura.

Quando ero bambino, bisognava timbrare il cartellino e raccogliere punti, come in un moderno supermarket. Come aggravante, il catechismo è stato strutturato sul calendario e sul metodo della scuola: identici tavoli, stessi quadei, stesso astuccio di colori, identico registro delle presenze, stessi tempi e stesse vacanze. Fino agli anni ’70 del secolo scorso, il testo del catechismo in uso, «da imparare a memoria», era quello di Pio X, divenuto la base della formazione religiosa per oltre mezzo secolo, fino al concilio ecumenico Vaticano II che pose le basi nuove per il «rinnovamento della catechesi» in chiave biblico-esperienziale e non più dogmatico-nozionistica


   Il catechismo di Pio X

Il Catechismo di San Pio X, dal titolo Catechismo Maggiore, fu edito per la prima volta nel 1905; era composto da 993 domande e relative risposte. Successivamente fu semplificato nel Compendio della dottrina cristiana, testo ufficiale e obbligatorio per la formazione cattolica. Nel 1912 fu redatta una sintesi detta Catechismo della dottrina cristiana con 433 domande e risposte. Al fine di predisporre un sussidio «sicuro» per la preparazione alla prima comunione che lo stesso papa estese anche ai bambini che avessero compiuto i sei anni di età, fu stampata un’edizione ridotta con il titolo Primi Elementi della Dottrina Cristiana che conteneva l’essenziale minimo del precedente Catechismo della dottrina cristiana. Alcune ristampe furono corredate da illustrazioni e figure. Domande e risposte dovevano essere imparate a memoria. Si facevano anche i «campionati di Dottrina» con premi per chi imparava più domande e relative risposte. Il catechismo di Pio X restò in auge fino al concilio Vaticano II. Oggi è ripreso, ristampato e usato dai tradizionalisti, nostalgici del ritorno al passato e in modo particolare dalla Frateità «San Pio X», che fa capo all’oppositore del concilio, mons. Marcel Lefebvre e ai suoi discendenti, comunemente conosciuti come «lefebvriani».


Tappe del catechismo

Nello spirito del dopo concilio, in Italia nacque il laboratorio catechistico, cui posero mano pedagogisti, biblisti e catechisti di eccezionale valore e competenza che prepararono gli strumenti adatti per rinnovare dalle fondamenta la catechesi, non più «settoriale», ma finalizzata alla formazione costante, dalla nascita fino alla morte. La riforma conciliare vide il catechismo come «vademecum» di accompagnamento della lettura e della preghiera della Bibbia per «tutta la vita», un commento perenne alla Parola di Dio, non finalizzato a questo o a quel sacramento, tappe occasionali, ma alla vita nella pienezza della fede. Fu una scommessa di grande respiro, forse il frutto più bello del concilio Vaticano II in Italia.

Nel 1970 fu pubblicato il testo base «Il rinnovamento della Catechesi» con le indicazioni su come dovesse essere compilato il catechismo, diviso per età di crescita, dal momento del concepimento alla morte. La formazione cristiana, infatti, inizia durante la gestazione con la preparazione di papà e mamma che, mentre pensano alla culla e ai pannolini, possono prepararsi col volumetto «Il catechismo dei bambini – Lasciate che i bambini vengano a me» (da 0 a 6 anni), cui seguono altri otto volumi che accompagnano le varie fasi della vita, fino all’età adulta. Se credere è vivere, il catechismo è lo strumento della vita credente. Il catechismo per età nacque «ad experimentum» e si concluse nel 1995 con i testi definitivi. Venticinque anni di lavoro che il vento della restaurazione fece arenare attestandosi su posizioni «contenutistiche e nozionistiche», finalizzate ancora alla «prima comunione, alla prima confessione, alla cresima, ecc.». Un quarto di secolo perduto perché non c’è nulla di più tragico che offrire testi, formalmente avanzati, ma usati con mentalità rivolta al passato, incapace di cogliere il comandamento di Dio negli eventi e nella storia. Si preferisce rifugiarsi nel calduccio delle certezze effimere che emergono dalle formule e dai riti, piuttosto che faticare nella ricerca di senso che è sempre una gestazione. La tradizione diventa così la scusa della propria pigrizia.

Chiunque può fare l’esperimento, in qualsiasi momento: le chiese oggi sono vuote e i pochi presenti sono tutti anziani; bambini e giovani sono diminuiti nel numero per vari motivi, anche demografici. Quelli che restano, finito il «dovere prescritto» come amara medicina, si sciolgono come neve al sole. I matrimoni civili in Italia hanno superato i matrimoni religiosi e sempre più morti rifiutano i funerali religiosi.

I più sprovveduti superficiali attribuiscono queste conseguenze al concilio Vaticano II che avrebbe distrutto la fede e la tradizione, perché, poveretti, senza catechismo a domande e risposte, non sono in grado di formulare un pensiero. Hanno bisogno del ricettario per giustificare la loro insipiente incapacità e povertà di spirito.

I più sapienti, invece, pensano che tutto ciò, ancora oggi, sia dovuto a mancanza di coraggio e di fede nello Spirito, memori delle parole dure di Gesù ai farisei del suo e di tutti i tempi: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9). La situazione di oggi non è colpa della secolarizzazione, ma responsabilità di un clero incapace che ha dato vita a una catechesi inadeguata, guardando più al numero (quantità) che alla qualità della formazione.

Il principio del discernimento

Questa lunga premessa sulla formazione è necessaria per potere riflettere sulla situazione in cui ci troviamo, per capirla e anche per poter parlare della preghiera. Sono passati cinquant’anni dal Vaticano II e facciamo ancora fatica ad accettarlo, segno che le incrostazioni derivate da mentalità, cultura e tradizioni «consolanti» sono dure a morire e, segno ancora più grave, che siamo istintivamente portati alla conservazione più che al discernimento dei «segni dei tempi» imposto dalla «Parola di Dio». Non possiamo parlare della preghiera senza fare riferimento al mondo da cui proveniamo, un mondo che non è da rigettare, ma da soppesare per quello che ha significato e per le conseguenze che ha generato. Il concilio ha chiesto che la preghiera ufficiale della Chiesa e quella individuale dei singoli credenti fosse centrata, animata e nutrita dalla Parola di Dio, che non è un raccontino edificante, ma «la parola di Dio viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discee i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebr 4,12).

Il verbo disceere significa valutare/separare/giudicare/distinguere; il «doppio taglio» della spada dice plasticamente che nessuno può fuggire, perché non c’è alcuno che possa presumere di restare illeso. La spada affilata da ambo i lati assicura che «ferisca» in un modo o nell’altro, lasciando il segno, penetrando anche fin nell’intimo più profondo, dove forse neppure noi siamo mai scesi a vedere come stanno le cose; fino al punto di sutura dell’anima e dello spirito, coinvolgendo giunture, midolla, sentimenti e pensieri del cuore, cioè la totalità della persona nella complessità del suo essere: corpo, sentimenti, passioni, intuizioni, immaginazione, sofferenza, gioia, disperazione, anelito, ansia, progettualità e desiderio.

Nulla è estraneo alla Parola per chi accetta l’avventura di Gesù Cristo che non si accontenta di una parte, ma coinvolge tutto di noi, centro e periferia, esterno e interno, alto e basso. Se questo è il compito della Parola e se la preghiera deve essere nutrita dalla Parola, comprendiamo bene che non possiamo limitarci alle formulette del catechismo di un secolo fa. Forse allora andava bene così – ma ne siamo sicuri? – certamente non va più bene oggi e lo sperimentiamo ogni giorno.

Siamo figli del nostro tempo e nessuno può vivere fuori di esso. Possiamo anticiparlo, se viviamo docilmente all’ombra dello Spirito, ma non possiamo mai tornare indietro perché non ne abbiamo il potere né l’autorità. Rimpiangere «i tempi andati» è solo perdere tempo, tarpando le nostre potenzialità. Siamo nati per vivere e la vita è progresso, cioè maturazione, crescita in avanti e in alto, secondo il processo del bambino che diventa adolescente, giovane, adulto, vecchio. La vita non va mai indietro e chi rimpiange il passato è già morto di suo perché ha bloccato il germe vitale per paura e per poca fede nello Spirito di Dio che ha impresso nelle cose e nelle persone il Dna della risurrezione: come credenti, siamo chiamati a cercarlo, trovarlo e testimoniarlo. Nella gioia. Il vangelo è letteralmente notizia che dà gioia, ma se non siamo in grado di coglierla e di comunicarla, non abbiamo, forse, fallito la nostra stessa esistenza?

Il Catechismo Maggiore di Pio X alla domanda n. 254 «Che cosa è l’orazione», risponde: «L’orazione è una elevazione della mente a Dio per adorarlo, per ringraziarlo, e per domandargli quello che ci abbisogna». La definizione è la conclusione di un lungo percorso, iniziato nel sec. XVI tra fautori della preghiera vocale e fautori della preghiera mentale. Tra i primi c’era l’Inquisizione e l’autorità ufficiale della Chiesa, perché pensavano che la preghiera vocale fosse strumento più adatto a controllare l’ortodossia e quindi la disciplina dei fedeli. Tra i secondi vi erano mistici come Giovanni della Croce e Teresa d’Avila che per questo furono inquisiti e condannati dall’Inquisizione spagnola: Giovanni della Croce fu imprigionato e torturato e Teresa d’Avila, cui fu sequestrato il manoscritto sulla sua «Vita», dovette usare un linguaggio cifrato e scrivere per allusioni per non farsi scoprire, perché sospettata in quanto nipote di un giudeo.

* Per un approfondimento su questi temi, è molto interessante la biografia critica e documentata della riformatrice del Carmelo: Rosa Rossi, Teresa d’Avila. Introduzione a cura di Loretta Frattale, Editori Riuniti University press, Roma 2015.

Pregare è vivere

La definizione della preghiera di Pio X è ancora esteriore, perché si preoccupa più dell’ortodossia che dell’incontro dell’orante con Dio. Dietro c’è la nozione di un dio «filosofico», esterno, onnipotente, imperiale, non il «Dio Padre» del Vangelo predicato da Gesù. È un Dio temuto e da temere, non un Dio affettuoso e da amare, un padre con cui giocare e vivere. La preghiera è «elevazione» a Dio, non nel senso dei mistici di identificazione con Dio, ma quasi un’estraneazione di sé in senso platonico perché si dà una valutazione negativa di ciò che è umano, corporale e materiale. Lo spirituale è contrapposto al materiale visto come sorgente di ogni male. Non è la persona – tutta – che si relaziona con Dio, ma «la mente», la parte nobile, lasciando quella «ignobile», abbandonata a se stessa e sopportandola quanto basta come sostegno dello spirituale.

Questa scissione è assente nella Scrittura. In ebraico la parola «cuore» si dice «lebàb» (pronuncia: levàv); insegnano i rabbini che le due «b» stanno a significare le due tendenze del cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male; esse non possono essere estirpate, per cui – concludono – bisogna amare Dio con tutt’e due le tendenze, anche con quella verso il male. Per questo nello Shemà Israèl si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze (= tutti i tuoi averi)» (Dt 4,5). La Mishnàh nel trattato Berakòt-Benedizioni 9,5 così spiega: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore, cioè con le due tendenze: il bene e il male». Nulla di noi è estraneo a Dio, nemmeno l’eventuale nostro peccato. È questo l’orizzonte di riferimento per riflettere sulla preghiera cristiana, relazione che si consuma nella sperimentazione e nella visione.

Paolo Farinella, prete
(1 – continua).