Sommario Aprile 2017


Al centro il dossier dedicato ai Rohingya del Myanmar, e poi l’America Latina (con il pullulare di Chiese evangeliche) è protagonista con Haiti (La cultura che può aiutare il riscatto del paese), Perù (la verità difficile del conflitto con Sendero Luminoso) e Colombia (di cui visitiamo la foresta). C’è un secondo articolo di approfondimento sull’Islam, due belle storie dal Kenya e Tanzania, con una puntata nel Mondo digitale. E poi le solite rubriche sempre ricche di vita e informazioni.

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???  03  ???   Editoriale: Interrogativi

Dossier

???  35 ???    Popolazioni perseguitate: Rohingya di Piergiorgio pescali e Paolo Moiola

Articoli

??? 10  ???   Haiti: La Cultura ci salverà di Marco Bello
??? 16  ???   Perù: La Verità difficile di Wilfredo Ardito Vega
??? 21  ???   Kenya: Stampa 3D per «Piedi felici» di Katya Nyangi Mwita
??? 24  ???  Tanzania: Kabula e i suoi nipoti di Francesco Bernardi
??? 27  ???  Islam /2: Isis, il terrore come spettacolo di Angela Lano
??? 51  ???  America Latina: Scalare il potere (con religione) di Paolo Moiola
??? 58  ???  Mondo digitale: Il Web ti vede di Gianluca Iazzolino
??? 64  ???  Colombia: Giardini pensili di Gianfranco Curletti

Rubriche

??? 05  ???   Cari Missionari
??? 08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
??? 32  ???   Insegnaci a pregare 3. Dal deserto al cosmo per la storia di Paolo Farinella
??? 63  ???  Eticamente: Finanza etica, eppure esiste di Sabina Siniscalchi
??? 68  ???  Cooperando: Costa D’Avorio in ostaggio /2 di Chiara Giovetti
??? 72  ???   I Perdenti /23 Justus Takayama il samurai cristiano di Mario Bandera
??? 81 ???   Persone che conosco: Si chiamava Ilaria Alpi di Gianni Minà
??? 75  ???  Allamano a cura di Sergio Frassetto




Cari Missionari


Dallo Swaziland

Carissimi amici,
vi scrivo per ringraziarvi di cuore per le vostre preghiere e anche per il contributo che non mi fate mai mancare e che mi permette di portare avanti dei piccoli progetti di sviluppo a favore della gente che il Signore ci ha affidato in questa terra dello Swaziland.

Dopo aver consegnato alla diocesi e al clero locale le parrocchie di Madadeni, in Sudafrica, evangelizzate e sostenute per 25 anni dai missionari della Consolata, ci siamo trasferiti in Swaziland. La nostra comunità è composta da padre Francis Onyango, padre Peterson Muriithi e dal sottoscritto.

Dopo essere stati ospitati in alcune parrocchie per lo studio della lingua Siswati, strumento indispensabile per il nostro servizio missionario, ci siamo trasferiti in un ex convento a Manzini, dove attualmente risiediamo.

 

Lo Swaziland è un piccolissimo stato dentro il territorio del grande Sudafrica, ed è una monarchia assoluta. La regione è reduce da un periodo di siccità che ha causato disagi fra la povera gente che vive di ciò che coltiva.

Le recenti piogge non sono sufficienti a far maturare i prodotti della terra e purtroppo prevediamo che in molti non avranno raccolti buoni e che ci sarà un periodo di carestia. Staremo al fianco delle famiglie e con loro condivideremo il poco che abbiamo. Il Vescovo di Manzini, Monsignor José Luis Ponce de Leon, anch’egli missionario della Consolata, è una persona affabile, molto premurosa e sempre accanto alla gente. Nel mese di gennaio 2017 ci ha consegnato ufficialmente la nuova parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Kwaluseni, in una zona densamente popolata, a circa una decina di chilometri dalla città di Manzini. La parrocchia include tre comunità (chiesa principale e due cappelle), l’Università nazionale e un grande carcere. Inoltre da qualche mese, sto visitando e collaborando in un campo di accoglienza profughi a 40 km da Manzini, nella regione di Siteki, territorio al confine con il Mozambico.

In questo periodo ci siamo ripromessi di visitare le famiglie e le comunità per conoscere la realtà e capire la situazione; il dialogo e l’ascolto nella umiltà ci permetteranno di definire insieme alla gente le priorità del nostro servizio missionario in questa nazione. Sto cercando di rendermi conto delle varie necessità sia per la pastorale che per promuovere la situazione della gente.

Mi sono impegnato con il Vescovo a promuovere la solidarietà attraverso il coordinamento della Caritas nelle parrocchie e anche iniziarne le attività: attualmente abbiamo la Caritas diocesana, ma desideriamo avere anche le Caritas parrocchiali.

Avremmo bisogno di arredare la sacrestia e anche di avere un ufficio parrocchiale per incontrare la gente. Mancano i paramenti, i vasi sacri, tovaglie e libri liturgici nella lingua locale. Certamente i cristiani faranno la loro parte, ma non sarà senz’altro sufficiente. Anche la nostra abitazione è molto precaria e riesce a malapena ad ospitarci e permetterci di preparare le varie attività che svolgiamo in sede e anche nelle cappelle. Pensate che quando vado a celebrare la messa in chiesa o a visitare le comunità utilizzo ancora l’altarino portatile che mi è stato donato per la mia ordinazione sacerdotale 28 anni fa.

Faccio il possibile per trovare un modo per coinvolgere la comunità perché sia al servizio dei poveri e sia solidale con i carcerati e i profughi che visito regolarmente. Ma i bisogni sono tanti e a volte devo disattendere le speranze della gente perché mi mancano i mezzi.

Gli inizi non sono mai facili, ma non ci manca l’entusiasmo e la voglia di stare con la gente.

La Consolata vi sostenga e consoli nelle difficoltà.

Padre Rocco Marra – Manzini,  febbraio 2017

«Sotanas en el barro»

Mi permetto di scrivervi per informarvi della recente pubblicazione da parte del prestigioso Humanitarian Policy Group (un think thank britannico facente capo all’Overseas Development Institute) di un mio articolo sulla storia della pastorale e delle attività di carattere umanitario realizzate dall’Istituto Missionario della Consolata in Colombia durante la seconda metà del XX secolo. Lo studio è apparso sotto forma di capitolo per un rapporto d’analisi contenente varie contribuzioni riguardanti la storia dell’azione umanitaria in America Latina.

I risultati del lavoro etnografico e delle ricerche d’archivio effettuate nell’ambito del progetto di ricerca che ha preceduto tale pubblicazione permettono di identificare il peculiare modus operandi dei missionari Imc che, a partire dal secondo dopoguerra, furono assegnati al settore colombiano della selva amazzonica, in un contesto assai violento. Lungi dall’essere interessati esclusivamente all’evangelizzazione religiosa, i religiosi dell’Imc diedero la priorità all’azione umanitaria e allo sviluppo locale della regione attraverso la costruzione di scuole, la creazione di amministrazioni locali, l’appoggio alle iniziative di autonomia economica e la partecipazione diretta a negoziati con i gruppi armati (guerriglia, paramilitari, forze armate regolari) al fine di ottenere tregue, scambi di prigionieri e restituzione dei corpi delle vittime alle famiglie.

Il titolo della ricerca è Sotanas en el barro: El Instituto Misionero de la Consolata la pastoral humanitaria en Colombia (1947–2007) (Sottane/tonache nel fango, l’Istituto missioni Consolata [e] la pastorale umani- taria in Colombia). Vi invio i miei più cordiali saluti.

Alì, Maurizio
Université des Antilles – Martinique – Francia 01/02/2017

Grazie per la segnalazione della ricerca che siamo felici di rilanciare qui. Lo studio è frutto di un lavoro che il nostro Istituto ha promosso sotto la guida di padre Matthew Arose Magak, missionario keniano, per studiare l’impatto della presenza dei missionari nel Sud della Colombia. Il testo è disponibile in spagnolo su Internet.

 

Grazie

Buongiorno a tutta la redazione,
sono un vostro abbonato da molti anni, ho letto l’ultimo numero e mi sento una volta di più di ringraziarvi per l’impegno, la serietà ed il livello della pubblicazione. La vastità e la profondità degli argomenti trattati non ha pari nel panorama della stampa attuale e sono convinto che rispecchi i vostri sentimenti nei confronti dei lettori. Vi voglio bene!

Luigi Verone – email, 02/2017

Gent.mi Missionari,
ho inviato (come mia consuetudine) la somma annuale per le esigenze della vostra comunità. So che è poco ma le mie due pensioni scendono di continuo, mentre la famiglia ha sempre più esigenze. Ho tre figli sistemati e 5 nipoti in attesa di esserlo e un piccolissimo pronipote di 4 mesi.

Vorrei aiutare tutti ma, vivendo sola (ho 83 anni) a volte serve a me un aiuto. Basta parlare di me. Mi rallegra e mi soddisfa sempre la vostra rivista sempre vera in tutte le sue parti. Se potete, dalla somma togliete i soldi per una santa Messa per i miei vivi e defunti, per il resto usateli come meglio credete. Grazie ancora per l’aiuto che mi date in questi ultimi giorni.

M.F. Rossi – lettera, 18/02/2017

Gentile M. F.,
è sempre bello ricevere lettere scritte a mano. Se poi sono vergate su foglio di quaderno a quadretti come la sua, sono più belle ancora, perché rievocano un mondo di sentimenti e impressioni di altri tempi. Non immagina quanta gioia ci dia il suo affetto e quanto prezioso diventi il suo aiuto, che – anche se lei scrive «che è poco» – vale davvero un tesoro.

Ringraziando lei, vorrei ringraziare ciascuno dei nostri benefattori. Tutti quelli che, come lei, ci aiutano non perché sono ricchi, ma perché hanno un cuore grande e sanno avere occhi per chi vive in situazioni ancora più difficili delle loro.

Il 12 gennaio 1908, il beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore, scriveva per noi missionari questo ammonimento: «Quanto abbiamo è frutto dei sacrifici dei Benefattori. […] Quando leggo la lista delle offerte, vi assicuro che faccio una vera meditazione: mi fermo di tratto in tratto a far qualche aspirazione a Dio, per essi, per pregare per quei che sono morti. Quelle offerte sono lacrime, sono sangue […] e richiedono da parte nostra che preghiamo per tutti i benefattori passati, presenti e futuri, che siamo loro grati».

Per oltre un secolo, dal 1901 al 2003, la nostra rivista ha riportato con pignola fedeltà la lista completa di chi aiutava le nostre missioni. Era un modo per essere «trasparenti» con i nostri amici e benefattori. Poi le regole di postali sono cambiate e siamo stati costretti a togliere la lista per non dover pagare cifre impossibili di abbonamento (è servito a poco, perché poi il primo aprile 2010 la stangata è arrivata lo stesso). Anche se non pubblichiamo più la lista, la gratitudine da parte nostra non è venuta meno. Grazie di cuore a ciascuno. Specialmente alle nostre amate bisnonne, come M. F., grazie.

 

Ricordando sior Ignazia

Suor Ignazia Pia Wambui Murai da Mugoiri nella diocesi di Muranga (un tempo Fort Hall) in Kenya, dopo 60 anni di vita missionaria, venerdì 3 marzo scorso è andata a godere il meritato riposo nella casa del Padre. Nata probabilmente nel 1931, figlia di un influente capo kikuyu divenuto cristiano col nome di Ignazio, Wambui, battezzata Theresa e diventata la prima missionaria della Consolata keniana, ha voluto rendere omaggio a suo padre prendendone il nome. Nella foto è ritratta con la sorella Emma, che ha lavorato nel corpo diplomatico del Kenya indipendente, probabilmente il giorno della sua professione perpetua. Riposi in pace.




Insegnaci a pregare 3:

«Dal deserto al cosmo per la storia»


Non si può amare e non si può pregare nella confusione, nel frastuono e nella dispersione. L’intimità che non sia prostituzione esige riservatezza perché l’amore custodisce la persona amata e l’amore, come la preghiera, esigono la condizione preliminare del «silenzio», anzi dell’«ascolto del silenzio». Per questo occorre non solo «fare silenzio» dentro e attorno a noi, ma «essere silenzio», cioè abitarlo come luogo d’intimità (cfr Sap 18,14-15).

Lo sa il salmista che prega: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion, a te si sciolgono i voti» (Sal 65/64,2). È probabile che questo salmo sia stato formulato in terra d’esilio, lontano dal tempio di Gerusalemme, e che l’autore, privo dei sacrifici, dei riti e delle liturgie, si limiti a immaginare, in silenzio, il tempo del tempio, quando nulla ne faceva temere la distruzione. Il silenzio stesso è sacrificio, cioè offerta di lode, da qui si deduce che la preghiera sostituisce i sacrifici e non si esaurisce nelle formule, ma nel desiderio, nell’anelito di essere e stare con Dio. Come conciliare tutto questo con le condizioni di vita di oggi, in cui rumore, chiasso, frettolosità e superficialità sono onnipresenti?

Seduzione e deserto

Anche Dio, quando deve recuperare l’amore tradito e sporcato, non trova altra soluzione che condurre la donna/Israele nel deserto, nel cuore del silenzio, al riparo da sguardi indiscreti: «Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore» (Os 2,16). Nemmeno Dio si può sottrarre alla pedagogia e alle dinamiche dell’innamoramento, se vuole che la sua relazione con l’amata sia vera e profonda. Per il profeta Osea, il «deserto» non è solo il luogo geografico dell’esperienza della liberazione dall’Egitto, ma è anche il luogo della solitudine e della riservatezza, il «dove» che custodisce da occhi estranei la persona amata perché l’amore totale non può avere come proscenio la piazza, ma solo lo spazio che unisce i due cuori.

Anche Gesù va nel «deserto» fisico, simbolo del deserto intenso della sua anima. In greco «deserto – èr?mos», da cui èremo, è luogo isolato, pur non assente dal mondo perché è nel mondo, ma non del mondo; luogo dove la dimensione della vita scorre non sulle onde agitate dei cavalloni del mare in tempesta, ma sugli alisei sottotraccia, dove il tempo ritma l’eterno e l’eternità scandisce l’essenziale dell’esistenza, purificando dalle scorie del superfluo. Nel deserto non si porta l’abito da sera o il vestito della festa: solo l’essenziale è consentito, ciò che non ingombra e non appesantisce. Il deserto è il luogo della purità del cuore e della limpidezza dello sguardo, dove per sentire anche il sussurro dell’amore e per vederlo basta «chiudere gli occhi».

Nel deserto non ci si può distrarre perché come custodisce, così uccide, pieno com’è di pericoli e insidie che impongono vigilanza e attenzione. Il deserto non ispira la preghiera per occupare il tempo, perché nel deserto non c’è tempo, ma soltanto il sole che brucia il giorno e impone il buio, allungando le paure come ombre e le tensioni come desideri. Nel deserto tutto è sospeso, anche la vita. In questo contesto la preghiera diventa la misura dell’essere, nell’aspetto del desiderio e dell’agire, del progettare e del realizzare. La verifica della vicinanza con Dio si trova solo se c’è il clima dell’ascolto nel silenzio che diventa attenzione assoluta all’altro/Altro. A questo livello non occorrono parole, perché basta «esserci».

La preghiera è – e non può non essere – relazione tra due innamorati. Da questo punto di vista pregare significa, lo abbiamo già detto, perdere tempo per la persona amata. Gesù, infatti, non sottrae tempo agli altri, ma solo a sé, al suo riposo, per dedicarlo al Padre, la Persona che ama più di ogni altro. «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (Mc 1,35). L’evangelista ci tiene a precisare che questo stile di Gesù è abituale, che cioè la sua vita è ritmata dalla preghiera non come un sistema di formule o obblighi da adempiere, ma come necessità interiore. Mentre tutti dormono, all’aurora, prima dell’alba, egli veglia sul mondo in comunione col Padre, facendosi carico delle fatiche e delle assenze dell’umanità. L’incontro col Padre per lui è la vita, la sua vita, e senza di esso non può vivere. Per Gesù pregare è illimpidirsi lo sguardo per adeguare sempre più la propria vita a quella del Padre e crescere in intimità con lui: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Pregare non è dire formule, ma imparare a «stare con…».

Due innamorati stanno insieme per uniformare pensieri, desideri, tenerezza, aspirazioni, progetti, sentimenti, volontà, decisioni, ecc. Gesù prega per mantenere la sua vita in conformità con a quella del Padre perché egli «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). In questo senso la preghiera diventa anche purificazione da eventuali tracce di egoismo narcisista e di tornaconto.

Fratel Arturo Paoli, profeta di oggi, fino alla sua morte, anche da centenario, si alzava ogni notte verso le quattro del mattino e trascorreva ore a dialogare con l’Amico, come fanno gli amanti. Qui stava la sorgente segreta della sua profezia visibile.

L’Eucaristia della testimonianza

La preghiera è un crogiolo che brucia le reste e lascia integro il frumento (cfr Lc 3,17) perché è un principio di trasformazione radicale. Se uno prega e non parla soltanto con se stesso, entra in intimità d’amore con il Signore e quando finisce di pregare non è più lo stesso perché passa dalla preghiera d’intimità alla vita di preghiera: egli prega vivendo, come prima viveva pregando; la vita diventa preghiera e la preghiera è vita, come dovrebbe essere in modo particolare il vivere l’Eucaristia.

Quando termina la celebrazione dell’Eucaristia, di solito si pensa che sia finito tutto: «La Messa è finita. Andate in pace». Ma non è così, perché finisce solo l’aspetto rituale della celebrazione, che è premessa indispensabile per l’Eucaristia della testimonianza che inizia da quel momento in poi, varcando la soglia della chiesa per entrare nel tempio del mondo. Si entra nella dinamica della vita ordinaria che è l’altare su cui celebriamo la lode, il pane, il vino, la condivisione, la fraternità delle nostre scelte, azioni e parole. Finisce la Messa del rito e inizia l’Eucaristia della vita nella liturgia della testimonianza che è il martirio quotidiano (cfr Sal 54/53,8; 116/115,17; Ger 17,26; Eb 13,15).

San Bonaventura, biografo di San Francesco d’Assisi, diceva di lui, come abbiamo più volte accennato, che «non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso era trasformato in preghiera vivente – non tam orans quam oratio» per dire della sua orante testimonianza.

Sul silenzio, il suo valore e la sua necessità per la vita, suggeriamo: H.J.M. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio, Queriniana, Brescia 201215; F. Battiato, Il silenzio e l’ascolto. Conversazioni con Panikkar, Jodorowsky, Mandel e Rocchi, a cura di Giuseppe Pollicelli, Castelvecchi-Lit Edizioni, Roma 2014. Su Francesco di Assisi, cfr Tommaso da Celano, Vita Seconda, LXI,95, in Fonti Francescane. Scritti e biografie di San Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, Movimento Francescano, Assisi 1977, 630 n. 682.

La preghiera non fa ripiegare mai su se stessi, non fa attorcigliare sull’io ma apre a prospettive nuove: invita ad andare sempre «oltre», ad altri villaggi, ad altri bisogni, ad altre incarnazioni, ad altri rischi di novità. Allarga l’orizzonte della vita ristretta per adeguarlo all’immensità della visione di Dio. Ecco perché bisogna imparare a pregare non per se stessi, ma per e con gli altri, per l’«ekklesìa» dentro la quale stanno anche i nostri bisogni e le nostre necessità, se è vero che Dio si prende cura degli uccelli e dei gigli del campo (cfr Mt 6,26-30). Se gli altri pregano per me, la loro preghiera è più grande e più forte perché sono in tanti (coralità ecclesiale) a pregare per me e perché è preghiera disinteressata e gratuita. Di questo metodo parleremo più avanti.

Imparare a pregare significa imparare a essere semplicemente se stessi nella consapevolezza di essere figli amati e stimati di Dio. Nel vangelo di Marco, pregare è lasciarsi scegliere da Gesù per tre obiettivi: «Stare con lui», «essere mandati a predicare» e «avere il potere di scacciare i demòni» (cfr Mc 3,13-15).

  • Stare con lui significa avere consuetudine di frequentazione diuturna e di vita.
  • Essere mandati esprime la coscienza della responsabilità della credibilità di Dio nel mondo.
  • Scacciare demòni vuol dire condividere con gli uomini e le donne di buona volontà le lotte della vita contro la fame, la sete e la povertà, la disoccupazione, la mancanza di casa e di dignità, che costringono la maggioranza dell’umanità a vivere prigioniera della febbre dell’ingiustizia, schiava di un sistema economico e umano che si nutre delle differenze e delle disparità e beve il sangue dei deboli crocifiggendoli sull’altare delle migrazioni.

Pregare è imparare a essere il «sacramento» della Shekinàh/Dimora/Presenza di Dio nel mondo per cominciare a costruire il regno della libertà secondo il Vangelo che è il cuore di Cristo. L’Eucaristia è la preghiera corale di tutta la Chiesa che misticamente, cioè realmente, ci rende partecipi a tutte le Eucaristie che si celebrano nel mondo, di cui ciascuno di noi è un frammento, un segno, una speranza, una promessa proiettate sul futuro. Ogni comunità eucaristica è la «Chiesa universale», rappresentata «sacramentalmente» che c’impedisce di chiuderci in noi, obbligandoci ad aprirci all’universo perché l’orizzonte dell’Eucaristia o è universale o semplicemente non è.

Pierre Teilhard de Chardin, il gesuita teologo e paleoantropologo, perseguitato dal Sant’Uffizio e poi parzialmente riabilitato, parlava di «Cristo Cosmico» e la sua «Messa sul mondo» era la visione di Cristo risorto, contemplata dalla prospettiva dell’evoluzione universale (Pierre Teilhard de Chardin, Inno dell’universo-La messa sul mondo-Il Cristo nella materia-La potenza spirituale della materia-Pensieri scelti, Queriniana, Brescia 2011). L’Eucaristia non può soddisfare un precetto individuale per tranquillizzare il dovere religioso «per non fare peccato»: sarebbe prostituzione di tornaconto. L’Eucaristia annuncia, proclama e condivide con l’umanità la Benedizione del Padre, Gesù il Signore, il «Vangelo» dato a noi. Il mondo si salverà da se stesso, se sapremo trasformare la nostra vita in preghiera e la nostra preghiera in vita.

Paràclito e Chiesa

Scendiamo in profondità e vediamo cosa accade nel «giorno del Signore». La domenica, un grappolo di fedeli si affretta alla spicciolata per «andare a Messa» – i più spiritosi dicono: «prender Messa» -, guardando l’orologio, in attesa che finisca presto. Quando tutto «è compiuto», si esce in fretta e si corre via a riprendere quello che si era interrotto, con la coscienza di aver perduto del tempo prezioso. Il vangelo di Giovanni col termine «Paràclito» indica lo Spirito Santo, inviato da Gesù Risorto: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (cfr Gv 14,16.26). Strettamente connesso a «Paràclito» è il termine «Chiesa – ek-klesìa», ma nessuno vi fa caso.

Il termine «ek-klesìa – chiesa» non appartiene alla tradizione evangelica, essendo molto tardivo. Esso ricorre solo 2 volte in Mt; 23 in At; 33 nelle lettere maggiori di Paolo [Rm, 1-2Cor e Gal]; 22 nelle lettere pastorali, attribuite a Paolo [Ef; Fil; Col; 1-2Tm; Ti e Filem]; 2 in Ebrei; 1 in Giacomo, nessuna in 1-2Pt; 22 nella letteratura giovannea [lettere e Ap] per un totale circa 105 occorrenze.

Possiamo dire che è un termine che non appartiene a Gesù, che non l’ha mai usato, ma alla tradizione successiva. Paràclito e Chiesa, dal punto di vista semantico, dunque, sono connessi. Ambedue i vocaboli derivano dal verbo base greco «kalè? – io parlo/chiamo».

  • Paràclito è composto con la preposizione «parà» che indica «vicinanza/accostamento», per cui «para-kalè?» significa «chiamo/invito/nomino in favore di… o a nome di…», e quindi anche «prego/invito/esorto/consolo». In italiano acquista il senso esteso e logico di «avvocato».
  • Chiesa si compone con la preposizione «ek-» che indica origine/provenienza, per cui «ek-klesìa» significa radunata/convocata/ riunita da Dio che ne costituisce il fondamento.

L’affinità semantica tra «ek-klesìa» e «parà-clito» non è solo linguistica, ma funzionale, di una reciprocità che bisogna mettere in luce; i due termini, infatti, non possono essere separati, pena la dissoluzione di senso di ambedue.

Alla luce di tutto questo, ecco cosa accade nel «giorno del Signore». I credenti sono chiamati, convocati, radunati dallo Spirito-Paràclito per costituire l’Ek-klesìa di Dio. Partendo dalla propria individualità e diaspora, ciascuno converge verso l’Altare, il nuovo monte del Signore, divenuto «fisicamente» segno del «raduno universale dei popoli per ascoltare la Parola del Signore» di cui parla Is 2. Nessuno di noi partecipa all’Eucaristia di sua iniziativa o per sua volontà, ma ciascuno risponde a una chiamata, per cui l’Eucaristia non è un «dovere», ma una vocazione dello Spirito cui si risponde non con una parola, ma con un gesto, un atto, «andando», come Abramo: «E Abramo partì» (Gen 12,4).

Se siamo figli e opera dello Spirito, in rappresentanza del mondo intero, del cosmo universale (Teilhard de Chardin), anche noi convergiamo dalle diaspore in un unico «luogo» per prendere coscienza di essere «popolo», santa Assemblea orante che, esercitando le funzioni sacerdotali dell’alleanza, prende atto della «Signoria» di Dio, ne accoglie il Lògos annunciato sul mondo, ricevendolo come benedizione e consolazione per riportarlo nel mondo come dono di Dio, spargendolo attraverso le parole, le azioni, le relazioni della vita di ogni giorno.

Altro che preghiere tisicucce e malferme in salute, altro che formule stantie e monotone! Altro che «messe a ore» o per togliersi il pensiero. L’Eucaristia è la preghiera per eccellenza, la sola che la Chiesa può elevare davanti alla Maestà del Lògos che risuona nel silenzio per essere a sua volta ridonato a Dio in una reciprocità di scambio, in cui il dare e l’avere è solo e soltanto il Lògos, la Parola di Dio fatta carne. È necessario uscire dall’isolamento egoistico dell’individualismo, scoprire il senso «ecclesiale» della preghiera che non è stare fisicamente insieme a recitare salmi o rosari, ma coscienza di espletare una «missione» in risposta a una chiamata che si consuma nel desiderio di essere «sacramento visibile» dello Spirito che ci convoca in «chiesa» per riconoscere lo Spirito attivo nella storia e in ogni singola persona.

Ci assumiamo così il compito di andare alla ricerca della sua Presenza, disseminata ovunque, portarla alla luce, adorarla e amarla. Con la morte e risurrezione di Gesù, la croce si frantumò in un’infinità di minuscoli pezzi che si sono dispersi in tutto il mondo e in «ogni carne» come scheggia di sofferenza e di dolore, come sigillo di risurrezione.

San Giustino (100-162/168), uno dei primi padri della Chiesa sub-apostolica, parla di «hòi lògoi spermatikòi – i semi del Verbo», (2 Apologia 8, 1-2; 10, 1-3; 13, 3-6), come se il Lògos, dopo avere ingravidato l’intera umanità attraverso lo Spirito suo, ora mandasse i suoi discepoli a raccogliere i diversi semi dispersi per radunarli in un unico popolo rinnovato e risorto.

«La riflessione non può prescindere dal riflettere sull’opera che nei singoli e nelle comunità svolge lo Spirito Santo che sparge i “semi del Verbo” in ogni costume e cultura, disponendoli ad accogliere l’annuncio evangelico. Questa consapevolezza non può non suscitare nel discepolo di Cristo un atteggiamento di dialogo nei confronti di chi ha convinzioni religiose diverse. È doveroso, infatti, mettersi in ascolto di quanto lo Spirito può suggerire anche agli “altri”». (Giovanni Paolo II, Omelia della Vigilia di Pentecoste, 10 giugno 2000, anno giubilare; sui «semi del Verbo» cf Conc. Vaticano II, Decr. Ad gentes, n. 11; Dich. Nostra aetate, n. 2).
Compito del cristiano è, quindi, immergersi negli eventi e nella storia per ricomporre il Cristo, riunendo i frammenti disseminati in ogni persona, in ogni cultura, in ogni tempo, in ogni religione, in ogni peccato, in ciascuno di noi. La vita è preghiera vivente.

Paolo Farinella, prete
(3 – continua).




Finanza etica, eppure esiste


Gran parte del prodotto dal crimine viene riciclato in attività legali. E passa attraverso meccanismi finanziari bancari. Esiste però anche una finanza che fa del bene. Si è dovuta dotare di strumenti di controllo molto rigorosi.

L’onorevole Rosi Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia va ripetendo che troppo spesso dove c’è il denaro c’è anche la mafia. Le attività criminali, sempre più lucrose, sono facilitate dalla globalizzazione che ha abbattuto le frontiere economiche ed eliminato i controlli. Il commercio di droga e altre sostanze illegali, il traffico di armi, l’esportazione dei rifiuti dai paesi ricchi a quelli poveri, fino all’aspetto più odioso che è il traffico di esseri umani sono prosperati negli ultimi trent’anni.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine (Unodc) conferma che l’enorme quantità di denaro prodotto dalle iniziative criminose solo in parte viene reinvestita nella criminalità o nei paradisi fiscali, il resto viene «lavato» e riciclato in attività economiche per così dire «normali». Laddove le banche sono restie a prestare denaro a piccole e medie imprese, perché il margine di intermediazione è sempre più ridotto, arriva la criminalità.

Ma anche negli scambi leciti e «puliti» il denaro può fare danno, la crisi del 2008 ha dimostrato come il risparmio venga utilizzato non per sostenere l’economia reale, ma per alimentare la speculazione e appagare l’avidità di profittatori senza scrupoli.

I risparmiatori rimangono vittime di dirigenti e amministratori bancari spericolati che fanno scelte azzardate portando al fallimento la propria azienda e costringendo lo stato a intervenire con costosi piani di salvataggio.

Prima di depositare il nostro denaro nelle banche, dovremmo chiederci e chiedere che fine fa, non solo per tutelare il nostro patrimonio, ma per evitare di diventare, sia pure inconsapevolmente, conniventi con speculatori e delinquenti.

Dopo i disastri provocati dalla finanza, l’Abi (associazione delle banche italiane) e le sue consorelle straniere, insistono sull’importanza dell’educazione finanziaria dei cittadini, come se la responsabilità di quello che è successo fosse nostra, della nostra mancata conoscenza dei meccanismi del sistema bancario.

In realtà sono le banche che hanno tradito la loro missione: raccogliere risparmio e investirlo nelle imprese, nei territori e nel benessere delle persone.

Il presidente Trump, appena insediato, ha messo mano alla legge Dodd-Frank, approvata dall’amministrazione Obama dopo il crac della Lehman con l’obiettivo di mettere ordine nella finanza e impedire alle banche di speculare con i propri patrimoni che servono, invece, a coprire i rischi di credito.

Le grandi banche statunitensi hanno protestato contro i controlli previsti dalla legge e il nuovo presidente si è precipitato ad accontentarle.

Eppure esiste una finanza che, non solo funziona, ma fa del bene.

Banca Etica ne è un esempio italiano, è stata fondata nel 1999 da centinaia di organizzazioni e singoli cittadini che hanno raccolto il capitale per creare un istituto che agisse secondo i principi della finanza etica, primo fra tutti considerare il credito un diritto umano e valutare sempre l’impatto delle attività economiche su società e ambiente.

Banca Etica funziona come una banca normale: raccoglie risparmio e lo investe in progetti. Ciò che la rende «etica» sono – oltre ai principi ispiratori – alcune peculiarità: ad esempio rende pubblico l’elenco delle attività finanziate, è una banca cooperativa in cui i soci sono molto attivi ed esercitano un controllo reale sulle scelte degli amministratori, nel processo del credito associa l’istruttoria sul merito creditizio con la valutazione socio ambientale del richiedente, infine, in Banca Etica, la differenza tra la retribuzione massima e quella minima non può superare il rapporto 6 a 1.

Del gruppo Banca Etica fa parte Etica sgr, una società di gestione che investe esclusivamente in fondi selezionati sulla base di un centinaio di criteri molto rigorosi che ne misurano l’impatto sociale e ambientale, la governance, l’impegno contro la corruzione, ecc. I fondi di Etica non solo premiano aziende e stati virtuosi, ma hanno anche un rendimento molto elevato, a conferma del fatto che l’etica conviene sempre.

La Banca Etica agisce seguendo determinati criteri che rendono più etica e giusta l’attività bancaria, non si tratta di criteri irrealistici, anche altre banche potrebbero adottarli e questo sicuramente renderebbe il sistema più trasparente e meno rischioso per i risparmiatori.

Una cosa è sicura: chi deposita il proprio denaro in Banca Etica ha la certezza che servirà a migliorare la vita delle persone e a cambiare in meglio il nostro paese.

Sabina Siniscalchi

 




La Costa d’Avorio in ostaggio /2


Da Dianra, nel Nord Ovest, dove i missionari lavorano per sanità e dialogo, a Grand Zattry e Sago, nel Sud Ovest, dove cercano di ampliare una scuola. Passando per Soubré, dove è in costruzione una grande diga, terminando con San Pedro e Abidjan, dove tonnellate di cacao rischiano di marcire sui camion all’entrata dei porti.

A Dianra, come a Marandallah, il dialogo interreligioso permea di sé tutta l’attività dei missionari. Questo implica un procedere lento, graduale, rispettoso delle differenze e capace di fare emergere ciò che accomuna. «È anche per questo», spiega padre Matteo Pettinari, «che prima di costruire una case de santé (piccolo centro sanitario) contattiamo le autorità di ciascun villaggio e organizziamo un incontro pubblico che coinvolga tutta la comunità. Durante l’incontro chiariamo che queste strutture fanno parte di un programma che le autorità locali della sanità pubblica hanno affidato al nostro centro di Dianra Village. Non si tratta, quindi, di costruire “la casa dei cristiani” ma di portare l’assistenza sanitaria al villaggio attraverso le regolari visite della nostra equipe mobile. Non solo: nell’incontro si cerca di ottenere dagli abitanti del villaggio l’impegno a collaborare con il nostro personale in modo che questo servizio rechi davvero beneficio».

In quel contesto rurale la gente tende a rimandare il momento in cui ricorrere alle cure mediche, finché non è chiaro che i rimedi tradizionali sono inefficaci e che le patologie si sono aggravate al punto da essere ormai invalidanti. Le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi e andare al centro di salute a farsi visitare, ad esempio durante la gravidanza, o a far visitare i bambini per scongiurare il rischio della malnutrizione. Creare sensibilità e consapevolezza è un lavoro lungo e delicato. Fare di corsa significa rischiare di offrire un servizio che poi nessuno usa.

«È interessante», prosegue Matteo, «come villaggi distanti pochi chilometri reagiscano in modi diversi: c’è una località nella quale non siamo riusciti a trovare un accordo, un’altra dove ci stiamo avvicinando a un’intesa e una terza in cui, al termine della riunione con la comunità, alcuni giovani avevano già scavato le fondamenta per la case de santé».

Quest’ultimo non è il solo esempio incoraggiante che il missionario cita. Mostra con evidente soddisfazione le foto di Sononzo Carrefour, altro villaggio che fa capo a Dianra, dove la chiesa e la moschea sono dello stesso colore, e ricorda: «L’anno scorso i musulmani di Sononzo hanno fatto una colletta per ridipingere la moschea e ci hanno proposto di dare il loro contributo per ridipingere anche la nostra chiesa. È stato un gesto davvero splendido, un atto di fratellanza che ci riempie di gioia e ci evangelizza».

Verso Sud, fra palma da olio e caucciù

Lasciando Dianra in direzione Sud gli alberi tornano lentamente ad essere verdi, segno che qualche sporadica pioggia – al Nord del tutto assente da mesi – ha lavato via dalle foglie la polvere rossa della stagione dell’harmattan1.

Grand Zattry si trova nel distretto di Bas-Sassandra, lungo la strada in parte asfaltata che collega il Nord a Soubré, cittadina a 130 chilometri dal mare. Ai lati della strada, mentre non vengono meno le piantagioni di cacao, spariscono quasi del tutto i fiocchi bianchi del cotone e i frutti arancioni dell’anacardio. Sono gli alberi di caucciù a dominare il paesaggio – ciascuno con il suo recipiente simile a un bicchiere legato sotto l’incisione nella corteccia dalla quale cola il lattice bianco – e le palme da olio, con i loro grappoli di frutti rossi adagiati dove la fronda si stacca dal tronco.

A Blesséoua, uno dei villaggi che la missione di Grand Zattry accompagna, la scuola primaria ha 458 allievi: troppi per le sei classi che fino a dicembre 2016 aveva a disposizione. Quasi ottanta bambini per aula sono davvero di difficile gestione, constata una maestra che si unisce alla riunione con il capo villaggio e altri responsabili della comunità che collaborano con padre James Gichane, missionario keniano a Grand Zattry. Per questo motivo il salone cucina che la generosità di una donatrice ha permesso di costruire nel 2016 è per il momento stato adibito ad aula. Nel frattempo, il Conseil Café-Cacao, l’ente pubblico che regolamenta la produzione e il commercio dei prodotti da cui prende il nome, sta finanziando la costruzione di altre tre classi. «Sono andato di persona alla sede del Conseil», spiega il capo villaggio, «per spiegare loro la situazione della scuola, e grazie a Dio mi hanno dato retta. Bisognava almeno aumentare il numero di aule, ma anche la mensa scolastica e i servizi igienici sono in pessime condizioni». Oltre al villaggio di Blesséoua, la scuola primaria serve diciassette campement (villaggi più piccoli e provvisori) dei dintorni, gli alunni vengono qui a piedi da cinque chilometri di distanza. La situazione di questa scuola, che è comune a molte altre nel paese, stride con le dichiarazioni d’intenti delle autorità pubbliche secondo le quali ogni classe dovrebbe avere non più di quaranta alunni.

Energia per un paese che vuol crescere

Per andare da Grand Zattry a Sago si passa da Soubré, città sulla quale gli occhi del Costa d’Avorio sono oggi puntati per via della costruzione di un’imponente diga che sfrutterà un dislivello naturale del Nawa, un affluente del fiume Sassandra, per produrre energia elettrica. Una volta ultimata, sarà la più grande diga del paese, con una potenza installata pari a 275 megawatt per una produzione annuale di 1.170 gigawatt ora.

L’opera, dal costo di 338 miliardi di franchi cfa (circa 515 milioni di euro), è finanziata all’85% dalla Cina (attraverso la banca Eximbank) e al 15% dalla Costa d’Avorio nel contesto della cooperazione sino-ivoriana; l’entrata in funzione è prevista per la fine del 2017, dopo cinque anni di lavori. Oggi la Costa d’Avorio ha una potenza installata di 1.975 megawatt forniti per tre quarti da centrali termiche (gas naturale e vapore) e per un quarto da centrali idroelettriche, e vende energia a Burkina Faso, Mali, Ghana, Togo e Benin. Il governo intende però raddoppiare la potenza prodotta entro il 2020 e ha pianificato una nuova centrale termica a gas a Songon, quartiere di Abidjan, e una a carbone a San Pedro, suscitando la perplessità per la contraddizione fra la scelta del carbone e la ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.

Sago: l’Africa occidentale in un villaggio

Lungo la strada verso Sago, villaggio a un’ottantina di chilometri dalla costa, è frequente vedere cartelli con il logo della Sipef – Società internazionale delle piantagioni e di finanza – un’agroindustria internazionale che opera nelle aree subtropicali fra cui la Costa d’Avorio. I cartelli recitano: Non au travail des enfants (no al lavoro dei bambini).

«È una campagna che va avanti da qualche anno», spiega padre Ramón, «nata come reazione al fenomeno dei bambini schiavi portati qui soprattutto dal Mali per lavorare nelle piantagioni di cacao».

Il tema ha cominciato ad essere noto all’opinione pubblica internazionale nei primi anni Duemila ma è probabilmente con documentari come il danese The Dark Side Of Chocolate2 che ha guadagnato maggiore visibilità. «Oggi», continua Ramón, «anche grazie a questa campagna, chi è a conoscenza di casi di sfruttamento li denuncia sapendo che, a differenza di un tempo, gli sfruttatori verranno puniti».

Quella del Bas-Sassandra è una zona con una notevole varietà etnica, dove ivoriani e stranieri vivono del lavoro nelle piantagioni o dei commerci che si svolgono nel grande mercato. «In dieci anni», spiega padre Silvio Gullino, missionario della Consolata attivo prima in Repubblica Democratica del Congo e, ora, uno dei decani della missione in Costa d’Avorio, «il villaggio è passato da quattromila a diecimila abitanti. Qui, assieme e agli autoctoni di etnia Godié, vivono Baoulé, Koulango, Abron, ma anche Mossi del Burkina Faso. Anzi, si può dire che siano rappresentati quasi tutti i paesi della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale): Togo, Benin, Senegal, Mali, Mauritania…».

Una cartina di tornasole di questa varietà è la messa domenicale nella chiesa di Sago, durante la quale le letture vengono fatte in cinque lingue. I cattolici a Sago sono una minoranza, precisa ancora padre Silvio, circa il dieci per cento della popolazione. Sei persone su dieci sono musulmane, il quindici per cento è cristiano di altre denominazioni e un altro quindici per cento pratica le religioni tradizionali.

La scuola primaria Notre Dame de la Consolata accoglie 250 alunni dai sei ai dodici anni; padre Celestino Marandu, missionario tanzaniano anche lui con diversi anni d’esperienza in Congo, è a Sago dal 2009 ed è il responsabile della scuola che, nel gennaio 2017, è stata una delle pochissime a non rimanere chiusa tre settimane per lo sciopero dei funzionari pubblici.

«Certo», osserva Celestino, «è giusto che gli insegnanti rivendichino il loro diritto a stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro; ma qui è la scuola a pagare gli stipendi, regolarmente e senza contributi dal governo. Garantiamo ai docenti anche case ad affitti ragionevoli e un ambiente di lavoro organizzato dove possono segnalare, discutere e risolvere i problemi insieme alla dirigenza. E tutto questo per assicurare la cosa più importante: che i bambini abbiano un’istruzione davvero di qualità». Padre Celestino ha appena completato l’arredamento della sala e mensa scolastica finanziato grazie al contributo di alcuni donatori italiani. «L’ispettore regionale dell’insegnamento primario è venuto a visitare la scuola», racconta padre Marandu. «Alla fine ci ha fatto i complimenti per la mensa più bella e grande della regione del Gboklê».

Nell’immediato futuro padre Celestino ha in programma di terminare la recinzione per avviare l’orto che produrrà frutta e verdura per la scuola: «Senza recinto non si può coltivare, arriverebbero gli animali a devastare tutto». Vuole poi ristrutturare alcune delle case degli insegnanti, completare la case de santé della scuola per seguire i bambini anche dal punto di vista della sanità di base, ultimare il campo sportivo. «Il governo ha introdotto l’obbligo scolastico fino a 16 anni», riferisce il missionario, «ma serve anche un sistema uniforme ed efficace di controlli e sanzioni per chi non manda i figli a scuola. Qualcuno stima che i bambini di fatto non scolarizzati siano ancora almeno la metà».

San Pedro e Abidjan, cacao invenduto e grattacieli

L’aria impregnata dell’odore acre delle fave di cacao è forse uno dei tratti distintivi di San Pedro, insieme alle file di camion che trasportano, oltre al cacao, anche gli altri prodotti delle piantagioni ivoriane. Ma nell’inverno del 2016 nell’aria si respirava anche apprensione: 400 mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani e cominciavano a marcire. Il Conseil Café-Cacao, riportava il quotidiano francese Le Monde3, aveva fissato per il 2016 il prezzo cosiddetto «a bordo campo» a non meno di 1.100 franchi al chilo, 1,67 euro. Gli esportatori devono vendere ad almeno 1.800 franchi (2,74 euro) per guadagnare qualcosa considerando anche i costi di manodopera e trasporto. Ma da agosto dell’anno scorso il prezzo del cacao sul mercato mondiale è diminuito del 25% e ora un chilo vale 1.300 franchi, poco meno di due euro. A febbraio, del fondo che il Conseil Café-Cacao ha a disposizione per rimborsare gli esportatori in questi casi nessuno aveva ancora visto un franco. E, spesso, i produttori ricevono il pagamento per il raccolto in parte alla consegna e in parte anche mesi dopo, perciò, se non arrivano prima i rimborsi agli esportatori per l’invenduto i coltivatori rischiano di non incassare nulla.

E se questo è il problema più immediato, non è però l’unico: la rivista Jeune Afrique4 riportava diverse testimonianze di addetti ai lavori secondo i quali la metà del cacao venduto come equo, solidale e sostenibile avrebbe avuto una certificazione fasulla. Questo tipo di cacao può essere venduto a un prezzo più alto di quello del cacao ordinario, perché, in teoria, ha costi di produzione maggiori dovuti a standard più elevati nel trattamento dei lavoratori e nei metodi di coltivazione. Dopo che i colossi del cioccolato, Mars e Lindt in testa, si sono impegnati ad arrivare entro il 2020 a comprare solo cacao certificato, questa fetta di mercato ha avuto un boom. Ma qualcosa non torna: la certificazione è un processo lungo e meticoloso, eppure nel 2015 un terzo del cacao ivoriano – cioè 600 mila tonnellate su un milione e 800 mila – risultava certificato. Troppo in troppo poco tempo, sostengono gli scettici. Alcuni operatori avrebbero fiutato l’affare e costituito delle cooperative intermediarie che comprano cacao ordinario al prezzo minimo, ottengono false certificazioni e rivendono il cacao come equo, facendo così una cresta che può arrivare a 170 Fcfa (18 centesimi di euro) al chilo. Il cacao, ricordava ancora Le Monde, genera due terzi dei posti di lavoro e dei redditi nel paese, la metà degli introiti delle esportazioni e il 15 per cento del Pil. È un settore con il potere di mettere in crisi l’intero paese.

 

A guardare le scenografiche luminarie delle feste scintillare sui vetri dei grattacieli del Plateau, il quartiere chic di Abidjan, a sentire i comunicati con cui le Nazioni Unite annunciano che la situazione è abbastanza stabile da ritirare la forza di pace5, o a leggere che il volume degli scambi di denaro via cellulare tocca i 25 milioni di euro al giorno6 non si direbbe che la Costa d’Avorio possa ripiombare nel caos. E il ricordo ancora vivo del conflitto, della paura costante, del paese spaccato a metà potrà aiutare a contenere le spallate di inizio anno. Ma certamente il 2017 sarà un banco di prova fondamentale per evitare sia un nuovo conflitto sia il cronicizzarsi di una latente, logorante instabilità.

Chiara Giovetti
(2 – fine)

Note

1- L’Harmattan è un vento secco e polveroso che soffia a Nordest e Ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. È considerato un disastro naturale (Wikipedia).
2- The Dark Side of the Chocolate – Il Lato Oscuro del Cioccolato – Italiano, 02 agosto 2014, canale Youtube «doppiatorianonimi».
3- Charles Bouessel, Comment la Côte d’Ivoire se retrouve avec 400 000 tonnes de cacao invendues sur les bras,
lemonde.fr, 16 febbraio 2017.
4- Charles Bouessel, Agriculture : la filière cacao envahie par la fraude à la certification, jeuneafrique.com, 3 febbraio 2017.
5- Carlverth Kouakou, Côte d’Ivoire : Les casques bleus quittent le pays à partir du 15 février, laseve.info, 10 febbraio 2017.
6- Hamsatou Anabo, Côte d’Ivoire: Entre 15 et 18 milliards CFA de transactions quotidiennes via Mobile Money, connectionivoirienne.net, 3 febbraio 2017.

 




I Perdenti 23. Il Samurai cristiano Justus Takayama Ukon


Con un profondo senso di fierezza la piccola e vivace comunità cattolica giapponese (ma si può dire dell’intera opinione pubblica della nazione del Sol Levante) ha vissuto lo scorso 7 febbraio nel palazzetto dello sport di Osaka la beatificazione di Giusto Takayama, primo samurai cristiano ad assurgere alla gloria degli altari. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con lui.

Innanzitutto, come devo chiamarti?

Chiamami Justus (Giusto), il nome che mi onoro di portare dal battesimo e che ha caratterizzato tutta la mia esistenza.

Raccontaci in breve la tua vita, origine, casato, stato sociale…

Sono nato con il nome Hikogoro Shigetomo tra il 1552 e il 1553 nel castello di Takayama, nei pressi di Nara, figlio di Takayama Zusho divenuto poi signore del castello di Sawa. Takayama è il nome di famiglia che deriva dal territorio di nostra proprietà feudale. Il mio casato era parte della classe dei nobili, ovvero  dei daimy?, signori di un castello e delle relative proprietà. Essi occupavano un posto importante nella scala sociale del Giappone di quel tempo. Venivano subito dopo gli shogun (signori di più territori ai cui i diversi daimy? erano fedeli alleati mettendo a loro disposizione un esercito e combattenti professionisti: i samurai). Il Giappone non era ancora uno stato unificato e i diversi shogun erano spesso in guerra tra loro per allargare le loro aree di influenza

Come avvenne la tua conversione al cristianesimo?

Mio padre nel 1563 era stato incaricato dal suo shogun di giudicare un missionario gesuita, padre Gaspar Videla, che stava annunciando il Vangelo proprio a Kyoto, la futura città imperiale. Ascoltandolo, rimase così impressionato che volle diventare cristiano, si fece battezzare e prese il nome di Dario. Non solo, mio padre convinse anche altri due giudici che divennero cristiani e, una volta tornato al suo castello accompagnato da un catechista, fece istruire e battezzare molti dei suoi soldati, sua moglie e i suoi figli, tra cui c’ero io, il primogenito. Era verso la fine del 1563 e avevo circa dodici anni. Da quel momento mio padre divenne un protettore dei cristiani.

Ma subito dopo scegliesti la vita militare.

Per me, figlio ed erede di un importante daimy?, era una vocazione naturale quella di diventare un samurai, un guerriero sempre pronto a difendere la famiglia, la legalità e il suo signore, lo shogun.

Hai partecipato a guerre e duelli? C’è qualche avvenimento che ricordi in modo particolare?

I daimy? erano spesso in conflitto tra loro. Sì, ho partecipato a guerre e combattimenti, distinguendomi per il mio valore. L’episodio che ha segnato la mia vita è stato il duello con il figlio di un amico di mio padre nel 1571. Avevo vent’anni. Dopo la morte di suo padre era venuto a contrasto col mio e, secondo la tradizione, dovetti accettare di battermi a duello per risolvere la questione. Fui ferito gravemente, ma uccisi il mio avversario. Nel periodo che seguì questo triste evento, approfittai della forzata convalescenza per riflettere a fondo sulla mia vita, e come fu per sant’Ignazio di Loyola così fu per me. Mi convinsi che pur rimanendo un samurai dovevo mettere la mia abilità nel maneggiare le armi al servizio dei più deboli, degli orfani e delle vedove.

È vero che giungesti anche alla conclusione che non dovevi più usare la forza per risolvere i conflitti?

Nel 1573 la mia famiglia ricevette un nuovo feudo e ne divenni il daimy?, perché mio padre era ormai troppo vecchio. Due anni dopo presi Giusta, una cristiana, in moglie ed ebbi tre figli (due morti ancora bambini) e una figlia. Una famiglia è una buona ragione per vivere in pace. Ma in quei tempi non era facile stare fuori dalle guerre.

Nel 1578 un daimy? nostro vicino si era ribellato al nostro shogun e si era accampato davanti al nostro castello, prendendo in ostaggio mia sorella e mio figlio e minacciando i cristiani. Feci allora un gesto impensabile per uno del mio rango: rinunciai ai miei diritti feudali e mi presentai disarmato nel campo del nostro nemico invitandolo a trovare un’intesa di pace invece di far scorrere inutilmente del sangue e gettare nel lutto e nello sconforto molte famiglie. Presentandomi disarmato all’avversario, rinunciai a ciò che ero e alle mie capacità guerriere, affidandomi completamente a Dio.

In questo modo mettevi in gioco la tua reputazione di samurai e il tuo onore.

È vero, ma cominciavo a dare testimonianza del Vangelo fra la mia gente, lasciando intravedere come fosse possibile vivere fino in fondo il messaggio di amore e di pace che Cristo era venuto a portare nel mondo e che dopo più di millecinquecento anni era finalmente approdato anche nella mia terra.

La questione fu risolta senza spargimento di sangue e il mio shogun mi riconfermò la sua fiducia e il feudo, permettendomi così di continuare a sostenere la nostra comunità cristiana.

Per questo cominciasti anche a impegnarti perché la fede cristiana attecchisse nel tuo paese in forma stabile.

Avevo la piena fiducia del mio shogun di cui ero diventato uno dei generali più importanti. Feci costruire una chiesa nella stessa città imperiale di Kyoto e un seminario ad Azuchi, sul lago Biwa, per la formazione di missionari e catechisti giapponesi. La maggioranza dei seminaristi provenivano dalle famiglie del mio feudo. Tra loro mi piace ricordare Paolo Miki e i suoi compagni che in seguito subirono il martirio nel 1597 (canonizzati poi nel 1862).

La tipica cerimonia giapponese del tè dove si rafforzano le relazioni fra i partecipanti e si approfondiscono i legami di amicizia fu da te utilizzata per fare evangelizzazione.

Per noi bere il tè non è un atto superficiale. È una cerimonia che con il suo rituale ha un fascino intrinseco che aiuta ad approfondire i legami di amicizia e di fraternità. Sulla dimensione orizzontale delle relazioni fra esseri umani, io inserii la dimensione verticale che aiutava a elevarsi a Dio e a vivere in amicizia e comunione in Lui.

Si può dire che l’attività che svolgesti come catechista e missionario fra la tua gente fu molto positiva per la fede cattolica in Giappone?

Grazie agli sforzi che mettemmo in atto in quegli anni, furono battezzate alcune migliaia di persone. La mia posizione di favore con lo shogun, continuata anche nel primo periodo di Toyotomi Hideyoshi, andato al potere nel 1583, aumentava la mia influenza tra i nobili, diversi dei quali accettarono di diventare cristiani. Ma Toyotomi, divenuto sempre più potente fino a riuscire a unificare tutto il Giappone sotto la sua autorità, cominciò a temere i cristiani e nel 1587 emise un editto che ne proibiva la religione nel paese e conteneva l’ordine di espulsione dei missionari stranieri e l’esilio per i catechisti nativi.

È vero che ti fu richiesto di abbandonare la fede cattolica?

Sì certo, ma contrariamente a quanto fecero altri nobili, preferii rinunciare al mio feudo e subire l’esilio piuttosto che abiurare. Dopo un periodo difficile di mendicità, trovai rifugio con la mia famiglia presso un amico nell’isola di Shodoshima. Toyotomi venne a saperlo e mi fece incarcerare. Furono tempi duri, ma nel 1592 volle riconciliarsi con me in una cerimonia pubblica. Non mi fu restituito il mio feudo, ma ero libero di muovermi e ne approfittai per continuare a sostenere le comunità cristiane sparse in varie parti del Giappone.

I governanti del Giappone vedendo la nuova fede conquistare sempre nuovi fedeli diventarono più ostili verso i cristiani e inasprirono la persecuzione.

Nel 1597 ci fu una nuova recrudescenza della persecuzione. A Nagasaki furono martirizzati in 26. Morto improvvisamente Toyotomi, il successore fu peggio di lui. La persecuzione verso i cristiani fu capillare e intensa. Si voleva sradicare quello che loro chiamavano «la mala pianta» o «la religione perversa». Imprigionare, condannare a morte o esiliare i cristiani era diventato un dovere patrio per chi era al potere in Giappone in quel tempo.


Il 14 febbraio del 1614, Justus Takayama e i suoi famigliari furono catturati e trasferiti a Nagasaki in attesa di essere giustiziati insieme ai missionari che erano stati radunati là. Dopo mesi di carcere, l’8 novembre 1614, Justus e 300 dei suoi compagni furono condannati all’esilio e caricati su una giunca diretta a Manila, nelle Filippine. L’espulsione e la lenta navigazione sulla nave carica all’inverosimile fecero ulteriormente progredire Justus nella fede. Proprio per tutte le sofferenze e le difficoltà patite, l’ultimo anno della sua vita fu decisivo per trasformarlo in un «vero martire», come lo venerano i cristiani giapponesi. Durante il periodo in carcere egli aveva nutrito la speranza di condividere la sorte dei martiri di Nagasaki. Era certo che sarebbe stato ucciso e aveva aspettato la fine con grande serenità. La navigazione verso le Filippine e l’esilio a Manila furono il tempo in cui Dio gli fece capire la differenza tra il desiderio attivo del martirio e l’essere esposto passivamente a condizioni che solo lentamente conducono alla morte. Justus comprese che Dio gli chiedeva l’offerta della vita, nella forma del «martirio prolungato» dell’esilio. Pur accolto con tutti gli onori dagli Spagnoli, sfinito dalla prigionia e dalla lunga navigazione morì a Manila il 3 febbraio 1615, quaranta giorni dopo il suo arrivo nelle Filippine.

La Chiesa lo ha elevato alla gloria degli altari riconoscendolo Beato e Martire il 7 febbraio 2017. Ho avuto la gioia di essere presente a quell’avvenimento di grazia con una piccola delegazione della chiesa di Novara.

Don Mario Bandera

La Chiesa in Giappone fa risplendere la luce della fede

La storia della Chiesa in Giappone inizia il 15 agosto 1551 quando san Francesco Saverio insieme ad altri due gesuiti mise piede nel paese. Immediatamente ne diede notizia a sant’Ignazio di Loiola con numerose lettere che iniziarono a far conoscere al continente europeo la complessa realtà del grande paese del Sol Levante. Per alcuni anni i missionari cattolici non furono più di quattro o cinque, il loro campo di apostolato abbastanza limitato, per cui i risultati furono piuttosto scarsi. Nel 1563 si ebbe un primo risultato importante della loro azione missionaria quando a Kyoto alcuni personaggi influenti della società giapponese di quel tempo (tra i quali il padre del samurai Giusto Takayama) si fecero battezzare diventando così il primo nucleo della nascente comunità cattolica del Giappone. Nello stesso anno si ebbe la conversione al cristianesimo di Omura Sumitada, signore del territorio di Kyushu, che portò al battesimo di gran parte dei suoi sudditi. Da quel momento iniziò un periodo intenso di conversioni in cui molti giapponesi chiedevano il battesimo e di entrare a far parte della Chiesa Cattolica.
In quegli anni il generale Hideyoshi portò a compimento l’unificazione del grande arcipelago giapponese composto da più di trecento isole, in un primo momento si mostrò ben disposto verso i missionari (che nel frattempo erano diventati una trentina tra gesuiti e francescani) ma cambiò idea subito dopo, quando una nave spagnola fece naufragio sulle coste del Giappone e il comandante del galeone alle autorità nipponiche intervenute al salvataggio, disse che il Re di Spagna quando voleva annettersi un territorio mandava avanti i missionari a preparare il terreno. Questa frase vera o falsa che fosse, mandò su tutte le furie Hideyoshi che diede ordine di distruggere le chiese, espellere i missionari stranieri e catturare e mettere a morte tutti i cristiani giapponesi ovunque essi fossero. Col passare degli anni le cose migliorarono, basti pensare che nel 1601 la città di Nagasaki contava circa quarantamila abitanti quasi tutti cattolici, ed era divenuta sede episcopale con il gesuita Luigi Cerqueira nominato primo vescovo residenziale del Giappone. Nel frattempo i cristiani avevano raggiunto il bel traguardo di trecentomila battezzati, si erano costruiti diversi collegi e due seminari che dopo pochi anni “sfornarono” i primi sette sacerdoti autoctoni. Ma su questa stupefacente primavera missionaria, si abbatté subito dopo una violenta persecuzione che segnò in modo indelebile la nascente comunità cristiana, venne infatti emesso un editto che proscriveva la religione cristiana da tutto il territorio nipponico; si misero in atto forme violenti e spettacolari di condanne a morte come le crocifissioni lungo le strade di maggior comunicazione. Di fronte a questa inaudita violenza tutti rimanevano meravigliata dalla forza d’animo e dal coraggio con cui i cristiani andavano incontro alla morte. Nel 1623 il Giappone si chiuse completamente al commercio estero isolandosi dal mondo, nessun straniero poteva vivere sul suolo giapponese e tutti i tentativi diplomatici che le potenze europee misero in atto per superare questa situazione andarono a vuoto. Questa situazione durò alcuni secoli fino al 1854 quando l’ammiraglio statunitense Perry, latore di una lettera del presidente degli Stati Uniti per le autorità giapponesi in cui si chiedeva di ampliare i commerci fra i due paesi, forzò il blocco ed approdò sul suolo giapponese. L’iniziativa ebbe successo e si stabilì che nel porto di Nagasaki potessero attraccare navi provenienti da ogni parte del mondo, riservando anche uno spazio per una “cittadella” aperta ai marinai delle diverse nazionalità. Su questo terreno venne edificata una piccola chiesa per il servizio spirituale ai marittimi cristiani, per questa incombenza pastorale venne incaricato il sacerdote francese Jean de la Petit, il quale fu protagonista e testimone di un avvenimento che ha del miracoloso. Infatti, un pomeriggio mentre era in chiesa a pregare venne raggiunto da un gruppo di giapponesi che gli posero tre domande: “Sei sposato? Il tuo capo è a Roma? La Mamma dov’è?”. Al che padre Jean, rispose: sono un prete cattolico per cui devo obbedienza ai miei superiori, primo fra tutti al Papa di Roma, non sono sposato e additando la statua della Madonna che gli era arrivata dalla Francia poche settimane prima disse loro: “ecco Maria, la mamma di Gesù”. In quel momento accadde qualcosa di inaspettato, i visitatori si inginocchiarono e dissero: “il nostro cuore batte come il tuo!”. Padre Jean li abbracciò ad uno ad uno, rendendosi conto che aveva di fronte il resto del piccolo gregge che aveva tramandato la fede cattolica di generazione in generazione, vivendo nelle catacombe per quasi duecentocinquant’anni senza l’assistenza di nessun sacerdote, sostenuti con la Grazia di un unico sacramento, il battesimo!
Oggi il Giappone che conta circa 125 milioni di abitanti, quasi tutti Shintornisti, va fiero della storia della sua Chiesa, costellata di tanti martiri e che pur nell’esiguità del numero attuale: i cristiani sono circa l’uno per cento della popolazione, ovvero un milione e duecentomila e di questi quanti si dichiarano cattolici sono circa ottocentomila persone. L’immagine evangelica del lievito nella pasta non può essere più calzante, l’essere in comunione con questa chiesa che ha tanto sofferto, dovrebbe rendere la nostra chiesa orgogliosa di questa cooperazione. (m.b.)




Si chiamava Ilaria Alpi


Dal 20 marzo 1994 si cerca (inutilmente) di capire chi l’abbia uccisa. Lei era una giovane giornalista della Rai che indagava sui traffici di rifiuti tossici e armi tra la Somalia e l’Italia. Il 19 ottobre 2016 l’unico imputato per quell’omicidio è stato assolto, dopo aver trascorso in carcere 16 anni. Questa bruttissima storia di depistaggi e bugie di Stato non riesce a trovare la parola fine.

Domenica 20 marzo 1994. La notizia dell’eccidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin mi arrivò dietro le quinte del «concertone», l’evento organizzato davanti la Basilica di San Giovanni in Laterano dalle forze progressiste che si preparavano alla consultazione elettorale della settimana seguente.

Quella notizia – un assassinio apparentemente senza senso, ma legato alla piaga della mala cooperazione italiana con il continente africano – sembrò un segnale sinistro per il nostro paese.

Non conoscevo personalmente Ilaria e l’operatore Hrovatin. Avevo già apprezzato, però, il lavoro della Alpi che con molta sensibilità raccontava il mondo islamico. Come fanno i giornalisti di razza, aveva impiegato il suo tempo per laurearsi in lingua araba all’Università del Cairo invece di fare subito la cronista embedded su un tank o su un camion di uno dei tanti eserciti di occupazione dell’epoca.

La comunicazione, però, è un magistero complicato. Non ero sicuro che una piazza traboccante di mezzo milione di ragazzi avrebbe saputo adeguare i propri umori alla tristezza improvvisa che l’assassinio di due connazionali impegnati nella ricerca della verità sui traffici di rifiuti tossici e di armi nell’ambito della nostra malefica «cooperazione» con la Somalia, avrebbe imposto. Così presi per mano Piero Pelù, il leader dei Litfiba, e gli chiesi di uscire con me sul palco, non per cantare, ma per commemorare il coraggio di Ilaria e Miran. Pelù capì il momento.

Uscimmo e io detti la notizia tutta d’un fiato. Sulla piazza calò un silenzio assordante. Allora chiesi di ricordare con un gesto qualunque il sacrificio di due giornalisti che non subivano l’informazione acriticamente, ma andavano a cercare la verità anche quando era scabrosa, nei posti dove si poteva trovare e documentare. Per quei due colleghi che non avevano tradito il loro mestiere, come è sempre più di moda in un universo informativo in cui l’apparenza, l’interesse del più forte, è ormai più importante della realtà, piazza San Giovanni rispose all’invito con un applauso lunghissimo e commovente.

Dopo pochi giorni le salme di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin tornarono in Italia, accompagnati subito dalle bugie di Stato, che Luciana e Giorgio, gli intrepidi genitori di Ilaria, dovettero immediatamente imparare a decifrare per dar corpo a quello che sarebbe diventato il loro unico obiettivo nella vita: la verità sulla morte della figlia.

In questi anni, le istituzioni non li hanno molto aiutati. Per chiarire questo vero e proprio scandalo politico hanno lavorato di più alcuni colleghi, come Maurizio Torrealta, e tre giornalisti di Famiglia Cristiana come Barbara Carazzolo, Alberto Chiara, Luciano Scalettari, un’indomabile parlamentare di quello che allora era il Pds, Mariangela Gritta Grainer, e un avvocato di incrollabile etica, Domenico D’Amati, capace di costringere il mondo politico a istruire una Commissione parlamentare sul caso Alpi (anche se ben presto fallita soprattutto a causa del suo presidente, l’avvocato Carlo Taormina) e di svegliare, più volte, dal suo torpore la Procura di Roma, non a caso soprannominata il «Porto delle nebbie».

In verità un magistrato, Giuseppe Pititto, era inizialmente arrivato vicino a una ricostruzione credibile dei fatti e di alcune responsabilità.

Dal ruolo ambiguo svolto dal faccendiere italiano Giancarlo Marocchino, all’inefficacia degli agenti dei servizi segreti italiani, una dozzina, che lavoravano all’epoca in Somalia e che avevano segnalato al loro capo, il colonnello Luca Raiola Pescarini, il pericolo che correvano i due giornalisti del Tg3 in cerca di prove sui traffici illegali di rifiuti tossici e armi tra la Toscana e la Somalia. Il Pm Pititto fu però subito esautorato dall’indagine con la scusa «di aver creato un clima di mancanza di lealtà e spirito di collaborazione nei rapporti con il procuratore di Roma».

Anni dopo, nel processo svoltosi a Roma contro Omar Hashi Hassan – uno dei presunti componenti del commando da cui sarebbe uscito quel giorno a Mogadiscio il killer che freddò, con un colpo alla nuca, Ilaria e Miran – proprio il colonnello Luca Raiola Pescarini avrebbe rischiato l’incriminazione per falsa testimonianza. Questo per ricordare quale è stato il clima che, fin dall’inizio, ha accompagnato il tentativo di far luce su questa scabrosa vicenda.

Una storiaccia. Perché l’esecuzione di Ilaria e Miran fu richiesta, ormai è più che mai palese, proprio dall’Italia, dove c’era una società che amministrava, come qualcosa di personale, il traffico di cinque navi per la pesca, donate dal governo italiano al tempo di Craxi al dittatore somalo Siad Barre. Questa piccola flotta, invece di frequentare i porti del commercio ittico, toccava sistematicamente quelli in cui veniva praticato, più o meno palesemente, il traffico d’armi. Forse con la copertura dei nostri servizi di intelligence.

Mi resi conto di questo stato delle cose quando, quattro anni dopo, nell’estate del 1998, decisi di imbastire una delle puntate del programma «Storie» della Rai con i genitori di Ilaria, instancabili nella loro richiesta di giustizia.

Un filmato, che mi aveva passato la Tv svizzera e che era stato girato pochi secondi dopo l’eccidio, aveva una volta di più smentito la versione dei fatti sostenuta in una lettera alla famiglia, inviata all’epoca (e senza che fosse stata richiesta) dal comandante del Corpo di spedizione italiano in Somalia Carmine Fiore.

Al contrario di quello che scriveva l’alto ufficiale, le immagini confermavano che: il primo ad arrivare sul luogo dell’eccidio era stato Giancarlo Marocchino, collaboratore dei nostri servizi segreti in quella Somalia disperata e senza legge, e non qualcuno dei militari acquartierati sul cacciatorpediniere Garibaldi. Era stato lo stesso Marocchino a trasferire i corpi di Ilaria e Miran dal van in cui erano stati colpiti a una jeep di sua proprietà, dopo un tesissimo scambio di battute a un radiotelefono con qualcuno che si rifiutava di intervenire e che, alla fine del colloquio – carpito dal microfono della cinepresa dell’operatore svizzero – lo spingeva a commentare: «Quei bastardi non vengono, hanno paura». I bastardi erano evidentemente i militari del corpo di spedizione italiana, a cui lo stesso Marocchino, subito dopo, sarebbe andato a consegnare il suo tragico carico al Porto Vecchio, dove finalmente era in arrivo un elicottero delle nostre forze armate.

Ad Ilaria Alpi, nel momento dell’intervento di Marocchino, come confermano le immagini, colava sangue dal naso. Un dettaglio che segnala come il suo cuore pompasse ancora sangue e quindi, pur con sicuri danni cerebrali, che la giornalista fosse ancora viva.

Sulla Garibaldi sarebbe stato fatto un esame dei corpi, sicuramente fondamentale per stabilire i particolari della morte, ma del quale il generale Fiore non avrebbe fatto nessun cenno nella sua lettera. Di quell’esame i genitori di Ilaria sarebbero venuti a conoscenza solo parecchi anni dopo.

Le scarne notizie della lettera del generale Fiore erano comunque quasi tutte inesatte, tanto che Luciana e Giorgio Alpi non avrebbero partecipato al riconoscimento della salma al suo arrivo in Italia, perché era stato loro preannunciato che la figlia era sfigurata dalle pallottole, mentre invece il colpo mortale era stato uno solo e alla nuca.

L’enormità e la crudeltà di queste bugie sollecita, ancora adesso, una domanda fondamentale: che interesse potevano avere certe istituzioni dello Stato italiano a coprire simili efferatezze? In nome di cosa l’hanno fatto? Quali realtà il cittadino della Repubblica italiana non deve sapere? Nello studio della Rai Luciana e Giorgio Alpi (nella foto in alto) ripercorsero, in quel torrido luglio del ’98, le tappe della loro infinita amarezza finché, alla fine di un filmato sul ritorno a casa delle salme, Luciana si accorse che i bagagli di Ilaria e Miran, nello scalo di Luxor, in Egitto, dove l’aereo di linea era stato sostituito da un velivolo della nostra aeronautica militare, erano legati e saldati con la cera lacca, mentre all’arrivo a Ciampino la corda che li imbrigliava era sparita.

Per caso due operatori diversi avevano diretto i loro obiettivi sul nastro di discesa delle valigie. Solo l’angoscia di una madre poteva cogliere quel dettaglio così importante e inquietante.

Sull’aereo, infatti, oltre ai militari dell’aeronautica c’erano: ufficiali del Corpo di spedizione in Somalia, agenti dei servizi segreti, funzionari del nostro ministero degli Esteri e dirigenti della Rai. Chi aveva avuto l’ardire, durante il volo, di aprire quelle borse, quei pacchi, e perché? Forse per far sparire i taccuini di Ilaria o alcune cassette di Miran? Quale era il segreto di Stato che dovevano coprire?

«Dove sono finiti i 1.400 miliardi della cooperazione italiana con l’Africa?». Aveva scritto Ilaria prima di partire per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio.

Sono passati 23 anni aspettando la verità. Lo scorso 19 ottobre la Corte d’appello di Perugia ha riconosciuto che per 16 anni c’è stato un innocente in carcere, il somalo Hassan Omar Hashi (nella foto a sinistra), condannato per un doppio omicidio che non aveva commesso, e chiaramente usato come capro espiatorio per una testimonianza organizzata anche dall’apparato dei servizi segreti italiani. Un errore giudiziario dovuto all’esigenza politica di trovare a qualunque costo un colpevole di questo crimine che nascondeva gli oscuri traffici tra l’Italia e la Somalia dell’epoca. «Dopo 23 anni di depistaggi e bugie – ha commentato la mamma di Ilaria Alpi – che la Procura di Roma ha elargito alla mia famiglia, mi auguro che alla luce di questa sentenza, i magistrati romani ci diano verità e giustizia. Inoltre, sarei felice se il presidente della Repubblica leggesse le motivazioni della Corte di Perugia».

Anche il «Premio Ilaria Alpi», istituito nel 1995 per ricordare la giornalista, è stato chiuso nel 2014 su sollecitazione di Luciana Alpi, tradita dalle istituzioni italiane che, in 23 lunghissimi anni, non hanno voluto o saputo fare giustizia per la morte della figlia Ilaria.

Gianni Minà

 




Allamano: Con fervore pasquale


Colpiscono sicuramente la nostra immaginazione quelle porte sbarrate del Cenacolo e anche la paura che attanaglia il piccolo gruppo dei discepoli di Gesù, morto e sepolto da quasi tre giorni. Eppure, in questa comunità ferita e fragile, il Risorto non teme di entrare, di portare una parola di pace, alitando il suo Spirito di perdono e di vita nuova, senza dimenticarsi di mostrare le sue mani piagate e gloriose, segno inconfondibile di morte e risurrezione. Esplode, allora, in noi la gioia della Pasqua, che arriva dopo gli austeri quaranta giorni quaresimali, trasfigurandoli e rendendo la fatica del vivere “più fervorosa”, come ricordava il beato Allamano: «La Pasqua è una festa che va al cuore. Noi dobbiamo risorgere al fervore. Tutti dicano a se stessi: “Siamo risorti, non vogliamo più morire, vogliamo essere veri missionari”. E non abbiate paura di diventare troppo fervorosi!». E come ci dice Papa Francesco che sembra riecheggiare il nostro Fondatore: «La vita cresce e matura nella misura in cui la doniamo per la vita degli altri. La missione, alla fin fine, è questo. Di conseguenza, un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e accresciamo il fervore, “la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime…“. Possa il mondo del nostro tempo ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo… Non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione!». La sera oscura lascia il posto a una visita, quella di Gesù. Lui è con noi e ci apre la strada a una gioia che non può essere ingabbiata o trattenuta dalle mura di un tempio chiuso, che non sa più di casa, che non è più luogo di incontro. Il dono del Risorto, che sconfigge «la psicologia della tomba», fa spalancare le porte del nostro cuore un po’ codardo, caso mai fossimo tentati di sprangarle di nuovo, o di costruire altri muri o, peggio ancora, di selezionare chi merita e chi no il nostro aiuto. «Come fa piacere quando uno tira diritto, va avanti, sempre avanti! Vi voglio allegri. Desidero che si conservi e si accresca sempre più lo spirito di tranquillità, di scioltezza, di serenità. Questo è lo spirito che io voglio: sempre gioia, sempre facce allegre». Parole del beato Allamano per noi tutti, in questo tempo pasquale. Fortunati di avere incontrato Gesù, risorti con lui, per poi uscire e andare incontro agli altri, per annunciarlo e testimoniarlo vivente: fervore di Pasqua, gioia missionaria.

  1. Giacomo Mazzotti



Sommario Marzo 2017


In questo numero si spazia dalla Liberia al Giappone, dal Guatemala all’Albania. Sei accompagnato sulle strade della Costa D’Avorio e scopri il «Blocco Mattone». Il dossier sugli Yazidi dà un colpo all’indifferenza per la sorte di questo popolo perseguitato. E molto di più…

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???  03  ???   Editoriale

Dossier

???  35 ???    Popolazioni perseguitate: Yazidi di Simone Zoppelaro e Paolo Moiola

Articoli

???  10  ???   Liberia: Angeli contro il Virus di Valentina Giulia Milani
???  14  ???   Solidarietà: I Muri che uniscono di Marco Bello
???  19  ???   Religioni: Buddhismo tra Oriente e Occidente di Silvia C. Turrin
???  24  ???  Albania: Il Call Center dell’Europa di Nicola Pedrazzi
???  51  ???   Guatemala: La Pace è una Chimera di Paolo Moiola
???  56  ???  Giappone: Karoshi: il prezzo del Mercato di Cristian Martini Grimaldi

Rubriche

???  05  ???   Cari Missionari
???  08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
???  32  ???   Insegnaci a pregare 2. Non sappiamo pregare di Paolo Farinella
???  61  ???   Madre terra: Convivere con l’Autismo di Rosanna Novara Topino
???  65  ???  Cooperando: Costa D’Avorio in ostaggio /1 di Chiara Giovetti
???  69  ???   Amico a cura di Luca Lorusso
???  79  ???   I Perdenti /22 Madeleine Debrêl di Mario Bandera
???  82  ???   MC Iinforma: Volti della nostra storia




Cari Missionari


Uccelli paradiso

Riguardo al problema della deforestazione a Papua Nuova Guinea (M.C. n.10/2016) credo sia giusto rimarcare che gli habitat in questione sono la dimora delle paradisee, o uccelli del paradiso, così chiamati per la loro straordinaria bellezza e non solo… Oltre che un simbolo del mondo naturale queste creature sono parte integrante della cultura e dell’identità nazionale (bandiere, divise militari, compagnia aerea locale). Senza gli uccelli del paradiso, Papua non sarà più la stessa: pensare che si estingueranno solo perché delle società straniere devono aumentare i loro già scandalosamente alti profitti sul legno pregiato, sui fazzoletti da naso, sui tovagliolini, sulle tovagliette e sulla carta igienica, fa venire il voltastomaco.

Mario Pace
18/11/2016

Il giubileo è terminato, la misericordia continua

Comunicato stampa

Presentata alla Cei una nuova iniziativa che in tutta Italia risponderà all’appello del Papa per mantenere vivo lo spirito di Misericordia. L’Anno Santo si è appena concluso ma riecheggiano i continui appelli di Papa Francesco a perseverare nella Misericordia, in particolare verso i più bisognosi.

Per dare una concreta risposta, Mons. Mario Lusek, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la Pastorale del tempo libero, turismo e sport, ha espresso il suo pieno appoggio alla nuova iniziativa del portale www.ospitalitareligiosa.it denominata «Settimane della Misericordia», che porterà le strutture ricettive religiose e laiche di tutta Italia ad ospitare gratuitamente per una settimana persone e famiglie in particolare stato di necessità, così da consentire loro un periodo di serenità, lontane dai problemi di tutti i giorni.

Un’iniziativa parallela era già stata attivata in occasione del Giubileo; in questa occasione il periodo interessato sarà da maggio a ottobre 2017, in modo che le ospitalità corrispondano ai periodi in cui abitualmente famiglie e bambini organizzano le proprie vacanze.

Ma quali saranno i destinatari di queste concrete opere di Misericordia? Famiglie numerose mono o senza reddito, genitori singoli con figli a carico, pensionati con un reddito insufficiente, adulti rimasti senza lavoro; persone che in ogni caso non potrebbero permettersi un breve soggiorno a pagamento.

Sul meccanismo di accesso vigilerà l’Associazione no-profit Ospitalità Religiosa Italiana, ma saranno diocesi e parrocchie a farsi garanti nell’identificare quelle particolari situazioni di bisogno per le quali la settimana di vacanza potrà risultare utile per ritrovare una serenità che stenta ad emergere.

L’iniziativa risponde quindi alla necessaria concretezza che Papa Francesco richiama continuamente nelle opere di misericordia. Ora sta ai gestori delle strutture di ospitalità, sia religiose che laiche, rispondere alle attese del pontefice e alla speranza di chi, nel bisogno, vive una realtà che solo la disponibilità del prossimo può in qualche modo cambiare.

Fabio Rocchi
presidente Ass. Ospitalità Religiosa Italiana
www.ospitalitareligiosa.it
20/11/2016

Risurrezione dei morti

Al funerale di un amico ho sentito una notevole predica di un parroco particolarmente dotto, forse consapevole di rivolgersi a un pubblico composto prevalentemente da docenti universitari, come il defunto. E la predica mi ha aperto un mare di dubbi sul finale del Credo, la resurrezione dei morti. Cosa significa? che risorgeremo alla fine del mondo? e la nostra anima immortale nel frattempo cosa fa? e perché dobbiamo risorgere col nostro corpo? quale? quello al momento della morte? grazie, preferisco di no…

Islam. Avete già pubblicato una esauriente rassegna delle diverse versioni dell’Islam, ma forse sarebbe opportuno anche un ripasso di tipo storico. Nel senso che dopo le tensioni iniziali, non ci sono state per secoli tra le diverse letture dell’Islam tensioni analoghe a quelle tra cattolici e protestanti. Il sunnita Saladino fu nominato visir dall’iman sciita dell’Egitto, e poi ne divenne sultano, senza tensioni: come se un papa del ‘600 avesse messo il regno di Napoli nelle mani di una dinastia protestante…

Aleppo, insieme a Gerico la più antica città del mondo ancora esistente, viene distrutta anche per un contrasto tra sciiti e sunniti di diverse osservanze.

Claudio Bellavita
12/12/2016

Comincio rispondendo alla seconda parte del suo scritto. Abbiamo appena iniziato una serie di articoli per approfondire la conoscenza dell’Islam, rendendoci perfettamente conto della sfida di presentare una realtà complessa, non omogenea e con una storia più che millenaria. Cercheremo di tener conto dei suoi suggerimenti.

Andando invece alla questione che lei solleva circa il Credo e la resurrezione dei morti, non ho qui la pretesa di rispondere alle sue domande. Evidenzio solo alcuni dati biblici.

Il primo: nella Bibbia la persona umana non è composta da due elementi separabili (anima e corpo) come invece siamo abituati noi a considerarla in base alle nostre convinzioni ereditate dalla filosofia greca. La persona umana  è tale perché è carne (b?s?r), spirito (ruakh), anima (nephesh) e cuore (l?b). Queste non sono parti (separabili) dell’uomo, ma solo aspetti diversi del suo unico modo di essere/esistere. La persona è tale perché è unità di tutti questi aspetti.

La morte non è la separazione dell’anima dal corpo, ma la nascita di tutta la persona in un modo del tutto nuovo, al di fuori della nostra esperienza spazio-temporale (kronos) ma nella dimensione del tempo di Dio (kairos).

Prendiamo l’esempio di Gesù risorto. Dalla descrizione che ne abbiamo nei Vangeli sappiamo che Gesù si può toccare, porta i segni della passione, parla e ascolta, cammina e mangia. Eppure Gesù entra in una stanza chiusa senza passare dalla porta, si presenta in luoghi diversi e scompare come è apparso, e via dicendo… tutti indizi che ci fanno capire come sia la persona vera e concreta di Gesù, quella che i discepoli hanno incontrato, ma anche come lui sia «altro», il Risorto.

Concludo citando il «Catechismo della Chiesa Cattolica» che citando san Paolo usa l’immagine bellissima del seme e del fiore/pianta per spiegare l’unità e la diversità tra la nostra vita presente e la vita da risorti.

«N. 999 Come (risuscitano i morti)? Cristo è risorto con il suo proprio corpo: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!” (Lc 24, 39); ma egli non è ritornato ad una vita terrena. Allo stesso modo, in lui, “tutti risorgeranno coi corpi di cui ora sono rivestiti”, ma questo corpo sarà trasfigurato, in “corpo spirituale” (1 Cor 15, 44).

«“Ma qualcuno dirà: ‘Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?’. Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore, e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco… Si semina corruttibile e risorge incorruttibile… È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità” (1Cor 15,33-37.42.53).

«N.1000 Il “come” supera le possibilità della nostra immaginazione e del nostro intelletto; è accessibile solo nella fede. […]».

Credo proprio che l’immagine del seme e dell’albero, o, se vogliamo usarne un’altra simile, quella dell’uovo e dell’uccello, sia quella che meglio può aiutarci a capire il mistero dell’unità/unicità nella diversità che c’è tra il nostro esistere nel tempo/kronos e nell’eternità.

Obrigada

Carissimi fratelli,
vi scrivo dalla parrocchia di Massinga, diocesi di Inhambane, Mozambico. Leggo sempre la rivista appena arriva nella nostra missione. Oggi desidero proprio farvi i complienti per la qualità del vostro servizio giornalistico che presenta non solo «le nostre missioni» ma il panorama del mondo attuale. Mi riferisco in particolare ai vostri dossier che ci aiutano a vedere le tragedie, i conflitti, le miserie e anche i progressi dell’umanità con lo stesso sguardo di Cristo, uno sguardo che suscita sentimenti di misericordia, compartecipazione e ci fa chiedere «qual è la mia parte in tutto questo?». Così possiamo riscoprire le vere radici dell’umanesimo cristiano in noi stessi e nella nostra società.

Un’altra rubrica della rivista che è fantastica è «4 chiacchiere con i Perdenti» di un valore letterario e storico da meritarsi un premio. Mi piace anche «Persone che conosco». Infine, dall’inizio alla fine, la rivista non ha niente che non valga la spesa leggere. Obrigada (grazie)! Mi sento orgogliosa di voi.

Sr. Bénides Clara Capellotto, missionaria della Consolata, Inhambane, Mozambico, 08/12/2016

Grazie di cuore. Garantito che non l’abbiamo pagata per tutti questi elogi!


Il Nastro d’argento a Gianni Minà

Dopo il Berlinale Kamera al festival di Berlino del 2007, Gianni Minà, che da ottobre 2015 firma su MC la rubrica «Persone che conosco», è stato insignito del Nastro d’argento alla carriera per il suo lungo viaggio nella realizzazione di documentari, special e racconti storici tramite immagini, iniziato oltre mezzo secolo fa. Così ha deciso l’Sngci (Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani) per premiare anche il più recente scornop giornalistico realizzato da Minà: «L’ultima intervista di Fidel», una testimonianza concessagli dal leader cubano nel settembre del 2015 che ora rappresenta un documento di grande importanza storica. In questa stagione, che lo ha visto premiato al Festival di Toronto lo scorso settembre, Minà ha raccolto consensi anche con il lungometraggio «Papa Francesco, Cuba e Fidel» (presentato, in anteprima nazionale, a Torino nell’aula magna di MC lo scorso 22 novembre) nel quale trovano spazio tutti i protagonisti della controversa storia di Cuba e dell’embargo Usa: dagli ex presidenti Barack Obama e Jimmy Carter a Raul Castro, dal sostituto Segretario di stato Vaticano mons. Becciu all’ex arcivescovo dell’Avana Jaime Ortega, al teologo della liberazione Frei Betto, fino allo stesso papa Francesco. La cerimonia di consegna del premio, alla Casa del Cinema di Roma, è prevista per il 3 marzo 2017. (MC)

Facevano 200 (+2) anni in due

Lo scorso 28 settembre padre Giovanni Battista Demichelis (quello con il cappello in testa nella foto) è «nato al cielo». Nativo di Sampeyre (Cn) aveva vissuto tra noi 100 anni e 26 giorni, celebrando 75 anni di sacerdozio di cui ben 44 in Colombia dove è rimasto dal 1948 al 1992, prestando il suo servizio a Guataquí, San Vicente del Caguan, Doncello, Rionegro, Modelia, Tocaima, Calí, Bogotá, Puerto Rico e Paujil. Tornato in Italia è stato rettore della chiesa del Beato Allamano per alcuni anni e poi confessore nella stessa, servizio che ha smesso solo quando ormai ultra novantenne si è ritirato ad Alpignano.

Nella foto, scattata ad Alpignano il 23 giugno 2016, sta spingendo la carrozzella su cui è seduto padre Bartolomeo Malaspina. A quel tempo i due, insieme, facevano 200 anni e aspettavano il 23 gennaio 2017 per celebrare i 202. Ma il 7 gennaio 2017 anche padre Bartolomeo ha ricevuto un’offerta che non ha potuto rifiutare e i due sono ora insieme nel giardino di Dio, dove godono della compagnia di Colui che è stato la ragione della loro vita e degli altri 801 missionari e 940 missionarie della Consolata che li hanno preceduti lassù. Padre Bartolomeo Malaspina era nato a Sezzadio (Al) nel 1915, sacerdote nel 1939, nel 1941 era stato arruolato come cappellano militare e mandato in Tunisia. Fatto prigioniero dagli inglesi nel 1943, aveva fatto con i soldati sopravvissuti tre durissimi anni di prigionia, durante i quali era stato dato per morto dai superiori perché impossibilitato a comunicare con Torino. Rientrato in Italia ha insegnato scienze naturali a generazioni di missionari e dal 1978 ha curato la conservazione e l’allestimento del «Museo etnologico e di scienze naturali» nella Casa Madre di Torino, servizio svolto fino al 2008. Rimasto ancora arzillo e servizievole in Casa Madre, solo nel maggio 2016, ormai centenario, si è ritirato ad Alpignano per farsi trovare pronto all’ultimo appello. (MC)


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