Allamano: L’impronta di Maria


Scriveva uno dei biografi dell’Allamano, nostro Fondatore: «Se alla morte si fosse aperto il suo cuore, vi si sarebbero trovate incise due parole, Consolata e Missioni», i suoi grandi amori, come i due polmoni che diedero il respiro all’intera sua esistenza. Dando inizio a due famiglie missionarie, il Fondatore volle che fossero plasmate dall’impronta di Colei che lui chiamava, con affetto filiale, la «cara» Consolata e di cui si definiva il segretario, «il tesoriere». Non è possibile, allora, parlare dell’Allamano, capirne la spiritualità, stupirsi della sua intensa attività, senza tenere conto della Madonna che per lui era semplicemente… la Consolata. Parlando un giorno ai suoi missionari, gli scappò di dire: «Che volete… È una devozione che va al cuore. Se dovessi fare la storia delle consolazioni ricevute dalla Madonna in questi quarant’anni che sono al santuario, direi che sono quarant’anni di consolazione».

La Consolata fu dunque per lui una presenza dolce e materna che l’accompagnò in tutti i momenti della sua vita: mentre si preparava a diventare sacerdote e perse la sua amatissima mamma; negli anni in cui fu rettore del più famoso santuario di Torino; ma soprattutto quando, aprendo la sua chiesa locale alla Missione in Africa, diede ai suoi figli e figlie, come obiettivo di vita quello di diffondere «la gloria di Maria alle genti», questa donna eccezionale, diventata per l’occasione anche «fondatrice»: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto questo titolo, la nostra Madre e non siamo noi i suoi figli? Sì, nostra Madre tenerissima, che ci ama come la pupilla dei suoi occhi, che ideò il nostro Istituto, lo sostenne in tutti questi anni… La vera Fondatrice è la Madonna!».

La Consolata, da lui amata, invocata e annunciata, oltre che modello di vita consacrata per la Missione, diventò così Consolatrice, la Madonna missionaria che, con lo slancio dei discepoli missionari, donne e uomini di Vangelo, cammina sui sentieri dei continenti, visita le case dei poveri, entra nel cuore dei popoli come segno di speranza e di consolazione.

E fu con il suo nome sulle labbra e nel cuore che i missionari aprirono nel Kikuyu (Kenya) il primo campo di apostolato dell’Istituto; fu alla Consolata che dedicarono la prima stazione di Tusu a cui si aggiunsero tutte le altre e che il Fondatore volle fossero dedicate alla Madonna.

Con questa «impronta mariana», voluta e vissuta dal loro Fondatore, anche oggi i missionari e le missionarie della Consolata non si stancano di annunciare Gesù, figlio di Maria e vera consolazione del mondo.

Giacomo Mazzotti

Festa del Beato Allamano 2016, novizie MdC da Capri e studenti IMC da Castenuovo attorno alla tomba del beato Giuseppe Allamano.

 




Cento anni di Consolazione


Cento anni fa i primi missionari della Consolata, guidati da padre Gaudenzio Barlassina, arrivarono in Etiopia mimetizzati da commercianti di macchine da cucire. Si realizzò così il sogno del beato Giuseppe Allamano che aveva fondato i suoi missionari proprio per quel paese. Ma, oltre alla vecchia «Singer», nel cuore portavano un bene più prezioso: la consolazione di Maria Consolata (in apertura: onorata da bambini orfani, in una foto d’epoca evidentemente organizzata per ringraziare i benefattori).

La consolazione era vissuta e praticata nella semplicità di vita quotidiana e si traduceva anche nell’attenzione affettuosa ai più piccoli, come mostrano le due foto qui di seguito che parlano da sole.

 

Arrivati in Etiopia, i primi missionari e missionarie della Consolata si adattarono alla vita del posto, diventando presto, suore comprese, esperti cavallerizzi, visto che il cavallo o il mulo era il mezzo più semplice e diffuso per muoversi su un terreno montuoso e privo di strade.

A conclusione della lunga e faticosa giornata, alla luce della lucerna a petrolio, nella quiete della notte restava il tempo per compilare il diario, scrivere alla famiglia, approfondire la lingua locale…

 




Sommario Maggio 2017


Un Istituto missionario che si interroga sul futuro del suo servizio al Vangelo nel mondo di oggi, uno sguardo di speranza sul Sud Sudan, un botanico che diventa missionario, un’intervista a cuore aperto sul cammino di pace della Colombia, un dossier che racconta di «storie di straordinaria integrazione», le «pietre che danno pane» a Kinshasa … e ancora: autismo, il beato Popielusko, Maradona, Tatanzambe, cooperando, preghiera.

Clicca sui  ??? per il pdf sfogliabile
Clicca su ??? per il web classico


???  03  ???   Editoriale: Un tutto nel futuro

Dossier

???  35 ???    Passaggi di Simona Carnino

Articoli

??? 10  ???   Sud Sudan: La Speranza sottile di Marco Bello
??? 16  ???   Filippine: Il botanico divenuto Missionario di Piergiorgio Pescali
??? 21  ???   Colombia: La Pace bussa due volte di Paolo Moiola
??? 28  ???  Italia: Società benefit: una realtà in crescita di Paolo Rossi
??? 51  ???  RD Congo: Le Pietre che danno il Pane di Grevisse Musema
??? 61  ???  Italia: Cantare la bellezza dell’Amore del Padre di Roberta Biz

Rubriche

??? 05  ???   Cari Missionari
??? 08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
??? 31  ???   Insegnaci a pregare 3. Dal deserto al cosmo per la storia di Paolo Farinella
??? 57  ???  Nostra Madre Terra: Le cause dell’Autismo di Rosanna Novara Topino
??? 64  ???  Cooperando: Cooperazione: Speranze e Contraddizioni di Chiara Giovetti
??? 68  ???   I Perdenti /24 Jerzy Popieluzsko di Mario Bandera
??? 81 ???   Persone che conosco: Quel diavolo di Maradona di Gianni Minà
??? 71  ???  AMICO a cura di Luca Lorusso




Cari Missionari

Fratel Carlo Zacquini, Alla vigilia degli ottant’anni

Pasqua è vicina e mi faccio vivo per dare alcune notizie e per fare i tradizionali auguri pasquali. Ho deciso di fare un brevissimo riassunto della mia vita, approfittando anche delle riflessioni che la quaresima ci ha proposto.

A vent’anni (1957) ho fatto la prima professione religiosa alla Certosa di Pesio. Con 27 anni sono partito per Roraima (1964). Due giorni prima dei 28 ho conosciuto il primo gruppo di Yanomami. Ai primi di gennaio del 1968 ho cominciato la mia vita tra di loro. Se in questi ultimi decenni non sono migliorato granché, certamente non è dovuto agli Yanomami.

In questi ultimi tempi, sono assillato dalla necessità di far conoscere a molti la loro causa, e di aiutare almeno qualcuno di essi a prepararsi per difenderla con qualche competenza. Oggetto di questa mia attività sono giovani e vecchi, studenti e non, indigeni e non indigeni che si affacciano alla soglia della storia moderna con le qualità e i difetti del tempo attuale. I giovani missionari pure fanno parte di questa preoccupazione.

La sfida che rappresenta il futuro di questi popoli (indigeni) pare sempre più ardua e complicata, ma almeno, al contrario di quanto si pensava qualche decennio fa, è possibile, e pare condivisa da sempre più persone.

Nel mio piccolo, grazie anche a molti di voi e in vostro nome, porto avanti il Centro di Documentazione Indigena dei Missionari della Consolata in Amazzonia. Col vostro aiuto ho potuto assumere dei collaboratori, tra i quali anche un indigeno (makuxi); abbiamo raccolto e registrato 2490 libri; alcune altre centinaia sono in attesa; circa 2000 riviste sono registrate; decine di migliaia di ritagli di giornali sono in relativo ordine e li stiamo scansionando; migliaia di documenti sono stati classificati e in parte registrati; centinaia di video cassette e cassette sono in parte digitalizzate e altre in attesa di esserlo; documentari, reportage, testimonianze, canti, rituali, racconti, ricerche storiche e di antropologia; alcune migliaia di fotografie, negativi, diapositive, sono state digitalizzate.

Sono sicuro che, nella fretta, sto dimenticando altre cose, ma quello che è più importante è che mi fate sentire orgoglioso di avere degli amici come voi, capaci di donarsi e di donare continuamente, a costo del proprio conforto, per aiutare persone e popolazioni che sono lontane da voi, dimostrando una enorme fiducia in persone come me che con maggiore o minore competenza e efficacia tentano di cambiare in meglio un pezzetto di questo nostro mondo. Mi sento tanto debole e incapace di risolvere i grandi e gravi problemi che mi si pongono davanti quotidianamente, ma la vostra vicinanza, il vostro affetto e la vostra collaborazione effettiva, continuano a darmi coraggio e a far sì che pur nella mia debolezza possa continuare a lottare e a sperare di essere di aiuto, almeno a qualcuno dei tanti che ne necessitano. Vi invito anche, questa volta, ad unirvi a me per ringraziare il Cielo che mi ha portato ormai alle soglie degli ottant’anni (che compirò il 3 maggio). Inoltre, a ottobre ricorderò anche i sessant’anni di professione religiosa. Sembra sia stato ieri, eppure sono ormai un bel mazzetto di anni come missionario della Consolata. Il 21 marzo scorso, Luis Ventura, il nostro carissimo amico, ha anche difeso la sua tesi di dottorato in antropologia, all’università di Madrid. Spero possa presto tornare a lavorare con noi.

Sono sicuro di non aver scritto tutto in modo chiaro e corretto, ma purtroppo non ho più tempo per rivedere e correggere. Mi riprometto in breve, di farlo dove necessario e completare le informazioni che so che vi stanno a cuore. Io sto bene, e spero che lo siate tutti voi! Buona Pasqua. Vi abbraccio con tanto affetto.

Carlo Zacquini
04/04/2017


Da Neisu

Cari amici ed amiche,
Approfitto del tempo di quaresima per ringraziarvi di tutto ciò che fate per la Missione.

Qui a Neisu questo mese di marzo potrei dire che è stato il mese dei Pigmei. Due settimane fa tre di loro sono arrivati all’ospedale per farsi curare dalla malaria. Provenivano da un territorio «vicino», a una cinquantina di chilometri da qui, passando per le scorciatornie della foresta.

La dottoressa Serafina, facendo gli esami clinici, si è accorta che tutti e tre avevano delle ernie da operare ed allora sono state programmati interventi speciali per i loro casi, al di fuori ed in più di quelli già in lista il martedì e giovedì. Si è così operato anche il mercoledì. I nostri tre uomini sono giunti, come d’abitudine, solo con la maglietta che avevano indosso e senza nulla da mangiare (qui sono le famiglie degli ammalati che provvedono al loro cibo cucinato sotto una grande tettornia dove ciascuno può accendere il suo fuoco). I Pigmei sono seminomadi e vivono di pesca, caccia e frutti di stagione, sovente raccolti nei campi privati creando problemi ben immaginabili con i proprietari dei campi in questione… Noi li abbiamo assistiti nel centro nutrizionale, ma siccome non hanno le stesse abitudini culinarie dei Bantu (la maggioranza della popolazione) e sono abituati a cucinarsi essi stessi i propri pasti, hanno creato parecchi problemi. Per fortuna la moglie del capo villaggio li ha accolti preparando lei stessa i pasti per loro.

Le operazioni chirurgiche sono ben riuscite. Per l’occasione li abbiamo dotati di vestiti ospedalieri (che abbiamo ricevuto in dono dal Canada) e ho poi aggiunto per ognuno un paio di calzoni e dei sandali, un perizoma e un lenzuolo. Visto che loro avevano ricevuto i vestiti in regalo, la signora che li aveva assistiti, vedendo che non aveva ricevuto nulla, ha chiesto un abito locale anche per sé. Gliel’ho dato, ma per stuzzicarlo un poco, ho fatto notare al capo villaggio che lui stesso avrebbe dovuto fornire il vestito alla sua signora. La risposta? Che il mio regalo sarebbe servito benissimo per il giorno del funerale della sua signora.

I Pigmei, una volta guariti, sono rientrati nella loro foresta a piedi, dopo aver ricevuto qualche provvista per la strada di ritorno. Come si dice: «Un regalo ne attira un altro». Per completare il tutto la settimana scorsa, una mamma pigmea ha partorito con taglio cesareo il simpatico bimbo che potete vedere nella foto. Come potete constatare ci prendiamo proprio cura dei «più piccoli». Tutto ciò anche grazie a voi.

Richard Larose imc
27/03/2017, Ospedale di Neisu, Rd Congo


A Cecilia

Caro Padre Gigi,
in questi giorni ho scritto alcuni pensieri in vista del compleanno di mia nipote Cecilia, figlia di mio fratello, che compirà 22 anni il 20 aprile prossimo. Naturalmente mia mamma, abbonata a Missioni Consolata dagli anni Cinquanta fino al 2007, sarebbe molto felice di leggerli dalla «vita nuova» in cui si trova. Cari saluti

Di te dirò che le parole di mamma Franca, dopo la tua nascita, «Cecilia è un miracolo della vita»,
sono rimaste indelebili e saranno indimenticabili!
Di te dirò che la felicità di papà Delfino nel tenerti fra le sue forti braccia, piccolina, sempre terrò fra ciò che ho di più caro nel profondo.
Di te dirò che il grido di gioia per l’arrivo della nonna Cleofe, in occasione dei tuoi quattro anni, sempre terrò tra i ricordi.
Di te dirò che il tuo sguardo accorto e sagace ininterrottamente ricorderà il tuo nonno Vittorio, uomo molto buono e puro di cuore.
Di te dirò che allo straordinario mondo dell’arte ti sei avvicinata e che nel corso della vita esso ti stupirà con le sue meraviglie.
Di te dirò che la varietà dei colori e delle loro sfumature ti ha di continuo accompagnata, dall’astuccio, alla cassettiera e al make up policromo.
A te dirò in occasione del tuo compleanno, opportunità irripetibile per rinnovare i sogni e ridefinire i progetti, auguri magnifici e mirabili!

Zia Milva C.
20/04/2017


Auguri Donna

Ogni Donna è un delicato fiore che senza ossigeno muore.
Il suo profumo è pregiato se non è dall’esterno alterato.
Le basta una dolce carezza per avere coraggio e certezza e con un sincero bacio scorda dubbio e oltraggio.
È sicura, forte e trasparente quanto una pura sorgente.
Con le sue ali da libellula rende la realtà più bella.
S’inchina al destino quando non è meschino.
È figlia di Madre Natura forgiata nella stessa natura.
È Madre d’un creato all’origine designato.
È la speranza senza fine dell’Amore che non ha confine!

Piera Angela Feliciani
08/03/2017, Martinengo (Bg)


Capitolali dalle comunità d’Europa con la Direzione generale.

Verso il Capitolo Generale

Carissimi/e
con grande gioia veniamo a voi per comunicarvi che quest’anno il nostro Istituto Missioni Consolata celebrerà il suo tredicesimo Capitolo Generale, a Roma dal 22 maggio al 20 giugno 2017. Il capitolo verterà su due temi essenziali: la rivitalizzazione e la ristrutturazione.

Rivitalizzazione intesa come stimolo per ogni missionario alla fedeltà al carisma, amore e qualificazione della missione ad gentes, tensione alla santità dei singoli missionari e donazione nel servizio all’annuncio ai non cristiani, all’attenzione agli ultimi, all’apertura ai nuovi areopaghi.

Ristrutturazione intesa come parziale modifica della nostra organizzazione non più totalmente centralizzata, ma distribuita a livello continentale.

Approfitto dell’occasione per chiedervi di tenerci presenti nella vostra preghiera, affinché il capitolo generale sia un momento dello Spirito, in cui tutti i membri siano disposti ad accogliere il nuovo che Lui vorrà suggerire alla Chiesa e all’Istituto. La Vergine Consolata e il nostro beato fondatore, Giuseppe Allamano, ci siano di guida e ci spronino alla fedeltà alla missione evangelizzatrice della Chiesa nel mondo di oggi. Grati e sicuri della vostra preziosa preghiera, vi salutiamo nel Signore.

Padre Stefano Camerlengo,
superiore generale dei missionari della Consolata
Roma, 19 marzo 2017

Assemblea precapitolare latinoamericana in Bogotà, Colombia.




Insegnaci a pregare 4.

Solitudine, solitarietà e comunità


Leggiamo nel Vangelo di Luca: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui» (Lc 9,18). Non è un’annotazione di transizione, ma una prospettiva teologica: Gesù è in un luogo «solitario» ma non è isolato, perché «i discepoli erano con lui». È solo ed è in compagnia.

Una medaglia a due facce

Non è un indizio da poco, perché quando nella preghiera pensiamo di «isolarci», fuggiamo dalla nostra vocazione. Al contrario, se la nostra è vera preghiera, non siamo mai solitari, anche se fisicamente siamo soli, perché siamo abitati dalla missione battesimale che ci apre all’ecclesialità universale. O la preghiera nostra è cristologica, nel senso che possiede il respiro di Gesù, o è solo un parlarsi addosso o un volare sulle nubi dei sogni anche a occhi aperti. Gesù prende coscienza della sua missione e delle scelte della sua vita nella preghiera, che diventa così «il luogo fisico» del suo rapporto col Padre che si esprime con i suoi discepoli. È questa l’ecclesialità, perché pregare è capire quale deve essere la direzione della vita alla luce della Parola e dentro la comunità orante.

Alla chiesa di Laodicèa, l’Angelo dice: «Ti consiglio di comperare da me… collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista» (Ap 3,18). Dal comportamento di Gesù, impariamo la differenza tra «solitudine» e «solitarietà o essere solitari». La prima è uno stato dell’essere, perché la solitudine è la profondità del nostro io, la capacità di stare con se stessi, abitando il pozzo profondo di sé. Essere solitari, invece, significa stare isolati, anche in mezzo agli altri: si può essere, infatti, in mezzo a una folla, ma stare soli e senza alcuna relazione. Si può, al contrario essere soli fisicamente, in carcere, in cella d’isolamento ed essere in comunione profonda con una moltitudine di persone. La solitudine ci dà la comprensione della nostra dimensione comunitaria, la solitarietà ci esclude da ogni relazione per rinchiuderci nella prigione del «non ho bisogno di nessuno, basto a me stesso». La solitudine è una dimensione dello spirito, la solitarietà un limite dell’egoismo.

Non sa stare in comunità chi non è capace di vivere la propria solitudine come espressione del proprio esistere, così come non sa pregare da solo chi non è in grado di pregare in comunità, e viceversa. Solitudine e comunità sono due facce della stessa medaglia e vale sia per le comunità religiose, sia per le coppie sposate, sia per gli amici. Soli e insieme, come Gesù che sta solo, ma in compagnia. La vita comunitaria in questa dimensione diventa lo spazio vitale dove la solitudine della persona si esprime e si realizza. La vita di comunione non è la somma di tante solitudini, ma la sinfonia di note singole che solo insieme, se armonizzate, riescono e possono dare come risultato un senso compiuto musicale.

Pregare è vivere

La preghiera non è un atteggiamento o un mezzo per scandire le ore del giorno, ma «uno stato» esistenziale indirizzato al senso della vita. Si prega per vivere e poiché si vive insieme agli altri, si prega con gli altri, anche quando si è soli. Tutta la vita di Gesù è segnata dalla preghiera. Si può dire che la sua giornata è scandita dalla preghiera che ne diventa l’attività è principale. Il Vangelo di Luca riporta, più degli altri, molti riferimenti alla preghiera di Gesù, tanto che, estrapolando i singoli passi e mettendoli insieme, si potrebbe ricavarne un autentico «vangelo della preghiera». Ad es.: Lc 3,21 (battesimo di Gesù); Lc 5,16; 9,18; 11,1 (luoghi isolati); Lc 6,12 (notte in preghiera); Lc 9,28.29 (trasfigurazione di Gesù); Lc 22,31.32 (Gesù prega su Pietro); Lc 22,41.44.45 (Gesù prega nel Getsèmani). Prima di prendere una decisione importante o nei momenti che precedono le svolte decisive della sua vita, Gesù è sempre in preghiera. Nessun momento né ordinario né drammatico della vita di Gesù è fuori da un contesto di preghiera. Si direbbe che egli è in «stato permanente di preghiera». E questo Francesco di Assisi lo ha capito perfettamente.

Gesù ha un obiettivo: compiere la volontà del Padre ed egli sa che questa volontà non è la sua morte in croce, come se Dio fosse assetato di sangue innocente. Al contrario, la volontà del Padre è un progetto di alleanza per tutta l’umanità e per ciascun individuo: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Spesso si pensa che Gesù, essendo Dio, abbia sempre saputo quello che doveva essere e fare: se era Dio – si dice – sapeva tutto e quindi, prevedendo tutto, andava sul sicuro: una sorta di superman con poteri extraumani. Questa è la caricatura di Gesù. Egli era profondamente e realmente «uomo» e come ogni persona umana ha scoperto il senso della vita vivendo la fatica della ricerca di senso. Se avesse saputo tutto «prima», il suo essere uomo sarebbe stato una finzione e la sua incarnazione un inganno: un dio-barzelletta. Se così non fosse e avessero ragione i fautori della «divinità a oltranza», non avrebbe avuto senso che Gesù pregasse, perché, essendo Dio, sarebbe stato inutile e anche una perdita di tempo «pregare se stesso»: il massimo del narcisismo. Peggio: la preghiera di Gesù sarebbe stata una finzione. Al contrario è stata una costante della sua vita perché, come ciascuno di noi, egli «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Non ha avuto rivelazioni particolari, ma ha dovuto faticare come tutti, scoprendo il destino della sua vita lentamente, passo dopo passo, attraversando il percorso umano, senza sconti: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). L’invocazione «Dio mio», ripetuta, esprime il rifiuto della morte che Gesù sta vivendo. Egli non accetta di morire e forse non capisce perché sta morendo.

Mentre Luca trasforma la morte di Gesù in «uno spettacolo – theorìa» (Lc 23,48) di gloria, senza sangue, senza violenza, quasi una liturgia, Marco e Matteo invece evidenziano il dramma della sua preghiera che è quasi un «chiedere ragione» al Padre ed esige una risposta. In Giovanni la morte di Gesù è la nuova creazione in cui la madre e il discepolo svolgono la funzione di Àdam ed Eva, i (nuovi) progenitori che non si accusano a vicenda, ma si accolgono reciprocamente davanti al mondo intero, rappresentato da quattro donne credenti (le donne ebree) e da quattro soldati pagani che, indifferenti, si spartiscono le vesti. È il nuovo mondo che nasce nello stesso istante in cui Gesù prega il Padre di accogliere il suo spirito. Non è un caso che per Giovanni il momento supremo dell’offerta della vita di Gesù coincida con il dono dello Spirito all’umanità nuova che sta sotto la croce: «E reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30). È la nuova Pentecoste. Le vesti divise tra i soldati sono simboliche delle capanne che gli Ebrei costruivano alla festa del Sukkôt per rivivere l’esperienza del deserto nelle capanne. Ora la capanna è la preghiera di Gesù che assume su di sé non solo «il peccato del mondo», ma l’intera umanità sperimentata, istante dopo istante, come un uomo vero nella pienezza e nella debolezza, nella fatica e nella speranza, nella gioia e nel dolore. Gesù prega perché ha bisogno di sapere chi è, di conoscere la via che deve percorrere, di sperimentare il desiderio del Padre che è la sua vita.

Luce e forza

Luca è un autore attento perché ogni volta che Gesù deve prendere una decisione importante o si trova a una svolta della sua vita, lo descrive in preghiera. Scegliendo spesso luoghi solitari, egli pone in evidenza il bisogno di creare condizioni adeguate per saper scendere nel profondo pozzo della propria coscienza, cosa che non può avvenire nel cicaleccio, nella dissipazione e nella confusione. Le cose importanti accadono sempre nel silenzio, condizione previa per non ingannarsi e non essere ingannati. Il silenzio denuda il cuore e svela le ragioni delle scelte. In questa ricerca di senso della propria vita, Gesù prega per la realizzazione di sé come «inviato» per una missione che ha bisogno di chiarire a se stesso giorno dopo giorno. Egli associa nella sua preghiera anche i discepoli, affinché condividano e illimpidiscano anch’essi lo sguardo della loro fede per capire «dove» si trovano e «dove» vanno.

La preghiera di Gesù non ha lo scopo morale d’insegnare agli apostoli a pregare, anche se Gesù mostra loro lo stile e le condizioni della preghiera. Gesù dice di più: egli prega per chiarire a sé ciò che deve fare e quali scelte deve compiere, quindi invita anche gli apostoli a fare lo stesso perché la loro Chiesa dovrà pregare «ininterrottamente» (cf 1Ts 5,18; cf Ef 6,18; Lc 22,46) se vorrà verificare il proprio cammino e la propria coerenza nella fedeltà al Vangelo. La Chiesa, che deve testimoniare al mondo quali sono le ragioni che reggono le scelte di Gesù, deve prima sperimentare e solo dopo comunicare con parole e atti ciò che ha vissuto. Nessun profeta può annunciare ciò che non ha sperimentato. Ognuno, infatti, può testimoniare solo ed esclusivamente ciò che ha vissuto, dopo essere stato purificato dai carboni ardenti per poter mangiare il rotolo della Parola (cf Is 6,6-7; Ez 3,1-5).

Nota magico-teologica

Si pone un problema di ordine teologico per quella porzione di teologia che, ancora, pensa Gesù come un mago che conosce tutto e anticipa anche il proprio futuro. Il ragionamento è il solito: se Gesù è Dio, la sua divinità domina la sua umanità e quindi è anche «onnisciente», egli conosce tutto, anche l’avvenire suo e degli altri. Da qui la domanda: se è Dio e conosce tutto, perché non interviene a impedire il male? Questa è la caricatura della divinità di Gesù e la negazione della sua incarnazione: «Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Più in generale è la posizione di coloro che di fronte alla malattia e/o alla morte di un bambino, a un cataclisma che provoca centinaia di vittime reagiscono con frasi tipo: «Come può Dio, che sa tutto e vede tutto, permettere queste cose?». È il bisogno della divinità «a disposizione», il «Dio-tappabuchi» (Lückenbüsser), di cui parla il grande teologo luterano Dietrich Bonhöffer (1906-1945), invenzione dell’uomo per dare una risposta alle proprie insicurezze e paure: «Dio come ipotesi di lavoro, come tappabuchi, è diventato superfluo per i nostri imbarazzi» (Bonhöffer D., Resistenza e resa: lettere e appunti dal carcere, Bompiani, Milano 1969, 264).

Gesù che si pone in preghiera ci dice che è «simile agli uomini» e, come per tutti gli uomini, anche per lui «vero uomo», il futuro non è in suo potere e la sua coscienza si forma attraverso gli incontri che vive e gli avvenimenti che sperimenta. Anche Gesù deve cercare la volontà di Dio e il senso della sua vita. Esattamente come tutti. Poiché non è in grado di vedere cosa succederà, prega e chiede al Padre aiuto e chiarezza, invocando la disponibilità ad accogliere la vita, anche se non è come vorrebbe: la preghiera diventa forza per affrontare l’incertezza e luce per illuminare i suoi passi, come dice il salmista: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119/118,105).

Gesù conosce le aspettative del suo popolo che attende un Messia della forza e della impietosa violenza, oppositore del potere di occupazione dei Romani. Egli avrebbe dovuto radunare Israele per andare alla riscossa della libertà e all’instaurazione del regno di Davide, lasciando dietro di sé una scìa di sangue e di morte. Gesù non sa cosa deve fare e prende le distanze da sé stesso, dagli eventi, da Dio andando in un luogo solitario a pregare. Fa spazio per fare decantare o esplodere le contraddizioni, diventa lui stesso campo di battaglia per fare evaporare le contrapposizioni, lascia che le indecisioni si sistemino e si confrontino, non fugge e non divaga: «Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza» (Lc 22,44-45). Non solo «si ritira in un luogo deserto», ma nel Getsèmani lotta fino a sudare sangue. È il senso della solitudine piena e profonda. Il testo non dice che Gesù pregasse «con» i discepoli, ma che i discepoli «erano con» lui. Vi sono momenti in cui è necessario non tanto restare soli, ma essere immersi nella «solitudine» esistenziale da cui nessuna compagnia ci può estraniare, perché certe dimensioni possono essere condivise solo nell’immensità dello Spirito di Dio.

Come Isacco

Gli altri possono intuire, assistere, partecipare, ma restano ai margini perché i destini della propria missione possono essere vissuti solo nel cuore di Dio. In questo senso pregare è fare chiarezza, imparare la morfologia della fede per leggere la propria esistenza e la storia con gli occhi e la prospettiva di Dio. Gesù non vuole essere un Messia di violenza e non vuole esaurire la sua azione in una dimensione politica, perché non è venuto per prendersi una rivincita sugli uomini, come dimostra il suo atteggiamento nei confronti del centurione romano (cfr. Mt 8,4-10) che accoglie come accoglie gli Ebrei. Egli vive la sua messianicità nella prospettiva della nonviolenza e della dolcezza espresse nella misura del perdono come dimensione della nuova giustizia (cfr. Mt 5,20; 6,1), che deve inaugurare il Regno che viene (cfr. Mc 11,10; Lc 17,20). Non è facile per lui scegliere questa via, perché significa mettersi in opposizione alla mentalità corrente che porrà fine alla sua missione «prima del tempo». Per evitare la violenza, infatti, egli dovrà subirla e per non uccidere dovrà essere ucciso prima di avere compiuto la sua missione messianica. «Rimetti la spada nel fodero» (Gv 18,11). Gesù si interroga sul senso della sua vita: se deve morire prima ancora di arrivare al compimento della sua missione, che Messia è? Non solo, ma la volontà di salvezza del Padre come può realizzarsi se egli non sarà in grado di portarla a termine? Come deve portarla a termine? È proprio necessario che egli debba morire? «E diceva: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!”» (Mc 14,36).

Gesù agisce come Isacco che, non vedendo l’agnello del sacrificio, non riesce a capire, si abbandona alla volontà del Padre nella certezza che nulla accade per caso: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Se egli intraprenderà la via messianica della dolcezza e della tenerezza, scatenerà, come si dice abitualmente, «l’ira di Dio» e le forze del male si abbatteranno contro di lui, uccidendolo (cfr. Sal 17,11; 22/21,13; 27/26,6; 40/39,13; 88/87,18; 109/108,3; 140/139,10), ma la morte subìta non può essere l’ultima parola, anche se così sembra. Senza la preghiera tutto si sarebbe fermato alla superfice, con la preghiera tutto viene vissuto in profondità. In Gesù comincia a balenare l’idea della risurrezione: se Dio non può non realizzare il suo disegno di amore e se il Messia/Cristo è ucciso, il Padre saprà superare la morte e farà compiere oltre la morte stessa la missione al suo Cristo e Figlio. Come Isacco che si abbandona, affidandosi e fidandosi senza capire, al Dio del padre suo, Abramo, cui era stata promessa una posterità tratta dalla sua carne, perché se Dio è Dio, semplicemente non può venire meno alla sua Parola (Gen 22,1-18).

Narra un racconto ebraico che Isacco, vedendo Abramo titubante nell’impugnare il coltello, lo incita con ardore a compiere il sacrificio richiesto da Dio secondo il rituale. Il figlio unigenito incoraggia il padre a legarlo per ubbidire al Signore che sa quello che fa. Isacco legato alla legna del sacrificio sull’altare di pietra, sul monte Mòria, dove secoli dopo sorgerà il tempio di Gerusalemme, è simbolo di Cristo, il Figlio Unigenito, legato al legno della croce e sacrificato sull’altare per regalare la sua vita all’età di 36 anni. Abramo disse a Dio: «Quando in futuro i figli di Isacco ti pregheranno e ti chiederanno qualunque cosa, tu li ascolterai, ricordandoti dell’Aqedàh/legatura di Isacco» (L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei. II. Da Abramo a Giacobbe, Adelphi Edizioni, Milano 1997, 98-102).

Per i meriti del figlio Isacco, Abramo ricevette l’alleanza da Dio. Per i meriti di Cristo legato alla croce, l’umanità ha accesso a Dio.

Paolo Farinella (4 – continua)

 




Le cause dell’autismo


Perché le sindromi autistiche sono in aumento? Da anni è stata dimostrata la responsabilità dell’inquinamento ambientale sulle modificazioni genetiche. Mentre non esiste alcuna correlazione tra autismo e vaccini.

Dopo aver visto (MC di marzo) le principali caratteristiche della patologia autistica, in questo articolo cercheremo di fare il punto della situazione per quanto concerne i risultati della ricerca scientifica sulle cause di questa malattia.

Inizialmente – lo abbiamo già ricordato – si pensava che l’autismo dei bambini fosse una conseguenza di comportamenti e stili educativi cattivi da parte dei genitori. Questo approccio alla malattia era esclusivamente di tipo psicologico. Si è poi capito che, in realtà, si tratta di un disturbo dello sviluppo biologicamente determinato. In un primo momento se ne sono ricercate le cause solo nell’inquinamento ambientale, senza considerare i fattori genetici, ma una ricerca pubblicata su Nature nel 2014 ha chiarito che nelle sindromi dello spettro autistico (Autistic Spectrum Disorders, Asd) sono coinvolti almeno un centinaio di geni con mutazioni spontanee, non trasmesse dai genitori. In realtà modificazioni genetiche e cause ambientali sono strettamente correlate. Del resto non si potrebbe pensare solo a una causa genetica perché i geni evolvono troppo lentamente per essere considerati gli unici responsabili del drastico aumento dell’autismo nel giro di un paio di generazioni. Se invece ragioniamo in termini di epigenetica (cioè dello studio delle modifiche che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del Dna), allora possiamo capire la relazione tra l’inquinamento ambientale e l’insorgenza di questa sindrome. Secondo Ernesto Burgio, medico pediatra, ricercatore dell’European Cancer and Environment Research Institute e coordinatore del comitato scientifico Isde Italia (International Society of Doctors for Environment), «i geni hanno bisogno di qualcosa per sapere come lavorare» e «ciò che avviene nei nove mesi di gestazione può essere più importante di quanto avverrà nel corso della vita». Questi concetti sono stati chiariti da Patrizia Gentilini, medico oncologo ed ematologo nonché medico dell’ambiente (Isde), la quale afferma che «il genoma è qualcosa che continuamente si modella e si adatta a seconda dei segnali fisici, chimici e biologici con cui entra in contatto. L’epigenetica ci ha svelato che è l’ambiente che modella ciò che siamo, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia. Questo vale sia per lo sviluppo del nostro cervello che per l’insorgenza dei tumori».

Il cervello vulnerabile

Si sa che il cervello in via di sviluppo, specialmente durante la vita intrauterina, è un organo delicatissimo ed estremamente sensibile alle sostanze tossiche ed inoltre è l’unico organo in cui è presente tessuto grasso. È evidente che per sostanze tossiche lipofile – come, ad esempio, pesticidi e diossine – il cervello rappresenta l’organo bersaglio ideale. L’inquinamento atmosferico è dato da svariati elementi con azione neurotossica, capaci di provocare stress ossidativo e disfunzioni mitocondriali nelle cellule. Nel 2006 fu pubblicato su Lancet l’articolo Developmental neurotoxicity of industrial chemicals di Grandjean P. e Landrigan P.J., contenente un primo elenco di 202 sostanze chimiche capaci di danneggiare il cervello in via di sviluppo tra pesticidi, solventi, metalli pesanti, diossine e altro. Successivamente oltre 1.000 sostanze hanno mostrato neurotossicità in esperimenti di laboratorio su animali. Secondo gli autori, già allora si poteva affermare che un bambino su sei avrebbe presentato danni documentabili al sistema nervoso e problemi funzionali e comportamentali tra cui deficit intellettivo, sindrome di iperattività, autismo, deficit dell’attenzione, dislessia, discalculia. Secondo Grandjean «i cervelli dei nostri bambini sono la nostra più importante risorsa economica e noi non abbiamo capito quanto essi siano vulnerabili, noi dobbiamo fare della protezione dei giovani cervelli il più grande obiettivo di salute pubblica; c’è una sola occasione per sviluppare un cervello». Numerose ricerche hanno confermato come l’esposizione a pesticidi organofosfati durante la vita fetale si associ ad esiti negativi nella sfera cognitiva, comportamentale, sensoriale, motoria e sul quoziente intellettivo. Alcuni studi inoltre hanno evidenziato un maggiore rischio di autismo per esposizione a particolato Pm2.5 proveniente dai motori diesel o per chi vive in prossimità di autostrade. In un recente studio caso-controllo del 2015 condotto sulla coorte (insieme di individi aventi sperimentato lo stesso evento, ndr) delle infermiere americane (116.430 di età 25-43 anni) residenti in 50 stati è stata indagata l’incidenza di figli con diagnosi di disordini dello spettro autistico nati fra il 1990 e il 2002. Sono stati identificati 245 bambini con Asd e 1522 controlli sani. Si è messo in relazione l’indirizzo materno durante la gravidanza con i livelli di Pm 2.5 registrati mensilmente e si è evidenziato un rischio molto aumentato e statisticamente significativo tra le mamme esposte ad inquinamento da polveri sottili durante la gravidanza, in particolare nel terzo trimestre. Proprio nell’ultimo trimestre della gravidanza inizia la sinaptogenesi, cioè la formazione delle sinapsi ovvero le giunzioni che mettono in comunicazione tra loro le cellule nervose. Questo è il processo che sembra risultare difettoso nei disordini dello spettro autistico. Gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che «l’inquinamento dell’aria è un fattore di rischio dell’autismo e il miglioramento della qualità dell’aria potrebbe contribuire a ridurre l’incidenza dell’Asd e ridurre in modo sostanziale i costi economici per le famiglie e la società». In effetti i costi derivati dall’azione dell’inquinamento sul neurosviluppo sono enormi. Si calcola che negli Usa i costi per danni neurologici da piombo nei bambini ammonterebbero a circa 43 miliardi di dollari e per quelli da mercurio a 8,7 miliardi.

L’autismo e i metalli

Negli ultimi anni sono stati introdotti nell’ambiente diversi metalli di origine antropica con un aggravamento dell’inquinamento preesistente, come nel caso dell’incenerimento dei rifiuti. In questo caso i metalli maggiormente pericolosi rilasciati in atmosfera sono: cadmio, cobalto, cromo, arsenico, mercurio, manganese, rame, tallio, nichel, piombo e alluminio. In particolare, l’arsenico, un semimetallo a cui bisogna prestare particolare attenzione per la sua tossicità e cancerogenicità, è stato spesso trovato nei capelli dei bambini con Asd. Allo stato puro l’arsenico non pare essere tossico, ma lo sono tutti i suoi derivati, che rientrano nella composizione di pesticidi, di erbicidi e d’insetticidi. I metalli pesanti e i loro composti risultano tossici per le loro proprietà chimico-fisiche. Essi hanno proprietà lipofile, cioè si accumulano nel tessuto grasso. Sono importanti la loro concentrazione nei tessuti e i tempi di esposizione. La situazione più pericolosa è quella della prolungata esposizione a dosi minime. A livello tissutale, i metalli pesanti provocano stress ossidativi, inefficienza dei sistemi di detossificazione, blocco dei meccanismi di riparazione del Dna e variazione (modulazione) epigenetica dell’espressione genomica. Tali metalli si presentano come cationi e possono perciò interagire con le proteine e formare «addotti» (frammenti in genere cancerogeni) con il Dna. Le interazioni con le proteine sembrano essere le più importanti da un punto di vista patogenetico. Sono infatti state individuate diverse proteine bersaglio, tra cui quelle implicate nella riparazione del Dna. Lo stress ossidativo consiste nella formazione di radicali liberi capaci di danneggiare lipidi, proteine e acidi nucleici, per cui vengono danneggiate strutture cellulari fondamentali come la membrana cellulare. Secondo Maurizio Proietti, nei bimbi autistici sono stati spesso trovati metalli pesanti e squilibri di membrana mediante l’analisi minerale tessutale e il fat profile (analisi dei grassi). Ciò che si sa è che i metalli pesanti possono penetrare in tutti i tessuti, nelle cellule e negli organuli cellulari, compreso il nucleo, tanto nell’adulto quanto nel feto, alterando l’assetto epigenetico e l’espressione genica durante le diverse fasi dello sviluppo, oltre a interferire con i sistemi enzimatici. Ciò che non conosciamo sono i loro meccanismi d’interferenza sulla programmazione fetale, soprattutto nei tessuti ed organi deputati alla regolazione neuro-endocrina e metabolica.

Già nel novembre 2006, la Harvard Medical School lanciò un appello per informare l’opinione pubblica con lo studio «Una pandemia silenziosa. Sostanze chimiche industriali stanno danneggiando lo sviluppo del cervello dei bambini in tutto il mondo». L’avvelenamento dei bambini sta diventando sistemico per la sempre maggiore presenza nell’ambiente non solo di metalli pesanti, ma anche di altre pericolosissime sostanze di origine antropica come pesticidi, diserbanti, insetticidi, Pcbs, diossine e altri, che vengono frequentemente ritrovati nella placenta, nel sangue del cordone ombelicale e nel latte materno. Nei capelli e nelle unghie dei bambini autistici si trovano spesso elevati livelli, oltre che di arsenico, anche di mercurio, piombo e alluminio, mentre sono bassi quelli di selenio, di zinco e di rame.

L’autismo e i vaccini: nessuna correlazione

Va detto che l’alluminio è comunemente usato come adiuvante nella preparazione dei vaccini da più di 70 anni. La sua funzione nel vaccino è indispensabile in quanto facilita la risposta immunitaria all’antigene presente nel vaccino. L’attribuzione ai vaccini di una responsabilità nell’insorgenza dell’autismo è tuttavia priva di fondamento perché, come abbiamo visto, probabilmente la malattia si origina ben prima della prima vaccinazione, cioè durante lo sviluppo fetale. Molte vaccinazioni sono state e restano fondamentali nella prevenzione di numerose e gravissime malattie. Purtroppo il nesso tra vaccini e autismo è stato sostenuto per anni, a partire dal 1998, anno in cui il medico britannico Andrew Wakefield, che venne in seguito radiato dall’Ordine dei medici, pubblicò su Lancet un suo articolo in proposito. Quella pubblicazione (successivamente ritirata) riuscì a influenzare negativamente il comportamento di molti genitori, i quali non fecero più vaccinare i figli. Finché Brian Deer del Sunday Times riuscì a smascherare la frode, perpetrata da Wakefield al fine di mettere in piedi un mercato di test diagnostici per l’autismo. Dopo sei anni di ricerche sulle cartelle cliniche usate dal medico per il suo studio, nel 2011 Deer pubblicò una contro-analisi scientifica sul British Medical Journal. La veridicità delle conclusioni di Deer è supportata da diverse ricerche scientifiche, tra cui quella pubblicata su Jama da Anjali Jain del Lewin Group, una società di ricerca e consulenza indipendente in campo sanitario. In questo studio condotto su quasi 96.000 bambini non è stata trovata alcuna correlazione tra il vaccino contro morbillo-parotite-rosolia (quello maggiormente incriminato come causa) e l’autismo, nemmeno nei soggetti più a rischio, cioè i bambini con un fratello autistico. Inoltre decine di studi hanno dimostrato che l’età d’insorgenza, la gravità, il decorso di questa malattia e la sua ricorrenza nelle famiglie non differiscono tra bambini vaccinati e non vaccinati.

È stata invece osservata una correlazione tra il rischio di sviluppare l’autismo e altri disturbi del neuro-sviluppo nella prole e le condizioni metaboliche della madre in gravidanza come il diabete (malattia autornimmune che può essere scatenata da inquinanti ambientali in soggetti predisposti), l’ipertensione e l’obesità. È stato osservato che le madri obese sono più soggette delle normopeso ad avere figli autistici, quindi tra le forme di prevenzione dell’autismo va inclusa anche l’alimentazione della gestante.

Rosanna Novara Topino
(terza puntata – continua)

 




Cooperazione:

speranze e contraddizioni


Da un’analisi della situazione della cooperazione allo sviluppo in Italia a un anno e mezzo dalla nascita dell’Aics (l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), al punto sulla riforma del Terzo settore. Da uno sguardo sull’Europa e sulle sue strategie per lo sviluppo a uno sull’effetto Trump nell’aiuto allo sviluppo statunitense.

«La battaglia è stata vinta». Così la direttrice dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, Laura Frigenti, scriveva alla fine del 2016 nella relazione annuale, dodici mesi dopo la creazione dell’ente che dirige. L’Agenzia è una delle principali novità introdotte dalla legge 125/14, nota come «riforma della cooperazione allo sviluppo». Obiettivo di questo ente è quello di gestire in maniera più snella, efficace e trasparente interventi e fondi della cooperazione sul modello di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e il Regno Unito che un’agenzia dedicata alla cooperazione l’hanno già da tempo.

La battaglia cui la direttrice Frigenti si riferisce è quella per il raggiungimento degli obiettivi che l’Agenzia si era data per il suo primo anno di vita. Fra questi: raccogliere l’eredità della struttura che l’aveva preceduta – la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, o Dgcs, del ministero degli Esteri – a cominciare dagli oltre mille progetti in corso, riscrivere le procedure, gestire il passaggio fra due sistemi di contabilità differenti, attivare le sedi estere, erogare almeno la metà dei fondi messi a disposizione della cooperazione che ammontavano a poco meno di mezzo miliardo di euro.

In effetti, molti obiettivi sono stati raggiunti e in alcuni casi superati – sempre secondo la relazione annuale, i fondi erogati, ad esempio, sono stati più della metà, e cioè oltre il 60 per cento – ma su altri resta molto da fare.

Segnali contraddittori

La sensazione complessiva è che, pur rappresentando l’Agenzia – così come tutta la riforma della cooperazione – un passo in avanti significativo ed epocale, il sistema Italia digerisca solo molto lentamente il nuovo e maggiore peso che, sulla carta, si è deciso di dedicare alla cooperazione allo sviluppo. Gli esempi di queste opposte spinte sarebbero numerosi ma alcuni, forse, rendono l’idea più concretamente di altri.

Il primo riguarda il personale dell’Agenzia, che ha un’importanza fondamentale per raggiungere la piena operatività. E questo personale a marzo 2017 non era ancora al completo. Dei duecento funzionari previsti per le sedi in Italia (Roma e Firenze), sessanta non erano ancora stati reclutati. Solo a novembre 2016 un emendamento alla legge di bilancio ha aumentato il Fondo per il pubblico impiego in modo da permettere all’Agenzia di bandire il concorso per l’assunzione dei sessanta tecnici. Di questi, spiegava il responsabile delle relazioni istituzionali, internazionali e della comunicazione dell’Agenzia Emilio Ciarlo su Vita.it la scorsa estate, «20 dovrebbero provenire dall’amministrazione pubblica e i 40 restanti dal di fuori, con una formazione universitaria nel settore della cooperazione allo sviluppo e con quattro o cinque anni di esperienza professionale in un’Ong o un organismo internazionale». Un’iniezione di giovani competenti e motivati, insomma, che dovrebbe dare una spinta decisiva all’Agenzia.

Ma, un anno dopo la sua nascita – il 4 gennaio 2016 – l’Agenzia mancava pure di buona parte dei suoi dirigenti. Lo ha ricordato su Onuitalia.com il consigliere politico della rete di Ong Link 2007, Nino Sergi: oltre ai sessanta funzionari di cui sopra, mancavano all’appello ancora buona parte dei livelli dirigenziali. I dirigenti, infatti, dovrebbero essere diciotto mentre a febbraio 2017 erano solo otto. «Si tratta, in fondo, di poche persone», sottolinea Sergi, «ma indispensabili al funzionamento dell’Agenzia che, così limitata, continua a vivere in un comatoso limbo che solo le buone volontà stanno tenendo in vita».

Il secondo elemento è lo «scomparso» illustre dell’organigramma della cooperazione, come sottolinea ancora Sergi: il Cics (Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo), organo di cui fanno parte il presidente del Consiglio e la stragrande maggioranza dei ministri. Si è riunito una volta sola, nel 2015 e, secondo un tweet di Mario Giro, viceministro degli esteri, anche una seconda volta il 23 marzo 2017: «Approvato il doc. triennale: +attori +azione comune». Due volte in venti mesi non sono molte per un organo cui la legge 125/2014 attribuisce un compito fondamentale, quello di coordinare tutte le attività di cooperazione allo sviluppo e assicurare che le politiche nazionali siano coerenti con i suoi fini.

Perché il Cics è importante? Per dirla in maniera estremamente semplificata: perché, se funzionasse come dovrebbe, impedirebbe alle politiche pubbliche di disfare quello che la cooperazione fa.

La cooperazione italiana viene da lunghi anni di subalternità e di risorse limitate; un coordinamento costante con gli altri centri decisionali del governo e un organico dell’Agenzia completo nei livelli dirigenziali, giovane e preparato nei comparti tecnici, sono elementi indispensabili perché gli interventi siano efficaci. Per questo ogni rallentamento su questi aspetti rischia di svuotare nei fatti la legge e il tipo di cooperazione che essa intende realizzare.

Il colpo di mano dell’8×1000

Sempre in tema di segnali contrastanti, è del marzo scorso la notizia dell’approvazione del cosiddetto emendamento Realacci in Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera. L’emendamento stabilisce che per i prossimi dieci anni la quota di otto per mille che i contribuenti assegneranno allo Stato andrà tutta per il recupero dei beni culturali danneggiati dal terremoto in centro Italia.

«Finisce con questo colpo di mano», commenta un post sul blog info-cooperazione, «la possibilità di impiegare una parte del fondo 8×1000 alla “fame nel mondo”, una quota che a singhiozzo negli anni aveva co-finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo delle Ong italiane soprattutto in Africa. L’ultima approvazione di progetti risale al 2014, anno in cui con circa 6 milioni di euro furono cofinanziati 40 progetti. Non è chiaro se il decreto appena approvato andrà a intaccare anche la quota dell’otto per mille assegnata all’Agenzia per la Cooperazione allo sviluppo. A decorrere dall’anno 2015 infatti, una quota pari al 20% del fondo 8×1000 a gestione statale è stata destinata a finanziare le attività dell’Aics».

La riforma del Terzo Settore

Un anno fa la riforma del Terzo Settore (o settore di chi si impegna nel sociale senza scopi di lucro – no profit) è diventata legge, la 106/2016, e il primo dei provvedimenti attuativi è stato approvato a febbraio scorso: si tratta del decreto legislativo che istituisce il servizio civile universale, ora aperto a cittadini italiani, europei e stranieri regolarmente soggiornanti in Italia di età compresa fra i 18 e i 28 anni. Nelle parole del direttore di Vita.it, Riccardo Bonacina, nel giugno 2016, la riforma poteva essere più coraggiosa nell’innovare, ma è «la miglior legge possibile» date le circostanze e permette quantomeno di realizzare tre sogni: in primis quello di un «pavimento civilistico» che oltre a definire che cosa sia il Terzo Settore «rende possibile una legislazione unitaria, un Codice unico del Terzo settore e un Registro unico, un Organismo di rappresentanza istituzionale. Basta con i 300 registri (nazionali, regionali, provinciali), il Terzo settore ha bisogno di semplificazione e i cittadini di trasparenza».

La riforma comunque ha ricevuto anche diverse critiche. A cominciare da quelle mosse alla Fondazione Italia Sociale, organismo che la legge 106 istituisce «con lo scopo di sostenere […] la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del Terzo settore, caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con un elevato impatto sociale e occupazionale e rivolti, in particolare, ai territori e ai soggetti maggiormente svantaggiati».

Presidente della Fondazione è Vincenzo Manes, imprenditore, finanziere, filantropo e consigliere dell’ex premier Matteo Renzi. Manes stesso l’aveva definita «Iri del sociale», rievocando la spinta modernizzatrice che l’Istituto per la ricostruzione industriale ebbe negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento; ma c’è chi vede la Fondazione come un ente di cui si poteva fare a meno e chi lo liquida come un favore a un amico dell’ex primo ministro.

Ma Italia Sociale non è il solo aspetto a suscitare perplessità. Il Comitato piemontese Volontariato 4.0 in un documento del febbraio scorso attribuiva alla legge 106 lo stravolgimento dei Centri di Servizio per il Volontariato che, avendo a disposizione le stesse risorse del passato, dovranno ora assistere molti più fruitori, cioè «tutti i soggetti del no profit, associazioni di promozione sociale, cooperative, holding della solidarietà». Il Comitato punta il dito anche contro lo sdoganamento di un «volontariato liquido e ibrido, senza identità, senza appartenenza, senza forza rappresentativa, temporaneo ed occasionale» che arriva a «istituzionalizzare lo status di volontario singolo», non legato cioè a una realtà associativa.

Gli altri decreti attuativi, dopo quello sul servizio civile, dovrebbero essere inviati alle Camere entro il 15 di questo mese, almeno stando a quanto dichiarato a marzo da Luigi Bobba, sottosegretario al ministero del Lavoro. Seguiranno poi i commenti delle commissioni parlamentari e la possibilità di fare decreti correttivi entro un anno.

L’Europa fra cooperazione e migrazioni

Di altro tipo di volontariato parla invece Silvia Costa, eurodeputata del Pd, presidente della Commissione cultura e istruzione al Parlamento europeo e firmataria di una risoluzione sul Servizio volontario europeo (Sve), il programma di volontariato internazionale finanziato dalla Commissione europea e rivolto a giovani fra i 17 e i 30 anni. A questi ragazzi lo Sve offre l’occasione di prestare servizio in progetti in ambito umanitario, educativo, sociosanitario, culturale, sportivo per un periodo che va dalle tre settimane ai dodici mesi. In vent’anni ha visto la partecipazione di centomila giovani: dei cinquemila ragazzi che partono ogni anno, uno su cinque è italiano.

«Chiediamo alla Commissione europea», ha detto Costa dopo l’approvazione della risoluzione, «di definire finalmente un quadro giuridico europeo che definisca le attività e lo status di volontario per agevolare la mobilità europea e internazionale, nonché il riconoscimento delle competenze, sia nello Youth passaport che nell’Europass (strumenti per armonizzare la descrizione delle competenze dei cittadini all’interno dell’Unione, ndr)».

Quanto alle strategie per lo sviluppo, ne «Lo stato dell’Unione 2016» la commissione ha annunciato un nuovo il Piano europeo per gli investimenti esterni (Pie). «Lo strumento», si leggeva nel comunicato stampa del settembre scorso, «consentirà di stimolare gli investimenti in Africa e nei paesi del vicinato dell’Ue, in particolare per sostenere le infrastrutture economiche e sociali e le Pmi (Piccole e medie imprese, ndr), mediante la rimozione degli ostacoli agli investimenti privati». Il contributo previsto è di 3,35 miliardi di euro, che andranno a sostenere «le garanzie innovative e strumenti analoghi a copertura degli investimenti privati». Secondo la Commissione, questi 3,35 miliardi dovrebbero riuscire a mobilitare fino a 44 miliardi di euro d’investimenti e l’importo potrebbe raddoppiare se gli stati membri e gli altri partner contribuiranno con un finanziamento equivalente.

L’iniziativa è certamente in linea con la Comunicazione 263 del 2014, in cui la commissione ricordava che il settore privato fornisce il novanta per cento dei posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo e che questo lo rende un partner essenziale nella lotta alla povertà. Altrimenti detto: se non si coinvolge il settore profit nello sviluppo non si va da nessuna parte.

Concord, la rete europea delle ong, ha tuttavia avanzato alcuni dubbi circa il Pie: «Il piano – si legge fra le raccomandazioni inviate alla Commissione – deve essere sganciato dalle politiche di controllo delle migrazioni e dagli obiettivi di breve termine della politica estera europea e non può dare per scontato che la crescita economica – in termini di punti di Pil – implichi automaticamente la creazione di posti di lavoro, e meno ancora di lavoro dignitoso e sostenibile».

L’effetto Trump sullo sviluppo

Con i loro 31 miliardi di dollari all’anno (nel 2016), gli Stati Uniti sono il secondo donatore al mondo dopo l’Unione europea per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo, il primo se si considerano gli Stati europei singolarmente. Ovvio che la proposta di budget dell’amministrazione guidata da Donald Trump fosse attesa con una certa apprensione nel mondo della cooperazione. E lo scorso 16 marzo le proposte presidenziali sono state rese pubbliche: Trump ha proposto per il Dipartimento di Stato e l’agenzia Usaid, gli enti governativi che gestiscono il grosso dell’aiuto, un budget di 25,6 miliardi di dollari, con un taglio pari al 28 per cento.

Altri tagli proposti sono al contributo alle Nazioni Unite – attualmente gli Usa ne sono il principale donatore, coprendo oltre un quinto dei 5,4 miliardi di dollari del budget Onu e quasi un terzo dei 7,9 miliardi per le operazioni di peacekeeping – e agli enti finanziari multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale.

Il presidente statunitense ha inoltre intenzione di staccare la spina a tutto ciò che riguarda la lotta al cambiamento climatico – eliminando la U.S. Global Climate Change Initiative e bloccando i pagamenti ai programmi delle Nazioni Unite in questo ambito – e di riorganizzare Dipartimento di Stato e Usaid, forse accorpando la seconda al primo, ipotizza qualcuno. Sopravvive invece la dotazione di risorse per il Fondo presidenziale di emergenza per la lotta all’Aids (Pepfar) e per il Fondo globale per la lotta a HIV/Aids, tubercolosi e malaria.

Rimane da vedere quante di queste proposte il Congresso effettivamente accoglierà; ma l’opinione pubblica mondiale ha già potuto farsi un’idea di come si traduce lo slogan «America first» in termini di fondi per lo sviluppo.

Chiara Giovetti

 




I perdenti 24: Don Jerzy Popieluszko


Don Jerzy (Giorgio) Popieluszko nacque il 14 di settembre 1947 a Okopy, provincia di Bialystok, in Polonia. Dopo gli studi teologici fu ordinato sacerdote dal cardinale Stefan Wyszynsky il 28 maggio 1972 a Varsavia. Destinato alla parrocchia di San Stanislao Kostka, oltre al lavoro parrocchiale, cominciò a svolgere il suo ministero tra gli operai organizzando conferenze e incontri di preghiera aperti a tutti. Durante le giornate visitava gli ammalati e assisteva i poveri e gli emarginati della società polacca. Insieme a don Teofilo Bogucki celebrava delle messe mensili nelle cui omelie sviluppava ampie riflessioni commentando anche la drammatica situazione che in quegli anni viveva la sua amata patria.

Il 19 ottobre 1984 di ritorno da un servizio pastorale venne rapito nei pressi di Torum da tre funzionari del ministero dell’Interno che lo pestarono a sangue e infine lo uccisero. La sua tomba, che oggi si trova accanto alla chiesa di San Stanislao Kostka a Varsavia, è meta continua di pellegrinaggi di fedeli provenienti da tutta la Polonia e dal mondo intero.

Il 14 giugno 1987 il suo conterraneo papa Giovanni Paolo II, durante una visita in Polonia, ha pregato lungamente sulla sua tomba. Il 6 giugno 2010 è stato beatificato da Benedetto XVI.

Caro padre Jerzy, vorrei iniziare la nostra chiacchierata con una domanda un po’ scomoda: è vero che avevi un carattere piuttosto pepato, o sbaglio?

Sì, è vero. A 19 anni mi accusavano di avere un carattere e un atteggiamento «ribelle», nonostante fossi (credo) un buon seminarista. Certo per un prete nella Polonia comunista di quel tempo non era proprio un bel biglietto da visita. Pensa che durante il servizio militare (obbligatorio allora anche per i chierici studenti di teologia) le provarono tutte con lo scopo di «farmi cambiare idea», ma nonostante il continuo lavaggio del cervello a cui fui sottoposto non riuscirono a spegnere la mia vocazione né a piegare la mia ferma volontà di diventare sacerdote.

Fosti ordinato da quella splendida figura dell’Episcopato polacco che fu il cardinale Stefan Wyszy?ski, vero?

Venni ordinato sacerdote nel 1972 dal cardinal Wyszy?ski, il quale per alcuni anni mi incaricò di seguire la pastorale giovanile in diverse parrocchie della diocesi di Varsavia. Il fatto di dedicarmi totalmente ai giovani, di mettermi a totale disposizione soprattutto degli studenti universitari, avrei scoperto più avanti, lasciò una traccia indelebile nel loro animo negli anni della loro formazione e alla fine riuscii anche a stabilire con molti di essi un «filo diretto», che con il passare del tempo avrebbe dato i suoi frutti.

Insomma sia pur restando un prete scomodo e di poche parole, ti riscaldavi e ti trasformavi in testimone cristallino del Vangelo quando venivi a contatto con i giovani. Avevi la rara qualità di stabilire subito con loro un dialogo franco e leale che andava dritto al cuore. 

Per questo mio modo di fare, nel giugno 1980 venni destinato alla parrocchia di san Stanislao Kostka come coordinatore della pastorale giovanile della zona sul cui territorio era impiantata la grande acciaieria «Huta Warszawa».

Don Jerzy Popie?uszko accompagna il vescovo Zbigniew Kraszewski nella visita delle acciaierie di Huta Warszawa, maggio 1981

E fu proprio lì che la tua vita sacerdotale prese una direzione ben precisa.

Il 28 agosto di quell’anno il primate di Polonia cardinal Wyszy?ski, mi chiese di andare dagli operai dell’acciaieria in sciopero che chiedevano un sacerdote per la messa: di colpo mi trovai catapultato nella realtà dei metalmeccanici polacchi e dopo qualche tempo divenni il cappellano del sindacato Solidarno??.

La Provvidenza ti aveva dunque spalancato i vasti orizzonti dell’effervescente mondo operaio della tua terra.

Oltre a svolgere il lavoro parrocchiale mi ritrovai di colpo gomito a gomito con gli operai metalmeccanici, che con le loro richieste non solo salariali ma anche di una maggiore democrazia nel paese, erano l’autentica spina nel fianco del regime comunista polacco.

Quindi che strategia pastorale mettesti in atto per far fronte a questa nuova realtà?~

Incominciai organizzando conferenze, incontri di preghiera, assistendo con la mia presenza le famiglie degli ammalati cronici, facendo visita alle famiglie che avevano un loro congiunto in carcere e a quelle dei perseguitati politici. Insieme al mio parroco iniziai a celebrare mensilmente un’Eucaristia per l’amata patria polacca, che arrivò ad avere oltre un migliaio di persone: operai, intellettuali, artisti e anche gente lontana dalla fede. 

Questo tuo andare «verso le periferie», il diventare «ponte» con tutte le categorie di persone della tua parrocchia non fece venire qualche sospetto alle autorità comuniste nei tuoi confronti?

Certamente, mi tenevano d’occhio, me ne accorsi subito perché di colpo aumentarono le telefonate anonime con frasi minacciose più o meno velate al mio indirizzo, venne persino gettato un ordigno esplosivo nella mia camera da letto, per fortuna mentre non ero in casa.

E gli operai dell’acciaieria «Huta Warszawa» e il sindacato Solidarno??, come reagirono a queste provocazioni del regime nei tuoi confronti?

Ci fu una stupenda risposta corale da parte degli operai che si organizzarono fra loro per offrirmi una scorta composta tutta da metalmeccanici volontari, che mi accompagnasse nei miei vari spostamenti.

Però eri anche spiato e seguito in ogni tuo movimento da persone di ben altro genere.

Ogni volta che mi muovevo da casa ero pedinato e ogni mio discorso, comprese le omelie, veniva registrato. Agenti in borghese si celavano tra quanti ascoltavano le mie prediche. Purtroppo (e questo mi fu causa di una profonda amarezza) tra i miei più fidati collaboratori, un sacerdote e ben quattro laici, sarebbero risultati informatori della polizia!

Eppure non una tua sola parola, e neppure un tuo singolo gesto, veniva preso come un invito alla ribellione alle autorità dello stato o una incitazione alla violenza.

Nelle mie omelie mi limitavo a chiedere per il popolo polacco il rispetto elementare delle libertà civili e, dopo la sua soppressione, il ripristino del sindacato libero Solidarno??. In più affermavo continuamente che, poiché ci era stata tolta la libertà di parola, era più che mai necessario ascoltare la voce del nostro cuore e della nostra coscienza per vivere nella verità dei figli di Dio e non nelle menzogne imposte dal regime comunista.

Con molta astuzia avevi elaborato per le tue omelie un linguaggio che arrivava dritto alle coscienze, secondo il detto evangelico «chi ha orecchie per intendere… intenda!».

Difatti non concludevo mai le «messe per la patria» senza chiedere ai fedeli di pregare «per coloro che sono venuti qui per dovere professionale», mettendo così in forte imbarazzo gli agenti del servizio di sicurezza che erano presenti al solo scopo di registrare le mie omelie.

In ogni caso con il passare del tempo sei stato sottoposto ad angherie di ogni genere…

Visto che la mia predicazione era chiara ed efficace e il mio ascendente andava sempre più aumentando tra la gente, venni arrestato in più riprese, interrogato per ben tredici volte dalla polizia, poi fui sottoposto ad una continua sorveglianza. Il cardinale Józef Glemp per alleviare un poco questa situazione mi propose di «cambiare aria» e di trasferirmi per qualche tempo a Roma. Pur apprezzando la proposta rifiutai, perché dentro di me sentivo che come pastore non potevo abbandonare il mio gregge. Il mio posto era con i miei operai, con le loro famiglie e con la mia gente nella amata e benedetta terra di Polonia.

Altra immagine di don Jerzy Popie?uszko con il vescovo Zbigniew Kraszewski nelleaccaierie di Huta Warszawa, Maggio 1981

Don Jerzy durante la sua ultima celebrazione religiosa del 19 ottobre 1984 invitò a chiedere al Signore di essere liberi dalla paura, dal terrore, ma soprattutto dal desiderio di vendetta: «Dobbiamo vincere il male con il bene e mantenere intatta la nostra dignità di uomini, per questo non possiamo fare uso della violenza». Alcune ore dopo venne sequestrato da tre membri del servizio di sicurezza polacco: lo ritroveranno «incaprettato», il successivo 30 ottobre, nel lago di Wloclawek e scopriranno che gli avevano rotto la mandibola e sfondato il cranio a manganellate.

«Infondeva coraggio ai fedeli, non sobillava rivoluzioni», affermò il Cardinale Glemp, Arcivescovo di Varsavia, riconoscendo che don Jerzy non aveva «mai oltrepassato le sue competenze di sacerdote e neppure ridotto la Chiesa e il suo messaggio di salvezza a strumento di lotta politica». La gente di Polonia lo aveva già capito da un pezzo: sia il mezzo milione di persone che partecipò al suo funerale, sia i venti milioni di pellegrini che in questi anni si sono inginocchiati davanti alla sua tomba. La Chiesa Universale lo ha proclamato Beato nel 2010, alla presenza della sua anziana mamma.

Don Mario Bandera




In mezzo al dramma della storia

Ti accorgi che è passata già un’ora da quando ti eri detto «ora spengo e vado a letto». Da un post di Facebook sulle fake news, sei finito nella pagina di un’Ong che opera in Siria, e da un articolo di quel sito sei passato a leggere della guerra in Sud Sudan, e della carestia che affama alcune zone della Somalia. Ti sei ricordato di un amico che l’anno scorso era stato da quelle parti e l’hai cercato tra i tuoi contatti. Il suo ultimo post era una battuta velenosa rivolta a chi si fida delle promesse dei populisti. Hai letto alcuni commenti in cui il tuo amico veniva insultato o preso in giro o elogiato.

Tutte queste situazioni di cui leggi ti mettono ansia: cosa fare davanti alla confusione, alla violenza, alla morte? E ti tornano in mente le parole del papa per la giornata delle comunicazioni sociali lette poco prima. Una frase parlava delle «persone che si lasciano condurre dalla Buona Notizia in mezzo al dramma della storia». Il dramma della storia. Della tua e di quella del mondo.

Ti aveva colpito l’idea che la buona notizia sta nel mezzo del dramma. Non prescinde, non risolve, non elimina il dramma: ci sta dentro affrontandolo da un’angolatura diversa. Ti piacciono queste parole, e ti turbano anche, perché non negano la natura brutale del male del mondo, non ne sminuiscono la portata promettendo l’aldilà, e non offrono soluzioni semplici come alcuni uomini o regimi hanno fatto in passato, e altri fanno oggi. «Questa buona notizia che è Gesù stesso non è buona perché priva di sofferenza, ma perché anche la sofferenza è vissuta in un quadro più ampio, parte […] del suo amore per il Padre e per l’umanità».

Chiudi tutto, tranne l’app della Bibbia: nel titolo del suo messaggio il papa cita Isaia 43. Lo cerchi, lo leggi e lo rileggi. La tua vita e il mondo sono come un fiume in piena, tu sei lì che tenti di attraversarlo su una barca precaria e senti la Sua voce dire: «Se dovrai attraversare le acque, sarò con te […]. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo».

Ti metti giù, spegni anche la luce.

Luca Lorusso




Quel diavolo di Maradona


Campione assoluto sui campi di calcio, nella vita privata il giocatore argentino ha sofferto di grandi fragilità, come la sua (passata) dipendenza dalla coca. Amico di Fidel, politicamente si è sempre schierato tra i progressisti. Anche in questo Maradona non è e non è mai stato un uomo comune.

Con Diego Armando Maradona, el Pibe de Oro, ho avuto un rapporto speciale fin dal suo arrivo in Italia. Aveva già un manager e un ufficio stampa personali consci di quello che lui rappresentasse per il calcio mondiale e anche per il costume del nostro tempo. Così fin dalla sua prima stagione in Italia (1984-1985) potei proporre a la Repubblica, con la quale collaboravo, un’intervista che non fosse solo calcistica, ma toccasse argomenti meno banali.

Mi sorprese subito la sua franchezza. Non aveva paura di esporsi. Già allora aveva idee precise anche sulla politica: era un simpatizzante progressista.

La nostra confidenza crebbe rapidamente nei suoi primi due anni a Napoli quando ancora non era palese, per il valore medio della squadra, che la sua sola presenza in campo avrebbe mutato radicalmente gli equilibri non solo del Napoli, ma di tutto il calcio del campionato italiano.

La nostra amicizia si rafforzò ai mondiali di Messico 1986 che – non è un’esagerazione – Diego vinse praticamente da solo con il famoso «gol del secolo» (7 giocatori dell’Inghilterra dribblati in una sola azione) e con i due in semifinale contro il Belgio dove esaltò le sue capacità di equilibrio e di dribbling oltre ogni immaginazione.

Ho una fotografia con lui sui gradoni del centro sportivo del Club America, a Città del Messico, dove l’Argentina passava allora parte del ritiro. Era l’impianto di proprietà di Emilio Azcarraga, magnate di Televisa, la televisione privata messicana partner della Fifa nell’organizzazione di quel mondiale. In quell’occasione, Diego mi confessò l’esigenza ormai impellente per il Napoli e per le sue ambizioni di lottare per lo scudetto nel campionato italiano che frequentava da 2 anni.

Era evidentemente un’esigenza dettata dagli 80mila spettatori che riempivano con continuità lo stadio di Fuorigrotta ed erano pronti per un riscatto della città.

Maradona fu profeta: la stagione successiva, rinforzato da Carnevale e De Napoli, il Napoli, allenato da Bianchi, vinse lo scudetto, il primo della sua storia e la vittoria della squadra di calcio ebbe un dichiarato significato sociale.

Tanto che Rai Uno mi chiese di inventare e condurre quella «notte magica» alla quale parteciparono tutti i rappresentanti della musica popolare e del teatro della città: da Renzo Arbore a Pino Daniele, riuniti all’auditorium della Rai stessa in una festa per lo scudetto presentata insieme a Lina Sastri e rimasta memorabile: «O mamma mamma mamma. Sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona, ho visto Maradona. Eh mammà innamorato son!». Il centro della città rimase ostruito fino a notte inoltrata. Sulle mura del cimitero la mattina dopo comparve una scritta: «Che ve siete perso».

Napoli si scrollava di dosso, per qualche tempo, i suoi dubbi, le sue contraddizioni, le speranze non rispettate. Grazie al dio Maradona la squadra vinse la coppa Italia (1987), una coppa Uefa (1989) e infine un secondo scudetto (1990). Furono gli anni nei quali Maradona sottrasse, a nome del Napoli, il predominio del calcio ai grandi club del Nord, anche politicamente. E fu evidentemente un atto imperdonabile. Purtroppo però quelli furono anche gli anni nei quali Diego si perse e con lui il Napoli e le sue speranze. Fu un concorso di accadimenti negativi. Maradona, eroe in campo, era fragile nella sua vita privata. Conscio di questa situazione avrebbe voluto accettare l’offerta di un calcio più tranquillo, come quello francese propostogli da Tapie, presidente del Marsiglia, ma il rifiuto del presidente napoletano Corrado Ferlaino (nonostante una sua precedente promessa) lo lasciò disorientato. Così una mattina all’alba andò all’aeroporto di Fiumicino con la sua famiglia e letteralmente si sottrasse all’assedio mediatico ed economico di cui era diventato prigioniero.

Ho condiviso di persona la sua fragilità di quegli anni, ma anche le ultime prepotenze subite durante Italia ’90 (come le partite dell’Argentina programmate sotto il solleone o gli arbitraggi discutibili che avevano fatto presagire un trattamento ostile verso la nazionale albiceleste).

Quel 3 luglio 1990, allo stadio napoletano di San Paolo, metà del pubblico tifava per l’Italia e l’altra per lui. Aveva guidato un’Argentina modesta alla semifinale contro l’Italia e mi piace ricordare che ancora una volta fu con me sincero e onesto: «Se ce la facciamo pure oggi giuro che ti vengo ad abbracciare al sottopassaggio degli spogliatorni». Fu di parola, anche perché il penalty risolutivo della lotteria dei rigori toccò a Diego stesso. Mi precipitai con la troupe nel sottopassaggio, ma non ce ne era bisogno. Maradona, ancora in maglietta e scarpini da calcio, era già lì e mi aspettava con un sorriso beffardo. I giornalisti argentini lo videro passare e rifiutare l’offerta del loro microfono. Quelli italiani si sentirono solo dire: «Ho un appuntamento con Minà». Qualcuno protestò. Intanto il telegiornale chiedeva la linea. Mi fermarono e allora io suggerii a Maradona di rispondere a due domande del collega Giampiero Galeazzi. Poi attesi per avere la disponibilità della saletta. «Non c’è problema, aspettiamo», disse Diego. Non sapeva ancora che cinque giorni dopo l’arbitro messicano Codesal – su sollecitazione, nemmeno tanto nascosta, del presidente brasiliano della Fifa Havelange -, gli avrebbe negato la vittoria nella finale, inventandosi un rigore inesistente (tirato da Brehme) e regalando il mondiale alla Germania del commissiario tecnico Beckenbauer.

Per Maradona cominciarono gli anni bui. Qualche contratto frutto della sua fama (come con il Siviglia o il Boca Juniors, il club del suo cuore) lo aveva fatto sopravvivere ai suoi incontri con la cocaina. Da questa dipendenza è uscito con un grande sacrificio curandosi per mesi a Cuba (inizi del 2000), dopo un invito personale del presidente Fidel Castro che aveva spiegato: «Questo ragazzo che ha dato tanto al football e all’allegria dei tifosi di questo sport è venuto a chiedere aiuto per la sua salute. Stupisce che pochi gli abbiano voluto dare una mano. Visto che non ci ha pensato il mondo del mercato, lo facciamo noi».

Maradona rimase a Cuba per molte settimane e riuscì a disintossicarsi. Il Comandante Fidel lo andava a trovare spesso. Chiacchieravano molto e mi piace pensare che il suo impegno politico, vivo da tempo, sia maturato in quella stagione difficile. Diego, unico fra i grandi calciatori e atleti, aveva avuto il coraggio di esprimersi in politica mettendo la faccia in eventi mondiali. Uno di questi era stata la carovana da Buenos Aires a Mar del Plata nel 2005 contro l’«Alca», il modello economico neoliberista che gli Stati Uniti volevano imporre a tutto il continente. In contrapposizione c’era l’«Alba», la neonata associazione dei governi progressisti latinoamericani, ideata dal presidente venezuelano Hugo Chávez assieme a Fidel Castro, ma appoggiata anche da altri leader come il brasiliano Lula, il boliviano Evo Morales e da intellettuali come il premio Nobel per la pace l’argentino Adolfo Pérez Esquivel e il cantautore cubano Silvio Rodríguez. Fu probabilmente quella famosa manifestazione, nata in opposizione al presidente nordamericano Bush, a ribadire l’incomunicabilità fra il campione e gli Stati Uniti.

Dieci anni prima (1994), Diego era stato sospeso, senza possibilità di difesa, dal mondiale americano ufficialmente per aver fatto uso di una pastiglia a base di efedrina, assunta per curare un’influenza. Il vice-presidente latinoamericano della Fifa, Grondona, che era anche il presidente dell’Afa, la Federazione argentina del calcio, non si era affannato nemmeno ad affrontare la sua difesa ritirandolo dalla competizione e togliendo quindi agli Stati Uniti l’imbarazzo di dover giudicare il campione che già volevano eliminare alla vigilia della manifestazione perché pubblico consumatore di cocaina. Un atteggiamento fariseo considerato che gli Stati Uniti hanno più di 10 milioni di consumatori e sono i massimi importatori mondiali di questa droga.

L’odissea di Maradona con la coca finirà nel 2005 con un intervento in Colombia di by-pass gastrico per la riduzione dello stomaco che gli farà perdere più di 40 chili.

È palese che il più grande calciatore mai nato è stato un uomo complesso che spesso non ha saputo levarsi di torno i suoi sfruttatori e il contraddittorio mondo dell’industria del calcio.

Nel 2010, per esempio, dopo i suoi anni burrascosi, fu chiamato a svolgere l’incarico di commissario tecnico della nazionale argentina ai mondiali sudafricani.

Era un risarcimento. Arrivò ai quarti di finale, con la squadra che aveva, buona, ma non eccezionale, malgrado giovani talenti in maturazione come Messi, Di Maria, Mascherano e suo genero Aguero. Così perse contro la Germania, ma invece di elogiarlo i saccenti giornalisti italiani del settore lo riempirono nuovamente di stucchevoli critiche e di insulti. Non solo: per quasi 30 anni Equitalia l’ha perseguitato per frode fiscale chiedendogli una cifra che aumentava ogni anno (per mora, interessi di mora e sanzioni) fino a rasentare i 40 milioni di euro. L’agenzia non accettava l’idea che Diego potesse avere un doppio contratto, uno come calciatore e uno come testimonial pubblicitario, identicamente ai suoi compagni di squadra, i brasiliani Careca e Alemão, e ad altri fuoriclasse come Totti e Del Piero. Perché quello permesso ad altri protagonisti del calcio di casa nostra era, secondo Equitalia, proibito a Maradona? Diego è stato perseguitato in modo sconcertante. Una volta, non tanti anni fa, lo aspettai a fianco di 40 guardie di finanza all’aeroporto di Fiumicino. Forse erano lì perché (finalmente) qualcuno a Equitalia si era accorto di una realtà elementare, cioè che Maradona non aveva mai ricevuto alcuna «comunicazione di reato» (non essendo più residente in Italia), un reato che oltretutto non aveva commesso. C’era probabilmente qualcuno che sul caso Maradona avrebbe voluto far carriera. Ma non ce l’ha fatta. Recentemente – con molti, troppi anni di ritardo – Equitalia ha dovuto riconoscere il suo errore grazie alla testardaggine di Angelo Pisani, avvocato di Scampia e difensore di Maradona. E così quel cocciuto di Diego a breve dovrebbe vedere premiata la sua resistenza.

Quando arrivò per la prima volta in Italia si era limitato a palleggiare davanti a uno stadio zeppo (5 luglio 1984). Molti anni dopo (9 giugno 2005), nella partita di addio al calcio di Ciro Ferrara, dovette trovare scampo nella buca che portava agli spogliatorni per sfuggire al travolgente affetto dei tifosi. Dopo l’omaggio che la città gli ha tributato recentemente (16 gennaio 2017) per iniziativa dell’attore Alessandro Siani che ha affittato il Teatro San Carlo per accoglierlo, è probabile che chi vorrà ancora omaggiarlo dovrà utilizzare lo stadio di Fuorigrotta, terreno compreso.

Intanto ci ha pensato un altro argentino a convocarlo: papa Francesco, per la partita della pace (12 ottobre 2016). Dopo averlo incontrato per una visita assolutamente privata, il papa ha ripetuto una sua massima: «Chi sono io per giudicare qualcuno?». No, Maradona non è mai stato un uomo comune.

Gianni Minà