I Perdenti 28:

Sarajevo: Admira e Bosko

Admira Ismic e Bosko Brkic entrarono per caso nella cronaca di quella sporca guerra che sconvolse l’ex Jugoslavia negli anni Novanta del secolo scorso per divenire i «Giulietta e Romeo di Sarajevo». Essi furono uccisi, mano nella mano, dai cecchini serbi nella «terra di nessuno» che separava la zona musulmana da quella serba nella capitale bosniaca. Era il 19 maggio 1993, la violenza durava già da un anno. Admira era musulmana, Bosko cristiano ortodosso. Entrambi venticinquenni, erano legati da un amore intenso e sincero da quando ne avevano diciassette, nonostante l’odio etnico e confessionale presente in città.

Dopo aver resistito diverso tempo, alla fine Admira e Bosko, che abitavano nella zona musulmana insieme ai genitori di lei, avevano deciso di fuggire trasferendosi provvisoriamente nel sobborgo serbo di Grbavica, per salutare i genitori di Bosko e con l’intento di abbandonare poi la Bosnia.

I loro corpi abbracciati nei pressi del ponte di Vrbanja che unisce le sponde del torrente Miljacka, abbandonati al sole per otto giorni, perché non si riusciva a ottenere l’assenso dei belligeranti a un cessate il fuoco che ne consentisse il recupero, divennero il simbolo della tragedia bosniaca.

Una volta recuperati dai serbi, i loro corpi furono seppelliti sbrigativamente sulle colline. Soltanto tre anni dopo trovarono riposo fianco a fianco nel cimitero di Sarajevo.

Proprio di fronte alle loro tombe, al di là del muro di cinta del camposanto, c’è il caffè dove i due si erano incontrati e avevano trascorso ore sognando un amore lontano dalle bombe e dall’odio.

La loro storia continua a ricordarci come l’amore sia più forte della morte.

Bosko, come mai, mentre tutti scappavano, tu hai deciso di andare a vivere nella parte musulmana di quella città dilaniata dall’odio?

Bosko: lo decisi per stare accanto a lei, la ragazza che amavo più della mia vita. Se me ne fossi andato anche io, non so se l’avrei ritrovata al mio ritorno, e chissà quando sarebbe avvenuto un ritorno.

Tu serbo-bosniaco, tu bosniaca. Tu cristiano ortodosso, tu musulmana. Come vi siete conosciuti?

Bosko e Admira: nella maniera più semplice, comune a tanti giovani del mondo, ovvero incontrandoci in un bar della nostra città. Tra una bibita e una chiacchierata avevano cominciato una relazione d’amore molto bella benché impossibile in un paese che cominciava ad essere percorso dall’odio etnico.

E pensare che Sarajevo, comunità cosmopolita da secoli, era famosa per la sua capacità di integrare le varie componenti etniche creando le condizioni per una tolleranza che era d’esempio a molte altre città…

Bosko e Admira: fino all’inizio dei conflitti che hanno messo una contro l’altra le varie nazionalità che componevano l’ex Jugoslavia, le diverse comunità etniche erano abituate da tempo a vivere una acconto all’altra. Forse la forte personalità, anche in campo internazionale, del maresciallo Tito aveva contribuito a fare da collante in un paese sorto dalle ceneri della guerra, assemblando popoli di lingua, religione e cultura diverse.

Difatti i guai cominciarono dopo la sua morte…

Bosko e Admira: proprio così, la nostra società incubava da tempo i germi del nazionalismo e del razzismo, basati su una presunta superiorità culturale di una sola componente etnica a scapito delle altre. In un paese attraversato da una crisi economica che si trascinava da tempo, con la morte del maresciallo Tito, venuto meno l’uomo che con mano ferma aveva guidato la lotta di resistenza al nazifascismo e garantito il distacco dall’Unione Sovietica, questi germi attecchirono fra la gente, specialmente negli strati più emarginati della popolazione.

E così da modello di convivenza fra popoli diversi, la vostra terra divenne un campo di battaglia.

Bosko e Admira: la cosa che più fece impressione, fu che dall’oggi al domani nessuno più si fidava dell’altro, meno che meno se apparteneva a un gruppo etnico-religioso diverso dal proprio, cominciò a serpeggiare fra la gente una specie di ostilità verso coloro che non appartenevano al proprio «clan», e ben presto gli eserciti dei vari stati cominciarono a spararsi contro per delimitare i «propri» confini e proibire così ad altri di entrare.

Per voi una cosa del genere era inaccettabile, vero?

Bosko: sì, e per uscire da quella situazione avevo preparato tutte le carte necessarie a partire. Insieme ad Admira avevamo deciso di lasciare Sarajevo.

Vivevamo nella casa dei genitori di Admira, nel settore musulmano. Il progetto era di andare dai miei, nel quartiere serbo, stare un po’ con loro e poi finalmente partire. Ma bisognava passare il torrente Miljackail, che divide la città, passando sul ponte Vrbanja, una vera strozzatura e passaggio obbligatorio. Decidemmo di tentare il tutto per tutto, il 18 maggio 1993. Ma un cecchino mi colpì con una pallottola alla testa, ponendo fine alla mia vita. Anche Admira fu colpita, ma non morì subito. Con le ultime forze, Admira si trascinò fino a me e mi abbracciò. Restammo otto lunghi giorni in quel tragico abbraccio d’amore.

Un abbraccio pieno d’amore scambiato sulla soglia dell’eternità…

Bosko e Admira: colpiti dalla violenza cieca dei nostri compatrioti, ce ne andammo da questo mondo pieno di odio e, abbracciati come due semplici innamorati, entrammo insieme nel Regno della Pace.

Ci piace immaginare che gli Angeli e i Santi vi abbiano accolto in Paradiso con le parole conclusive del Cantico dei Cantici, dove l’amata dice all’amato: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore».

Bosko e Admira: proprio così, il Dio della tenerezza e dell’amore ci accolse fra le sue braccia e ci coprì con il mantello della sua misericordia.

 I corpi esanimi dei due moderni Giulietta e Romeo rimasero sotto il sole di maggio per otto lunghi giorni prima che una tregua concordata tra le parti belligeranti ne potesse consentire il recupero e dare loro una degna sepoltura. Alla cerimonia funebre di tre anni dopo erano presenti i membri delle due comunità, musulmani e serbo-bosniaci uniti dalla testimonianza d’amore dei loro figli.

«Se avessero avuto una visione fanatica della religione, non si sarebbero mai messi insieme», disse in quell’occasione il padre di Admira. Il loro resta un prezioso messaggio della religione dell’amore che quando è vissuta coerentemente fino in fondo sconfigge l’odio e fa trionfare sempre la pace. L’immagine dei due corpi abbracciati a terra fece il giro del mondo, e ancora oggi rappresenta un’icona dell’amore che va oltre alle differenze di razza e di religione. Un insegnamento per tutte le nazioni del mondo sempre più vittime di nazionalismi emergenti ed egoismi locali, che poi sono le stesse ragioni che hanno disintegrato lo stato jugoslavo.

La guerra è terminata da tempo e l’autodeterminazione dei popoli balcanici ha favorito la nascita di ben sei nuovi stati sovrani sul territorio della ex Jugoslavia. L’insegnamento e la testimonianza dei due giovani innamorati di Sarajevo appare oggi più significativa ed attuale che mai.

Don Mario Bandera




Amico: capire col cuore


Sentivi ancora le sue dita sui tuoi piedi. Quelle dita che avevano scacciato demoni, risuscitato morti, moltiplicato pani. Eri confuso e frastornato. La giornata densa di eventi, gesti e parole annunciava qualcosa che non capivi e che temevi.

Lui parlava al vostro cuore con il tono del congedo, e quando ha detto «dove vado io voi non potete venire» – dopo tre anni che lo seguivate ovunque -, siete rimasti senza parole. Persino Pietro, forse ferito, rapito dall’immagine di un gallo che canta.

«Non sia turbato il vostro cuore – ha poi aggiunto Gesù -. Vado a prepararvi un posto nella casa del Padre» (Gv 14).

Tu ascoltavi senza comprendere. Le sue parole erano chiare, ma anche cariche di un mistero che le rendeva oscure alla tua mente e al tuo cuore. Tre giorni più tardi avresti scoperto che solo i tuoi piedi avevano capito: dopo essere stati lavati da Lui, come un bimbo dalla sua mamma, erano essi a ricevere la sua Parola più delle orecchie. A volte il corpo – e la vita che in esso scorre scambiando con lo Spirito mezze frasi bisbigliate – conosce e comprende prima dell’intelletto.

«Mostraci il Padre», hai detto, tralasciando la vertigine che si spandeva in te e liberando la tua ansia di toccare e soppesare.

Della sua risposta, in seguito, avresti ricordato per lungo tempo solo il suono della sua voce che pronunciava il tuo nome: «Filippo». Il suo invito a credergli, quasi una supplica, lo hai raccolto quando quello stesso suono, la sera del primo giorno dopo il sabato, ha fatto vibrare di nuovo la membrana dei tuoi timpani: «Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».

Ecco. Ciò che i tuoi piedi avevano già conosciuto, ora scoprivi che si era diffuso alla tua intera persona. La Via, la Verità e la Vita abitavano in te e te in loro e loro nel Padre.

E da te si comunicano al mondo.

Buon ottobre missionario da amico,

Luca Lorusso

Leggi tutto il numero nello sfogliabile di Ottobre 2017

Oppure vai il sito di Amico




Cari Missionari: di cattiveria, di preghiera, di Banca Etica e volontariato

XXIV Premio del Volontariato Internazionale FOCSIV 2017

Si riaprono le candidature per le tre categorie del Premio del Volontariato Internazionale 2017.
Entro il 25 agosto sarà possibile candidarsi per le tre diverse categorie del XXIV Premio del Volontariato Internazionale Focsiv 2017: Volontario Internazionale, Giovane Volontario Europeo e Volontario del Sud, un riconoscimento che, in questo caso, può anche premiare gli immigrati che si sono distinti per le attività di co-sviluppo nel proprio paese d’origine oppure persone impegnate nel volontariato nella propria terra.

I premi saranno consegnati il prossimo 2 dicembre, in prossimità della Giornata Mondiale del Volontariato indetta dalle Nazioni Unite per il 5 dicembre.

Il Premio ha ricevuto, al momento, il patrocinio dell’Agenzia nazionale giovani, mentre sono partner Fondazione Missio, Forum nazionale terzo settore, Cei 8×1000, Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo e John Cabot University, accanto ai media partner storici, Famiglia Cristiana, TV2000, Avvenire, Radio Vaticana, Redattore Sociale e Rete Sicomoro. Missioni Consolata, insieme ad altre testate missionarie, sostiene il premio.

Per candidarsi in una delle categorie si potrà scaricare il Regolamento dal sito ed inviare la domanda entro il 25 agosto, allegando brevi video di presentazione, realizzati con la propria organizzazione di appartenenza. Nella seconda fase del concorso questi video potranno essere votati online. Dal sito www.focsiv.it vai alla sezione dedicata al premio.

Ufficio stampa Focsiv

Troppa cattiveria o troppo poca?

Dopo il 33° scudetto bianconero (il sesto consecutivo e anche il sesto della sua gestione…) Andrea Agnelli ha citato la «cattiveria» come uno dei segreti delle vittorie juventine («Passione, umiltà e cattiveria… domani più che ieri», scrive nel suo tweet del 21 maggio 2017) e qualche giorno dopo, commentando la sconfitta nella finale di Champions League con il Real Madrid, ha dichiarato che l’1-4 rimediato contro i galacticos: «Servirà a darci la cattiveria giusta per un altr’anno. L’anno prossimo dovremo andare in campo ancora più cattivi di come abbiamo fatto finora. Questa finale ci deve dare ancora più cattiveria. Cosa ho detto ai giocatori a fine partita? Che dobbiamo ricominciare con la cattiveria di sempre» (citazioni copiate da giornali e pagine web diverse, ndr).

Non credo che questa ostinazione nell’uso della parola «cattiveria» faccia onore al club torinese. Di cattiveria nel mondo del calcio ce n’è anche troppa e anche le persone che vogliono sdoganare la cattiveria sono troppe. Il messaggio che «senza cattiveria non si vince» è pericoloso, sia nel calcio che negli altri sport e soprattutto fuori dello sport. Certi concetti possono essere espressi in modo molto meno ambiguo usando parole come determinazione, coraggio, spirito d’abnegazione, disponibilità al sacrificio, mortificazione personale e molte, molte altre. Distinti saluti.

Silvano Montenigri e Mario Pace
07/06/2017

Svuotare le parole del loro vero significato, far diventare virtù quello che è vizio, non è un’operazione nuova nel nostro mondo. È quanto sta avvenendo con altre virtù importanti. Basta pensare a come sono bistrattate castità, onestà e modestia, per citarne solo alcune, senza poi contare quanto sta succedendo a istituzioni come la famiglia e la politica. Non credo, nel caso citato, che chi ha usato quel linguaggio lo abbia fatto di proposito, probabilmente si è adeguato al gergo di quell’ambiente. Ma come i nostri lettori hanno fatto notare, con la «cattiveria» non si scherza. Grazie a Silvano e Mario per aver attirato la nostra attenzione sulla pericolosità e ambiguità di questo tipo di messaggi. La cattiveria è cattiveria, sempre. Anche se poca è sempre troppa.

Preghiera

Caro confratello don Paolo Farinella,
leggo volentieri le sue riflessioni bibliche su Missioni Consolata, si impara sempre qualcosa anche con quasi 50 anni di Messa. Sulla preghiera di Gesù di maggio 2017, mi permetto di fare qualche appunto. Gesù è vero Dio e vero uomo, e si può esagerare nella divinità ma anche nell’umanità. Il mistero rimane. È cresciuto in sapienza, età e grazia, ma ha avuto anche doni particolari. Così pure tanti santi e sante hanno avuto doni di guarigione, preveggenza, lettura dei cuori, conservando tutta la loro fragilità umana. Lo stesso vale per la nota magico teologica sul Dio tappabuchi. Anche qui il mistero rimane, il senso del creato con tanta violenza, sofferenza, morte. A chi mi dice «ho dei dubbi», rispondo, «cara signora, caro signore, tra trenta, cinquanta anni avrà tutte le risposte, oppure, quando avrà due metri di terra sopra la testa, non avrà più tentazioni e sarà nella pace». Buon lavoro in Domino.

Don Silvano,
Oropa, 19/06/2017

Caro Don Silvano,
le sue osservazioni meriterebbero un trattato che per altro esiste già e si chiama «Cristologia» che i preti studiano in almeno 5 anni di teologia. Penso che il rischio di «esagerare» ci sia sempre o sul versante dell’umanità o sul versante della divinità. Nei tempi passati queste questioni hanno suscitato anche guerre e violenze a non finire (III e IV sec.) e non mi fermo a citare nomi perché si farebbe notte. Per fortuna oggi guardiamo la realtà «teo-andrica» che il grande teologo cattolico von Balthasar definì magistralmente «Teo-drammatica» non perché va in scena in teatro, ma perché va in scena nella storia di ogni giorno. Tutto questo, comunque, riguarda le teologia in quanto tale, mentre il biblista si limita a studiare i testi biblici, che non sono «immediati», per offrirne, per quanto possibile, il senso più vicino all’autore. Non è un segreto che il mondo cattolico ha conoscenza molto superficiale di essi. L’obiettivo non è schierarsi, ma «intuire» prospettive e possibilità che, per grazia di Dio, possono allargare il nostro rapporto con il Signore. Una cosa è certa: noi non conosceremmo il Padre se non facessimo esperienza di Gesù-uomo (Gv 1,18) perché l’ambito della nostra esperienza si compie e finisce entro i confini dell’umanità. Tutto il resto è, come dice lei, «mistero», ma non nel senso banale di non conosciuto o nascosto, ma nel senso di Tertulliano (sec. II) che traduce il paolino greco «mistero» con il latino «sacramento», cioè segno visibile di qualcuno che è oltre l’ordinarietà della nostra immaginazione. A me pare bello, comunque, sapere che, anche sulla preghiera, Gesù sia Maestro ed esempio perché solo così possiamo scoppiare come Tommaso: «Mio Signore e mio Dio». Un caro saluto e un abbraccio fraterno.

Paolo Farinella, prete, vecchio ma ancora
 in cammino

Maradona

Nel numero di maggio 2017 mi è saltato all’occhio l’articolo di Minà, un giornalista di cui ho la massima stima e che ho sempre seguito apprezzandone spesso le scelte mai facili. Detto questo, mi farebbe piacere scrivere a lui di non farsi tradire dalla voglia di enfasi perché alcune parti dell’articolo su Maradona gridano un attimo alla scorrettezza. Che l’Argentina, ad esempio, abbia perso il mondiale 1990 per scelte «superiori» mi sembra innanzitutto scorretto nei confronti della Germania vincitrice, e poi dimentica che, prima contro il Brasile e poi contro l’Italia, i biancocelesti avevano superato il turno perché fortunati dagli episodi di gara. E contro l’Inghilterra, il gol di mano non mi sembra testimoniare un presunto odio arbitrale. Quindi ritengo scorretto asserire che l’Argentina meritasse più di altri.

In generale nell’articolo, in particolare definendolo cocciuto nella lotta contro Equitalia lo disegna come un eroe che non è, dando una forma di schiaffo a tutti coloro che contro la burocrazia fanno battaglie senza avere casse di risonanza e soldi per avvocati. E magari l’avvocato dotato di testardaggine, è anch’esso alla facile ricerca della carriera in ascesa a difendere il Mito per eccellenza.

Maradona è stato un grande, Minà è un grande, ma per favore: non disegniamo il Pibe come un eroe, proprio no. In un mondo dove il trash sta imperando, non credo che il dono di raccontare bene le vicende della vita e i personaggi della storia, si possa sprecare preferendo fare il tifo piuttosto che mantenere l’equilibrio. Grazie.

Claudio Tartaglino
17/05/2017

Grazie da Dom Roque

Carissimo Paolo (Moiola, ndr), pace e bene a te. Ti ringrazio per il lavoro che fai per far conoscere la lotta e i sogni dei popoli indigeni del Brasile e l’impegno del Cimi. Qui ci dobbiamo confrontare con la Commissione d’inchiesta su Incra/Funai e i rinnovati attacchi contro i popoli indigeni e coloro che li aiutano. Molti missionari del Cimi sono stati posti sotto accusa e attaccati, ma siamo coscienti che non possiamo tirarci indietro proprio in questa ora che ci domanda di restare fermi nella lotta per superare questa macchinazione del governo che sta distruggendo i diritti dei poveri. Salutami i missionari. Con gratitudine.

dom Roque Paloschi
Porto Velho, 22/06/2017

Segnaliamo qui alcuni degli articoli più recenti dedicati alla causa indigena in Brasile: MC 07/2017, p. 10; MC 10/2016, p. 51; MC 1-2/2015, p. 51; 10/2015, pp.26-58; MC 11/2014, p. 27; MC 07/2013, p. 10; 10/2013, p. 21.

Carissimo professore

Lo scorso 6 giugno è morto a Quito, Ecuador, dove viveva da alcuni anni, François Houtart. Nato a

Bruxelles nel 1925, prete dal 1949, era teologo della liberazione e professore di sociologia nella famosa Università di Lovanio. È stato perito e consulente al Concilio Vaticano II, fondatore del Centro Tricontinentale per i rapporti Nord-Sud, del Forum mondiale delle alternative e del Forum sociale mondiale. Non amato da tutti a causa del suo spirito critico e delle sue posizioni politiche progressiste, Houtart si è sempre mosso all’interno della Chiesa cattolica. Da tempo era un amico e collaboratore di questa rivista. Di lui MC ha pubblicato articoli e lunghe interviste, l’ultima delle quali – raccolta a Quito nella sua modesta dimora (una stanza di pochi metri quadrati) – è apparsa nel giugno del 2016. Con François Houtart se ne va un persona di grandissimo spessore morale, culturale e umano. Ci mancherà.

Paolo Moiola e Marco Bello
24/06/2017

Banca Etica

Allora, cercherò di essere il più sintetico possibile e di non lasciare nulla di evaso.

1) Non sono mai stato socio, né tanto meno correntista, ma questo, per essere membri del G.I.T., allora non era nemmeno richiesto. Forse ora le cose sono cambiate.

2) Banche Armate: non ho mai capito le argomentazioni reali, segnalo solo che le banche già menzionate (Pop Emilia Romagna e Popolare di Sondrio) hanno fatto parte del pool che ha rinegoziato il debito di Finmeccanica nel 2015, come co-arrangers.

Popolare di Sondrio ha aumentato di 100 milioni di euro gli importi rispetto al 2015, mentre Bper li ha diminuiti a 40 rispetto ai 70 del 2015, scompare Bpm, ma questo è normale, essendoci stata la fusione col Banco Popolare, a sua volta parte del pool rinegoziatore. Dello stesso gruppo fa parte Banco Popolare Credito Cooperativo che nel 2016 riceve oltre 103 milioni di euro. Con le fusioni volute dal governo sarà sempre più difficile per una banca non partecipare al business degli armamenti.

Per un approfondimento del tema rimando al blog di Banca Etica «Non con i miei soldi» e all’articolo del 27/01/2015, «Banche armate a che punto siamo», di Giorgio Beretta che entra nel dettaglio delle argomentazioni offerte da Sabina Siniscalchi.

L’inchiesta per mafia in cui nel 2013 è rimasta coinvolta la Bcc di Borghetto Lodigiano insieme ad altre 2 Bcc, la Centropadana e quella di Offanengo, poi incorporata nella Bcc di Treviglio estranea all’inchiesta, è stata l’operazione Esmeralda.
Ho lasciato intendere che c’è una complicità di B.E.? Non mi pare, però proprio perché B.E. è tra i consulenti finanziari forse si imporrebbero dei criteri più stringenti almeno sui soggetti da finanziare, onde evitare cantonate clamorose come quella di Buzzi, che segna una debacle indelebile nella storia del gruppo. Cosa si insegna ai corsi di valutatori sociali? A non vedere certe cose? Meno male che non l’ho fatto.

Per quanto riguarda i fondi «valori responsabili» spiego come fare ad accedervi in modo che ognuno si possa fare un’idea del prodotto che stanno tentando di rifilargli e verificare se sono così in linea con gli standard etici. E se qualcuna non è incappata in qualche inchiesta un po’ inopportuna (tipo At&t negli Usa).

Si vada sul sito di Etica Sgr e si clicchi sui «nostri fondi». Una volta scelto il fondo, consiglio di analizzarli tutti, si clicchi su «portafoglio» e si scenda leggermente. Si troverà il Pdf con le imprese prescelte e con gli Stati inclusi. Non so se stati come Germania, Belgio e Olanda, possano definirsi virtuosi, forse dal punto di vista di un certo target di clienti dalle abitudini sessuali consolidate sì, per la Spagna ed il Portogallo si può chiudere un occhio, se non fosse che quello aperto nota che le rispettive economie non sono così solide ed i titoli del Portogallo sono ad alto rischio di insolvenza (rating BB, solo BBB- per la Spagna).

Quello che però è obbligatorio segnalare è l’improvvisa scomparsa dei rating sulle obbligazioni delle aziende che fino alla prima metà del 2016 era riportato e poi è improvvisamente scomparso. Questo vuol dire che l’investitore non è più in grado di farsi un’idea sul reale stato del debito di queste imprese.

Per quanto riguarda il Movimento 5 stelle non ho mai detto che controlla B.E., molto semplicemente andando sul loro sito si può appurare come Banca Etica sia stata la banca che hanno scelto sin dall’inizio anche per il deposito delle quote, e figura, sempre sul sito, tra le convenzionate per il famoso microcredito insieme ad altre, tra cui le «armate» Bnl, Unicredit e Banca Intesa.

Concludendo cito quello che fu il Catholich Ethical Balanced Found di J.P. Morgan, un tentativo fallito di fregare i cristiani che si accorsero presto di che natura era, di cui disse qualcosa il Corriere della Sera in un trafiletto che ancora oggi si può trovare sul sito di Etica Sgr. Approfonditene la storia […]. Spero di essere stato esaustivo, anche se mi piacerebbe scrivervi ancora.

Matteo Spaggiari
23/06/2017 

Su MC giugno 2017 abbiamo pubblicato una lettera di Matteo Spaggiari – seguita da una risposta di Sabina Siniscalchi – critica nei confronti di Banca Etica e di come essa fosse stata presentata nella rubrica Eticamente di MC aprile 2017. Come vedete, tempi lunghi! In seguito il sig. Matteo ci ha scritto due lunghe email, di cui pubblichiamo qui solo la seconda (come da lui stesso suggerito).

Il dibattito potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma non penso che queste pagine siano lo strumento più adatto.

Esso è rivelatore della realtà difficile, contraddittoria e spesso torbida del mondo della finanza in cui, come cristiani, siamo sfidati a fare delle scelte controcorrente, chiare, trasparenti, secondo giustizia e onestà e per il bene della persona, soprattutto quella più debole e meno protetta.

Un’impresa chiaramente controcorrente come la Banca Etica fa fatica a crescere sia per la diffidenza di cui molti la circondano, credenti compresi, sia per l’oggettiva difficoltà (o impossibilità?) a distinguersi da un sistema finanziario infiltrato a tutti i livelli dai profitti sulle armi, gli investimenti ad alto rischio, le speculazioni finanziarie, il riciclaggio di denaro, il traffico di materie prime ed esseri umani, droga, terrorismo, pornografia e mafie varie.

Di fronte a questo dico grazie a chi, come il sig. Matteo, ci invita a vigilare, e nello stesso tempo voglio incoraggiare chi è impegnato in Banca Etica per una finanza a servizio dell’uomo. È una strada in salita che richiede di essere «furbi come serpenti e candidi come colombe», ma anche «tenaci come lumache».




Insegnaci a pregare 7.

«Dio amico e Padre, non compagnone»


In ogni sinagoga antica vi era una stanza cieca, senza porte e finestre che fungeva da «ripostiglio», in ebraico «ghenizàh». Essa era dotata di una piccola finestrella, attraverso la quale venivano introdotti i rotoli e gli scritti liturgici non più utilizzabili. Questi testi non potevano essere gettati via tra gli oggetti comuni o peggio nella spazzatura, perché in essi vi era scritto il «Nome» santo di Dio, «YHWH». Gli Ebrei, spinti dal supremo rispetto per il Nome di Dio, hanno perciò inventato questa specie di cimitero dei libri sacri. Tale usanza ha permesso di trovare centinaia di testi, oggi a noi utili per la comprensione dei tempi passati, specialmente per la natura e le modalità della preghiera.

Sintesi tra tu ed egli

Nella ghenizàh-ripostiglio del Cairo sono state trovate preghiere costruite su una doppia valenza: iniziano con il vocativo «tu» della 2a persona singolare e si concludono con la 3a persona singolare «egli». Ecco un esempio tratto dal Siddùr (Rituale) di Rab Amram Gaon del sec. IX d.C., segno che i testi recenti possono contenere tradizioni antiche: «Benedetto sei tu, Adonài, tu che scegli il suo popolo Israele». Da un punto di vista morfologico, le due proposizioni «sei tu» e «scegli il suo popolo» sono stridenti perché istintivamente verrebbe da dire: «Benedetto sei tu, Adonài che scegli il tuo popolo». Questo gioco di onda tra la 2a e la 3a persona singolare è una costante della preghiera ebraica che, da una parte, intende mettere in evidenza la familiarità affettiva di Dio, espressa dal «tu sei», e dall’altra, il «rispetto» della Gloria divina perché, allo stesso tempo, Dio è vicino, ma anche lontano, Padre e Creatore: Dio è Padre, ma è anche il «Signore», non è un amicone da pacca sulla spalla.

Molte traduzioni fanno piazza pulita di questa distinzione, eliminandola e traducendo tutto con la 2a persona, mentre invece bisogna mantenere l’andamento originario: la 2a persona singolare esprime la confidenza affettuosa con Dio, mentre la 3a persona esprime la «singolarità» di Dio e la sua «grandezza» nel senso che egli non può essere Padre e compagno di gioco, compagnone di strada. Riportiamo un altro esempio tratto dal Siddùr della ghenizàh del Cairo, nella preghiera in forma breve: «Benedetto sei tu YHWH nostro Dio, Re dell’universo, lodato dal suo popolo, cantato dalla lingua dei suoi Chassidìm e dai canti di David tuo servo».


Ghenizàh-Ripostiglio del Cairo

È annessa alla sinagoga di Ezra di Fustat (antica Cairo), costruita nel sec. IX d.C., in Egitto, sopra una preesistente chiesa dedicata a San Michele. Durante gli scavi del 1864, Jacob Saphir rinvenne circa 280 mila frammenti cartacei, in pergamena e papiro che furono attentamente studiati da Solomon Schechter e successivamente dall’orientalista olandese Shlomo Dov Goiteen. Il materiale rinvenuto ricopre circa due secoli di tempo, dal 1025 al 1266. Nei trent’anni successivi alla scoperta, circa metà del materiale fu disperso in diverse biblioteche (San Pietroburgo, Parigi, Londra, Oxford, New York, ecc.), i restanti 140 mila frammenti furono da Schechter trasferiti all’università di Cambridge in Inghilterra. I testi sono scritti in ebraico, arabo, aramaico e altre lingue locali e contengono traduzioni della Bibbia, grammatiche ebraiche e commenti e testimonianze importanti sull’attività mercantile degli Ebrei durante la dinastia fatimide del sec. IX d.C. discendente da Fatima bint Muhammad, figlia del profeta Maometto. Nella ghenizàh si trovano le prove della esistenza pacifica di società miste ebraico-islamico-cristiane, che hanno obbligato a riscrivere la storia economica e sociale dei secoli IX, X e XI. Molti libri di preghiera ci sono utilissimi per capire e conoscere il modo orante di chi ha frequentato la sinagoga.

Per un riferimento più puntuale e per l’approfondimento di questo aspetto cfr. Frédédic Manns, La preghiera d’Israele al tempo di Gesù, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996.


Da questi rilievi, emerge con grande evidenza che la preghiera non è, né può essere, una pratica abitudinaria, ma una costante attenzione da prestare perché è in gioco il rapporto tra due: tra noi e Dio. Pretendere di parlare della preghiera è come pretendere di conoscere l’intimità di Dio: una realtà inesauribile. Della preghiera si possono dare mille definizioni e ciascuna sarebbe pure giusta, perché espone «un solo» aspetto di essa, senza esaurirla, ma nessuna sarebbe adeguata perché non si può definire la vita con una formula di poche parole. Essa, come la vita, ha moltissimi aspetti e deve essere vissuta: solo chi vive sperimenta e conosce; pregare, infatti, è sperimentare Dio, conoscendone il cuore. In ebraico il verbo «yadà‘ – conoscere» non esprime mai una conoscenza astratta, concettuale, ma una conoscenza che nasce da una «sperimentazione». La sua radice fa riferimento al rapporto sessuale che è la «conoscenza» più radicale esistente in natura perché mentre sperimenta trasforma, in quanto diviene l’altro fino alla trasformazione suprema che è il «generare» (cf Gen 4,1). La versione greca della LXX traduce con il verbo «ghnôsk? – io conosco», la cui radice (ghn?-) è molto vicina a quella del verbo «ghennà? – io genero» (radice ghèn[na]-) che si riferisce all’atto procreativo maschile; per la donna, infatti, si usa «tìkt? – io partorisco», da cui «tèkna – prole/figlioli». Da queste interferenze lessicali possiamo dedurre, da un lato, che la conoscenza è atto generativo che coinvolge l’intimità della propria profondità feconda: si dice anche popolarmente «concepire un’idea»; dall’altro lato, che l’atto sessuale, l’atto cioè più profondamente umano, è il grado più alto di conoscenza che si possa sperimentare in vita perché è attraverso di esso che l’umanità «somiglia» al Creatore: la propria identità profonda, il proprio Lògos diventa carne. Può essere definibile tutto ciò? Per la preghiera, penso che possa valere quello che Sant’Agostino dice del tempo: «Cos’è il tempo?… Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so» (Sant’Agostino, Confessioni, XI,14,17). Come abbiamo illustrato nelle puntate precedenti, specialmente nell’ultima, l’unica spiegazione possibile della preghiera è «stare» nel silenzio, come pienezza della parola, come ambiente naturale della preghiera e ascoltarlo come eco del «Lògos [che] carne fu fatto» (Gv 1,14), entrando così nel cuore della comunità orante.

La Scrittura paradigma della «mia» storia

In 2Tm 3,14-4,2 l’autore insegna a Timòteo che tutta la Scrittura è Parola di Dio e non può esserci preghiera al di fuori della Parola di Dio che dà forma e contenuto alle parole umane. La Parola di Dio è la persona stessa del Lògos e quindi pregare è lasciarsi possedere dalla Shekinàh/Dimora per essere alla Presenza di Dio che è «già» nell’intimo di ciascuno, prima ancora di noi stessi. La Bibbia non è solo la lettera che Dio ha inviato all’umanità attraverso i profeti e il suo stesso Figlio (cf Eb 1,1-2), ma è anche il diario di bordo essenziale dell’intervento di Dio nella storia sia universale che personale. Essa è il paradigma della storia di ciascuno che tutti noi dobbiamo declinare in modo personale. Pregare quindi significa prendere coscienza dello stadio della storia di salvezza personale e rispondere alla domanda: a che punto sono della «mia» storia della salvezza? La Bibbia è il paradigma del «viaggio» personale di fede, ed è lecito che il lettore, all’interno di questo paradigma, si domandi dove si trova «adesso».

Pregare è la risposta alla prima domanda che Dio rivolge ad Àdam che si nasconde e fugge dalla sua presenza: «Àdam, dove sei?» (Gen 3,9). Non è una richiesta d’identità di un luogo, ma il fondamento della coscienza della consapevolezza. «Dove» significa prospettiva, dimensione, profondità, angolo di visione, orizzonte, utopia. Il «dove» è il punto focale della consistenza e dell’identità di ciascuno perché indica il cuore interiore da cui noi prendiamo posizione per la conoscenza di noi stessi, degli altri, dell’Altro. «Dove?» indica la visione strategica della vita, ma anche la profondità e lo spessore della nostra identità nel contesto della comunità e ancora prima in quello della storia della salvezza. Molti uomini e donne, religiosi per tradizione, per il fatto di essere battezzati e di «andare» qualche volta in chiesa, pensano e s’illudono di credere in Dio, di conoscere Gesù Cristo e magari pretendono di «essere con la coscienza a posto».

«Dove siamo?». Non è affatto detto e non è scontato che nel nostro cammino di vita ci troviamo nel NT. Nonostante oltre duemila anni di Cristianesimo, il battesimo e l’impegno in parrocchia, potremmo trovarci molto lontani da Cristo, in un qualunque momento descritto dall’AT: potremmo ancora essere con Àdam ed Eva, vittime complici del serpente; solidali con il fratricida Caino; schiavi in Egitto; vaganti nel deserto senza Legge e senza coscienza; attenti ascoltatori della Parola dei profeti o in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni il Battezzante. Potremmo essere ai piedi della croce o ai bordi del sepolcro vuoto. Pregare significa «sapere chi si è e dove si è».

 


Per un approfondimento spirituale e teologico del «dove», cf P. Farinella, Bibbia. Parole segreti misteri, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR), 2009, pp. 77-82, capitolo intitolato «Dove sei? Chi sei?».


Pregare è essere nudi davanti alla nudità di Dio: creatura e Creatore, mediati dalla Parola, fondamento sia della creazione che della redenzione. Prendiamo due esempi di preghiera della Scrittura e osserviamoli da vicino. Si tratta di un uomo, Mosè, e una donna anonima del NT, una vedova. Mosè e la vedova, il profeta e la povertà assoluta: il mediatore che «sta ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9) e la vedova molesta e importuna (cf Lc 18,4-5), che è vittima del sopruso e della prevaricazione. Tutti e due pregano, tutti e due ottengono risultati perché tutti e due non si sono stancati, ma sono stati perseveranti e insistenti, ciascuno fedele alla propria condizione e alla propria natura, perché ambedue coscienti del proprio «dove», cioè del proprio ministero (Mosè) e della propria dignità (la vedova). Il profeta induce addirittura Dio a cambiare pensiero, cioè lo obbliga a «convertirsi» alla sua natura di Dio di salvezza (metànoia/conversione), costringendolo alla fedeltà alla sua natura e quindi al suo popolo (cf Es 32,1-14), così come la vedova che non ha paura di chi «non temeva Dio» (Lc 18,2) perché forte del proprio diritto. Qui di seguito ci occupiamo solo di Mosè, della preghiera della vedova tratteremo nella prossima puntata.

Mosè con le mani alzate

Nel libro dell’Esodo leggiamo l’esperienza di Mosè che intercede per la vittoria d’Israele:

«9Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio”… 11Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. 12Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Arònne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. 13Giosuè sconfisse Amalèk» (Es 17,9-13).

Il testo potrebbe essere molto antico perché è evidente una traccia di forma magica di preghiera legata alla gestualità. Esso non dice nulla sul contenuto dell’intercessione di Mosè, che anzi pare sia assente: è sufficiente la presenza fisica, là «ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9). Tutti i riti di tutte le religioni hanno necessariamente una dimensione di «teatralità» perché esigono vesti proprie, gesti, danze, canti: una rappresentazione mimica che coinvolga sia lo spirito che il corpo.

Ancora una volta il popolo ebraico ci viene in aiuto per capire il senso profondo che si ricava dal testo. Sottolineiamo alcuni testi del Targùm che commentano il brano, considerato dalla tradizione giudaica esemplare per la preghiera di intercessione. Il testo biblico dice: «Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio”» (Es 17,9).

Il Targùm dello pseudo Giònata (sigla: TJ I) così parafrasa nella traduzione verbale:

«Scegli per noi uomini validi e forti nell’[osservanza] dei precetti e vittoriosi in battaglia… Domani io starò ritto, in digiuno, appoggiato sui meriti dei padri, i capi del popolo, e sui meriti delle madri, che sono paragonabili alle colline, e terrò in mano il bastone col quale sono stati operati prodigi davanti al Signore».

L’altro Targùm, il Neòfiti (sigla: N), invece, così commenta il gesto delle mani alzate:

«Le mani di Mosè rimasero alzate in preghiera, ricordando la fede dei padri giusti, Abramo, Isacco e Giacobbe, e ricordando la fede delle madri giuste: Sara, Rebècca, Rachèle e Lìa, fino al tramonto del sole» (Ibidem, 144).

Il ms. ebraico n.100, conservato nella Biblioteca nazionale di Parigi, così commenta:

«Ricordando la fede dei tre padri giusti che sono paragonabili ai monti: Abramo, Isacco e Giacobbe, e la fede delle quattro madri giuste, che sono paragonabili alle colline: Sara, Rebècca, Rachèle e Lìa, e le sue mani rimasero alzate in preghiera fino al tramonto del sole» (Ibidem, 144 nota o).


Targùm (plurale targumìm)

È parola aramaica e letteralmente significa «traduzione». Dal 539 a.C., dopo il ritorno dall’esilio in Babilonia, in Palestina l’ebraico cadde in disuso, rimanendo però la «lingua sacra» riservata alla Bibbia nella liturgia ufficiale. Per far capire al popolo, che parlava la lingua comune, l’aramaico, era invalso l’uso di tradurre la Parola proclamata. Per questo, con il lettore, che leggeva in ebraico, vi era anche un «targumìsta – traduttore» che spiegava in aramaico. Egli però doveva stare non accanto al lettore, ma dalla parte opposta con il divieto di leggere la Parola e l’obbligo di commentare «a senso», proprio per sottolineare la distanza tra Parola di Dio e commento. Dal sec. I a.C. al sec. II d.C., per non perdere un immenso patrimonio liturgico e culturale, tutto il materiale orale fu raccolto per iscritto. I più antichi Targumìm sono: Targum Ònkelos, detto anche Babilonese, perché nato a Babilonia, databile tra il 60 a.C. e il sec. II d.C.; il Targum Yonatham ben Uzziel, contemporaneo del primo e come questo originario di Babilonia; Targum Yerushalmì (Gerusalemme), che si divide in tre parti, e datato sec. VII d.C. Tra i più recenti c’è lo Pseudo Gionata e Targum Neofiti del sec. XVI-XVII d.C.


I Targumìm aprono una prospettiva affascinante: la preghiera poggia sui meriti dei padri e delle madri, cioè degli antenati, paragonati ai monti e alle colline di Israele. Chi prega non prega mai da solo, ma porta con sé tutta la storia che lo ha preceduto perché prepara quella che segue: nella preghiera il futuro è dietro di noi perché uarda avanti con la forza dello Spirito che assume il nostro presente come pietra su cui è assisa la nostra intercessione al Signore della Storia. Pregare è entrare in una salvezza che si fa storia di Nomi e di Volti, diventandone parte attiva e sostegno sicuro.

In questo senso, la preghiera è una prospettiva di vita, un progetto esistenziale che avvolge e coinvolge ogni atto e respiro, ogni scelta e ogni gesto: tutto ciò che ci appartiene è già appartenuto ai nostri padri e alle nostre madri che sono diventati, con i loro meriti, i colli e le colline su cui poggia solida e stabile la preghiera dell’assemblea santa, oggi radunata dallo Spirito attorno al Monte Santo del Padre che è Figlio suo Gesù, Lògos, Pane e Vita, anima e corpo del nostro desiderio orante. Tutti preghiamo per i nostri morti, ma quanti pregano «con» i genitori, antenati, maestri, amici che sono stati e continuano a essere l’alimento e il sostegno del nostro pregare incessante?

Paolo Farinella, prete
 [7 – continua].




Donne Yazide: Schiava dell’Isis


Hana è una giovane donna yazida1, infermiera nell’ospedale di Duhok, Kurdistan irakeno2. Il 3 agosto del 2014 si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar, quando arrivano i miliziani dell’Isis. Perde subito il fratello e la madre. Lei viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore. Il romanzo di Claudia Ryan, pur narrando una storia di fantasia, racchiude in sé il dramma di persone reali.

Il 3 agosto del 2014 la città di Sinjar, nel Nord dell’Iraq, nella Regione autonoma del Kurdistan irakeno, viene presa d’assalto dai miliziani dell’Isis. Improvvisamente.

Sinjar è uno dei centri più importanti dei fedeli Yazidi, minoranza religiosa considerata «infedele» dal Da’esh. In pochi giorni migliaia di Yazidi vengono uccisi o costretti alla conversione (se uomini o ragazzi, dagli 11 anni in su), o ridotti alla schiavitù sessuale (se donne, o ragazze anche di 9 anni).

Secondo il rapporto del Consiglio per i diritti umani dell’Onu intitolato «They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis»3 (Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi) redatto nel giugno 2016, si è trattato di un vero e proprio genocidio. Nel report non si indicano cifre esatte, a parte il dato di 3.200 donne e bambini che, ancora a giugno 2016, erano in stato di schiavitù tra Siria e Iraq.

Il bisogno di conoscere

Questo è, a grandi linee, il contesto geopolitico nel quale Claudia Ryan inserisce la storia raccontata nel suo romanzo «Hana la yazida», edito per San Paolo nel 2016. Colpita dalle notizie che nell’estate del 2014 arrivavano da quelle zone di guerra, l’autrice ha voluto approfondire, prima studiando la situazione e la storia di quelle terre, poi compiendo, nel 2015, un viaggio in prima persona in Kurdistan. Lì ha avuto modo di incontrare e di parlare con diverse vittime.

Dal loro racconto è nata la figura di Hana, personaggio di fantasia che racchiude in sé il dramma vissuto da molte persone reali.

La storia

Giovane donna emancipata, infermiera nell’ospedale di Duhok, il 3 agosto del 2014 Hana si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar. Con l’arrivo dei miliziani dell’Isis perde il fratello e la madre e viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore, della quale perderà quasi subito le tracce.

Il romanzo inizia al tempo in cui Hana è già libera e decide di registrare sul suo tablet la propria storia, raccontandola ad alta voce per elaborare l’orrore vissuto. Sappiamo da subito, quindi, che Hana è sopravvissuta e che è tornata a fare il suo lavoro, ma che l’ombra della violenza subita non l’ha ancora lasciata, insieme all’angoscia per la sorte della sorella. Quello che si sviluppa nelle registrazioni che Hana cerca di fare con costanza è il racconto della sua schiavitù sessuale, dell’umiliazione, del senso di colpa, della paura costante provati nell’essere venduta ripetutamente, usata da uomini senza scrupoli, fino alla fuga, all’incontro con persone che rischiano la propria vita per proteggerla, e al ritorno alla sua piena libertà.

Senza scendere mai in dettagli morbosi e cercando di raccontare in modo umano le situazioni disumane della schiavitù subita dalla protagonista del suo romanzo, Claudia Ryan ci offre l’opportunità di comprendere meglio un fenomeno che forse abbiamo conosciuto solo per i suoi grandi numeri, incontrando da vicino una vittima e approfondendo la conoscenza del suo contesto sociale e culturale.

L.L.

Note:

1- Sulla minoranza yazida abbiamo recentemente pubblicato un dossier: Simone Zoppellaro, Yazidi, Missioni Consolata, marzo 2017, pp. 35-50.

2- Sul Kurdistan irakeno si veda il dossier: Simone Zoppellaro, Orgoglio Kurdo, Missioni Consolata, luglio 2017, pp. 35-50.

3- Human rights council, They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis, 15 giugno 2016.

Il libro

Claudia Ryan, Hana la yazida. L’inferno è sulla terra, San Paolo, Milano 2016, 140 pp, 14,50 €.

Il sito dell’autrice

www.claudiaryan.net


Intervista all’autrice

Nel Kurdistan hanno vissuto l’orrore

Com’è nato il suo libro?

«Un giorno, casualmente, ho letto nel web un articolo che parlava di queste giovani donne rese schiave sessuali dai Da’esh. Mi ha colpito profondamente, lasciandomi attonita. Ho cercato altre storie, altri articoli, anche in lingua inglese, fino ad arrivare a leggere le relazioni di Human Rights Watch. In realtà all’inizio non l’ho fatto con l’intento di scrivere un romanzo, era solo puro interesse personale, ma poi, poco alla volta, è nata una storia e ho sentito l’esigenza di scriverla. A quel punto, però, era molto importante andare nel Kurdistan iracheno».

Perciò fondamentali sono state le ricerche e, soprattutto, il viaggio in Kurdistan.

«Sì, il viaggio che ho intrapreso mi ha messo in diretto contatto con la loro realtà e con le persone. Non si può scrivere di qualcosa che non si conosce.

In Kurdistan ho potuto vedere i luoghi dove sviluppare la storia, capire cosa si mangia, come si vestono, guardare le persone negli occhi, ascoltare direttamente le loro storie. Inoltre le guide e gli interpreti mi hanno spiegato meglio la religione yazida, la società curda e, nello specifico, yazida».

Può raccontarci un episodio o suggestione significativa di quel viaggio?

«Difficile… tutto il viaggio è stato una suggestione, è stata un’esperienza magnifica e profondamente umana. Gli episodi più commoventi sono stati quando ho parlato direttamente con le donne che erano state schiave, sabaye. Ogni volta mi sentivo devastata, ancora oggi a ripensarci mi vengono le lacrime agli occhi.

È stato bello, invece, ascoltare le storie di chi, quel 3 agosto 2014, riuscì a fuggire, di come ci riuscì, e poi essere invitata a pranzo o a cena nelle case private, toccare con mano la loro ospitalità. Inoltre è stato molto interessante visitare la città santa yazida, Lalish, ed è stato un onore poter parlare con uno dei loro capi religiosi, Baba Chawish».

Hana è un personaggio inventato che riassume le esperienze reali di diverse donne.

«Esatto. Il libro non racconta una storia vera, ma una storia plausibile, in quanto basata su testimonianze lette o ascoltate in prima persona. Hana, nella narrazione, incontra ragazze le cui vicende sono invece prese dalla realtà.

Il modo in cui Hana, nel libro, fugge, è una mia invenzione, ma poi ho scoperto che una giovane donna yazida è scappata davvero in un modo molto simile!».

Può raccontarci qualcosa degli incontri con le donne che hanno subito la schiavitù?

«Ho intervistato donne dai 17 ai 45 anni. Hanno visto cose terribili, come i propri cari venire uccisi sotto i loro occhi. Sono state umiliate, hanno perso la loro libertà, nel senso più vero della parola. Chi è giovane può superare il trauma, rifarsi una vita, ma le donne che hanno visto morire il marito e i figli maschi, che magari hanno una figlia ancora in mano ai Da’esh e non sanno dov’è… be’ per loro è impossibile riprendersi».

Cosa desiderava comunicare con il suo libro?

«Volevo raccontare cosa accade a queste donne, cercare di far immedesimare il lettore/lettrice nel vissuto di Hana, così che fosse più comprensibile, che colpisse il cuore prima dell’intelletto. Per questo ho preferito la formula del racconto in prima persona, per narrare le vicissitudini con i Da’esh. Spero che chi legge questo libro possa poi sentirsi più simpatetico con i popoli del Medio Oriente».

Lei è insegnante in un liceo, ha mai raccontato quello che ha visto in Kurdistan ai suoi studenti? Quali reazioni ha visto in loro?

«Oltre alla presentazione del libro, ho organizzato una conferenza sugli Yazidi, il genocidio che hanno subito, la schiavitù delle donne. Ho parlato di questi argomenti nella mia e in altre scuole: due ore di conferenza con ragazzi (una volta ne avevo davanti circa 250) assolutamente attoniti, concentrati, commossi. Ho avuto la loro totale attenzione per tutto il tempo e tante domande alla fine, tutte le volte. Penso sia importante parlare ai giovani di questi argomenti, sensibilizzarli, e quando si trovano davanti qualcuno che riporta ciò che ha visto e ascoltato in prima persona, per loro è più coinvolgente».

L.L.




Turismo sostenibile:

4 chiacchiere con un esperto /2


Nel numero di luglio vi abbiamo proposto una panoramica sul turismo internazionale, sui suoi volumi in termini di movimenti di persone e giro d’affari e sul dibattito a proposito della sostenibilità e del contributo del turismo allo sviluppo. Questo mese torniamo sul rapporto fra turismo, cooperazione e migrazione facendoci guidare da Maurizio Davolio, il presidente dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr).

Anche per il 2017 le proiezioni degli arrivi internazionali di turisti segnano un trend in crescita: secondo il Gruppo di esperti del World Tourism Organization (Unwto), l’aumento su base planetaria dovrebbe attestarsi fra il 3 e il 4 per cento.

Quanto agli italiani, una ricerca dell’Ufficio Studi Coop@ della primavera scorsa su un campione di mille persone fra i 18 e i 65 anni ha rilevato che sono 84 su cento le persone che intendono andare in vacanza quest’anno, contro il 76 per cento del 2016. «Se è vero», si legge nel commento all’infografica di italiani.coop, «che quasi 4 italiani su 10 scelgono ancora la vacanza low cost and no frills, rispunta, almeno nei desideri, il piacere di una vacanza high value, in albergo o in un villaggio, magari anche in crociera (+24% le intenzioni di questa tipologia di viaggio rispetto al 2016)».

Quanto alla sensibilità rispetto al turismo sostenibile, la tendenza appare in aumento, almeno nell’indagine@ condotta dal portale web di viaggi Tripadvisor secondo la quale quasi 2 italiani su 5 (38%) prevedono di fare scelte di viaggio ecofriendly nel 2017.

Sulla stessa linea anche i dati emersi dallo studio realizzato dalla rete LifeGate@ creata da Marco Roveda, imprenditore e fondatore dell’azienda agricola biodinamica Fattorie Scaldasole, e l’Istituto di ricerca Eumetra Monterosa. La ricerca – che ha il patrocinio dalla Commissione europea e il sostegno di Best Western, Ricola, Unipol Gruppo, Vaillant e Lavazza – ha interessato anche in questo caso un campione di mille persone, rilevando che «3,5 milioni di italiani si dicono disposti a spendere di più per un viaggio all’insegna della tutela e del rispetto dei luoghi che visitano, mentre sono due milioni coloro che già oggi organizzano i loro momenti di svago in modo consapevole». Maurizio Davolio, presidente dell’Associazione italiana Turismo Responsabile (Aitr), ci fornisce alcune chiavi per leggere il fenomeno anche nelle sue relazioni con la cooperazione e le migrazioni.

Presidente, innanzitutto qualche precisazione per orientarci con i termini. Che differenza c’è fra turismo sostenibile e turismo responsabile?

«Non sono sinonimi, ma nemmeno così distanti l’uno dall’altro. Il turismo sostenibile riguarda più il lato dell’offerta. Si riferisce alle politiche poste in essere dagli enti pubblici e alle scelte delle imprese ricettive – ma anche della ristorazione e del trasporto – per assicurare che il turismo abbia un impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità. Risparmio energetico, uso delle energie rinnovabili, raccolta differenziata, risparmio dell’acqua, contrasto degli sprechi alimentari sono alcuni dei criteri alla luce dei quali valutare la sostenibilità dell’offerta turistica.

Il turismo responsabile, invece, riguarda il lato della domanda, cioè le organizzazioni che propongono viaggi e i viaggiatori stessi. Mentre nel turismo di massa ci si concentra sulle esigenze del viaggiatore, il turismo responsabile dà priorità alla giustizia sociale ed economica, al rispetto dell’ambiente e delle culture. Un aspetto su cui Aitr insiste molto è quello della sovranità delle popolazioni ospitanti, del loro diritto a essere al centro dello sviluppo turistico dei loro territori».

Può fare alcuni esempi di impatto negativo sulle comunità che il turismo sostenibile cerca di neutralizzare?

«Per prima cosa mi viene in mente quella che si chiama in gergo tecnico staged authenticity, l’autenticità fittizia, allestita: è il caso degli eventi culturali o religiosi che vengono spostati di data, accorciati, modificati a uso e consumo dei turisti, i quali magari vogliono vedere una cerimonia tradizionale ma sono disposti ad assistervi solo per un tempo limitato o nei giorni da loro preferiti.

Vi è poi il cosiddetto leakage, cioè la parte di spesa turistica che non rimane in loco ma va ad esempio a catene di alberghi o fornitori di beni (come il cibo) che hanno la sede in paesi diversi da quello ospitante».

Come si caratterizzano, in concreto, i viaggi sostenibili nel giorno per giorno della vacanza?

«Si viaggia in gruppi piccoli, dodici persone al massimo, e lentamente: la lentezza permette la profondità, l’incontro, lo scambio. Prima di partire è prevista una preparazione con incontri e letture consigliate; in loco, poi, si viene a contatto con le autorità locali che aiutano i viaggiatori a farsi un’idea più realistica delle bellezze ma anche dei problemi del posto. Si cerca di consumare cibo locale, di appoggiarsi a strutture il cui profitto porti reali benefici alla comunità ospitante, di assumere atteggiamenti che non possano essere male interpretati o creare disagio, dal fotografare le persone senza chiedere il permesso al portare gioielli, che noi suggeriamo di lasciare a casa: in viaggio non servono a nulla».

Come fate per raggiungere con le vostre proposte non tanto i «già convinti» che sono spontaneamente interessati a questo modo di viaggiare, bensì i «non convinti», che cercano il pacchetto senza pensieri e impegni?

«Intanto chiariamo che turismo sostenibile non significa fatica e mancanza di divertimento. Al contrario: la lentezza permette anche di prendersi una pausa dai ritmi frenetici. Inoltre, chi fa questi viaggi di solito riferisce di essersi divertito proprio perché ha fatto esperienze e acquisto informazioni che prima non aveva.

Per fare conoscere questo modo di viaggiare noi, come Aitr, non abbiamo le risorse per grandi campagne mediatiche, perciò lavoriamo sulle alleanze. Ad esempio con il network multimediale L’agenzia di Viaggi@ o con il programma televisivo Donnavventura@, che inserisce in ogni puntata un momento dedicato al turismo responsabile. Entrambi i partner diffondono il nostro vademecum di 17 punti@, che proponiamo anche alle agenzie di viaggio. Queste possono stamparlo per affiggerlo o inserirlo nei documenti che consegnano al cliente. Il momento storico non è facile per i tour operator, spesso impegnati a sopravvivere a causa del massiccio ruolo della rete che permette al turista di bypassarli. L’obiettivo attuale è quello di contaminare a poco a poco il mercato convenzionale attraverso degli strumenti di consapevolezza e sensibilizzazione».

Sebbene non ci siano ancora molti dati ufficiali circa i volumi del turismo sostenibile, le indagini statistiche dei singoli operatori – come quelle, citate sopra, di Tripadvisor e Lifegate – ne restituiscono un’immagine di fenomeno in netta crescita. A che cosa è dovuta questa espansione?

«Principalmente alla maggior attenzione per la sostenibilità da parte degli enti istituzionali come l’Organizzazione mondiale del Turismo e Unione europea, attenzione che si riverbera sull’industria turistica. Per accedere ai fondi europei o delle Nazioni Unite, infatti, chi li richiede – enti pubblici, governi, imprese – è tenuto a rispettare i criteri di sostenibilità. Resta il problema di verificare che gli adeguamenti alla sostenibilità siano poi fatti in concreto e, per il momento, i controlli sono molto episodici».

Quale legame vede fra la cooperazione allo sviluppo italiana e il turismo sostenibile, oltre a quello delle iniziative come il finanziamento di progetti sul campo che promuovano l’accesso delle comunità al business turistico? (vedi alcuni esempi sulla newsletter di giugno dell’Aics).

«La legge 125/2104 che ha riformato la cooperazione ha introdotto una serie di opportunità. Aitr infatti è nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (composto, si legge nell’articolo 16 della legge, dai principali soggetti pubblici e privati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo, ndr). Per il settore del turismo, nel Consiglio è presente solo Aitr, mentre non ci sono le associazioni di categoria. Aitr è un ente profit perché ha fra i suoi soci, oltre a Ong e associazioni, anche tour operator, case editrici e imprese. E questo rappresenta un vantaggio, perché la nostra presenza favorisce la mediazione, il dialogo e anche il partenariato fra profit e non profit».

Come si legano, invece, turismo sostenibile e migrazione? Aitr porta avanti iniziative di turismo «cittadino» alla scoperta delle comunità di migranti.

«Credo che lei si riferisca a Migrantour@, le passeggiate interculturali ideate dal giovane antropologo Francesco Vietti e lanciate prima su Torino dalla cooperativa Viaggi Solidali@ per poi estendersi a Milano, Firenze, Genova e Roma e anche all’estero, a Parigi, Marsiglia, Valencia e Lisbona. I partecipanti vengono guidati alla scoperta delle botteghe artigianali, dei negozi tipici, dei luoghi di culto nei quartieri multietnici delle città e hanno l’occasione di fermarsi a parlare con le persone che gestiscono questi esercizi o di conoscere le associazioni di promozione culturale delle varie comunità».

Che cosa giudica particolarmente positivo di questa esperienza?

«Dal lato del turista, chi partecipa riesce effettivamente a farsi un’idea più chiara ed equilibrata delle comunità e delle loro caratteristiche. Alcune volte i partecipanti si incuriosiscono al punto da scegliere come meta delle vacanze proprio il paese dei migranti con cui sono venuti a contatto.

Dal lato dei migranti, il vero salto di qualità è stato proprio quello di diventare loro stessi le guide: gli effetti immediati sono una maggior autostima oltre che una piccola entrata per il servizio reso come ciceroni. Ma l’aspetto forse più interessante è che le guide migranti devono conoscere le caratteristiche delle comunità diverse dalla loro per poterle raccontare ai turisti. Così un marocchino può trovarsi a dover illustrare la cultura bengalese, afghana, ecuadoriana, conoscendole e apprezzandole e superando quelle diffidenze o tensioni che a volte sorgono fra le comunità».

Quali sono stati i fallimenti che ha visto nella sua lunga esperienza? I tentativi andati male, le storture, i progetti non riusciti?

«Un esempio riguarda alcune esperienze del cosiddetto turismo di comunità, nato spontaneamente dal basso da comunità locali che hanno preso le redini della gestione del turismo sul loro territorio, applicando metodi di democrazia e partecipazione. Quando, in alcuni paesi soprattutto dell’America Latina, le politiche pubbliche hanno cominciato a dare maggior attenzione alle zone interne e rurali, a volte i governi hanno investito sul turismo in queste aree in modo troppo repentino e superficiale, finanziando soggetti dei quali non avevano verificato la solidità e la serietà. Così, in alcuni casi, proprio a causa di questa scarsa competenza delle organizzazioni finanziate, una volta terminata l’iniezione di fondi da parte del governo le esperienze di turismo di comunità si sono bruscamente interrotte, rivelandosi inadeguate e insostenibili.

Questo, purtroppo, ha recato un danno d’immagine al turismo di comunità nel suo complesso, perché ovviamente un fallimento finisce per fare notizia e gettare una cattiva luce anche su chi lavora in modo corretto».

E i progetti di turismo sostenibile promossi e realizzati dalle Ong come funzionano?

«Su questo le cose stanno migliorando. Le Ong storicamente si sono occupate di agricoltura, sanità, accesso all’acqua, non di turismo. Il fatto è che il turismo sembra un’attività alla portata di tutti, perché lo viviamo come viaggiatori, non come operatori. Anche alcune Ong, convinte che in questo campo non fossero necessarie particolari competenze, hanno avviato progetti facendosi tutto in casa, per così dire, con improvvisazione e approssimazione. E finendo magari col realizzare strutture che poi non superavano il vaglio delle autorità preposte ai controlli, o costruendo offerte turistiche tagliate fuori dai principali circuiti, lontane anche dalla comprensione e partecipazione della comunità. Ora invece è diventato chiaro che, come per un progetto agricolo si richiede la valutazione di un agronomo, allo stesso modo per creare un itinerario turistico serve un esperto del settore che sia in grado, ad esempio, di accompagnare le persone del luogo nel riconoscere come un elemento del territorio che per loro è semplicemente parte del quotidiano possa, invece, essere valorizzato e proposto ai viaggiatori. In gergo tecnico, questo elemento si definisce attrattore».

Può fare un esempio concreto?

«Nella zona dei villaggi trogloditi della Tunisia, un’attività che vale la pena di inserire in un itinerario turistico è l’osservazione del cielo. Ma per la popolazione locale, che da quel cielo è accompagnata da sempre, quello non è un aspetto degno di nota. In questo caso, il supporto di un astrofilo che possa guidarne l’osservazione e favorirne la valorizzazione è in grado di fare la differenza. Lo stesso può dirsi di certe abitazioni tipiche, come il nostranissimo trullo: per la comunità locale non era certo un attrattore, ma il luogo dove le persone avevano sempre e, magari nemmeno tanto comodamente, vissuto».

Chiara Giovetti




I Perdenti 27.

Spartaco e la rivolta degli schiavi


Una delle più grandi rivolte di schiavi che l’antica Roma dovette affrontare fu quella capeggiata da Spartaco. Già due volte nella storia secolare di Roma c’erano state cruente ribellioni da parte degli schiavi, la prima tra il 136 e il 132 a.C., la seconda tra il 102 e il 98 a.C., ambedue in Sicilia dove gli schiavi vivevano in condizioni particolarmente dure lavorando nelle miniere e nei campi.

Queste «guerre servili» erano state represse con estrema durezza dalle autorità romane che consideravano gli schiavi degli oggetti di proprietà del padrone, che era libero di fare di loro quello che voleva. Ma la «terza guerra servile», capeggiata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C. fu la più pericolosa, coinvolse oltre centomila schiavi e indigenti e obbligò l’esercito romano a intervenire con le sue legioni migliori.

Il leader di questa ribellione era uno schiavo che proveniva dalla Tracia, un territorio che corrisponde oggi al Sud della Bulgaria più l’estremità orientale della Grecia e la parte europea della Turchia.

Le poche notizie storicamente certe che abbiamo ci presentano Spartaco arruolato nelle truppe ausiliarie romane, poi ridotto successivamente in schiavitù a seguito di un tentativo di diserzione. Molto dotato fisicamente, venne venduto a un lanista (padrone di gladiatori) di Capua e addestrato per quei giochi mortali nell’arena della città. Si racconta che fosse intelligente, acculturato e possedesse oltre a grandi doti umane anche un notevole acume tattico e una profonda conoscenza delle strategie militari romane, come dimostrato dall’abilità con la quale seppe riunire e guidare il suo esercito di schiavi.

Il suo nome nei secoli è stato un punto di riferimento fondamentale per moltissimi «ribelli»,  per tutti coloro che non accettano di essere ridotti in schiavitù e anelano ad avere un’esistenza dignitosa a misura d’uomo.

Visto che tra i personaggi dell’antichità il tuo nome e la tua storia godono di una immensa considerazione, puoi dirci come ebbe inizio la tua vicenda…

Tutto cominciò nel 73 a.C., a Capua, nei pressi di Napoli, in una scuola di addestramento per gladiatori, dove insieme ad altri schiavi prigionieri anch’io ero recluso. Circa duecento di noi organizzammo un complotto per fuggire, però all’ultimo momento il piano venne scoperto e alla fine riuscimmo a scappare solo in una sessantina.

Come siete riusciti a farla franca e a mimetizzarvi nel bel mezzo della società romana?

Durante la fuga avemmo la fortuna di imbatterci in un convoglio di carri pieni di armi destinate agli spettacoli dei gladiatori, le stesse che avremmo dovuto usare gli uni contro gli altri, e dopo un violento scontro ce ne impadronimmo, mettendo in fuga le guardie che lo accompagnavano, dopo di che ci rifugiammo sui versanti del Vesuvio.

La notizia delle vostre gesta si propagò con una velocità incredibile tra gli schiavi.

Questa fu la fortuna degli esordi, la fama che si creò attorno al piccolo nucleo iniziale di fuggitivi divenne come una calamita che attirò poi, un po’ per volta, schiavi e sbandati di ogni genere, attratti soprattutto dal nostro sistema di dividere «democraticamente», in parti uguali, il bottino che incrementavamo sempre più grazie alle razzie che compivamo in villaggi isolati lontano dalle città e dalle grandi vie imperiali di comunicazione. Tutto questo si svolgeva nell’indifferenza di Roma, che ci considerava né più né meno che una banda di piccoli delinquenti dilettanti che non meritavano poi una grande attenzione.

Ma le cose poi cambiarono…

In seguito a un conflitto con una guarnigione di legionari romani avvenuto quasi per caso, il nostro gruppo, che poteva considerarsi ormai un piccolo esercito, s’impadronì di un grosso quantitativo di armi da battaglia. Con queste sconfiggemmo le legioni di Caio Clodio, giunto sul posto per contrastare quella che – secondo il Senato di Roma – rischiava di diventare una minaccia seria per tutto il territorio della Campania.

Come si svolsero i fatti?

Il console Caio Clodio fece l’errore di attestare i suoi soldati all’imbocco dell’unica strada che discendeva lungo il Vesuvio. Noi riuscimmo a colpire le legioni romane prendendole alle spalle con un’azione di sorpresa, ovvero calando di notte giù per il declivio più scosceso un buon numero di combattenti legati con delle corde. Questa fu la prima azione eclatante del nostro esercito formato da pochi mesi, in quella occasione riuscimmo persino ad impadronirci di un certo numero di cavalli e delle insegne dei fasci littori della loro guarnigione, cose, queste ultime, ritenute quasi sacre dall’esercito romano.

Se ben capisco, c’erano ormai tutte le caratteristiche per una guerra vera e propria tra voi e la più grande potenza militare di allora…

Dici bene, in breve tempo la rivolta si estese in gran parte del Sud della penisola italica, gli scontri coinvolsero la Campania, la Lucania e l’Apulia. Altri schiavi in diverse parti dell’impero romano si ribellarono massacrando indiscriminatamente i loro padroni, crimini ed efferatezze gratuite che io stesso tentai inutilmente di bloccare.

In seguito a questi avvenimenti tu concepisti un piano per sfruttare al meglio la libertà conquistata…

Il piano che cominciavo a intravedere era quello di risalire la penisola e oltrepassare le Alpi, in modo da rendere la libertà agli schiavi che si erano uniti a noi. Purtroppo non tutti erano d’accordo con me, per esempio gli schiavi originari dalla Gallia decisero di separarsi da noi.

E questo perché?

Loro intendevano combattere Roma a viso aperto, piuttosto che fuggire oltralpe, io invece avevo delle vedute più realistiche, se vuoi più modeste, ero infatti convinto che noi – sia per numero come per preparazione militare – non avevamo nessuna possibilità di vittoria in uno scontro frontale con il formidabile e preparatissimo esercito di Roma.

Non tutti però la pensavano come te…

Purtroppo mi accorsi che l’enorme massa di uomini che mi aveva seguito ragionava più da gladiatore che da soldato, la gran parte di loro infatti voleva vendicarsi dando una sonora lezione ai romani per pareggiare il conto delle umiliazioni e delle angherie patite durante gli anni della schiavitù.

In ogni caso ci furono degli scontri con le legioni romane.

Sì, nel nostro peregrinare nella penisola ci scontrammo diverse volte con truppe dell’esercito di Roma e alcune battaglie sul campo le vincemmo noi, tant’è vero che alla fine di ogni scontro si radunavano nel nostro accampamento molti mercanti pronti ad acquistare il bottino che avevamo conquistato, ma io proibii di ricevere in cambio oro e argento: i miei uomini dovevano accettare solo ferro e rame, metalli necessari per forgiare nuove armi.

Roma non poteva tollerare ulteriormente che un piccolo per quanto agguerrito esercito di schiavi e fuoriusciti dalla società potesse esistere e ingrandirsi senza nessuna conseguenza, eravate come un tumore che bisognava estirpare ad ogni costo.

Per sottrarmi alle legioni romane che mi davano la caccia decisi di riparare in Cilicia (odierna parte Sud della Turchia), ma non riuscii a realizzare il mio piano a causa del tradimento dei pirati con cui mi ero incontrato e che, all’ultimo momento, ci rifiutarono le navi necessarie.

Con quel tradimento tu con i tuoi uomini sei rimasto intrappolato sulla punta estrema della penisola italiana.

Il peggio è che Crasso, sopraggiunto alle mie spalle ebbe l’idea di sfruttare la conformazione del Bruzio (la Calabria appunto) per toglierci ogni via di fuga: fece costruire una palizzata dalla costa ionica a quella tirrenica, lunga 300 stadi pari a 55 km dei vostri. Ma nell’inverno del 72-71 a.C., dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio, ci riuscimmo attraverso un vallone in una notte di tempesta.

Poi che successe?

Crasso richiese altri aiuti dal Senato, che gli inviò Pompeo con le sue legioni appena rientrato dalla Spagna, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe accorso Marco Licinio Lucullo al comando delle sue legioni. Il cerchio si stringeva attorno a noi, a questo punto decisi di dirigermi verso Brindisi, nel tentativo di attraversare l’Adriatico.

Riusciste nell’impresa?

Purtroppo un buon numero di schiavi galli e germani durante la notte disertò, indebolendo decisivamente le nostre forze. Messo al corrente dell’imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, decisi di tornare indietro e mi diressi ad Apulia con i miei compagni verso le truppe di Pompeo, in quella terra ebbe luogo la battaglia finale, dove fummo non solo sconfitti ma sbaragliati e annientati completamente.

 

La morte di Spartaco, crocifisso lungo la via Appia (secondo una tradizione non accolta però dagli storici romani), marmo bianco di Louis-Ernest Barrias, 1871, ora a Parigi, Giardino delle Tuileries.

L’ultimo atto della guerra contro Spartaco, lo schiavo che osò ribellarsi a Roma, fu un’autentica carneficina, rimasero uccisi sul campo di battaglia migliaia di schiavi tra i quali lo stesso Spartaco, il cui corpo comunque non fu mai ritrovato. I romani persero solo mille uomini e fecero seimila prigionieri, che Crasso fece crocifiggere lungo la via Appia (che da Capua porta a Roma). Altri reparti dell’esercito di Spartaco, circa cinquemila uomini, tentarono la fuga verso Nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così in un bagno di sangue la rivolta di Spartaco.

Quello che è certo è che la ribellione degli schiavi scosse profondamente il popolo romano, che «a causa della grande paura cominciò a trattare i propri schiavi meno duramente di prima». Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare.

Le idee di Spartaco, a distanza di secoli, entrarono a far parte del pensiero politico moderno, personaggi come Carlo Marx e Rosa Luxembourg lo presero a modello nei loro programmi di emancipazione come simbolo della rivolta delle classi servili (cioè gli operai) contro quelle padronali.

Il mito di Spartaco si staglia nei secoli più nitido che mai.

Don Mario Bandera




Beato Allamano:

Caldo, fuoco e ceneri


L’estate dardeggia ormai sulle nostre povere teste e il desiderio di fuga verso un po’ di riposo e di fresco irrompe ovunque (sindrome, forse, dell’ormai famosa «chiesa in uscita»). Anche i nostri «padri capitolari», dopo il mese di soggiorno romano, sono rientrati nelle sedi più disparate del pianeta, – pardon! – della geografia missionaria. Soltanto alcuni di loro (i «quattro dell’Ave Maria») ripeteranno il cammino inverso per rientrare nell’Urbe e, insieme a padre Stefano, riconfermato padre generale, cercheranno di aiutare i Missionari della Consolata nel non facile cammino della RIVITALIZZAZIONE e della RISTRUTTURAZIONE (le due famose passwords del Capitolo appena concluso). Guidati, in questo, dalla presenza paterna del nostro beato Fondatore, Giuseppe Allamano, e dalla fedeltà al suo carisma, cioè quella destinazione tenace e irrinunciabile ad gentes, che è il succo e il sapore della nostra vita. E, tutto, con il fervore degli inizi, quando lui, il Fondatore, era ancora presente e cercava in tutti i modi di far capire a quei primi giovani, preti e laici, che non aveva senso sognare l’Africa e andarvi, se non si era prima uomini veri, cristiani senza sconti… insomma: santi! Proprio durante il Capitolo, circolava tra i missionari uno strano frammento apocrifo rivolto ai missionari (qualcuno, più addentro alle cose, sosteneva di riconoscervi l’inconfondibile stile di papa Francesco) che diceva pressappoco così: «Dopo più di 100 anni, il vostro carisma originario non ha perso la sua freschezza e vitalità. Però, ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! E, poi, il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire «pietrificarlo» o metterlo in un quadro. Il riferimento all’eredità che vi ha lasciato Giuseppe Allamano non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione, ma fedeltà alla tradizione «significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri». L’Allamano non vi perdonerebbe mai di perdere la libertà e trasformarvi in guide da museo o adoratori di ceneri. Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro!». Non ci mancava che l’accenno al fuoco, in questa calda e torrida estate! Ma, senza questo fuoco che ci rende «discepoli missionari», non si farà molta strada; altro che rivitalizzazione e ristrutturazione…
Buon cammino, allora, sempre ispirati e trepidamente seguiti da lui, il nostro Padre Fondatore!

Giacomo Mazzotti

Leggi tutte le sei pagine nello sfogliabile.

 




Sommario agosto-settembre 2017


Survival International ci fa vedere con occhi nuovi il rapporto tra conservazionismo (e parchi e riserve nazionali) e popoli indigeni. – Scopri la potenzialità di un semplice “Ciao”. – Partecipa al Capitolo generale dei Missionari della Consolata. – Scopri una scuola che costruisce la pace in Colombia – E le Chiese evangeliche in America Latina. – Vai nel Montenegro, in Liberia, in Marocco e gioca a pallone in Cina. – E ancora: di preghiera, di Turismo sostenibile, di Spartaco e del Beato Allamano …

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???  03  ???   Editoriale: Ciao

Dossier

???  35 ???    La loro terra, il nostro futuro di Survival International

Articoli

??? 10  ???   Colombia: La Pace passa per la Scuola di Marco Bello
??? 16  ???   Italia: Tornare alle radici della Missione di Gigi Anataloni
??? 21  ???   America Latina: A ogni Fede la sua Sharia di Paolo Moiola
??? 27  ???  Marocco: Assetati d’argento di Daniela Del Bene
??? 51  ???  Montenegro: Sotto l’ombrello della Nato di Francesco Martino (Obc)
??? 57  ???  Liberia: Cronache dal Paese inventato di Valentina Giulia Milani
??? 63  ???  Cina: Se Pechino porta il Pallone di Gianni Scravaglieri

Rubriche

??? 05  ???   Cari Missionari
??? 08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
??? 31  ???   Insegnaci a pregare 7. Dio, Amico e Padre di Paolo Farinella
??? 68  ???   Librarsi: Schiava dell’Isis di Luca Lorusso
??? 70  ???   Cooperando: Turismo sostenibile /2 di Chiara Giovetti
??? 74  ???   I Perdenti /27 Spartaco di Mario Bandera
??? 77  ???  ALLAMANO a cura di Sergio Frassetto


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Cari Missionari


Mama Ufariji

Bambini dell’Ufariji

Era il lontano agosto del 1979 quando per la prima volta volai in Kenya. Non era il classico viaggio turistico, era un viaggio diverso, speciale, organizzato per i missionari da Alda Barone che, facendoti visitare il Kenya, ti faceva conoscere la realtà delle missioni della Consolata, era insomma il viaggio che da anni sognavo di fare. L’itinerario della prima settimana prevedeva la visita di diverse missioni ed è così che, per la prima volta, ho avuto l’opportunità di incontrare e conoscere i missionari con i quali sono tutt’ora in contatto. Padre Adolfo De Col era a Kangeta (nel Meru) all’epoca e padre Giuseppe Quattrocchio era a Westland (Nairobi) a gestire il suo negozio con tanti oggetti che tu acquistavi per portarti a casa un pezzo di Kenya (ora sono tutti e due in casa madre a Torino, sempre arzilli nonostante gli anni si facciano sentire, ndr). A Kangeta ho tenuto a battesimo una bellissima bambina, Cristina, che ho potuto seguire per anni.

A quella prima esperienza ne seguì una nel 1982 sempre in agosto quando, con mio marito Gianni, siamo ritornati in Kenya per trascorrere alcune settimane nella missione di Kangeta. Viaggio indimenticabile anche perché eravamo a bordo del primo aereo che arrivava dopo il colpo di stato. Ma questa è un’altra storia. Il periodo a Kangeta è stato incredibilmente importante perché ha consolidato il mio rapporto con la congregazione che non ho più lasciato.

Sono poi trascorsi moltissimi anni, perché nel frattempo sono diventata mamma ed ho aspettato che mio figlio crescesse per poter ritornare con lui e far conoscere anche a lui quel mondo al quale sentivo di far parte. Così nel luglio 2000 siamo ritornati tutti e tre insieme. Il quarto viaggio risale al giugno del 2006 sempre per la durata di qualche settimana passando da una missione all’altra per reincontrare gli amici missionari e consolidare la nostra amicizia. Sono ritornata poi nel luglio del 2009 portando un’amica.

Bambini dell’Ufariji con Liliana Valle

Quando decisi di smettere di lavorare per poter finalmente realizzare il sogno che avevo nel cassetto per quasi 40 anni, e cioè di trascorrere un periodo più lungo in missione, ne ho parlato con un amico missionario che mi fece conoscere la Familia ya Ufariji (a Kahawa West, Nairobi) che visitai nell’aprile 2010. Qui vengono ospitati bambini che vengono trovati a vagabondare nelle strade, alcuni sono orfani, alcuni hanno famiglia ma la realtà nella quale vivono è talmente difficile che i genitori, magari anche alcolizzati, non sono in grado di provvedere loro.

Così ebbe inizio la più bella «avventura» della mia vita. Era il gennaio 2011. Trascorsi ben tre mesi con i «miei» ragazzi a Kahawa West. Certo non è stato così semplice all’inizio, ho dovuto farmi accettare dai ragazzi, con i più piccoli naturalmente è stato più facile, ma con i più grandi c’è voluto un po’ di tempo. Alla fine ce l’ho fatta, ed è stato veramente gratificante. Con i missionari e lo staff di Familia invece non c’è stato alcun problema, sono stata accettata da tutti con affetto e mi hanno fatto subito sentire parte della famiglia.

Da parte mia c’è sempre stata la massima disponibilità per aiutare in molteplici attività: cucire, lavare, cucinare, seguire i ragazzi nei compiti a casa, metterli a letto alla sera, ma soprattutto cercare di trasmettere loro tutto l’amore di cui ero capace e di cui avevano tanto bisogno. Insomma ero diventata «mamma Ufariji» per tutti.

Sono così ritornata l’anno successivo e quello dopo ancora. E così quest’anno è stato il mio settimo anno da keniana, perché ormai mi sento di esserlo al cinquanta per cento. I miei ragazzi sono cresciuti, i grandi sono usciti, perché a diciotto anni per legge si deve uscire dalla Familia; qualcuno è già papà, molti hanno trovato un lavoro, alcuni hanno finito gli studi universitari, altri stanno ancora studiando, pochissimi hanno scelto una strada sbagliata. Insomma, come in tutte le famiglie, ci può sempre essere una pecora nera. Ma il lavoro che hanno fatto negli anni i missionari è fantastico: hanno cresciuto i bambini con amore, li hanno fatti diventare uomini e hanno fatto il possibile per prepararli alla vita che dovevano affrontare. Negli anni si sono aggiunti altri piccoli che hanno arricchito la famiglia ed hanno contribuito alla sua continuità come realtà molto importante per la loro crescita.

Certo che di soddisfazioni ne ho avute ed in abbondanza. Ho tanti episodi che ricordo con piacere che mi fanno capire di essere stata utile ed il mio lavoro necessario. Mi sopravvaluto? Spero di no, gli abbracci dei ragazzi quando mi accolgono al mio arrivo, i contatti che continuo ad avere con i più grandi anche se sono già usciti, il rapporto bellissimo ed affettuoso con i missionari e lo staff mi fa dire che ho scelto e seguito la strada giusta, che spero di poter proseguire per molti anni ancora, fino a quando il buon Dio continuerà a regalarmi una buona salute.

Liviana Valle
o, meglio, mamma Ufariji, 17/05/2017

Complimenti

Complimenti, padre Gigi, per «Interrogativi» (MC 4/2017), così puntuale, limpido, e ricco di indicazioni e di suggerimenti. E soprattutto di «chiamate a correo» (richiamo alla corresponsabilità, ndr) quanto mai opportune e necessarie. Cordialmente.

Ferdinando Albertazzi
18/05/2017

Grazie dei complimenti. Sono un incoraggiamento a fare ancora meglio. Ci proviamo con l’aiuto di Dio e mettendoci il cuore.


Capitolo generale

Spett.le Direttore Missioni Consolata,
ho dato una scorsa alla vostra rivista di maggio, notando che sul Capitolo in corso avete dedicato solo l’editoriale e un trafiletto a pagina 7. Data l’importanza del Capitolo per l’istituto, mi sarei aspettato maggiore spazio ad esso dedicato, almeno il documento redatto dal padre generale di preparazione e programmazione, debitamente commentato.

Don Pietro C.,
vostro lettore, 12/05/2017

Essendo io stesso membro del capitolo generale, mi sono trovato un po’ «inguaiato» da un accumularsi di impegni da portare a termine prima dell’inizio del capitolo stesso il 22 maggio, senza avere il tempo materiale per fare quello che lei ha suggerito e che anch’io avevo pensato: una presentazione articolata dei punti forti del dibattito capitolare, in una maniera comprensibile a tutti. Ho optato per l’editoriale nella speranza di riuscire poi, durante e, soprattutto, dopo il capitolo, a condividere con i lettori e gli amici il cammino che sarà fatto. Grazie per il suo accompagnamento nella preghiera, affinché, come ha scritto al nostro padre generale «la Consolata, quale Madre del suo istituto e Consigliera mirabile, vi consoli aiutandovi a realizzare al meglio i lavori di preparazione, di esecuzione e attuazione del poderoso impegno capitolare».

Le sto scrivendo (a inizio giugno) in uno dei pochi momenti liberi del capitolo, al quale sono stato, tra l’altro, l’ultimo ad arrivare per poter partecipare il 21 maggio alle cresime dei ragazzi della parrocchia in cui sono viceparroco a Torino.

Siamo riuniti a Roma in 45 missionari: 23 africani, 8 latinoamericani e 14 europei. Rappresentiamo missionari di 23 nazionalità diverse che lavorano in 26 paesi in quattro continenti (non abbiamo nessuno in Oceania). Nel cuore portiamo la passione per la Missione, che è opera di Dio e non nostra, e che vorremmo servire con dedizione e «professionalità». Siamo coscienti che per fare questo servizio nella Chiesa non basta la buona volontà e non servono operazioni cosmetiche, ma ci viene richiesta una vera conversione, a cominciare da noi stessi.

Quasi in contemporanea con noi, anche le nostre sorelle, le missionarie della Consolata, dal primo maggio, stanno facendo il loro capitolo, occasione di grazia per rilanciare con coraggio il loro servizio alla Missione come impegno a vita che le porta a uscire dai propri paesi di origine per l’annuncio del Vangelo ai non cristiani. Hanno già rieletto la loro superiora generale, confermando suor Simona Brambilla per un altro sessennio ed eletto un nuovo consiglio. A loro va la nostra vicinanza nella preghiera, nella condivisione della stessa vocazione, dello stesso carisma e degli stessi fondatori, il beato Giuseppe Allamano e la Vergine Consolata.

Mentre le scrivo siamo a metà del capitolo. Quando questa rivista sarà nelle sue mani avremo già concluso e saranno stati eletti (o rieletti) i membri della nuova direzione generale. Sul numero di agosto-settembre della rivista spero proprio di raccontarvi qualcosa dal di dentro di questo evento così importante per noi.

Eucarestia con il Card Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano

 

Mancanza di serietà?

Buongiorno,sono scandalizzato da due testi apparsi sull’ultimo numero della vostra rivista (MC maggio 2017): a pagina 8 si parla dei Dalit, ma non si dice cosa siano. Sono persone costrette a togliere dalle latrine delle altre caste le feci umane, spesso a mani nude, ecc. (v. la vostra rivista del marzo 2016). Alla pagina successiva, sotto il titolo che sembra sarcastico di «Libertà religiosa», si parla delle attività religiose in Cina, senza dire le cose essenziali: innanzitutto la libertà religiosa lì non esiste affatto, nemmeno sulla carta. Anzi, i veri credenti sono puniti coi lavori forzati nei laogai, con le torture e la pena di morte. Perciò vi chiederei perlomeno, nel prossimo numero, di scusarvi per la disinformazione, e soprattutto di trattare quei temi, magari succintamente, ma con la dovuta serietà. Cordiali saluti, in Cristo. Nel frattempo sospendo ogni mio finanziamento alla vostra rivista, nella speranza di poterlo riattivare.

dott. Carlo C.
15/05/2017

Caro dott. Carlo,
saluti a lei. In verità la sua email mi ha sorpreso. Ammetto che il semplice titolo «Libertà religiosa» non è forse esaustivo, ma certo non è sarcastico. I contenuti della breve notizia sono molto chiari e non lasciano dubbi. Quanto ai Dalit, non sono sconosciuti ai lettori di MC; lei stesso ci ricorda l’ultima volta che ne abbiamo parlato in un articolo ben documentato sulla loro condizione. Lo stile delle notizie in quella rubrica è molto scarno ma non superficiale, e i titoli devono essere brevi.

Onestamente non pensiamo di essere stati ingiusti verso i Dalit né superficiali su un tema grave come quello della libertà religiosa cui dedichiamo da anni ampio spazio, né scorretti con i nostri lettori che proprio dalla nostra pubblicazione ricavano informazioni spesso ignorate dagli altri media. Certo, non siamo esenti da errori, ma le assicuriamo che cerchiamo di fare il nostro servizio di informazione con amore alla verità e profondo rispetto per le persone di cui scriviamo e per i nostri lettori.

Sorpresa e tristezza

Con sorpresa ho visto la pubblicità sul quotidiano «la Stampa» di martedì 16 maggio u.s. con la richiesta di sostenere le Vostre opere in varie parti del mondo. Purtroppo i brutti articoli apparsi su «la Repubblica» riguardanti le lotte intestine nel vostro istituto (Roma contro Torino) ed il mormorio negativo tra i cittadini non lasciano immaginare pensieri benevoli nei vostri confronti da sempre considerato dai piemontesi ente con un alto impegno verso i più deboli. Chiedo scusa ma è lo sfogo di una persona che da generazioni ha sentito parlare delle vostre attività meritorie e ne ammirava l’operato. Con ossequio.

Fiorella Comoglio
22/05/2017

Gentile Sig.ra Fiorella,
ho ricevuto la sua email piena di tristezza alle notizie apparse su «la Repubblica». Quegli articoli hanno fatto male anche a noi. Le garantisco che molti missionari hanno pianto di fronte a quelle notizie che, pur avendo un fondo di verità, vengono presentate in modo da infangare tutto l’istituto. Le posso comunque assicurare che non c’è alcuna lotta intestina tra i missionari di Roma e quelli di Torino, solo un faticoso cammino per gestire con trasparenza, onestà e responsabilità, un bene sul quale l’istituto ha investito allo scopo di sostenere le sue opere in missione e i suoi missionari anziani.

Gli errori (probabilmente anche in buona fede) di alcuni missionari, non intaccano l’impegno generoso per i più deboli di centinaia di missionari della Consolata. Come direttore della rivista e impegnato nella comunicazione da quaranta anni, e come missionario che ha passato 21 anni in Kenya, conosco bene il lavoro dei miei confratelli e so come la maggior parte di loro abbia veramente donato tutta la vita e la stia dando ogni giorno per testimoniare il Vangelo ed essere con i poveri e per i poveri. Vivendo ora in Casa madre a Torino, le assicuro che è per me una sofferenza grande vedere alcuni di loro tornare dalle missioni consumati, con una sola valigia (perché hanno dato tutto e lasciato poi tutto laggiù) e malati. Sono davvero testimoni viventi di una dedizione che nessuno scandalo può cancellare.

Vorrei, tramite la rivista e anche la piccola campagna che abbiamo fatto per il 5×1000, continuare a dar voce all’«erba che cresce in silenzio», come i molti miei confratelli che continuano a dare la loro vita per servire la Missione di Dio, senza farmi spaventare dal fragore dell’«albero che cade».