Donne Yazide: Schiava dell’Isis


Hana è una giovane donna yazida1, infermiera nell’ospedale di Duhok, Kurdistan irakeno2. Il 3 agosto del 2014 si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar, quando arrivano i miliziani dell’Isis. Perde subito il fratello e la madre. Lei viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore. Il romanzo di Claudia Ryan, pur narrando una storia di fantasia, racchiude in sé il dramma di persone reali.

Il 3 agosto del 2014 la città di Sinjar, nel Nord dell’Iraq, nella Regione autonoma del Kurdistan irakeno, viene presa d’assalto dai miliziani dell’Isis. Improvvisamente.

Sinjar è uno dei centri più importanti dei fedeli Yazidi, minoranza religiosa considerata «infedele» dal Da’esh. In pochi giorni migliaia di Yazidi vengono uccisi o costretti alla conversione (se uomini o ragazzi, dagli 11 anni in su), o ridotti alla schiavitù sessuale (se donne, o ragazze anche di 9 anni).

Secondo il rapporto del Consiglio per i diritti umani dell’Onu intitolato «They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis»3 (Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi) redatto nel giugno 2016, si è trattato di un vero e proprio genocidio. Nel report non si indicano cifre esatte, a parte il dato di 3.200 donne e bambini che, ancora a giugno 2016, erano in stato di schiavitù tra Siria e Iraq.

Il bisogno di conoscere

Questo è, a grandi linee, il contesto geopolitico nel quale Claudia Ryan inserisce la storia raccontata nel suo romanzo «Hana la yazida», edito per San Paolo nel 2016. Colpita dalle notizie che nell’estate del 2014 arrivavano da quelle zone di guerra, l’autrice ha voluto approfondire, prima studiando la situazione e la storia di quelle terre, poi compiendo, nel 2015, un viaggio in prima persona in Kurdistan. Lì ha avuto modo di incontrare e di parlare con diverse vittime.

Dal loro racconto è nata la figura di Hana, personaggio di fantasia che racchiude in sé il dramma vissuto da molte persone reali.

La storia

Giovane donna emancipata, infermiera nell’ospedale di Duhok, il 3 agosto del 2014 Hana si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar. Con l’arrivo dei miliziani dell’Isis perde il fratello e la madre e viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore, della quale perderà quasi subito le tracce.

Il romanzo inizia al tempo in cui Hana è già libera e decide di registrare sul suo tablet la propria storia, raccontandola ad alta voce per elaborare l’orrore vissuto. Sappiamo da subito, quindi, che Hana è sopravvissuta e che è tornata a fare il suo lavoro, ma che l’ombra della violenza subita non l’ha ancora lasciata, insieme all’angoscia per la sorte della sorella. Quello che si sviluppa nelle registrazioni che Hana cerca di fare con costanza è il racconto della sua schiavitù sessuale, dell’umiliazione, del senso di colpa, della paura costante provati nell’essere venduta ripetutamente, usata da uomini senza scrupoli, fino alla fuga, all’incontro con persone che rischiano la propria vita per proteggerla, e al ritorno alla sua piena libertà.

Senza scendere mai in dettagli morbosi e cercando di raccontare in modo umano le situazioni disumane della schiavitù subita dalla protagonista del suo romanzo, Claudia Ryan ci offre l’opportunità di comprendere meglio un fenomeno che forse abbiamo conosciuto solo per i suoi grandi numeri, incontrando da vicino una vittima e approfondendo la conoscenza del suo contesto sociale e culturale.

L.L.

Note:

1- Sulla minoranza yazida abbiamo recentemente pubblicato un dossier: Simone Zoppellaro, Yazidi, Missioni Consolata, marzo 2017, pp. 35-50.

2- Sul Kurdistan irakeno si veda il dossier: Simone Zoppellaro, Orgoglio Kurdo, Missioni Consolata, luglio 2017, pp. 35-50.

3- Human rights council, They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis, 15 giugno 2016.

Il libro

Claudia Ryan, Hana la yazida. L’inferno è sulla terra, San Paolo, Milano 2016, 140 pp, 14,50 €.

Il sito dell’autrice

www.claudiaryan.net


Intervista all’autrice

Nel Kurdistan hanno vissuto l’orrore

Com’è nato il suo libro?

«Un giorno, casualmente, ho letto nel web un articolo che parlava di queste giovani donne rese schiave sessuali dai Da’esh. Mi ha colpito profondamente, lasciandomi attonita. Ho cercato altre storie, altri articoli, anche in lingua inglese, fino ad arrivare a leggere le relazioni di Human Rights Watch. In realtà all’inizio non l’ho fatto con l’intento di scrivere un romanzo, era solo puro interesse personale, ma poi, poco alla volta, è nata una storia e ho sentito l’esigenza di scriverla. A quel punto, però, era molto importante andare nel Kurdistan iracheno».

Perciò fondamentali sono state le ricerche e, soprattutto, il viaggio in Kurdistan.

«Sì, il viaggio che ho intrapreso mi ha messo in diretto contatto con la loro realtà e con le persone. Non si può scrivere di qualcosa che non si conosce.

In Kurdistan ho potuto vedere i luoghi dove sviluppare la storia, capire cosa si mangia, come si vestono, guardare le persone negli occhi, ascoltare direttamente le loro storie. Inoltre le guide e gli interpreti mi hanno spiegato meglio la religione yazida, la società curda e, nello specifico, yazida».

Può raccontarci un episodio o suggestione significativa di quel viaggio?

«Difficile… tutto il viaggio è stato una suggestione, è stata un’esperienza magnifica e profondamente umana. Gli episodi più commoventi sono stati quando ho parlato direttamente con le donne che erano state schiave, sabaye. Ogni volta mi sentivo devastata, ancora oggi a ripensarci mi vengono le lacrime agli occhi.

È stato bello, invece, ascoltare le storie di chi, quel 3 agosto 2014, riuscì a fuggire, di come ci riuscì, e poi essere invitata a pranzo o a cena nelle case private, toccare con mano la loro ospitalità. Inoltre è stato molto interessante visitare la città santa yazida, Lalish, ed è stato un onore poter parlare con uno dei loro capi religiosi, Baba Chawish».

Hana è un personaggio inventato che riassume le esperienze reali di diverse donne.

«Esatto. Il libro non racconta una storia vera, ma una storia plausibile, in quanto basata su testimonianze lette o ascoltate in prima persona. Hana, nella narrazione, incontra ragazze le cui vicende sono invece prese dalla realtà.

Il modo in cui Hana, nel libro, fugge, è una mia invenzione, ma poi ho scoperto che una giovane donna yazida è scappata davvero in un modo molto simile!».

Può raccontarci qualcosa degli incontri con le donne che hanno subito la schiavitù?

«Ho intervistato donne dai 17 ai 45 anni. Hanno visto cose terribili, come i propri cari venire uccisi sotto i loro occhi. Sono state umiliate, hanno perso la loro libertà, nel senso più vero della parola. Chi è giovane può superare il trauma, rifarsi una vita, ma le donne che hanno visto morire il marito e i figli maschi, che magari hanno una figlia ancora in mano ai Da’esh e non sanno dov’è… be’ per loro è impossibile riprendersi».

Cosa desiderava comunicare con il suo libro?

«Volevo raccontare cosa accade a queste donne, cercare di far immedesimare il lettore/lettrice nel vissuto di Hana, così che fosse più comprensibile, che colpisse il cuore prima dell’intelletto. Per questo ho preferito la formula del racconto in prima persona, per narrare le vicissitudini con i Da’esh. Spero che chi legge questo libro possa poi sentirsi più simpatetico con i popoli del Medio Oriente».

Lei è insegnante in un liceo, ha mai raccontato quello che ha visto in Kurdistan ai suoi studenti? Quali reazioni ha visto in loro?

«Oltre alla presentazione del libro, ho organizzato una conferenza sugli Yazidi, il genocidio che hanno subito, la schiavitù delle donne. Ho parlato di questi argomenti nella mia e in altre scuole: due ore di conferenza con ragazzi (una volta ne avevo davanti circa 250) assolutamente attoniti, concentrati, commossi. Ho avuto la loro totale attenzione per tutto il tempo e tante domande alla fine, tutte le volte. Penso sia importante parlare ai giovani di questi argomenti, sensibilizzarli, e quando si trovano davanti qualcuno che riporta ciò che ha visto e ascoltato in prima persona, per loro è più coinvolgente».

L.L.




Turismo sostenibile:

4 chiacchiere con un esperto /2


Nel numero di luglio vi abbiamo proposto una panoramica sul turismo internazionale, sui suoi volumi in termini di movimenti di persone e giro d’affari e sul dibattito a proposito della sostenibilità e del contributo del turismo allo sviluppo. Questo mese torniamo sul rapporto fra turismo, cooperazione e migrazione facendoci guidare da Maurizio Davolio, il presidente dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr).

Anche per il 2017 le proiezioni degli arrivi internazionali di turisti segnano un trend in crescita: secondo il Gruppo di esperti del World Tourism Organization (Unwto), l’aumento su base planetaria dovrebbe attestarsi fra il 3 e il 4 per cento.

Quanto agli italiani, una ricerca dell’Ufficio Studi Coop@ della primavera scorsa su un campione di mille persone fra i 18 e i 65 anni ha rilevato che sono 84 su cento le persone che intendono andare in vacanza quest’anno, contro il 76 per cento del 2016. «Se è vero», si legge nel commento all’infografica di italiani.coop, «che quasi 4 italiani su 10 scelgono ancora la vacanza low cost and no frills, rispunta, almeno nei desideri, il piacere di una vacanza high value, in albergo o in un villaggio, magari anche in crociera (+24% le intenzioni di questa tipologia di viaggio rispetto al 2016)».

Quanto alla sensibilità rispetto al turismo sostenibile, la tendenza appare in aumento, almeno nell’indagine@ condotta dal portale web di viaggi Tripadvisor secondo la quale quasi 2 italiani su 5 (38%) prevedono di fare scelte di viaggio ecofriendly nel 2017.

Sulla stessa linea anche i dati emersi dallo studio realizzato dalla rete LifeGate@ creata da Marco Roveda, imprenditore e fondatore dell’azienda agricola biodinamica Fattorie Scaldasole, e l’Istituto di ricerca Eumetra Monterosa. La ricerca – che ha il patrocinio dalla Commissione europea e il sostegno di Best Western, Ricola, Unipol Gruppo, Vaillant e Lavazza – ha interessato anche in questo caso un campione di mille persone, rilevando che «3,5 milioni di italiani si dicono disposti a spendere di più per un viaggio all’insegna della tutela e del rispetto dei luoghi che visitano, mentre sono due milioni coloro che già oggi organizzano i loro momenti di svago in modo consapevole». Maurizio Davolio, presidente dell’Associazione italiana Turismo Responsabile (Aitr), ci fornisce alcune chiavi per leggere il fenomeno anche nelle sue relazioni con la cooperazione e le migrazioni.

Presidente, innanzitutto qualche precisazione per orientarci con i termini. Che differenza c’è fra turismo sostenibile e turismo responsabile?

«Non sono sinonimi, ma nemmeno così distanti l’uno dall’altro. Il turismo sostenibile riguarda più il lato dell’offerta. Si riferisce alle politiche poste in essere dagli enti pubblici e alle scelte delle imprese ricettive – ma anche della ristorazione e del trasporto – per assicurare che il turismo abbia un impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità. Risparmio energetico, uso delle energie rinnovabili, raccolta differenziata, risparmio dell’acqua, contrasto degli sprechi alimentari sono alcuni dei criteri alla luce dei quali valutare la sostenibilità dell’offerta turistica.

Il turismo responsabile, invece, riguarda il lato della domanda, cioè le organizzazioni che propongono viaggi e i viaggiatori stessi. Mentre nel turismo di massa ci si concentra sulle esigenze del viaggiatore, il turismo responsabile dà priorità alla giustizia sociale ed economica, al rispetto dell’ambiente e delle culture. Un aspetto su cui Aitr insiste molto è quello della sovranità delle popolazioni ospitanti, del loro diritto a essere al centro dello sviluppo turistico dei loro territori».

Può fare alcuni esempi di impatto negativo sulle comunità che il turismo sostenibile cerca di neutralizzare?

«Per prima cosa mi viene in mente quella che si chiama in gergo tecnico staged authenticity, l’autenticità fittizia, allestita: è il caso degli eventi culturali o religiosi che vengono spostati di data, accorciati, modificati a uso e consumo dei turisti, i quali magari vogliono vedere una cerimonia tradizionale ma sono disposti ad assistervi solo per un tempo limitato o nei giorni da loro preferiti.

Vi è poi il cosiddetto leakage, cioè la parte di spesa turistica che non rimane in loco ma va ad esempio a catene di alberghi o fornitori di beni (come il cibo) che hanno la sede in paesi diversi da quello ospitante».

Come si caratterizzano, in concreto, i viaggi sostenibili nel giorno per giorno della vacanza?

«Si viaggia in gruppi piccoli, dodici persone al massimo, e lentamente: la lentezza permette la profondità, l’incontro, lo scambio. Prima di partire è prevista una preparazione con incontri e letture consigliate; in loco, poi, si viene a contatto con le autorità locali che aiutano i viaggiatori a farsi un’idea più realistica delle bellezze ma anche dei problemi del posto. Si cerca di consumare cibo locale, di appoggiarsi a strutture il cui profitto porti reali benefici alla comunità ospitante, di assumere atteggiamenti che non possano essere male interpretati o creare disagio, dal fotografare le persone senza chiedere il permesso al portare gioielli, che noi suggeriamo di lasciare a casa: in viaggio non servono a nulla».

Come fate per raggiungere con le vostre proposte non tanto i «già convinti» che sono spontaneamente interessati a questo modo di viaggiare, bensì i «non convinti», che cercano il pacchetto senza pensieri e impegni?

«Intanto chiariamo che turismo sostenibile non significa fatica e mancanza di divertimento. Al contrario: la lentezza permette anche di prendersi una pausa dai ritmi frenetici. Inoltre, chi fa questi viaggi di solito riferisce di essersi divertito proprio perché ha fatto esperienze e acquisto informazioni che prima non aveva.

Per fare conoscere questo modo di viaggiare noi, come Aitr, non abbiamo le risorse per grandi campagne mediatiche, perciò lavoriamo sulle alleanze. Ad esempio con il network multimediale L’agenzia di Viaggi@ o con il programma televisivo Donnavventura@, che inserisce in ogni puntata un momento dedicato al turismo responsabile. Entrambi i partner diffondono il nostro vademecum di 17 punti@, che proponiamo anche alle agenzie di viaggio. Queste possono stamparlo per affiggerlo o inserirlo nei documenti che consegnano al cliente. Il momento storico non è facile per i tour operator, spesso impegnati a sopravvivere a causa del massiccio ruolo della rete che permette al turista di bypassarli. L’obiettivo attuale è quello di contaminare a poco a poco il mercato convenzionale attraverso degli strumenti di consapevolezza e sensibilizzazione».

Sebbene non ci siano ancora molti dati ufficiali circa i volumi del turismo sostenibile, le indagini statistiche dei singoli operatori – come quelle, citate sopra, di Tripadvisor e Lifegate – ne restituiscono un’immagine di fenomeno in netta crescita. A che cosa è dovuta questa espansione?

«Principalmente alla maggior attenzione per la sostenibilità da parte degli enti istituzionali come l’Organizzazione mondiale del Turismo e Unione europea, attenzione che si riverbera sull’industria turistica. Per accedere ai fondi europei o delle Nazioni Unite, infatti, chi li richiede – enti pubblici, governi, imprese – è tenuto a rispettare i criteri di sostenibilità. Resta il problema di verificare che gli adeguamenti alla sostenibilità siano poi fatti in concreto e, per il momento, i controlli sono molto episodici».

Quale legame vede fra la cooperazione allo sviluppo italiana e il turismo sostenibile, oltre a quello delle iniziative come il finanziamento di progetti sul campo che promuovano l’accesso delle comunità al business turistico? (vedi alcuni esempi sulla newsletter di giugno dell’Aics).

«La legge 125/2104 che ha riformato la cooperazione ha introdotto una serie di opportunità. Aitr infatti è nel Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo (composto, si legge nell’articolo 16 della legge, dai principali soggetti pubblici e privati, profit e non profit, della cooperazione internazionale allo sviluppo, ndr). Per il settore del turismo, nel Consiglio è presente solo Aitr, mentre non ci sono le associazioni di categoria. Aitr è un ente profit perché ha fra i suoi soci, oltre a Ong e associazioni, anche tour operator, case editrici e imprese. E questo rappresenta un vantaggio, perché la nostra presenza favorisce la mediazione, il dialogo e anche il partenariato fra profit e non profit».

Come si legano, invece, turismo sostenibile e migrazione? Aitr porta avanti iniziative di turismo «cittadino» alla scoperta delle comunità di migranti.

«Credo che lei si riferisca a Migrantour@, le passeggiate interculturali ideate dal giovane antropologo Francesco Vietti e lanciate prima su Torino dalla cooperativa Viaggi Solidali@ per poi estendersi a Milano, Firenze, Genova e Roma e anche all’estero, a Parigi, Marsiglia, Valencia e Lisbona. I partecipanti vengono guidati alla scoperta delle botteghe artigianali, dei negozi tipici, dei luoghi di culto nei quartieri multietnici delle città e hanno l’occasione di fermarsi a parlare con le persone che gestiscono questi esercizi o di conoscere le associazioni di promozione culturale delle varie comunità».

Che cosa giudica particolarmente positivo di questa esperienza?

«Dal lato del turista, chi partecipa riesce effettivamente a farsi un’idea più chiara ed equilibrata delle comunità e delle loro caratteristiche. Alcune volte i partecipanti si incuriosiscono al punto da scegliere come meta delle vacanze proprio il paese dei migranti con cui sono venuti a contatto.

Dal lato dei migranti, il vero salto di qualità è stato proprio quello di diventare loro stessi le guide: gli effetti immediati sono una maggior autostima oltre che una piccola entrata per il servizio reso come ciceroni. Ma l’aspetto forse più interessante è che le guide migranti devono conoscere le caratteristiche delle comunità diverse dalla loro per poterle raccontare ai turisti. Così un marocchino può trovarsi a dover illustrare la cultura bengalese, afghana, ecuadoriana, conoscendole e apprezzandole e superando quelle diffidenze o tensioni che a volte sorgono fra le comunità».

Quali sono stati i fallimenti che ha visto nella sua lunga esperienza? I tentativi andati male, le storture, i progetti non riusciti?

«Un esempio riguarda alcune esperienze del cosiddetto turismo di comunità, nato spontaneamente dal basso da comunità locali che hanno preso le redini della gestione del turismo sul loro territorio, applicando metodi di democrazia e partecipazione. Quando, in alcuni paesi soprattutto dell’America Latina, le politiche pubbliche hanno cominciato a dare maggior attenzione alle zone interne e rurali, a volte i governi hanno investito sul turismo in queste aree in modo troppo repentino e superficiale, finanziando soggetti dei quali non avevano verificato la solidità e la serietà. Così, in alcuni casi, proprio a causa di questa scarsa competenza delle organizzazioni finanziate, una volta terminata l’iniezione di fondi da parte del governo le esperienze di turismo di comunità si sono bruscamente interrotte, rivelandosi inadeguate e insostenibili.

Questo, purtroppo, ha recato un danno d’immagine al turismo di comunità nel suo complesso, perché ovviamente un fallimento finisce per fare notizia e gettare una cattiva luce anche su chi lavora in modo corretto».

E i progetti di turismo sostenibile promossi e realizzati dalle Ong come funzionano?

«Su questo le cose stanno migliorando. Le Ong storicamente si sono occupate di agricoltura, sanità, accesso all’acqua, non di turismo. Il fatto è che il turismo sembra un’attività alla portata di tutti, perché lo viviamo come viaggiatori, non come operatori. Anche alcune Ong, convinte che in questo campo non fossero necessarie particolari competenze, hanno avviato progetti facendosi tutto in casa, per così dire, con improvvisazione e approssimazione. E finendo magari col realizzare strutture che poi non superavano il vaglio delle autorità preposte ai controlli, o costruendo offerte turistiche tagliate fuori dai principali circuiti, lontane anche dalla comprensione e partecipazione della comunità. Ora invece è diventato chiaro che, come per un progetto agricolo si richiede la valutazione di un agronomo, allo stesso modo per creare un itinerario turistico serve un esperto del settore che sia in grado, ad esempio, di accompagnare le persone del luogo nel riconoscere come un elemento del territorio che per loro è semplicemente parte del quotidiano possa, invece, essere valorizzato e proposto ai viaggiatori. In gergo tecnico, questo elemento si definisce attrattore».

Può fare un esempio concreto?

«Nella zona dei villaggi trogloditi della Tunisia, un’attività che vale la pena di inserire in un itinerario turistico è l’osservazione del cielo. Ma per la popolazione locale, che da quel cielo è accompagnata da sempre, quello non è un aspetto degno di nota. In questo caso, il supporto di un astrofilo che possa guidarne l’osservazione e favorirne la valorizzazione è in grado di fare la differenza. Lo stesso può dirsi di certe abitazioni tipiche, come il nostranissimo trullo: per la comunità locale non era certo un attrattore, ma il luogo dove le persone avevano sempre e, magari nemmeno tanto comodamente, vissuto».

Chiara Giovetti




I Perdenti 27.

Spartaco e la rivolta degli schiavi


Una delle più grandi rivolte di schiavi che l’antica Roma dovette affrontare fu quella capeggiata da Spartaco. Già due volte nella storia secolare di Roma c’erano state cruente ribellioni da parte degli schiavi, la prima tra il 136 e il 132 a.C., la seconda tra il 102 e il 98 a.C., ambedue in Sicilia dove gli schiavi vivevano in condizioni particolarmente dure lavorando nelle miniere e nei campi.

Queste «guerre servili» erano state represse con estrema durezza dalle autorità romane che consideravano gli schiavi degli oggetti di proprietà del padrone, che era libero di fare di loro quello che voleva. Ma la «terza guerra servile», capeggiata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C. fu la più pericolosa, coinvolse oltre centomila schiavi e indigenti e obbligò l’esercito romano a intervenire con le sue legioni migliori.

Il leader di questa ribellione era uno schiavo che proveniva dalla Tracia, un territorio che corrisponde oggi al Sud della Bulgaria più l’estremità orientale della Grecia e la parte europea della Turchia.

Le poche notizie storicamente certe che abbiamo ci presentano Spartaco arruolato nelle truppe ausiliarie romane, poi ridotto successivamente in schiavitù a seguito di un tentativo di diserzione. Molto dotato fisicamente, venne venduto a un lanista (padrone di gladiatori) di Capua e addestrato per quei giochi mortali nell’arena della città. Si racconta che fosse intelligente, acculturato e possedesse oltre a grandi doti umane anche un notevole acume tattico e una profonda conoscenza delle strategie militari romane, come dimostrato dall’abilità con la quale seppe riunire e guidare il suo esercito di schiavi.

Il suo nome nei secoli è stato un punto di riferimento fondamentale per moltissimi «ribelli»,  per tutti coloro che non accettano di essere ridotti in schiavitù e anelano ad avere un’esistenza dignitosa a misura d’uomo.

Visto che tra i personaggi dell’antichità il tuo nome e la tua storia godono di una immensa considerazione, puoi dirci come ebbe inizio la tua vicenda…

Tutto cominciò nel 73 a.C., a Capua, nei pressi di Napoli, in una scuola di addestramento per gladiatori, dove insieme ad altri schiavi prigionieri anch’io ero recluso. Circa duecento di noi organizzammo un complotto per fuggire, però all’ultimo momento il piano venne scoperto e alla fine riuscimmo a scappare solo in una sessantina.

Come siete riusciti a farla franca e a mimetizzarvi nel bel mezzo della società romana?

Durante la fuga avemmo la fortuna di imbatterci in un convoglio di carri pieni di armi destinate agli spettacoli dei gladiatori, le stesse che avremmo dovuto usare gli uni contro gli altri, e dopo un violento scontro ce ne impadronimmo, mettendo in fuga le guardie che lo accompagnavano, dopo di che ci rifugiammo sui versanti del Vesuvio.

La notizia delle vostre gesta si propagò con una velocità incredibile tra gli schiavi.

Questa fu la fortuna degli esordi, la fama che si creò attorno al piccolo nucleo iniziale di fuggitivi divenne come una calamita che attirò poi, un po’ per volta, schiavi e sbandati di ogni genere, attratti soprattutto dal nostro sistema di dividere «democraticamente», in parti uguali, il bottino che incrementavamo sempre più grazie alle razzie che compivamo in villaggi isolati lontano dalle città e dalle grandi vie imperiali di comunicazione. Tutto questo si svolgeva nell’indifferenza di Roma, che ci considerava né più né meno che una banda di piccoli delinquenti dilettanti che non meritavano poi una grande attenzione.

Ma le cose poi cambiarono…

In seguito a un conflitto con una guarnigione di legionari romani avvenuto quasi per caso, il nostro gruppo, che poteva considerarsi ormai un piccolo esercito, s’impadronì di un grosso quantitativo di armi da battaglia. Con queste sconfiggemmo le legioni di Caio Clodio, giunto sul posto per contrastare quella che – secondo il Senato di Roma – rischiava di diventare una minaccia seria per tutto il territorio della Campania.

Come si svolsero i fatti?

Il console Caio Clodio fece l’errore di attestare i suoi soldati all’imbocco dell’unica strada che discendeva lungo il Vesuvio. Noi riuscimmo a colpire le legioni romane prendendole alle spalle con un’azione di sorpresa, ovvero calando di notte giù per il declivio più scosceso un buon numero di combattenti legati con delle corde. Questa fu la prima azione eclatante del nostro esercito formato da pochi mesi, in quella occasione riuscimmo persino ad impadronirci di un certo numero di cavalli e delle insegne dei fasci littori della loro guarnigione, cose, queste ultime, ritenute quasi sacre dall’esercito romano.

Se ben capisco, c’erano ormai tutte le caratteristiche per una guerra vera e propria tra voi e la più grande potenza militare di allora…

Dici bene, in breve tempo la rivolta si estese in gran parte del Sud della penisola italica, gli scontri coinvolsero la Campania, la Lucania e l’Apulia. Altri schiavi in diverse parti dell’impero romano si ribellarono massacrando indiscriminatamente i loro padroni, crimini ed efferatezze gratuite che io stesso tentai inutilmente di bloccare.

In seguito a questi avvenimenti tu concepisti un piano per sfruttare al meglio la libertà conquistata…

Il piano che cominciavo a intravedere era quello di risalire la penisola e oltrepassare le Alpi, in modo da rendere la libertà agli schiavi che si erano uniti a noi. Purtroppo non tutti erano d’accordo con me, per esempio gli schiavi originari dalla Gallia decisero di separarsi da noi.

E questo perché?

Loro intendevano combattere Roma a viso aperto, piuttosto che fuggire oltralpe, io invece avevo delle vedute più realistiche, se vuoi più modeste, ero infatti convinto che noi – sia per numero come per preparazione militare – non avevamo nessuna possibilità di vittoria in uno scontro frontale con il formidabile e preparatissimo esercito di Roma.

Non tutti però la pensavano come te…

Purtroppo mi accorsi che l’enorme massa di uomini che mi aveva seguito ragionava più da gladiatore che da soldato, la gran parte di loro infatti voleva vendicarsi dando una sonora lezione ai romani per pareggiare il conto delle umiliazioni e delle angherie patite durante gli anni della schiavitù.

In ogni caso ci furono degli scontri con le legioni romane.

Sì, nel nostro peregrinare nella penisola ci scontrammo diverse volte con truppe dell’esercito di Roma e alcune battaglie sul campo le vincemmo noi, tant’è vero che alla fine di ogni scontro si radunavano nel nostro accampamento molti mercanti pronti ad acquistare il bottino che avevamo conquistato, ma io proibii di ricevere in cambio oro e argento: i miei uomini dovevano accettare solo ferro e rame, metalli necessari per forgiare nuove armi.

Roma non poteva tollerare ulteriormente che un piccolo per quanto agguerrito esercito di schiavi e fuoriusciti dalla società potesse esistere e ingrandirsi senza nessuna conseguenza, eravate come un tumore che bisognava estirpare ad ogni costo.

Per sottrarmi alle legioni romane che mi davano la caccia decisi di riparare in Cilicia (odierna parte Sud della Turchia), ma non riuscii a realizzare il mio piano a causa del tradimento dei pirati con cui mi ero incontrato e che, all’ultimo momento, ci rifiutarono le navi necessarie.

Con quel tradimento tu con i tuoi uomini sei rimasto intrappolato sulla punta estrema della penisola italiana.

Il peggio è che Crasso, sopraggiunto alle mie spalle ebbe l’idea di sfruttare la conformazione del Bruzio (la Calabria appunto) per toglierci ogni via di fuga: fece costruire una palizzata dalla costa ionica a quella tirrenica, lunga 300 stadi pari a 55 km dei vostri. Ma nell’inverno del 72-71 a.C., dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio, ci riuscimmo attraverso un vallone in una notte di tempesta.

Poi che successe?

Crasso richiese altri aiuti dal Senato, che gli inviò Pompeo con le sue legioni appena rientrato dalla Spagna, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe accorso Marco Licinio Lucullo al comando delle sue legioni. Il cerchio si stringeva attorno a noi, a questo punto decisi di dirigermi verso Brindisi, nel tentativo di attraversare l’Adriatico.

Riusciste nell’impresa?

Purtroppo un buon numero di schiavi galli e germani durante la notte disertò, indebolendo decisivamente le nostre forze. Messo al corrente dell’imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, decisi di tornare indietro e mi diressi ad Apulia con i miei compagni verso le truppe di Pompeo, in quella terra ebbe luogo la battaglia finale, dove fummo non solo sconfitti ma sbaragliati e annientati completamente.

 

La morte di Spartaco, crocifisso lungo la via Appia (secondo una tradizione non accolta però dagli storici romani), marmo bianco di Louis-Ernest Barrias, 1871, ora a Parigi, Giardino delle Tuileries.

L’ultimo atto della guerra contro Spartaco, lo schiavo che osò ribellarsi a Roma, fu un’autentica carneficina, rimasero uccisi sul campo di battaglia migliaia di schiavi tra i quali lo stesso Spartaco, il cui corpo comunque non fu mai ritrovato. I romani persero solo mille uomini e fecero seimila prigionieri, che Crasso fece crocifiggere lungo la via Appia (che da Capua porta a Roma). Altri reparti dell’esercito di Spartaco, circa cinquemila uomini, tentarono la fuga verso Nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così in un bagno di sangue la rivolta di Spartaco.

Quello che è certo è che la ribellione degli schiavi scosse profondamente il popolo romano, che «a causa della grande paura cominciò a trattare i propri schiavi meno duramente di prima». Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare.

Le idee di Spartaco, a distanza di secoli, entrarono a far parte del pensiero politico moderno, personaggi come Carlo Marx e Rosa Luxembourg lo presero a modello nei loro programmi di emancipazione come simbolo della rivolta delle classi servili (cioè gli operai) contro quelle padronali.

Il mito di Spartaco si staglia nei secoli più nitido che mai.

Don Mario Bandera




Beato Allamano:

Caldo, fuoco e ceneri


L’estate dardeggia ormai sulle nostre povere teste e il desiderio di fuga verso un po’ di riposo e di fresco irrompe ovunque (sindrome, forse, dell’ormai famosa «chiesa in uscita»). Anche i nostri «padri capitolari», dopo il mese di soggiorno romano, sono rientrati nelle sedi più disparate del pianeta, – pardon! – della geografia missionaria. Soltanto alcuni di loro (i «quattro dell’Ave Maria») ripeteranno il cammino inverso per rientrare nell’Urbe e, insieme a padre Stefano, riconfermato padre generale, cercheranno di aiutare i Missionari della Consolata nel non facile cammino della RIVITALIZZAZIONE e della RISTRUTTURAZIONE (le due famose passwords del Capitolo appena concluso). Guidati, in questo, dalla presenza paterna del nostro beato Fondatore, Giuseppe Allamano, e dalla fedeltà al suo carisma, cioè quella destinazione tenace e irrinunciabile ad gentes, che è il succo e il sapore della nostra vita. E, tutto, con il fervore degli inizi, quando lui, il Fondatore, era ancora presente e cercava in tutti i modi di far capire a quei primi giovani, preti e laici, che non aveva senso sognare l’Africa e andarvi, se non si era prima uomini veri, cristiani senza sconti… insomma: santi! Proprio durante il Capitolo, circolava tra i missionari uno strano frammento apocrifo rivolto ai missionari (qualcuno, più addentro alle cose, sosteneva di riconoscervi l’inconfondibile stile di papa Francesco) che diceva pressappoco così: «Dopo più di 100 anni, il vostro carisma originario non ha perso la sua freschezza e vitalità. Però, ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! E, poi, il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire «pietrificarlo» o metterlo in un quadro. Il riferimento all’eredità che vi ha lasciato Giuseppe Allamano non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione, ma fedeltà alla tradizione «significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri». L’Allamano non vi perdonerebbe mai di perdere la libertà e trasformarvi in guide da museo o adoratori di ceneri. Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro!». Non ci mancava che l’accenno al fuoco, in questa calda e torrida estate! Ma, senza questo fuoco che ci rende «discepoli missionari», non si farà molta strada; altro che rivitalizzazione e ristrutturazione…
Buon cammino, allora, sempre ispirati e trepidamente seguiti da lui, il nostro Padre Fondatore!

Giacomo Mazzotti

Leggi tutte le sei pagine nello sfogliabile.

 




Cari Missionari


Mama Ufariji

Bambini dell’Ufariji

Era il lontano agosto del 1979 quando per la prima volta volai in Kenya. Non era il classico viaggio turistico, era un viaggio diverso, speciale, organizzato per i missionari da Alda Barone che, facendoti visitare il Kenya, ti faceva conoscere la realtà delle missioni della Consolata, era insomma il viaggio che da anni sognavo di fare. L’itinerario della prima settimana prevedeva la visita di diverse missioni ed è così che, per la prima volta, ho avuto l’opportunità di incontrare e conoscere i missionari con i quali sono tutt’ora in contatto. Padre Adolfo De Col era a Kangeta (nel Meru) all’epoca e padre Giuseppe Quattrocchio era a Westland (Nairobi) a gestire il suo negozio con tanti oggetti che tu acquistavi per portarti a casa un pezzo di Kenya (ora sono tutti e due in casa madre a Torino, sempre arzilli nonostante gli anni si facciano sentire, ndr). A Kangeta ho tenuto a battesimo una bellissima bambina, Cristina, che ho potuto seguire per anni.

A quella prima esperienza ne seguì una nel 1982 sempre in agosto quando, con mio marito Gianni, siamo ritornati in Kenya per trascorrere alcune settimane nella missione di Kangeta. Viaggio indimenticabile anche perché eravamo a bordo del primo aereo che arrivava dopo il colpo di stato. Ma questa è un’altra storia. Il periodo a Kangeta è stato incredibilmente importante perché ha consolidato il mio rapporto con la congregazione che non ho più lasciato.

Sono poi trascorsi moltissimi anni, perché nel frattempo sono diventata mamma ed ho aspettato che mio figlio crescesse per poter ritornare con lui e far conoscere anche a lui quel mondo al quale sentivo di far parte. Così nel luglio 2000 siamo ritornati tutti e tre insieme. Il quarto viaggio risale al giugno del 2006 sempre per la durata di qualche settimana passando da una missione all’altra per reincontrare gli amici missionari e consolidare la nostra amicizia. Sono ritornata poi nel luglio del 2009 portando un’amica.

Bambini dell’Ufariji con Liliana Valle

Quando decisi di smettere di lavorare per poter finalmente realizzare il sogno che avevo nel cassetto per quasi 40 anni, e cioè di trascorrere un periodo più lungo in missione, ne ho parlato con un amico missionario che mi fece conoscere la Familia ya Ufariji (a Kahawa West, Nairobi) che visitai nell’aprile 2010. Qui vengono ospitati bambini che vengono trovati a vagabondare nelle strade, alcuni sono orfani, alcuni hanno famiglia ma la realtà nella quale vivono è talmente difficile che i genitori, magari anche alcolizzati, non sono in grado di provvedere loro.

Così ebbe inizio la più bella «avventura» della mia vita. Era il gennaio 2011. Trascorsi ben tre mesi con i «miei» ragazzi a Kahawa West. Certo non è stato così semplice all’inizio, ho dovuto farmi accettare dai ragazzi, con i più piccoli naturalmente è stato più facile, ma con i più grandi c’è voluto un po’ di tempo. Alla fine ce l’ho fatta, ed è stato veramente gratificante. Con i missionari e lo staff di Familia invece non c’è stato alcun problema, sono stata accettata da tutti con affetto e mi hanno fatto subito sentire parte della famiglia.

Da parte mia c’è sempre stata la massima disponibilità per aiutare in molteplici attività: cucire, lavare, cucinare, seguire i ragazzi nei compiti a casa, metterli a letto alla sera, ma soprattutto cercare di trasmettere loro tutto l’amore di cui ero capace e di cui avevano tanto bisogno. Insomma ero diventata «mamma Ufariji» per tutti.

Sono così ritornata l’anno successivo e quello dopo ancora. E così quest’anno è stato il mio settimo anno da keniana, perché ormai mi sento di esserlo al cinquanta per cento. I miei ragazzi sono cresciuti, i grandi sono usciti, perché a diciotto anni per legge si deve uscire dalla Familia; qualcuno è già papà, molti hanno trovato un lavoro, alcuni hanno finito gli studi universitari, altri stanno ancora studiando, pochissimi hanno scelto una strada sbagliata. Insomma, come in tutte le famiglie, ci può sempre essere una pecora nera. Ma il lavoro che hanno fatto negli anni i missionari è fantastico: hanno cresciuto i bambini con amore, li hanno fatti diventare uomini e hanno fatto il possibile per prepararli alla vita che dovevano affrontare. Negli anni si sono aggiunti altri piccoli che hanno arricchito la famiglia ed hanno contribuito alla sua continuità come realtà molto importante per la loro crescita.

Certo che di soddisfazioni ne ho avute ed in abbondanza. Ho tanti episodi che ricordo con piacere che mi fanno capire di essere stata utile ed il mio lavoro necessario. Mi sopravvaluto? Spero di no, gli abbracci dei ragazzi quando mi accolgono al mio arrivo, i contatti che continuo ad avere con i più grandi anche se sono già usciti, il rapporto bellissimo ed affettuoso con i missionari e lo staff mi fa dire che ho scelto e seguito la strada giusta, che spero di poter proseguire per molti anni ancora, fino a quando il buon Dio continuerà a regalarmi una buona salute.

Liviana Valle
o, meglio, mamma Ufariji, 17/05/2017

Complimenti

Complimenti, padre Gigi, per «Interrogativi» (MC 4/2017), così puntuale, limpido, e ricco di indicazioni e di suggerimenti. E soprattutto di «chiamate a correo» (richiamo alla corresponsabilità, ndr) quanto mai opportune e necessarie. Cordialmente.

Ferdinando Albertazzi
18/05/2017

Grazie dei complimenti. Sono un incoraggiamento a fare ancora meglio. Ci proviamo con l’aiuto di Dio e mettendoci il cuore.


Capitolo generale

Spett.le Direttore Missioni Consolata,
ho dato una scorsa alla vostra rivista di maggio, notando che sul Capitolo in corso avete dedicato solo l’editoriale e un trafiletto a pagina 7. Data l’importanza del Capitolo per l’istituto, mi sarei aspettato maggiore spazio ad esso dedicato, almeno il documento redatto dal padre generale di preparazione e programmazione, debitamente commentato.

Don Pietro C.,
vostro lettore, 12/05/2017

Essendo io stesso membro del capitolo generale, mi sono trovato un po’ «inguaiato» da un accumularsi di impegni da portare a termine prima dell’inizio del capitolo stesso il 22 maggio, senza avere il tempo materiale per fare quello che lei ha suggerito e che anch’io avevo pensato: una presentazione articolata dei punti forti del dibattito capitolare, in una maniera comprensibile a tutti. Ho optato per l’editoriale nella speranza di riuscire poi, durante e, soprattutto, dopo il capitolo, a condividere con i lettori e gli amici il cammino che sarà fatto. Grazie per il suo accompagnamento nella preghiera, affinché, come ha scritto al nostro padre generale «la Consolata, quale Madre del suo istituto e Consigliera mirabile, vi consoli aiutandovi a realizzare al meglio i lavori di preparazione, di esecuzione e attuazione del poderoso impegno capitolare».

Le sto scrivendo (a inizio giugno) in uno dei pochi momenti liberi del capitolo, al quale sono stato, tra l’altro, l’ultimo ad arrivare per poter partecipare il 21 maggio alle cresime dei ragazzi della parrocchia in cui sono viceparroco a Torino.

Siamo riuniti a Roma in 45 missionari: 23 africani, 8 latinoamericani e 14 europei. Rappresentiamo missionari di 23 nazionalità diverse che lavorano in 26 paesi in quattro continenti (non abbiamo nessuno in Oceania). Nel cuore portiamo la passione per la Missione, che è opera di Dio e non nostra, e che vorremmo servire con dedizione e «professionalità». Siamo coscienti che per fare questo servizio nella Chiesa non basta la buona volontà e non servono operazioni cosmetiche, ma ci viene richiesta una vera conversione, a cominciare da noi stessi.

Quasi in contemporanea con noi, anche le nostre sorelle, le missionarie della Consolata, dal primo maggio, stanno facendo il loro capitolo, occasione di grazia per rilanciare con coraggio il loro servizio alla Missione come impegno a vita che le porta a uscire dai propri paesi di origine per l’annuncio del Vangelo ai non cristiani. Hanno già rieletto la loro superiora generale, confermando suor Simona Brambilla per un altro sessennio ed eletto un nuovo consiglio. A loro va la nostra vicinanza nella preghiera, nella condivisione della stessa vocazione, dello stesso carisma e degli stessi fondatori, il beato Giuseppe Allamano e la Vergine Consolata.

Mentre le scrivo siamo a metà del capitolo. Quando questa rivista sarà nelle sue mani avremo già concluso e saranno stati eletti (o rieletti) i membri della nuova direzione generale. Sul numero di agosto-settembre della rivista spero proprio di raccontarvi qualcosa dal di dentro di questo evento così importante per noi.

Eucarestia con il Card Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano

 

Mancanza di serietà?

Buongiorno,sono scandalizzato da due testi apparsi sull’ultimo numero della vostra rivista (MC maggio 2017): a pagina 8 si parla dei Dalit, ma non si dice cosa siano. Sono persone costrette a togliere dalle latrine delle altre caste le feci umane, spesso a mani nude, ecc. (v. la vostra rivista del marzo 2016). Alla pagina successiva, sotto il titolo che sembra sarcastico di «Libertà religiosa», si parla delle attività religiose in Cina, senza dire le cose essenziali: innanzitutto la libertà religiosa lì non esiste affatto, nemmeno sulla carta. Anzi, i veri credenti sono puniti coi lavori forzati nei laogai, con le torture e la pena di morte. Perciò vi chiederei perlomeno, nel prossimo numero, di scusarvi per la disinformazione, e soprattutto di trattare quei temi, magari succintamente, ma con la dovuta serietà. Cordiali saluti, in Cristo. Nel frattempo sospendo ogni mio finanziamento alla vostra rivista, nella speranza di poterlo riattivare.

dott. Carlo C.
15/05/2017

Caro dott. Carlo,
saluti a lei. In verità la sua email mi ha sorpreso. Ammetto che il semplice titolo «Libertà religiosa» non è forse esaustivo, ma certo non è sarcastico. I contenuti della breve notizia sono molto chiari e non lasciano dubbi. Quanto ai Dalit, non sono sconosciuti ai lettori di MC; lei stesso ci ricorda l’ultima volta che ne abbiamo parlato in un articolo ben documentato sulla loro condizione. Lo stile delle notizie in quella rubrica è molto scarno ma non superficiale, e i titoli devono essere brevi.

Onestamente non pensiamo di essere stati ingiusti verso i Dalit né superficiali su un tema grave come quello della libertà religiosa cui dedichiamo da anni ampio spazio, né scorretti con i nostri lettori che proprio dalla nostra pubblicazione ricavano informazioni spesso ignorate dagli altri media. Certo, non siamo esenti da errori, ma le assicuriamo che cerchiamo di fare il nostro servizio di informazione con amore alla verità e profondo rispetto per le persone di cui scriviamo e per i nostri lettori.

Sorpresa e tristezza

Con sorpresa ho visto la pubblicità sul quotidiano «la Stampa» di martedì 16 maggio u.s. con la richiesta di sostenere le Vostre opere in varie parti del mondo. Purtroppo i brutti articoli apparsi su «la Repubblica» riguardanti le lotte intestine nel vostro istituto (Roma contro Torino) ed il mormorio negativo tra i cittadini non lasciano immaginare pensieri benevoli nei vostri confronti da sempre considerato dai piemontesi ente con un alto impegno verso i più deboli. Chiedo scusa ma è lo sfogo di una persona che da generazioni ha sentito parlare delle vostre attività meritorie e ne ammirava l’operato. Con ossequio.

Fiorella Comoglio
22/05/2017

Gentile Sig.ra Fiorella,
ho ricevuto la sua email piena di tristezza alle notizie apparse su «la Repubblica». Quegli articoli hanno fatto male anche a noi. Le garantisco che molti missionari hanno pianto di fronte a quelle notizie che, pur avendo un fondo di verità, vengono presentate in modo da infangare tutto l’istituto. Le posso comunque assicurare che non c’è alcuna lotta intestina tra i missionari di Roma e quelli di Torino, solo un faticoso cammino per gestire con trasparenza, onestà e responsabilità, un bene sul quale l’istituto ha investito allo scopo di sostenere le sue opere in missione e i suoi missionari anziani.

Gli errori (probabilmente anche in buona fede) di alcuni missionari, non intaccano l’impegno generoso per i più deboli di centinaia di missionari della Consolata. Come direttore della rivista e impegnato nella comunicazione da quaranta anni, e come missionario che ha passato 21 anni in Kenya, conosco bene il lavoro dei miei confratelli e so come la maggior parte di loro abbia veramente donato tutta la vita e la stia dando ogni giorno per testimoniare il Vangelo ed essere con i poveri e per i poveri. Vivendo ora in Casa madre a Torino, le assicuro che è per me una sofferenza grande vedere alcuni di loro tornare dalle missioni consumati, con una sola valigia (perché hanno dato tutto e lasciato poi tutto laggiù) e malati. Sono davvero testimoni viventi di una dedizione che nessuno scandalo può cancellare.

Vorrei, tramite la rivista e anche la piccola campagna che abbiamo fatto per il 5×1000, continuare a dar voce all’«erba che cresce in silenzio», come i molti miei confratelli che continuano a dare la loro vita per servire la Missione di Dio, senza farmi spaventare dal fragore dell’«albero che cade».

 




Insegnaci a pregare 6. Dio ci prega


Nella puntata precedente abbiamo preso in esame, seppure velocemente, la preghiera sotto due profili. Dal punto di vista dell’uomo che ha il desiderio di Dio, come magistralmente dice Sant’Agostino: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te – Ci hai creati per te e inquieto sta il nostro cuore finché non riposi in te» (Sant’Agostino, Le Confessioni, I,1), e dal punto di vista di Dio che con la stessa intensità e la stessa passione di un innamorato, nella perifrasi del Cantico dei Cantici, fatta dal Targùm, anela e desidera di «ascoltare la voce dell’Assemblea riunita». Abbiamo desunto da quel testo della tradizione ebraica la prospettiva della preghiera come bisogno di Dio di stare con noi. Ci eravamo lasciati con l’impegno di riprendere questo aspetto nello «Shemà’ Israel», superficialmente definita, come vedremo subito, la preghiera più importante di Israele.

«Shemà’ Israel»

Il testo completo si trova nel libro del Deuteronomio (vedi qui sotto) che riportiamo per esteso. In esso formalmente parla Mosè, ma il mandatario è Dio, in nome del quale, il grande profeta e servo, Mosè, riassume tutti gli interventi di Dio. Possiamo dire che è Dio a parlare a Israele per mezzo di Mosé. Le parole pronunciate da quest’ultimo sono «Parole di Dio»:

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. 7Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9).


Deuteronomio

Nella Bibbia ebraica, il 5° libro si chiama «Devarìm – parole», plurale del sostantivo singolare «Davàr – parola/fatto». Il termine Deuteronomio è preso dalla Bibbia greca cosiddetta LXX, scritta per gli Ebrei di Alessandria di Egitto che non conoscevano più l’ebraico. Poiché il suo contenuto è legislativo, il libro ha ricevuto in lingua greca il titolo di «Seconda legge – Dèuteros nòmos». L’immagine della seconda legge fa riferimento a un testo ritrovato durante lavori di restauro del tempio, sotto il regno di Giosìa, il quale, motivato da questa scoperta, diede impulso a una grande riforma religiosa nell’anno 622 a.C. Si chiama «seconda» in riferimento alla «prima» che è e resta quella del Sinai. Il Deuteronomio riporta tre grandi discorsi di Mosè al popolo prima dell’ingresso nella terra promessa:

1° discorso (Dt 1,1-4,43): è il riassunto di tutti gli interventi di Dio in favore di Israele dall’Egitto alle soglie della terra promessa: premessa storica dell’alleanza.

2° discorso (Dt 4,44-26,19): è un’omelia, una riflessione sull’alleanza e, infatti, comprende il codice dell’alleanza rinnovata nel segno della «Seconda Legge». Seguono una serie di benedizioni e maledizioni con il rinnovo ufficiale degli impegni e la conclusione dell’Alleanza (27,1-28,68).

3° discorso (Dt 28,69-30,20): è una ripresa degli eventi accaduti e un invito pressante alla fedeltà al Signore della Storia e della terra. Seguono ultime disposizioni e la morte di Mosè (31,1-34,12).
Il testo finale, come lo possediamo oggi, è databile nei sec. V-IV a.C., ma contiene testi molto più antichi del tempo della riforma del re Giosìa del sec. VII a.C. (anno 622) e altri più antichi ancora. Si può quindi considerare questo libro come il frutto della riflessione di una «scuola» che, dopo l’esilio di Babilonia, ha rielaborato materiale antico unendolo alle riflessioni teologiche del momento attuale, richiamandosi allo spirito profetico e in modo particolare a Geremia.


Lo «Shemà’ Israel» si trova nell’ambito del 2° discorso che Mosè fa a nome di Dio. Appartiene quindi alla riflessione sull’Alleanza. Alle soglie della terra promessa, nelle «Parole» che Dio rivolge al popolo d’Israele per bocca del profeta Mosè, per sette volte si ripete l’espressione: «Shemà’ Israel – Ascolta, Israele (Dt 4,1; 5,1; 6,4; 9,1; 20,3; 27,9) che è quasi un legame letterario di tutti e tre i discorsi. È strano che in un testo legislativo si trovino parole come «amore – ahavàh», espressive di sentimenti di reciproco affetto. Eppure questo accade e ha il suo senso nel fatto che non può esistere alcuna legge che possa avere forza obbligante se la si teme e non la si ama in quanto segno e strumento di una relazione vitale. La legge esige amore e non schiavitù.

Comunemente, con l’incipit «Shemà’ Israel» – come solitamente si dice – si indica la preghiera ufficiale che ogni pio israelita deve recitare due volte al giorno. In realtà lo «Shemà’ Israel» non è una preghiera di Israele a Dio, ma la richiesta da parte di Dio di una professione di fede, di una dichiarazione di amore esclusivo come pegno per il futuro. Nemmeno questo però è sufficiente, perché se guardiamo in profondità, scopriamo che l’atto di fede più esclusivo del popolo d’Israele è una invocazione di Dio al suo popolo perché presti attenzione alle parole che egli pronuncia attraverso il suo profeta e non defletta dalla sua fede nell’unicità di Dio.

Amare e pregare sono sinonimi

Nello «Shemà’ Israel», è Dio che s’inginocchia davanti a Israele e lo supplica di «ascoltarlo». In altre parole, è Dio che prega il suo popolo, quasi avesse paura di perderlo. Inaudito! L’ingresso nella terra promessa coincide con la preghiera di Dio al popolo, non il contrario: Dio supplica il suo popolo di non abbandonarlo, perché egli non può essere Dio senza il suo popolo Israele, come lo sposo non può essere sposo senza la sposa, come il padre non può essere padre senza il figlio. Ogni volta, pertanto, che ascoltiamo o leggiamo o preghiamo con queste parole, dobbiamo avere coscienza di vedere Dio inginocchiato davanti a noi che ci supplica di ascoltare il suo «Davàr», la sua «parola/fatto» che per noi cristiani, testimone Giovanni evangelista, è il Lògos-sarx, Gesù di Nàzaret in cui Parola e carne, divinità e fragilità diventano un corpo solo, una unità sponsale (cf Gv 1,14).

In questa supplica di Dio al suo popolo, egli esige l’esclusività perché per natura l’amore è esclusivo: «Il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore – Yhwh ’elohènu Yhwh ’echad». Come un innamorato o innamorata che prima di innamorarsi ha la possibilità di scegliere tra tutte le donne e tutti gli uomini, ma una volta che s’innamora esclude tutte e tutti tranne una o uno, così anche Dio supplica Israele di sceglierlo come «unico» e di restargli fedele. Non solo, in un testo giuridico che stabilisce norme per ogni aspetto della vita, si stagliano parole d’amore che sono tra i vertici della letteratura e della spiritualità di tutti i tempi: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). In ebraico si usa il verbo «’ahavàh – amare» che abbiamo già esaminato (Il Tallìt di Dio, MC 6/2017, p. 32), affermando che numericamente ha un valore di «13», cioè la metà di «Yhwh» che vale invece «26». A suo tempo abbiamo detto anche che Dio è un amore al quadrato e solo mettendo insieme ciascuno il proprio pezzo d’amore con i frammenti di amore degli altri si può raggiungere la pienezza di Dio che «è Amore – Agàp?» (1Gv 4,8). La Bibbia LXX, infatti, nel brano in questione, traduce «’ahavàh – amare» col il verbo «agapà? – io amo senza pretendere in cambio nulla» che nella Scrittura è un verbo riservato quasi esclusivamente a Dio.

Cuore, anima e beni materiali

«Tutto il cuore» riguarda la totalità della persona perché il cuore, per i semiti, è la sede dell’intelligenza e della coscienza, il profondo dove si forma e abita l’identità. Ancora di più. In ebraico la parola «cuore» si dice in due modi: «leb» e «lebàb» (pronuncia: levav): il primo con una «b» e il secondo con due «b». Il testo dello «Shemà’ Israel» riporta la versione con «due b: lebàb». I rabbini si domandano perché questa differenza e danno una risposta sorprendente. Essi insegnano che le due «b» stanno a significare le due tendenze che animano il cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male; esse non possono essere estirpate, per cui bisogna amare Dio con tutt’e due le tendenze. Per questo nello Shemà Israel si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore» (Dt 4,5). La Mishnàh, Berakòt – Benedizioni 9,5, infatti così spiega: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore, con le due tendenze: il bene e il male». Coloro che separano lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo fanno un’operazione antistorica e contraria alla fede perché immaginano un puritanesimo che non esiste e Dio stesso ne è consapevole fino a farne un comando d’amore.

«Tutta l’anima» si riferisce alla capacità di relazione sia in senso orizzontale (con gli altri diversi da sé) sia in senso verticale (con l’Altro che è il fondamento della relazione con sé e con gli altri). In altre parole si tratta della vita in tutta la sua espressione umana che si esprime e si consuma nella fecondità del rapporto con gli altri che sono sempre, per chi crede, la parte migliore perché sacramenti della presenza di Dio.

«Con tutte le forze» ha un significato preciso e significa «con tutti i tuoi averi» per evitare che s’illuda di chiudersi dentro uno spiritualismo di comodo, come avverte San Giacomo (cfr. Gc 2,2) che a sua volta richiama il Vangelo di Luca e la requisitoria di Gesù contro i ricchi (cfr. Lc 6,24-26). È facile amare Dio con i sentimenti e senza alcun impegno di vita, ma se occorre mettere in gioco il portafogli e i beni materiali, allora la questione si fa seria e tocca l’etica dell’economia, l’etica della politica, l’etica del guadagno, l’etica della tassazione, l’etica della condivisione, l’etica della distribuzione secondo giustizia dei beni della terra, che sono di Dio ma affidati a noi per custodirli e condividerli.

Queste tre condizioni e stati di essere, cuore, anima e beni materiali devono stare radicati nell’io (nel cuore) perché la preghiera non sia un atteggiamento evanescente e sulfureo, un mero obbligo materiale come «recitare» Lodi, Vespro e il resto o «dire» Messa, tutto logicamente in fretta e furia perché «maiora praemunt – cose più importanti urgono». Dio prega il suo popolo di «ascoltare», che non significa stare a sentire, ma immergersi nella persona che parla e diventare la parola che dice. Oggi, troppo spesso, la superficialità e la fretta fanno perdere anche la dimensione della buona educazione, cui non facciamo più caso.

Quando si riceve una persona per un colloquio bisognerebbe essere totalmente alle sue dipendenze e «ascoltare» con cuore, anima e beni materiali: disponibilità senza riserve. Troppo spesso, invece, capita, durante un colloquio, che uno risponda al cellulare o guardi l’orologio o si estranei rispondendo a un sms o consultando il web. È un costume tanto diffuso che non ci rendiamo più conto che in tal modo mettiamo il valore della persona sotto i piedi. Nessuno pensa che quello potrebbe essere l’ultimo colloquio della sua vita e che potrebbe presentarsi a Dio adducendo come scusa che «stavo rispondendo al telefono». Siamo diventati schiavi del cellulare e non ce ne accorgiamo nemmeno. Pregare è «ascoltare» Dio che prega e poiché Dio è relazione non può farlo da solo, ma ha necessità di pregare in compagnia. Pregare è perdere tempo senza chiedere nulla in cambio e dire all’altro quanto sia importante per me e anche porlo al centro della propria attenzione, del proprio cuore, della propria anima e dei beni materiali. Ascoltare gli altri è pregare vivendo.

«Voce di silenzio sottile»

Per il Targùm pregare è rispondere all’anelito di Dio di vedere il volto del suo figlio/figlia. Pregare è non solo regalare il proprio tempo a Dio per permettergli di contemplare l’assemblea orante, ma illuminarsi lo sguardo per vedere la vita e gli eventi e le persone con gli occhi di Dio. Sì, pregare è esercitarsi a somigliare a Dio, imparando da lui come si agisce nella storia, come si accolgono le persone, come si progetta il futuro, come si legge il presente e come si cammina con gli altri nei propri tempi che sono sempre «tempi di Dio». Nessun tempo può essere privilegiato, perché «io sarò con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,28) e se lui è con noi sempre, giorno dopo giorno, abbiamo l’obbligo di «stare con lui» per imparare come lui sta con noi e fondere in un unico modo i due versanti fino a diventare uno perché uno è il Signore nostro.

Per vedere Dio, è sufficiente lasciarsi contemplare dall’Invisibile mentre si prega. «Ascoltare» non significa dire parole e formule, ma essere «silenzio», cassa di risonanza che fa rimbombare la Parola «sottile» di Dio, che, sebbene Parola creatrice, è sempre un «silenzio sottile», flebile, gracile, un soffio appena sussurrato che deve essere custodito. È l’esperienza di Elia che non vide Dio nelle manifestazioni rumorose del vento, del terremoto e del fuoco, ma nella «voce di silenzio sottile» (1Re 19,12). Due ossimori potenti: «voce-silenzio» e «silenzio-sottile». Veramente Dio è un grande umorista che sa cogliere con brio il senso e il nesso delle cose. Se la parola non si fa silenzio non può mai divenire Parola; se il silenzio che è già pieno senza necessità di nulla non diventa ancora più sottile, cioè più profondo, affilato come spada (cfr. Eb 12,4), perde il contatto con la Parola: Parola e silenzio mantengono la propria identità se scompaiono l’uno nell’altra. Quando diciamo di pregare, anche molto, e che nonostante ciò Dio non ci ascolta, ammettiamo solo che teniamo separati Parola e silenzio, presenza e assenza.

L’anelito di Mosè e quello del Cantico dove Dio smania per vedere il volto della sposa orante, si prolunga anche nel NT, nei Greci giunti a Gerusalemme come cervi assetati alla sorgente. Essi rivolgono a Filippo e ad Andrea il loro anelito di desiderio: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Il Signore risponde rinviandoli alla morte in Croce: per vedere Dio bisogna salire il Calvario e sostare ai piedi della Croce per contemplare l’uomo crocefisso che incarna il volto dell’Invisibile. «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore…» (Gv 12,23-24). La Croce esprime una doppia prospettiva: dal basso, dove stanno il discepolo e la madre che guardano il volto di Dio crocifisso, e dall’alto dove il Dio morente guarda l’uomo e la donna, novelli Àdam ed Eva (cf Gv 19,25-27), segno sacramentale dell’intera umanità immersa nella visione del Dio invisibile che i cieli dei cieli non possono contenere (2Cr 2,5). È la croce il punto di congiunzione tra la morte e la risurrezione.

Pregare è solo perdersi in un afflato d’amore in cui si confondono e si fondono insieme due desideri fino a diventare uno solo, fino a sperimentare una sola vita. L’Eucaristia è tutta qui: lo spazio della visione sperimentata. L’Assemblea si raduna non per adempiere un precetto, pena il peccato, ma per permettere a Dio di contemplarla nello stesso momento in cui si pone davanti a Dio per vederne la Gloria, toccarne il lembo del mantello e mangiare il «Lògos della vita» (1Gv 1,1)

Paolo Farinella (6 – continua)




Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), dai neuroni ai muscoli


La Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) è una malattia degenerativa tra le peggiori. In Italia si stimano 1.000 nuovi casi all’anno. Le cause rimangono sconosciute. Non esistono cure, ma solo la possibilità di rallentare il decorso. E le famiglie sono spesso lasciate sole.

Il 29 giugno di ogni anno è il Global day, la giornata dedicata in tutto il mondo ad una terribile malattia, la sclerosi laterale amiotrofica o Sla, capostipite di un gruppo di patologie neurodegenerative dette malattie del motoneurone o Mnd (motor neuron disease). Queste patologie colpiscono selettivamente i motoneuroni, cioè le cellule nervose che controllano l’attività della muscolatura striata o volontaria, la quale presiede alla fonazione, alla deglutizione, alla respirazione e a tutti i movimenti del corpo, quindi anche alla deambulazione, funzioni che vengono impedite dalla atrofia muscolare progressiva. Queste patologie sono progressive, gravemente invalidanti e dall’esito fatale per compromissione soprattutto della respirazione. La più grave del gruppo è la Sla, una malattia che colpisce il primo e il secondo motoneurone che sono localizzati a livello dei centri motori della corteccia cerebrale (il primo) e a livello del midollo spinale (il secondo). L’impulso nervoso che va a contrarre un muscolo, parte dal primo verso il secondo, e da questo va alla fibra muscolare.

Cos’è la Sla

La Sla, detta anche Morbo di Lou Gehrig, dal nome del famoso giocatore americano di baseball, che ne fu vittima, o anche malattia di Charcot, dal nome del neurologo francese che la descrisse nel 1860, è una patologia che colpisce solitamente dopo i 50 anni e che nel 5-10% dei casi si presenta in forma familiare mentre nel rimanente numero dei casi è sporadica. L’incidenza della Sla, cioè il numero di nuovi casi per anno, è di 1,5-2,4 su 100.000 persone con 3 nuove diagnosi al giorno e la sua prevalenza, cioè il numero di pazienti con Sla su 100.000 persone per anno, è di 4-8 casi. Purtroppo in Italia non esiste ancora un registro di questa patologia, tuttavia si stima che i casi di Sla siano attualmente almeno 6.000, con circa 1.000 nuovi casi all’anno. Attualmente al mondo ci sono circa 200.000 malati di Sla, ma secondo uno studio italo-americano condotto dal prof. Adriano Chiò del Centro Sla delle Molinette di Torino e dal dr. Bryan Traynor del National Institute of Health di Bethesda e pubblicato su Nature Communication, nel 2040 si arriverà a circa 370.000 casi. L’aumento di questi non sarà lineare in tutti i continenti, essendo le cifre dipendenti dall’invecchiamento della popolazione e si stima che esso vada da circa il 20% in Europa a oltre il 50% in Cina e al 100% in Africa, con una media mondiale del 32%. Per motivi tuttora ignoti sembrano essere più colpite le donne degli uomini.

L’esordio e il decorso della malattia sono variabili da persona a persona e dipendono dalla forma di Sla da cui si è colpiti. Generalmente i primi sintomi sono brevi contrazioni muscolari detti fascicolazioni, crampi (soprattutto notturni) o rigidità muscolare, debolezza muscolare, che influenza la motilità degli arti e voce non comprensibile. Questo tipo di esordio, detto spinale, rappresenta circa il 75% dei casi, mentre il rimanente 25% presenta l’esordio bulbare, caratterizzato dalla difficoltà di parola fino alla perdita della capacità di comunicare verbalmente e dalla disfagia, cioè difficoltà di deglutizione. I due tipi di esordio dipendono da quale motoneurone è colpito per primo: se è il primo, a livello di corteccia cerebrale, abbiamo l’esordio bulbare, se è il secondo, a livello di midollo spinale, abbiamo l’esordio spinale. Fino a qualche tempo fa si pensava che i malati, sebbene colpiti da paralisi muscolare progressiva, mantenessero sempre intatte le proprie capacità cognitive. Purtroppo recenti studi condotti con tecniche di imaging hanno rivelato che questo non è sempre vero e in qualche caso la Sla aggredisce anche il lobo fronto-temporale, portando così a demenza. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, restano perfettamente integre le funzioni sensoriali, cognitive, sfinteriali, sessuali e il muscolo cardiaco.

Come si scopre

La diagnosi di Sla viene posta grazie a successivi esami neurologici, esami del sangue, un approfondito studio neurofisiologico mediante elettromiografia, elettroneurografia ecc., nonché risonanza magnetica nucleare dell’encefalo e del midollo spinale. Negli ultimi anni sono stati messi a punto dei marcatori biologici per la diagnosi di Sla, i quali hanno dimostrato un grado di accuratezza di circa il 90%. Si tratta in particolare di tre proteine, che si trovano in concentrazioni sotto la media nel liquor cefalorachidiano dei malati di Sla.

Le cause

Le cause di questa patologia restano al momento sconosciute. Le molteplici ricerche in questo campo hanno portato a ritenere che la Sla sia una malattia con cause multifattoriali, la cui insorgenza cioè sia determinata da una concomitanza di cause genetiche e ambientali. In particolare sono stati individuati una ventina di geni, ciascuno dei quali, se mutato, avrebbe un carattere predisponente per la malattia. Tra questi c’è il gene Sod1, che codifica un enzima che ha il ruolo di ripulire le cellule da un particolare radicale libero. Quando questo enzima non funziona, si verifica un accumulo tossico del radicale libero, che alla lunga uccide le cellule, in particolare i neuroni. Per quanto riguarda le cause ambientali, è risultata statisticamente significativa l’associazione tra l’esposizione a campi magnetici a frequenza estremamente bassa e la Sla per gli uomini, che lavorano in loro presenza. È stata inoltre osservata un’associazione positiva, sebbene non statisticamente significativa, tra la malattia e l’esposizione a solventi e a metalli pesanti. Si ipotizza che possano avere un ruolo nell’insorgenza della Sla anche gli shock elettrici, i fitofarmaci, il fumo di sigaretta, i traumi e l’attività fisica-sportiva intensiva. Quest’ultima ipotesi è stata avanzata dopo avere osservato che la malattia sembra essere particolarmente presente tra gli sportivi, tra cui diversi calciatori come Stefano Borgonovo, Lauro Minghelli, Adriano Lombardi, Albano Canazza, Piergiorgio Corno e Gianluca Signorini, tutti deceduti di Sla. Essa prende infatti uno dei suoi nomi da Lou Gehrig, giocatore di baseball deceduto a causa della Sla a 38 anni nel 1941.

Il decorso

Per quanto riguarda l’evoluzione della Sla, il decorso medio di questa malattia, senza ventilazione invasiva, è di 3-5 anni, il 50% dei pazienti muore entro 18 mesi dalla diagnosi, il 20% supera i 5 anni e il 10% i 10 anni. Ci sono rarissimi casi di una forma di Sla meno aggressiva, in cui la malattia resta stabile per più di 30 anni. Questo potrebbe essere il caso del famosissimo matematico, fisico, astrofisico britannico e candidato al premio Nobel (per la sua teoria sui buchi neri) Stephen Hawking, al quale la diagnosi di Sla venne posta nel 1963, anche se la progressione particolarmente lenta della sua malattia fa propendere alcuni studiosi per la diagnosi di atrofia muscolare progressiva, altra malattia del motoneurone (colpisce solo il 2°) a decorso particolarmente lento e che permette una sopravvivenza decisamente maggiore.

Le cure

Attualmente non esiste una cura efficace per la Sla. L’unico farmaco approvato dalla Fda (Federal drugs administration statunitense) in grado di rallentarne il decorso per qualche mese è il riluzolo, che in Italia viene somministrato solo a livello ospedaliero.

La Sla è una patologia che colpisce gravemente la persona, ma coinvolge anche tutta la sua famiglia, per cui è necessario un approccio multidisciplinare al paziente e un supporto informativo per lui e per i suoi familiari, per renderli edotti soprattutto sulle questioni di natura respiratoria, come l’arresto respiratorio improvviso o altre problematiche respiratorie acute che potrebbero comportare un intervento urgente con necessità d’intubazione e il passaggio alla tracheostomia, come spiega il Professor Mario Melazzini, medico e malato di Sla, nonché presidente di Aisla (Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica) e autore di un’autobiografia dal titolo «Lo sguardo e la speranza. La vita è bella non solo nei film» (Ed. San Paolo, 2015).

Occorre prendersi cura

Tra i principali problemi, che richiedono un monitoraggio attento del paziente con Sla ci sono, come visto sopra, quelli respiratori, quelli di deglutizione e la scialorrea. Si è visto che la sopravvivenza dei pazienti può essere migliorata da un trattamento precoce dell’insufficienza respiratoria (dovuta a progressiva atrofia dei muscoli respiratori) mediante ventilazione non invasiva con maschera facciale.

La disfagia, che può insorgere nel corso della malattia, può portare a una scarsa alimentazione con conseguente deperimento del paziente, per cui diventa importante il parere di un dietologo, che eventualmente consigli l’uso di addensanti per i liquidi, qualora la disfagia ne impedisca l’assunzione e l’adattamento della consistenza degli alimenti per soddisfare le esigenze del paziente. Se quest’ultimo non è più in grado di alimentarsi e idratarsi a sufficienza, diventa necessario l’intervento del gastroenterologo per il ricorso alla gastrotomia percutanea endoscopica per via enterale (il paziente viene alimentato attraverso un tubicino collegato allo stomaco).

La scialorrea è l’iperproduzione di saliva, che può verificarsi in questi pazienti e che può diventare una ulteriore complicanza. In questi casi si effettua un trattamento con anticolinergici o, nei casi resistenti, con tossina botulinica iniettata nelle ghiandole parotidi o sottomandibolari.

Oltre ai problemi respiratori e di deglutizione, il paziente con Sla può essere afflitto da problemi di comunicazione, di immobilità, di spasticità e da quelli psicologici. È evidente quindi che la sua presa in carico da parte sia dei servizi di neurologia, che delle istituzioni (che dovrebbero garantire anche l’assistenza domiciliare) rappresenta per il malato un bisogno essenziale e purtroppo attualmente non sono molte, in Italia, le strutture o i centri in grado di farsi pienamente carico dei pazienti con Sla.

Una malattia di famiglia

Per i pazienti di Sla (e di molte altre gravissime patologie, cancro in primis) e per i loro familiari è inoltre fondamentale il supporto psicologico, poiché una diagnosi come questa cambia improvvisamente la qualità della vita dell’intero nucleo familiare che all’improvviso si trova catapultato nel mondo della malattia e della disabilità. Quando la malattia irrompe nella vita delle persone, infatti, cambiano improvvisamente non solo le abitudini, ma spesso le relazioni con il mondo circostante, a partire dal mondo del lavoro, e con le varie dimensioni che fanno parte della vita quotidiana, come quella dello sport, degli hobby e così via. All’improvviso ci si trova immersi in un mondo nuovo fatto di medici, tecnici, infermieri, dove spesso è difficile individuare i raccordi tra le diverse figure professionali, quindi una figura di supporto potrebbe essere d’aiuto anche in tal senso. I pazienti e le loro famiglie inoltre dovrebbero essere sempre informati sulle caratteristiche della malattia, sulle attuali cure e sulla loro possibilità di scegliere il percorso terapeutico che preferiscono, soprattutto quando si tratta di decidere se ricorrere o no alla tracheostomia, che comporta un successivo percorso adattativo della capacità di comunicazione del paziente.

Purtroppo le malattie degenerative come la Sla hanno un forte impatto sulle famiglie sia a livello affettivo che relazionale ed economico. Qualcuno definisce la Sla una «malattia per ricchi». Sarebbe auspicabile una politica sanitaria in grado di far sì che tutte le famiglie dei malati di Sla o di altre patologie gravemente invalidanti siano supportate sia culturalmente che economicamente (non si deve dimenticare che spesso i familiari che assistono un malato grave in casa devono rinunciare alla loro attività lavorativa e nel contempo affrontare ingenti spese per i presidi medici necessari), in modo da limitare al massimo le ospedalizzazioni dei malati e da migliorare così la qualità della loro vita.

Rosanna Novara Topino
(quarta puntata – continua)




Turismo sostenibile:

viaggia, divertiti, rispetta / 1


Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2017 «Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo». Travel, enjoy, respect: viaggia, divertiti (o apprezza, come traducono i francesi), rispetta. Questo lo slogan che accompagna l’anno e le iniziative organizzate per mostrare come il turismo sia un fenomeno di dimensioni colossali, che può valorizzare oppure distruggere quello che tocca.

«Sarà stato lo scoiattolo morto nel mezzo del vialetto principale, o forse i pappagalli con le ali spuntate a darmi qualche indizio; oppure i due alberi sinistramente appesi all’entrata, come pirati alla forca, tragico monito per qualunque ribelle che osasse sfuggire alla persecuzione in questo cosiddetto rifugio verde». Così Asher Jay, ambientalista ed esploratrice del National Geographic iniziava sull’Huffington Post dello scorso ottobre, la descrizione del suo soggiorno al XCaret, un resort vicino a Cancun, in Messico, che si pubblicizza come il luogo dove «patrimonio culturale e amore per l’ambiente ti aspettano». E poi «bevande calde servite in bicchieri di schiuma di polistirene, dei quali persino il barista conosceva i potenziali danni per l’uomo e l’ambiente, spruzzate di insetticida prese accidentalmente in faccia mentre camminavo su un percorso natura»: tutti segnali di come il posto di naturale e incontaminato non avesse proprio nulla.

Resort come questo, prosegue Jay, sono stati costruiti a spese della natura e non sembrano avere alcuna fretta di ripagare il proprio debito con la terra. Al contrario, rincara l’autrice, ogni centimetro quadrato è attentamente progettato per far divertire turisti ignoranti sacrificando la cultura locale e risorse naturali insostituibili. Eppure, molti stabilimenti simili hanno l’etichetta «eco», e in tanti credono che lo siano.

Quella del turismo sostenibile è una sensibilità che si sta diffondendo, se è vero – come riporta un studio dello statunitense Centre for Responsible Travel che oltre la metà dei lettori della rivista Traveler di Condé Nast intervistati nel 2011 aveva dichiarato che la scelta dell’hotel è influenzata dal contributo che la struttura dà alla comunità e all’economia locale. Il 93% degli stessi lettori dichiarava inoltre che le aziende del settore turistico dovrebbero essere responsabili della protezione dell’ambiente. Un altro sondaggio realizzato nel 2012 fra gli utenti di Trip Advisor – il portale web di viaggi dove gli utenti condividono le loro recensioni su alberghi, ristoranti e attrazioni turistiche – rivelava che quasi tre quarti degli intervistati prevedeva di fare scelte più attente all’ambiente nei successivi dodici mesi.

Ma sebbene questa sensibilità stia avendo effetti concreti nell’orientare il mercato, situazioni come quella del resort di Cancun descritto da Asher Jay continuano a esistere e a creare danni all’ambiente e alle persone. E, guardando i volumi del turismo internazionale, il potenziale di quest’ultimo nel contribuire a devastare o, al contrario, a salvare il pianeta è decisamente non trascurabile.

Altro che crisi

A leggerli tutti insieme fanno impressione, i dati 2015 dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt): i viaggi di turisti internazionali sono passati dai venticinque milioni del 1950 al miliardo e duecento milioni di oggi, come se si fossero mossi gli abitanti di Europa, Stati Uniti, Giappone, Russia insieme, oppure tutta l’India. Le stime dell’Omt suggeriscono che la crescita continuerà fino a portare gli arrivi internazionali a 1 miliardo e ottocento milioni nel 2030.

Quanto al giro d’affari, fra il 1950 e oggi è passato da 2 a 1.260 miliardi di dollari all’anno, a cui si aggiungono i 211 miliardi in servizi di trasporto internazionale di viaggiatori non residenti, per un totale di circa 1.500 miliardi: una media di quattro al giorno. Combinando ulteriormente i dati sopra, vediamo che nel 1950 l’industria del turismo internazionale incassava in un anno la metà di quello che oggi riceve in un giorno e che ciascun arrivo genera nel paese ricevente circa 1.200 dollari di incassi. Nell’edizione 2016 del Panorama del turismo internazionale, l’Omt sottolinea che il settore turistico ha rappresentato circa il 10% del Pil globale e impiega un lavoratore ogni undici. Rappresenta inoltre il 7% delle esportazioni mondiali di beni e servizi, collocandosi al terzo posto dopo i carburanti e la chimica e prima delle industrie alimentare e automobilistica (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

L’Europa è il continente più visitato, con la metà degli arrivi. Prendendo i singoli paesi, al primo posto c’è la Francia, con 84,5 milioni di turisti, seguita da Stati Uniti, Spagna, Cina e Italia (50,7 milioni). Il paese che spende di più in viaggi all’estero è la Cina, con 261 miliardi di dollari, seguita da Stati Uniti, con 122 miliardi, Germania (81), Regno Unito (64) e Francia (41).

I dati sugli arrivi internazionali includono anche un 14% di persone che si spostano per motivi professionali e un 6% per le quali il motivo del viaggio non è noto. I viaggi per vacanza rappresentano circa la metà del totale, pari a 632 milioni di arrivi, mentre un quarto sono gli spostamenti per far visita ad amici e parenti, per un pellegrinaggio, per partecipare a un evento sportivo, per trattamenti sanitari e simili.

Quello che ciascuno di noi percepisce come tempo del riposo, della spensieratezza, della spiritualità o della cura degli affetti è, in aggregato, un fenomeno economico colossale che ha un impatto potente sulle persone, sui singoli luoghi e sul pianeta nel suo complesso

Turismo contro povertà

Il turismo, si legge sempre nel documento dell’Omt, rappresenta in molti paesi in via di sviluppo il primo settore di esportazione ed è in piena espansione: l’Africa è passata dai 15 milioni di arrivi internazionali del 1990 ai 53 milioni attuali, mentre l’Asia meridionale e sudorientale ha ricevuto 122 milioni di turisti contro i 50 milioni di arrivi di quasi tre decadi fa. Oggi il giro d’affari è pari a 30 miliardi di dollari per l’Africa e 140 per l’Asia e si prevede che da qui al 2030 nei paesi cosiddetti emergenti e in quelli in via di sviluppo aumenteranno gli arrivi internazionali al ritmo di 30 milioni all’anno, erodendo progressivamente la quota di Europa e Nord America.

Eppure, nonostante l’evidente potenziale del turismo come fattore di crescita, la quota di fondi dell’Aiuto pubblico allo sviluppo destinato al settore è solo dello 0,13% e l’aiuto per il commercio è limitato a mezzo punto percentuale.

Il dibattito era emerso già alla fine degli anni Novanta, con il cosiddetto pro-poor tourism, cioè un approccio che cerca di utilizzare il turismo come strumento per ridurre la povertà nelle comunità più emarginate dei paesi riceventi. Ma già dieci anni fa Caroline Ashley, dell’Overseas development institute, e Harold Goodwin, del Centro per il turismo responsabile dell’Università di Leeds sottolineavano come questo approccio non avesse dato i frutti sperati.

Innanzitutto, rimarcavano i due studiosi, le iniziative che coniugano turismo e riduzione della povertà sono rimaste piccole, episodiche e di nicchia, non sono state applicate al turismo di massa e non sono entrate nelle politiche nazionali dei paesi in via di sviluppo in modo stabile ed efficace. Inoltre, si sono spesso limitate a fornire formazione e a migliorare le infrastrutture ma non hanno mai davvero fatto i conti con il mercato creando un’offerta turistica che potesse incontrare una domanda.

Le due cose – espansione del settore turistico e aumento dei benefici per i poveri – sono rimaste separate. Da un lato, gli operatori dello sviluppo impegnati nelle comunità più marginalizzate con progetti che riguardano anche il turismo sanno poco o niente di mercati e di business e possono quindi dare un apporto solo molto limitato nel creare realtà di turismo sostenibile che siano anche efficaci dal punto di vista commerciale. Dall’altro, le compagnie turistiche che operano nei paesi in via di sviluppo si limitano a fare donazioni in loco come gesto di responsabilità sociale di impresa, ma in pochi si soffermano a chiedersi come potrebbero cambiare il modo di lavorare generando così vantaggi anche per le comunità locali.

Oggi, accanto alla definizione pro-poor tourism, ve ne sono molte altre per denotare un tipo di turismo rispettoso e consapevole della relazione con le persone e con l’ambiente che si instaura per il semplice fatto di recarsi in un luogo: turismo sostenibile, responsabile, etico, eco turismo, geo turismo, sono tutti termini che hanno al centro questa visione dello spostarsi e del viaggiare.

Turismo, è sostenibile?

I segnali incoraggianti non mancano: un caso molto citato di successo nel coniugare turismo sostenibile ed efficacia commerciale è quello della Costa Rica, il cui presidente è stato nominato dall’Omt Ambasciatore speciale dell’Anno internazionale del turismo sostenibile per lo sviluppo. «Tradizionalmente considerato un esempio di impegno per l’ambiente», si legge nel comunicato stampa che annuncia la nomina, «la Costa Rica ospita il 5% della biodiversità del pianeta. Inoltre, il 25% del suo territorio è classificato come area protetta e il paese utilizza il 100% di energie rinnovabili per la produzione di elettricità». Una delle iniziative più degne di nota, continua il comunicato, è stata la creazione da parte dell’Istituto costaricano per il turismo della Certificazione di sostenibilità del turismo, che classifica e differenzia le compagnie turistiche con base nel paese a seconda del loro impegno per l’ambiente.

Altro esempio positivo, citato dalla stessa Jay nel suo articolo sull’Huffington Post, è quello della Riserva nazionale di Tambopata, in Perù. Kurt Holle, il fondatore della compagnia Rainforest Expeditions che gestisce tre lodge nella riserva, spiegava quattro anni fa al quotidiano The Guardian che le quasi duecento famiglie della locale comunità indigena Ese Ejja partecipano agli utili generati dalla compagnia ricevendo dividendi che hanno raddoppiato, triplicato e in alcuni casi quadruplicato il reddito delle famiglie. Il leader della comunità Elias Durand confermava al giornale britannico che i fondi vengono utilizzati anche per finanziare l’istruzione, la sanità e l’assistenza sociale per la comunità.

Ma, accanto a questi casi di successo, ce ne sono altri nel solco dell’esperienza massificata falso ambientalista di cui parlava Asher Jay. In particolare, vale la pena di citare il racconto di Costas Christ sul blog Intelligent Traveller di National Geographic: nel 1979, l’allora ventunenne viaggiatore zaino in spalla trovò una specie di paradiso nel Sud della Thailandia. Sull’isola di Ko Pha Ngan, racconta Costas, «mi imbattei nelle brillanti sabbie di Haad Rin, una perla tropicale la cui bellezza andava oltre ogni immaginazione. Rimasi lì un mese, vivendo di ciò che la natura mi dava. Disegnai una mappa della posizione della spiaggia e feci voto di non tradirne mai il segreto. Ma poi altri l’hanno scoperta e ora la mia spiaggia è il luogo del famigerato e assordante Full Moon Party», la festa della luna piena. Le immagini dello scempio generato da quella festa – orde di turisti danzanti sulla spiaggia, musica a tutto volume e, soprattutto, migliaia di bottiglie di plastica e altra spazzatura che ricoprono sabbia e bagnasciuga il giorno dopo – sono riprodotte nel documentario Gringo Trails, un lavoro del 2014 firmato dalla regista e antropologa della New York University Pegi Vail. Il documentario, che è stato proiettato in Italia a Firenze e a Bologna lo scorso maggio, riporta storie come questa di Haad Rin e altre, invece, capaci di valorizzare davvero i luoghi che si sono aperti al turismo, nel tentativo di rispondere alla domanda: il turismo sta devastando o salvando il pianeta?

Nell’attesa di trovare la risposta a questo interrogativo, vale la pena di citare la campagna di sensibilizzazione e informazione del World travel and toursim council, forum dell’industria del turismo e dei viaggi. Nella pagina Too much to ask? (toomuchtornask.org, è chiedere troppo?), il Wttc fa una lista di dieci suggerimenti – e chiede agli utenti di fare altrettante promesse – per rendere più sostenibile il nostro modo di viaggiare. Eccoli: richiedere la sostenibilità, rispettare le persone e le culture, risparmiare l’acqua, limitare l’uso della plastica, comprare locale, proteggere gli animali, rispettare la storia, compensare il proprio impatto, informarsi e far sentire la propria voce dopo il viaggio, anche per diffondere le informazioni su chi, davvero, fa del turismo una risorsa per lo sviluppo.

Chiara Giovetti
(prima puntata – continua)

 




Guerra alle armi:

una lotta impari ma necessaria


Spesso lo dimentichiamo, ma l’articolo 11 della nostra Costituzione recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Per dar corpo allo spirito costituzionale, nel 1990 è stata approvata una legge, tuttora in vigore, la n. 185/90, che vieta le esportazioni di armi in paesi in guerra o che violano i diritti umani e impone alle aziende produttrici di armamenti, così come alle banche che ne appoggiano le transazioni, di fornire al parlamento dati completi sulle operazioni, quali il tipo di arma, il paese destinatario, il valore, ecc. La legge è stata il risultato di un’ampia e tenace mobilitazione del mondo pacifista, soprattutto cattolico: in prima linea nella campagna «Contro i mercanti di morte» c’erano Pax Christi, le Acli, Mani Tese e gli istituti missionari.

Dentro il palazzo, parlamentari attenti e sensibili avevano studiato l’argomento e, confrontandosi con la società civile, hanno messo a punto un provvedimento all’avanguardia. Tra costoro c’era l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in tutti questi anni ha sempre difeso la legge di fronte ai tentativi, a volte riusciti, di renderla meno restrittiva.

La normativa italiana è talmente avanzata da aver ispirato il dibattito e l’approvazione in sede Onu del Trattato mondiale sul commercio delle armi.

A dispetto di norme e accordi internazionali, il commercio delle armi è però in continua crescita e i dati relativi al 2016, pubblicati all’inizio del 2017 dal Sipri, il prestigioso Stockholm Peace Research Institute, attestano che la spesa militare mondiale ammonta a 1.676 miliardi di dollari, circa l’1% in più dell’anno precedente.

Se si guarda al dato pro capite, per ogni abitante della terra si spendono in armi 228 dollari l’anno, molto di più di quello che si spende per salute e istruzione.

Quello che è forse meno noto è che i maggiori importatori sono paesi che hanno in corso guerre o che non rispettano i diritti umani: Arabia Saudita, India, Cina, Turchia, Pakistan, ecc.

Sul fronte delle esportazioni, il 74% proviene da cinque paesi: Usa, Russia, Cina, Francia e Germania.

Il paradosso sta nel fatto che nella classifica dei primi dieci ci sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e quattro dei membri a rotazione nel biennio 2016/ 2018, tra cui l’Italia.

Il che significa che tutte le decisioni del Consiglio di Sicurezza che riguardano la «legittimità» delle guerre o gli embarghi verso paesi totalitari sono prese dai maggiori produttori ed esportatori di armamenti.

Fa notare Anna Mcdonald, direttrice di Control Arms, una coalizione non governativa europea: «Alcune delle principali crisi che il Consiglio di Sicurezza deve fronteggiare, ad esempio il conflitto che insanguina lo Yemen, sono state provocate e vengono mantenute dai suoi stessi membri, vendendo armi alle parti in conflitto».

Anche se nell’Unione europea e nel Nord America, la spesa per la difesa registra una lieve diminuzione, le 100 principali aziende produttrici di armi, la maggioranza delle quali ha sede in Usa e in Europa, hanno visto aumentare il loro volume di affari del 43% negli ultimi dieci anni. Alle imprese storiche, se ne aggiungono di nuove, con sede in Brasile, India, Sud Corea, Turchia, che oggi offrono i loro prodotti agli acquirenti esteri.

Il mercato mondiale delle armi è florido, ma i suoi costi umani, sociali e ambientali non vengono messi in conto né dai governi né dalle imprese.

Un gruppo di associazioni italiane ha presentato un esposto a diverse procure per violazione della legge 185 perché dall’Italia vengono spedite armi all’Arabia Saudita che le utilizza per bombardare lo Yemen.

La ditta produttrice è la Rvm Italia, controllata interamente dal gruppo tedesco Rheimetall. Lo stabilimento si trova a Domusnovas in Sardegna, regione da cui avvengono le spedizioni, documentate con foto e video dai movimenti pacifisti. Lo scorso maggio, la Fondazione finanza etica ha partecipato all’Assemblea degli azionisti di Rheinmetall (possiede il numero minimo di azioni) per chiedere conto delle migliaia di bombe prodotte in Italia e sganciate sui civili yemeniti (si tratta di 19.675 ordigni per un valore di 32 milioni di euro), ma ha ricevuto una risposta chiara: «L’azienda segue i propri interessi commerciali».

Interessi commerciali che prevalgono anche in Leonardo-Finmeccanica (partecipata al 32% dal ministero dell’Economia) che si colloca al nono posto nella classifica mondiale delle imprese armiere.

Sabina Siniscalchi

 




I Perdenti 26. Anita Garibaldi


Anita nacque in Brasile, a Morrinhos nello stato di Santa Catarina, il 20 agosto 1821. Il suo nome completo era: Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, figlia del gaucho (mandriano) Bento Ribeiro da Silva e di Maria Antonia de Jesus Antunes che ebbero tre figlie e tre figli. Battezzata Ana, era chiamata in famiglia Aninha, diminutivo di Ana in portoghese. Sarà in seguito Garibaldi ad attribuirle il diminutivo spagnolo di Anita, con il quale noi la conosciamo. Negli splendidi panorami della sua terra e nelle ampie distese della pampa imparò presto a cavalcare e sin dalla sua adolescenza dimostrò di avere un carattere forte e deciso. Nel 1834 la sua famiglia si trasferì nella cittadina di Laguna, sempre nello stato di Santa Catarina, dove purtroppo pochi anni dopo trovarono la morte il padre e i tre fratellini a causa di una epidemia di tifo. Un suo zio, al quale dopo la morte del padre si era molto affezionata, la iniziò agli ideali di giustizia sociale, in un paese governato con il pugno di ferro dai governatori dell’impero luso-brasiliano.

Nel 1835 scoppiò la rivolta dei farroupilha, ossia la rivolta degli straccioni. La sommossa popolare segnò profondamente l’animo di Anita, che guardava con ammirazione i ribelli, sognando di poter un giorno compiere le loro stesse gesta. Il 22 luglio 1839, i rivoltosi conquistarono la città, e gran parte degli abitanti di Laguna si recarono in chiesa per intonare un Te Deum di ringraziamento al Signore, tra loro c’era Anita. Fu in quell’occasione che vide per la prima volta Giuseppe Garibaldi, presente insieme agli altri protagonisti della rivoluzione. Il giorno seguente i due si incontrarono di nuovo, lui la fissò intensamente e le disse: «Tu devi essere mia». Da quel momento Anita sarebbe diventata la compagna fidata di tutte le battaglie di Garibaldi e la madre dei suoi figli.

Anita, sembra quasi che sin dalla più tenera età tu fossi destinata ad avere un ruolo da protagonista sia nella storia del Brasile e dell’Uruguay come nella storia del Risorgimento italiano…

Il merito va tutto a mio zio Antonio, che dopo la morte del mio povero babbo mi prese sotto la sua protezione, insegnandomi fin da bambina ideali di libertà e giustizia. Egli seppe trasmettermi il suo atteggiamento responsabile di fronte ai problemi sociali che andavano delineandosi, facendomi capire che non si poteva rimanere neutrali di fronte ai soprusi che venivano compiuti dai prepotenti di turno.

Ma il tuo non fu un atteggiamento di semplice simpatia e di sostegno solo teorico verso i più deboli…

Una volta assunta la causa degli oppressi, passai subito nelle truppe degli insorti e insieme ad altre donne del popolo combattemmo al fianco dei nostri uomini. Il compito a cui più spesso ero assegnata era quello di difendere le casse di munizioni, sia durante gli attacchi navali che negli scontri a fuoco che si susseguivano a terra.

Ma il 12 di gennaio del 1840, nella battaglia di Curitibanos, fosti fatta prigioniera dalle truppe imperiali luso-brasiliane…

Già, ma il comandante commise un errore fatale, in quanto mi concesse di dare sepoltura ai cadaveri dei miei compagni rimasti sul campo di battaglia. Io, approfittando di un momento di distrazione delle guardie, afferrai un cavallo e riuscii a fuggire.

Quell’anno fu particolarmente importante per te e per il tuo Giuseppe, che voi chiamavate Josè.

Direi proprio di sì. Il 16 settembre 1840 nacque il nostro primo figlio al quale demmo il nome di Domenico. Sarebbe stato chiamato Menotti per tutta la sua vita, in onore del patriota modenese Ciro Menotti.

Poche settimane dopo il parto, tu Anita riuscisti a sfuggire avventurosamente a una nuova cattura.

I soldati imperiali avevano circondato la nostra casa e ucciso gli uomini lasciati da Garibaldi per la difesa, cercando di farmi prigioniera, ma io, con mio figlio in braccio, saltai da una finestra, montai a cavallo e fuggii nel bosco. Rimasi nascosta nel fitto della boscaglia per quattro giorni, con il neonato al petto, finché Garibaldi e i suoi mi ritrovarono. Dovevi vedere con che tenerezza il mio Josè portava il piccolo Menotti in un foulard a tracolla riscaldandolo con il calore del suo corpo durante la ritirata nella sierra.

Però gli avvenimenti si susseguivano implacabili: nel 1841, essendo divenuta ormai insostenibile la situazione militare della rivoluzione brasiliana, tu e Garibaldi prendeste congedo da quella guerra e vi trasferiste a Montevideo, capitale dell’Uruguay.

Quella che doveva essere una tappa passeggera della nostra vita si trasformò in un’avventura che segnò non poco le nostre esistenze. In Uruguay restammo sette anni, durante i quali Garibaldi si guadagnò da vivere per mantenere la nostra famiglia impartendo lezioni di francese e di matematica.

A Montevideo coronaste anche religiosamente il vostro legame di vita.

È vero, il 26 marzo 1842 ci sposammo nella parrocchia di San Francesco d’Assisi. Nel 1843 nacque Rosita, che purtroppo morì a soli 2 anni, nel 1845 Teresita e nel 1847 Ricciotti quarto e ultimo figlio.

Al di là delle vostre vicissitudini familiari, pensi che l’esperienza latinoamericana, vissuta in modo così intenso da Garibaldi, vi abbia preparato a vivere il Risorgimento italiano?

Penso proprio di sì. Le vicende vissute dal mio Josè in Sud America hanno dell’incredibile. La sua epopea latinoamericana durò una dozzina d’anni di cui sette in Uruguay e cinque in Brasile. In Uruguay erano gli anni della guerra civile (1840-1852), che vide il Blancos (sostenuti dall’Argentina) e Colorados (sostenuti da francesi e inglesi) combattere sanguinose battaglie. Garibaldì formò e comandò la legione italiana schierata con i Colorados. Tutto questo senza mai rinunciare alla tenerezza reciproca, all’affetto della famiglia e alla nostra love story.

È per l’impegno profuso in quegli anni che poi Garibaldi si guadagnò la nomea di «Eroe dei due mondi».

Sì, si può dire che Garibaldi, in Brasile prima e in Uruguay poi, fu un condottiero muy valiente. Le sue vittorie militari si realizzarono per terra (tra scontri campali e ardite azioni di guerriglia) e per mare (fu ufficiale della marina uruguaiana sul Rio de la Plata e nei fiumi che lo generano). Era ai nostri occhi un vero libertador di stampo sudamericano, casualmente nato a Nizza.

Però nel 1848, alla notizia delle prime rivoluzioni europee, il tuo Josè nonostante le lusinghe che gli facevano i governanti uruguayani affinché rimanesse, ti imbarcò con i figli su una nave diretta a Genova con destinazione finale Nizza dove fosti ospitata da sua mamma, mentre lui si fermò per sistemare le ultime cose e vi raggiunse con un altro bastimento qualche mese più tardi.

L’accoglienza che ci riservò la mamma di Josè fu straordinaria, l’abbraccio che diede a me e ai suoi nipoti era carico di amore e tenerezza. Ospitati nella sua casa attendemmo di settimana in settimana l’arrivo di Garibaldi, ma quando lui giunse, accompagnato da un sessantina dei suoi legionari, si fermò poco tempo. Infatti avevano portato la notizia che il 9 febbraio 1849 a Roma era stata proclamata la Repubblica Romana, ed egli voleva raggiungere la città eterna con un corpo di volontari che erano subito accorsi per mettersi ai suoi ordini.

E tu lo seguisti?

Qualche tempo dopo decisi di raggiungerlo. Arrivai a Roma in tempo per assistere alla sconfitta che i volontari romani guidati da Garibaldi fecero subire ai francesi. Purtroppo in quella battaglia restarono sul terreno centinaia di morti. A seguito di quello scontro venne stabilita dalle due parti una tregua con scadenza il 3 giugno. In realtà i francesi stavano preparando una trappola per guadagnare tempo e fare arrivare altri rinforzi.

Quindi che successe dopo?

Quando ripresero i combattimenti, la superiorità francese era evidente a tutti e, nonostante la strenua resistenza dei volontari italiani sul Gianicolo, a poco a poco le forze della Repubblica Romana persero terreno, finché il 4 luglio 1849, venne decisa la resa.

Garibaldi però non si arrende e decide di andare con tutti coloro che intendevano seguirlo a Venezia che ancora resiste agli austriaci. Sebbene inseguito dai corpi di spedizione di quattro eserciti inviati dalla Francia, dalla Spagna, dall’Austria e dal Regno delle due Sicilie, Garibaldi riesce a condurre in salvo i suoi uomini nel territorio straniero di San Marino dove scioglie la sua brigata di volontari. Anita in quei giorni è febbricitante e, sebbene incinta, segue il marito a cavallo. Lo segue anche nella cavalcata verso Cesenatico. Quando vi giunge è letteralmente consumata dalla febbre. Garibaldi con duecento seguaci cerca di raggiungere Venezia con delle imbarcazioni da pesca. Ma le navi austriache che controllano il litorale adriatico impediscono di proseguire. Alcune barche si arrendono, altre si avvicinano a terra. Tra queste quella di Garibaldi e Anita, che cercano di sfuggire agli austriaci che li cercano. I garibaldini si sparpagliano su strade diverse per sfuggire alla caccia dei soldati austriaci e dei gendarmi pontifici.

Garibaldi rimane solo con Anita e con il fedelissimo Capitano Leggero. Nelle valli di Comacchio i fatti precipitano. La donna perde conoscenza. Pur braccati dai nemici, Garibaldi e Leggero con l’aiuto di amici fidati caricano Anita su una piccola barca e poi, su un vecchio materasso, la trasportano nella fattoria Guiccioli in località Mandriole di Ravenna, dove cercano disperatamente di rintracciare un medico, il quale accorre immediatamente ma può solo constatare che Anita è spirata: è il 4 agosto 1849. Anita non ha ancora ventotto anni. La sua avventura umana, storica e sentimentale accanto a Giuseppe Garibaldi è durata appena undici anni.

Don Mario Bandera


Errata-corrige: la foto a pagina 72 MC non rappresenta Garibaldi e Anita, ma Garibaldi con la seconda moglie, Francesca Armosino, che gli diede tre figli.