L’inizio della vita pubblica


Quando ci mettiamo sui Vangeli per ricostruire anni, durata e ordine degli eventi nella vita di Gesù, ci troviamo di fronte a poche informazioni e spesso contraddittorie: i Vangeli dicono poco e sovente non si mostrano d’accordo tra loro.

Nonostante questo, ci sono diversi motivi per fidarci dell’informazione di Giovanni secondo cui, pochi giorni dopo le nozze di Cana (cfr. Gv 2,12), Gesù si sarebbe recato a Gerusalemme insieme ai suoi discepoli. Anche se per i sinottici quel viaggio nella città santa è uno degli ultimi atti della sua vita, in realtà davvero Gesù potrebbe aver iniziato la sua missione proprio in quella Pasqua, a Gerusalemme: la festa e il luogo di pellegrinaggio consueta per i credenti ebrei, e soprattutto per i galilei, molto legati alla città e al Tempio.

Un esordio dirompente

Meno consueto è ciò che nella città santa succede: Gesù, infatti, entrato nel tempio, improvvisa una frusta e inizia a prendersela con venditori e cambiavalute cacciandoli fuori.

Per apprezzare appieno il senso del gesto, dobbiamo ricordarci che in quel luogo e tempo il culto consisteva quasi solo nel sacrificare animali. Questi, però, dovevano essere sani, perfetti e, tra gli ebrei, anche puri, ossia allevati, custoditi e macellati con regole che potevano essere difficili da rispettare se non si era particolarmente competenti. In più, sappiamo che al tempio molti andavano in pellegrinaggio, e portarsi da centinaia di chilometri di distanza gli animali da offrire non era per nulla pratico: molto più semplice avere con sé del denaro con cui comprarli direttamente sul posto. E così, tra l’altro, si poteva ottenere che fossero i sacerdoti a controllare e garantire che gli animali acquistati fossero puri.

Il problema, peraltro, non era neanche finito qui. La legge ebraica, poi, per quanto riguardava il denaro, considerava impure le mescolanze e le leghe di metalli. Non era un problema usare il denaro «impuro» al lavoro o nella vita quotidiana, bastava poi purificarsi e non usarlo almeno nelle feste. Ma come fare ad acquistare gli animali sul posto, nel tempio? La soluzione consisteva nel servirsi, all’interno del santuario, del siclo di Tiro, antica moneta di argento zecchino, cambiandolo, all’ingresso, con le monete portate da casa.

Quando Gesù si arrabbia contro chi commercia nel cortile del tempio, quindi, non se la prende con abusi, ma con una prassi indispensabile al servizio del culto per come era codificato nella legge ebraica. Non sarebbe stato strano prenderlo per matto o per blasfemo. Perché si comporta così?

Un Padre autentico

«Non fate della casa del Padre mio una casa di mercato» (Gv 2,16). Spesso pensiamo che queste parole di Gesù siano un invito a non mescolare la religione con il commercio, come avrebbe senso se non si conoscesse la pratica della religione ebraica antica. Tra l’altro, è un’interpretazione che ci tranquillizza: possiamo dirci che «da noi» di solito non succede. Quanto abbiamo appena spiegato, però, ci suggerisce che la questione probabilmente è un po’ diversa, in quanto quelle compravendite erano al servizio diretto dei sacrifici. Senza quei cambiavalute e venditori, non ci sarebbe stato culto nel tempio. E Gesù lo sapeva.

Questo ci aiuta a capire che sta pensando a qualcosa di più ampio. A che cosa servivano i sacrifici? In ubbidienza alla legge di Mosè, i sacrifici erano ciò che gli esseri umani offrivano per ottenere la remissione dei peccati e la comunione con Dio. Do qualcosa al creatore, per averne qualcosa in cambio. Sembrerebbe un rapporto rispettoso, perché non «pretendo» un aiuto gratuito di Dio, senza offrirgli niente in cambio.

Nello stesso tempo, però, è un’impostazione religiosa che potrebbe sembrare «da mercato»: dare per avere. È qualcosa su cui siamo molto più esposti, perché è facile che la nostra religiosità assomigli a questa compravendita: «Ho bisogno di un aiuto, di una grazia, e inizio a fare un’offerta, ad assumermi un “fioretto”, ad accendere una candela o fare una preghiera».

Sembra che sia questa dimensione del «dare per avere» che Gesù rifiuta. Il tempio deve essere una «casa di preghiera», e se i sacrifici non sono più accettabili, la preghiera deve essere pensata in modo completamente diverso. Sarà il resto del Vangelo di Giovanni a chiarire in modo più netto ciò che qui è implicito: «Il Padre vuole adoratori in spirito e verità» (Gv 4,23), perché è un Padre che vuole una relazione autentica con noi, intima, personale, svincolata da regole normative e riti, come pure da qualunque idea di commercio. Preghiera, sì, ma come dialogo di amicizia.

Il Padre

Un altro particolare ci dovrebbe colpire: con estrema scioltezza, senza bisogno di spiegarsi, Gesù definisce Dio come «il Padre mio».

Il tono dell’affermazione che accompagna il gesto duro di Gesù, dice una sua intimità unica con Dio: si può comportare come un figlio che conosce suo padre e ne vede violata la volontà. Chiaramente non intende una figliolanza come semplice essere creato, come siamo tutti noi: «figli di Dio». Gesù qui esprime una consapevolezza che è solo sua, e che può persino farsi ruvida. Non vuole difendere il proprio legame con il Padre, che è dato per scontato, indiscutibile, ma si offende per come il Padre è trattato. Solo lui è in questa intimità con il Padre, e la vive senza bisogno di spiegarla. Per Gesù questo rapporto non è una tesi da dimostrare, è una realtà già chiara.

Tre giorni

È inevitabile che questo gesto estremo susciti la reazione dei presenti. Anzi, per la prima volta nel Vangelo compaiono, come avversari di Gesù, «i giudei» (che già avevano vagliato le pretese del Battista: Gv 1,19). Strada facendo, nel Vangelo si capisce che questa è una formula, una specie di nome in codice, per indicare quegli ebrei che, per ruolo (dottori della legge, scribi, sadducei, sinedrio), per competenza (farisei, dottori della legge) o semplicemente per presa di posizione, intendono difendere la tradizione giudaica contro Gesù. Sono i suoi antagonisti, genericamente definiti con quell’appellativo che nella storia attirerà all’evangelista l’accusa di antisemitismo, benché Giovanni scriva in un tempo in cui di antisemitismo è prematuro parlare.

Questi «giudei», peraltro, fin qui fanno ciò che è giusto, e forse persino doveroso: interrogano Gesù riguardo all’autorità con cui si permette di criticare il culto nel tempio. A loro probabilmente non era per niente sfuggito che quel gesto eclatante era una contestazione del culto in sé e dell’intera interpretazione del ruolo del tempio nel giudaismo. Ma, nel chiedere una conferma, utilizzano una parola («segno») che per l’evangelista definisce i miracoli, gesti che rinviano a spiegare altro.

E Gesù risponde con un enigma, secondo uno stile che nel Vangelo tornerà spesso: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). Nel contesto della discussione, anche noi probabilmente avremmo capito che parlasse dell’edificio in cui si trovava, e per questo Gesù viene preso in giro (2,20), ma poi Giovanni ci spiega che parlava della propria risurrezione.

Se inteso così, tutto diventa più ragionevole e chiaro. Si parla infatti della risurrezione, che innanzitutto sembra un prodigio ma che, secondo l’evangelista, è un segno, serve a far capire altro. Gesù, contestando il culto del tempio, si attribuisce un’autorità divina: solo Dio può cambiare la legge di Mosè spiegando che cosa Dio pensa. La domanda dei «giudei» («con che autorità fai questo?») è giustificata. Ma se davvero Gesù risusciterà, mostrando così il suo pieno dominio sulla propria vita e la conferma divina, le sue pretese si dimostreranno fondate. E la sua parola sul tempio verrà confermata come uno sguardo definitivo e chiarissimo sul cuore di Dio, sull’intenzione del Padre, il quale non vuole riti o formalità, ma un incontro personale, vissuto nella preghiera.

E se così è, diventa anche più chiaro che l’allusione alla risurrezione del tempio in tre giorni poteva parlare più del corpo di Gesù che dell’edificio costruito da Erode, perché l’incontro autentico tra il Padre e l’uomo si dà nella vita umana vissuta nella sua carne, nel suo corpo. Un edificio sacro può essere al servizio di quell’incontro, ma non è nulla di indispensabile.

Testimonianza sull’uomo

Il brano si chiude con un’osservazione enigmatica: «Lui non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza sull’uomo: conosceva lui stesso, infatti, che cosa c’era nell’uomo» (Gv 2,24-25)

Succede spesso con Giovanni che, quando ci pareva di aver capito, troviamo un’altra affermazione, un gesto, una parola, che ci gettano di nuovo nell’incertezza, nella domanda. All’evangelista piacciono i lettori intelligenti, che si sforzano di capire, che non smettono di interrogarsi: in fondo, di testimonianza si stava già parlando. «I giudei» chiedevano a Gesù un segno per poter credere che la sua interpretazione del culto e del Padre fosse fondata. Dal momento che manca un dato oggettivo cui appoggiarsi (la scrittura, per «i giudei», avrebbe potuto esserlo, ma la scrittura di per sé parlava di riti per i sacrifici), bisogna capire se fidarsi di Gesù, appoggiarsi a lui, o alla legge. E, ci dice il Vangelo, «molti confidarono nel suo nome» (Gv 2,23), perché trovarono evidentemente che quanto detto e fatto da Gesù era promettente e credibile. Se avessero avuto conferme oggettive, esteriori, non avrebbero «creduto in lui», «confidato in lui». Lo fanno perché quello che Gesù svela non è disponibile altrimenti, non è lampante.

Quello che Gesù svela è il cuore del Padre, l’intenzione divina, che un uomo non può conoscere se non gli viene rivelata. Questo significa che Gesù è Dio? Giovanni, qui, non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che la logica dell’episodio porta a questa conclusione. Ciò significa che Gesù non è umano ma solo divino? Se così fosse, avrebbe bisogno di qualcuno che gli sveli che cosa è l’uomo, che glielo spieghi come lui fa agli uomini per il Padre. Ma l’evangelista, come detto, afferma che Gesù conosceva quello che c’era nel cuore dell’uomo. Con un linguaggio severo ed enigmatico, Giovanni attesta la piena umanità e divinità di Gesù, sia pure in formule che non saranno quelle dei concili.

Per questo, perché ha le fondamenta saldamente radicate in entrambe le sponde, quella divina e quella umana, Gesù può costituire un ponte tra le due rive, e farci conoscere il Padre (suo, come insiste in questo brano) come nessun altro.

Il Padre divino che potremmo immaginare attento al rispetto delle regole da parte delle sue creature, tutto teso a un’ubbidienza rigorosa delle norme, invece, ci dice Gesù, vuole essere incontrato in intimità, in autenticità, senza la sicurezza ma anche l’esteriorità di riti e forme. Che possono essere utili, ma sono sempre solo al servizio dell’incontro dell’uomo con Dio e non possono sostituirvisi.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 03 – continua)

Da Jesus Mafa




Scandalo in spiaggia


In Italia ci sono 8.970 chilometri di coste. Circa un terzo sono balneabili. Di queste la metà sono date in concessione dallo Stato. Sempre ai soliti e a prezzi ridicolmente bassi. Nel frattempo, i cittadini pagano e le poche spiagge libere sono nel degrado.

C’era una volta una lite tra lupi che oscurava un altro tipo di contenzioso: quello tra lupi e agnelli. Così si potrebbe riassumere la vicenda andata in scena negli ultimi anni e che ha come oggetto la gestione delle spiagge italiane.

Le regole europee

Per la prima parte della vicenda, quella riguardante la lite fra lupi, la storia si può fare iniziare nel 2006 allorché l’Unione europea (Ue) varò una direttiva, la numero 123, passata alla storia come direttiva Bolkestein, in onore del Commissario che la elaborò.

Oggetto della direttiva è l’integrazione dei servizi nel mercato comune europeo. Obiettivo facile da enunciare, ma difficile da attuare perché i servizi non si possono separare dalle imprese che li offrono.

Nel caso di auto, biciclette, caciotte e qualsiasi altro tipo di manufatto, il mercato comune si crea permettendo la libera circolazione dei beni senza coinvolgimento delle imprese produttrici. I produttori possono doversi uniformare a regole comuni in materia di igiene, sicurezza, imballaggi, ma niente di più.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto Gianni Crestani – Pixabay.

Se, invece, parliamo di servizi bancari, di trasporti, di telecomunicazioni, di ristorazione, o addirittura di assistenza sanitaria, istruzione, insomma di tutte quelle attività che procurano un beneficio nel momento stesso in cui sono prodotte, il libero mercato si può creare solo permettendo alle imprese produttrici di muoversi da un Paese all’altro. Se l’impresa francese vuole aprire un ristorante a Roma, deve avere la possibilità di trasferirsi dalla Francia all’Italia, magari con personale francese se lo ritiene utile. Oppure potremmo immaginare un’impresa di facchinaggio polacca che decide di trasferirsi in Spagna, Germania, o qualsiasi altro Paese dell’Unione per gestire l’attività di magazzino di grandi complessi commerciali. Ma con quale personale può farlo: quello locale o quello del Paese di origine? E pagando i dipendenti secondo quali livelli salariali? E con quali regole contributive? Ecco alcuni quesiti che il trasferimento dei servizi apre nell’ambito di una lista ben più lunga che comprende aspetti giuridici, fiscali, sociali, salariali e molto altro. Tematiche a cui la direttiva Bolkestein ha voluto rispondere creando regole comuni valide per tutta l’Unione. Mantenendo sempre come faro il principio della concorrenza, tanto caro all’ordinamento europeo.

Inizialmente si temeva che la Bolkenstein potesse essere il cavallo di Troia per imporre in tutta l’Unione la privatizzazione dei servizi pubblici, ma il punto 8 della premessa chiarisce: «È opportuno che le disposizioni della presente direttiva relative alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi si applichino soltanto nella misura in cui le attività in questione sono aperte alla concorrenza e non obblighino pertanto gli Stati membri a liberalizzare i servizi d’interesse economico generale, a privatizzare gli enti pubblici che forniscono tali servizi o ad abolire i monopoli esistenti per quanto riguarda altre attività o certi servizi di distribuzione».

Del resto, in altre parti del testo, si precisa che la direttiva non si applica ai servizi di interesse generale menzionando specificamente la sanità e i trasporti.

Per la verità, nel testo non si fa mai espresso riferimento neanche alle spiagge o alle attività balneari, ma esse rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva perché si tratta di attività turistiche svolte su concessione, ossia su autorizzazione delle autorità pubbliche che concedono l’uso di beni appartenenti alla collettività. Nel caso specifico le spiagge.

I beni del demanio statale

In gergo i beni di proprietà pubblica si definiscono demaniali, parola derivante dal latino dominium, «dominio», che il francese antico ha trasformato in demaine, a indicare tutto ciò che è sottomesso all’autorità statale. Un elenco che, per quanto riguarda l’Italia, è racchiuso nell’articolo 822 del Codice civile italiano: «Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale». Ma nel 1942 il Codice della navigazione, articolo 36, stabilì che «L’amministrazione marittima, compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo». Un altro provvedimento tornò sul tema nel 1993, stabilendo che le concessioni avevano la durata di quattro anni. Termine esteso a sei anni da una legge del 2001 che però fece anche di più. Da una parte previde la possibilità di rinnovo automatico a ogni scadenza. Dall’altra stabilì che, in caso di nuovi bandi, i soggetti già in possesso di una concessione erano privilegiati rispetto agli altri. Così in Italia si è formata una casta di concessionari balneari talmente blindata da impedire l’ingresso a ogni nuovo aspirante.

Una situazione non condivisa dalle istituzioni europee che a più riprese hanno chiesto allo Stato italiano di uniformarsi al diritto europeo e in particolare alla Bolkestein secondo la quale sia il rilascio di nuove concessioni, sia il rinnovo di quelle in scadenza, debbono seguire procedure pubbliche trasparenti e imparziali tali da consentire a nuovi operatori di concorrere su un piano paritario.

Nel 2009 ci fu una prima iniziativa della Commissione europea che minacciò l’Italia di una pesante multa se non avesse modificato la normativa. Ma la lobby dei gestori balneari era potente e per vari anni lo Stato italiano si è esibito in un penoso teatrino che ha mandato in scena il varo di nuove leggi che facevano finta di cambiare il quadro normativo mentre tutto rimaneva immutato. In certi casi peggioravano addirittura la situazione, come fece il primo governo Conte che, nel dicembre 2018, estese le concessioni in vigore fino al 2033.

Ue-Stato: la saga infinita

Nel frattempo, anche la Corte di giustizia europea e la magistratura italiana sono state costrette a pronunciarsi sulla questione dando sempre torto all’Italia. Nel 2022 il governo Draghi tentò di mettere la parola fine sulla vicenda varando una legge che faceva scadere tutte le concessioni al dicembre 2023. Ma nel febbraio 2023 la legge nota come «Mille proroghe» ha rinviato la scadenza di un altro anno, al dicembre 2024. Al che la Commissione europea è sbottata e nel novembre 2023 ha mandato al governo italiano una nuova missiva dandogli due mesi di tempo per uniformarsi alla direttiva Bolkestein. Insomma, la saga continua, difficile dire quando andrà in onda la puntata finale.

A gennaio 2024 il governo Meloni non aveva ancora detto come intendeva risolvere la questione. Stretto fra le pressioni dei concessionari italiani e le minacce della Commissione europea, il problema del governo Meloni è capire come uscirne senza scontentare nessuno. Ma in cuor suo sa che la lite fra lupi è ormai stata vinta da quelli europei.

L’unico modo per sparigliare le carte sarebbe quello di abbandonare i lupi e prendere le difese degli agnelli, ossia dei cittadini che chiedono di considerare le spiagge beni comuni non privatizzabili da mettere gratuitamente a disposizione di tutti. Come succede in Spagna dove le spiagge sono tutte libere, con possibilità per i privati di allestire i propri servizi a pagamento solo sui terreni di retrovia.

Canoni ridicoli, evasione, lavoro nero, abusi

In Italia ci sono spiagge in abbondanza. L’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) certifica che su 8.300 chilometri di coste, 3.270 sono rappresentate da spiagge sabbiose o ghiaiose. Ma la maggior parte di esse sono accessibili solo a pagamento perché sono controllate da un’industria balneare che nessuno sa quantificare con esattezza.

Secondo il sistema delle Camere di commercio, nel 2021 gli stabilimenti balneari in Italia ammontavano a 7.173, ma il dato non torna con i numeri forniti dal Sid, il Sistema informativo del demanio, secondo il quale nello stesso anno le concessioni balneari erano 12.166. Una media di quattro stabilimenti ogni chilometro di spiaggia.

Anche il giro d’affari dell’industria balneare rimane un mistero: le valutazioni cambiano a seconda del tipo di impresa inclusa nel settore.

Le stime, pertanto, oscillano fra i 2 e i 15 miliardi di euro l’anno. È certa, invece, l’esiguità dell’incasso che lo Stato ottiene dalle concessioni. Una media di 95 milioni l’anno, ha calcolato la Corte dei conti. Un ben magro bottino considerati anche gli episodi di illegalità riscontrati nel settore balneare. Il riferimento non è tanto all’evasione fiscale e al lavoro nero, non documentabili, ma alla presenza di tratti di litorale occupati da muri e cancelli nonché edifici costruiti abusivamente, come denuncia anche il Rapporto spiagge di Legambiente del 2022. Una situazione inimmaginabile in Francia dove l’80% della lunghezza e l’80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per sei mesi l’anno. Non a caso gli stabilimenti vengono montati e smontati a ogni stagione. Inoltre, nel territorio francese, i comuni, che sono gli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni e delle concessioni, sono obbligati a informare la collettività di qualunque progetto e di qualunque nuovo soggetto che intenda gestire le spiagge. Al tempo stesso i cittadini possono effettuare proposte sulla corretta gestione del patrimonio costiero pubblico.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto GMaiga – Pixabay.

Beni comuni trascurati

L’Italia è fra i paesi europei con le più alte quote di spiagge date in concessione.

Legambiente segnala che la percentuale di costa sabbiosa gestita da stabilimenti privati è mediamente del 43% con regioni che arrivano molto più su. Succede, ad esempio, in Liguria, Emilia Romagna e Campania, dove quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti balneari.

Nel comune di Gatteo, in provincia di Forlì e Cesena, tutte le spiagge sono in concessione, ma anche a Pietrasanta (Lucca), Camaiore (Lucca), Montignoso (Massa), Laigueglia (Savona) e Diano Marina (Imperia) siamo sopra il 90%.

Alla fine, per la libera balneazione, rimangono solo pochi metri quadrati, spesso nei pressi di aree degradate. In effetti la libera balneazione non è solo un problema di estensione, ma anche di qualità delle spiagge. Scrive Legambiente: «In molti Comuni le uniche aree non in concessione sono quelle vicino allo scarico di fiumi, fossi o fognature dove al massimo ci si può sdraiare a prendere il sole, non certo a fare il bagno dal momento che la balneazione è vietata perché il mare è inquinato. Ma nessuno controlla che le spiagge libere non siano relegate in porzioni di costa di «serie B», mentre i numerosi cittadini che vogliono fruirne meri- terebbero di trovarle almeno in luoghi monitorati e balneabili».

Il 13 dicembre 2022, in occasione dell’assemblea nazionale di Confesercenti, la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, sostenne che le spiagge vanno affidate ai privati perché «se uno va a vedere le spiagge libere, in posti anche meravigliosi, ci sono i tossicodipendenti, rifiuti e nessuno che pensa a tenerle in ordine».

La ministra dimentica che, in quanto rappresentante della Repubblica, avrebbe l’obbligo di elaborare proposte capaci di tenere insieme decoro e godimento dei beni comuni da parte di tutti. Quanto alla tossicodipendenza non è certo con la repressione e con le recinzioni di epoca previttoriana che si risolve il problema. Soprattutto la ministra dovrebbe ricordarsi dell’articolo 41 della Costituzione secondo il quale l’iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

Francesco Gesualdi

 




Fentanyl, la droga letale in rapidissima diffusione


È un oppioide sintetico nato come farmaco antidolorifico e anestetico. Potentissimo, sta facendo migliaia di vittime nel Nord America. Ma è arrivato anche sulle piazze dello spaccio italiane ed europee. L’allarme è grande e giustificato.

Ascoltando la splendida Purple rain, il pensiero corre subito a Prince, il genio di Minneapolis, che venne ucciso il 21 aprile 2016 da un’overdose di fentanyl. Questo è un oppioide sintetico che il cantante statunitense aveva assunto in seguito all’intervento a un’anca. Lo stesso fentanyl sarebbe la causa della morte nel 2018 di Dolores O’Riordan, la cantante dei Cranberries e di Tom Petty (morto nel 2017), un cantautore e chitarrista statunitense che lavorò anche con Bob Dylan. Questi sono alcuni dei casi più famosi di morti legate all’abuso di fentanyl, sostanza che sta uccidendo centinaia di migliaia di persone ogni anno negli Usa e in Canada e che, da qualche tempo, ha fatto il suo ingresso anche in Europa, dove si teme possa verificarsi un’analoga situazione, benché, per il momento, il numero dei decessi sia ancora basso.

La potenza del fentanyl spiega le sempre più frequenti morti per overdose di coloro che se lo procurano per strada o via dark web oppure lo consumano inconsapevolmente, perché, da qualche anno, viene utilizzato come sostanza da taglio per eroina, cocaina, allucinogeni ed ecstasy. In totale, nel 2023 i decessi per overdose negli Usa hanno superato le 112mila unità e per oltre l’80% di loro il responsabile è stato il fentanyl.

Le cause della diffusione

La quantità di fentanyl sufficiente per provocare conseguenze letali. Foto DEA – United States.

Per capire come questo farmaco sia diventato una delle droghe più diffuse e sia aumentato enormemente il numero di coloro che ne sono diventati dipendenti è necessario risalire ai primi anni Novanta.

All’epoca i medici negli Usa iniziarono a prescrivere il fentanyl come antidolorifico, con una certa disinvoltura legata ad una vera e propria campagna di disinformazione mirata a farne aumentare le prescrizioni, campagna messa in atto da diverse case farmaceutiche. Contro di esse, nel corso degli anni, si sono accumulate oltre duemila azioni legali che hanno portato, tra l’altro, al fallimento della Purdue Pharma. Nella sua campagna promozionale veniva infatti asserito che il fentanyl non crea dipendenza, mentre invece è provato che il suo abuso porta a una gravissima forma di dipendenza e al rischio di overdose.

Un’altra causa della diffusione del fentanyl illegale negli Usa è insita nella mancanza in questo Paese di un sistema di assistenza sanitaria universale, sostituita dal sistema assicurativo. Questo ha portato i meno abbienti a rivolgersi al mercato clandestino dei narcotrafficanti che su queste droghe hanno creato un impero, soprattutto quando il legislatore ha tentato di arginare la situazione rendendo più controllate la prescrizione e la distribuzione del fentanyl.

Protagonisti sono i cartelli messicani che, da anni, immettono negli Usa e in Canada grosse partite di fentanyl. Si sospetta che stiano tentando di orientare tutto il consumo di droghe verso questa sostanza che, come detto, viene utilizzata anche come adulterante di altre droghe. Questa situazione è fonte di enormi guadagni per i cartelli della droga per più di un motivo: il fentanyl crea forte dipendenza, è facile da produrre e costa poco perché, come tutti gli oppioidi sintetici, non necessita di piantagioni (che infatti in Messico stanno diminuendo), non è soggetto all’aggressione dei parassiti o alle variazioni climatiche.

Inoltre, dato che il fentanyl è molto potente, circa 50 volte l’eroina, è molto più facile da trafficare: basta pensare che 100 grammi di fentanyl equivalgono a 5 kg di eroina.

La geopolitica del fentanyl: Cina, Messico, Usa

I narcotrafficanti messicani hanno organizzato nel loro territorio dei laboratori clandestini, nei quali specialisti di chimica assoldati allo scopo sintetizzano questa e altre sostanze a partire dai loro precursori provenienti dall’Asia. Tuttavia, essi acquistano anche grandi quantitativi di fentanyl a basso prezzo direttamente dalla Cina, che da anni ne è il più grande produttore mondiale. E ciò nonostante il governo di Pechino abbia dichiarato l’illegalità della sua produzione e si sia impegnato a perseguire chi lo sintetizza. E ciò su pressione degli Stati Uniti, con cui la Cina ha ratificato un accordo in occasione di un incontro – tenutosi a San Francisco lo scorso novembre – tra il presidente americano Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping.

Per capire la portata di questo giro d’affari, basta considerare quanto afferma un rapporto della Dea (Drug enforcement administration), l’agenzia federale antidroga degli Usa, secondo cui un chilo di fentanyl a elevato grado di purezza acquistato in Cina costa tra i 3.300 e i 5.000 dollari.

Una volta mescolato ad altre sostanze, si possono ottenere da 16 a 24 kg di prodotto e il profitto può arrivare fino a 1,9 milioni di dollari.

Se invece il fentanyl viene smerciato tal quale, essendo molto potente, con soli 10 grammi si arriva a produrne più di 300 dosi, che hanno di solito un prezzo compreso tra i 10 e i 60 dollari, a seconda della zona di spaccio. Dato il prezzo abbordabile, anch’esso causa dell’aumento delle overdosi da fentanyl, questa sostanza è consuma-

ta soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione americana, in primis gli afroamericani seguiti dai latinoamericani.

Sperimentazioni

Le principali conseguenze del fentanyl sul corpo umano.. Immagine American Addiction Centers.

Mentre negli Usa si tiene il conto delle morti da overdose, in Messico nessuno se ne cura, per cui i narcotrafficanti possono sperimentare liberamente le nuove combinazioni del fentanyl con altre droghe.

Il problema è quello di riuscire a rendere i clienti dipendenti, senza ucciderli con dosi letali, ma per questo occorre sperimentare su esseri umani.

Le cavie vengono reclutate solitamente nei quartieri marginali di alcune città, tra cui Tijuana, Mexicali e Ciudad Juárez con distribuzioni gratuite o a bassissimo prezzo.

A seguito di queste sperimentazioni, molti giovani sono morti e moltissimi sono diventati dipendenti. Si stima che nel 2018 solo a Tijuana e Mexicali vi fossero almeno mezzo milione di dipendenti da sostanze. I centri di disintossicazione presenti solo in queste due città sono 76.

Negli Stati Uniti si sono susseguite tre ondate di crescente consumo di oppiacei (morfina e sostanze similari) e di oppiodi (sostanze con attività morfino-simile), con conseguente aumento delle morti per overdose. Secondo i dati del Cdc (Center for disease control and prevention), agenzia federale del Dipartimento della salute statunitense, la prima ondata si è verificata come conseguenza dell’aumento delle prescrizioni di oppioidi negli anni Novanta, a cui ha fatto seguito un aumento dei decessi da overdose a partire dal 1999.

Si sospetta che, in qualche caso, possano avere fatto uso degli oppioidi anche i familiari dei pazienti, avendo spesso a disposizione le rimanenze del farmaco, per eccesso di prescrizione.

La seconda ondata ha avuto inizio nel 2010, quando è aumentato notevolmente il numero dei decessi per overdose da eroina, cercata da chi non necessitava più di controllare il dolore, ma era ormai diventato dipendente da oppiacei ed era quindi portato a cercarli nel mercato illegale.

La terza ondata è cominciata nel 2013 con un significativo aumento dei decessi da overdose dovuta agli oppioidi sintetici, soprattutto il fentanyl prodotto illegalmente e spesso mescolato ad altre sostanze.

Attualmente gli oppioidi sintetici sono la prima causa di morte sotto i cinquant’anni negli Usa, dove si registrano circa 200 morti al giorno. Nella sola New York ci sono stati tremila decessi per overdose nel 2023. Tuttavia il primato delle morti per overdose spetta a Filadelfia (dove sta emergendo anche il problema del fentanyl tagliato con xilazina, un potente sedativo, analgesico e miorilassante per uso animale, altrimenti conosciuta come tranq), seguita da San Francisco.

Tra il 2013 e il 2021 negli Usa è stato rilevato un aumento di 30 volte dei decessi correlati al fentanyl in età pediatrica e tra gli adolescenti. Mentre per questi ultimi è ipotizzabile il consumo di stupefacenti a scopo ricreativo, per i bambini non si può fare a meno di pensare alla carenza delle cure parentali e soprattutto di attenzione da parte dei familiari consumatori di oppioidi, che molto probabilmente lasciano le sostanze incustodite e a portata di mano dei piccoli.

Le droghe su misura

Come fanno i narcotrafficanti a eludere i controlli e a immettere sul mercato grandi quantitativi di sostanze stupefacenti? La risposta sta nelle designer drug o «droghe su misura», cioè molecole sintetizzate da chimici clandestini che cambiano qualche parte della molecola originale in modo che la nuova sostanza imiti l’effetto del model-

lo di partenza senza essere riconosciuta dai sistemi di controllo. La categoria di designer drug in più rapida espansione è proprio quella degli oppioidi sintetici. Basta pensare che nel 2009 l’Unodc (United nations office on drugs and crime) registrava un solo oppioide costruito «su misura», mentre nel 2023 erano già 132. Le designer drugs riescono a circolare liberamente e legalmente finché non vengono riconosciute, cosa che necessita di test sempre nuovi e più sofisticati. Gran parte delle droghe su misura attualmente in circolo appartengono a quattro categorie: i cannabinoidi sintetici, i catinoni, le fenetilammine e gli oppioidi sintetici. Ciascuna di queste categorie comprende centinaia di molecole molto diverse per natura chimica ed effetti. Queste sostanze sono prodotte principalmente in Cina e India, ma dal 2015 sono stati scoperti almeno 52 laboratori di sintesi clandestina anche in Europa.

Tossicodipendenti sotto un ponte. Foto Rizvi Rahman – Unsplash.

Il ruolo del web

Il mercato di queste sostanze è spesso su internet, sia nel deep web che su normali siti dediti alla vendita di prodotti apparentemente «innocenti»: i cannabinoidi sintetici spruzzati su mix di piante secche da fumare sono venduti come incensi; i catinoni, che si presentano come polveri cristalline e si confondono facilmente con sali da bagno o fertilizzanti, e come tali vengono smerciati. Qualche volta vengono venduti come composti chimici per laboratori di ricerca.

Nei primi anni Novanta, grazie all’avvento di internet, non solo è stato creato un mercato di sostanze stupefacenti sul web, ma per molti chimici clandestini è stato possibile scambiarsi informazioni e, soprattutto, accedere liberamente alla letteratura scientifica, quindi alle procedure di sintesi. In pratica, le ricette sono sul web e i chimici-cuochi producono e vendono dai laboratori clandestini.

Ad esempio, uno studio risalente al 1974 della Janssen Pharmaceutica ha permesso ai chimici clandestini di sintetizzare i derivati del fentanyl, altrimenti detti fentenili. È chiaro quindi che molte designer drugs derivano da molecole di ricerca biomedica e potrebbero pertanto tornare utili nella pratica medica per il loro potenziale terapeutico. Per non parlare del possibile utilizzo in questo campo dell’Intelligenza artificiale (Ia).

Nel 2021 un gruppo di ricerca diretto da David Wishart dell’Università dell’Alberta in Canada ha messo a punto una Ia chiamata DarkNps (New psychoactive substances), la quale ha assimilato le strutture di 1.753 sostanze psicoattive note e ha generato circa 9 milioni di varianti con una capacità di prevedere circa il 90% delle nuove droghe prodotte dai chimici clandestini, rivelandosi utilissima nella lotta al narcotraffico. Tuttavia, le Ia di questo tipo potrebbero presto diventare delle ottime assistenti anche per i chimici clandestini. Nel contempo potrebbero ideare e realizzare la sintesi di nuove molecole utili a scopo terapeutico. Come sempre la scienza è neutra e sta a noi usarla bene o male.

Rosanna Novara Topino

 

 




Allamano. Una passione nascosta


A Torino, al Museo dei missionari della Consolata (Cam), fa bella mostra di sé uno strano oggetto, classificato come «macchina fotografica». L’aveva voluta il fondatore Giuseppe Allamano per donarla ai suoi primi missionari partenti per l’Africa, ed essi ne fecero buon uso, realizzando fotografie di ottima fattura. Tali fotografie furono poi ampiamente utilizzate dalla rivista del santuario della Consolata per far conoscere ai numerosi lettori le attività dei missionari in Kenya, e così suscitare nuove vocazioni missionarie e anche offerte a favore delle missioni.

Scopriamo questo interesse dell’Allamano per la fotografia già nel 1899, quando prese l’iniziativa di affidare al celebre fotografo della Sindone, l’avvocato Secondo Pia, il compito di ritrarre per la prima volta il quadro della Consolata. Con la stessa macchina fotografica servita per la sacra Sindone, l’avvocato Pia impiegò tre giorni per riprendere il più fedelmente possibile il volto della Vergine Consolata (cfr MC 06/2023). L’immagine, riuscita in modo ottimo, venne ampiamente utilizzata non soltanto dalla rivista del santuario, ma anche per fare riproduzioni di ogni tipo e dimensione. Ai benefattori del santuario e delle missioni, l’Allamano amava farne dono apponendovi la propria firma, accompagnata sovente da quella dell’arcivescovo di Torino, il cardinale Agostino Richelmy.

La riproduzione fotografica del quadro della Consolata suscitò varie iniziative pastorali che ebbero allora grande successo, come la consacrazione delle abitazioni alla Consolata tramite il suo collocamento ai muri o alle porte.

Se l’Allamano aveva mostrato tale zelo nel diffondere l’immagine della Vergine Consolata, e anche nel far conoscere le attività dei suoi missionari in Kenya attraverso le fotografie, altrettanto non si può dire circa la sua disponibilità a lasciarsi fotografare. Rare volte l’Allamano ha accettato di mettersi in posa davanti alla macchina fotografica, per l’innata e ricercata tendenza a non voler apparire. Mentre lo troviamo sempre in prima linea quando si tratta di favorire iniziative di bene e di apostolato, non così quando si trattava di giocare lui stesso il ruolo di protagonista.

Alle solenni celebrazioni centenarie della Consolata nel 1904, ad esempio, vediamo la partecipazione di importanti personalità civili ed ecclesiastiche: raramente l’Allamano appare, anche se è stato lui il primo promotore di quest’importante evento. Era il suo stile costante: fare e non apparire. Il suo unico intento: «Tutto per la gloria di Dio e della Vergine Consolata».

padre Piero Trabucco


Protettore annuale

I missionari e le missionarie della Consolata hanno la bella tradizione, ereditata dal beato Allamano, di affidarsi ogni anno a un protettore speciale al quale rivolgersi nella preghiera e del quale imitare le virtù. Quest’anno, e per tre anni di fila, è stato scelto proprio lui, il beato Allamano, come protettore dei nostri due istituti. Di seguito la lettera di presentazione inviata dai nostri superiori a tutti i missionari e missionarie

 «Nella carità consiste essenzialmente la santità… la carità è santità: amare e farsi santi è la stessa cosa… La carità verso Dio è necessaria in modo particolare a noi che abbiamo ricevuto la vocazione e la missione di comunicarla alle anime».

Beato Giuseppe Allamano

 Carissimi missionari e missionarie,

è con il cuore colmo di gratitudine che ci rivolgiamo a voi per comunicarvi che il beato Giuseppe Allamano sarà il protettore per i prossimi anni 2024, il 2025 e anche 2026 (in quest’ultimo celebreremo il centenario della sua morte).

Ci ha spinti a proporvi l’Allamano come protettore per tre anni consecutivi il nostro desiderio di offrirvi l’opportunità di vivere un tempo privilegiato per stare a contatto con il fondatore da veri figlie e figli. Siamo certi che il fondatore è vivo, presente in mezzo a noi, nella nostra storia, nella missione, e continua a donarci il suo spirito se noi rimaniamo in comunione con lui.

Su un biglietto ritrovato dentro il suo sarcofago nel 1989, durante la ricognizione della salma, era scritta questa invocazione: «Padre donaci il tuo spirito… nelle piccole e grandi cose, facci figlie/i disponibili, perché il tuo spirito, che è in Dio, si prolunghi oggi e sempre a ogni popolo».

Desideriamo continuare a pregarlo perché ci trasmetta il suo spirito, il suo zelo, perché dalla sorgente del suo insegnamento e del suo esempio possano continuare a scaturire sorelle e fratelli capaci di donazione a Dio e a ogni persona.

Crediamo che il nostro fondatore abbia ancora da dirci molte cose, che possa illuminare la nostra vita di donne e uomini consacrati e che possa aiutarci a vivere in profondità la vita delle nostre comunità e quella dei nostri istituti.

L’Allamano più volte ha ribadito che sarebbe stato vicino ai suoi missionari e missionarie anche dopo la morte: «Quando sarò poi lassù, vi benedirò ancora di più; sarò poi sempre dal balcone [per guardarvi, benedirvi e seguirvi]».

«Per voi sono vissuto tanti anni e per voi consumai roba, salute e vita. Spero morendo di divenire vostro protettore in Cielo».

Un padre che amava intensamente ciascuno

Contempliamo con amore di figlie e figli questo nostro padre. Che diventi sempre più padre per noi. L’esperienza più forte che i nostri missionari e missionarie ebbero dell’Allamano fu soprattutto quella della sua paternità: lo sentivano come un padre che amava intensamente ciascuno, così tanto da lasciare un ricordo indelebile fin dal primo incontro: «Sono passati otto giorni da quando sono ritornata da Rivoli dove sono stata 15 giorni con il nostro amato padre – scrisse suor Emilia Tempo l’11 settembre 1925. Sono stati giorni meravigliosi. Il padre mi sembrò più che mai “padre”, e, credimi, specialmente alle sere abbiamo goduto immensamente della sua compagnia… il padre si sedeva sul sofà e noi ci inginocchiavamo ai suoi piedi e chiacchieravamo con lui fino alle 10».

Padre Alfredo Ponti nel 1906 racconta:

«Una sera a Tosamaganga (Iringa, Tanzania), mentre sulla missione si scatenava un terribile temporale, mi rifugiai nella stanza di padre Nazareno… Quasi spontaneamente… il discorso cadde sugli anni felici della nostra giovinezza… Rivivemmo per qualche istante i nostri primi anni di vita di Istituto… Il discorso cadde naturalmente su colui che di quella famiglia era il vincolo, sostegno, guida, padre. Ricordammo tutto di lui: la bontà verso di noi, la grande comprensione e la felicità nostra di poter convivere con lui. Il ricordo palpitante dell’amato padre ci aveva commossi entrambi. Congedandoci padre Nazareno esclamò: “Era veramente un padre; nostro padre”».

Sostiamo dunque accanto al nostro padre e insieme a lui vogliamo riflettere e meditare sui suoi grandi amori: «L’Eucarestia, la Consolata, la carità fraterna, la santità, la Chiesa, lo zelo, la salvezza delle anime…». Contempliamo la sua santità e sentiamoci stimolati a vivere sempre più secondo il suo cuore, le sue scelte, il suo esempio.

Ascoltare e vivere la sua parola

In questo triennio i due Istituti saranno impegnati a camminare nella luce del nostro padre fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Sia nostro impegno ascoltare e vivere la sua parola. Sentiamolo mentre ci incoraggia a essere sempre più come lui ci voleva, preghiamolo perché ci renda famiglia missionaria chiamata ad annunciare il Vangelo e a vivere «la carità a qualunque costo». Continuiamo a pregare il fondatore per i nostri Istituti e per tutta l’umanità nella speranza di poterlo venerare presto come «Santo» insieme a tutta la Chiesa.

Beato Giuseppe Allamano, prega per noi.

La benedizione del fondatore possa avvolgerci e accompagnarci in questo cammino:

«Vi benedico come foste a me presenti, desideroso d’infondervi colla benedizione della nostra Consolata quanto un padre vi desidera in Domino».

«Sii forte nella prova; la Consolata ti accompagnerà e ti aiuterà. Il padre ti ricorda ogni giorno. Ti benedico. Padre».

A nome delle due Direzioni generali, fraternamente vi salutiamo
suor Lucia Bortolomasi Mc – Superiora generale
padre James Bhola Lengarin Imc – Superiore generale


L’Allamano e il Convitto ecclesiastico

LAllamano, appena nominato rettore alla Consolata, dovette affrontare il problema del convitto ecclesiastico. Per disposizione dell’arcivescovo, il convitto, che era presso il santuario, era stato chiuso quattro anni prima, e i convittori erano stati ospitati in seminario. Monsignor Gastaldi aveva preso questa decisione a motivo dell’insegnamento della teologia morale, che seguiva una linea da lui non condivisa. Se ne era addirittura assunto personalmente l’insegnamento, componendo dei trattati appropriati. Questa situazione aveva creato un po’ di sconcerto, specialmente tra il clero.

L’Allamano ben presto si vide pressato da varie parti perché convincesse l’arcivescovo a riportare il convitto ecclesiastico presso il santuario. Così il 24 giugno 1882, appena due anni dopo il suo ingresso alla Consolata, scrisse dal santuario di Sant’Ignazio una lunga lettera all’arcivescovo. Senza giri di parole, gli domandò se non fosse giunto il momento di fare tornare i giovani convittori alla Consolata.

L’arcivescovo venuto a Sant’Ignazio a predicare un corso di esercizi spirituali fu d’accordo nel riaprire il convitto ecclesiastico presso il santuario della Consolata a condizione che l’Allamano fosse il capo delle conferenze di morale.

Il convitto ecclesiastico

Era proprio quello che l’Allamano non si sarebbe aspettato. La condizione era molto gravosa. A nulla valsero le sue obiezioni, non si sentiva portato alla scuola, ed era gravato già da tante altre occupazioni. L’arcivescovo fu irremovibile: «O tu, o non se ne fa niente». «Monsignore – disse con molta franchezza -, assumo la scuola, ma non adotterò i suoi trattati». «Non importa, fa come credi, di te mi fido», rispose monsignor Gastaldi.

L’Allamano si immedesimò subito con la nuova missione e fece il possibile per tenere vivo lo spirito del Cafasso tra i sacerdoti del convitto. Proponeva senza mezzi termini l’ideale della santità sacerdotale. Commentando il testo paolino: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1Ts 4,3), diceva ai convittori: «Voi dovreste già essere santi… ma giacché, senza far torto a nessuno, non lo siete ancora, procurate di divenirlo».

Quando doveva riprendere qualcuno, lo faceva con semplicità e chiarezza, terminando sempre con un incoraggiamento: «Là! Ora mettiamo una pietra su tutto. Si metta d’impegno e procuri di essere un buon sacerdote».

Per curare meglio la dimensione spirituale della formazione, fin dal 1886, l’Allamano chiamò come direttore spirituale dei convittori il beato Luigi Boccardo, del quale era stato direttore spirituale in seminario. Questa scelta fu molto apprezzata. Un biografo del Boccardo commentò: «Se si tiene conto della cura con cui l’Allamano studiava i suoi convittori, e della fama che godeva di profondo conoscitore di giovani sacerdoti, si tratta di una scelta significativa». E riportò compiaciuto il pensiero di un altro sacerdote: «La diocesi torinese deve perenne riconoscenza al can. Allamano per questa scelta, che intrecciò gli splendori di due astri riverberanti sul convitto ecclesiastico della Consolata».

«Con questa schiera di giovani sacerdoti che preparava per il sacro ministero – affermò il can. G. Cappella – il Servo di Dio portò il santuario ad uno sviluppo veramente eccezionale. Come superiore del convitto ecclesiastico lasciò un’orma imperitura, dimostrando ottime qualità di formatore del clero».

 




Contro l’economia di guerra


Un’opera collaborativa che evidenzia la violenza del modello economico dominante ed esplora alternative virtuose. In nome del rispetto degli esseri umani e della natura. Alla ricerca di una economia di pace.

Cittadella editrice ha il merito di aver pubblicato un agile libro che raccoglie i contributi di diversi attivisti e studiosi per mettere a fuoco le dinamiche dell’economia di guerra nella quale siamo immersi, e individuare percorsi virtuosi verso un’alternativa di pace.

La prima parte del testo è dedicata all’analisi delle drammatiche crisi in atto: il clima, le guerre, l’eclissi della democrazia, dell’uguaglianza e della giustizia. Esse sono prodotte dal modello neoliberista dominante nel quale sono riconoscibili almeno tre tendenze generali.

Tendenze del capitalismo

La prima è la tendenza alla concentrazione del potere economico in poche mani, frutto della lotta per la conquista dei mercati che ha alimentato una polarizzazione tra paesi creditori, come Cina, Russia, Arabia Saudita, e paesi debitori, come gli Stati Uniti. Relazioni internazionali più tese stanno portando allo sviluppo di politiche protezionistiche e alla creazione di aree amiche o nemiche, in un pericoloso «equilibrio di guerra» che rischia di saltare in ogni momento, anche a causa delle crescenti spese militari, le quali, ad esempio nei paesi Nato dell’Unione europea, sono aumentate di quasi il 50% in 10 anni: da 145 miliardi nel 2014 a 215 nel 2023.

Una seconda tendenza è la corsa al controllo delle fonti di energia fossile. I conflitti armati del secondo dopoguerra sono scoppiati per quasi la metà a causa degli idrocarburi: o per conquistare i territori che ne sono ricchi, o per impedire che un paese produttore acquisisse una posizione dominante nel mercato internazionale, o per controllare le rotte di trasporto di petrolio e gas.

È utile sapere che il 64% della spesa italiana per missioni militari all’estero è assorbita da operazioni connesse alla difesa delle fonti fossili. Non si può, poi, evitare di considerare che, nella guerra russo-ucraina, le zone contese del Donbass sono ricche di carbone e petrolio.

Una terza tendenza è l’impossibilità di mettere in atto una seria transizione ecologica, necessaria per affrontare la crisi climatica. Risulta infatti evidente che il cambiamento dovrebbe essere fondato su una conversione economica che sappia rinunciare a un modello di sviluppo centrato sullo sfruttamento degli esseri umani e della natura. Oggi invece «l’inquinamento ambientale è causato dalla difesa armata dell’unica ideologia esistente, il capitalismo» (pag. 145).

Dunque, la «radice della guerra […] va ricercata nella violenza strutturale su cui si basano i modi di produzione, distribuzione e riproduzione oggi trionfanti […]. Un sistema mortifero, biocida. Perché genera guerre, colonizza e militarizza le menti, recide ogni relazione con chi è diverso da sé, distrugge la biosfera, riduce gli spazi vitali di ogni specie vivente.

Per ripudiare la guerra è necessario estirpare le sue radici profonde ed inventare un’economia di pace» (pag. 97).

Alternative concrete

Nella seconda parte del testo, «Appunti per un’economia di pace», sono presentati alcuni contributi che propongono alternative possibili allo scenario descritto in precedenza.

Un cambiamento di paradigma è rappresentato dal modello dell’economia gandhiana, fondato su sei concetti chiave: nonviolenza, non sfruttamento, autolimitazione e sobrietà, lavoro autodiretto al servizio dello sviluppo proprio e della comunità di appartenenza, sviluppo locale autocentrato, amministrazione fiduciaria per gestire le attività economiche.

In questa prospettiva si collocano le esperienze di decentramento, autogestione e cittadinanza attiva come i Gas (Gruppi di acquisto solidale), le comunità energetiche per l’autoproduzione di energia a livello locale, le forme di boicottaggio nei confronti di prodotti insostenibili a livello sociale e ambientale. Queste iniziative rappresentano l’esercizio del potere del consumatore che diventa consum-attore contribuendo a indirizzare l’economia con le sue scelte di acquisto anche attraverso campagne collettive e organizzate (quelle, ad esempio, contro le banche armate).

Se le fonti fossili sono strettamente legate a un’economia di guerra, le fonti rinnovabili, decentrate e controllabili dal basso, rappresentano un diverso modello di società e di economia, un’economia di pace.

Oltre a queste sono presentate nel libro una molteplicità di esperienze e mobilitazioni civili che si battono per rendere i territori, le società e perfino le scuole sempre meno legate all’industria e alla mentalità bellica: dal comitato che ha creato il marchio etico «war free» alla mobilitazione della società civile della valle Sacco, a sud di Roma, contro l’industria bellica e chimica che inquina, dal movimento No base a Pisa Rossore contro la base militare Usa di Camp Darby, all’osservatorio contro la militarizzazione delle scuole (vedi MC ottobre 2023).

Un nuovo paradigma

Il testo si chiude con alcune proposte che invitano il lettore a ripensare i paradigmi economici della società nella direzione del rispetto e della convivenza con il resto dell’umanità e con la Terra.

Si parla quindi di decolonizzare la mente e il pianeta (sviluppare il senso del limite e della cura al posto della paura del nemico e della precarietà), di decostruire la retorica della sicurezza (riumanizzare l’altro, perseguire la giustizia economica), di porre la pace disarmata alla base della politica (obiezione fiscale per la conversione delle spese militari; costruzione dei Corpi civili di pace; riconversione industriale; disarmo e ripudio della guerra; difesa popolare nonviolenta), di mobilitarsi in reti e movimenti territoriali per costruire la pace dal basso, rifondare l’economia passando dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione.

Un libro ricco di spunti da conoscere, sviluppare, promuovere, e tradurre in azioni concrete.

Angela Dogliotti




Piano Mattei, le condizioni per farlo funzionare


Il Piano Mattei per l’Africa, varato dal governo Meloni nel novembre del 2023 e lanciato con il vertice Italia – Africa a Roma lo scorso gennaio, sta suscitando molto dibattito in vari settori della società. Abbiamo provato a riunire alcuni punti di vista.

Il Piano Mattei per l’Africa, per ora, consiste in un decreto legge@ del novembre 2023, convertito in legge il 14 gennaio del 2024, e in un vertice internazionale tenutosi il 28 e 29 gennaio 2024 che lo ha lanciato davanti ai rappresentanti di 46 Paesi africani. Durante l’evento, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha detto@: «L’Italia ha tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa: è un obiettivo che possiamo raggiungere se usiamo l’energia come chiave di sviluppo per tutti».

È a realizzare questo sviluppo che si rivolge il Piano, concentrandosi su «cinque priorità di intervento: istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia», intorno alle quali costruire una relazione di «cooperazione da pari a pari», non predatoria e non caritatevole, con i Paesi africani.

Il Piano, ha annunciato Meloni, potrà contare su una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, dei quali circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il clima e circa 2,5 miliardi dalle risorse della cooperazione allo sviluppo, oltre che sull’impegno del governo italiano a coinvolgere altri donatori e istituzioni finanziarie internazionali e a creare assieme a Cassa depositi e prestiti, entro il 2024, un nuovo strumento finanziario per agevolare gli investimenti del settore privato nei progetti del Piano Mattei.

In questa prima parte del 2024 è presto per dire se siamo davanti a un cambio di paradigma in grado di reimpostare le relazioni con l’Africa rendendole paritarie, a un’operazione di maquillage, o a una terza variante fra questi due estremi.

Fra le preoccupazioni principali emerse subito dopo il vertice c’era quella che la priorità di intervento relativa all’energia finisca per fagocitare tutte le altre e che si concentri sul gas e altri combustibili fossili invece che sulla promozione di energia da fonti rinnovabili. Altre perplessità sorgevano poi dalla poca chiarezza riguardo la dotazione finanziaria: che cosa significa, esattamente, che i 5,5 miliardi verranno destinati dal Fondo per il Clima e dalle risorse per la cooperazione? Verranno ridefiniti i Paesi prioritari per la cooperazione? Verranno spostati fondi, ne verranno aggiunti? O ci si limiterà a quello che il sito «info-cooperazione» ha definito re-branding, cioè l’apporre un’etichetta con il logo del Piano Mattei sulle iniziative già esistenti, senza però modificarne la sostanza@?

L’operazione più onesta, in attesa di risposte certe a queste – e molte altre – domande, è quella di spacchettare ciò che si sa del Piano e individuare le condizioni per le quali potrebbe funzionare. È in questo che si stanno cimentando le varie articolazioni della società, italiana e africana, che si aspettano di essere più coinvolte di quanto lo siano state finora nella definizione del Piano.

Campo di rifugiati nelal regione di Capo Delgado, Mozambico.

Che cosa ne pensano gli africani

Pochi giorni prima del vertice, infatti, la campagna Don’t gas Africa, che riunisce decine di associazioni della società civile africana, ha diffuso una lettera e un comunicato stampa@ per lamentare la mancata consultazione proprio di quelle organizzazioni che cercano di dar voce alle comunità nel continente, incluse quelle più marginalizzate. Secondo il responsabile della campagna, Dean Bhekumuzi Bhebhe, il Piano Mattei è «un simbolo delle ambizioni dell’Italia sui combustibili fossili» e «minaccia di trasformare l’Africa in un mero canale energetico per l’Europa», rinunciando a sostenere il continente in una equa transizione energetica verso le rinnovabili.

Durante il vertice, il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, ha poi usato parole di apertura ma anche di monito: dopo aver elencato le priorità africane – agricoltura, infrastrutture, ambiente, energia, sanità, istruzione, digitalizzazione – e le difficoltà che il continente deve affrontare per realizzarle – il peso del debito, il cambiamento climatico, l’estremismo violento e il terrorismo, l’instabilità, la mancanza di finanziamenti adeguati e i gravi errori di governance – ha commentato che il Piano Mattei, «sul quale avremmo voluto essere consultati, appare coerente» con le esigenze africane. «L’Africa è pronta a discutere i contorni e le modalità della sua attuazione», ha concluso Faki Mahmat, sottolineando però «la necessità di far corrispondere le azioni alle parole. Capirete che non possiamo accontentarci di promesse che spesso non vengono mantenute»@.

Maguga Dam in eSwatini

Che cosa ne pensa il mondo della cooperazione

Anche dalle parole di Ivana Borsotto, presidente della Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (Focsiv)@, emerge una complessiva apertura di credito nei confronti del Piano Mattei: «Che l’Africa sia messa al centro del dibattito è un fatto positivo, mai avvenuto prima, e nelle parole della presidente Meloni ci sono alcune prese di posizione importanti: ad esempio, ha riconosciuto che il nostro destino è legato intrinsecamente all’Africa e che il modello di relazione non deve essere paternalistico». Gli organismi di volontariato, sottolinea Borsotto, sostengono e praticano questo approccio da sessant’anni ed è senz’altro positivo che ora risuonino anche nel discorso della premier.

Ma ci sono delle condizioni, oggettive e misurabili, da soddisfare perché il Piano sia efficace: «La prima è che le risorse finanziarie siano adeguate e garantite nel tempo». Borsotto è anche portavoce della Campagna 070@ per innalzare allo 0,70% del prodotto nazionale lordo i fondi destinati allo sviluppo, in linea con gli impegni presi dall’Italia in sede Onu. Fa notare che nel 2022 l’Italia è arrivata a destinare lo 0,32%: circa 6,15 miliardi di euro, cioè meno della metà dei 13 miliardi necessari per raggiungere l’obiettivo.

Famiglia di pigmei nelal foresta a Bafwasende, Congo RD

La seconda condizione riguarda la «condivisione a livello europeo». Il Global Gateway, la strategia dell’Unione europea per sviluppare infrastrutture e servizi in tutto il mondo, ha un valore complessivo di circa 300 miliardi di euro e il suo pacchetto Africa-Europa prevede investimenti per 150 miliardi: «L’iniziativa italiana deve armonizzarsi con questi strumenti e risorse messi a disposizione dall’Ue». Considerando la scala di grandezza del piano europeo, del resto, non è pensabile che l’Italia possa risultare davvero incisiva se mira ad agire da sola.

La terza condizione è quella di «evitare il superamento operativo della legge 125/14» (che ha riformato l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ndr): con questo, la presidente Focsiv si riferisce al fatto che il Piano Mattei prevede la creazione di una struttura di missione in capo alla presidenza del Consiglio, finanziata con 2,3 milioni di euro l’anno a partire dal 2024, che rischia di sovrapporsi all’operato dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, entità già esistente, legata al ministero degli Esteri e incaricata, appunto, di coordinare le iniziative di cooperazione.

Nel suo intervento al vertice Italia – Africa, Giorgia Meloni ha annunciato come inclusi nel Piano Mattei nove progetti pilota in Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Repubblica del Congo e Mozambico: «Noi organizzazioni della società civile» aggiunge Ivana Borsotto, «attendiamo fiduciose anche di essere coinvolte nella definizione di questi progetti». E conclude: «La politica estera dice chi siamo e come vogliamo stare al mondo: ricordiamo allora che è la legge 125 stessa a indicare nella cooperazione allo sviluppo una parte integrante e qualificante della nostra politica estera».

Che cosa ne pensa il mondo missionario

Anche padre Giulio Albanese, missionario comboniano oggi direttore dell’ufficio per le Comunicazioni sociali e di quello per la Cooperazione missionaria tra le Chiese della diocesi di Roma, appare cauto ma possibilista: accoglie come positiva la dichiarata volontà del Piano Mattei di andare oltre l’approccio caritatevole, se con questo si intende il superamento di quella «carità pelosa» alla quale padre Giulio da anni rivolge dure critiche. Ma, constata il missionario, il piano Mattei per ora è un contenitore di buone intenzioni: occorrerà vedere come si concretizzerà e su quante risorse potrà effettivamente contare.

Riflettendo poi sull’apporto che potrebbe venire dal mondo missionario, padre Giulio ricorda che questo ha fatto «senz’altro progressi nell’allontanarsi da uno stile paternalistico e da un modello emergenziale per concentrarsi di più sullo sviluppo sostenibile». Ma resta una certa frammentazione, una difficoltà a parlare con una sola voce, e questo rischia di rendere meno efficace il contributo dei missionari nell’eventualità in cui il Governo li interpellasse per delineare i contenuti del Piano.

«È mancata una reazione compatta e incisiva da parte del mondo missionario», aggiunge padre Antonio Rovelli, missionario della Consolata in servizio alla Casa generalizia di Roma. In effetti, non risulta a chi scrive che gli organismi missionari abbiano preso posizione in modo unitario e ufficiale, mentre farlo avrebbe aiutato a dimostrare che il mondo missionario è consapevole della necessità di vigilare sulla formazione delle politiche che riguardano l’Africa e si sforza di inserirsi nel dibattito per contribuire a determinarle.

Nigeria. Disastri da petrolio nel delta del Niger. Foto Sosialistik Ungdom, common credits

Il ruolo delle imprese

Il cuore del Piano Mattei riguarderà l’ambito imprenditoriale. Questa la previsione di Mario Giro, membro della Comunità di Sant’Egidio e sottosegretario, poi viceministro, degli Esteri fra il 2013 e il 2018, riportata sul numero speciale di gennaio 2024 della rivista «Africa e Affari» dedicato al Piano Mattei@. Si tratterà, a detta dell’esperto, di soft loans, cioè prestiti a tassi agevolati rispetto a quelli di mercato, «che verranno usati tendenzialmente per le imprese come tentativi di fare equity», cioè acquisto di azioni, «e di comprare imprese o parti di imprese africane e sostenere imprese o joint venture di imprese africane».

Giro giudica «intelligente, lungimirante» da parte del Governo, lo sforzo di rafforzare le relazioni con il sempre più vivace settore privato africano: operazione che altri membri Ue portano avanti da anni. Ma non manca di porre alcune domande cruciali: «Chi applicherà la teoria? Chi acquisterà tutta o parte di un’impresa africana? […] Esistono in Italia consulenti che conoscono talmente bene l’Africa da poter segnalare per un dato Paese quali sono le dieci imprese da finanziare e quali altre invece è meglio lasciare perdere?».

Se non si pone attenzione a questi aspetti, conclude l’esperto, si finisce per finanziare i progetti delle banche di sviluppo: scelta lecita, ma – aggiungiamo – che condividerebbe lo stesso limite mostrato negli anni dalla cooperazione allo sviluppo, per la quale l’Italia ha spesso usato il canale multilaterale – cioè le agenzie internazionali – molto più di quello bilaterale, di fatto delegando ad altri il ruolo e l’incisività in politica estera che nelle dichiarazioni di intenti rivendica per sé@.

Chiara Giovetti

Campo di rifugiati a Cabo Delgado, Mozambico

 




Torino. Missione Barriera


Periferia nord di Torino. Il quartiere più povero e multietnico della città dalla quale partirono i primi missionari della Consolata per il Kenya. Qui, un missionario keniano, da dieci anni, vive l’ad gentes tra italiani, stranieri, poveri, tossicodipendenti, migranti appena arrivati. L’annuncio attraverso la difesa dei diritti di chi non ha voce, l’accoglienza e la vicinanza.

I Missionari della Consolata sono arrivati nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, zona Nord di Torino, nel 2013. Il parroco, padre Godfrey Msumange, classe 1973, era tanzaniano; il vice, padre Nicholas Muthoka, dell’81, keniano.

La stampa locale, ai tempi, aveva parlato del «parroco nero» con un certo stupore. Ad accoglierli, una donna italiana che lanciava insulti dal balcone.

Nello storico quartiere torinese di Barriera di Milano, il più multietnico della città, non tutti, forse, erano ancora pronti a vedere la chiesa locale guidata da sacerdoti africani.

Stile accogliente

Dal 2017 il parroco è padre Nicholas. Lo incontriamo in una fredda mattina d’inverno dopo dieci anni da quell’inizio per farci raccontare una delle frontiere della missione ad gentes dell’Imc in Europa.

Arriviamo in via Ceresole 44 alle 11. Le strutture della parrocchia prendono un intero isolato.

Suoniamo il citofono: viene ad aprire un giovane vietnamita che non dice una parola di italiano. È uno dei cinque migranti accolti in parrocchia.

Ci conduce dal parroco nel suo spartano ufficio ricavato in una stanzetta al fondo della chiesa.

Tra i banchi, nella navata, alcune persone fanno le pulizie: una donna nigeriana con suo figlio, un uomo brasiliano-peruviano, due donne italiane, una pugliese, l’altra piemontese.

Il missionario ci aspetta seduto su una poltrona in tessuto marrone. Maglioncino e camicia grigi, collarino bianco «d’ordinanza» in evidenza. Occhi brillanti, sorriso ironico, voce squillante. È in compagnia di padre Elmer Pelaez Epitacio, l’attuale viceparroco, messicano del 1982.

Il quartiere più straniero

La parrocchia, fondata nel 1929, si trova nel cuore di un quartiere popolare da sempre meta di migranti: prima dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia, oggi da tutto il mondo.

La popolazione di «Barriera» è la più povera della città, con un reddito medio di 17mila euro, contro i 35mila del centro e i 47mila della collina, ma è anche la più giovane e, forse, vivace. Se nel capoluogo piemontese gli stranieri, provenienti per quasi la metà dall’Europa e per l’altra metà da Africa, Asia e America Latina, sono il 15,6% della popolazione (134mila su 858mila), in Barriera di Milano sono uno su tre (18mila su 50mila, il 36%), senza contare quelli che negli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.

Barriera è anche il quartiere nel quale viene sentita maggiore insicurezza da parte dei residenti, tanto da indurre le forze dell’ordine a fare frequenti retate che servono più a lavorare sulla percezione della popolazione che non sulla soluzione dei problemi. Proprio come denunciato più volte negli anni da padre Nicholas: le istituzioni parlano solo di degrado e mai delle persone che ne sono coinvolte, e affrontano lo spaccio, la violenza, i bivacchi di donne e uomini senza dimora, spostandoli da una zona all’altra del quartiere, senza offrire prospettive a chi volesse iniziare una vita più dignitosa.

Parrocchia colorata

Padre Nicholas ci fa accomodare. Accanto a lui, padre Elmer è seduto dietro la scrivania: volto ampio e allegro, capelli nerissimi, sciarpa beige sopra una maglia di pile grigia. Il missionario messicano è stato ordinato sacerdote nel 2021, ed è arrivato qui da un anno e mezzo, dopo un’esperienza tra gli indigeni Nasa della Colombia.

Racconta: «Sono felice di essere qua. Siamo in un territorio molto ricco. In questi dieci anni, la presenza missionaria ha dato un nuovo volto alla parrocchia». Poi elenca le attività: «Oltre alla pastorale ordinaria e al catecumenato, c’è l’oratorio aperto tutta la settimana, il gruppo caritativo che offre cibo ai poveri, il gruppo di mutuo aiuto per ex tossicodipendenti, il centro d’ascolto, due doposcuola. Poi abbiamo una prima accoglienza per stranieri: in uno spazio gestito dall’Ong Cisv ospitiamo una dozzina di donne; nella nostra canonica invece, in questo momento, stanno con noi cinque uomini».

Il missionario illustra anche l’ampia e variegata comunità Imc che vive in parrocchia: quattro sacerdoti (lui, p. Nicholas, p. Samuel Kabiru, keniano, e p. Frederick Odhiambo, keniano) e cinque seminaristi, provenienti da Etiopia, Tanzania, Kenya, Uganda e Costa d’Avorio, che studiano teologia e fanno pastorale in parrocchia. «Questo è un posto ricco di missione – chiosa -. Domenica scorsa, quattro donne africane e quattro adolescenti latinoamericani hanno chiesto ufficialmente il battesimo. Non è necessario andare in Africa o America o Asia. Oggi il mondo è qui».

Laicato e annuncio

Domandiamo da chi sono aiutati i missionari. «Ci sono suor Romana, una vincenziana, e Ivana, dell’Ordo virginum – risponde padre Nicholas -. Si occupano di catechesi, centro di ascolto, carità, anziani… praticamente di tutto. E poi ci sono i laici: il laicato qui è forte, non è solo manovalanza. Le cose le pensiamo e facciamo assieme».

Il missionario ha visto crescere, in questi dieci anni, il protagonismo dei laici e la loro attenzione ai «lontani», oltre che ai «vicini». «C’è stata anche una crescita nell’annuncio – aggiunge, dando una particolare forza a questa sottolineatura -. Una maggiore consapevolezza che non dobbiamo stare solo tra noi».

In oratorio le attività principali sono tre: l’oratorio feriale nel quale le persone, soprattutto ragazzi, vengono, giocano, stanno assieme. Questa è l’occasione per conoscerli. «Poi proponiamo il gruppo formativo – aggiunge padre Nicholas -. Infine, c’è il doposcuola due giorni alla settimana: sono quasi tutti magrebini, asiatici e africani. Poi c’è un gruppo di 35 bambini cinesi che fanno doposcuola la domenica, seguiti da una donna cinese. Per imparare la loro lingua e ripassare le materie di scuola. Da una parte, tutto questo è promozione umana, dall’altra è annuncio: all’estate ragazzi vengono tutti, sentono il Vangelo, cantano. La donna cinese, spesso, si ferma davanti alla madonna a pregare. Anche se non è cristiana».

La droga, il disagio

Nel quartiere, uno dei problemi più visibili è la droga: sia il consumo che lo spaccio.

Negli ultimi anni la stampa locale ha parlato spesso di un gruppo di tossicodipendenti che fino a poche settimane fa occupava il capannone abbandonato di un’azienda, la ex Gondrand.

Dopo l’ennesimo sgombero e l’inizio dell’abbattimento della struttura, ora i giovani si sono spostati. Sempre nei dintorni di Maria Speranza Nostra.

Padre Nicholas segue dal 2020 le persone coinvolte, e ha denunciato a più riprese l’indifferenza delle istituzioni nei loro confronti. «Per me sono prima di tutto dei giovani, non “tossici” o “migranti” o “barboni”. E sono nostri parrocchiani.

Hanno iniziato a venire da noi per il cibo – racconta -. Li abbiamo conosciuti e poi abbiamo iniziato ad andare a trovarli. C’è un gruppo più o meno fisso di venti, trenta persone. Ma il giro è più ampio: vengono da tutta la città e arrivano anche a cento. Formano una comunità. Stanno assieme, si picchiano, fanno di tutto, sono pieni di malattie.

Noi stiamo loro vicini con il cibo, le medicine, l’ascolto e con la difesa dei loro diritti presso chi dovrebbe occuparsene. Si spera che si muova qualcosa, ma sono anni che facciamo a pugni con l’aria».

Storie individuali

L’attenzione della parrocchia alle persone è segno della missione che si fa prossimità. Padre Nicholas ci racconta la storia di alcuni di loro: «Ad esempio, quella di un trentenne del Ghana: lavorava come meccanico, ma beveva molto, giocava alle macchinette, e poi chissà cos’altro faceva. Spendeva tutto in due giorni, ed era finito a vivere alla ex Gondrand. Io gli ho parlato molte volte, ma per due anni non c’è stato verso. Un giorno, cinque minuti prima della messa, arriva in lacrime: “Padre mi devi aiutare”. Io gli dico: “Proprio adesso? Cinque minuti prima della messa? Dopo due anni che ti sto dietro?” – ride padre Nicholas -. Mi sono fatto sostituire per la messa e l’ho ascoltato. Poi gli ho proposto: “Domani vieni con me al Sert, il servizio dell’Asl per le dipendenze. Una casa non te la trovo se prima non fai un percorso”. Allora lui ha iniziato a dirmi: “Sei cattivo, tu non mi vuoi aiutare…”, ma il giorno dopo è venuto con me. Dopo due mesi, era a posto.

Adesso è tranquillo, sereno, mi ha fatto pure un’offerta», conclude con un’altra risata.

Stupri e violenze

Un’altra storia riguarda una trentenne musulmana: «Una volta sono arrivato lì, alla Gondrand, proprio mentre la stupravano in tre – racconta padre Nicholas -. Meno male che mi conoscevano, e che, quando mi hanno visto, sono andati via. Per lei non era la prima volta, né l’ultima, ma non voleva denunciare per paura. Io le parlavo, ma lei non voleva andarsene. Quel gruppo è come una comunità. Si sentono legati tra loro, nel bene e nel male.

Un po’ di tempo dopo, è rimasta incinta. Non sapeva neanche chi fosse il padre. Allora si è convinta. Abbiamo contattato i servizi sociali ed è andata in una casa protetta. L’ho rivista poco tempo fa: era con il piccolo e abbiamo chiacchierato».

Nel gruppo non mancano le ragazze italiane: «Alla Gondrand, fino a un po’ di tempo fa, c’era un boss, originario dell’Africa occidentale. Era violento e controllava tutto, anche la droga che entrava e usciva. La sua ragazza di 25 anni era di Asti. Vivevano assieme al terzo piano della palazzina abbandonata. Un giorno sono stato chiamato con urgenza e, quando sono arrivato lì, ho trovato la ragazza con un ferro conficcato nella pancia. C’era sangue dappertutto. A mani nude ho tamponato la ferita e ho chiamato l’ambulanza. È stata salvata. Ma poi, quando è stata un po’ meglio, ha firmato l’uscita dall’ospedale ed è tornata lì con quell’uomo.

Io ho anche provato a chiamare la mamma, che però non ne voleva sapere. Poi se ne sono interessati i servizi sociali e alla fine è andata via. Dopo un po’ di tempo mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri di compleanno. In quel momento era a casa con la mamma. Qui non l’abbiamo più vista».

Spostare i problemi

Oggi alla ex Gondrand non c’è più nessuno. «La stanno buttando giù – dice padre Nicholas -. Ma è solo una questione di facciata. I giovani senza casa si sono semplicemente spostati».

Arrivano Franca e Mimma, due volontarie del gruppo caritativo, sulla sessantina. «Loro sono quelle a cui abbiamo sbolognato la faccenda della Gondrand», ride sornione il missionario.

«La maggior parte sono tossici, alcuni spacciatori – racconta Franca con voce calma e calda -. Ci sono anche donne italiane cui sono stati tolti i figli. Da poco siamo riusciti a sistemarne una che ha trovato un lavoretto ed è tornata a casa. Un’altra ha smesso di drogarsi da un mese. I ragazzi sono in gran parte di origine africana. Il problema di tutti loro è la droga. Vivono come randagi, un po’ qua e un po’ là.

Quando abbiamo iniziato, temevamo che fossero violenti, ma è bastato dire loro: “Ciao, come ti chiami, cosa fai, perché sei lì?”, e adesso ti salutano, ti ringraziano, ti abbracciano». «C’è una cosa che mi dà molta tristezza – interviene Mimma, che è rimasta in piedi accanto alla porta -. Questi ragazzi, uomini o donne che siano, non hanno la speranza di raggiungere un qualche obiettivo. È la droga che ammazza tutte le loro speranze. Quando vedi l’abbattimento totale di una persona ti manca il fiato».

«Sono gli “invisibili” – riprende Franca -. In realtà visibilissimi, perché sono per strada, da tutte le parti, ma sono invisibili per le istituzioni».

Vorremmo fotografare le volontarie, ma loro preferiscono di no: non vogliono «farsi pubblicità».

L’ad gentes in Europa

Si è fatto tardi. L’ora e mezza che avevamo a disposizione è già trascorsa. Rivolgiamo ai missionari le ultime due domande: «Cosa dice questa esperienza all’Istituto Missioni Consolata?».

Risponde padre Nicholas: «Penso che questa esperienza metta in luce qualcosa che sapevamo già: che la missione è anche in Europa. Facciamo opere di carità che hanno al centro l’annuncio. E indubbiamente qui siamo in un territorio ad gentes. Questa esperienza si inserisce nel nostro carisma e lo arricchisce. Qui non s’incontra un ambiente culturale omogeneo, come nella missione classica, ma molteplici culture in un contesto complesso».

Alla seconda domanda, «che cosa porta il carisma Imc in questo quartiere?», risponde invece padre Elmer: «Noi, come Imc, portiamo l’annuncio, e questo annuncio è la consolazione. E questo è un posto in cui offrire a poveri, adulti, bambini, anziani la vera consolazione».

Luca Lorusso

 Archivio MC




Clima, Cop28: meglio del previsto o solo parole?


Alla Cop28 di Dubai i Paesi del mondo hanno raggiunto un accordo che va oltre le basse aspettative della vigilia. Ma realizzarlo è tutta un’altra storia e le incognite continuano a essere tante.

A riguardarla ora, a mesi di distanza, la traiettoria della scorsa conferenza sul clima ricorda molto il profilo a saliscendi delle montagne russe. Partita con premesse poco promettenti e con aspettative bassissime, ha avuto un’apertura dei lavori incoraggiante, parecchi momenti tesi e perfino tragici durante lo svolgimento, una conclusione più positiva del previsto e, infine, un immediato ridimensionamento dell’ottimismo generato da questa conclusione.

La Cop28 – cioè la «Conferenza delle parti aderenti alla convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici» – si è svolta a Dubai, negli Emirati arabi uniti, dal 30 novembre al 13 dicembre 2023. Essa ci mostra un mondo che ha giudicato del tutto insufficienti gli sforzi fatti finora per mettere in pratica l’accordo di Parigi del 2015 sul clima, e ha deciso di intensificarli rinunciando ai combustibili fossili. Non è riuscita, tuttavia, a spingere le parti fino all’adozione di decisioni legalmente vincolanti.

Il dibattito fra chi vede nelle decisioni prese alla Cop28 un buon risultato e chi non lo vede si gioca in definitiva su questo: per la prima volta c’è un accordo ufficiale sul fatto che il mondo debba andare verso l’abbandono dei combustibili fossili, ma non c’è alcuna garanzia che i Paesi rispetteranno questo accordo e non tenteranno di piegare i suoi passaggi più vaghi ai propri interessi immediati.

Allagamenti a Rio do Oeste (foto Marco Favero / Governo de SC)

Dove eravamo rimasti

La Cop27 di Sharm El-Sheik, in Egitto, si era conclusa con un unico risultato degno di nota: la decisione di creare un «Fondo perdite e danni», destinato a compensare per i danni subiti finora i Paesi più vulnerabili, dove le conseguenze del cambiamento climatico sono già molto pesanti.

Sulla mitigazione, cioè su quell’insieme di interventi necessari per contrastare il fenomeno stesso del cambiamento climatico, e quindi prevenire danni e perdite, non c’erano stati progressi. L’Egitto, Paese ospitante, aveva anche approfittato della Conferenza sia per portare avanti la propria agenda di esportatore di gas, sia per tentare di ripulire l’immagine del governo di Al-Sisi, danneggiata dalle sistematiche violazioni dei diritti umani che il regime mette in atto e dal progressivo impoverimento della popolazione egiziana@.

La scrittrice e attivista Naomi Klein a questo proposito aveva commentato che il vertice sul clima stava andando «ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia»@.

L’annuncio, giunto come da tradizione nei giorni di chiusura della Cop, che la sede per il successivo summit sarebbe stata Dubai, uno degli Emirati arabi uniti – cioè un altro Paese la cui economia si basa sui combustibili fossili – aveva poi contribuito a creare il clima di rassegnata sfiducia che si è trascinato fino all’apertura della Cop28. Si era allora a fine novembre 2022, tempo nel quale tutti gli scienziati stavano già anticipando quello che ora sappiamo per certo: che il 2023 sarebbe stato l’anno più caldo mai registrato@.

Loyangallani, El Molo Bay, Ol Molo Village, l’isola di Komote nel 2009 (foto Gigi Anataloni)

Una conferenza tesa

La Conferenza del 2023, ospitata nella Expo city sorta nel 2020, si è aperta con l’accordo che rende operativo il Fondo perdite e danni, quello che la Cop27 aveva solo stabilito di creare. Secondo Jacopo Bencini, dell’organizzazione Italian climate network (Icn), la presidenza emiratina della Cop28, guidata dal sultano Ahmed Al Jaber, ha voluto con quella mossa «fugare il più possibile dubbi e sospetti rispetto a questa prima Cop presieduta da un Ceo (amministratore delegato, ndr) di un’azienda petrolifera»@.

Al Jaber è infatti direttore generale e amministratore delegato di Adnoc, la compagnia petrolifera di stato di Abu Dhabi, un altro dei sette emirati federati. Aveva ricevuto molte critiche quando, una settimana prima della Cop, aveva detto che non esistono prove scientifiche a dimostrare che eliminare i combustibili fossili permetterà di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali come richiede l’accordo di Parigi@.

La conferenza, raccontava Ferdinando Cotugno nei suoi dispacci@ pubblicati sul quotidiano Domani e nella sua newsletter Areale, è poi proseguita con negoziati costretti a farsi largo nella melma di risentimenti e tensioni che si agglutinava intorno a troppi elementi di disturbo: scorie delle fratture e dei conflitti del mondo esterno alla Cop che inquinavano l’atmosfera pacificata della Expo city.

Innanzitutto, il veto del presidente russo Vladimir Putin, ostile all’ipotesi che una capitale dell’Unione europea potesse ospitare la Cop29; ma anche le molte resistenze delle economie basate sul fossile, rivelate dalle agenzie Reuters e Bloomberg con la pubblicazione dei contenuti di alcune lettere inviate dall’Opec, l’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, agli Stati membri. Le lettere contenevano una consegna inequivocabile: respingere ogni proposta di accordo che attaccasse direttamente i combustibili fossili invece delle emissioni@.

Secondo alcuni osservatori, nel rompere lo stallo potrebbe aver giocato uno strumento tradizionale della cultura araba, il majlis, che – riportava@ nella sua analisi sul New York Times il giornalista economico Peter Coy – è sia un luogo che un evento. È la zona di un’abitazione araba dove i padroni di casa si siedono con gli ospiti. Nella versione della Cop28, il majlis ha preso le sembianze di una riunione più informale, a porte chiuse, con i delegati seduti in cerchi concentrici a dar vita a una condivisione più personale e immediata.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Sullo sfondo l’isola di Komote nel 2024. (Foto Anna Pozzi)

La prima bozza

Ma, nonostante gli accorgimenti per rendere la negoziazione più fluida, la prima bozza di accordo uscita l’11 dicembre si è rivelata molto problematica@. La principale pecca era quella di non contenere il cosiddetto phase-out dei combustibili fossili (cioè la scelta di smettere del tutto di usarli), nemmeno per il carbone, sull’abbandono del quale la comunità internazionale sembrava invece più concorde. Il testo era più attento a promuovere i metodi per catturare e stoccare l’anidride carbonica, prevedendo una riduzione dei soli combustibili fossili le cui emissioni non possano essere abbattute appunto con quei metodi (unabated, nell’espressione inglese). Ma è noto che la ricerca sulle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 è ancora molto lontana dall’aver trovato soluzioni che permettano di abbattere emissioni su larga scala@.

Il culmine delle tensioni è stato probabilmente raggiunto con la frase – molto ripresa dai media – di John Silk, capo delegazione delle Isole Marshall, che così ha commentato la bozza: «La Repubblica delle Isole Marshall non è venuta qui per firmare la sua condanna a morte. Quello che abbiamo visto oggi è totalmente inaccettabile. Non andremo alle nostre tombe d’acqua in silenzio»@.

L’accordo che nessuno si aspettava

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Dopo un’ulteriore ultima nottata di negoziati, i delegati sono tuttavia arrivati a un documento finale – il primo Global stocktake, o Gst (in italiano: inventario globale)@ – che, a detta di molti osservatori, contiene alcuni passaggi storici. Un’analisi completa del documento è disponibile sul sito di Icn@; i punti che rappresentano una svolta sono i seguenti.
Per la prima volta in 28 anni, la conferenza sul clima fa ufficialmente proprie le posizioni della comunità scientifica, riconoscendo che il riscaldamento del pianeta è «in modo inequivocabile» causato dall’uomo, e invita tutte le parti a contribuire agli sforzi globali per allontanarsi (transitioning away, nel testo originale) dai combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo – ammettendo così di fatto che questo tipo di combustibili è, per così dire, il grosso del problema – e per triplicare l’energia prodotta con fonti rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica.

L’impegno a non superare la soglia del grado e mezzo rimane «la stella polare», ha detto l’inviato per il clima ed ex segretario di stato Usa, John Kerry e, anche se da Dubai non è uscita una tabella di marcia precisa, l’accordo dice in modo chiaro che per onorare questo impegno occorre limitare le emissioni del 43% entro il 2030, del 60% entro il 2035, e arrivare infine a zero emissioni nette entro il 2050.

Il Gst contiene un riferimento all’energia nucleare su cui il dibattito italiano si è molto focalizzato. Eppure, osservava Cotugno nella sua newsletter del 13 dicembre, il testo uscito da Dubai è ben lontano dal dare lo stesso peso a rinnovabili e nucleare: riconosce quest’ultima opzione come legittima, ma l’impegno verso le rinnovabili è molto più marcato.

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Tante incognite

Già durante la plenaria conclusiva della conferenza hanno cominciato a emergere gli elementi su cui occorrerà vegliare perché l’accordo non venga svuotato del suo senso.

A nome dell’Alleanza dei piccoli stati insulari, la capo negoziatrice samoana Anne Rasmussen ha rilevato la presenza nell’accordo di una «sequela di scappatoie»@. Il delegato del Senegal, a nome dei 46 paesi meno sviluppati, ha espresso preoccupazione per «i bassi contributi complessivi»@ che i vari fondi per il clima@ hanno nei fatti ricevuto, e che sarebbero vitali sia per finanziare interventi di adattamento, sia per limitare i danni subiti da una crisi climatica della quale i Paesi da lui rappresentati sono i meno responsabili.

Solo per fare un esempio: pochi giorni dopo l’effettiva creazione del Fondo perdite e danni con cui si è aperta la Cop, i Paesi ad alto reddito avevano promesso 700 milioni di dollari. La cifra però rappresenta solo lo 0,2 per cento dei 400 miliardi che, secondo la stima più citata negli ultimi mesi, sarebbe necessaria per le compensazioni.

Se la professoressa Valeria Termini, intervistata da Lucia Capuzzi su Avvenire@, vede la svolta di Dubai in un cambio di approccio della Cina – apparsa, dice Termini, più pronta a sostenere i Paesi in via di sviluppo e meno legata a quelli produttori di petrolio -, il giornalista esperto di clima David Wallace-Wells ha scritto che ai ritmi di emissioni attuali la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento è già fuori dalla nostra portata@. Citando il Global Carbon Budget, pubblicazione coordinata dall’Università di Exeter, nel Regno Unito, che ogni anno sintetizza i risultati del lavoro di numerosi gruppi e centri di ricerca, Wallace-Wells riporta che le emissioni dovrebbero raggiungere lo zero non molto oltre il 2040: dieci anni prima di quanto indicato nell’inventario globale di Dubai.

A pesare sulle prospettive di gestione della crisi climatica c’è anche l’incognita delle elezioni negli Stati Uniti che, alla data di chiusura di questo articolo vedono l’ex presidente Donald Trump in largo vantaggio nelle primarie del partito repubblicano. Già durante il suo mandato, Trump aveva ritirato gli Usa – secondo Paese al mondo per emissioni – dall’accordo di Parigi e riempito le agenzie governative di lobbisti dei combustibili fossili, e c’è da aspettarsi un secondo mandato ancora più aggressivo, scriveva Politico lo scorso gennaio@.

Allo scenario del disimpegno degli Usa va poi aggiunta la disinformazione, che ha modificato forma e ha smesso quasi del tutto di negare che il cambiamento climatico esiste per dedicarsi invece ad attaccare le soluzioni, sostenendo ad esempio che le rinnovabili e i biocombustibili non funzionano o che le politiche per il clima ci impoveriranno.

È questo che emerge da uno studio del Center for countering digital hate, che ha analizzato l’evoluzione dei contenuti dei video negazionisti su YouTube. Il compito dell’ambientalismo nel 2024, twittava a proposito Ferdinando Cotugno, «è proteggere le ragioni della transizione dalla nuova ondata di bugie»@.

Chiara Giovetti

Mungitura in una stalla. L’allevamento intensivo degli animali è uno degli imputati principali del cambiamento climatico (foto Gigi Anataloni)




E si mise a sedere sulla cenere


Eccoti sul tuo trono, antico Re di Ninive. Siedi avvolto nel profumo mediorientale del tuo manto.
La citta su cui regni è come la tua vita. Tumultuosa, disarticolata. Traboccante di commerci e lingue, gesti umani e grugniti di bestie, piazze vivaci e vicoli ripugnanti, odori e polvere.

Ci vogliono tre giorni di cammino per attraversarla. Quando ci provi, ti stupisce.

A volte t’imbatti in misteriosi bastioni fortificati, e li aggiri. Non sai cosa celino, e si aprono solo pronunciando parole d’ordine che hai scordato.

Eccoti qui, sul tuo trono. Sei inquieto, ma non troppo. Amministri l’ordinario, pensi di avere tutto sotto controllo, o quasi.

Non ti accorgi, però, che il suolo trema e le nubi si addensano, non vedi che gli abitanti del tuo regno, uno dopo l’altro, si vestono di sacco e iniziano un digiuno.

Non ne prendi coscienza finché dentro te la fame non morde con insistenza. E allora la percepisci: c’è una voce che risuona per le strade. Chiede la tua presenza, e domanda di riportare alla memoria le parole d’ordine accantonate e lasciare da parte il resto.

Qualcosa di profondo sta avvenendo.

È la fine? O un’occasione?

Decidi che è un inizio, uno dei molti che già hai vissuto e che vivrai.

Qualcuno, un giorno, ricordando quanto accade in questo momento, scriverà a tuo riguardo: «Egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere» (Giona 3,1-10).

L’ordine che esce dalla tua bocca segue quanto già sta avvenendo: tutto ciò che vive e si muove nel tuo regno, uomini e bestie, si fermi, trattenga la voracità che l’acceca e lasci cadere la violenza che è nelle sue mani. Si liberi dalle false immagini che si è fatto di sé e del suo dio e invochi il Signore perché riporti tra le case la vita.

Chissà che il tuo ardente sdegno per te stesso, o Re, non si plachi, e che tutto quanto doveva morire ed essere lasciato andare non si trasformi in cenere su cui riposare.

Dall’alto di una croce, e dalla luce di un sepolcro, una Parola ti riaprirà.

Buon cammino verso la Pasqua, svincolati dai troni che ci bloccano e dai manti che ci coprono,

da amico

Luca Lorusso

Clicca qui sotto per andare al sito di Amico e leggere tutto: per la preghiera | Il progetto per i ragazzi di Zuunmod | La testimonianza di suor Francesca Allasia dalla Mongolia | L’intervista a padre Celio Fumo, animatore missionario a Bevera.




Nuova speranza, nuove azioni


Davanti ai processi di distruzione del mondo, sono necessarie resilienza e azioni. Ognuno di noi può dare un contributo unico e significativo.

«Il tratto costante del suo impegno […] è la consapevolezza che il lavoro culturale, politico e spirituale per rafforzare la resilienza e la capacità di azione di individui e gruppi è l’unico modo per far fronte alla catastrofe dei processi di distruzione in atto nel mondo».

Così scrive Giovanni Scotto, curatore dell’edizione italiana di «Speranza attiva», a proposito di Joanna Macy, autrice del libro assieme a Chris Johnstone.

Attivista nonviolenta fin dagli anni Settanta, Macy ci invita a trasformare le nostre relazioni in una «rete della vita», attraverso un «lavoro che riconnette» gli esseri umani e il mondo, per superare il diffuso senso di disconnessione che sta alla radice delle crisi contemporanee.

La «speranza attiva» è l’asse portante del percorso, perché coltivarla «significa diventare partecipi nel realizzare ciò che più vogliamo». Ma come fare per metterci in gioco? Le tre parti del libro ce lo spiegano.

La grande svolta

Nella prima parte, intitolata La grande svolta, l’autrice analizza la crisi della modernità attraverso tre narrazioni: quella «dell’ordinaria amministrazione», nella quale tutto «va bene così», «non si può cambiare nulla», l’obiettivo è «andare avanti»; quella del collasso ambientale e sociale cui ci sta portando il mondo dell’ordinaria amministrazione; infine, quella della «grande svolta» che narra l’emergere di risposte creative capaci di avviare la transizione dalla società industriale della crescita a una che cura la vita.

Non c’è dubbio che la crescita infinita perseguita dal capitalismo liberista abbia prodotto i disastri cui oggi assistiamo. Nel XX secolo il consumo globale di combustibili fossili è aumentato di 20 volte. L’industria, l’agricoltura moderna, la crescita demografica, gli stili di vita occidentali, hanno sestuplicato l’uso di acqua e incrementato la siccità dal 15 al 30% delle terre emerse. Secondo il Millennium project delle Nazioni Unite, povertà estrema e fame potrebbero essere cancellate entro il 2030 con 160 miliardi di dollari l’anno, mentre la spesa militare mondiale nel solo 2022 è stata di 2.240 miliardi.

È evidente, dunque, che il collasso del pianeta deriva anche da scelte politiche orientate alle armi, invece che all’utilizzo delle risorse contro le diseguaglianze e il cambiamento climatico.

Per cambiare occorre diventare consapevoli delle scelte fatte e delle alternative esistenti.

Nei grandi processi di cambiamento, all’inizio le cose succedono solo ai margini, poi però le nuove idee e i nuovi comportamenti si diffondono fino a raggiungere una massa critica e un punto di svolta.

Nella narrazione della grande svolta Macy mostra che l’azione di cambiare noi stessi, accrescendo compassione ed empatia, e quella di cambiare il mondo sono essenziali entrambe e si rinforzano a vicenda.

L’autrice propone, dunque, un percorso di cambiamento che si articola in un processo di empowerment in diverse tappe: le prime due descritte nei capitoli Cominciare dalla gratitudine e Onorare il dolore del mondo, contenuti nella prima parte del volume, le altre nei capitoli delle due parti a seguire: Vedere con occhi nuovi e Andare avanti.

La gratitudine ci disintossica dal consumismo, basato sull’insoddisfazione: negli ultimi 50 anni sono state consumate più risorse che durante tutto il resto della storia umana. Nonostante questo non siamo più felici e la depressione ha raggiunto livelli da «epidemia». La gratitudine ci offre una via di uscita perché sposta l’attenzione da «cosa manca» a «cosa c’è» ed è essenziale per la sopravvivenza, come sanno i popoli nativi che ringraziano costantemente la Natura.

L’intelligenza ecologica riconosce che il nostro benessere personale dipende dal benessere del mondo naturale, da rispettare, preservare e ringraziare.

Per poter affrontare le sfide, dobbiamo sviluppare modi di parlarne che non diventino battaglie per determinare di chi sia la colpa, né attivino meccanismi di evitamento, ma sviluppino piuttosto la consapevolezza che il dolore del mondo è il nostro dolore. Scegliendo di onorare il dolore della perdita invece di ignorarlo, spezziamo l’incantesimo che ci rende insensibili davanti alla dissoluzione del mondo.

Vedere con occhi nuovi

Nella seconda parte, intitolata Vedere con occhi nuovi, l’autrice propone quattro tappe, ciascuna descritta in un capitolo.

Espandere l’identità è la prima: l’idea di un separato dagli altri non è l’unica possibile. Il nostro sé può diventare un «sé ecologico», più ampio e profondo, sentendo il mondo naturale come parte di noi. La natura ci insegna che la vita non si espande combattendo, ma facendo rete.

Per fare rete occorre Un altro tipo di potere (la seconda tappa), la collaborazione, il «potere con» anziché il «potere su».

Ognuno di noi deve sentirsi protagonista del processo di guarigione e riparazione a livello globale, ma, perché esso avvenga, ciascuno deve giocare il proprio ruolo per attivare il «potere con». Sentirci troppo autosufficienti rischia di farci dimenticare che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Nell’aiuto reciproco le nostre vite diventano ricche di senso e insieme possiamo Arricchire la comunità (la terza tappa).

Oltre allo sviluppo di una comunità che sappia estendersi a tutta l’umanità, è importante anche ampliare il nostro punto di vista sul tempo, Estendere il tempo (quarta tappa): per assicurare il legno necessario per la manutenzione del tetto della sala comune del New College dell’Università di Oxford, costruito nel 1379 con travi di quercia, i forestali piantarono grandi querce che crescevano lentamente. Oggi il nostro sistema economico fissa obiettivi e misura il successo in base alla rapidità della crescita. Ma sappiamo che perseguire una crescita infinita in un mondo limitato è una ricetta per il disastro.

Per comprenderne l’entità, immaginiamo che il viaggio della vita sulla Terra fino a oggi sia racchiuso in una giornata di 24 ore: ogni minuto equivale a 3 milioni di anni. Due minuti prima della mezzanotte compare una scimmietta africana, l’antenato comune a umani e scimpanzé. L’intera storia dell’homo sapiens, dai primi passi a oggi, si svolge negli ultimi 5 secondi.

Se poi immaginiamo di rappresentare in 24 ore i 250mila anni della storia umana, scopriamo che per quasi 23 ore siamo stati cacciatori raccoglitori. A due minuti dalla mezzanotte avviene la rivoluzione industriale. Nell’ultimo minuto la popolazione cresce da uno a sette miliardi. Negli ultimi 20 secondi (dal 1950 a oggi) l’umanità ha usato più risorse di quanto non abbia fatto in tutto il resto della sua storia.

Andare avanti

Nella terza parte del volume, Andare avanti, Joanna Macy invita a immaginare futuri possibili per diventare lungimiranti. La realtà è un processo in continuo movimento. Per sostenere il cambiamento nella direzione che ci appare giusta occorre credere che sia possibile, sapendo che le scelte che si fanno lo influenzano, poi occorre chiedersi: «Cosa stiamo facendo per aiutare a costruire il futuro che vogliamo?», infine è importante trovare dei punti di riferimento che indichino cosa è possibile: andare a conoscere e portare alla luce esempi di lotte che hanno avuto successo.

Il cambiamento è un fenomeno discontinuo: possono avvenire passaggi improvvisi e imprevisti, eventi apparentemente insignificanti possono portare a profonde trasformazioni. Esistono delle «soglie» passate le quali succede qualcosa di nuovo, come avviene per l’acqua che, a un certo punto, rapidamente cristallizza.

Ognuno può

Viviamo in un’epoca in cui il corpo della terra è sotto attacco. Allo stesso tempo, sta avvenendo uno straordinario processo di rigenerazione, una risposta creativa e vitale, la Grande svolta.

Troviamo la forza di affrontare la situazione nel momento in cui riconosciamo che ciascuno di noi ha un ruolo significativo da giocare, un contributo unico e specifico. Accettando la sfida di fare del nostro meglio, scopriamo una perla preziosa che arricchisce la nostra vita e, allo stesso tempo, contribuisce a guarire il Pianeta.

Angela Dogliotti
Centro Studi Sereno Regis

Altre letture sul tema:

  •  – Helena Norberg-Hodge, Ispirarsi al passato per progettare il futuro. Dal Ladakh una lezione universale per la localizzazione e la decrescita, Arianna Editrice, Bologna 2013.
  • – Rob Hopkins, Immagina se, Chiarelettere, 2020.
  • – Rebecca Solnit, Un paradiso all’inferno, Fandango, 2009.
  • – Daniel Tarozzi, Io faccio così. Viaggio in camper alla scoperta dell’Italia che cambia, Chiarelettere, 2013.
  • – Melania Bigi, Martina Francesca, Deborah Rim Moiso, Facilitiamoci! Prendersi cura di gruppi e comunità, La Meridiana, 2016.
  • – Elena Pulcini, La cura del mondo, Bollati Boringhieri, 2009.