Carbone vegetale,

risorsa o piaga?

Testo di Chiara Giovetti |


Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.

Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.

A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.

Vendita di carbone nello slum di Kibera a Nairobi (© The Seed / Pamela Adinda)

Legna e carbone vegetale in numeri

Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.

Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.

Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.

Trasporto di carbonea Bagamoyo, Tanzania (© AfMC / Jaime Patias)

In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.

Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.

Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.

Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).

Si cucina col carbone nello slum di Korogocho a Nairobi (© The Seed / Purity Mwendwa)

Carbone e vita quotidiana

Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.

Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.

Taglio della foresta nel Congo RD ( AfMC / Ennio Massignan)

Impatti del carbone

Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.

Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.

Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.

Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.

Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.

Fornello ad uso domestico di bassa resa e grande spreco di calore (© AfMC / Ennio Massignan)

Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.

Le possibili soluzioni

Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.

La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.

Lavoro comunitario per ripiantare alberi nelle colline attorno a Morogoro, le Mukunganya Hills, durante la stagione delle piogge.  (© AfMC)

Il lavoro dei missionari della Consolata

In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.

  • Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
  • Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.

Chiara Giovetti




I Perdenti 32. Carlos Paez: scelte estreme per la vita

Cile | Testo di Don Mario Bandera |


Era il 13 ottobre 1972. L’aereo sul quale viaggiava la squadra di rugby uruguayana degli Old Christians Club si schiantò sulle Ande argentine. A bordo, oltre alla squadra che si recava in Cile per una partita amichevole, c’erano anche allenatori, parenti e amici, 45 persone in tutto. Diciotto morirono subito, altre undici persero la vita pochi giorni dopo a causa delle ferite e del freddo. Sedici sopravvissero, ma furono ritrovati solo il 22 dicembre dopo una lunga sospensione delle ricerche. Il 23 ottobre infatti le autorità le interruppero dando per sicura, dopo 10 giorni in condizioni estreme, la morte degli eventuali scampati all’incidente.

La salvezza per i sopravvissuti arrivò grazie alla tenacia di alcuni di loro che si avventurarono nel freddo giù per il pendio fino all’incontro con un uomo che poi diede l’allarme per far ripartire i soccorsi, e anche grazie a una scelta estrema che dovettero fare per non morire di fame. Ce ne parla quello che allora era il più giovane tra i giocatori della squadra, Carlos Paez.


(Avvertenza: come sempre in questa rubrica, il dialogo con Carlos Paez, che oggi ha 64 anni, è immaginario, compilato sulla base delle conoscenze che si hanno degli eventi)


Carlitos, se non sbaglio, l’aereo sul quale tu viaggiavi con la tua squadra e alcuni famigliari e amici era un aereo militare, come mai?

«Negli anni Settanta l’aeronautica militare uruguayana per incrementare i propri introiti, dava in affitto alcuni dei propri aeroplani ed equipaggi per operare voli charter su diverse rotte nel Sudamerica. Il nostro era il numero 571, decollato la mattina del 12 ottobre 1972 dall’aeroporto «Carrasco» di Montevideo, in Uruguay, diretto all’aeroporto «Arturo Merino Benitez» di Santiago del Cile. A bordo si trovava l’intera squadra di rugby degli Old Christians Club del Collegio Universitario «Stella Maris» di Montevideo. Stavamo andando in Cile con allenatori, parenti e amici a disputare un incontro amichevole. L’aereo era un Fokker Fairchild FH-227D, pilotato dal tenente colonnello Dante Héctor Lagurara, sotto la supervisione del colonnello Julio César Ferradas».

Il tempo però non era dei migliori per volare.

«La nebbia fitta e le perturbazioni di quelle ore costrinsero l’aereo ad atterrare in serata all’aeroporto «El Plumerillo» di Mendoza, città argentina in cui pernottammo.

I regolamenti aeronautici argentini vietavano agli aerei militari stranieri di rimanere più di 24 ore sul territorio nazionale, sicché il giorno dopo ripartimmo. Di tornare a Montevideo non se ne parlava. Primo perché, in caso di ritorno, l’aviazione avrebbe dovuto rimborsare i biglietti, secondo perché gli stessi passeggeri non volevano annullare la tournée della squadra in Cile. Per questi motivi, ed essendo le condizioni del tempo cattive ma non tempestose, dopo aver consultato altri piloti provenienti dal Cile, fu presa la decisione di proseguire verso la destinazione».

Come avvenne l’incidente?

«La rotta di volo del Fokker era stabilita a 8.540 metri, un’altezza che non permetteva di attraversare con sufficiente sicurezza la catena delle Ande, che in quel tratto raggiungono altezze superiori ai 6.000 metri. L’aereo doveva quindi necessariamente attraversare un passaggio più basso tra i monti.

Alle 15.24 il pilota chiamò inspiegabilmente la torre di controllo di Santiago, comunicando di essere entrato nello spazio aereo cileno e di aver iniziato l’avvicinamento all’aeroporto. Fu autorizzata la discesa e a quel punto ci fù la virata fatidica che fece dirigere il velivolo dritto nel bel mezzo della Cordigliera.

Forse il pilota fu indotto in errore da un malfunzionamento degli strumenti di bordo (originato da interferenze magnetiche dovute alle perturbazioni), ma non si potrà mai sapere cosa sia realmente successo perché le apparecchiature del Fokker, che non erano state danneggiate dall’incidente, le rendemmo inutilizzabili noi superstiti nel tentativo infruttuoso di usare la radio di bordo per chiamare i soccorsi.

L’aereo iniziò la manovra di discesa mentre si trovava tra il Cerro Sosneado e il vulcano Tinguiririca. Dopo qualche minuto, incontrò una fortissima turbolenza che gli fece perdere quota. A quel punto le nuvole si erano diradate e, sia il pilota che i passeggeri si accorsero che stavano volando a pochi metri dai crinali rocciosi delle Ande.

Alle 15.31, a circa 4.200 metri di altitudine, l’aereo colpì la cima di una montagna con l’ala destra che, nell’urto, si staccò e ruotando tagliò la coda del velivolo. La coda quindi precipitò, portando con sé alcuni passeggeri. Priva di un’ala e della coda, la fusoliera precipitò. Colpì un altro spuntone roccioso perdendo anche l’ala sinistra e toccò infine terra su una ripida spianata nevosa. L’aereo scivolò lungo il pendio per circa due chilometri, perdendo gradualmente velocità fino a fermarsi».

Quel giorno era il 13 ottobre. Siete stati raggiunti dai soccorritori solo il 22 dicembre. Come vi hanno trovati?

«A bordo eravamo in 45. Diciotto morirono subito nell’impatto che spezzò in due la fusoliera. Altri undici persero la vita pochi giorni dopo per le ferite e per il freddo. Sopravvivemmo in sedici e venimmo salvati il 22 dicembre perché due di noi, Roberto Canessa e Fernando Parrado, intrapresero una marcia che durò due settimane per raggiungere il fondo valle. Dopo tanto camminare un pomeriggio essi videro un «gaucho» a cavallo dall’altra parte di un fiume e riuscirono a lanciargli un pezzo di carta avvolto intorno a un sasso nel quale spiegavano chi erano. Le ricerche che erano state interrotte due mesi prima, in quanto era escluso che in quelle condizioni qualcuno potesse sopravvivere più di qualche giorno, furono subito riprese e venimmo recuperati nei giorni seguenti».

A questo punto, Carlos, arriviamo a uno degli elementi più delicati della vostra vicenda: come riusciste a sopravvivere per 72 giorni a quasi 4000 metri sulle Ande?

«Man mano che passavano i giorni la situazione diventava sempre più disperata e ci sentivamo più debilitati. Fu in quel momento che cominciò a farsi strada un pensiero fra noi superstiti: se volevamo continuare a vivere, non avendo cibo a disposizione, dovevamo nutrirci con i corpi delle vittime del disastro. Quella era la nostra unica possibilità di sopravvivenza e, credimi, tutto ciò che noi volevamo in quei giorni era sopravvivere, sopravvivere a qualsiasi costo!».

Come prendeste la decisione?

«Avevamo una radio, quella dell’aereo, che funzionava solo in ricezione. Potevamo ascoltare ma non chiamare. La sera del 23 ottobre sentimmo che le autorità avevano deciso di interrompere le ricerche. Per loro eravamo ufficialmente morti! Ricordo che stavamo sdraiati in quel che restava della fusoliera per proteggerci dal freddo e che Fernando si alzò e disse: “Ok, allora vado a mangiarmi il pilota”. In realtà ci stavamo pensando tutti da giorni, ma nessuno aveva avuto il coraggio di rompere il tabù, di dirlo. Fernando e Roberto, che studiavano medicina, uscirono e dopo qualche minuto tornarono con dei pezzetti finissimi di carne. All’inizio fu orribile, qualcuno si rifiutò di inghiottirli».

Tra i morti c’erano i vostri amici, gli altri giocatori della squadra degli «Old Christians», e anche alcuni famigliari.

«Da quasi cinquant’anni c’è un patto che nessuno di noi ha mai violato. Non riveleremo mai con quali corpi ci nutrimmo e con quali no».

Avete mai ripensato alla vostra scelta?

«Ho ripassato nella mia mente molte volte ciò che successe in quei giorni, non faccio altro. Mi convinco sempre più che non avevamo altra scelta. Noi eravamo morti per tutti e per uscire da quella situazione dovevamo resistere a qualsiasi costo».

Che cosa avete detto ai familiari dei vostri amici che non ce l’hanno fatta?

«Niente. A volte ci vediamo, parliamo. Ma c’è un tabù che anche loro rispettano. Sapere sarebbe inutile. Posso raccontare un particolare che può aiutare a capire la nostra determinazione: tra le vittime lassù c’erano la mamma e la sorella di Fernando Parrado. Quando Fernando partì insieme a Roberto Canessa per andare a cercare qualcuno che potesse aiutarci, si avvicinò a me e mi disse: “Carlitos, se non torno a salvarti devi nutrirti anche con il corpo di mia madre e con quello di mia sorella. È il tuo compito, Carlito, almeno tu devi sopravvivere”. Ecco che cosa mi disse».

Quando siete tornati a Montevideo, vi accolsero come degli eroi. Poi, quando rivelaste la vicenda più spinosa e delicata – quella di essere sopravvissuti cibandovi di carne umana – ci fu un momento di smarrimento nell’opinione pubblica sia uruguayana che internazionale, sbaglio?

«No, non sbagli. I giornalisti ci assillavano. Era terribile. Non puoi immaginare le domande insulse che ci fecero e la morbosità che alcuni di loro avevano. Una rivista brasiliana arrivò a scrivere: “Adesso possiamo perdonare i nostri calciatori che nel 1950 allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro, perdettero la finale mondiale contro l’Uruguay, perché ora sappiamo chi sono gli uruguayani: dei cannibali!”».

Non sarebbe stato più umano lasciarsi morire?

«Assolutamente no. Noi eravamo vivi, i nostri amici erano morti! Facendo una valutazione strettamente religiosa, papa Paolo VI al nostro ritorno ci inviò un telegramma di sostegno, mentre un editoriale dell’Osservatore Romano, l’autorevole quotidiano della Santa Sede, dava una lettura positiva del nostro comportamento, vissuto – non dimentichiamolo – in una situazione terribile e del tutto eccezionale».

Come avete fatto per l’acqua?

«Facevamo sciogliere la neve al sole sui pezzi di lamiera. In quelle settimane abbiamo inventato molti oggetti impossibili riciclando quel poco che avevamo. Siamo persino riusciti a costruire degli occhiali per proteggerci dai raggi solari con la plastica dei finestrini dell’aereo».

Grazie a che cosa vi siete salvati?

«Un miracolo? Forse, ma non solo. Penso che riuscimmo a sopravvivere perché eravamo un gruppo affiatato, una vera squadra, non solo sportiva ma anche cristiana. Pregavamo insieme ogni giorno. Il rosario era un appuntamento fisso. Eravamo tutti giovani benestanti e un po’ viziati, ma costretti a sopravvivere in una situazione estrema diventammo tutti dei veri uomini».

Nonostante siano passati tanti anni continuate a raccontare la vostra storia, non vi pesa il ricordo?

«La nostra è una vicenda esemplare e unica. Ciò che abbiamo vissuto sta a dimostrare che gli esseri umani pur di sopravvivere sono capaci di superare qualsiasi tabù. Quando ci invitarono a raccontare la nostra esperienza in diverse occasioni la gente alla fine applaudiva. Tutti si complimentavano per la nostra determinazione e la nostra voglia di vivere, che in fondo alberga nell’animo di tutti».

Carlos Paez con il suo lavoro da pubblicitario ha passato la vita a insegnare ai manager delle multinazionali che cosa vuol dire trovare motivazioni per raggiungere obiettivi impossibili in situazioni estreme. Su questi temi qualche anno fa ha partecipato negli Stati Uniti a una serie di conferenze insieme ai pompieri di New York sopravvissuti al crollo delle Torri Gemelle l’11 settembre 2001.

Il gruppo dei superstiti della tragedia delle Ande è ritornato più volte sul luogo dove si consumò il loro dramma, che nel frattempo è diventato meta di escursioni da parte di chi, attratto e affascinato da un’avventura unica e irripetibile, vuole ripercorrere quei sentieri.

Don Mario Bandera




Dal protezionismo alle multinazionali

Testo di Francesco Gesualdi |


Il capitalismo fece i suoi primi passi nel 1200 con la comparsa – a Genova – dei banchieri. Si rafforzò con le grandi compagnie commerciali e con le macchine. Poi arrivarono le multinazionali che oggi dominano il mondo (insieme alle imprese finanziarie).

Una caratteristica del capitalismo è la sua dinamicità, la capacità cioè di cambiare continuamente strategia pur di raggiungere l’obiettivo prefisso, che al contrario rimane sempre lo stesso: il profitto. Ed è proprio questa sua costante trasformazione organizzativa a renderlo poco afferrabile. A questo mondo non c’è però niente di indecifrabile se si trova la giusta chiave di lettura. Nel caso del capitalismo, la pista da seguire è l’evoluzione delle imprese: dimmi come cambiano le imprese e ti dirò come cambia il capitalismo.

Banchieri, commercianti, imprenditori, finanzieri

Il capitalismo si struttura attraverso un processo lento che muove i primi passi con i banchieri genovesi del 1200. Ma la sua vera storia possiamo farla cominciare nel 1600, con la strutturazione delle grandi compagnie dedite al commercio internazionale, tra cui una delle prime è la «Compagnia delle Indie orientali» (East India Company). Il secolo successivo, l’avvento delle macchine nel processo produttivo fa entrare il capitalismo in una fase nuova, caratterizzata da un cambio di ruolo dei mercanti. Se prima si limitavano a comprare e vendere prodotti già pronti, con l’avvento delle macchine trovano più vantaggioso organizzare essi stessi la produzione. Così nasce la classe dei mercanti imprenditori che ottengono i loro prodotti all’interno di stabilimenti attrezzati di macchinari fatti funzionare da uno stuolo di lavoratori salariati. Per due secoli il capitalismo sarà dominato dalle imprese produttive e, anche se oggi un nuovo tipo di impresa, quella finanziaria, sta allargando i propri tentacoli, il mondo in cui viviamo è ancora quello modellato da loro. Ciò è particolarmente vero per l’assetto internazionale.

Le imprese, lo sappiamo, sono strutture organizzate per fare profitto attraverso la divaricazione fra costi e ricavi. La battaglia delle imprese avviene sul terreno della riduzione dei costi e dell’aumento delle vendite. E se la questione costi sta alla base di temi come il progresso tecnologico, il colonialismo, il conflitto sociale, la questione vendite sta alla base delle alleanze, delle ostilità e più in generale delle relazioni fra stati.


L’appartenenza delle prime 200 multinazionali del mondo.

Multinazionali:
i numeri (2016)

  • ?Gruppi censiti: 320.000
  • ?Totale società controllate: 1.116.000
  • ?Quota di partecipazione al prodotto lordo mondiale: 35-40%
  • ?Fatturato lordo complessivo: 132mila miliardi di dollari
  • ?Profitti lordi complessivi: 17mila miliardi di dollari
  • ?Quota di commercio estero gestito: 80%
  • ?Occupati: 300 milioni (15% della mano d’opera salariata a livello mondiale)

Fonte:

Cnms, Top 200. La crescita di potere delle multinazionali, Vecchiano 2017; il lavoro è scaricabile – gratuitamente – dal sito del «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it).

 

 


Perché il libero scambio

Il sogno di ogni impresa è espandere le vendite in maniera infinita, per questo la crescita è un caposaldo del capitalismo. E poiché le possibilità di vendita sono tanto più ampie, quanto più vasto è il mercato, il capitalismo – almeno a parole – ha sempre fatto professione di fede nel libero scambio, nel mantenimento, cioè, di frontiere aperte per permettere a merci e servizi di fluire liberamente tra uno stato e l’altro. In realtà le imprese hanno sempre oscillato fra protezionismo e liberismo in base allo stadio evolutivo in cui si trovano. Un’ambivalenza che appare più chiara se facciamo un paragone con i tori. Quando sono ancora vitelli si sentono più al sicuro in pascoli protetti da staccionate che impediscono ai tori, più forti di loro, di entrare. Crescendo, cominciano ad avvertire la staccionata come un limite perché alzando la testa vedono tanta buona erba di là dalla palizzata: sarebbe bello poterla brucare! Ma poi si guardano nello stagno e, benché cresciuti, si vedono ancora creature acerbe incapaci di fronteggiare i tori adulti che si trovano nel pascolo aperto. Per cui sognano una situazione intermedia: lo spostamento della staccionata un po’ più in là per disporre di un recinto più ampio in cui l’erba sia contesa solo fra tori della stessa età e delle stesse dimensioni. Più tardi, quando hanno raggiunto l’età adulta ed hanno superato ogni paura di confrontarsi con gli altri, rivendicano l’abbattimento di qualsiasi staccionata (anche di quella costruita per proteggere i nuovi vitelli) per scorrazzare liberi nell’infinita prateria.

Fuori di metafora, quando l’industria è ai suoi albori, le imprese chiedono protezione agli stati. Non senza ragione. L’esperienza dimostra che solo in una situazione protetta, l’industria nascente ha garanzia di sviluppo.

In caso contrario rischia di essere sopraffatta dalle imprese straniere che, in virtù della loro forza tecnologica e finanziaria, possono inondare il paese di beni a prezzi così bassi da sgominare l’industria locale. Per questa ragione molte nazioni africane sono riluttanti a firmare l’accordo di scambio alla pari proposto dall’Unione europea. Il famoso Epa, Economic Partnership Agreement, ossia «Accordo economico di partenariato», che propone di applicare tariffe zero sui prodotti del Sud del mondo esportati verso l’Unione europea e tariffe zero per i prodotti europei esportati verso i paesi del Sud del mondo. Il tutto sotto l’ipocrisia della reciprocità dimenticando, come si dice in Lettera a una professoressa, che non c’è niente di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali.

Perché il protezionismo

Tornando alla storia è un fatto che il capitalismo nasce protezionista. Le imprese manifatturiere di ogni nazione chiedevano ai propri governi di metterle al riparo dalla concorrenza estera tramite dazi doganali e ogni altro provvedimento utile a ostacolare l’ingresso di manufatti esteri. Ma il protezionismo a cui le imprese aspiravano era a senso unico: porte chiuse alle merci straniere, ma possibilità di collocare le proprie nei mercati degli altri. Una pretesa non di rado soddisfatta con le armi. Valgano come esempio le guerre dell’oppio di metà Ottocento fra Cina e Gran Bretagna per la pretesa da parte di quest’ultima di commercializzare in Cina l’oppio coltivato in India. La stessa annessione dell’India all’impero britannico aveva come obiettivo non solo quello di impossessarsi delle materie prime indiane, ma anche di garantire un ampio mercato alle manifatture tessili inglesi. Non a caso Gandhi fece dell’autoproduzione tessile uno dei simboli della resistenza contro il dominio britannico.

In principio fu la Singer

È in questo contesto di amore-odio per il protezionismo, che a fine Ottocento le imprese di grandi dimensioni mettono a punto una nuova strategia di espansione. La formula si chiama colonizzazione dall’interno e si basa su un ragionamento semplice: se non si può entrare nei mercati degli altri con prodotti che vengono da fuori, ci si può entrare producendo da dentro. Così nel 1867 l’americana Singer si paracaduta in Gran Bretagna e dopo aver fondato una società, di proprietà sua, ma giuridicamente inglese, apre a Glasgow una fabbrica di macchine da cucire autorizzate ad invadere l’isola perché made in England.

Singer apre ufficialmente il corso moderno delle multinazionali, più propriamente dette gruppi multinazionali dal momento che non si tratta di imprese singole ma di tante società imparentate fra loro per il fatto di appartenere a una medesima società che sta a capo di tutte. Oggi i gruppi multinazionali sono 320mila per un numero complessivo di oltre un milione di filiali. Tutti insieme fatturano 132 mila miliardi di dollari e generano profitti lordi per 17mila miliardi. E se in certi settori, come le sementi, i velivoli, il petrolio, l’auto, l’acciaio, sono i protagonisti esclusivi, non meno importante è il loro peso sull’economia mondiale considerato che contribuiscono al 35-40% del prodotto lordo globale e che alimentano l’80% del commercio internazionale. Solo in ambito occupazionale i loro numeri si fanno più timidi dal momento che impiegano solo 300 milioni di persone pari al 15% dell’intera mano d’opera salariata mondiale.

Famiglie, azionariato e fondi d’investimento

Internazionalizzazione delle filiali, ma anche della proprietà della capogruppo, questa è un’altra caratteristica della maggior parte delle multinazionali. E mentre alcune, come Ikea, Mars, Barilla, Ferrero sono ancora controllate dalle famiglie di origine, tutte le altre appartengono a un azionariato diffuso, sparso a livello mondiale. Spesso è inutile cercare persone in carne e ossa: salvo eccezioni, i proprietari sono banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento, istituzioni che di mestiere raccolgono capitali fra il grande pubblico, dal giovane lavoratore che risparmia per farsi una pensione, al vecchietto che affida i propri risparmi al fondo perché gli è stato promesso un alto rendimento. A livello mondiale 225 istituti finanziari gestiscono una ricchezza pari a 26mila miliardi di dollari e riecheggiano le parole di Louis Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti dal 1916 al 1939: «Possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose».

Francesco Gesualdi


Geografia delle multinazionali – Chi sono, dove sono

Gli Stati Uniti guidano la classifica delle multinazionali, ma la Cina avanza rapidamente.

Se compiliamo una lista delle prime 100 realtà economiche, includendovi i governi in base ai loro introiti fiscali e le multinazionali in base ai loro fatturati, scopriamo che 66 sono multinazionali. La prima compare al 10° posto ed è Wal-Mart con un fatturato di 485 miliardi di dollari, somma superiore alle entrate governative di paesi come Spagna, Australia, Russia, India
(vedi il grafico Cnms a sinistra).

Le Nazioni Unite definiscono multinazionale qualsiasi gruppo con filiali estere. Ma al di là di questa caratteristica, ognuna differisce dall’altra non solo per attività, ma anche per dimensioni. Al pari dei mammiferi che comprendono sia i topolini che gli elefanti, anche le multinazionali comprendono gruppi che fatturano qualche manciata di milioni di euro e altri che realizzano centinaia di miliardi. Tant’è che i primi 200 gruppi realizzano, da soli, il 14% di tutto il fatturato delle multinazionali. E se un tempo le capogruppo battevano quasi esclusivamente bandiera europea, statunitense o giapponese, oggi battono sempre di più bandiera cinese. Rimanendo alle prime 200, in cima alla lista troviamo ancora gli Stati Uniti con 63 capogruppo, ma al secondo posto incontriamo la Cina con 41 capogruppo. Con la differenza che mentre quelle cinesi sono tali di nome e di fatto perché sono per la maggior parte di proprietà governativa, tutte le altre hanno una doppia personalità: con una patria ben precisa da un punto di vista giuridico, ma apolidi da un punto di vista proprietario perché i loro azionisti sono banche e fondi di investimento di ogni paese del mondo. Tanto per confermare, ancora una volta, che il potere finale è della finanza, considerato che 25 gruppi finanziari controllano il 30% del capitale complessivo di 43mila gruppi multinazionali.

Fra.G.

 

 




Cristiani perseguitati nel mondo.

Cresce il loro numero.


Testo di Luca Lorusso


Sono 215 milioni i cristiani perseguitati nel mondo, uno ogni 12. Vivono soprattutto in Asia e Africa. Subiscono una violenza quotidiana che si manifesta in pressioni e vessazioni di ogni tipo, soprusi, abusi, marginalizzazione, fino alla violazione dei diritti fondamentali nei casi di atti di violenza esplicita.

Secondo la World watch list 2018, l’ultimo rapporto di Open Doors pubblicato oggi (www.porteaperteitalia.org), sono stati 3.066 i cristiani uccisi per la loro fede nell’ultimo anno, e 15.540 le chiese, le case e i negozi di cristiani attaccati. I cristiani detenuti senza processo sono stati 1.922, quelli rapiti 1.252, quelli abusati fisicamente e mentalmente 33.255, quelli violentati o abusati sessualmente 1.020.

In questo scenario generale, Open Doors stila una classifica dei luoghi più pericolosi: una lista di 50 paesi nei quali i livelli di persecuzione verso i cristiani sono alti, molto alti o estremi. Per il 16° anno di fila è la Corea del Nord il paese più persecutorio. Gli altri dieci nei quali la Wwl segnala livelli estremi di persecuzione sono (in ordine) Afghanistan, Somalia, Sudan, Pakistan, Eritrea, Libia, Iraq, Yemen, Iran e India. Tra questi 11 paesi, Libia e India sono le nazioni che hanno fatto registrare l’aumento più forte di persecuzioni rispetto all’anno scorso. In India – dove i cristiani aggrediti tra il 1° novembre 2016 e il 31 ottobre 2017 (il periodo preso in esame dalla Wwl 2018) sono stati 24.000 – l’intolleranza anti-cristiana cresce di pari passo con il nazionalismo induista che ha tra i suoi rappresentati più potenti il primo ministro Narendra Modi. Non è un caso forse che nel 2014, l’anno in cui Modi è stato eletto, l’India era al 28° posto e che negli ultimi tre anni è salito nella classifica fino all’11°.

Tra le molte informazioni, per la gran parte preoccupanti, messe a disposizione da Open Doors si registrano però anche alcune buone notizie: l’organizzazione fondata nel 1955 dall’olandese Andrew van der Bijl, segnala l’uscita della Tanzania dalla sua lista per il miglioramento della situazione dei cristiani nel paese e il leggero miglioramento in Kenya ed Etiopia. Anche per la Siria, paese che continua a essere sconvolto dalla guerra, viene registrato un miglioramento grazie all’arretramento dell’Isis che ha ridotto la violenza diretta sui cristiani.

Video di presentazione della WWL 2018: https://www.youtube.com/watch?v=igf2udrmu1s

La cartina interattiva: https://www.porteaperteitalia.org/persecuzione/




Insegnaci a pregare 11:

Pregare per essere noi stessi


Di Paolo Farinella |


Alla conclusione della decima puntata di «Insegnaci a pregare» del dicembre scorso ci siamo salutati con la promessa che la rubrica sarebbe continuata per tutto il 2018 in una sorta di «seconda parte» dedicata a esercizi pratici di preghiera con e nella Bibbia.

Partiamo da alcune riflessioni preliminari per una coscienza disposta a imparare a «pregare i testi» se non vogliamo camminare invano. Su questo argomento sono stati scritti decine e centinaia di metodi, suggerimenti, sussidi e credo che nessuno potrà mai esaurire la ricerca o trovare la soluzione ideale. Ognuno prenderà quello che è più consono alla propria sensibilità, cultura, interiorità, bisogno, difficoltà, disponibilità di tempo e coscienza di sé. Noi non vogliamo fare concorrenza ad alcuno né vogliamo insegnare qualcosa a qualcuno, ma partendo dalla nostra esperienza e formazione sempre «in aggiornamento», desideriamo riconsiderare «l’atto del pregare in sé». Proviamo a metterlo in pratica con l’obiettivo di scoprire sempre più chi siamo noi per essere in grado d’imparare a conoscere meglio Dio stesso. Ci poniamo su un versante introduttivo perché ognuno deve imparare a pregare secondo il suo cuore. Noi possiamo condividere stimoli e desideri.

«Dove» lungo il cammino

L’errore di fondo è dare per scontato Dio, solo perché frequentiamo qualche cerimonia o per il fatto di essere preti o monaci o monache o credenti, ma non praticanti. Lungo il cammino della nostra vita, dobbiamo sapere «dove siamo»: nessuno ha la garanzia di avere incontrato Gesù. È possibile che «adesso e qui» siamo con Adamo ed Eva a discutere «frutto sì, frutto no», o schiavi in Egitto a macinare mattoni, o ai piedi del Sinai a fare baldoria attorno a un vitello scambiato per Dio liberatore, o vaganti nel deserto alla ricerca di una terra promessa e mai raggiunta, o uditori della parola dei profeti non ascoltati perché preferiamo i riti del tempio più rassicuranti, o esuli in Babilonia a sognare i «bei tempi andati», o tra gli storpi, ciechi e muti che cercano Gesù di Nàzaret, o sul sicomòro con Zacchèo perché piccoli di statura spirituale e incapaci di vedere Gesù che passa «di là» (Lc 19,4), o ai piedi della croce con la massa urlante «crocifiggilo», o delusi ai bordi di un sepolcro vuoto, o pieni di Spirito del Risorto, felici di annunciare il suo Vangelo, avendolo vissuto interamente e senza sconti.

Non si può pregare a caso, a orologio, o a bisogno. Pregare è respirare, vivere, desiderare, comunicare, fondersi, morire. San Benedetto, tra i secoli V e VI aveva inventato lo schema Ora et labòra (pregare e lavorare), ma oggi bisognerebbe modificarlo in «Ora est labòra» (pregare è lavorare). La preghiera, infatti, è lavoro perché, come nell’amore, impegna «cuore, testa e pelle». Quando gli Ebrei pregano, dondolano il corpo perché anch’esso partecipi all’azione interiore del pensiero e dell’affetto. Non possiamo separare queste tre dimensioni senza creare una frattura in noi che per istinto tendiamo all’unità tra pensiero, sentimenti del cuore, atteggiamenti corporei. È quello che si chiama «movimento ecumenico personale» perché il sentiero dell’unità tra le Chiese passa attraverso il cuore di ogni singolo credente che guarda alla sintesi armonica dell’essere e dell’agire tra:

Chi si è e ciò che si fa.
Ciò che si fa e ciò che si prega.
Ciò che si prega e ciò che si desidera.
Ciò che si desidera e ciò che si spera.
Ciò che si spera e ciò che si pecca.
Ciò che si pecca e ciò che si riceve in grazia.

Questa è la preghiera: rimescolare le carte, intraprendendo un cammino verso la maturità e l’armonia per raggiungere la coscienza di sé e sapersi riconoscere come figli-immagine del Padre. Diversamente, pregare si trasforma in un soliloquio, un parlare con se stessi, macinando parole morte, veri idoli che occupano la mente, impedendo di abitare il cuore.

Sapere chi si è

Ciminiera campanile del Santo Volto – Torino

È la domanda esistenziale che la commissione d’inchiesta inviata dal sinedrio pone a Giovanni: «“Tu, chi sei?” Egli confessò e non negò. Confessò: “Io non sono il Cristo”. Allora gli chiesero: “Chi sei, dunque?”» (Gv 1,19-21). La domanda posta dalla commissione a Giovanni «Chi sei tu?» (Gv 1,19 e 22; cf 8,25; 21,12), è la domanda che attraversa la storia di ciascuno di noi, perché ci obbliga all’individuazione della nostra identità. In altre parole: io devo sapere chi sono. Non basta avere opinioni, o formule precostituite (Elia, il profeta, uno dei profeti, ecc.), bisogna sapere chi si è e chi non si è, bisogna cioè avere un contatto vero e coerente con i nostri confini, se si vuole vivere la vita nell’autenticità e nella verità. La commissione d’inchiesta parte dal tempio, inviata dai farisei, cioè dai custodi delle tradizioni, del culto, della spiritualità, della liturgia, della regola: sono gli specialisti del sacro. Noi siamo specialisti della vita religiosa, perché poniamo Dio nel mezzo dei nostri discorsi, dei nostri ragionamenti, attribuendo a lui le nostre aspirazioni e convinzioni. C’è il rischio d’identificarci con Lui e di contrabbandare la nostra volontà con la sua e quindi di chiuderci alle «gioiose notizie» che ogni giorno c’invia attraverso gli avvenimenti che viviamo, anche quelli che a noi sembrano banali o insignificanti.

La domanda Chi sei tu? è personale e acquista un senso nuovo e dirompente: «Perché ho fatto questa scelta di vita, questo lavoro, questi impegni? Qual è la mia identità personale all’interno degli ambienti di vita e nelle relazioni che vivo? Qual è il senso del mio essere uomo, donna, madre, figlia, marito, figlio? Giovanni sgombra subito il terreno, distruggendo le eventuali illusioni che i commissari avrebbero potuto farsi di lui e li incalza: «Io non sono il Cristo», scartando onori e compiti che non gli appartengono. Può succedere che le persone che vengono a contatto con noi, tendano a considerarci migliori di quanto non siamo. Non possiamo illuderci con le apparenze: la nostra consistenza è semplicemente nell’essere noi stessi, sempre, ovunque con chiunque. Anche se questo comporta incomprensione, giudizi, etichettature, esclusione. Forse è possibile che di fronte agli altri non sappiamo cosa rispondere, ma quando rientriamo nel segreto della nostra stanza, là dove non possiamo né barare né nasconderci, «il Padre tuo, che vede nel segreto» (Mt 6, 4.6) ci obbliga a rispondere alla verità di noi stessi: «Chi sono io?». Questo è l’obiettivo della vita, lo scopo della rivelazione, la dimensione della preghiera. Se non sappiamo chi siamo, come possiamo presentarci agli altri e a Dio, l’Altro per eccellenza?

«Non posso insegnarvi parole di preghiere»

Il cristiano maronita libanese, poeta, scrittore e mistico, Jubr?n Khal?l Jubr?n (1883-1931), in occidente conosciuto come Kahlil Gibran, parlando della preghiera usa parole profonde, da orientale (sottolineature nostre):

«…allora una sacerdotessa disse:
Parlaci della Preghiera.
Ed egli rispose, dicendo:
Voi pregate nelle angustie e nel bisogno;
ma io vorrei che pregaste anche nella gioia piena e nei giorni dell’abbondanza.

Poiché che altro è la preghiera se non l’espansione di voi stessi nell’etere vivente?

Ed è a voi di conforto versare nello spazio, la vostra oscurità,

ed è anche per voi diletto versare all’esterno la gioia mattinale del vostro cuore.
E se non potete fare a meno di piangere quando
l’anima vi chiama alla preghiera,
essa dovrebbe spingervi, comunque, fino al punto che attraverso le lacrime spunti il sorriso.

Quando pregate voi v’innalzate a incontrare nell’aria tutti coloro che in quel medesimo istante sono in preghiera,
che mai, se non nella preghiera, potreste incontrare.

Perciò non sia questa vostra visita a quell’invisibile
tempio che estasi e dolce comunione.
Poiché se intendeste entrare nel tempio non per altro che per chiedere, non ricevereste nulla.
E se entrate per umiliarvi, non sarete innalzati.
E se anche voleste entrare per intercedere per il bene di altri, non sarete esauditi.
Basta già che voi entriate nell’invisibile tempio.

Io non posso insegnarvi parole di preghiere.
Dio non ascolta le vostre parole,
a meno che Egli stesso non le pronunci attraverso le vostre labbra.

Ed io non posso insegnarvi la preghiera dei mari,
delle foreste, delle montagne.
Ma voi, nati dai monti, dalle foreste e dal mare potete ritrovare nei vostri cuori la loro preghiera.

E se solo state in ascolto nella quiete delle notti udrete mormorare:
“Dio nostro, che sei la nostra ala, è la tua volontà che vuole in noi. È il tuo desiderio che desidera in noi.
È il tuo impulso in noi che può trasformare le nostre notti, in giorni che siano anche i tuoi giorni.

Nulla possiamo noi chiederti, poiché tu conosci le
nostre necessità prima ancora che nascano in noi.
Sei tu la nostra necessità; e nel darci più di te stesso, tu ci dai tutto”».

(Da Il Profeta, Giunti edizioni, Bellaria (Rimini), 2004).

«Versare il cuore»

Parole da centellinare una per una, perché mentre svelano la natura della preghiera, velano le nostre nudità che si accontentano spesso di esteriorità e verbosità: espansione, versare nello spazio e all’esterno, come dire uscire da noi stessi, abitando il nostro profondo, che spesso trasformiamo, riuscendoci, in prigione comoda e accidiosa. Gibran è immerso nella Scrittura, la respira con la sua vita, riuscendo a trasformarla in poesia e anelito di desiderio. Dio, ci dice, non ascolta le parole, ma abita il cuore nostro per trasformarlo in benedizione da spandere sull’umanità e riunire così in un unico afflato tutti coloro che pregano in ogni «dove» personale, sparsi in tutto il mondo, là ove stanno oranti, conosciuti e sconosciuti, per essere trasformati «in un cuor solo e un’anima sola». Sì, pregare è essere presenti, non diventare ciarlanti e petulanti.

Nulla possiamo, nulla dobbiamo chiedere a Dio – come non ricordare i gigli del campo e gli uccelli del cielo? (cfr. Mt 6,26-29) – perché, non solo lui conosce le nostre necessità meglio di noi, ma è lui e solo lui la nostra unica e sola necessità. Anche l’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008), purtroppo, riporta il salmo 62/61,9 con queste parole: «Davanti a lui aprite il vostro cuore», traduzione piana, oseremmo dire, banale, neutra. L’ebraico invece ha parole dirompenti che lasciano il segno: «Versate davanti a lui il vostro cuore».

Nota esegetica.
Il verbo «shaphàk – versare» indica lo spargimento di qualcosa di liquido, comunque non di immobile. Da questo verbo deriva «shèphek – luogo del versamento», cioè «la discarica» (cfr. Lv 4,12); per analogia, invece, «shophkà» è il «pene» maschile in quanto condotto di fluidi (cfr. Dt 23,2). Si versa l’acqua (cfr. Es 4,9), il sangue (cfr. Lv 4,7); lo spirito (cfr. Gl 3,1), la collera (cfr. Ez 14,19). Il testo ebraico oltre che più poetico è più intenso e potente della traduzione italiana, con l’espressione «versare il cuore» (per la Bibbia sede dell’intelligenza e della coscienza), descrive la vita come fosse la liquidità inafferrabile che solo Dio sa contenere: «Versate davanti a lui».

È la preghiera suprema: donarsi a Dio come liquido che si spande e si sparge. Non si può stare davanti a lui duri e impermeabili, ma col «cuore versato», quasi che Dio vi debba attingere per riempire e saziare il bisogno che egli ha di noi. Lo abbiamo già visto nella prima parte, commentando il Targùm del Cantico dei Cantici 2,8, dove Dio supplica l’Assemblea-sposa-Israele a mostrarsi a lui nella bellezza orante perché non può vivere senza «vedere» il volto e sentire la voce dell’Assemblea che prega:

«Subito, allora, essa aprì la sua bocca in preghiera davanti al Signore (Es 14,10); e uscì una voce dai cieli dell’alto, che disse così: Tu, Assemblea d’Israele, che sei come colomba pura, nascosta nella chiusura di una spaccatura di roccia e nei nascondigli dei dirupi, fammi udire la tua voce. Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, e bello è il tuo volto nelle opere buone» (cfr. Esodo Rabbà XXI, 5 e Cantico Rabbà II, 30; Mekilta Es 14,13).

È in questo senso che, secondo noi, deve essere interpretata l’ottava strofa della sequenza di Pentecoste «Veni, Sancte Spiritus» (sec. XII): «Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch’è sviato – Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium». Da queste potenti immagini emerge lo Spirito come artigiano modellatore che lavora la creta finché la forma non corrisponda alla sua idea (cfr. Ger 18,2-6; cfr. anche Is 64,7). Il liquido si adatta immediatamente al suo contenitore e l’immagine del «cuore versato» apre prospettive molto belle e ardite sulla relazione affettiva con Dio e, di conseguenza, anche sulla preghiera che, a questo punto, non può più essere una contrattazione commerciale (io ti do e tu mi dai) o un rituale a orario fisso, ma uno svuotarsi, sull’esempio di Gesù che «non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se stesso – ekènosen» (Fil 2,7), perché noi potessimo versare il nostro cuore liquido davanti a Dio che lo raccoglie, goccia a goccia, perché nulla vada perduto (cfr. Gv 6,39).

Voce di silenzio sottile

«Io non posso insegnarvi parole di preghiere», ci ha detto Gibran. Se riduciamo la preghiera a parole, scaviamo un abisso tra noi, la preghiera, lo Spirito e Dio, impossibile da valicare perché restiamo coperti dalla «polvere delle morte parole», ossessionati dal compiere il dovere di «recitare l’Ufficio» o di «dire la Messa», dimentichi che il vertice della Parola, e di conseguenza, delle nostre parole, è il Silenzio adorante. Insegna un mistico bengalese (India), Rabindranth Tagore (1861-1941): «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’animo nel silenzio», quel silenzio che il Dio di Gesù amò prima della creazione del mondo, secondo un midràsh ebraico:

«Rabbi Abbahù (300 ca.) diceva in nome di Rabbi Jochanàn (m. 279): Quando Dio diede la Legge nessun uccello cinguettava, nessun volatile volava, nessun bue muggiva, nessuno degli Ofanìm (ruote del carro divino, cfr. Ez 1,15-21) muoveva un’ala, i Serafini non dicevano “Santo, Santo, Santo”, il mare non mormorava, le creature tacevano, tutto l’universo era ammutolito in un silenzio senza respiro, e venne la voce: “Io sono il Signore tuo Dio” (Es 20,2)» (Midràsh, Esodo Rabbà 29,9 a 20,1).

Autunno in Certosa di Pesio

Il profeta Elia fa l’esperienza della «voce di silenzio sottile – qol demamàh daqqàh», che lascia sbigottiti, perché non capiamo il senso della «sottigliezza» del silenzio che già da sé esprime una intensità assoluta. Il silenzio è anche sottile, come se volesse essere ancora più silente: «Dopo il fuoco, una voce di silenzio sottile (la Bibbia-Cei, 2008 traduce in modo banale brezza leggera). Come l’udì [udire il silenzio!] Elìa si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (1Re 19,12-13). L’esperienza di Elia è connessa con il dramma del vivere in mezzo al male del mondo e la necessità di dominarlo e, per non impazzire, ciò può avvenire solo vivendo fino in fondo la propria vita in intima unione con il Signore. Dominare il male del mondo significa liberare Dio da ogni tentazione temporale e idolatrica e restituire alle cose del mondo la loro autonomia perché il Dio di Elìa non è nel terremoto o nel turbine e nemmeno nel vento leggero, come di solito s’interpreta superficialmente il testo. No, Dio non è nella brezza leggera. Dio è Silenzio sottile.

Il testo dice che Elìa si coprì il volto al sentire la «voce di silenzio sottile – qol demamàh daqqàh» che non sappiamo come rendere in italiano nel suo significato vero. Possiamo supporre che sia in contrapposizione a Bàal, i cui sacerdoti Elìa ha annientato (cfr. 1Re 18). Bàal era il dio della tempesta e quindi del frastuono, mentre il Dio d’Israele è il «Dio silente» della coscienza e del cuore, che occorre ascoltare. Per ascoltare col cuore occorre non solo fare silenzio, ma «essere silenzio» e pure sottile, trasparenza, identità. La «voce di silenzio sottile» potrebbe essere anche uno schermo per velare Dio alla vista di Elìa, come la mano di Dio impedì a Mosè di vederne la «Gloria» (cfr. Es 33,32).

Sono solo interpretazioni, ma il profeta nell’«ascoltare il silenzio sottile», rinnova il gesto di Mosè al Sinai e si copre il volto perché nessuno può vedere Dio e restare in vita (cfr. Es 3,6 33,18-23; Is 6,2). Fa eccezione Mosè con cui «Il Signore parlava con faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11). Un’eccezione «unica», riservata al profeta per eccellenza, l’antesignano del Messia, il custode della Parola. La liturgia cattolica sente l’esigenza di creare questo clima nel momento supremo dell’incarnazione. L’antifona d’ingresso della II Domenica di Natale canta: «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale» (Sap 18,14-15).

Ascoltando il silenzio di Dio che comunica a noi il suo anelito di vita, entriamo nella dinamica della preghiera, guidati dalla Parola, stabilendo, nel prossimo numero alcune regole essenziali.

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, 11 – continua].




Esportare la libertà religiosa


Testo di Luca Lorusso |


Gli Usa pensano di avere una missione da compiere nel mondo. È l’eccezionalismo americano che si manifesta con la politica estera statunitense.
Anche la libertà religiosa ne è strumento e fine. Altri – come l’Ue – ne hanno seguito l’esempio. Ma dopo anni di ascesa del modello Usa di tutela della
libertà religiosa, oggi si registra un declino. Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore presso l’European University Institute di Fiesole.

Sono le 12 di venerdì 24 novembre 2017. Una bomba esplode dentro una moschea uccidendo decine di persone. I fedeli sufi scappano, ma fuori ci sono miliziani del Daesh che sparano sulla folla. Rimangono a terra 305 corpi, tra cui 27 di bambini.

Il sufismo è la via mistica dell’Islam, considerato dagli islamisti come un’eresia da combattere. La moschea al-Rawdah si trova a Bir al-Abed, nel Nord del Sinai.

È la strage più sanguinosa degli ultimi anni in Egitto, è uno dei troppi esempi di violenza nel mondo contro chi professa un credo religioso.

Non passa giorno, infatti, senza che il diritto di libertà religiosa subisca violazioni in Medio Oriente come in Asia, in Africa come in Europa o in America. Si parla dei Rohingya del Myanmar, musulmani apolidi perseguitati in un paese buddista. Si è parlato dei Copti in Egitto, dei Testimoni di Geova in Russia, delle politiche restrittive di paesi come la Cina o la Corea del Nord o il Pakistan.

In questo scenario il diritto di libertà religiosa è diventato un fine e, più spesso, uno strumento di vere e proprie strategie di politica estera. In primis da parte degli Usa, ma anche dell’Ue e, con accenti piuttosto differenti, di altri paesi non appartenenti al blocco occidentale come la Russia o quelli riuniti nell’organizzazione della Conferenza islamica.

Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore dell’European University Institute di Fiesole, autore del volume Esportare la libertà religiosa, edito dal Mulino nel 2015 e ora in lingua inglese dalla britannica Routlege.

Prof. Annicchino, sembra che il pericolo per la libertà religiosa nel mondo aumenti. Anche lei ha questa impressione?

«È più di una percezione. Abbiamo dati scientifici a tal proposito dai quali non possiamo prescindere. Faccio riferimento soprattutto ai report del Pew Forum. I loro dati indicano che nel mondo sono aumentate le restrizioni alla libertà religiosa mediante gli interventi legislativi dei diversi stati e che sono ugualmente aumentate le ostilità sociali a sfondo religioso.

Per quanto riguarda le norme che restringono la portata delle attività dei gruppi religiosi o del singolo fedele possiamo fare diversi esempi: le restrizioni volute dal partito comunista cinese, non solo rispetto al tema delle nomine dei vescovi cattolici che devono essere per forza approvate dal Pcc; le leggi anticonversione indiane (a dimostrazione del fatto che questo non è un problema legato ai soli paesi islamici, come spesso si tende a credere); la messa al bando, in Russia, di interi gruppi religiosi come ad esempio i testimoni di Geova, quasi in nome della sicurezza nazionale».

Il suo libro propone una tesi di fondo: negli ultimi 20 anni gli Usa hanno messo il tema della libertà religiosa come punto focale della loro politica estera.

«Tenuto conto del mio profilo scientifico concentro la mia analisi sull’International religious freedom act (Irfa), la legge approvata dal Congresso degli Usa nel 1998 che riguarda proprio la tutela e la promozione del diritto di libertà religiosa nel mondo. Nel mio studio provo a mostrare come quel modello, nel bene e nel male, abbia avuto una sua diffusione. Tanto è vero che altri paesi, soprattutto occidentali, tra cui Canada, Ue, Inghilterra, Olanda, hanno provato a fare qualcosa di simile segnalando che la libertà religiosa è importante.

Anche il governo italiano lo ha fatto: ricordiamo il caso di Mariam Ibrahim che, in Sudan, era stata incarcerata e fatta partorire in carcere, perché accusata di essersi convertita dall’islam al cristianesimo. Ora vive negli Usa anche grazie all’Italia.

Ovviamente, non sostengo che il modello americano abbia sempre funzionato, anzi, nel libro faccio esempi di palesi doppi standard di applicazione da parte degli Usa: ci sono paesi che violano il diritto di libertà religiosa che, per ragioni di real politik, non vengono sanzionati.

Io penso, però, che non si possa pretendere che i paesi privilegino la libertà religiosa in qualsiasi loro azione nei confronti di altri paesi. Privilegiarla sempre potrebbe anche portare a delle reazioni che sul lungo periodo danneggerebbero la libertà religiosa stessa. Se uno stato sta sempre col dito puntato sulla Cina, o altri paesi, dicendo: “Noi non facciamo nulla con voi fin quando voi non garantite il nostro stesso livello di tutela della libertà religiosa”, io credo che si possa bloccare un processo di dialogo.

Bisogna guardare a questi temi nell’ottica di un processo e non di un singolo atto».

Nel suo libro, lei lega questa azione degli Usa all’eccezionalismo statunitense.

«Gli Stati Uniti hanno una precisa autorappresentazione di se stessi: si vedono come un modello di comportamento per gli altri paesi del mondo. Ed essendo un paese in cui la narrazione del valore della libertà religiosa è importante, un paese fondato da dissidenti religiosi, il dibattito interno sul tema ha sempre avuto una sua centralità. Gli Usa hanno vissuto un processo lungo e travagliato per garantire la tutela della libertà religiosa internamente. Poi hanno recuperato il tema anche in chiave di politica estera, dicendo: “Questo è per noi uno dei diritti fondamentali e pensiamo che anche altri paesi possano far assurgere questo diritto a elemento centrale delle loro politiche”.

Per gli Usa la libertà religiosa non è un diritto tra molti, ma il fondamento di tutti gli altri, tanto è vero che F. D. Roosevelt, quando viene approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel ‘48, identifica nella libertà religiosa una delle quattro libertà fondamentali (libertà di espressione, di culto, libertà dal bisogno e dalla paura, ndr)».

Quali sono gli strumenti che si sono dati gli Usa con la legge del ‘98 per tutelare la libertà religiosa nel mondo?

«L’Irfa è una legge molto complessa. Ci sono due tipologie di strumenti fondamentali: la prima è quella diplomatica classica, con tutta un’attività di comunicazione del Dipartimento di stato su altri paesi, affinché vengano garantiti alcuni diritti, e con le sanzioni vere e proprie, cioè il riconoscimento di status economici più o meno vantaggiosi. La seconda è quella delle sanzioni su singoli individui violatori del diritto di libertà religiosa. Un esempio è quello di Narendra Modi: ai tempi in cui era governatore dello stato indiano del Gujarat, ci furono violenze contro la minoranza musulmana e fu accertata dal governo degli Usa la sua responsabilità. A Modi fu interdetto l’ingresso negli Usa. Sanzione su singolo individuo che fu revocata quando Modi fu eletto primo ministro dell’India».

Ci sono dei risultati positivi di questa politica estera?

«Gli esperti hanno una doppia valutazione: da una parte è vero che su singoli casi è stato possibile salvare delle persone, dall’altra però, come tendenza generale, questa azione non ha garantito un abbassamento dei livelli di violazione del diritto alla libertà religiosa. Secondo me anche perché, rispetto al ‘98, viviamo in un mondo molto diverso, nel quale sono aumentate soprattutto le ostilità sociali rispetto alle minoranze religiose. Nel ‘98, ad esempio, non avevamo il dibattito che abbiamo oggi sui populismi e il ritorno degli identitarismi nazionali. Quello che gli scienziati sociali misuravano nel ‘98 è molto diverso da quello che misuriamo oggi. Nel ‘98 la chiesa ortodossa russa non aveva il ruolo centrale nella costruzione dell’identità nazionale che ha oggi in Russia. Nel ‘98 l’induismo indiano non era al governo e non premeva per la produzione di norme contrarie ai diritti delle altre minoranze religiose, e così via».

© European Union 2015 – European Parliament | Pietro Naj-Oleari

La politica degli Usa sulla libertà religiosa nel mondo è stata imitata da vari paesi, tra cui l’Ue. In cosa si è distinta dagli Usa?

«Si è distinta a livello burocratico. L’Ue ha approvato delle linee guida per un’azione di soft law, cioè senza la creazione di grandi apparati burocratici, ma inserendo la libertà religiosa nella politica estera già esistente dell’Ue. Negli Usa, con l’Irfa si è creata una vera e propria commissione specializzata che fa solo quello, la Uscirf, si è creato tutto un meccanismo all’interno del Dipartimento di stato, si sono previsti due rapporti annuali sulla libertà religiosa nel mondo, si prevedono dei meccanismi per indicare quali sono i paesi che violano seriamente il diritto di libertà religiosa… Anche nell’Ue si è creato pochi anni fa un intergruppo parlamentare per la libertà religiosa che produce un suo rapporto annuale (Forb, ndr), ma sono storie diverse, anche dal punto di vista della narrazione ideale. Il dibattito sulla libertà religiosa e sulla religione in quanto tale non ha, a livello istituzionale nell’Ue, la stessa centralità che ha all’interno dell’impianto costituzionale Usa, dove il diritto di libertà religiosa è garantito addirittura dal primo emendamento costituzionale (1791), quindi è il diritto che viene, almeno descrittivamente, prima degli altri».

L’arrivo di Trump ha cambiato qualcosa?

«Parzialmente. Obama, soprattutto durante il periodo in cui Hillary Clinton era segretario di Stato, non premeva molto per la tutela del diritto di libertà religiosa. Trump, essendo stato portato alla presidenza anche da tantissimi voti di gruppi religiosi, soprattutto evangelici, ha premuto molto su questo tasto e sono previsti nuovi fondi a favore del Dipartimento di stato per la tutela di questo diritto».

Sembra però che la grande attenzione degli Usa per la libertà religiosa sia più rivolta all’estero che all’interno.

«Da un punto di vista formale, questo è il mandato che l’Irfa dà al Dipartimento di stato. Non è prevista un’indagine interna sullo stato della libertà religiosa negli Usa. È prevista solo un’azione esterna. Questa è una delle obiezioni classiche: “Voi guardate solo fuori e non guardate dentro”. Però qui parliamo di una politica concepita come politica estera. Per l’interno ci sono altri dipartimenti, altri ministeri e altre istituzioni.

Un’altra obiezione che viene fatta, soprattutto dai russi e dai paesi musulmani, suona così: “Voi pretendete di vagliare con i vostri standard occidentali il modo in cui viene rispettata la libertà religiosa in altri paesi che non hanno i vostri standard o, addirittura, non hanno i vostri valori”. Questo porta alcuni studiosi a parlare di “impossibilità della libertà religiosa”. Qui sorge a mio modo di vedere un problema di relativismo. “Ogni paese ha i suoi valori e quindi è difficile avere un discorso universale sul diritto di libertà religiosa”. Ma se una persona viene incarcerata perché si converte, qualsiasi sia la sua fede, io credo che sia possibile essere universalmente d’accordo che è ingiusto. A livello di tutele minime credo che sia necessario un discorso globale su questi temi, e credo che sia legittima l’attività di pressione da parte di alcuni stati per garantire, appunto, almeno le tutele minime. Non credo che si possa essere accusati di imperialismo perché si salva una persona che altrimenti viene costretta a partorire in carcere a causa della sua conversione».

AFP PHOTO / THOMAS SAMSON

I paesi islamici e la Russia ortodossa criticano questo approccio degli Usa perché hanno un’idea di libertà religiosa differente. Ci può spiegare quali sono i distinguo fondamentali?

«Uno dei problemi principali con i paesi islamici (non con l’islam) è sicuramente quello relativo alla facoltà di conversione. In alcuni paesi ci sono addirittura delle norme penali che prevedono l’incarcerazione.

In Russia invece c’è una problematica che riguarda la tutela delle minoranze religiose e la loro facoltà di operare, soprattutto dal punto di vista del proselitismo. Ad esempio verso i testimoni di Geova c’è stata una notevole azione dei servizi di sicurezza della federazione russa. Queste azioni portano a rendere inoperative le minoranze religiose. Tutto ciò dipende anche da una certa evoluzione teologica interna alla chiesa ortodossa russa che è maggioritaria, territoriale e nazionale e che influenza le politiche legislative dello stato. Venuto meno il collante dell’ideologia comunista, infatti, tantissima parte della costruzione del dibattito pubblico nella federazione russa si basa oggi, a mio modo di vedere, solo su questa pseudo identità collettiva ortodossa».

A volte la libertà religiosa non viene osteggiata in quanto tale, ma presa e utilizzata per un uso contrario. Pensiamo all’esempio del Pakistan che per difendere le sue leggi sulla blasfemia ricorre al concetto di tutela della religione.

«Anche qui c’è un problema teorico. In questo caso, come in altri casi di paesi musulmani, il diritto umano alla libertà religiosa viene inteso come diritto della religione in quanto tale ad essere tutelata. Ma questo non risponde agli standard internazionali di tutela che prevedono che i diritti umani siano diritti degli individui, non delle idee. L’idea in quanto tale non gode di protezione, soprattutto in un’ottica di tutela della libertà di espressione. Se si legittimano sanzioni penali per la blasfemia, questo può portare a punire anche casi in cui non vi siano offese della religione, ma soltanto descrizioni ritenute non veritiere dal detentore del sapere teologico».

Sempre sull’utilizzo della libertà religiosa a fini politici, nel suo libro fa l’esempio della guerra in Siria nella quale la Russia dice di sostenere il regime anche per tutelare la libertà religiosa delle minoranze cristiane protette da Bashar al-Assad.

«Anche lì la dinamica è la stessa. La cosa interessante è che, mentre spesso la Russia critica gli Stati Uniti perché nei rapporti statunitensi viene indicata come paese particolarmente problematico, in questo caso ha una identica veduta d’insieme per quel che riguarda le violazioni anticristiane. C’è una scelta politica che non mi sorprende, essendo la Russia il primo alleato del regime siriano, essa trova nell’istanza della tutela delle minoranze religiose un altro argomento a supporto della sua posizione».

Stringer – Anadolu Agency

Il sottotitolo dell’edizione inglese del suo libro è «ascesa e declino del modello Usa». C’è una fase di «ritirata» della libertà religiosa dall’agenda globale?

«Quello che è cambiato, soprattutto dal punto di vista del dibattito interno Usa, è che non c’è più la stessa visione sul ruolo della libertà religiosa all’interno e all’estero. La legge del ‘98 è stata approvata sostanzialmente all’unanimità dal congresso, nonostante fosse passato pochissimo tempo dall’impeachment di Bill Clinton. Cioè, un congresso profondamente diviso come solo nel caso di un’impeachment può esserlo, è riuscito ad approvare quella legge quasi all’unanimità. Questo vuol dire che il sentimento rispetto alla libertà religiosa era profondamente condiviso. C’era una sua centralità. Oggi non è più così, perché la libertà religiosa viene etichettata come un tema repubblicano o di destra, mentre la tutela di altri diritti, soprattutto i diritti delle minoranze Lgbt, sono associate a istanze più progressiste. Questo rappresenta uno dei segnali più evidenti della polarizzazione che oggi vive il sistema democratico statunitense, ma anche tante democrazie occidentali. Il fatto che la libertà religiosa, da un’istanza condivisa sia trasformata in un’istanza partitica o addirittura identitaria, come alcune esternazioni di Trump lasciano presagire, ne provoca un declino. E poi c’è sempre il problema dei doppi standard, come avviene con l’Arabia saudita, che a lungo andare sottrae credibilità».

A questo punto l’ultima domanda: quale futuro per questo tema a livello internazionale?

«A livello internazionale sicuramente il dibattito non scemerà, anzi, io credo che sia destinato a rimanere centrale, anche grazie al fatto che le nostre società diventano sempre più complesse e sempre più, quindi, realiste, perché dovranno confrontarsi sepre più con diverse istanze religiose. Nel caso italiano basta pensare alle problematiche che pone la presenza oramai di quasi due milioni di fedeli musulmani i quali hanno spesso rapporti molto forti con i loro paesi d’origine.

Mi auguro che i paesi occidentali riescano ad affrontare il tema con un minimo di coerenza. Uno dei principi anche giuridici dell’impianto del diritto dell’Ue è quello della coerenza tra politica interna e politica estera: non si può essere credibili fuori se noi non garantiamo i diritti dentro. E poi spero che ci sia un dibattito anche a livello di organismi internazionali, le Nazioni Unite piuttosto che altri, devono riuscire a coinvolgere quanti più paesi possibile nonostante la diversità di vedute si stia inasprendo.

Luca Lorusso




Convivere con la sclerosi multipla


Testo di Rosanna Novara Topino |


Malattia neurologica del giovane adulto, la sclerosi non è mortale ma potenzialmente invalidante. In Italia si contano 3.400 nuovi casi all’anno. Oggi la diagnosi precoce e la ricerca scientifica stanno dando risultati importanti.

La sclerosi multipla (Sm), detta anche sclerosi a placche, è una malattia in aumento soprattutto nella popolazione femminile. Si tratta di una patologia infiammatoria su base autornimmune del sistema nervoso centrale (Snc), caratterizzata dalla comparsa di lesioni rotondeggianti e ben delimitate (placche) in molteplici aree dell’encefalo e del midollo spinale. Tali lesioni possono essere rosee e mollicce oppure grigiastre e dure. Le loro dimensioni variano da pochi millimetri a diversi centimetri e sono caratterizzate dalla scomparsa progressiva della mielina presente nella sostanza bianca e dalla proliferazione delle cellule della neuroglia. Queste ultime sono cellule connettivali, che formano l’impalcatura di sostegno dei neuroni e provvedono al loro mantenimento. Nel Snc coesistono la sostanza bianca e quella grigia.

Sostanza bianca e grigia

La sostanza grigia è costituita dai corpi cellulari dei neuroni, dal primo tratto del loro assone (fibra nervosa lunga, per il trasporto degli impulsi nervosi in uscita dal neurone; insiemi di assoni formano i nervi) e dai dendriti (fibre nervose brevi e ramificate per gli impulsi in ingresso nel neurone). È localizzata nella corteccia cerebrale e nella parte centrale del midollo allungato e spinale.

Si è visto che la degenerazione di alcuni assoni comincia presto, all’inizio della malattia, comportando la morte del neurone corrispondente e conseguente deficit funzionale, ovvero alterazione delle prestazioni sensitivo-motorie e, a lungo termine, compromissione cognitiva e comportamentale. All’inizio della malattia, tuttavia, gli assoni degenerati non sono numerosi, per cui i deficit funzionali sono dovuti soprattutto alla flogosi (infiammazione). Quando quest’ultima si risolve, il paziente recupera completamente o in parte le sue funzioni.

Evoluzione della Sm

Come colpisce questa patologia? La Sm evolve da una fase acuta infiammatoria iniziale ad una fase cronica, quindi, una volta insorta, sarà presente per sempre nella vita del paziente.

Questa malattia è caratterizzata dalla disseminazione spaziale e temporale delle placche, cioè le aree di demielinizzazione della sostanza bianca compaiono in zone diverse del Snc e in tempi diversi. Il danno mielinico, che caratterizza la Sm è conseguente ad un’anomala attivazione del sistema immunitario sia cellulare che umorale indotta da fattori genetici e ambientali. Questi ultimi sono probabilmente rappresentati da virus come quello del morbillo (verso il quale sono stati trovati anticorpi nel liquor dei pazienti in quantità superiore rispetto ai controlli), ma finora nessun virus è stato correlato con certezza alla Sm. Sicuramente i fattori genetici hanno un peso importante nella predisposizione ad ammalarsi, come è dimostrato dalla concordanza di casi tra i gemelli monozigotici (20-30%), che scende al 4% tra i gemelli dizigotici. I geni coinvolti sembrano essere numerosi. Tra questi ci sono quelli del maggior complesso di istocompatibilità (DR2, DQW1), quelli che codificano per gli interferoni, per le catene leggere dei linfociti T, per il Tnf (Tumoral Necrosis Factor). Recentemente è stata identificata una mutazione genetica del tipo «nonsenso» (in presenza della quale, anziché esserci la codifica di un aminoacido, viene dato il segnale di stop alla sintesi proteica), direttamente collegata alla Sm, localizzata sul gene NR1H3; tale mutazione causa la perdita di funzione del prodotto genico, la proteina LXRA, che controlla l’espressione di diversi geni coinvolti nell’omeostasi dei lipidi (costituenti della mielina, oltre alle proteine), nei processi infiammatori e immunitari. È chiaro quindi che, perché si sviluppi la malattia, è necessaria una predisposizione genetica, su cui devono intervenire dei fattori esogeni (grafico di pagina 63). Gli studi condotti sulle migrazioni di popolazioni hanno evidenziato che c’è un fattore ambientale (forse un virus), che predispone alla Sm e che agisce prima della pubertà (14-15 anni). Un soggetto emigrato prima di questa età acquisisce la prevalenza del paese in cui si è recato, mentre se emigra dopo mantiene la prevalenza del paese d’origine. Tra i virus maggiormente sospettati come parti in causa per la Sm ci sono i Coronavirus, i Papovavirus, come già detto il virus del morbillo, gli Herpesvirus, il Simian V5 e i Retrovirus. Altri fattori di rischio esogeni sono la carenza di vitamina D, per la sua regolazione del sistema immunitario e l’esposizione al fumo di sigaretta.

Giovani e donne

Si stima che al mondo vi siano 2,5-3 milioni di malati di Sm. In Europa essi sarebbero circa 600.000 e in Italia 110.000. Nel nostro paese ci sono oltre 3.400 nuovi casi all’anno. Si prevede che in media una persona su 1.000 avrà la Sm nel prossimo futuro. Il rischio di ammalarsi è maggiore per le donne rispetto agli uomini (2:1). Si sospetta che questo divario sia dovuto a fattori neuroendocrini, che influenzano a più livelli il sistema immunitario. Quest’ultimo, attivato in modo anomalo, colpisce la mielina dell’organismo considerandola come non-self, ovvero estranea (autornimmunità). Il coinvolgimento dei fattori ormonali nella prevalenza della Sm nelle donne è indirettamente dimostrato dal fatto che essa è più frequente in giovani donne in età fertile e dagli effetti della gravidanza e del parto sulle ricadute (queste ultime diminuiscono durante la gravidanza, in particolare nel 2°-3° trimestre e aumentano nel puerperio). Rischiano di ammalarsi 30-50/1.000 persone, se hanno uno dei genitori ammalato di Sm, mentre se sono ammalati entrambi i genitori, il rischio sale a 120/1.000.

L’età di esordio di questa patologia è tra i 15-50 anni e colpisce prevalentemente le persone di 20-30 anni, mentre si rileva raramente sotto i 12 anni e sopra i 55. Per frequenza, la Sm è la seconda malattia neurologica del giovane adulto, dopo i traumi al Snc derivati dagli incidenti stradali e la prima di tipo infiammatorio cronico.

Tipologie di Sm

Nel 1869 il neurologo Jean Martin Charcot definì i sintomi clinici della malattia e i primi criteri diagnostici, raggruppati nella triade che da lui prende il nome: nistagmo, tremore intenzionale e parola scandita.

Nonostante nel tempo la Sm presenti un’evoluzione diversa da persona a persona, è possibile classificare le varie forme di decorso clinico in quattro gruppi principali: a ricadute e remissioni (SmRR), secondariamente progressiva (SmSP), primariamente progressiva (SmPP) e progressiva con ricadute.

La forma di Sm più diffusa all’esordio è la recidivante-remittente o SmRR (circa 85% tra le 4 forme principali), la quale presenta attacchi ben definiti (pousses), che si risolvono completamente o parzialmente dopo diverse ore o giorni, seguiti da periodi di benessere (remissioni) di durata variabile. Tra i sintomi più frequenti ci sono i problemi alla vista (diplopia), la spasticità o rigidità, le funzioni sfinteriche e viscerali alterate, la minzione imperiosa o urgenza urinaria. Tra un attacco e l’altro, la malattia può rimanere inattiva per mesi o anni.

Il passaggio alla forma secondariamente progressiva (SmSP) avviene dopo circa 10 anni. In questa seconda fase, la malattia cambia gradualmente dal processo infiammatorio tipico della SmRR alla progressione costante, caratterizzata dallo sviluppo di disabilità progressive, che non escludono la sovrapposizione di recidive.

Nella Sm primariamente progressiva (SmPP) non ci sono vere e proprie ricadute. I malati di questa forma di Sm (meno del 10%) presentano fino dall’esordio della malattia dei sintomi, che progrediscono in modo graduale, senza fasi di remissione. Le persone colpite da questa forma hanno più lesioni a livello del midollo spinale che dell’encefalo, tendono ad avere maggiori problemi di deambulazione e il rapporto maschi / femmine colpiti è circa 1:1.

La Sm progressiva con ricadute (SmPR) è una forma poco comune in cui, oltre ad un andamento progressivo fin dall’inizio, sono presenti anche episodi acuti di malattia, con scarso recupero. Passando dalla forma remittente-recidivante a quella secondariamente progressiva, può essere presente questa forma per qualche tempo.

A queste forme principali si aggiungono la Sm benigna, che, al contrario di tutte le altre forme, non peggiora col passare del tempo, esordisce con uno o due episodi acuti, che si risolvono senza lasciare disabilità o quasi e la Sm maligna di Marbourg o Sm fulminante acuta o tumefattiva, una rara forma con decorso tumultuoso ed esito letale nel giro di un anno o due circa. Ultimamente questa forma è risultata sensibile ad alcuni farmaci antitumorali ed al trapianto di cellule staminali.

Alcuni ricercatori ritengono che le forme benigne di Sm siano il 20% di quelle con diagnosi clinica.

Conseguenze della Sm

Tranne la forma maligna di Marbourg, la Sm non è una malattia che porta a morte il paziente, ma purtroppo in molti casi a grave invalidità.

Nonostante la ricerca faccia costantemente nuove scoperte, la causa primaria della malattia resta sconosciuta. Si sa che il sistema immunitario attacca la proteina basica della mielina, considerandola estranea all’organismo, grazie alle sue cellule, che superano la barriera emato-encefalica di difesa e si dirigono nel sistema nervoso centrale, provocando infiammazione e perdita della mielina.

Anche se c’è una predisposizione genetica, tuttavia la Sm non è una malattia ereditaria. È quindi infondato il timore di trasmetterla ai figli (al massimo viene trasmessa la predisposizione ad ammalarsi, che però necessita, come visto, anche di fattori ambientali per dare origine alla malattia). Questo significa che per le donne con Sm, che lo desiderano, non è impossibile intraprendere una gravidanza. È però necessario valutare attentamente la necessità di essere aiutate nell’accudimento dei figli, nel momento in cui dovessero presentarsi ricadute della malattia.

Tra i sintomi della Sm, oltre a quelli già citati precedentemente, ci sono anche i problemi di equilibrio e di coordinazione (compromissione delle funzioni cerebellari), le sensazioni alterate (formicolii, parestesie, dolore), senso di affaticamento, disturbi della sfera sessuale come l’impotenza, disturbi affettivi, ansia, depressione (dapprima psicogena reattiva e successivamente biologica da squilibrio dei sistemi serotoninergici).

Dopo circa 20-30 anni di malattia, compare un decadimento cognitivo nella maggior parte dei pazienti.

Le terapie attuali e future

Le terapie attualmente usate sono sintomatiche per limitare i danni delle ricadute e di tipo immunosoppressivo per allungare il più possibile i tempi di remissione della malattia e rallentarne la progressione. Già da alcuni anni però sono in corso ricerche, che prevedono l’uso di cellule staminali, nel tentativo di stimolare la produzione di nuova mielina, per ridurre il danno assonale.

Per i malati di Sm è fondamentale l’aiuto dei loro cari o comunque di persone che se ne prendano cura non solo per la disabilità a cui vanno incontro, ma per gli stati depressivi in cui possono trovarsi e che possono portare a tentativi di suicidio (il rischio di suicidio tra i malati di Sm è di 1:15, rispetto alla popolazione normale). La depressione può ridurre l’aderenza alla terapia, le performance cognitive e aumentare il senso di affaticamento, quindi è fondamentale un suo trattamento, che si è osservato essere associato a una riduzione della produzione di citochine pro-infiammatorie nei pazienti con Sm recidivante-remittente.

Rosanna Novara Topino
(quinta puntata – continua)


Approfondimenti

LE?PLACCHE

Le placche possono formarsi in ogni punto del Snc, ma sono più frequenti attorno ai ventricoli degli emisferi e del tronco cerebrale, nelle formazioni ottiche, nei peduncoli cerebellari superiori e medi e nel midollo spinale. Al microscopio ottico, le placche rosee si presentano con segni di infiammazione e sono localizzate prevalentemente in zona perivenulare, contengono linfociti T e plasmacellule mentre la mielina si presenta rigonfiata e incapace di assumere la tipica colorazione istologica di Niessel. Inoltre essa risulta frammentata e i suoi frammenti vengono fagocitati dai macrofagi. Le placche grigie sono croniche, in esse la mielina è andata persa e sostituita dalla deposizione di fibre prodotte dalle cellule connettivali, con conseguente cicatrizzazione o sclerosi, che porta allo stiramento e alla frammentazione degli assoni. Finché questi ultimi non sono lesionati, è possibile una riparazione perché la mielina può rigenerarsi. Quando però gli assoni si lesionano, diventano incapaci di trasmettere l’impulso nervoso. Quest’ultimo peraltro rallenta moltissimo già con la perdita del rivestimento di mielina.

R.N.T.

 LA?DIAGNOSI

Caratteristica della Sm è la sintesi nel liquor cefalorachidiano di IgG (immunoglobuline G, cioè anticorpi) per cui, per porre la diagnosi di Sm, oltre alla valutazione dei segni clinici, alla risonanza magnetica nucleare (Rnm), ai potenziali evocati, si fa ricorso anche a un prelievo di liquor per verificare la presenza di abnormi quantità di IgG endogene.

R.N.T.

Siti web:

 




La Cina in Africa /2 – Miti e poca trasparenza

 


Testo di Chiara Giovetti |


Nel numero di ottobre abbiamo raccontato il rapporto fra Cina a Africa concentrandoci su investimenti e commercio. In questo numero parliamo invece dei tentativi di quantificare i cosiddetti flussi ufficiali e in particolare l’aiuto pubblico allo sviluppo cinese e di sfatare, o almeno ridimensionare, alcuni miti sul rapporto sino-africano.

Quanto dà la Cina all’Africa in aiuto allo sviluppo? Misurare questa grandezza è estremamente complicato.

Prima difficoltà: la Repubblica Popolare Cinese non presenta una relazione annuale all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) su questo tipo di flussi – come fanno invece trenta paesi membri dell’organizzazione e alcune economie emergenti, come la Russia, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti – e non pubblica i dati se non in modo irregolare.

Seconda difficoltà: non è chiaro quanto di ciò che la Cina etichetta come aiuto allo sviluppo corrisponda alla definizione dello stesso applicata dall’Ocse.

La ricordiamo: per l’Ocse, costituiscono aiuto pubblico allo sviluppo quei flussi provenienti dagli enti pubblici (dei paesi donatori) che hanno a) lo sviluppo economico e il benessere dei paesi in via di sviluppo come principale obiettivo, b) presentano carattere agevolato e c) comprendono una componente di dono di almeno il 25 per cento.

Date le due difficoltà dette sopra è impossibile fare un confronto diretto fra l’aiuto dei paesi Ocse e quello cinese. È per questo che alcuni centri di ricerca hanno messo a punto metodi molto complessi per raccogliere le informazioni sull’Aps cinese e renderle confrontabili con i dati Ocse.

Xinhua/Chen Yehua

La difficile raccolta dei dati

Uno di questi centri è Aiddata, laboratorio di ricerca del College di William e Mary, università pubblica statunitense con sede a Williamsburg, Virginia. Incrociando le informazioni disponibili nei documenti e nelle banche dati resi pubblici da Pechino, nei siti delle ambasciate cinesi, nei documenti ufficiali dei paesi riceventi e in articoli giornalistici, accademici e delle organizzazioni non governative, Aiddata@ ha quantificato in poco più di 30 miliardi di dollari l’aiuto pubblico allo sviluppo che la Cina ha fornito all’Africa fra il 2000 e il 2013. Nello stesso periodo, stando ai dati Ocse, l’Aps statunitense è stato quasi tre volte tanto. I paesi europei hanno speso in aiuto allo sviluppo due volte e mezzo quel che ha speso Washington e il dato mondiale assomma a 533 miliardi.

Questo significa che la Cina ha fornito circa il sei per cento dell’aiuto allo sviluppo complessivo, gli Usa intorno al quindici e un terzo la sola Unione Europea.

L’ordine di grandezza dei volumi individuati da Aiddata sull’aiuto cinese si discosta di molto da un precedente studio della Rand Corporation, secondo il quale nel solo anno 2011 l’aiuto cinese verso l’Africa sarebbe ammontato a 189,3 miliardi. Il motivo? Lo spiega Deborah Brautigam direttrice del China Africa Research Initiative – Cari – della Johns Hopkins University in un articolo del dicembre 2015 su Foreign Policy@: lo studio ha preso in considerazione gli impegni che la Cina ha preso, non i flussi reali. Di questi impegni – di solito sotto forma di accordi e memorandum di intesa – solo una minima parte si concretizza. Informazioni come queste, lamenta la studiosa statunitense, una volta diffuse continuano a circolare e ad essere riprese dai media, nonostante le smentite o le verifiche che ne mostrano l’inesattezza, alimentando così il mito per cui la presenza cinese nel continente è enorme e supera quella delle altre potenze mondiali, sia negli investimenti che nell’aiuto allo sviluppo.

Eppure per rendersi conto dell’errore della Rand basterebbe pensare che il totale globale dell’aiuto calcolato dall’Ocse per il 2016 è stato di circa 143 miliardi e chiedersi com’è possibile che la Cina abbia, cinque anni fa, superato da sola l’intero pianeta.

Miti e fatti

Brautigam individua altri quattro «miti sull’impegno cinese in Africa che la stampa ricicla con costanza».

Il primo mito

La Cina sta in Africa solo per estrarre risorse naturali. Che queste ultime attraggano molto la Cina non è in dubbio, precisa la ricercatrice, così come attraggono i giganti occidentali del petrolio e dell’attività mineraria come Shell, ExxonMobil e Glencore. Ma dire che la presenza della Cina ha questo come unico obiettivo è fuorviante. A confutazione di questa tesi Brautigam cita i 70 miliardi di dollari di contratti nel settore delle costruzioni che le compagnie cinesi hanno siglato con i paesi africani nel solo 2014 e la scuola di formazione aperta dal colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei ad Abuja, capitale della Nigeria, per formare ingegneri locali. Le elaborazioni Aiddata dei volumi fra il 2000 e il 2014 confermano questa lettura: sul totale di 354 miliardi di dollari di flussi cinesi diretti in Africa, a concentrarsi su attività minerarie, di costruzione e industriali sono stati 30 miliardi, l’8%. Al primo posto si trova la produzione e fornitura di energia, con 134 miliardi (38%) e, a seguire, le attività di trasporto e di stoccaggio, con 89 miliardi, un quarto del totale.

Il secondo mito

Forza lavoro: le compagnie cinesi impiegherebbero soprattutto cittadini cinesi. È vero, riconosce la direttrice del Cari, che in alcuni paesi – ad esempio l’Algeria, la Guinea Equatoriale e l’Angola – i governi permettono a Pechino di inviare i propri lavoratori. Ma nel resto del continente il dato è opposto: la ricerca effettuata da due studiosi di Hong Kong su 400 aziende cinesi attive in 40 paesi africani mostra che, se la dirigenza è prevalentemente cinese, l’80 per cento dei lavoratori è invece locale. Conclusioni simili a quelle raggiunte dallo studio di McKinsey pubblicato la scorsa estate: nelle oltre mille aziende cinesi prese in esame il personale locale era l’89%, pari a circa 300 mila persone. E, suggeriva McKinsey, proiettando il risultato sulle complessive 10 mila imprese cinesi in Africa, è lecito ipotizzare che gli africani impiegati dalle aziende di Pechino siano ormai quantificabili in milioni. I contenziosi sul posto di lavoro sono indubbiamente presenti, conclude Brautigam, ma riguardano le condizioni salariali e lavorative, non il fatto che il lavoro venga negato ai locali.

AFP PHOTO / HABIB KOUYATE

Aiuti in cambio di minerali e land grabbing?

Il terzo mito

Il governo cinese baratta l’aiuto allo sviluppo con concessioni minerarie e petrolifere. Uno studio del 2015 effettuato dal gruppo di ricercatori di Aiddata, sostiene la studiosa della Johns Hopkins, raggiunge le conclusioni molto diverse: a determinare i flussi di Aps di Pechino verso l’Africa sarebbero piuttosto le scelte di politica estera – ad esempio l’allineamento dei paesi africani alle posizioni cinesi quando si tratta di votare all’Assemblea Generale Onu e l’adesione dei paesi riceventi alla linea politica «una sola Cina», che nega a Taiwan il diritto di ritenersi uno stato separato dalla Repubblica Popolare Cinese. «Il nostro studio», dicono gli accademici del gruppo di Aiddata, «non conferma le critiche alla Cina per cui il suo Aps sarebbe prevalentemente motivato dall’interesse per l’acquisizione di risorse naturali.  I flussi di aiuti cinesi sono fortemente orientati ai paesi più poveri, e questo mostra che Pechino fa anche considerazioni di carattere umanitario quando decide le allocazioni di aiuto allo sviluppo. Nel complesso, i risultati dell’analisi suggeriscono che la prassi cinese nell’attribuzione dei fondi non è dissimile da quella dei donatori occidentali».

Un ultimo mito

L’insaziabile appetito cinese per le terre africane e un presunto piano per inviare contadini dalla Cina in Africa a coltivare prodotti agricoli da spedire poi a casa. Esisterebbero, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, interi villaggi di agricoltori cinesi.

«Il mio team e io abbiamo esaminato 60 casi di investimenti cinesi passando tre anni a fare ricerca sul campo e interviste in oltre dodici paesi africani: su circa 15 milioni di acri di terra riportati come acquisiti da compagnie cinesi abbiamo trovato prove di tali acquisizioni per meno di 700 mila acri». Le aziende agricole cinesi più grandi individuate dal team Cari erano piantagioni di gomma, zucchero e agave e nessuna esportava cibo verso la Cina. E, conclude Brautigam, se è vero che paesi come lo Zambia ospitano oggi svariate decine di imprenditori cinesi che coltivano e allevano polli, non abbiamo trovato nessun villaggio di contadini cinesi.

Kenya, strada da Isiolo a Moyale in costruzione.

Cina «donatore canaglia»?

Un’ulteriore critica frequentemente mossa alla Cina è quella che la vede come un rogue donor, un donatore canaglia, che usa l’aiuto pubblico per finanziare progetti scadenti e privi di reale impatto, il cui ulteriore effetto è quello di minare i benefici, per i paesi riceventi, dell’aiuto fornito da altri donatori come gli Usa. Il più recente (ottobre 2017) rapporto di Aiddata@ smentisce questa lettura: dall’analisi dei dati raccolti dai ricercatori emerge che per ogni progetto di sviluppo finanziato dalla Cina, il paese beneficiario sperimenta un aumento del Pil pari allo 0,7 per cento nei due anni successivi al finanziamento, in linea con i valori relativi all’aiuto dei paesi Ocse-Dac.

Tutto bene, quindi?

No, ovviamente. Questi pur ambiziosi tentativi di tracciare i flussi cinesi da parte di prestigiose istituzioni accademiche sono stati avviati solo molto di recente e stanno ancora perfezionandosi, per cui non c’è certezza che le conclusioni raggiunte siano del tutto corrette. L’analisi si ferma al 2014, e ancora poco o nulla è in grado di dire sugli ultimi tre anni.

Inoltre, il fatto che la Cina non renda pubblici i dati rende molto più complicato coordinare gli interventi di aiuto allo sviluppo. Resta poi vero il fatto che, a livello globale – non solo rispetto all’Africa – i flussi ufficiali americani fra il 2000 e il 2014 sono stati al 90 per cento Aps mentre l’aiuto pubblico cinese si è limitato a un quarto del complessivo impegno economico di Pechino nella cooperazione allo sviluppo planetaria, con il 60% delle risorse dedicate invece a scopi più prettamente commerciali e il rimanente 16% costituito da flussi dei quali non è chiaro se siano aiuto o meno. Infine, le testimonianze su comportamenti poco corretti da parte dei cinesi non sono rare: il rapporto McKinsey citava ad esempio il caso kenyano (studiato da Cari), dove il confronto fra imprese cinesi e statunitensi mostrava come non tutti i dipendenti africani delle prime avessero un contratto, mentre i dipendenti delle aziende Usa fossero tutti assunti regolarmente. O il caso dei lavoratori zambiani che lavorano nelle miniere di rame in condizioni inumane: scarsa ventilazione che può provocare patologie a carico dell’apparato respiratorio, orari di lavoro eccessivamente lunghi, attrezzatura antinfortunistica non rinnovata, minacce ai pompieri che si rifiutano di intervenire in condizioni di sicurezza non adeguate@. È dello scorso novembre un articolo su Allafrica@ che racconta delle gravi difficoltà di diverse giovani donne costrette a crescere da sole i figli avuti dalle relazioni con gli operai cinesi della Sinohydro Construction Company che sta costruendo la diga di Karuma, in Uganda. I lavoratori hanno abbandonato le compagne dopo aver promesso loro di sposarle e portarle in Cina. Ma il punto non è tracciare una linea sulla lavagna e segnare da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Certo, non è ancora da escludere che, un giorno, l’Africa si troverà invasa dai cinesi; ma quel giorno non è oggi. Il punto, nelle parole di Debora Brautigam, è che la diffusione dei miti e delle informazioni scorrette rende più difficile concentrarsi sui reali problemi che la presenza cinese in Africa comporta, come quelli descritti sopra. Ad essi vanno poi aggiunti la poca trasparenza sulle risorse, la mancata certificazione di sostenibilità di prodotti come il legname, il disinteresse per la protezione dell’ambiente. «Andare oltre la mitologia renderà forse meno elettrizzanti i contenuti dei media, ma aiuterà a creare una base più informata per il coinvolgimento occidentale nei rapporti con la Cina, in Africa come altrove».

Chiara Govetti

 




I Perdenti 31:

Umberto Nobile, l’uomo del Polo


Testo di Mario Bandera |


Nel mese di marzo 1928 il generale della Regia Aviazione Italiana, Umberto Nobile, al comando del dirigibile Italia, ritornò sull’Artico diretto al Polo Nord con una spedizione tutta italiana due anni dopo averlo trasvolato a bordo del dirigibile Norge, in una precedente spedizione guidata dal grande esploratore norvegese Roald Amundsen. Entrambi i dirigibili erano stati progettati da Nobile e costruiti in Italia. Purtroppo la seconda impresa fu funestata da un terribile incidente, le cui cause – a parte le condizioni meternorologiche estreme – non sono mai state chiarite.

Dopo aver raggiunto il Polo Nord, il 25 maggio, nel viaggio di ritorno il dirigibile Italia perse quota e urtò con la cabina di comando la superficie ghiacciata dell’Artico: dieci uomini, tra i quali lo stesso Nobile vennero sbalzati a terra, gli altri sei rimasero prigionieri dell’involucro del dirigibile che riprese quota e scomparve nell’immensità dei ghiacciai. Non appena si diffuse la notizia, per salvare i sopravvissuti ci fu uno straordinario impegno da parte di numerosi paesi europei. Si mobilitarono piloti, marinai ed esploratori di diverse nazioni: alcuni, come lo stesso Amundsen, morirono durante le ricerche. I naufraghi resistettero con mezzi di fortuna sul pack artico per 49 giorni (solo il meternorologo svedese Finn Malmgren, perse la vita per assideramento). Il dramma di questa tragedia, testimoniato dai superstiti, ci riportano ad un’epoca storica in cui la conquista di terre sconosciute era ancora una pagina meravigliosa da scrivere sul grande libro delle esplorazioni mondiali. Nella chiacchierata che segue con il generale Umberto Nobile, comandante della spedizione, cerchiamo di capire come si svolsero i fatti.

Generale, come prima cosa, ci parli un po’ di lei…

Venni al mondo a Lauro (Avellino) il 21 gennaio 1885. Dopo gli studi classici frequentai l’Università e la Scuola d’Ingegneria di Napoli, laureandomi come ingegnere industriale meccanico, a pieni voti e con lode nel 1908. Quando scoppiò la prima Guerra Mondiale venni nominato capo delle Officine dello Stabilimento Aeronautico a Roma. In questa sede iniziai la mia sperimentazione sui dirigibili.

Allora i dirigibili avevano una maggior considerazione rispetto agli aeroplani, perché risultavano più sicuri e più capienti…

Infatti, anch’io la pensavo così, pertanto mi dedicai anima e corpo al loro studio e costruzione. Al termine della Grande Guerra, nel 1923, entrai nei ranghi della Regia Aeronautica nel Corpo Ingegneri con il grado di Tenente Colonnello e in breve tempo diventai un buon progettista, portando i dirigibili italiani all’avanguardia nella loro funzionalità.

Onore al merito, c’è da dire che la sua fama nel campo dei dirigibili si diffuse rapidamente in tutta Europa…

Infatti, fummo molto sorpresi quando il famoso esploratore norvegese Roald Amundsen, che per primo esplorò i ghiacci dell’Artico, ci contattò affinché progettassimo un dirigibile per una spedizione polare che gli stati scandinavi intendevano realizzare.

Per realizzare questo importante progetto ci fu un contatto fra voi per mettere a punto i dettagli dell’impresa?

Si certo, esso avvenne con un incontro fra noi due in Norvegia. Amundsen voleva che progettassi un dirigibile il cui involucro avesse una capienza di 19.000 metri cubi, molto leggero e compatto, adatto per una spedizione polare. Fortuna volle che da poco fosse iniziata la costruzione di un dirigibile con quelle caratteristiche, così accettai la proposta di Amundsen e mi assunsi l’incarico di fare le debite correzioni per adattarlo ad una trasvolata polare.

Dal punto di vista economico chi si accollò tutte le spese del progetto e della spedizione?

L’organizzazione finanziaria fu assunta in toto dall’Aeroclub di Norvegia, che stipulò una convenzione con il governo italiano che a sua volta metteva a disposizione i tecnici, gli operai e tutte le attrezzature necessarie per la spedizione.

In più io godevo la fama di essere un abile progettista e le Aeronavi italiane avevano una tecnologia e sicurezza tali da non temere concorrenti. L’idea di un fallimento non ci sfiorava proprio.

Quali erano gli scopi della spedizione?

Lo scopo non era solo quello di realizzare una serie di voli di esplorazione tornando alla base di partenza di volta in volta, ma quello di vagliare la possibilità di realizzare un collegamento dalle isole Svalbard allo stretto di Bering passando per il Polo. Il problema da risolvere a quei tempi era quello di capire se, nella grande regione sconosciuta tra il Polo e le coste dell’Alaska, esistesse un continente o ci fosse solo ghiaccio.

Conscio quindi delle grandi potenzialità dell’aereonautica italiana e norvegese, spinti dall’ottimo risultato ottenuto con il Norge, decideste di realizzare una spedizione tutta italiana, per arrivare dritti al Polo Nord.

Verissimo. Come sempre però le grandi imprese trovano degli oppositori tenaci. Nel nostro caso Italo Balbo, eccellente aviatore e membro di spicco del Governo fascista di Mussolini, che fin dall’inizio fu molto avverso alla spedizione. In realtà egli era molto invidioso della nostra iniziativa specialmente nell’eventualità di un successo, soprattutto perché credeva che il futuro fosse quello dell’aviazione e non dei dirigibili che considerava tecnologia sorpassata. Comunque la decisione fu presa e sia pur in mezzo a mille difficoltà demmo il via ai preparativi.

La partenza quando avvenne?

Con il dirigibile Italia salpammo dal cielo di Milano il 19 marzo 1928 con destinazione le isole Svalbard che sono la parte più settentrionale della Norvegia e le terre abitate più a Nord del pianeta dove arrivammo il 6 maggio. Dopo qualche settimana di sosta per ambientarci, il 23 maggio 1928 alle ore 4.28 con il dirigibile Italia ci dirigemmo verso il Polo Nord che sorvolammo il 24 maggio alle 00.20 circa. Vi fu subito grande festa, aprimmo il portellone e lanciammo sul Polo Nord una croce donata da Pio XI e la bandiera italiana.

Ma subito dopo avvenne l’imprevedibile…

Eravamo quasi arrivati al sicuro e ormai in vista delle Isole Svalbard quando il tempo peggiorò. Qualcuno suggerì di atterrare, ma il meternorologo svedese Malmgren ci avvertì che la tempesta sarebbe passata da lì a poche ore. Questo suo fatale errore purtroppo decreterà la tragica fine del viaggio.

Cosa successe dopo?

A causa del perdurare del cattivo tempo l’aeronave si appesantì di ghiaccio, i timoni si bloccarono e le valvole di scarico dell’idrogeno non funzionarono più. Intuita la gravità della situazione, feci subito i motori. Erano le 10.30 del 25 maggio del 1928. Dopo tre minuti il dirigibile Italia urtò la banchisa polare. Dieci dei membri dell’equipaggio furono sbalzati fuori sul ghiaccio, uno di essi morì sul colpo. Io riportai delle gravi ferite. Nello schianto la parte superiore dell’aeronave si staccò dalla cabina di comando e volò via portando con sé la maggior parte dei rifornimenti e sei membri dell’equipaggio, mai più ritrovati.

Una vera tragedia…

Fortunatamente, con l’impatto al suolo molte delle cose che erano nella navetta furono catapultate a terra. Tra queste c’erano casse di viveri, materiali vari e soprattutto la «tenda rossa», che ci servì da rifugio nelle seguenti sette settimane, e la radio da campo (dono di Guglielmo Marconi per la nostra trasvolata). All’inizio non riuscimmo a farla funzionare ma il nostro radiotelegrafista Biagi insieme al collega Troiani la ripararono egregiamente, rimettendola in funzione.

Da quel momento cominciaste a lanciare messaggi radio nell’etere nella speranza che qualcuno vi ascoltasse.

Ogni ora mandavamo un messaggio alla nave appoggio «Città di Milano» che era il nostro punto di riferimento durante la traversata artica. Ogni messaggio radio alternava in noi momenti di disperazione a momenti di euforia! 

La costanza con cui inviaste i vostri Sos alla fine fu premiata…

Nella città di Arcangelo, in Russia, ovvero a duemila Km dalla nostra tenda, un giovane radioamatore, Nicholaj Schmidt, intercettò i nostri appelli. Però, nel frattempo, era sorto un altro problema: la deriva del pack artico ci stava allontanando dalla terraferma e le nuvole non permettevano di individuare dal cielo la nostra tenda, anche se rossa.

Avevate però la percezione che il vostro dramma stesse per giungere alla fine…

Alla sera di mercoledì 6 giugno 1928, il Biagi intercettò un messaggio in cui si diceva che l’ambasciata dell’Unione Sovietica aveva consegnato al governo italiano il nostro Sos. Festeggiammo la notizia con un brindisi in onore del radioamatore russo. Inoltre captammo che il rompighiaccio russo Krassin stava partendo da Leningrado verso la zona del disastro, con a bordo un trimotore Junkers e un pilota per i voli di ricognizione.

Per venirvi a salvare ci fu una vera gara internazionale di solidarietà…

Si è vero ma non sempre con esito felice. Due aeroplani svedesi, guidati da Riiser Larsen e Lützow-Holm e partiti dalla baleniera Hobby domenica 17 giugno, vennero a cercarci. Quando li sentimmo, noi accendemmo subito un fuoco e sparammo dei razzi di segnalazione, ma fu tutto inutile, non riuscirono a vederci.

Lunedì 18 giugno 1928, alle ore 16.00 partì dalla città di Tromsö in Norvegia un aereo messo a disposizione del governo francese per i soccorsi: il Latham 47 condotto dal pilota René Guilbaud. A bordo c’era anche Roald Amundsen. Il grande esploratore norvegese, 55 anni, primo a raggiungere il Polo Sud (nel 1911-12), nonostante i contrasti avuti con me sulla spedizione del Norge, si era offerto fin da subito di partecipare alle ricerche. Purtroppo del suo volo, perso ogni contatto radio, non si è saputo più niente e con ogni probabilità si è inabissato nel grande mare del Nord.

Alla fine chi vi avvistò fu un idrovolante italiano…

Il capitano Umberto Maddalena il 20 giugno 1928 di mattino presto decollò dalla Baia dei Re, dove su ordine di Roma era ancorata la nave appoggio Città di Milano. Alle 7.35 il radiotelegrafista Biagi riuscì a stabilire un contatto radio con l’idrovolante. Le difficili condizioni atmosferiche non permettevano ai soccorritori di avvistare i naufraghi, ma Biagi riuscì a guidarli via radio fino alla posizione della tenda. Alle 8.15 percepimmo il rombo dei motori. Ma subito dopo Maddalena perse il contatto visivo. Solo dopo mezz’ora di disperata ricerca l’idrovolante riuscì di nuovo a sorvolare la nostra «tenda rossa». Vennero lanciati i primi aiuti: sei paia di scarpe, dei viveri, due barche pneumatiche, due sacchi a pelo. Alle ore 20.00 dalla «tenda rossa» inviammo un messaggio di ringraziamento: «Grazie per l’emozione che questa mattina ci avete procurata mandando su di noi i colori della Patria».

La vostra avventura stava per concludersi…

Si, sabato 23 giugno 1928 verso le ore 21.00 due aerei si avvicinarono alla «tenda rossa». Erano svedesi e avevano i pattini per atterrare sul ghiaccio. Dopo alcune prove per sondare il terreno, l’aereo al comando del capitano Lundborg finalmente atterrò. Fin dal giorno precedente avevo stabilito la lista di evacuazione in cui io ero ovviamente all’ultimo posto. Ma Lundborg fu irremovibile: «I have order to take you first» (ho l’ordine di prendere te per primo). La faccenda non mi piaceva per niente ma anche i miei compagni mi pregarono di partire subito. Mi fanno notare che a bordo della nave Città di Milano la mia collaborazione potrebbe essere di grande aiuto per organizzare i soccorsi.

E fu proprio così…

Non proprio. Una volta sulla nave appoggio fui molto limitato nei miei movimenti sia per le mie condizioni che per ordini da Roma. Fu soprattutto il capitano della nave a coordinare i soccorritori di varie nazioni. Determinante fu l’intervento della Marina Sovietica che inviò la nave rompighiaccio Krassin a recuperare i superstiti e il 12 luglio raggiunge finalmente il lastrone di ghiaccio ove i marinai russi tirarono in salvo i rimanenti uomini dell’equipaggio del dirigibile Italia, ormai allo stremo delle forze.

Martedì 31 luglio 1928, il generale Nobile e quello che restava dell’equipaggio del dirigibile arrivarono in Italia. Grandi folle si riversavano nelle stazioni dove il loro treno passava, gridando la loro ammirazione nei confronti dei membri della sfortunata spedizione al Polo Nord. Duecentomila persone li accolsero alla stazione di Roma. Nobile scoprì però che l’entusiasmo popolare non era gradito al governo fascista, verso il quale lui non aveva mai nascosto un certo scetticismo. Per volere dello stesso Mussolini venne istituita una commissione d’inchiesta tutta composta da accaniti avversari di Umberto Nobile, tra i quali – manco a dirlo – spiccava il gerarca Italo Balbo. Pochi mesi dopo la Commissione rese pubblici i suoi risultati, addossando tutta la responsabilità del disastro al Generale. La sera stessa Nobile rassegnò le proprie dimissioni all’Aeronautica rifiutando il congedo dal servizio attivo e la pensione che gli sarebbe spettata. E dopo qualche tempo andò a lavorare prima in Russia e poi negli Stati Uniti.

Con la pubblicazione di diversi libri sulla tragedia vissuta in prima persona, Nobile cercò di spiegare all’opinione pubblica italiana come fossero veramente andate le cose. Ma fu solo dopo il periodo fascista, nel 1945, che il presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi ordinò di riesaminare il caso affidando l’incarico alla commissione superiore di avanzamento del ministero dell’Aeronautica, la quale espresse parere favorevole alla reintegrazione di Nobile col grado di maggiore-generale. Il 2 giugno 1946 Umberto Nobile venne eletto deputato all’Assemblea Costituente come indipendente del Partito Comunista Italiano. Morì a Roma
il 30 luglio 1978.

Don Mario Bandera

 




Il mercante e i suoi precetti


E la chiamano economia
prima la conosciamo, prima la cambiamo


Testo di Francesco Gesualdi |


Se sul titolo di questa nuova rubrica abbiamo dibattuto a lungo, non così è stato per scegliere a chi affidarla. Abbiamo pensato subito a una sola persona: Francesco Gesualdi detto Francuccio.  Nato nel 1949 nei pressi di Foggia, Francesco Gesualdi giunge a Barbiana (Firenze) nel 1956. Qui è allievo di don Lorenzo Milani fino al 1967, anno della sua morte. Assieme a lui partecipa alla stesura di «Lettera a una professoressa», probabilmente uno tra i più celebri libri di pedagogia. Dopo aver completato la formazione economica, fa l’insegnante e poi, per due anni, il volontario in Bangladesh. Nel 1982 pubblica «Economia: conoscere per scegliere», un testo di divulgazione economica destinato agli esclusi dalla lettura. Nel 1983 si trasferisce a Vecchiano (Pisa) per vivere un’esperienza semicomunitaria con altre famiglie decise a praticare concretamente la solidarietà. All’interno di questa iniziativa nasce il «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it).

Francesco Gesualdi è autore di molti libri, tutti aventi l’obiettivo di smontare pezzo per pezzo il sistema economico attuale e proporre un’alternativa di vita non soltanto sostenibile ma anche felice. In questa sua rubrica cercherà di spiegarlo anche ai lettori di Missioni Consolata.

Paolo Moiola


Il mercante e i suoi precetti

L’economia è come un carciofo: per conoscerla occorre saperla sfogliare. Partendo da un dato di fatto: essa non è una scienza «neutra». Nella prima puntata della sua rubrica Francuccio Gesualdi ci parla di ricchezza, lavoro, mercato, natura e stato, in un’analisi motivata e molto critica.

È opinione diffusa che l’economia sia una materia difficile. In realtà è molto semplice: basta saperla sfogliare come si fa col carciofo. All’esterno ci sono le foglie dure, coriacee e spinose, ma all’interno c’è il nucleo tenero, facilmente digeribile. Fuori di metafora, per capire l’economia bisogna liberarla da tutti gli aspetti specialistici caratterizzati da meccanismi rompicapo e da un linguaggio indecifrabile, per arrivare al nucleo centrale, ossia ai criteri chiave che ci rivelano la sua impostazione ideologica. Perché l’economia non è una scienza neutra, come si sforzano di farci credere. L’economia è una «roba» terribilmente di parte che cambia totalmente fisionomia a seconda dei valori su cui si fonda, della classe sociale che vuole difendere, degli obiettivi che si propone. Dal che si capisce che di economia non ne esiste una sola, ma tante, tutte diverse in base alle visioni da cui sono animate.

L’affermazione del mercante

L’economia in cui ci troviamo nasce attorno al 1100 d.C. quando inizia ad emergere la figura del mercante. Il capitalismo è il suo sistema, nato ed organizzato attorno alle sue convinzioni per permettergli di raggiungere i suoi obiettivi. Nel tempo, la figura del mercante si è trasformata assumendo le sembianze delle moderne imprese, ma al di là dell’aspetto, nel suo petto pulsa sempre lo stesso cuore che si muove all’insegna di sette capisaldi ideologici: il denaro come fondamento della ricchezza, il profitto come scopo immediato, l’accumulazione come obiettivo di fondo, il mercato come unico crocevia economico, la competizione come sola forma di rapporto con gli altri, la tecnologia e la crescita come massima espressione di progresso.

L’elemento di principale novità introdotto dal mercante, in totale rottura col sistema feudale, è la supremazia del denaro. Se nel castello la ricchezza è rappresentata dalla terra, nel mondo mercantile è rappresentata dal denaro e non tollerando che la nobiltà se ne appropri in nome del titolo nobiliare, il mercante pone a fondamento della sua società la «meritocrazia», il principio secondo il quale la ricchezza va conquistata tramite l’intraprendenza, l’inventiva, l’arguzia, la scaltrezza. Una nuova forma di saccheggio collettivo non più basato sul privilegio derivante dallo status nobiliare, ma dalla capacità di sapere organizzare gli affari anche se sconfinano nell’abuso, nel plagio, nel raggiro, nel furto, nello sfruttamento.

Il lavoro (tra disoccupazione e sfruttamento)

Le lotte popolari degli ultimi due secoli hanno introdotto il concetto di diritto come nuovo criterio di godimento della ricchezza pur non avendola prodotta, ma il mercante non è avvezzo a certe sottigliezze e continua a voler escludere chiunque non abbia dimostrato di «essersela guadagnata» anche se vecchio, inabile o bambino. Come un disco rotto continua a ripetere «che vinca il migliore», in una società delle cavallette in cui prevale la gara di tutti contro tutti per arrivare primi ad accumulare ricchezza in un crescendo senza fine. Perché il denaro, a differenza della terra, non pone limiti di crescita. Non a caso il Prodotto interno lordo (Pil) è diventato il nostro idolo.

Se il fine è l’accumulazione, la strategia è il profitto che il mercante ottiene creando una differenza fra costi e ricavi. Peccato che fra i costi sia compreso anche il lavoro, perché ciò è all’origine dello sfruttamento. Da quando il lavoro è stato degradato a costo, ha smesso di essere considerato la massima ricchezza a disposizione dell’umanità per la sua elevazione e ha smesso di essere considerato il diritto/dovere riconosciuto ad ogni adulto per permettergli di prendere parte alla distribuzione della ricchezza. Al contrario è stato trasformato in una zavorra monetaria da ridurre il più possibile. Da qui tutti i tentativi per eliminare il lavoro (disoccupazione) e pagarlo il meno possibile (sfruttamento).

La natura (o merce o bene senza valore)

Nella logica del denaro, l’altro grande perdente è la natura che è stata spontaneamente divisa in due grandi categorie: quella catturabile e quella non catturabile. La parte catturabile, costituita da terreni, foreste, minerali, acqua, è stata recintata e trasformata in merci su cui lucrare. In altre parole è passata da beni comuni a proprietà privata, da beni godibili gratuitamente a beni ottenibili solo a pagamento, da beni al servizio di tutti a beni per il profitto individuale. Come testimoniano le battaglie per l’acqua, le foreste, i parchi, le spiagge. Ancora oggi in molti punti del globo, le comunità sono in lotta con i mercanti per proteggere quel poco di beni comuni rimasti. Purtroppo con scarsi risultati dal momento che i mercanti hanno dalla loro parte la forza degli stati. Intanto sembra persa del tutto la battaglia per la parte di natura non recintabile. Non essendo catturabile, è stata declassata da bene di tutti a bene di nessuno. Non essendo vendibile, è stata degradata da bene non prezzabile a bene senza valore. Trascurata da tutti, è diventata un’enorme pattumiera in cui abbiamo riversato tutti i nostri avanzi: l’aria si è saturata di veleni, i fiumi sono stati inondati di sostanze chimiche, i mari sono stati riempiti di plastica.

Il mercato (e le sue regole)

Nello stesso tempo la logica dei costi e dei ricavi spiega perché viviamo in un sistema consumista. Dal momento che il guadagno del mercante dipende anche da quanto incassa, è logico che tenti di espandere il più possibile le sue vendite subissandoci di pubblicità tramite un impegno monetario che, a livello mondiale, vale 500 miliardi di euro. Così siamo stati scaraventati in un sistema materialista che propone alla gente come unico obiettivo quello di comprare, comprare e ancora comprare.

Non meno deleterie sono le conseguenze del fatto che il mercante concepisce la compravendita come unica modalità a disposizione del genere umano per soddisfare i propri bisogni. Il mercato, dobbiamo ammetterlo, è una grande macchina, capace di garantire di tutto: beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra. Con le sue migliaia, milioni di imprese di ogni dimensione e settore, da un punto di vista dell’offerta è ineguagliabile. Ma ovunque ci sono regole, e anche il mercato ha le sue. La regola è che possiamo chiedergli di tutto, ma per ottenerlo bisogna pagare. Allora scopriamo che il mercato non è per tutti. Il mercato è solo per chi ha soldi. Chi ha denaro da spendere è il grande accolto, il grande corteggiato, il grande riverito. Chi non ne ha, è il grande rifiutato, il grande escluso, il grande disprezzato. Per dirla con papa Francesco è il grande scartato.

Gli «scartati» e il ruolo dello stato

Gli scartati sono i vecchi, gli inabili, i disoccupati, i nullatenenti, in una parola tutti coloro che non guadagnano abbastanza da poter pagare beni e servizi costosi. Per tutta questa gente, che poi sono i più, l’alternativa è che i servizi fondamentali come sanità, istruzione, alloggio, comunicazioni, siano erogati gratuitamente, ossia da parte della comunità, l’unico soggetto capace di fornire servizi non attraverso il meccanismo della compra-vendita, ma della solidarietà. Ma questa prospettiva danneggia grandemente il mercato, perché ogni servizio offerto dalla comunità è un’occasione di affari in meno per le imprese private. Non a caso la classe mercantile ha sviluppato ed imposto la visione così detta neoliberista che nega alla comunità qualsiasi tipo di intervento in ambito economico per lasciare pieno spazio al mercato. Il tentativo in atto è quello di confinare lo stato ad occuparsi solo di strade, anagrafe, mantenimento dell’ordine pubblico difesa dei confini, magistratura (purché si occupi solo di ladri di polli e non tocchi i mafiosi e i corrotti). In fin dei conti si vuole limitare l’intervento dello stato ai soli servizi che fanno comodo anche alla classe dominante mentre si pretende che venga privatizzato tutto il resto: pensioni, sanità scuola, trasporti, comunicazioni. Un progetto in totale controtendenza con la nostra Costituzione che vieta l’iniziativa privata in contrasto con l’utilità sociale e che assegna alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Cerchiamo di farla rispettare.

Francesco Gesualdi


Il «Centro nuovo modello di sviluppo»

Trasformare l’utopia in realtà

Potremmo chiamarlo un «think tank» dell’economia alternativa e del pensiero nuovo. Di sicuro, pur partendo dal volontariato e da risorse sempre scarse, le sue ricerche e i suoi studi meritano una grande attenzione.

Il «Centro nuovo modello di sviluppo» (Cnms) di Vecchiano (Pisa) è nato per affrontare, da un punto di vista politico, i temi della povertà, della fame, del disagio nel Nord come nel Sud del mondo.

Una sezione importante del Centro è dedicata ai rapporti internazionali per capire attraverso quali meccanismi produttivi, commerciali, finanziari e tecnologici il Nord provoca emarginazione, impoverimento e degrado ambientale nel Sud del mondo. Il Centro diffonde i risultati delle sue ricerche attraverso corsi per insegnanti, seminari popolari, articoli e libri.

Oltre all’attività educativa e formativa, il Centro svolge anche un’attività di sensibilizzazione politica per indurre la gente del Nord a mobilitarsi a fianco della gente del Sud attraverso nuovi stili di vita e attuando varie forme di noncollaborazione e di pressione popolare di tipo nonviolento.

Da questo punto di vista l’attività del Centro si svolge in quattro direzioni:

  • Individua attraverso quali gesti quotidiani la gente collabora, suo malgrado, con una macchina economica che sfrutta il lavoro del Sud, che rapina le sue risorse, che distrugge il suo ambiente, che crea nullatenenti.
  • Indica come indurre le imprese e i governi a comportamenti più equi attraverso nuove forme di democrazia e di partecipazione (intervento sui parlamentari, lettere di dissenso, controconferenze) e attraverso l’uso di spazi di potere ancora non utilizzati nell’ambito del consumo e del risparmio (il consumo critico, il consumo alternativo, il boicottaggio, il risparmio alternativo, l’investimento etico).
  • Organizza campagne di pressione sulle imprese e sul potere politico a difesa dei diritti degli sfruttati e degli impoveriti. Tra le campagne passate più importanti promosse dal Centro ricordiamo la campagna Chicco/Artsana per garantire un indennizzo alle 87 vittime dell’incendio alla Zhili, la campagna Chiquita concordata con i sindacati del Centro America per garantire i diritti sindacali ai lavoratori delle piantagioni di banana, la campagna «Acquisti trasparenti» per ottenere una legge che induca le imprese a rispettare i diritti dei lavoratori e la campagna Del Monte per richiedere l’aumento dei salari e l’abbandono di pesticidi pericolosi nella piantagione di ananas in Kenya. Dal 2000 gestisce la campagna «Abiti puliti», assieme ad altre realtà italiane, per la difesa dei diritti dei lavoratori globali del settore abbigliamento e calzaturiero.
  • Elabora proposte di sistema per passare da un’economia organizzata sulla crescita ad un’altra organizzata sul senso del limite, capace di garantire a tutti una vita dignitosa pur producendo di meno.

Fonte: Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it).

I libri

Fra i numerosi testi pubblicati da Francesco Gesualdi e dal Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) ricordiamo: Sobrietà (Gesualdi), L’altra via (Gesualdi), Le catene del debito (Gesualdi), Guida al consumo critico (Cnms), Lettera a un consumatore del Nord (Cnms), Manuale per un consumo responsabile (Gesualdi), Gratis è meglio (Gesualdi),?Società del benessere comune (Gesualdi-Ferrara), Risorsa umana (Gesualdi).