Testo su Santità… alla mano di Giacomo Mazzotti | pagine a cura di Sergio Frassetto |
Un bel dono quello di papa Francesco che, con la sua nuova, recentissima Esortazione apostolica “Gaudete et exsultate” ci ricorda: «Il Signore chiede tutto e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente».
Non ha voluto scrivere un trattato, il papa, ma stuzzicare ognuno di noi a non dimenticare che siamo stati chiamati a questa meta (cioè, essere santi), lasciandoci provocare «dai segni di santità che il Signore ci presenta attraverso i più umili membri del suo popolo, che sono i santi della porta accanto». Una santità popolare, allora, alla portata di tutti, «alla mano», ma che, pur crescendo mediante piccoli gesti, diventa feconda per il mondo.
Ed è proprio lui, l’Allamano, (ancora in attesa dell’ultimo balzo per essere proclamato santo) che parlava quasi con le stesse parole ai suoi missionari e missionarie. Erano nati di fresco dalla sua passione per l’Africa, per «i pagani» e, mentre si preparavano alla partenza per quella missione ancora sconosciuta, si sentivano ripetere: «Siete qui per essere missionari della Consolata, ma non potete esserlo se non vivendo e operando in conformità al fine dell’Istituto, che è la santificazione dei membri e la conversione dei popoli. È ciò che vi ripeto di continuo: le anime si salvano con la santità… Missionari sì, ma santi!».
Iniziava, così, l’avventura di tanti – preti, fratelli laici e suore – che, facendo tesoro delle esortazioni (ma ancor più dell’esempio di vita) del loro fondatore, intrecciavano il lavoro apostolico con la preghiera intensa, l’annuncio del vangelo con «la consolazione» e promozione umana, insaporendo ogni passo, ogni gesto, ogni momento con quello che sarebbe diventato il must (!) dei missionari della Consolata: «Prima santi e poi missionari».
La santità è, dunque, la molla, l’anima, il sogno di tutta la nostra vita… proprio come voleva Giuseppe Allamano e come stimola, oggi, papa Francesco, con queste parole così chiare: «Ci mette in moto l’esempio di tanti sacerdoti, religiose, religiosi e laici che si dedicano ad annunciare e servire con grande fedeltà, molte volte rischiando la vita e certamente a prezzo della loro comodità. La loro testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’entusiasmo di comunicare la vera vita. I santi sorprendono, spiazzano, perché la loro vita ci chiama a uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante».
Chissà se riusciremo a lasciarci spiazzare proprio dall’esempio dei santi…
Giacomo Mazzotti
Leggi tutto su lo sfogliabile!
Una fede pericolosa: Crescono le persecuzioni anticristiane nel mondo
Testo di Cristian Nani – direttore di Porte Aperte Onlus – Foto Open Doors |
Persecuzioni. Nel mondo un cristiano ogni 12 viene perseguitato: oltre 215 milioni di persone vessate e discriminate a causa della loro fede. Sono stati 3.066 i martiri nel 2017, e migliaia le chiese, le abitazioni, i negozi di cristiani distrutti. Il rapporto World Watch List 2018, pubblicato da Porte Aperte/Open Doors, mostra, in una classifica, le 50 nazioni dove le persecuzioni sono maggiori.
Henry fa il falegname, un’attività che ama e svolge nella sua città, Marawi (Sud delle Filippine). Il 23 maggio 2017 è un normale giorno di lavoro per lui, quando qualcuno bussa alla porta. Aprendo si trova di fronte un gruppo di sconosciuti. Lui domanda chi siano, loro rispondono: «I tuoi assassini».
Il commando fa parte di un gruppo affiliato all’Isis, miliziani di varia estrazione in grado di prendere in ostaggio l’intera città di Marawi per cinque mesi1.
Henry (nome di fantasia, ndr) viene malmenato e incappucciato per essere condotto in una sorta di carcere nel quale è tenuto in ostaggio per vari giorni. Quando verrà liberato dalle forze militari filippine, racconterà di aver visto l’inferno. Persone rapite con lui vengono bendate e decapitate, alcune donne sono violentate: lui e altri sono costretti a guardare.
Nell’agenda di questi gruppi è chiaro l’intento di eliminare la presenza cristiana dalla zona.
Henry è tra le molte vittime di quella che Porte Aperte nel suo rapporto annuale World Watch List 2018 definisce «oppressione islamica», cioè la fonte primaria di persecuzione dei cristiani nel mondo.
Reena, vietato convertirsi
Reena invece è una ragazza di 19 anni che viveva in un villaggio in una zona remota dell’India (per ragioni di sicurezza non citiamo il nome del villaggio, né il vero nome della ragazza, ndr).
Lei e la famiglia sono ex induisti convertiti alla fede cristiana.
In cerca di lavoro come insegnante, nel settembre del 2016 era approdata in una scuola per un colloquio: «Il preside mi ha offerto dei dolcetti tipici, che ho mangiato – ha raccontato -. Da lì in poi non ricordo più nulla». Drogata e privata della libertà per svariati giorni, ancora oggi non ricorda niente di quello che ha subito. I partner locali di Porte Aperte che la seguono nella cura del trauma, pensano che Reena abbia rimosso il ricordo di quei giorni perché troppo doloroso. Quando ha ripreso conoscenza, si è ritrovata in un treno fermo in un luogo a 14 ore di distanza da casa sua.
Oggi Reena sta abbastanza bene, non ha ancora trovato un lavoro, ma nel frattempo è tornata a scuola per continuare gli studi.
Gli aggressori rimangono impuniti, mentre il preside della scuola continua a minacciare la famiglia, ed è per questa ragione che la ragazza si è trasferita da suo fratello in un altro villaggio.
Il numero di aggressioni di questo tipo contro i cristiani in India stanno aumentando.
Reena è una delle vittime della seconda più importante fonte di persecuzione anticristiana nel mondo: il «nazionalismo religioso».
L’ostilità anticristiana
Monitorando oltre 90 paesi, con ricerche che partono anche dal basso (quindi dal campo missionario, grazie alla presenza nel territorio), Porte Aperte fotografa ogni anno la persecuzione anticristiana nel mondo attraverso il rapporto World Watch List.
Per persecuzione s’intende «qualsiasi ostilità subita come conseguenza dell’identificazione dell’individuo o di un intero gruppo con Cristo. Questa può includere atteggiamenti, parole e azioni ostili nei confronti dei cristiani».
Il rapporto evidenzia, in una sorta di classifica, i primi 50 paesi dove maggiormente si perseguitano i cristiani. Nelle posizioni più «basse» si trovano i paesi nei quali si è registrato un livello di persecuzione «alto». Salendo verso i primi posti, si passa attraverso un livello «molto alto» per approdare, nelle prime posizioni, al livello della persecuzione «estrema».
La metodologia adottata per stilare la Wwlist considera ogni sfera della vita dei cristiani (privato, famiglia, comunità, chiesa, vita pubblica e violenza) ed è progettata per monitorare le strutture profonde della persecuzione e non solo gli incidenti violenti.
Il team di ricerca distingue due categorie principali con cui la persecuzione può esprimersi: la prima riguarda le pressioni e le vessazioni subite in ogni aspetto della vita che si manifestano in una quotidiana miscela di soprusi, abusi, marginalizzazione e violazione di diritti fondamentali come l’accesso alle cure, al lavoro, all’istruzione, alla giustizia, e così via. La seconda categoria di persecuzioni, invece, è la violenza, quella di fatto più riportata dai mezzi di comunicazione poiché più d’impatto in termini mediatici. Sebbene la seconda sia quella più visibile e quasi l’unica presente nel dibattito pubblico, è la prima quella più diffusa: la prevaricazione nascosta e costante che devasta la vita di milioni di cristiani a causa della loro fede.
Iraq: campo di sfollati cristiani
Dietro ogni persecuzione c’è un persecutore
Ma chi sono gli attori di questo fenomeno? È chiaro che si tratti di singoli individui, ma anche di gruppi, o addirittura istituzioni, ostili ai cristiani. Ecco un elenco di quelli che nei fatti sono veicoli di odio e intolleranza anticristiana: governi locali e nazionali; leader di gruppi etnici; leader religiosi non cristiani; leader di altre chiese cristiane; movimenti radicali; normali cittadini, incluse le folle istigate in vari modi; le famiglie stesse dei cristiani; i partiti politici; gruppi rivoluzionari o paramilitari; il crimine organizzato; organizzazioni multilaterali.
È importante avere in mente questa varietà di attori poiché fa comprendere come, per esempio in alcune aree rurali della Colombia, sia successo che certi leader di gruppi indigeni, con la connivenza delle autorità locali, abbiano inflitto a membri dello stesso gruppo indigeno convertiti al cristianesimo gravi vessazioni fino all’incarcerazione, tortura, esproprio dei beni ed espulsione dal villaggio. Quando l’attore è uno stato, per fare un altro esempio, la dinamica cambia: le Maldive, dove molti italiani trascorrono le proprie vacanze, sono un paese islamico che ritiene ogni maldiviano necessariamente musulmano. Questo comporta che, quando un maldiviano si converte o è semplicemente interessato al cristianesimo, affronta pressioni dallo stato stesso. Il Pakistan, con la famosa legge contro la blasfemia (emblematico il caso di Asia Bibi), è un altro esempio di stato che prevarica, ma supportato da movimenti radicali che puntano all’eliminazione della presenza cristiana. Mentre in Messico i cartelli della droga possono aggredire le chiese che in qualche modo interferiscono con i loro scopi criminali, in Sri Lanka è accaduto che monaci buddisti abbiano incitato le folle a inveire e aggredire i cristiani locali considerati agenti contaminanti della cultura tradizionale del paese.
Trend della persecuzione
Nigeria: Uno dei sopravvissuti agli attacchi dei Boko Haram
In termini assoluti la persecuzione aumenta. È questo che emerge dalla Wwlist 2018 che prende in considerazione il periodo 1 novembre 2016 – 31 ottobre 2017. Nella classifica delle prime 50 nazioni dove più si perseguitano i cristiani, troviamo ben tre paesi con un punteggio al di sopra di 90 su 100: Corea del Nord, Afghanistan e Somalia (rispettivamente 1°, 2° e 3° posto), con un livello di persecuzione estremo a tal punto da rendere la vita impossibile per i cristiani e da costringerli alla clandestinità.
La Corea del Nord e l’Afghanistan quest’anno hanno un punteggio del tutto simile: solo per poco il regime di Kim Jong-un è al primo posto (per il 15° anno di fila). Essere scoperti in Corea del Nord a partecipare a una riunione di preghiera o in possesso di una Bibbia, può significare la morte o la reclusione nei famigerati campi di rieducazione, veri e propri lager denunciati anche dalle Nazioni Unite. Si stima che tra i 40 e i 70mila cristiani languiscano in questi campi a causa della loro fede. Per quanto riguarda l’Afghanistan, sebbene sia un paese più conosciuto in Italia rispetto alla Corea del Nord, rimane altresì poco noto per le condizioni dei cristiani che vi abitano, costretti a vivere nel terrore di essere scoperti. Convertirsi dall’islam al cristianesimo in Afghanistan significa andare incontro al ripudio della famiglia e della società, fino alla tortura, all’incarcerazione e alla morte.
Nel mondo sono ben 11 le nazioni in cui si registra una persecuzione estrema simile a quella dei paesi appena citati. Tra le regioni del mondo in cui i cristiani vengono perseguitati, l’Africa cresce, avendo alcune sue nazioni nelle prime posizioni (Somalia 3°, Sudan 4°, Eritrea 6°, Libia 7°). In Asia centrale, in paesi come Uzbekistan (16° posto), Turkmenistan (19°), Tagikistan (22°) e Kazakistan (28°), dal dissolvimento dell’Urss, l’islam è cresciuto esponenzialmente, anche nella sua corrente più oppressiva, generando intolleranza nei confronti dei cristiani.
Tra le fonti di persecuzione, il nazionalismo religioso, in particolare legato all’induismo e al buddismo, risulta in forte aumento, soprattutto in seguito all’incremento delle violenze anticristiane in India (11° posto) e delle discriminazioni in paesi buddisti come Laos (20°), Myanmar (24°), Nepal (25°, nuovo ingresso nella classifica) e Buthan (33°).
I numeri della persecuzione
Sono stati 3.066 i martiri cristiani accertati nel 2017, di cui 2.000 solo in Nigeria del Nord, regione interessata dall’estremismo islamico. Oltre 215 milioni sono i cristiani perseguitati nel mondo (1 ogni 12) secondo la Wwlist. Almeno 15.540 attacchi sono avvenuti ai danni di chiese, case e negozi di cristiani: bruciati, saccheggiati o totalmente distrutti. Impressionante è il fenomeno dei matrimoni forzati, particolarmente forte in Pakistan: almeno 1.240 giovani donne cristiane sono state rapite e forzate a sposare uno sconosciuto. Oltre 1.000 sono stati i rapimenti a fine di abuso e violenza carnale. Tutto ciò prefigura chiaramente quella che viene definita la doppia vulnerabilità delle donne cristiane in questi contesti: perseguitate in quanto cristiane e in quanto donne.
Questi dati sono solo la punta dell’iceberg, poiché il sommerso, il non denunciato, è potenzialmente enorme (basti pensare anche solo all’impossibilità, in alcuni contesti, di denunciare un crimine o un abuso a causa della connivenza delle autorità locali).
L’India: la grande democrazia
Vale la pena soffermarsi sul caso dell’India, salita addirittura all’11° posto della Wwlist, con un grado di persecuzione definibile estremo. Il partito Bjp (Bharatiya Janata Party) al governo con il primo ministro Modi, ha una chiara agenda volta a induizzare il paese, facendo forte leva su un nazionalismo religioso che inevitabilmente crea intolleranza nei confronti dei non induisti e decreta un’emarginazione dei cristiani. I fatti dicono che il numero di attacchi contro comunità cristiane (che a volte hanno provocato anche morti) è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni.
L’India, quella che gli europei conoscono come una grande e pacifica democrazia, non esiste più da tempo, e i primi a pagarne il prezzo sono proprio i cristiani.
Quando nei consessi internazionali si addebitano alle autorità indiane violazioni dei diritti fondamentali dei cristiani, esse rispediscono aspramente le accuse al mittente senza alcuna spiegazione.
Una fede pericolosa
È dunque la fede cristiana una fede pericolosa?
Ebbene sì, in molti paesi e per oltre 215 milioni di uomini e donne. Esattamente come era pericoloso essere cristiani ai tempi della chiesa primitiva, quella degli Atti degli apostoli, là dove la fede cristiana ebbe inizio.
Cristian Nani direttore di Porte Aperte Onlus
Note:
1- Il 23 maggio 2017, Marawi (città di circa 200mila abitanti, capoluogo della provincia di Lanao del Sur, isola di Mindanao) è stata occupata dai jihadisti del gruppo Maute (un clan familiare locale che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico) con l’appoggio del gruppo radicale filippino Abu Sayyaf. Lo scopo era quello di creare una sorta di califfato fedele ai principi dell’Isis.
L’esercito regolare di Manila ha messo sotto assedio la città con oltre 7mila militari e bombardamenti aerei. Dopo 148 giorni, a ottobre, i jihadisti sono stati sconfitti. Secondo l’agenzia Fides: «Sono oltre 1.000 le vittime del conflitto: 163 soldati, 822 militanti e 47 civili». Secondo l’Ocha, delle 350mila persone fuggite dall’area durante il conflitto, molte devono ancora rientrare.
Le fonti della persecuzione
Oppressione islamica: l’obiettivo è portare il paese o il mondo sotto la «Casa dell’islam» attraverso azioni violente o meno, che colpiscono i cristiani in modo particolare. Esempi: Pakistan, Iran, Arabia Saudita.
Nazionalismo religioso: lo scopo è imporre la propria religione come elemento caratterizzante della propria nazione (principalmente induismo e buddismo, ma anche altre religioni). Esempi: India, Nepal o Sri Lanka.
Antagonismo etnico: cerca di introdurre con forza l’influenza di norme antiche e tradizioni in un contesto tribale. Spesso si presenta sotto forma di religione tradizionale che si oppone alla presenza di cristiani nella società. Esempi: Yemen, Somalia o Afghanistan.
Protezionismo denominazionale: cerca di mantenere la propria denominazione cristiana come unica espressione legittima o dominante del cristianesimo nel paese e quindi vessa qualsiasi altra denominazione. Esempio: Etiopia.
Oppressione comunista e postcomunista: cerca di mantenere il comunismo come ideologia prescrittiva e/o controlla la chiesa attraverso un sistema di registrazione e di sorveglianza. Esempi: Corea del Nord, Laos o Vietnam.
Intolleranza secolare: ha lo scopo di sradicare la religione dal dominio pubblico e, se possibile, anche dal cuore delle persone, e impone una forma di laicità atea come una nuova ideologia di governo. Esempi: si tratta di una tendenza che diffonde un sentimento anticristiano, ad esempio quando i cristiani difendono principi morali collegati alla propria fede (famiglia e matrimonio tradizionale, ecc.).
Paranoia dittatoriale: siamo di fronte a un dittatore che fa di tutto per mantenere il potere e reprime con forza qualsiasi cosa sembri una minaccia. Esempi: Eritrea, Corea del Nord.
Corruzione e crimine organizzati: l’obiettivo è creare un clima di impunità, anarchia e corruzione al fine di arricchirsi. Esempi: Messico, Colombia.
C.N.
Porte Aperte/Open Doors
Porte Aperte/Open Doors è un’agenzia missionaria attiva da oltre 60 anni nel campo del sostegno ai cristiani perseguitati di ogni denominazione. Nasce dalla visione di un missionario, conosciuto come Fratello Andrea, «Il contrabbandiere di Dio» (dal titolo del best seller che racconta la sua storia).
L’opera missionaria, iniziata nel 1955 portando Bibbie oltre la cortina di ferro, oggi è diventata un’organizzazione attiva e strutturata in oltre 80 paesi. Conosciuta negli ultimi anni soprattutto per il report sulla persecuzione anticristiana nel mondo (World Watch List), oggi opera attraverso molti progetti che spaziano dagli aiuti umanitari di prima necessità al sostegno spirituale e psicologico alle vittime, dalla fornitura di materiale formativo cristiano alla costruzione di infrastrutture utili alle comunità locali. Inoltre opera nei paesi liberi affinché si diffonda nell’opinione pubblica internazionale una sempre maggiore consapevolezza sulla condizione dei cristiani in queste nazioni.
Insegnaci a pregare 14. Pregare: convertirsi dalla divinità al Signore
Di Paolo Farinella, prete |
Nella puntata del mese scorso abbiamo cercato, con qualche difficoltà per gli spazi di una rivista a larga diffusione, di esercitarci sul capitolo 1° della Genesi, un testo considerato spesso noioso. Abbiamo scelto il testo ufficiale della Cei, edizione 2008. Prima di passare a un testo del vangelo, desideriamo riprendere i primi tre versetti di Gen 1 e tradurli dall’ebraico, applicando la morfo-sintassi ebraica, senza scendere, però, in dettagliate spiegazioni. Il testo biblico di Gen 1,1-3 non si trova solo nella Bibbia, ma appartiene alla cultura orientale comune del 2° millennio a.C. Lo leggiamo non in un contesto di studio, ma in un atteggiamento interiore orante.
Il testo nella traduzione ufficiale: «1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Applicando la sintassi dell’analisi testuale che tiene conto in modo particolare dei «verbi», ecco la traduzione:
1«Nel principio del «Creò Dio il cielo e la terra»
(oppure: Quando Dio creò il cielo e la terra) 2la terra era informe e deserta
le tenebre ricoprivano l’abisso
e lo spirito di Dio covava sulle acque, 3DISSE Dio: «Sia la luce!». E la luce fu.
Nota esegetica
I primi due versetti servono per ambientare (verbi all’imperfetto) l’esplosione della Parola che, al versetto 3, lacera l’abisso. Sempre al v. 2, anche l’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008) traduce con «lo spirito aleggiava sulle acque», che a nostro parere deve essere reso così: «lo spirito di Dio covava sulle acque». In ebraico, il participio femminile «merachèfet» deriva dal verbo «rachàf» che in tutta la Bibbia ebraica ricorre solo tre volte: una nella forma verbale «qal», che esprime il senso ordinario dell’azione, e cioè «frangere/rompere/spezzare» (cfr. Ger 23,9) e due volte nella forma verbale «pièl» che esprime l’«intensità» dell’azione del verbo e quindi anche nella traduzione deve intuirsi un senso marcato, qui appunto l’atto del «covare» che ha come effetto il dischiudersi del guscio. In Dt 32,11 è l’aquila che cova la nidiata, mentre in Gen 1,2 è lo spirito di Dio che cova le acque per farle dischiudere alla vita. Lo Spirito di Dio, «principio» della vita sta sulle acque primordiali, dominandole come fa l’aquila o una chioccia sulla covata finché non scoppia la vita.
Cosa si ricava da questo testo per la preghiera? Il principio non è un inizio temporale, ma un fondamento radicale, una radice su cui poggiare: Dio che crea il cielo e la terra. In ebraico, «cielo e terra», essendo opposti (alto e basso, superiore e inferiore, entrare e uscire, sedere e alzarsi, mattina e sera, ecc.), indicano la totalità, tutto quello che sta in mezzo. Dio crea «tutto», senza essere condizionato dall’informe terra o dal deserto, cioè dalla non vita. Le tenebre, proprie dell’abisso sono spettatrici e non opposizione a Dio. Da «signore», egli «cova» come una chioccia le acque della vita. Nell’attesa, tra desolazione, morte e oscurità che nulla promettono di buono, all’improvviso, potente e risoluta, scoppia la «Parola» che in un baleno fa giustizia di abisso, tenebre e deserto: «Disse Dio». È la frase principale, da cui dipende tutto quello che precede e che dà inizio alla serie di dieci «disse» martellanti. Subito la Parola diventa Luce e la luce diventa un fatto: «La luce fu». La Parola di Dio non è mai inefficace perché realizza sempre quello che dice. All’ordine di Dio corrisponde subito l’esecuzione: Sia/Fu.
Pregare la Parola
Prima di qualsiasi cosa, azione, decisione, esecuzione, occorre vedere «il principio» che è all’inizio del versetto: su quale «principio» si fonda la vita di me credente, cittadino, padre, figlio, maestro, ministro, monaco, monaca, giovane, vecchio? Oppure navigo a vista tra abissi e tenebre e deserti senza una bussola o un progetto? Se dovessi chiamare per nome il progetto della mia vita, come lo enuncerei con una parola? In Dio la parola è fatto: c’è sempre corrispondenza tra desiderio e realtà, tra aspirazione e realizzazione e in me? Tollero forse uno spazio ambiguo e anonimo tra tenebre e luce, dove vado a rifugiarmi? Oppure ambisco la luce come esplosione del pensiero, degli affetti, delle relazioni, dell’agire? La mia parola è sempre univoca o la manipolo a seconda delle circostanze e delle convenienze. In questo contesto cosa significa per me: imitare Dio?
«Ininterrottamente»
Ci chiediamo: perché pregare? Paolo supplica i Tessalonicesi di «pregare ininterrottamente, in ogni cosa fate eucaristia (= rendete grazie): questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1Ts 5,17-18). Comprendo che Paolo pone sullo stesso piano preghiera, eucaristia, volontà di Dio e Gesù Cristo? Da ciò si deduce che pregare vuol dire imparare a fare della vita un’eucaristia se vogliamo vivere la volontà di alleanza del Padre che ha il volto di Gesù. Ciò avviene giorno per giorno, ora dopo ora, passo dopo passo e deve durare tutta la vita. Pregare è imparare a capire la volontà di Dio che è il regno suo esteso a tutti, vivendo le relazioni con ogni essere umano sulla filigrana della vita di Gesù. Qui espressamente si descrive la preghiera come «stato permanente» e non come serie di «momenti» spezzati: la vita non è a singhiozzo, perché il respiro è costante, continuo, incessante, non a spizzichi e bocconi. Se respirassimo in maniera sincopata moriremmo. Se preghiamo ogni tanto (prego al mattino, prego alla sera), vuol dire che nel frattempo siamo fuori della volontà di salvezza del Padre.
In mare col fantasma
Occorre imparare la disponibilità orante per essere sempre in «stato di preghiera», come Gesù nel brano di Matteo che preghiamo ora. Nel prossimo numero di MC ricaveremo alcune direttive per imparare a pregare meglio.
Dal Vangelo di Matteo 14,22-33:
[Dopo che la folla ebbe mangiato], 22e subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. 23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. 24La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, Io-Sono, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».
Il brano inizia in modo inconsueto per Matteo che qui mantiene un’espressione tipica di Marco: «e subito», quasi a volere dare immediatezza a quanto sta accadendo, coinvolgendo nell’azione il lettore. L’avverbio di tempo lega il racconto precedente (Gesù sfama la folla) al seguente (Gesù allontana i discepoli e resta solo) e ci trasporta come per magia da un contesto di massa a uno di solitudine e preghiera. Solo due volte Matteo presenta Gesù in atteggiamento di preghiera: qui e nel giardino del Getsèmani (cf Mt 26,36), quasi a custodire gelosamente l’intimità col Padre che nessun occhio indiscreto dovrebbe mai violare. È, infatti, impensabile anche immaginare che Gesù non abbia bisogno di pregare perché, essendo Dio, «cresceva in sapienza… e grazia davanti a Dio» (Lc 2,52).
Per lui, uomo reale in cerca della volontà di Dio che scopre lentamente, giorno per giorno, la preghiera doveva essere abituale e consueta per verificare la profondità della sua adesione al volere del Padre. Egli pregava anche oltre i ritmi ufficiali della liturgia in sinagoga che pure frequentava (Mt 12,9; 13,54; Mc 1,21.23.29…; Lc 4,16/20.28.38.44…; Gv 18,20). Rimasto nella pienezza della sua solitudine, prima di raggiungere i discepoli, Gesù si ritira a pregare sul monte da solo per individuare il «dove» della sua esistenza e le ragioni del suo andare.
Curiosità
Secondo la tradizione il monte sul quale Gesù si ritira in preghiera sarebbe il monte delle «beatitudini» (cf Mt 5,1) da dove Gesù proclama le coordinate del regno dei cieli (cfr. Alberto Mello, Evangelo secondo Matteo, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano [BI] 1995, 271-272).
Valle Pesio, Marguareis
Il pendolo: dalla folla verso il monte
Per pregare, Gesù compie due gesti: «costringe» i discepoli a salire sulla barca, quasi fosse un ovile protettivo, che per Mt potrebbe essere «la Chiesa», di cui la barca è immagine. In secondo luogo, deve congedare la folla perché ha obiettivi solo materiali: il miracolo a buon mercato, il pane abbondante, insomma mangiare. La folla non sarà mai una comunità. Si può stare insieme nello stesso luogo, per lunghi tempi, dire e fare le stesse cose, ma non essere comunità: la folla è massa indistinta dove ognuno persegue interessi individuali e si aggrega per piegare gli altri al proprio bisogno; essa è anche capace di vendere Dio e la madre a prezzi di saldi. Monasteri e comunità, con anni e decenni di convivenza, possono essere «una folla», fatta da un «insieme di solisti». La comunità eucaristica, al contrario, è un popolo, per sua natura interdipendente, perché ciascuno è parte di un tutto, tanto che l’intera comunità/popolo è presente in ciascuno dei suoi componenti e ogni suo singolo membro è «sacramento» di comunione perché con il proprio limite ne esprime la pienezza e lo splendore. Ognuno è visto e sperimentato come la parte migliore dell’altro, sia come singole persone, sia come comunità nel suo complesso. Tutto ciò vale anche per le coppie sposate, per una famiglia che condivide il cammino di fede, per due amici, due amiche, per quanti cioè cercano il cielo e trovano la profondità dell’essere che ha il volto di Dio, presente nelle persone incontrate sul cammino. Per tutti è indispensabile la preghiera che non è un debito verso Dio, ma un progetto da realizzare, un metodo di una visione, un sogno da sperimentare, una prassi così impellente da diventare ancora di più desiderio desiderato. Per tutti è essenziale diventare, per grazia e per scelta, come Francesco di Assisi che «non era tanto uno che pregava, ma lui stesso era preghiera». Rileggiamo il testo con animo sapienziale, cioè lasciandoci visitare dalle singole parole come messaggeri di Dio che vengono a stimolarci e a consolarci.
Mt 14,22: «[Dopo che la folla ebbe mangiato], 22subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca
e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla».
I verbi importanti sono: costringere, salire, precedere, congedare.
Prego in modo spontaneo e abituale, oppure mi devo costringere a salire sul monte della preghiera, perché dominato dalla noia? Cosa mi trattiene dal salire in alto? A volte è necessario precedere il Signore e quindi separarsi da lui, senza staccarsene, per aspettarlo. Sono consapevole che la separazione è parte della dinamica di relazione?
La separazione comporta anche scegliere da soli, inventare, decidere, valutare, discernere. Oppure ho sempre bisogno di qualcuno che mi dica cosa devo essere e fare? Se fosse così, non penso che lo Spirito sia superfluo? Nei monasteri come si concilia questo con l’obbedienza? Ho mai preferito essere un anonimo tra la folla del mio ambiente per non essere disturbato o costretto a fare tagli forse dolorosi?
Mt 14,23: «23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare.
Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo».
In questo versetto restano due verbi del precedente e se ne aggiungono altri nuovi: congedare, salire + pregare, stare. Mt usa la stessa espressione che l’autore dell’Esodo usa per Mosè: «Mosè salì verso il monte di Dio, e Dio lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai…”» (Es 19,3). Mosè sale verso il monte di Dio, Gesù sale solo verso il monte. Mosè sale per ascoltare Dio, Gesù sale per pregare. Mosè riceve, Gesù vive.
Per salire sul monte, bisogna andare in alto, segno che la folla stava in basso. Qual è il mio basso, qual è il mio alto? Ho un monte come mio progetto e orizzonte? Per Gesù pregare è stare sulla Parola per imparare a essere se stesso (Gv 8,31). Ho un monte dove posso stare senza ansia e angoscia?
Mt 14,24-25: «24La barca intanto distava già molte miglia da terra
ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare».
La Chiesa, la comunità, la famiglia, la scuola, il lavoro… la vita non è una barca ancorata in una rada dove si possa tranquillamente prendere il sole oziando. La barca è distante dalla riva e le onde la rendono insicura, anche perché c’è la possibilità che il vento soffiando al contrario aggravi la situazione. Credere non è una garanzia dai pericoli e dai rischi della vita. Perché il Signore non mi viene in aiuto? Io prego e tutto mi va male, mentre quello là non crede, non va mai in chiesa e le cose gli vanno a gonfie vele. Cosa ho fatto di male al Signore per meritare questa ingiustizia?
Pregare è la scuola dove impariamo a purificare questo modo pagano e miscredente di concepire Dio. Chi pensa così vede Dio come una macchinetta automatica che funziona a comando con una moneta. Non abbiamo garantita la tranquillità; le onde, il vento e l’agitazione del mare restano per noi e per tutti: «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), di cui il credente assume pesi e presenze: «portate i pesi» (Fil 2,1) e «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28).
Mt 14, 26: «26Vedendolo camminare sul mare,
i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura».
Egli garantisce la «presenza», anche se bisogna aspettare tutta la notte, perché giunge camminando sulle acque, correndo anche lui il rischio che noi lo scambiamo per un «fantasma», cioè una parvenza inconsistente, un nulla, un vuoto.
Pregare è imparare a riconoscere la presenza del Signore negli eventi della vita, nelle avversità, nel vento contrario, nel mare agitato, nella calma della bonaccia. Spesso Dio è un «fantasma» che agita il nostro sonno perché lo vorremmo magico, a nostra disposizione, ai nostri ordini, a «nostra immagine e somiglianza». In questo senso pregare è «illimpidirsi lo sguardo» perché essa ci insegna a purificare Dio da ogni vacuità-fantasma, da ogni segno di idolatria e ci educa a stare con lui «sull’altra riva», cioè sulla riva della consapevolezza, del discernimento e del dubbio, quello che anima la fede. Stare accovacciati sulla soglia della paternità per essere sempre pronti a coglierne le sfumature di tenerezza e di amabilità. L’Eucaristia è la scuola principe dove impariamo tutto questo, se non la trasformiamo in un fantasma di passaggio.
Mt 14,27-33: «27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, Io-Sono, non abbiate paura!”. 28Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. 29Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”».
Ancora un avverbio di tempo di immediatezza e coinvolgimento (subito) che elimina le distanze, azzera la paura: «Coraggio, Io-Sono». Il coraggio sta nell’identità. Non è esatto tradurre «Sono io» scialbo e banale. Mt usa il greco «Egô Eimì» che è il nome con cui nella Bibbia greca della LXX, traducendo il corrispettivo ebraico, «Yhwh» si presenta a Mosè sul Sinai. La preghiera non mette davanti alla «divinità», ma immerge nell’abisso dell’identità del Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, il Dio dei volti e dei nomi, il Dio dell’esodo, il Dio della storia e della liberazione, il Dio che «scende» in mezzo alle schiavitù per spezzare le catene e rendere la pienezza della libertà col codice dei comandamenti. Il Dio della mia vita.
È questa libertà che fa camminare Pietro sulle acque, anche se egli è incompleto e imperfetto, tanto da rischiare di affondare. «Signore, salvami». Non dice «Dio», ma «Signore», parola che solo dopo la risurrezione è abituale tra i discepoli e che è il fondamento della professione di fede, urlata dal pagano centurione romano che «avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39).
La libertà e la morte di Dio sono il fondamento della sua alleanza e della sua volontà di salvezza. Quando preghiamo, Dio irrompe nella nostra vita e noi assumiamo la storia di Dio per farne la nostra quotidianità, mentre offriamo la nostra ordinaria esistenza per farne la salvezza di Dio che egli sparge sul mondo intero.
Nel pregare, quale atteggiamento vivo? Di sfida a Dio o di fiducia e confidenza? Quando prego, riesco a vedere la mano che il Signore mi tende? Mi lascio afferrare? O preferisco fare da me rischiando di affondare? O preferisco la palude delle grette banalità? Sono consapevole che per fare cessare il vento, è indispensabile essere «sulla barca» con lui?
Conclusione
In sintesi, per pregare bisogna passare dallo stato di «massa/folla» a quello di persona cosciente, passaggio che può avvenire anche attraverso una costrizione; è necessario salire dal basso verso l’alto; non basta salire, occorre salire sul monte, cioè al «luogo di Dio»; occorre sapere stare soli, anche a lungo, fino a sera, sapendo che la solitudine è coscienza di sé a differenza della solitarietà che è chiusura in sé; pregare è perdere tempo per e con la persona amata, qui Dio, Padre, amico compagno. Gesù perde tanto del suo tempo con il Padre suo: pregare per lui non è fuggire dalla vita, ma immergersi in essa per coglierne la trama intessuta di Dio. Gesù domina le acque e salva Pietro: nella preghiera noi impariamo a gestire la nostra vita per condividerla con la comunità, la Chiesa e il mondo per farne un dono a Dio che ce la restituisce in benedizione e santità. Insegnava un santo monaco che per entrare nello spirito della regola monastica non basta un paio d’anni di noviziato, ma occorrono cinquant’anni di vita di osservanza di essa per cominciare a respirarne lo spirito. Solo dopo può iniziare il noviziato, cioè l’ingresso nella vita monastica. Per la preghiera è lo stesso: non basta qualche preghiera, sparsa qua e là, occorre una vita di preghiera per imparare a respirare all’unisono col Padre, il Figlio e lo Spirito, affinché in punto di morte, si possa dire: Amen, oh, sì, eccomi! Ora so pregare perché sono orante.
Paolo Farinella, prete
[14, continua]
Il dilemma della moneta
Testo di Francesco Gesualdi |
Alla fine degli anni Ottanta l’Europa ha virato verso un’impostazione economica neoliberista che riconosce il mercato come la sola legge e le imprese come gli unici attori. Questa impostazione ha permeato anche l’architettura della moneta unica: l’euro è nato non come strumento di servizio pubblico, ma come strumento di lucro.
Nel dopo guerra le imprese europee fecero la scelta della Comunità economica europea (Cee) come strategia per allargare il proprio mercato e dotarsi, nel contempo, di una politica comune nei confronti del resto del mondo. Inevitabilmente, a un certo punto del processo di integrazione, si pose il problema della moneta, perché monete diversificate rappresentano un freno per il commercio. La moneta, però, è un tema molto delicato che a seconda di come è gestito può favorire i forti contro i deboli, la finanza contro l’economia reale, il mondo degli affari contro lo stato sociale, o tutto il contrario. In altre parole, la moneta è come un mezzo di trasporto che, a seconda di come è strutturato, può diventare un carro armato per fare la guerra o un autobus per andare in vacanza. Per cui non si può capire la moneta se prima non si chiarisce da quali principi è animato il potere che ci sta dietro e quali fini persegue.
La perdita di centralità dello stato
Di moneta unica in Europa si cominciò a discutere seriamente negli anni Ottanta, quando in tutta l’area stava cambiando il vento politico. Da un’impostazione socialdemocratica che riconosce allo stato il compito di pilotare l’economia con l’obiettivo di raggiungere la piena occupazione, di superare le disuguaglianze e di garantire a tutti il godimento dei servizi essenziali, si stava passando a un’impostazione neoliberista che riconosce il mercato come unica legge e le imprese come soli attori economici. Come dire che tutto deve essere regolato dalla concorrenza e dalla legge della domanda e dell’offerta, mentre lo stato va ridotto a mero gestore di tribunali, polizia ed esercito, senza alcuna funzione economica. Questo cambio di vento influenzò profondamente l’architettura dell’euro.
Nel 1988, Jacques Delors, politico francese ex-presidente della Commissione europea, venne incaricato di elaborare una proposta di moneta unica. Delors sapeva che ci sono due modi per governare la moneta: uno come servizio pubblico, l’altro come affare su cui lucrare. Il primo vede come gestore lo stato che si ispira a criteri di gratuità e promozione sociale. Il secondo vede invece come gestore il sistema bancario che si muove secondo il principio del profitto.
La gestione pubblica
La logica della gestione pubblica, di tipo gratuito e socialmente orientata, si contraddistingue sia per la quantità di denaro messo in circolazione, sia per i canali utilizzati per iniettare nel sistema economico la liquidità aggiuntiva.
Per quanto riguarda la quantità, non viene valutato solo il denaro che serve per soddisfare il livello di scambi esistenti. Si fa anche un’analisi della situazione socio-economica per capire se ci sono problemi da risolvere e – nel caso si giunga alla conclusione che c’è un’alta disoccupazione, molti bisogni collettivi da soddisfare, un livello produttivo insoddisfacente – si può decidere di dare una sferzata al sistema con l’emissione di nuova moneta da utilizzare per pagare nuovi salari in ambito pubblico, o per finanziare investimenti pubblici e privati. Questo genere di operazione, che si concretizza attraverso l’apertura di debito pubblico di tipo virtuale, può esporre al rischio di inflazione, ma – se condotta con equilibrio, in associazione con altre misure – non produce effetti mostruosi e quelli che produce sono comunque più accettabili dei problemi sociali irrisolti.
Parlando di quantità, va tenuto presente che il sistema economico può crescere anche per meccanismi propri e quando succede ha bisogno di nuovo denaro per non rimanere frenato. Lo stato che ha sovranità monetaria ed è al servizio dei cittadini amplia l’emissione di moneta e la immette nel sistema economico tramite il pagamento dei salari dei propri dipendenti, delle pensioni, degli acquisti di beni e servizi. In questo modo la massa monetaria si adegua alle accresciute esigenze del sistema in maniera silente e senza aggravio per nessuno, anche se apparentemente lo stato ha aperto un debito. Ma è con se stesso, quindi è nullo.
La gestione privatizzata
La logica della gestione privata concepisce il denaro come una merce da vendere per trarre profitto. Per cui la produzione di moneta è gestita dal sistema bancario con criteri opposti a quelli dello stato. Primo: ha interesse a mantenere la penuria di moneta, piuttosto che l’abbondanza, perché è nella scarsità che si possono imporre tassi di interesse più alti. Secondo: immette nuova liquidità a pagamento perché il principale canale che usa per aggiungere denaro al sistema è quello del credito su cui pretende un tasso di interesse. E poiché il sistema bancario è capace di emettere moneta dal niente, le banche godono del privilegio (assurdo) di poter incamerare ricchezza reale in cambio di un servizio virtuale di cui non hanno alcun merito. Una forma di arricchimento che non si può definire latrocinio solo perché è parassitismo legalizzato.
Su pressione delle forze liberiste che ormai dominavano la scena politica in tutta Europa, Jacques Delors non prese neanche in considerazione l’ipotesi della gestione pubblica dell’euro ed elaborò una proposta di gestione da parte del sistema bancario privato che poi diventò la base per la trattativa finale. In capo a qualche mese venne raggiunto un accordo definitivo, subito inserito nel trattato di riforma dell’Unione europea che venne firmato a Maastricht, Olanda, il 7 febbraio 1992.
Con i suoi 252 articoli, 17 protocolli e 31 dichiarazioni, il Trattato definisce il nuovo assetto organizzativo dell’Unione europea e le condizioni che gli stati debbono rispettare per esservi ammessi. Varie parti sono dedicate all’impianto organizzativo della moneta unica e fin dai primi passaggi si percepisce la volontà di tenerla completamente fuori dalla sfera d’influenza del potere politico. Per cominciare la moneta nascente è affidata alle cure di un’istituzione nuova di zecca, la Banca centrale europea (Bce), di fatto una società per azioni, i cui azionisti sono le banche centrali di tutti i paesi aderenti all’Unione europea (scheda). Ma non si capisce la vera natura della Banca centrale europea, se non si precisa che le banche centrali nazionali altro non sono che strutture possedute dalle banche private. La Banca d’Italia, ad esempio, è posseduta da 124 azionisti, quasi tutti istituti bancari e fondazioni bancarie, su cui spicca Intesa Sanpaolo e UniCredit (scheda).
Mario Draghi – European central Bank
Diversità tra Bce e Fed
Il carattere neoliberista dell’Unione europea, emerge non solo dalla decisione di affidare il governo dell’euro al sistema bancario privato, ma anche dai compiti assegnati alla Bce. Se esaminiamo i compiti assegnati alla Federal Reserv (Fed), la Banca centrale statunitense, notiamo che al primo posto c’è il perseguimento della piena occupazione («to promote maximum employment»). In Europa, invece, l’unico compito assegnato alla Banca centrale è la stabilità dei prezzi, ossia il mantenimento del valore dell’euro. Nella prossima puntata di questa rubrica, vedremo come tale scelta abbia avuto effetti profondi sulla gestione del debito pubblico e quindi sulle condizioni sociali dei paesi europei. Ma intanto conviene riflettere su un’altra scelta effettuata dall’Unione europea: quella di «agire in conformità con il principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza».
Accettare che il rapporto fra le imprese sia regolato solo dalla concorrenza, è come decretare la morte di quelle più deboli. E quando si adotta la stessa moneta senza alcun tipo di salvaguardia, le imprese dei paesi più deboli rischiano grosso perché adottare una moneta unica è come aprire le gabbie dello zoo: le bestie più grosse possono entrare con maggiore facilità nelle gabbie delle bestie più deboli e prendersi il loro cibo. Fuori di metafora, con una moneta unica, le imprese più solide possono sottrarre mercato alle imprese più deboli con maggiore facilità, perché possono fare prezzi più bassi. Esattamente come è successo in Europa dove le imprese del Nord Europa, tecnologicamente più avanzate, hanno potuto penetrare con più facilità in tutto il mercato europeo, mettendo in seria difficoltà le imprese meno efficienti del Sud Europa comprese quelle italiane. Un disagio che si è fatto ancora più acuto con la crisi scoppiata nel 2008, fino a suscitare una vera e propria avversione verso l’euro.
Avversione raccolta dal partito della Lega, che in nome della difesa di tutto ciò che è italiano ha riscosso molti consensi alle elezioni politiche del 4 marzo 2018.
Uscire dall’euro?
In nome delle difficoltà create alle imprese nazionali, molti propongono addirittura di uscire dall’euro, in modo da recuperare la possibilità di svalutare e riuscire, per quella via, a colmare lo svantaggio competitivo esistente sul piano tecnologico.
Questa tuttavia è solo una parte del dibattito possibile sull’euro. La discussione va inevitabilmente integrata con tutta la partita legata al tema del debito pubblico. Un aspetto che sicuramente introduce altri elementi di complicazione, ma che forse può permetterci di trovare soluzioni che ci facciano evitare il rischio di voler cambiare tutto affinché niente cambi.
Francesco Gesualdi
Per un mondo di Stephen Hawking
Testo di Rosanna Novara Topino |
Si stima che in Italia ci siano 4 milioni di disabili (80 nell’Unione europea). Nonostante le normative non manchino, nei loro confronti c’è ancora discriminazione e isolamento. Scuola e lavoro sono gli ambiti dove occorre fare di più. Senza dimenticare le difficoltà economiche delle famiglie costrette a supplire alle carenze dello stato.
Lo scorso 14 marzo è scomparso Stephen Hawking, il grande matematico e astrofisico inglese costretto da 55 anni su una sedia a rotelle a causa di una gravissima forma di malattia del motoneurone (inizialmente diagnosticata come sclerosi laterale amiotrofica). Da diversi anni, inoltre, non aveva più possibilità di parlare in seguito a un intervento di tracheotomia eseguito per salvarlo da una grave forma di polmonite. Nonostante una vita irta di enormi difficoltà, la sua mente è stata però capace di compiere studi tali da arrivare ad approfondire teorie scientifiche, che hanno rivoluzionato l’astrofisica e la cosmologia: la teoria del big bang e dell’espansione dell’universo, il principio di indeterminazione, la termodinamica dei buchi neri e l’esistenza non di un solo universo, ma di moltissimi, quindi di un multiverso. Tra le tante riflessioni che la sua opera ci impone, una in particolare riguarda l’enorme potenziale racchiuso nella mente di una persona così grandemente limitata nel fisico dalla malattia e dalla disabilità. Questo dovrebbe essere un monito per spronare il governo di ogni nazione a mettere in atto tutte le misure possibili per rendere migliore la vita dei disabili, in modo che essi siano in grado di esprimere tutte le loro potenzialità. Quasi sempre invece si parla di uguaglianza dei diritti per tutti, si fanno campagne contro le discriminazioni di genere, etnia, religione, orientamento sessuale, ma puntualmente ci si arena di fronte alle particolari esigenze che i vari tipi di «diversità» presentano. Si accampano spesso ostacoli di natura economica alla eliminazione delle barriere di ogni tipo, che, permanendo, comportano un’autentica discriminazione e molto spesso l’isolamento delle persone disabili. Troppo spesso i disabili sono invisibili, se non addirittura un peso per la società.
Non è un paese per disabili
Secondo l’Onu, l’Italia, che conta oltre 4 milioni di disabili (si tratta di un valore stimato, poiché non ci sono dati certi a riguardo), non è un paese a misura di disabile per diverse ragioni tra cui l’esiguità dei fondi messi a disposizione, il clima discriminatorio, le barriere architettoniche, le disuguaglianze in campo occupazionale, sanitario e scolastico.
Nel nostro paese, il 12 dicembre 2017 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, che rappresenta il punto di arrivo del lavoro svolto dall’Osservatorio nazionale sulla disabilità. Nonostante il formale riconoscimento dei diritti dei disabili e i programmi che vengono stilati per loro in ogni settore – dalla scuola ai trasporti, dal mondo del lavoro alla sanità – permangono gravi carenze e spesso assistiamo addirittura ad una retrocessione per alcuni diritti, che sembravano dati per acquisiti.
La scuola e i docenti
Un esempio di diritto dei disabili sancito dalla Costituzione, ma spesso disatteso è quello all’istruzione e in particolare al sostegno, sebbene il sistema scolastico italiano sia apprezzato in tutto il mondo per quanto riguarda l’inclusione degli studenti disabili.
Secondo i dati Istat, nell’anno scolastico 2015-2016 nella scuola primaria c’erano 88.281 alunni con diverse forme di disabilità (3% del totale), mentre nella scuola secondaria di primo grado erano 67.690 (4% del totale). Si stima che l’8% degli alunni disabili della scuola primaria non sia autonomo in alcuna delle seguenti attività: spostarsi, mangiare, andare in bagno. Nella scuola secondaria di primo grado, tali alunni rappresentano il 6% degli alunni disabili. In entrambi gli ordini scolastici considerati, le forme prevalenti di disabilità sono quella intellettiva, i disturbi dell’apprendimento e quelli dello sviluppo, che sono presenti nel 2,1% degli studenti. Secondo il Miur (Ministero dell’istruzione, università e ricerca), gli insegnanti di sostegno assegnati per l’anno scolastico 2017-2018 sono stati 150.000 – di cui però 47.000 in deroga – per 243.840 alunni disabili (1 ogni 1,6 alunni) nelle scuole statali di ogni ordine e grado.
Il maggior numero di ore di sostegno settimanali in media si registra nelle regioni del Mezzogiorno. Circa l’8% delle famiglie di alunni disabili della scuola primaria e il 5% della secondaria di primo grado hanno presentato ricorso al Tar, nel corso degli anni, per ottenere l’aumento delle ore di sostegno. A seguito di tali ricorsi e delle successive decisioni amministrative dell’ultimo momento, sono stati nominati gli insegnanti in deroga di cui sopra, che non erano previsti sulla carta, ma che di fatto si sono rivelati indispensabili per potere avviare l’anno scolastico. Purtroppo, sistematicamente non vengono assegnate in prima battuta tutte le ore di sostegno necessarie allo sviluppo e all’educazione dei ragazzi, così le famiglie sono costrette a fare ricorso per chiedere un’integrazione, che spesso comporta il raddoppio delle ore concesse inizialmente e la trasformazione di una «mezza» cattedra di sostegno in una intera, con un esborso stimato per le casse statali di circa 300 milioni di euro. Quest’ultimo perché ogni famiglia, a cui sia stata accolta la richiesta di aumento delle ore di sostegno, ha diritto a un risarcimento di 1.000 € per ogni mese di assenza dell’insegnante di sostegno, a partire dalla notifica del ricorso (in media 3 mesi), più il risarcimento delle spese legali, per un totale di circa 5.000 € a famiglia. Tutto questo è capitato perché nell’assegnazione degli insegnanti di sostegno si è fatto riferimento a dei limiti di assegnazione risalenti al 2007, che non sono più stati rivisti, mentre nel frattempo è aumentato il numero dei disabili riconosciuti.
Secondo il rapporto del Censis del 1° dicembre 2017, gli alunni disabili iscritti alle scuole materne, elementari e medie sono aumentati negli ultimi 10 anni del 26,8%, mentre alle superiori l’incremento è stato del 59,4%. Il maggiore incremento si è registrato nel Mezzogiorno, con 38,3% tra i più piccoli e 42,2% tra i più grandi.
Un altro problema, soprattutto per i ragazzi disabili, è dato dal fatto che non solo si ritrovano a cambiare spesso gli insegnanti di sostegno, ma questi ultimi, se reclutati all’ultimo momento, spesso sono precari o non hanno l’abilitazione al sostegno. Questo perché il ministero ha dato la possibilità, in caso di esaurimento delle graduatorie dei docenti specializzati, di coprire i posti di sostegno con insegnanti non abilitati, iscritti nelle graduatorie di circolo o di istituto o con insegnanti di classi di concorso in esubero o in assegnazione provvisoria. È chiaro che tutto questo si traduce in una carenza di recupero delle disabilità, soprattutto quelle intellettive.
L’assurdo declino del braille
Tra le criticità dell’insegnamento di sostegno presenti nella scuola italiana c’è quella della scarsa formazione – specifica sulle singole disabilità – del personale scolastico (sia insegnanti specializzati, che curricolari). Ciò è particolarmente evidente nel caso della scarsissima (o assente) «competenza tiflologica» nell’ambito della disabilità visiva, cioè sono pochi gli insegnanti che conoscono il braille, il sistema di scrittura per i ciechi, e l’apparato tecnologico e didattico indispensabile per l’insegnamento a questo tipo di disabili. La mancanza di queste conoscenze da parte degli insegnanti, degli educatori e degli operatori scolastici aggrava l’handicap dell’allievo ipovedente, isolandolo di fatto dal contesto degli altri e oscurandone le reali potenzialità. Questo è un problema non da poco, se pensiamo che in Italia i non vedenti in età scolare sono circa 2.600 (molti purtroppo pluridisabili, come i sordociechi).
Per questi ragazzi è fondamentale imparare il braille e potere comunicare con i propri insegnanti con questo metodo. In Italia attualmente, stiamo assistendo al fatto che, sia per la difficoltà di integrazione scolastica, sia per la facilità di utilizzare i mezzi di comunicazione con voce digitale, molti giovani non vedenti si allontanano dall’apprendimento del codice braille, risultando così di fatto analfabeti e questo non può che ripercuotersi negativamente sulla loro vita futura, soprattutto a livello lavorativo.
Basta pensare al fatto che alla fine degli anni ’80, quando erano molto più numerose le persone non vedenti che conoscevano e utilizzavano il braille, in Italia c’erano un migliaio di insegnanti, 1.300 massofisioterapisti, 800 professionisti (soprattutto avvocati) e circa 9.000 operatori telefonici ciechi, mentre attualmente è rimasto qualche migliaio di operatori telefonici, il numero di avvocati e di insegnanti è circa un centinaio e abbiamo qualche centinaio di massofisioterapisti. Tra l’altro il codice braille potrebbe essere utilizzato anche per le schede elettorali, in modo da rendere più autonomi gli elettori ciechi, che adesso votano solo con il sistema del voto assistito. Per ovviare alla mancata conoscenza del braille da parte del personale scolastico, recentemente l’Irifor (Istituto per la ricerca, la formazione e la riabilitazione) dell’Uici (Unione italiana ciechi e ipovedenti) ha approvato un corso di aggiornamento di tiflologia di 200 ore e uno di formazione di 600 ore attivati sulla piattaforma e-learning dell’istituto.
Lo scandalo mobilità
Oltre al sistema scolastico, anche quello dei trasporti in Italia presenta notevoli criticità per i disabili. Basta pensare alle barriere architettoniche presenti in molte stazioni ferroviarie, dove spesso mancano gli ascensori, oppure al fatto che nelle carrozze ferroviarie dedicate al trasporto di persone disabili è possibile imbattersi in pedane sollevatrici nuovissime, ma inutilizzabili a causa di qualche cavillo burocratico, che ne impedisce l’uso. Per i disabili che devono viaggiare, la Rfi (Rete ferroviaria italiana) ha predisposto il servizio Sala blu, che permette di prenotare l’assistenza al viaggio. Nel caso non ci siano convogli attrezzati su una certa tratta, però, il disabile non può viaggiare perché, per ragioni di sicurezza, la normativa vigente in materia dice che non può salire su convogli non adibiti al trasporto di sedie a rotelle.
Salute e lavoro
La situazione non è certa migliore per quanto riguarda la salute. I dati dell’Osservatorio nazionale sulla salute delle regioni italiane dicono che lo stato fisico e quello psicologico dei disabili sono peggiori rispetto al resto della popolazione. In particolare, le loro condizioni di salute sono più precarie a causa del mancato accesso alle cure previste dai Lea (Livelli essenziali di assistenza). Sono molte infatti le famiglie italiane che, vivendo in difficoltà, non riescono ad ottenere né visite mediche, né trattamenti a domicilio. Si stima che il 14% dei disabili rinunci alle cure, rispetto al 3,7% della popolazione. Questo dato è più alto nel Mezzogiorno dove troviamo una percentuale del 30% in Puglia e del 22% in Calabria.
Per quanto riguarda il mondo del lavoro, solo il 18% dei disabili italiani risulta occupato, contro il 58,7% del resto della popolazione. In particolare, solo il 23% degli uomini disabili è occupato (contro il 71,2% dei normodotati), mentre le donne disabili occupate sono il 14% del totale (contro il 46,7% delle normodotate).
Da questi ultimi dati risulta per le donne disabili una doppia discriminazione, in quanto donne e in quanto disabili, ma questo non è tutto. Nel 2015, con il convegno «Fiori recisi», l’Uici volle mettere in evidenza la drammatica realtà delle violenze subite dalle donne disabili e il fatto che alcune donne sono diventate disabili in seguito alle violenze subite.
Le difficoltà economiche
Tra le varie difficoltà incontrate dai disabili italiani ci sono infine quelle economiche, poiché per loro è spesso difficile disporre di un reddito e le famiglie con persone disabili mediamente dichiarano un reddito inferiore rispetto alle altre. Del resto, i disabili, per avere una qualità di vita accettabile devono spendere di più dei normodotati per assistenza, apparecchi sanitari, dispositivi medici, ecc. A questo si aggiunge il fatto che il welfare italiano si basa ormai prevalentemente sulle famiglie che, nell’assistenza ai disabili, sostituiscono lo stato e che spesso per questo arrivano a indebitarsi. Questo è vero soprattutto con la fine del ciclo di studi, quando molti disabili non vengono inseriti nel mondo del lavoro e finiscono in una condizione di invisibilità a carico della loro famiglia, che si impoverisce per sostenere i costi del loro mantenimento e che diventa sempre più anziana. Del resto, le aziende, pur essendo obbligate ad assumere persone disabili, preferiscono pagare una multa, piuttosto di assumerle.
Vedere oltre
Quanto visto finora è una descrizione sicuramente non esaustiva sia delle tante forme di disabilità, sia delle difficoltà affrontate quotidianamente dalle persone disabili, ma vuole essere un invito a riflettere sul fatto che tutti hanno diritto ad una vita dignitosa e, soprattutto, che anche in presenza di gravi disabilità, le persone possono avere enormi potenzialità. È nostro dovere aprire la mente e vedere oltre la disabilità.
Rosanna Novara Topino (settima puntata – Fine)
Trump e Brexit, effetti sulla cooperazione
testo di Chiara Giovetti |
A un anno e mezzo dall’insediamento di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti, la comunità internazionale guarda con preoccupazione alle dichiarazioni della Casa Bianca circa le intenzioni di tagliare la spesa per l’aiuto allo sviluppo. E tiene d’occhio i possibili effetti della Brexit.
«Ci sono nazioni che prendono da noi miliardi di dollari e poi ci votano contro. Lasciate che facciano, risparmieremo un sacco di soldi. Non ci importa»@. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato lo scorso dicembre il voto in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dichiarava nulla e priva di effetto la decisione della Casa Bianca di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
Le dichiarazioni del presidente hanno fatto seguito a quelle di Nikki Haley, ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite che, dopo aver posto il veto – lei sola su quindici votanti – all’adozione della risoluzione contro Trump in Consiglio di sicurezza, non aveva esitato a commentare: «Ciò a cui abbiamo assistito qui oggi è un insulto. Non lo dimenticheremo»@.
E aveva poi affidato a Twitter una ulteriore precisazione: «Ci segneremo i nomi dei paesi che prima ricevono il nostro aiuto e poi votano contro di noi»@.
Queste frasi di Trump e della Haley illustrano una delle linee che l’aiuto allo sviluppo statunitense pare voler seguire, quella di aiutare gli amici. In un documento riservato visionato dalla rivista Foreign policy, lo staff di Haley cita tre progetti finanziati dagli Stati Uniti che «sarebbe il caso di rivedere alla luce dello scarso supporto alle posizioni statunitensi in sede Onu» da parte dei paesi beneficiari. Si tratta di un progetto di formazione professionale in Zimbabwe da 3,1 milioni di dollari, di un programma di lotta al cambiamento climatico in Vietnam (6,6 milioni) e della costruzione di una scuola in Ghana (4,9 milioni). I tre stati, che nel 2016 dagli Usa hanno ricevuto complessivamente 580 milioni di dollari, hanno appoggiato Washington rispettivamente nel 54, 38 e 19 per cento dei casi. Troppo poco per essere considerati veri amici.
C’è poi una seconda linea che l’amministrazione statunitense sembra voler imporre alla propria cooperazione allo sviluppo, sia bilaterale che multilaterale: quella di tagliare drasticamente i fondi. Trump aveva già portato un affondo lo scorso settembre nel suo primo discorso alle Nazioni Unite: «Questa organizzazione», aveva affermato, «si è troppo spesso concentrata non sui risultati ma sulla burocrazia e sulle procedure». E, continuava, «in politica estera noi ribadiamo il principio fondante della sovranità. Il primo dovere del nostro governo è verso il nostro popolo, i nostri cittadini – per soddisfarne i bisogni, garantirne la sicurezza, preservarne i diritti e difenderne i valori»@.
A dicembre, ci ha pensato ancora una volta Nikki Haley a dare sostanza alle parole del presidente: «Le inefficienze e le spese eccessive delle Nazioni Unite sono note», ha affermato in un comunicato stampa, aggiungendo: «Non permetteremo più che si approfitti della generosità del popolo americano» o che il suo contributo venga usato in modo incontrollato. Per questo, annuncia Haley, gli Usa hanno negoziato una diminuzione del proprio contributo all’Onu di oltre 285 milioni di dollari, riducendo inoltre «le attività di gestione e di supporto gonfiate» e «instillando disciplina e responsabilità in tutto il sistema delle Nazioni Unite».
Ad alleggerire il clima non ha certo contribuito l’uscita di Trump – mai confermata ma nemmeno smentita – in cui il presidente ha chiamato Haiti, El Salvador e alcuni Paesi africani «postacci» (o meglio, shitholes, la cui traduzione letterale è decisamente meno elegante di quella usata qui). Ma la pietra tombale sull’aiuto allo sviluppo è la decisione di tagliare quasi del 30% le risorse per Dipartimento di stato e Agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), che sono appunto i principali enti dell’amministrazione statunitense attivi nella cooperazione.
Distribuzione di aiuti Usaid ad Haiti – AFP PHOTO / JEWEL SAMAD
Le richieste di Trump e la reazione del Congresso
Gli Stati Uniti sono il più grande donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo in termini assoluti, con quasi 34 miliardi di dollari su 143 del totale dei Paesi membri dell’Ocse (dati 2016). Come percentuale sul reddito nazionale lordo, tuttavia, l’aiuto statunitense è pari allo 0,18%, meno dell’Italia (0,26%) e molto meno del paese più virtuoso, la Norvegia, che investe in aiuto pubblico allo sviluppo l’1,11%, cioè anche più di quello 0,7% che sarebbe la soglia fissata nel 1970 dalle Nazioni Unite come obiettivo al quale tutti gli stati donatori dovrebbero tendere@.
Sugli oltre 4 mila miliardi del bilancio federale, spiega George Ingram del centro di ricerca Brookings, la quota riservata all’aiuto estero è pari all’1%@. In media, gli americani erroneamente pensano che quella quota arrivi addirittura al 25% anche se, puntualizza sempre la Brookings, la ragione dell’equivoco è in gran parte da ricercarsi nel fatto che per «aiuto estero» molti intendono anche la spesa militare@.
Nel 2017 il budget proposto da Trump per il 2018 prevedeva 25,6 miliardi di dollari per finanziare il Dipartimento di stato e Usaid, cioè una riduzione dei fondi ai due enti pari al 28%. Ma, osserva la rivista on line Quartz, confrontando la richiesta del presidente con quanto effettivamente approvato dal Congresso, il taglio di fondi risulta essere stato solo di mezzo punto percentuale, una cifra lontanissima dalla proposta dello Studio ovale. Ecco perché, continua Quartz, è prevedibile che la stessa cosa si verifichi anche quest’anno, nonostante lo scorso febbraio la Casa Bianca abbia chiesto di nuovo una riduzione simile (30%) dei fondi destinati a Usaid e Dipartimento di stato.
«Una forte coalizione bipartisan», ha dichiarato alla rivista Politico il repubblicano Ed Royce, che presiede il Comitato affari esteri della Camera dei rappresentanti, «ha già bloccato una volta questo tipo di tagli che avrebbero messo a rischio la nostra sicurezza nazionale. Quest’anno ci attiveremo di nuovo». La «draconiana» proposta di Trump, gli fa eco il collega democratico Eliot Engel, sarà «già morta al suo arrivo alla Camera»@.
La nave Liberty Grace noleggiata dal World Food Program (WFP) nel porto di Pot Sudan carica di cibo donato da Usaid – AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY
Tagli effettivi
Pur non avendo raggiunto l’ampiezza auspicata da Trump, una serie di tagli ci sono effettivamente stati. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), ad esempio, riceverà quest’anno dagli Stati Uniti solo 60 milioni di dollari invece dei 364 dello scorso anno. Il commissario generale di Unrwa, lo svizzero Pierre Krähenbühl, ha dichiarato all’agenzia Reuters che 525 mila bambine e bambini in 700 scuole gestite dall’agenzia potrebbero essere colpiti dal taglio dei fondi e che anche l’accesso dei palestinesi all’assistenza sanitaria di base è ora a rischio@. Inoltre, il provvedimento rischia di avere un impatto negativo anche sulla sicurezza della regione. «Se volete chiederci come facciamo a evitare che i giovani palestinesi si radicalizzino, la risposta non è tagliare 300 milioni di dollari dei nostri fondi», ha detto Krähenbühl al The Guardian@.
A sottolineare lo stesso rischio di instabilità e conflitto era stata nel febbraio del 2017 una lettera@ firmata da 120 generali e ammiragli statunitensi a riposo e diffusa attraverso la Us Global Leadership Coalition, una organizzazione no-profit con sede a Washington composta da aziende e Ong. «Il nostro servizio in uniforme ci ha insegnato che molte delle crisi che la nostra nazione affronta non hanno solo una soluzione politica», si legge nella lettera, che sottolinea anche quanto, in un mondo con 65 milioni di sfollati e grandi flussi di rifugiati, le agenzie per lo sviluppo siano «fondamentali nel prevenire il conflitto e nel limitare la necessità di mettere a rischio le vite dei nostri uomini e donne in uniforme». Gli alti ufficiali citano il generale James Mattis, l’attuale segretario della Difesa di Trump, che durante un’audizione al Senato nel 2013 disse@: «Se voi non finanziate pienamente il Dipartimento di stato, io alla fine sarò costretto a comprare più munizioni». Le forze armate, conclude la lettera, guideranno la lotta al terrorismo sul campo di battaglia, ma avranno bisogno di partner civili forti nella battaglia contro gli elementi che favoriscono l’estremismo: la mancanza di opportunità, l’insicurezza, l’ingiustizia e la disperazione».
Sulla stessa lunghezza d’onda sembra trovarsi Marcela Escobari, studiosa che collabora con Brookings, che cerca di controbattere all’affermazione con cui il Direttore dell’ufficio Gestione e Budget dell’amministrazione Trump, Mick Mulvaney, ha giustificato i tagli: «Per finanziare l’aiuto dovrei spiegare perché questa spesa ha un senso per una famiglia che vive a Grand Rapids, Michigan».
«Ecco che cosa direi a quella famiglia», risponde Escobari, che ha lavorato per vent’anni nello sviluppo ed è esperta in particolare di America Centrale: «quando i cartelli della droga sono in grado di controllare i governi locali, il 95 per cento dei crimini in quei paesi rimangono impuniti e i criminali possono trasportare droga negli Usa più facilmente. L’instabilità nella regione, inoltre, genera flussi migratori verso gli Stati Uniti e questi flussi sono composti specialmente da minori non accompagnati». Viceversa, una regione stabile e sicura continuerà a importare prodotti statunitensi. «Un calcolo approssimativo», continua Escobari, «mostra che gli Usa spendono fra i 29 mila e i 52 mila dollari per ogni migrante detenuto alla frontiera. Con quella cifra sarebbe possibile finanziare in America Centrale istituzioni che forniscano formazione professionale e uno spazio per il dopo scuola in grado di proteggere centinaia di adolescenti in quartieri dove la criminalità è più diffusa».
Popa d’acqua allestita in Sud Sudan dall’Usaid – AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY
L’aiuto allo sviluppo dopo la Brexit
Altro aspetto che la comunità internazionale sta osservando e cercando di prevedere è quello degli effetti della Brexit sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps). Mentre l’Unione Europea dovrà fare i conti con la dipartita di un membro che nel 2016 ha speso 13,4 miliardi di sterline in Aiuto per lo sviluppo (Aps) – cioè circa un quinto del totale Ue e il secondo maggior contributo a livello globale dopo gli Usa – l’effettiva uscita dall’Unione rimetterà a disposizione di Londra circa un miliardo e mezzo di sterline che sinora ha versato al Fondo europeo per lo sviluppo (Edf).
Bond, una rete di circa 450 organizzazioni della società civile britannica, in un articolo dello scorso agosto ha individuato tre tendenze che la Brexit potrebbe accelerare.
La prima è lo spostamento delle risorse dal DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale) ad altri dipartimenti, con particolare attenzione a quelli che promuovono un ruolo più attivo del settore privato nella cooperazione.
La seconda è un possibile aumento del volume di Aps dedicato agli investimenti, cioè a progetti di aiuto al commercio, come infrastrutture e rafforzamento delle capacità dal lato dell’offerta di cui i paesi in via di sviluppo hanno bisogno per connettersi ai mercati regionali e globali.
Resta solido l’impegno del Regno Unito a mantenere l’aiuto pubblico allo sviluppo allo 0,7%, anche se il primo ministro britannico Theresa May, nel confermare questo, ha anche precisato che «il Governo dovrà guardare a come il denaro verrà speso e assicurarsi che saremo in grado di spenderlo nel modo più efficace possibile».
Resta da vedere se e quanto questo 0,7% varierà in valore assoluto. All’indomani del referendum che vide la vittoria di Leave e un immediato crollo della sterlina, il direttore dell’Overseas Development Institute, Kevin Watkins, aveva commentato al The Guardian: «Se il Regno Unito perde un punto percentuale all’anno in crescita, il che è più o meno in linea con la maggior parte delle previsioni, ci saranno implicazioni per il valore dello 0,7%, il che a sua volta avrà ripercussione sui finanziamenti per gli Obiettivi di sviluppo sostenibile».
Chiara Giovetti
I Perdenti, 34. Dorando Pietri: il perdente più celebre del ‘900
Testo di Mario Bandera |
Nella galleria dei personaggi che – a torto o a ragione – sono passati alla storia come dei «perdenti eccellenti» e che MC da qualche tempo sta cercando di presentare sotto una luce positiva, trova il suo posto anche Dorando Pietri, l’atleta di Reggio Emilia che alle Olimpiadi di Londra del 1908 percorse, allo stremo delle forze, l’ultimo tratto della maratona nello stadio di Wembley sostenuto da uno dei giudici di gara. L’impresa sportiva di quel giorno, che l’aveva visto come un brillante protagonista per tutto il percorso, si concluse amaramente con la squalifica del corridore emiliano per l’aiuto ricevuto nell’ultimo tratto del percorso. Nella memoria collettiva di tutti gli sportivi – non solo italiani – Dorando Pietri, è l’atleta che seppe incarnare in maniera esemplare gli ideali del marchese Pierre De Coubertin, ideatore delle moderne Olimpiadi.
Dorando Pietri – CC
Nato il 16 ottobre 1885 in una famiglia contadina della provincia di Reggio Emilia, a Correggio nella frazione di Mandrio, Dorando Pietri (morto a Sanremo il 7 febbraio 1942) per i nostri standard era «un piccoletto», essendo alto solo un metro e sessanta centimetri, come la maggior parte degli italiani di quel tempo. Fin da bambino si divertiva un mondo a correre nei campi della sua terra, come tutti i ragazzi nati nei grandi spazi della campagna. Iniziò a lavorare molto presto, probabilmente prima dei dieci anni, nella bottega di un pasticciere a Carpi, cittadina dove il padre aveva portato la famiglia e aperto un’attività commerciale, per emanciparsi – o almeno provarci – dal lavoro della terra.
Nel 1903 entrò a far parte della società sportiva di ginnastica «La Patria», i cui dirigenti, intuendone le qualità del vero campione, lo iscrissero a diverse gare podistiche regionali e nazionali.
Dorando, a distanza di oltre un secolo resti un esempio di atleta serio e meticoloso, da dove nasce questo tuo amore per la corsa?
Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto correre, qualcuno disse che avevo un talento naturale per questa disciplina sportiva, forse per il mio fisico, forse per la storia della mia famiglia, in ogni caso tutto convergeva nel fare emergere le caratteristiche dell’atleta corridore insite nel mio animo.
È vera la storia che si racconta, che la tua voglia di correre era tanta che a una gara podistica organizzata a Carpi nel 1904, a cui partecipava Pericle Pagliani, il più celebre corridore dell’epoca, quando questi passò vicino alla tua bottega tu ti mettesti a seguirlo in abiti da lavoro fino al traguardo?
Proprio così! A quel tempo avevo 19 anni e avevo tanta voglia di correre che quando Pagliani passò vicino alla bottega dove lavoravo, mi misi a correre dietro a lui senza nemmeno togliermi il grembiule da pasticciere e riuscendo, nonostante ciò, a stargli incollato fino alla fine della gara.
I dirigenti della società sportiva «La Patria» constatando le tue qualità atletiche, ti spinsero a iscriverti a diverse gare podistiche regionali e nazionali contribuendo così a farti conoscere da un numero sempre più ampio di sportivi…
Dicevano che «avevo talento». A furia di ripeterlo a ogni manifestazione sportiva facendomi un sacco di pubblicità, in pochi anni divenne chiaro a tutti che in Italia se c’era qualcuno da battere nella corsa sulle distanze dai 5 ai 40 chilometri, quello ero io.
A quel punto si aprì anche il palcoscenico internazionale.
Infatti non ci fu molto da aspettare. Nel 1905 vinsi la 30 km di Parigi con un distacco di sei minuti sul secondo classificato; nel 1906 vinsi la maratona che mi qualificò ai giochi olimpici intermedi di Atene; nel 1907 stabilii il primato nazionale italiano dei cinquemila metri e vinsi il titolo nazionale anche sulla distanza dei venti chilometri.
La tua carriera come atleta podista continuò con una serie impressionante di vittorie che lasciò sbalordita l’Italia intera.
Quello fu un momento molto fruttuoso nella mia vita sportiva, oltre alle vittorie già ricordate, nel 1908, mi qualificai per le Olimpiadi di Londra in una gara che si tenne proprio a Carpi. Davanti alla mia gente corsi la maratona in 2 ore e 38 minuti. In Italia un tempo simile su quella distanza non l’aveva mai fatto nessuno.
Adesso parliamo delle Olimpiadi di Londra, di quella fatidica giornata del 24 luglio 1908.
Quel giorno a Londra faceva molto caldo, anche per un italiano. La corsa partì alle due e mezza del pomeriggio. Io avevo la pettorina numero 19, maglietta bianca e calzoncini rossi, all’inizio restai con il gruppo dei corridori in quanto non volevo forzare inutilmente. Seguivo una mia strategia di corsa che mi ero preparato meticolosamente nei giorni precedenti.
Sì, ma appena passasti il segnale di metà gara le cose cambiarono.
Superati i 20 chilometri, applicai un ritmo sempre più spinto alla mia andatura che mi portò a superare tutti quelli che mi stavano davanti e giunsi a riprendere l’atleta che era in testa, il sudafricano Charles Hefferon, quando mancavano meno di tre chilometri all’arrivo.
Ma pagasti a caro prezzo questo tuo sforzo.
A quel punto mi sentivo stanchissimo, ero quasi disidratato. Entrai allo stadio che quasi non riuscivo a correre dritto, barcollavo, sbagliai persino strada. Il pubblico nello stadio mi incitava a continuare, ma i giudici di gara mi fecero notare l’errore e mi fecero tornare indietro.
Non reggevi più lo sforzo e sei persino caduto sulla pista.
È vero, però con l’aiuto dei giudici di gara mi rialzai sempre. Caddi quattro volte in duecento metri prima di arrivare al traguardo, e ogni volta i giudici mi diedero una mano per rimettermi in piedi. Tagliai il traguardo in 2 ore e 54 secondi. Svenni per la quinta volta e mi portarono via in barella. Nello stesso momento entrò nello stadio l’atleta americano Johnny Hayes, che si piazzò secondo.
Eri riuscito a tagliare il traguardo per primo, quindi la maratona l’avevi vinta tu.
Si, ma la delegazione degli Stati Uniti, non appena venne a sapere quello che era successo all’interno dello stadio, con i giudici che mi avevano aiutato a terminare la gara, fece appello alla giuria per chiedere la mia eliminazione, in quanto colpevole di essere stato aiutato dai giudici di gara.
E come andò a finire?
Il reclamo venne accolto: fui squalificato e cancellato dall’ordine di arrivo della gara. La medaglia d’oro fu assegnata allo statunitense Johnny Hayes.
E nei tuoi confronti come si comportarono gli inglesi?
Il mio dramma umano commosse tutti gli spettatori dello stadio: per compensarmi della mancata medaglia olimpica, la regina Alessandra mi diede in premio una coppa d’argento dorato.
È vero che a proporre il riconoscimento reale fu lo scrittore Arthur Conan Doyle, il «papà» di Sherlock Holmes?
Doyle era presente a bordo campo per redigere la cronaca della gara per il Daily Mail. Il resoconto del giornalista-scrittore terminava con queste parole: «La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici».
Pietri premiato dalal regina alla fine della maratona – CC
Il racconto della sfortunata impresa di Pietri fa immediatamente il giro del mondo. Dorando Pietri diviene una celebrità, in Italia e all’estero, per non avere vinto. La mancata vittoria olimpica è la chiave del successo dell’atleta emiliano: Pietri riceve presto un buon ingaggio per una serie di gare ed esibizioni negli Stati Uniti.
Il 25 novembre 1908, al Madison Square Garden di New York, va in scena la rivincita tra Pietri e Hayes. Gli spettatori sono ventimila, mentre altre diecimila persone rimangono fuori a causa dell’esaurimento dei posti. I due atleti si sfidano in pista sulla distanza della maratona, e dopo aver corso spalla a spalla per quasi tutta la gara, alla fine Pietri riesce a vincere staccando Hayes negli ultimi 500 metri, per l’immensa gioia degli immigrati italiani presenti. Anche la seconda sfida, disputata il 15 marzo 1909, viene vinta da Pietri. Durante la trasferta in America partecipa a 22 gare, vincendone 17. Rientrato in Italia nel maggio 1909 prosegue l’attività agonistica per altri due anni.
La sua ultima maratona è quella di Buenos Aires, corsa il 24 maggio 1910, nella quale Pietri chiude con il suo primato personale di 2 ore, 38 minuti, 48 secondi e 2 decimi. La gara d’addio in Italia si svolge il 3 settembre 1911 a Parma: una 15 chilometri, vinta agevolmente. Corre la sua ultima gara all’estero il 15 ottobre dello stesso anno (il giorno prima del suo 26° compleanno), a Göteborg in Svezia, concludendola con l’ennesima vittoria. Nel 1911 si ritira dall’attività agonistica e si trasferisce a Sanremo dove apre un’autorimessa e dove muore il 7 febbraio 1942, stroncato da un improvviso infarto.
Don Mario Bandera
Entra lo Spirito e rivivi
Testo di Luca Lorusso |
Ti trovi in esilio da anni oramai. Della tua dimora lontana non rimane che polvere. E della tua gente un resto affaticato e disgregato. «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita» (cfr Ez 37, 1-14), dicono i tuoi, lasciando cadere le parole della loro bocca come semi su una terra sterile. Non è costretto al confino solo il loro corpo, ma la vita. E ti accorgi di essere anche tu, come gli altri, attratto dal sepolcro. Nonostante il tuo nome, Ezechiele, che vuol dire «Dio rende forte», ti senti stremato dal seguire il tuo desiderio profondo che ha smarrito la via della sua fonte.
Quando alzi lo sguardo dal suolo, ti accorgi che la mano del Signore è sopra di te. Ti porta fuori dal sepolcro nel quale vorresti chiuderti e ti depone in una pianura piena di ossa. Ti fa passare accanto a esse e tu le osservi. Sono molte, tutte inaridite. «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?», ti senti domandare, e non sai cosa rispondere. Non ti senti però inadeguato: c’è accoglienza in quella voce che lentamente ti scalda il cuore. «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: “Dice il Signore Dio: ‘Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete, e saprete che io sono il Signore’”». Tu fai come ti dice la voce e, mentre profetizzi, ecco, le ossa si riuniscono e vengono ricoperte di carne, e di fronte a te una moltitudine di corpi riprendono forma. Poi il Signore t’invita: «Profetizza allo spirito e annunziagli: “Dice il Signore Dio: ‘Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti perché rivivano’”». Tu profetizzi come ti comanda il Signore e lo spirito entra in essi, ed essi ritornano alla vita e si alzano in piedi. Ecco, da una moltitudine di ossa disseccate è sorto un popolo.
La mano del Signore scende di nuovo su di te e ti riprende. Ti riporta in te, nel tuo esilio, nei pressi del tuo sepolcro, di fronte alla tua gente che vaga senza fiducia. E il Signore ti dice: «Profetizza loro e annunzia: “Dice il Signore Dio: ‘Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riporto nella vostra dimora. Faccio entrare in voi il mio spirito e rivivete. Riposate sul mio cuore, così oggi stesso saprete che io sono il Signore’”». Tu ti guardi attorno. È grande il numero dei tuoi fratelli scoraggiati. È profonda la dispersione che frammenta la loro unità. Sono innumerevoli le lingue in cui parlano. Ti alzi in piedi: entra in te lo spirito e rivivi. Dio rende forte il tuo cuore. Il suo spirito arriva dai quattro venti, e ai quattro venti affiderà la Parola pronunciata dalla tua bocca. Ti allontani dal tuo sepolcro, le tue ossa non ricordano più l’aridità. Ti metti in cammino.
Buona Pentecoste, la festa dello spirito, da amico
Luca Lorusso
Vedi:
Bibbia on the road
Parole di corsa
Progetto Amazzonia
Amico Mondo
La lettura come arma di libertà contro il terrore in Afghanistan
Testo di Luca Lorusso |
Il maestro che sfidò la guerra
Tra gli Hazara perseguitati dai talebani in Afghanistan avviene l’incontro tra un uomo coraggioso e una bambina speciale. Lui gira per i villaggi prestando libri, lei li legge ad alta voce alle amiche che non possono andare a scuola. Una storia per aiutare i più piccoli (dagli otto anni in su) a sentirsi parte di un’umanità più ampia, piena di problematiche e di speranze.
Maryam ha 10 anni ed è l’unica bambina del villaggio a saper leggere. Quando ne aveva sette e abitava nella città di Bamiyan, in Afghanistan, un attentato dei talebani ha portato via i suoi genitori e la sorellina Baharak, che significa Piccola primavera. Lei era a scuola quando il camion è esploso. Da allora vive presso dei parenti, a Moshtarak, un abitato povero e sperduto nella provincia di Bamiyan. Questa è la zona degli Hazara, la minoranza nel mirino dei terroristi (cfr. reportage pag. 15).
Maryam ha gli occhi neri, come nero è il pesciolino protagonista di un libro che la maestra le leggeva quando andava a scuola: unico pesciolino ad avere il coraggio di nuotare alla scoperta del mondo fino al grande mare.
Un giorno arriva al villaggio un uomo speciale che porta con sé, su una bicicletta, una cassa di legno piena di libri da distribuire ai bambini del villaggio. Si chiama Amir Zerai, il «maestro dei cento soli e delle cento lune», e vuole donare agli abitanti la gioia della lettura: ogni due settimane, lui o una persona di sua fiducia, verrà al villaggio per riprendere i libri già prestati e prestarne altri.
Tra la bambina e l’uomo nasce subito un’amicizia e da essa nasce una piccola grande rivoluzione per l’intero villaggio: Maryam, spinta da Amir, inizia a leggere a voce alta i libri alle altre bambine. Loro, infatti, non vanno a scuola, a differenza dei maschi che ogni mattino si spostano al villaggio vicino per imparare a leggere e scrivere.
La storia di Maryam è inventata, ma contiene molti elementi tratti dalla realtà. Raccontata con linguaggio semplice e delicato da Alberto Melis, essa accompagna i piccoli lettori in una terra, in una situazione di vita, in mezzo a problematiche lontane, ma che riguardano tutti.
La narrazione ci accompagna nelle vicende di Maryam che, fa crescere la sua attività di lettura a voce alta fino a farla divenire una vera e propria scuola, e in quelle del maestro Zerai, minacciato dai talebani, e nello scambio di lettere tra Maryam e un bambino di un altro villaggio, anch’egli amico del maestro. In essa l’autore affronta i grandi temi della libertà che la cultura può offrire contro l’oscurantismo e la paura, del coraggio contro le avversioni e contro i tentativi di chi si oppone al bene comune, dell’amicizia, dell’amore dei cari, del pregiudizio di cui a volte la stessa protagonista è vittima, della speranza.
In appendice, Alberto Melis, insegnante e scrittore sardo, propone anche una breve intervista a Saber Hosseini, il vero «maestro dei cento soli e delle cento lune» che ha ispirato il suo racconto.
Perché porti i libri ai bambini?
«Perché per troppo tempo in questo paese i bambini sono stati sopraffatti dalla paura e dalla violenza […]. Ora è arrivato il momento che imparino a sorridere e soprattutto a sognare, non credi anche tu Maryam? (p. 37).
Sai, a volte ho l’impressione che nelle parole dei libri ci sia una magia capace di guarire anche le ferite che non si vedono» (p. 72).
Il libro: Alberto Melis, Storia del maestro che sfidò la guerra, Mondadori, Milano 2017, 120 pagine, 9,50 Euro, dagli 8 anni.
Cari missionari, lettere dai lettori
Usukhjargal
Usukhjargal è un simpatico bimbetto di 7 anni, che abita in una gher (la tradizionale tenda mongola) alla periferia di Arvaiheer, capoluogo polveroso della provincia dell’Uvurkhangai, in Mongolia, tra le montagne Khangai e la steppa che dirada verso il deserto. Ha l’occhio vispo di un bambino pieno di vita, mentre scende la collina stringendo la mano callosa di papà Jargalsaikhan che da tre anni aiuta noi missionari con i lavori manuali.
Sette anni fa i medici avevano sconsigliato alla mamma di portare a termine la gravidanza, sulla base di (presunte) mal-
formazioni, o più probabilmente perchè prevedevano un parto difficile, che avrebbe creato loro fastidi. Ed eccolo qui ora, saltando e correndo nel cortile della missione, con le immancabili gote rosse e il sorriso sulle labbra. I genitori sono stati così felici di averlo avuto che l’hanno ritenuto un dono di Dio e hanno chiesto per lui il battesimo quando aveva poco più di un anno.
È stato tra i bimbi del primo gruppo del nostro asilo informale ospitato in una gher dal 2013. L’asilo e iniziato con lui ed è un progetto che si sta rivelando molto positivo: sono molte le famiglie che per povertà ed emarginazione non riescono ad iscrivere i propri figli alle scuole materne statali. Così abbiamo pensato di crearne una con mezzi molto semplici e poco dispendiosi, valorizzando gli elementi culturali più sentiti, come appunto l’abitare nelle gher.
Usukhjargal adesso frequenta la seconda elementare, ma continua a venire tutti i giorni alla missione, dove si unisce agli altri bambini del doposcuola. In un’altra gher calda (anche quando fuori fa meno trenta) e accogliente, bambini e ragazzi delle scuole vengono a fare i compiti e a giocare, assistiti da due signore della comunità.
Il volontariato qui è ancora una novità, ma queste due mamme hanno capito che possono rendersi utili con quello che sanno fare e sono di esempio a tutti. Una di loro è Otgonbayar, la mamma di Usukhjargal. Cerchiamo così di promuovere la cultura della gratuità che fa ancora fatica ad affermarsi in un paese che sta emergendo da 70 anni di comunismo.
Due volte alla settimana Usukhjargal (insieme a tutti gli altri bambini e adulti che lo desiderino) viene a farsi la doccia alla missione, dove da otto anni è attivo un servizio di docce e bagni pubblici gratuiti. Nelle gher ovviamente non c’è acqua corrente e l’igiene personale è dunque ridotta al minimo, per non dire che è molto sacrificata.
All’asilo e al doposcuola cerchiamo di provvedere cibo buono e salutare, per supplire alle carenze vitaminiche di un’alimentazione poco variegata e talvolta insufficiente.
Un giorno, mentre Usukhjargal faceva la fila per lavarsi le mani prima di merenda, ho visto un bambino che gli bisbigliava all’orecchio. Mi sono avvicinato e ho sentito dire: «Sai che bello, mio papà adesso non beve più! Alla sera vediamo insieme la tv e non ci sono più urla e oggetti che volano dentro la nostra gher…». È infatti un vero cammino di guarigione quello che il papà dell’amichetto di Usukhjargal ha intrapreso con un gruppo di uomini che si trovano regolarmente alla missione per cercare insieme una via che li faccia uscire dall’alcolismo, vera piaga sociale da queste parti. La missione è qui per tutti e può mettere in atto questi segni di prossimità e aiuto se è sostenuta da persone di buona volontà.
Guardando giocare Usukhjargal, non posso che ringraziare Dio per tutti coloro che in questi anni ci stanno permettendo di prenderci cura di lui e di tanti altri come lui, piccoli e grandi. È il miracolo della solidarietà che si rende concreto attraverso la Fondazione Missioni Consolata Onlus. Grazie.
Giorgio Marengo Arvaiheer, 16/02/2018
Grazie per il dossier sui migranti
Buongiorno,
ho conosciuto la vostra bellissima rivista qualche anno fa, quando sono passato un po’ per caso alla Consolata con i miei studenti in visita di istruzione a Torino. Innamorato dei contenuti e del vostro stile, ho volentieri fatto l’abbonamento alla rivista, che ricevo e leggo sempre con attenzione.
In particolare ho trovato davvero fatto bene, sintetico ma insieme esaustivo, il dossier pubblicato nel numero di gennaio a firma di Daniele Biella, circa i migranti e il reportage dalla nave Aquarius. Poiché tratto spesso con i miei alunni temi che puntano a sensibilizzarli e a superare i molti, troppi luoghi comuni sull’argomento, vorrei poter diffondere il dossier a titolo informativo, anche in ambito comunale (sono consigliere comunale nel mio paese e accogliamo alcuni richiedenti asilo, ma con purtroppo molti pregiudizi tra i cittadini).
Gentilissimi,
seguo sempre con grande interesse la vostra rivista. Volevo dare un mio piccolo contributo inoltrandovi alcune preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze. Ovviamente non è mia intenzione dirvi cosa dovete o non dovete pubblicare, solo queste preghiere mi hanno aiutato molto e credo possano aiutare anche tante altre persone. Così ho pensato di suggerirvene alcune, che magari già conoscerete o già avrete pubblicato, sperando arrivino a quante più persone possibile. Sperando di fare cosa gradita ringrazio in anticipo per l’attenzione e porgo distinti saluti
Monia 27/02/2018
Cara Monia,
le confesso che quando ho ricevuto la sua email con la lista di ben ventitré novene e preghiere (da quella – a me ignota – alla «Sacra Spalla» alla «Via Crucis» – che con le novene ha ben poco da spartire), il primo pensiero è stato «un altro spam. Cestina». Poi ci ho ripensato perché poteva diventare un’opportunità per questa pagina di dialogo con i lettori. Il tema della preghiera, sul quale ormai da oltre un anno sta scrivendo don Paolo Farinella, sta suscitando molto interesse perché tocca il cuore della vita cristiana. In questo contesto è abbastanza chiaro che stiamo cercando di proporre uno stile di preghiera biblicamente e liturgicamente fondato, provando a evitare devozionalismi e pietismi, pur rispettando la vera «pietà popolare» e le sue ricche tradizioni.
Noi che viviamo dopo il Concilio Vaticano II abbiamo ricevuto un dono grandissimo: quello dell’Eucaristia – la «messa» – che è passata da «rito e obbligo» a «celebrazione e incontro» di salvezza nello spezzare la Parola (finalmente comprensibile a tutti) e il Pane. L’Eucarestia è al cuore della nostra preghiera, tutto il resto viene da quel fare memoria viva della Pasqua e alla messa tutto ritorna per diventare offerta gradita a Dio.
Le «preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze», possono anche aiutare, ma hanno il rischio di mantenere in noi una falsa concezione di Dio, un Dio che ha ripetutamente bisogno di essere supplicato e che ascolta solo se si recitano con fedeltà e insistenza certe formule.
Che contrasto tra la prolissità e ripetitività di molte novene e la sobrietà della preghiera di Gesù. Ai discepoli che gli chiedono «insegnaci a pregare» (Lc 11,1-4), lui offre solo la brevissima preghiera del «Padre», senza fare promesse, senza mettere condizioni né sul numero di volte né per quanti giorni né sulle modalità (in piedi, seduti, inginocchiati…).
Quando Gesù dorme sulla barca nella tempesta (Mc 4, 37-40 – figura della Chiesa e di noi nelle difficoltà della vita) ai discepoli spaventati non dice di pregare i salmi, di fare rituali, di recitare speciali invocazioni: chiede solo di avere fede.
E quando nella stessa barca vanno in panico perché non hanno «pane» (Mc 8,14-21) li rimprovera perché «non hanno capito» il miracolo del pane, cioè l’Eucarestia, il «Pane di vita» spezzato per noi e sempre presente in mezzo a noi. Anche per noi, nelle acque tempestose dei nostri tempi, la forza viene dalla fede che sostiene la nostra preghiera, non dal numero e tipo di preghiere che recitiamo. Gesù ci ha fatto una promessa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Impariamo a camminare con lui, sapendo che c’è sempre, anche se a volte sembra dormire.
Galeano
Eduardo Galeano (AFP files / Pabro Porciuncola)
Solo adesso ho letto l’articolo su Galeano, contenuto nel numero di dicembre della rivista. Sono allibito nel leggere le dichiarazioni di Gianni Minà sul Venezuela, e soprattutto a leggerle su una rivista come Missioni Consolata. Quanto viene detto dai giornali occidentali, compreso il nostro Avvenire, sulla disastrosa situazione dei diritti umani dei venezuelani viene trattato con disprezzo dal giornalista. Le recenti elezioni della Costituente sono state vinte da Maduro? Ma queste elezioni sono state illegali, il presidente Maduro non aveva nessun diritto di eliminare il Parlamento, eletto comunque democraticamente, in un paese dominato prima da Chavez e adesso dall’ex camionista Maduro, e di sostituirlo con la Costituente. L’opposizione non ha potuto fare niente per fermare lo strapotere dei chavisti e decine di persone sono state uccise dalla polizia durante le manifestazioni di protesta in difesa della democrazia. I venezuelani sono alla fame, già decine di bambini sono morti di stenti e la colpa non è certo dei cosiddetti «servizi di intelligence nordamericani». La colpa è dell’arroganza del potere e dell’incapacità di far fronte ai bisogni della popolazione, ridotta a fare lunghissime code di fronte a negozi che non hanno quasi nulla da vendere. D’altronde, Gianni Minà è ben conosciuto per la sua amicizia con Fidel Castro prima e adesso con Raùl, il fratello che ha preso il potere. I cubani stanno un po’ meglio dei venezuelani, per loro fortuna, ma Gianni Minà non dovrebbe dimenticare che i Castro hanno accumulato un’immensa fortuna nel povero paese caraibico; l’attuale presidente Castro controlla direttamente tutta l’economia cubana, e ne ha approfittato largamente. Non è la prima volta che su Missioni Consolata vengono pubblicati articoli molto discutibili, già anni fa avevo letto le lodi della «presidenta» cilena Michelle Bachelet che. come tutti sanno, è una sostenitrice della «salute riproduttiva», cioè dell’aborto. Ma che linea ha scelto Missioni Consolata? Il fondatore sarebbe d’accordo se fosse ancora vivo? Perché non vi leggete gli ottimi articoli che Avvenire ha dedicato alla crisi venezuelana? E l’Avvenire non è certo al servizio delle «agenzie di informazione nordamericane». Da una rivista cattolica mi aspetto come prima cosa un’informazione corretta, non di regime. Distinti saluti.
Franco Eustorgio Malaspina Milano, 03/02/2018
Caro Sig. Malaspina,
grazie di averci scritto. Le confesso che mi ha sorpreso che sia «allibito» di fronte a quanto ha scritto Minà sul Venezuela visto che sembra conoscere le frequentazioni dello stesso e quindi sapere bene come la pensa. Circa la «presidenta» Michelle Bachelet (di cui abbiamo scritto nel maggio e giugno 2014) è certamente discutibile nel suo appoggio alla «salute riproduttiva», ma ha pagato con la prigione e la tortura il suo impegno politico, mentre il generale Pinochet, pur devoto della Madonna, non ha esitato a imprigionare, torturare e uccidere i suoi oppositori.
Non siamo né fans di Castro né di Chávez, tantomeno di Maduro. I Castro, come dice lei, hanno pur accumulato un’immensa fortuna, ma non risultano certo nella lista dei più ricchi del mondo. Quel signore che fa spedire pacchi a mezzo mondo e vuole mettere il «braccialetto» ai suoi operai perché lavorino «meglio», è immensamente più ricco di loro e di tanti altri.
Se poi ci segue in rete, avrà visto che sulla nostra pagina Facebook abbiamo segnalato più e più volte proprio le pagine di Avvenire sia sul Venezuela che su altre gravi situazioni del mondo. Ammetto che su questa rivista non abbiamo più pubblicato articoli specifici sulla situazione di quel paese (l’ultimo è dell’agosto 2016). E questo è un errore, anche se continuiamo a seguirne la drammatica situazione grazie ai nostri missionari e agli amici che abbiamo sul posto.
Che direbbe poi il nostro Fondatore? Nel nostro piccolo, noi cerchiamo di fare un’informazione documentata e approfondita che permetta al lettore di farsi la sua opinione su situazioni, fatti e persone. Su questo l’Allamano non penso avrebbe da obiettare. Scriviamo «slow news» (facendo il verso al fast food) proprio perché non vogliamo imporre niente a nessuno, ma servire la verità con una speciale attenzione ai poveri, agli emarginati e a quelli che sono ignorati dalla grande comunicazione. Non siamo esenti da errori e possiamo sbagliare. Riportare fatti e opinioni di persone che non vivono o sono contro i principi cristiani non è sposarne le idee e rinunciare alla nostra fede e religione. Siamo pronti a essere corretti e a confrontarci su fatti e idee. Per questo la ringraziamo ancora della sua email.
Petrolio causa di tensioni nel mondo
Nell’articolo sull’Ecuador (MC 12/2017) si parla della curiosa proposta dell’ex presidente Correa di chiedere un contributo alla comunità internazionale per non estrarre petrolio da una zona ecologicamente sensibile. Non si vede bene quale comunità sarebbe interessata a dare un contributo a un presidente sudamericano, che poi potrebbe diventare un Maduro, il quale forse si fa pagare in proprio per non estrarre più il petrolio venezuelano, convenientissimo ma con aziende in preda al marasma e con attrezzature che mancano anche dell’ordinaria manutenzione.
Ma probabilmente sono interessate le banche Usa che han prestato i soldi alle società che praticano il fracking devastando l’Ovest di Usa e Canada, ma assicurando loro l’autonomia energetica. Se il petrolio scende stabilmente sotto i 50 euro falliscono sia le società che le banche, e finora l’unico costosissimo sistema di non farlo scendere è di impedire la produzione in Iraq e Siria, attizzando continue complicatissime guerre, e possibilmente d’ora in poi razionare gli acquisti dall’Iran. E mantenere uno stato di tensione che impedisca anche solo di progettare un investimento per l’estrazione sottomarina dal Mediterraneo orientale, tra Cipro e l’Egitto, l’area più incasinata del mondo, ma con petrolio e gas molto convenienti.
Claudio Bellavita 02/02/2018
Lascio la risposta a Paolo Moiola, autore dell’articolo.
La proposta dell’ex presidente Correa è stata ritirata dallo stesso (quando era ancora in carica) a causa della scarsa risposta avuta a livello internazionale. L’idea era rivoluzionaria in quanto avrebbe consentito di salvaguardare uno scrigno mondiale di biodiversità qual è quella parte di Amazzonia ecuadoriana. Senza parlare della mancata emissione di CO2 nell’atmosfera che avrebbe contribuito a mitigare le conseguenze del cambio climatico. Quanto all’eventuale trasformazione di Correa, egli non è più presidente e vive in Belgio, paese della moglie. Dunque, il rischio che diventi un altro Maduro – come paventa il lettore – non sussiste.