Preghiera 16. Pregare come gli uccelli del cielo e i gigli del campo


Pregare, lo abbiamo già detto, non è presentarsi davanti a Dio e nemmeno compiere uffici o proclamare lodi e, paradossalmente, neanche ringraziare Dio, perché tutto ciò è parte ancora di un rapporto esteriore: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8).

Pregare è permettere a Dio di contemplare il nostro volto orante e di ascoltare la nostra voce: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Si comprende bene che «essere preghiera» è difficile in modo particolare perché cozza con una mentalità e, più ancora, con un’abitudine radicata, difficile da superare. Almeno proviamoci.

Pregare è fare spazio a Dio sposo perché possa vedere, sentire, toccare e contemplare la sua sposa: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).

© Gigi Anataloni

Se Dio è un contraente oppure un innamorato

I testi mettono in rilievo l’atteggiamento di abbandono che confligge con il protagonismo dell’«io sto, io faccio, io prego, io…». Nella 1a puntata del nostro cammino sulla preghiera (MC gennaio-febbraio 2017) siamo partiti dal Catechismo Maggiore di Pio X del 1905, composto da 993 domande e risposte da «imparare a memoria», ridotto ad appena 433 sette anni dopo, con il titolo Catechismo della Dottrina cristiana. Su di esso ci siamo formati tutti fino agli anni ’70 del XX secolo. La Parte III, Sezione II, capitolo unico (numeri dal 414 al 433), tratta della «orazione o mezzo impetrativo». L’impostazione, tipica del tempo, è trattativistica: Dio appare più come un contraente da tenere buono che un Padre da amare. Le regole che il testo offre sembrano più vicine a un galateo che a un rapporto affettivo. L’impianto è ancora ancestrale, nonostante si faccia riferimento a Gesù Cristo, unico mediatore, Dio è lontano, qualcuno cui bisogna ricorrere per domandargli «quanto ci bisogna» (n. 414), supplicando «le grazie spirituali e temporali» (n. 419). Se non siamo ascoltati è colpa nostra «o perché preghiamo male, o perché domandiamo cose non utili al nostro vero bene, cioè al bene spirituale» (n. 422). In questa ultima frase non appaiono più «i bisogni temporali», ma solo quelli spirituali. Il catechismo, inoltre, parla sempre di «preghiere» al plurale, lasciando intendere che forse sia anche determinante la quantità (cfr. Mt 6,7).

Nella 13a puntata (MC aprile 2017) e in diverse altre a seguire abbiamo spesso richiamato, e non lo faremo mai abbastanza, Francesco di Assisi che, secondo San Bonaventura, non era solito pregare perché «egli stesso era [diventato] preghiera». Quello di Francesco è un «essere» molto diverso che si distanzia e forse si oppone al Catechismo di Pio X, ancora troppo intriso di atteggiamenti formali esteriori.

Anche del Targùm in uso al tempo di Gesù nella sinagoga abbiamo parlato, ma occorre insistervi perché è sconvolgente la natura della preghiera che ci propone, presentandola come risposta all’anelito di Dio che non può vivere senza di noi, essendo «pazzo d’amore», che non si dà pace finché non vede il volto e non ascolta la voce dell’orante. Dio qui è descritto come un innamorato irrequieto e impaziente. Nessuno si sarebbe mai azzardato ad affermare una cosa simile se non fosse stato ispirato dallo Spirito Santo.

Il profeta Osea descrive tutto ciò in termini unici e assoluti: Dio insegue la sposa che si è prostituita finché non l’abbia strappata ai suoi commerci e condotta amorevolmente nel deserto (= lontananza, solitudine, esclusività, protezione, intimità) per poterla contemplare: «Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore» (Os 2,16).

Pregare è lasciarsi condurre (cum-dúcere) e ascoltare col cuore Dio che parla. Dopo che abbiamo preso atto che è Dio a parlare, il vero Orante, possiamo parlare anche noi, ma forse sceglieremmo di stare in profondo silenzio perché «lui sa di cosa abbiamo bisogno», lo sa meglio e prima di noi.

© Ennio Massignan

Preghiamo con il Vangelo

«25Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,25-33).

Di solito si dice che questo sia il testo evangelico fondativo del concetto di «Provvidenza». In modo particolare monaci/monache e religiosi/religiose vincolati dal «voto di povertà», attraverso cui dichiarano di volere somigliare agli uccelli del cielo e ai gigli del campo, fidandosi e affidandosi alla paternità di Dio che nutre, veste e si prende cura. Questo teoricamente: infatti, fa bella mostra negli scritti, nelle regole, nelle costituzioni, ma la realtà è molto diversa, come la storia e l’esperienza insegnano. Il «mondo religioso» attraverso il voto di povertà non corre alcun rischio perché è garantito di tutto. La Provvidenza diventa una Previdenza, mentre nel mondo reale, chi vive e mantiene una famiglia con un solo stipendio, spesso è costretto a fare sacrifici considerevoli.

Esercizio con Mt 6,25-33.

Leggiamo una volta il testo per capire il senso generale. Dopo alcuni minuti, rileggiamo di nuovo molto più len-ta-men-te. Poi cominciamo a rileggere ancora, centellinando parola per parola, lasciando a ciascuno il tempo di risuonare dentro di noi e di depositarsi nel pozzo profondo del nostro cuore.

1. Perciò vi dico.

Non si tratta di un consiglio o di un invito. È «parola» solenne, un comandamento del Signore. È lui il garante, il fondamento definitivo: «perciò».

  • Quale risonanza ha «questa Parola» nel mio cuore? Sono consapevole che il Signore sta parlando esclusivamente a me e solo a me? Sono pronto per essere arato, dissodato, seminato per accogliere quanto il Signore dirà a me e a me soltanto?
  • Tu parli, Signore, fino a farti tu stesso Parola/Lògos (cfr. Gv 1,14) per essere mangiato come il rotolo del profeta Ezechiele: «Mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele… Nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo… fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3,1-3). La Parola si mangia per nutrirsi e prima di proclamarla. Nell’Eucaristia io mangio con le orecchie la Parola proclamata, esattamente come con la bocca mangio il Pane della vita. Lo stesso «Lògos fatto Pane/Carne» (cfr. Gv 1,14). Tu, o Padre del Lògos, non m’inviti alla mensa per i miei meriti, ma perché io vada alla casa d’Israele per «riferire» le tue parole (cfr. Ez 3,1.4) con le parole della mia vita e del mio vivere.
  • In questo modo so che tu sei legato a me e da me dipendi. Per questo desideri contemplare il mio volto quando prego e ascoltare la voce del mio cuore quando ti parlo, per essere certo che tu ti possa rispecchiare e che tu possa essere riconosciuto da chi m’incontra. Dammi la gioia di poter dire come Paolo: «Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Questo presuppone che io sia credibile e autentico perché tu possa essere accolto, accettato e riconosciuto.

© Gigi Anataloni

2. Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?

  • Il verbo «non affannatevi» in greco è, alla lettera, «non abbiate ansia nell’anima vostra».
    Mangiare, bere e vestirsi sono attinenti all’anima oltre che al corpo. Qual è il rapporto tra queste «cose» e la mia anima? Ho sufficiente distacco da essere sempre libero nel cuore davanti a ogni urgenza, bisogno e necessità? Oppure vado in ansia e corro ai ripari, accumulando con bramosia per il futuro seppellendo da me stesso l’abbandono nella Paternità di Dio? Bramosia e ansia sono l’opposto della prudenza.
  • Spesso mi ritrovo a pregare col salmista: «Affida al Signore il tuo peso (= affanno/fardello) ed egli ti sosterrà, mai permetterà che il giusto vacilli» (Sal 55/54,23), ma è solo una provvisoria liberazione psicologica. Sono preoccupato per ogni cosa che porta insicurezza; vorrei la certezza non solo per oggi, ma anche per domani. Mi ritrovo a fare finta di non sapere che potrei morire da un momento all’altro, come tu stesso, o mio Signore, mi ha messo in guardia: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?» (Lc 12,20). Mi ritrovo a perdere tempo su un futuro che ancora non c’è, sottraendolo al presente che invece mi chiama. Così mi distraggo dal leggere i tuoi comandamenti che parlano, gridano, urlano negli avvenimenti e nelle persone che incontro sulla mia strada. Non mi accorgo che figli e figlie tuoi, miei fratelli e sorelle in «immagine e somiglianza» in te, vagano senza nemmeno presente, ma io temo che possano «portare via» qualcosa alla mia sicurezza e al mio «avere». Eppure, so bene che tu hai dato un comandamento esplicito:

«Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,19-21)

  • Una questione di cuore! Dov’è il mio cuore? Ho forse bisogno di un trapianto cardiaco, come prevede il tuo profeta Ezechiele? «Toglierò dal loro petto il cuore di pietra, darò loro un cuore di carne» (Ez 11,29 e 36,26). Signore, so perché faccio resistenza nel pregare: so che la preghiera non è un dolce colloquio in cui dico le mie opinioni e tu stai muto e, se chi tace acconsente, sei sempre d’accordo con me. Ora so che è pura illusione, perché la tua Paola è «creatrice» in quanto fa quello che dice: tu vuoi il mio cuore, cioè il centro del mio essere, del mio pensiero e del mio agire. Su cosa riposa il mio cuore per essere tranquillo? Sull’accumulo di cose, beni, denaro o sull’idea di «cielo» come sinonimo della tua paternità? Ogni volta che affermo la tua divinità, mi accorgo di difendere il mio materialismo perché credo più nelle cose che ho che in te, invisibile. Oggi, stando sulla tua Parola, mi accorgo che la mia sicurezza non può essere separata dall’«agàp?»:

«Dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? … Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore» (Is 58,7.10).

  • Mi accorgo che solo così posso ascoltare la tua risposta e sperimentare il tuo «Eccomi!» (cf Is. 58,8-9), avendo da te la grazia di essere immerso nella luce che è sempre nemica delle tenebre (cf Is 58,8.10). Quando leggo l’esodo, sono preso da un senso di euforia per la tua irruzione nella scena della storia in difesa di un popolo oppresso: «Ho osservato… ho udito… sono sceso» (Es 3,7-8), dando per avvenuto quanto ancora deve accadere, così profonda è la tua avversione per ogni ingiustizia. Mi guardo attorno, sono circondato da ingiustizia e schiavitù, migranti che vagano per il mondo, figli e figlie, specialmente bambini e bambine senza papà e mamma, soli, preda di sciacalli che li comprano, li vendono, li uccidono per espiantare loro anche gli organi… e non faccio una piega, preoccupato come sono della mia sorte o dell’idolo della mia sicurezza, sapendo che non ho il potere di contare i capelli che ho in capo (cfr. Mt 10,30). Celebro l’Eucaristia, spezzo il Pane che appartiene a tutte le genti (Is 2,1-5), conservo anche gli avanzi per quelli che verranno dopo, ma sono abitato dall’affanno, dal peso di quello che mangerò o berrò o vestirò.

3. Uccelli del cielo e gigli del campo.

Quando mai mi sono sentito libero come un uccello che affida la propria vita al «vento» (pnèuma)? Io mi nutro dell’Eucaristia e bevo il vino della vita del Signore, come posso «preoccuparmi con affanno» del domani, accumulando e ammassando per me, dando così prova di non credere alle parole del Figlio tuo e Signore mio, Gesù?

  • È bello guardare gli uccellini nei giorni feriali, per poi, magari, cacciarli nel fine settimana; è inebriante osservare la natura e respirare all’aria aperta della campagna il profumo dei fiori, ma mi rendo conto che la mia esperienza è solamente «estetica», occasionale. Nulla m’insegnano queste creature «vive», maestri di vita e di fede: si abbandonano, si lasciano nutrire e vestire condividendo la loro bellezza con chiunque voglia. Sì, penso di valere meno di un passero perché non posseggo la sua intelligenza e il suo splendore.

© Ennio Massignan

4. Gente di poca fede.

Qui la certezza è definitiva: la preghiera è la discriminate tra «paganesimo» e «fede»: il primo abbonda di parole e di richieste perché deve convincere se stesso di essere stato un piazzista bravo a pregare; la seconda non perde tempo a cercare di cosa ha bisogno perché si abbandona tutta tra le braccia di chi la cura e la protegge di propria iniziativa, per abbondanza di amore e paternità.

  • Riesco a misurare la mia fede? In che modo? Oppure sono fermo alla religione del «dovere/obbligo», impegnandomi il minimo indispensabile? Sono tra coloro che «praticano molto, ma amano poco»? Fede ha la stessa radice di fiducia che è l’accoglienza di un altro cui si dà la chiave del cuore e della vita. Chi è costui? Posso, in coscienza dire che sia il Signore? Oppure semplicemente mi fido solo di me stesso perché non sono certo di lui? Oggi mi viene spontaneo identificarmi con Tommaso, quando tu lo redarguisci con tenerezza: «Non essere incredulo, ma credente» (Gv 20,27). «Mio Signore e mio Dio», aumenta la mia fede (Gv 20,28; Lc 17,5).

5. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia. Come immagino il «regno di Dio»?

Forse penso che sia qualcosa di là da venire oltre la morte, così da essere libero di fare ciò che voglio al di qua della soglia della morte?

  • Il regno di Dio è qui, ora e adesso (cf Mc 1,15); significa «un nuovo modo di relazionarsi con gli altri» in vista dell’incontro con Dio alla fine della Storia. Qual è il grado di «relazione» di cui sono capace? Ho coscienza che la realizzazione del regno di Dio sia una realtà che riguarda l’umanità di oggi e in parte dipende dalla mia capacità di testimoniare la gratuità di Dio e la sua benevolenza verso tutti? Ho mai pensato che il ministero profetico della mia testimonianza (etimolog. = martirio), sia il fondamento della credibilità di Dio nel nuovo modo di relazionarsi degli uomini e delle donne? Questa consapevolezza mi opprime, mi provoca ansia, o mi libera verso l’orizzonte del regno di Dio? Come edifico «qui e ora» questo regno?

Respiro del cuore

Signore, non so cosa significhi «fede» perché non mi sono mai occupato di minuzie. Ti ho incontrato in Gesù, tento di lasciarmi amare, ma spesso vivo resistenze che nemmeno immaginavo possibili. Ogni giorno devo «pensare» dove mi trovo e scegliere cosa voglio, dove andare. Mi ritrovo spesso a confidare nei «carri e nei cavalli» del faraone piuttosto che «confidare nel suo santo Nome» (Sal 33/32,21). Pur non essendo in grado di contare i capelli del mio capo (cfr. Mt 10,30), non penso mai che tu mi tieni in vita, istante dopo istante: posso morire in qualsiasi momento, ma dò tutto per scontato come se tutto dipendesse da me e dall’accumulo di cose e progetti e «granai» futuri. Il mio abbandono in te è relativo, e a volte condizionato al grado di sicurezza che mi sono garantito. «Signore Gesù, abbi pietà di me, peccatore!» (Lc 18,13.39; Mc 10,47), tu che custodisci e nutri gli uccelli del cielo e vesti i gigli del campo, splendenti più di Salomone assiso sul suo trono, accoglimi come sono e manda il tuo Spirito a rinnovare il mio volto perché tu possa in esso rispecchiarti e riposarti, contemplando la mia immagine che sempre più desidera somigliare a te che mi hai chiamato prima ancora di essere tessuto nel ventre di mia madre (cfr. Ger 1,5). Vieni, Signore e trova il tuo riposo, affinché, libero da ogni zavorra, piccola o grande, possa rallegrare il tuo cuore. Dammi la gioia di essere testimone della tua Shekinàh e chiunque veda me, possa, dopo aver lenito eventuali ferite, dire a se stesso: «Ecco come mi ama Dio».

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-16]

© Gigi Anataloni  / Schefflera actinophylla




Paesi islamici: Donne e cristiane, due volte nel mirino


Testo di Marta Petrosillo sulla condizione delle donne cristiane nei paesi islamici |


In alcuni paesi a maggioranza islamica, le frange estremiste fanno sentire il loro peso. E le donne cristiane affrontano una condizione di doppia discriminazione: sono donne e sono cristiane. Dalle violenze sessuali alle norme sull’abbigliamento, al diritto famigliare, fino alle situazioni estreme di rapimenti e conversioni forzate le donne rischiano per la loro fedeltà al Vangelo.

Doppiamente discriminate: perché donne e perché cristiane. È la condizione di tante donne che vivono in molti paesi del mondo, in particolare in alcuni dei 50 a maggioranza islamica1.

Anche se, ovviamente, vi sono considerevoli differenze tra un paese musulmano e un altro, possiamo identificare alcuni schemi comuni: disparità di genere, violenze domestiche, stupri, femminicidi, mutilazioni genitali, matrimoni forzati di adolescenti e bambine.

In 12 di essi, la sharia è l’unica fonte del diritto2, mentre in altri – a volte anche paesi in cui l’Islam non è maggioranza -, pur essendoci sistemi legislativi non confessionali, la legge coranica, discriminatoria nei confronti delle donne, è comunque applicata al diritto civile e a questioni di diritto privato, come il matrimonio, il divorzio, l’eredità, la custodia dei figli3. Ciò significa che, ad esempio, la testimonianza di una donna in tribunale vale la metà di quella di un uomo4. Se quanto appena detto si applica a tutte le donne, quindi anche alle musulmane, le fedeli di minoranze religiose devono affrontare il doppio delle ingiustizie e delle discriminazioni.

A queste condizioni ordinarie, si aggiungono poi, sempre più spesso, le violenze da parte dei gruppi estremisti.

@ Jadranko Marjanovic / Fòock.com

La violenza dei gruppi radicali

Le cause delle violenze ai danni delle donne cristiane nel mondo da parte di gruppi islamisti radicali sono numerose. Tra queste: l’odio a sfondo religioso; il desiderio di umiliare, conquistare, intimidire e disonorare gli «infedeli» e le loro comunità; la specifica intenzione di strappare le donne alla loro fede.

Molti gruppi jihadisti considerano lo stupro e la conversione forzata delle donne non musulmane come parte della da’wa, letteralmente «richiamo, appello, propaganda», una forma di proselitismo inteso come un dovere per gli aderenti a questi gruppi.

Interessante, a tal proposito, una sorta di vademecum pubblicato dall’Isis nel dicembre 2014, nel quale si trova, tra gli altri, anche il seguente passaggio: «Non vi è alcun dubbio tra gli studiosi che sia permesso catturare le donne miscredenti, infedeli, quali le appartenenti alla gente del libro o le pagane».

Molte delle molestie e degli abusi sessuali ai danni delle donne appartenenti a minoranze religiose sono istigati da leader fanatici che attraverso le loro accese prediche incitano e/o perdonano le violenze contro gli infedeli.

Nel 2013 un leader del radicalismo salafita giordano, residente a Damasco, Yasir al Ajlawni, ha emesso una fatwa che consentiva a tutti gli oppositori di Bashar al-Assad di «catturare e avere rapporti» con qualsiasi donna non sunnita. Tale fatwa ha di fatto giustificato quanto accaduto qualche tempo dopo a Qusair, città del governatorato di Homs, allora in mano al fronte al-Nusra, dove la quindicenne cristiana Mariam è stata presa dal comandante del battaglione del gruppo jihadista e costretta a contrarre matrimonio islamico con lui. Violentata e ripudiata, è stata poi «passata» ai suoi uomini. L’iter si è ripetuto con quindici uomini in quindici giorni. Dopodiché la giovane, ormai mentalmente instabile a causa dello shock, è stata uccisa5.

Il codice di abbigliamento

Il salafita radicale egiziano Hisham el-Ashry, nel gennaio 2013 ha affermato in tv in prima serata che le donne cristiane dovrebbero coprirsi, ma che «se preferiscono essere stuprate, possono continuare a non portare il velo».

Apparentemente dello stesso avviso è l’imam Sami Abu-Yusu, della moschea salafita Al-Tawhid di Colonia, in Germania, secondo il quale le molestie e gli abusi verificatisi nel capodanno del 2016 nella città tedesca non sono avvenuti per colpa di molestatori e stupratori, quanto delle donne che si trovavano in piazza «seminude e con indosso del profumo provocante»6.

Questi casi ci introducono a un altro problema: il codice d’abbigliamento islamico. Anche se indossare indumenti quali hijab, niqab o abaya non è obbligatorio nella maggior parte degli stati musulmani, a volte le donne che non si attengono al codice di abbigliamento islamico sono insultate, assalite, violentate e perfino uccise perché vestite in maniera «provocante».

In alcuni paesi, invece, il velo è obbligatorio per legge, e anche le donne non musulmane sono costrette a indossarlo in pubblico. Uno di questi è l’Iran, dove l’articolo 102 del Codice penale prevede sanzioni per le donne che si mostrano con il capo scoperto. In Arabia Saudita le donne che non indossano un abaya (lungo vestito nero che copre l’intera figura) e che non coprono il viso e i capelli sono spesso molestate dalla mutawwi’a, la polizia religiosa. In Sudan la legge punisce con un massimo di 40 frustate chiunque «abbia un abbigliamento indecente o immorale». Sono diversi infatti i casi di donne cristiane condannate alla fustigazione o al pagamento di multe salate soltanto per aver indossato i pantaloni o gonne ritenute troppo corte dalla temuta hisbah, la polizia religiosa.

Stupri e rapimenti

Un altro dramma è quello degli stupri e dei rapimenti. Se in genere nel mondo le violenze sessuali sono tra i crimini denunciati con più difficoltà (in media il 10 per cento delle vittime), ciò è ancor più riscontrabile nei paesi a maggioranza islamica. Le donne che sono state stuprate hanno paura di essere rinnegate dalla propria famiglia o di diventare vittime di delitti d’onore. Inoltre, nei paesi in cui la legge punisce l’adulterio, un esempio è il Pakistan, le donne che hanno subito violenza rischiano perfino di essere condannate.

La sharia definisce lo stupro (zina bil-jabr) come una forma imposta di fornicazione o adulterio (zina). In alcuni paesi, tante donne preferiscono tacere perché sanno che se non riusciranno a provare la violenza, verranno accusate di adulterio – provato dalla stessa denuncia di stupro – e incorreranno in punizioni quali arresto, fustigazione o condanna a morte per lapidazione, una pena ancora applicata in Arabia Saudita, Pakistan, Sudan, Yemen, Emirati Arabi Uniti e in dodici stati della Nigeria del Nord.

Se sono molte le donne islamiche che decidono di rimanere in silenzio, sono ancora più numerose le vittime non musulmane che non denunciano la violenza subita. Ciò le rende degli obiettivi facili.

Nel 2003 la Commissione nazionale sullo status delle donne in Pakistan ha riferito come almeno l’88% delle donne pachistane detenute in carcere fossero state arrestate per aver denunciato uno stupro che non avevano potuto provare. Nel paese asiatico numerose braccianti e lavoratrici domestiche cristiane e indù subiscono violenza dai loro datori di lavoro.

Mappa dei paesi a maggioranza islamica

Le conversioni forzate

Un altro fenomeno preoccupante è il rapimento e la conversione forzata di donne, ragazze e perfino bambine, appartenenti a minoranze religiose, poi costrette a contrarre matrimonio islamico con il proprio aggressore. Secondo molte Ong locali, ogni anno in Pakistan almeno mille ragazze indù e cristiane vengono rapite e costrette a convertirsi. Un numero probabilmente inferiore a quello reale, data la difficoltà con cui tali eventi vengono denunciati alle autorità.

Quando la famiglia della vittima sporge denuncia alla polizia locale, l’aggressore sostiene che la ragazza si è convertita spontaneamente e accusa a sua volta la famiglia di cercare di costringerla a riabbracciare il Cristianesimo. La vittima viene dunque invitata a testimoniare, ma sarà costretta a giurare di essersi convertita volontariamente. E come se non bastasse, non è raro che la famiglia della ragazza sia a sua volta minacciata – specie se vi sono altre figlie femmine – e costretta a cambiare città.

Uno degli ultimi casi riguarda Elisha Iqbal, appena 12 anni, violentata e costretta a convertirsi all’Islam. Elisha è stata sequestrata a Pindorian, Islamabad, da un uomo nel febbraio 2018, ma quando suo padre Iqbal e sua madre sono andati a denunciare il fatto, anziché cercare la ragazza, i poliziotti li hanno arrestati per aver formulato false accuse.

Un altro caso drammatico che riguarda un tentativo di conversione forzata in Pakistan è quello di Asma Yaqoob, la venticinquenne cristiana di Sialkot, bruciata viva lo scorso aprile dal suo fidanzato perché si era rifiutata di convertirsi all’Islam.

Il caso di Boko Haram

In Nigeria, la setta islamista Boko Haram (cfr. MC ottobre 2016) ha dichiarato apertamente di considerare il rapimento e la conversione forzata delle donne cristiane come parte di un piano per terrorizzare i cristiani e obbligarli a lasciare il Nord della Nigeria. Una pratica balzata agli occhi del mondo con il rapimento di 276 studentesse avvenuto a Chibok, nello stato di Borno, nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014. Tante ragazze – l’ultimo caso è del febbraio 2018 – hanno raccontato di essere state rapite e condotte in case di imam e emiri per essere violentate e convertite con la forza.

Roma 24-2-2018 – Aiuto alla chiesa che soffre – Colosseo rosso – le lacrime di Rebecca – foto di Cristian Gennari

Tra loro Rebecca Bitrus, 28 anni, recentemente arrivata in Italia ospite di Aiuto alla Chiesa che Soffre. Era il 21 agosto 2014 quando membri di Boko Haram hanno invaso il suo villaggio nello stato di Borno, al confine tra Ciad e Niger. Rebecca, incinta del terzogenito, fuggiva assieme a suo marito Bitrus e ai loro figli Zachary e Jonathan, all’epoca di tre e un anno. Con i bambini però non riuscivano ad andare abbastanza veloci e, siccome Rebecca sapeva che se i Boko Haram li avessero raggiunti avrebbero ucciso suo marito, ha detto a Bitrus di andare avanti senza di loro.

Non ci è voluto molto prima che i terroristi raggiungessero la donna e i suoi due bambini. Catturati, li hanno condotti in un loro accampamento assieme ad altri prigionieri. È iniziato così un lungo incubo durato due anni, durante il quale Rebecca ha perduto il bimbo che portava nel grembo e il più piccolo degli altri due. «Ricordo ancora le grida delle ragazze violentate davanti ai miei occhi». I jihadisti hanno intimato più volte a Rebecca di convertirsi all’Islam, ma lei ha sempre rifiutato. Così, per punirla, hanno preso il piccolo Jonathan lanciandolo nel fiume e lasciandolo annegare. Rebecca però non si è piegata e i suoi carcerieri l’hanno rinchiusa in una cella senza acqua e cibo per giorni. Quando hanno riaperto la cella, convinti di trovarla morta, hanno scoperto invece che era ancora viva. L’hanno poi venduta come schiava a un membro della setta che ha abusato ripetutamente di lei. Da una di queste violenze è nato in seguito un bambino, a cui è stato dato un nome islamico che lei, una volta libera, ha cambiato in Cristopher, portatore di Cristo. Quando l’esercito nigeriano ha raggiunto l’area in cui era tenuta prigioniera, Rebecca ha approfittato della distrazione dei suoi carcerieri per fuggire assieme ai suoi figli. Ora si è ricongiunta con suo marito, con il quale vive assieme al loro Zachary e al piccolo Christopher.

L’Egitto di al-Sisi

Donna irachena – © ACS

Non troppo diversa la situazione in Egitto, dove sono frequenti i rapimenti e le conversioni forzate di donne cristiane. Tali episodi non rappresentano una novità nel paese, nel quale si riportano casi fin dai tempi della presidenza di Sadat (1970-1981), ma a partire dalle rivolte di Piazza Tahir ha raggiunto livelli preoccupanti. Rapimenti e conversioni forzate non mancano neanche oggi, con l’attuale presidenza del generale al-Sisi, nonostante le promesse governative al riguardo. Un ex rapitore, intervistato dal World Watch Monitor nel 2017, ha infatti rivelato che esiste una rete di salafiti dediti a rapire le ragazze cristiane per convertirle all’Islam. I soldi per finanziare tale network provengono in larga parte dall’Arabia Saudita.

Una ragazza cristiana può valere fino a 2.500 euro. Anche qui, quando le ragazze scompaiono, inizia il calvario delle famiglie, costrette a fare i conti con un sistema discriminatorio.

Il più delle volte anziché registrare il caso come rapimento, gli agenti si limitano a segnalare la sparizione della ragazza.

Un episodio significativo è quello di Nadia, adolescente cristiana rapita a soli 14 anni dalla sua casa nella periferia del Cairo. La famiglia ha sporto denuncia contro un uomo di 48 anni. Ma pochi mesi dopo le autorità hanno deciso di chiudere il caso, quando l’avvocato del rapitore ha fornito loro un certificato di matrimonio tra l’uomo e la sua sposa quindicenne. Tutto regolare dunque, nonostante la legge egiziana affermi che il matrimonio e la conversione di ragazze minorenni sia illegale.

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia

Note:

1- Due in Europa, 15 in Asia-Pacifico, 19 in Medio Oriente-Nord Africa, 14 in Africa Subsahariana.

2- Mauritania, Somalia, Sudan, Arabia Saudita, Afghanistan, Brunei, Iran, Iraq, Maldive, Pakistan, Qatar, Yemen. Anche nella Provincia di Aceh (Indonesia) e in 12 stati della Nigeria del Nord.

3- Algeria, Isole Comore, Egitto, Etiopia, Libia, Marocco, Gibuti, Bangladesh, Tanzania, Kuwait, Malesia, Oman, Filippine (Minadanao), Siria.

4- Sicuramente in Arabia Saudita e in Pakistan. Secondo alcuni attivisti, anche nelle corti shariatiche inglesi: si legga Flora Bagenal, Britain probes Sharia courts’ treatment of women, upi.com, 28/06/2016.

5- Rape and atrocities on a young Christian in Qusair, Agenzia Fides, 02/07/2013.

6- Katherine Weber, Egyptian preacher suggests christian women wear veils to avoid rape, Christian Post, 10/01/2013.

7- «Violenze di Colonia? Colpa delle donne, indossavano profumo ed erano mezze nude». Il commento di un imam della città tedesca, L’Huffington Post, 21/01/ 2016.


Aiuto alla Chiesa che Soffre

Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) è una Fondazione pontificia nata nel 1947 e attualmente presente in 23 paesi con altrettante sedi nazionali.

Ha una doppia missione.

Da un lato quella di sostenere la Chiesa in tutto il mondo e in particolar modo laddove essa è perseguitata, discriminata o priva di risorse. Sono oltre 5mila i progetti realizzati annualmente in 150 paesi. Recentemente la tragica situazione mediorientale ha spinto Acs ad agire in special modo in quest’area, sostenendo le chiese e le popolazioni locali soprattutto con aiuti emergenziali e umanitari. In Iraq dal giugno 2014, inizio della crisi dell’Isis, al giugno 2017, ha finanziato progetti per oltre 35,7 milioni di euro ed è impegnata nella ricostruzione dei villaggi cristiani della Piana di Ninive distrutti dallo Stato islamico. In Siria dal marzo 2011 al dicembre 2017 la Fondazione è intervenuta con progetti per oltre 20 milioni di euro.

La seconda parte della missione di Acs consiste nel denunciare le violazioni alla libertà religiosa e nel promuovere il rispetto di questo fondamentale diritto. Uno strumento importante è in tal senso il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo. Nato nel 1999, il rapporto, tradotto in 7 lingue, fotografa la situazione della libertà religiosa in 196 paesi con riferimento a tutte le fedi.

Inoltre la Fondazione pontificia promuove eventi di sensibilizzazione sul dramma dei cristiani perseguitati. L’ultimo è stato il 28 febbraio 2018, quando Acs ha illuminato di rosso il Colosseo in ricordo dei tanti cristiani che ancora oggi versano il loro sangue a causa della propria fede. Prima ancora, la Fondazione aveva illuminato di rosso la fontana di Trevi a Roma, la cattedrale e il palazzo di Westminster a Londra, la basilica del Sacro Cuore a Parigi, il Cristo Redentor a Rio de Janeiro e molti altri monumenti in tutto il mondo.

Acs Italia

Segretariato italiano – P.zza San Calisto, 16
00153 Roma – tel. 06 6989.3911 – fax 06 6989.3923

http://acs-italia.org/




Prestiti e ricatti

Testo sui ricatti dei prestiti di Francesco Gesualdi |


Qualcuno li aveva definiti «maiali» (Piigs). Erano i paesi comunitari dell’area mediterranea – Portogallo, Italia, Grecia e Spagna – più l’Irlanda, che tra il 2008 e il 2013 si erano trovati in grave difficoltà a causa del loro debito. Intervenne la «Troika» che, in cambio di prestiti (onerosi), pretese una serie di pesanti impegni. Oggi la situazione finanziaria pare più stabile, i governi più deboli, la gente più povera.

Fra il 2008 e il 2013, un precipitare di eventi, non tutti collegati fra loro, rese particolarmente difficile la situazione debitoria di vari paesi dell’eurozona. E a indicare quelli più in difficoltà venne creato l’acronimo Piigs («maiali», in inglese), comprendente Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.

Dall’Irlanda alla Grecia

L’Irlanda fu il primo paese a mostrarsi pesantemente inguaiato, e non per mala amministrazione o per avere voluto garantire ai cittadini chissà quali lussi, ma per aver salvato le proprie banche. L’eccesso di azzardo aveva portato le principali banche irlandesi sull’orlo della bancarotta e, per evitare il loro fallimento, il governo irlandese le foraggiò con 64 miliardi di euro. Un’operazione fatta a debito che in cinque anni portò il debito pubblico irlandese da un minuscolo 25% del Pil nel 2007, a uno spaventoso 120% nel 2012.

Il secondo paese a lanciare l’Sos fu la Grecia che, per la verità, già da anni si portava dietro un pesante fardello. Fin dal suo ingresso nell’euro aveva un debito pubblico pari al 100% del Pil, ma la situazione sembrava stabilizzata. Senonché dal 2004 il debito aveva ripreso a crescere un po’ per fare fronte alle spese connesse alle Olimpiadi, un po’ per garantire ai cittadini pensioni e salari più alti, oltre che servizi migliori. La situazione precipitò nel 2010 quando si seppe che lo scoperto annuale superava il 15% del Pil, mentre il limite imposto dai trattati europei era (ed è) al 3%. Nell’aprile del 2010 la Grecia venne dichiarata inaffidabile dalle agenzie di rating e di colpo non ottenne più un centesimo di prestito dal sistema bancario e finanziario privato. Senza nuovi prestiti, la Grecia non avrebbe potuto pagare né interessi né rate in scadenza: di fatto sarebbe stato come dichiarare fallimento. Una vera sciagura per i creditori, al 70% stranieri, e per l’euro che poteva subire una grave svalutazione per perdita di fiducia. Fu così che, per evitare la catastrofe, il 2 maggio 2010 l’Unione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, la famosa «Troika», misero a disposizione della Grecia 110 miliardi di euro per le scadenze più urgenti. Questi non bastarono e in seguito vennero accordati altri prestiti: 172 miliardi nel 2012 e 86 miliardi nel 2015. Oggi vediamo che il debito pubblico greco ha continuato a crescere, fino a raggiungere, nel marzo 2018, 330 miliardi, il 180% del Pil, detenuto per l’80% da soggetti pubblici: governi europei, Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e greca. Soggetti che, pur essendo pubblici, non si sono mostrati più magnanimi dei creditori privati. Anzi si sono dimostrati peggiori perché hanno approfittato della loro posizione di potere per mettere il parlamento e il governo greco sotto ricatto. Per prima cosa hanno chiarito che non regalavano, ma prestavano con tanto di interessi e di scadenze prefissate per la restituzione del capitale. Poi però hanno fatto di peggio: hanno condizionato l’esborso dei prestiti alla sottoscrizione di una serie di impegni.

Christine Lagarde, IMF Managing Director. © Simone D. McCourtie / World Bank

Le «riforme» della Troika

È successo alla Grecia esattamente come successe, negli anni Ottanta del secolo scorso, nei confronti dei paesi del Sud del mondo, quando il Fondo monetario internazionale si dichiarò disponibile a venire in loro soccorso purché accettassero di introdurre una serie di riforme che avevano come obiettivo la trasformazione delle loro economie in sistemi neoliberisti. E con la scusa di aiutarla a ritrovare la propria sostenibilità economica e a riprendere la strada della crescita, anche la Grecia venne obbligata ad adottare una serie di misure, «riforme» come dice la Troika, cheavevano come obiettivo la riduzione del peso dello stato e la crescita del potere del mercato e, per converso, la riduzione della sicurezza sociale, dei salari e dei diritti dei lavoratori. Con conseguenze disastrose su tutti i piani. Dal 2008 al 2015 in Grecia la spesa sanitaria pro capite fu tagliata di un terzo tanto che oggi un quarto dei greci si ritrova senza copertura sanitaria. Negli ospedali mancano lenzuola, garze e medicinali. Le infezioni ospedaliere sono sempre più frequenti, gli interventi non riusciti si moltiplicano, i medici migliori fuggono all’estero. Salari e pensioni hanno subito tagli dal 30 al 50% mentre la disoccupazione è salita al 25% con i giovani colpiti in maniera particolare. La povertà estrema è passata dal 9% nel 2011 al 15% nel 2015 e, se includiamo anchei greci in povertà relativa, scopriamo che la percentuale complessiva dei poveri al 2015 si colloca al 23% della popolazione. Dal 2009 al 2016 il numero dei senza tetto è quadruplicato a causa dell’abolizione del sostegno all’alloggio. Mezzo milione di greci, su un totale di 10 milioni, vivono grazie ai pasti messi a disposizione dalle organizzazioni umanitarie. Una vera tragedia umana che molti non hanno retto facendo raddoppiare il numero dei suicidi passati da 373 nel 2009, a 616 nel 2015.

Il turno dell’Italia

Anche l’Italia venne inclusa fra i Piigs. Non tanto per un peggioramento repentino del suo debito pubblico, quanto per il suo stato di indebitamento cronico. Con un debito strutturalmente al di sopra del 100% del Pil, gli occhi dei mercati erano puntati sull’Italia per cogliere il benché minimo segnale di peggioramento da sfruttare per organizzare un attacco speculativo contro di essa e magari anche contro l’euro (come avvenuto anche a maggio-giugno 2018, ndr). L’Unione europea sudava freddo e avrebbe tanto desiderato poter entrare a gamba tesa nella politica interna italiana per imporle l’adozione di misure d’austerità che avrebbero rassicurato i mercati e quindi ridotto i rischi di ritorsioni da parte del mondo della finanza. Ma a differenza della Grecia, l’Italia non aveva chiesto prestiti all’Europa, per cui mancava l’appiglio su cui esercitare il ricatto. Alla fine l’Unione europea trovò il modo di fare passare dalla finestra ciò che non riusciva a fare entrare dalla porta e lo fece appellandosi all’intervento di due strutture tecniche: la Banca d’Italia e la Banca centrale europea. Fu così che il 4 agosto 2011, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, si vide recapitare una lettera a firma di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet (riquadro), in cui si segnalava che dopo aver discusso la situazione dei titoli di stato italiani, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea aveva giudicato necessario sollecitare le autorità italiane a «un’azione pressante per ristabilire la fiducia degli investitori». E, per non rimanere nel generico, la lettera elencava dettagliatamente le riforme che dovevano essere intraprese dal governo italiano, compresa l’abolizione delle Province, passando per la piena liberalizzazione dei servizi pubblici, la riforma delle pensioni, la revisione della legge sui licenziamenti e molto altro ancora.

Berlusconi non riuscì a realizzare le riforme auspicate e il 12 novembre del 2011 fu sollecitato a dimettersi per lasciare la poltrona a Mario Monti. Un cambio di guardia voluto dall’Europa che molti non hanno esitato a definire un colpo di stato.

Il gendarme dei conti pubblici

Come richiesto da Draghi e Trichet, il compito di Mario Monti era di «ristabilire la fiducia degli investitori» che, tradotto, significava due cose. La prima: dimostrare che la priorità dell’Italia è servire l’interesse dei creditori. La seconda: dimostrare che la fede dell’Italia è nel mercato. Di qui le operazioni che Monti e i governi successivi compirono: inasprimenti fiscali per garantire maggiori entrate allo stato, taglio alle spese per garantire un avanzo quanto più ampio possibile da destinare agli interessi, privatizzazioni per trasferire al mercato quante più attività possibili, riforme del lavoro per accrescere il potere delle imprese. Il tutto suggellato dalla modifica dell’articolo 81 della Costituzione (legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, approvata con maggioranza qualificata di due terzi del Parlamento, ndr), in ossequio al Fiscal compact, che ha introdotto l’obbligo di pareggio di bilancio a significare che lo stato ha rinunciato a qualsiasi ruolo di orientamento dell’economia. E naturalmente disponibilità a controlli preventivi da parte della Commissione europea che ha il diritto di verificare i programmi di bilancio prima di mandarli all’approvazione del parlamento italiano. E se, per caso, vi trova dei numeri fuori posto ha il diritto di imporre dei correttivi.

Da quando l’Unione europea ha assunto il ruolo di gendarme dei conti pubblici, il percorso che porta all’approvazione dei bilanci nazionali si è fatto lungo e complesso.

Volendo, la procedura inizia a Bruxelles piuttosto che nelle varie capitali europee secondo un cronoprogramma scandito in cinque tempi:

1) Gennaio-marzo: gli organi dell’Unione europea analizzano la situazione di ciascun paese della zona euro e formulano indicazioni di programma per ciascuno di essi.

2) Aprile-luglio: sulla base delle indicazione ricevute da Bruxelles, ogni governo elabora un programma finanziario di medio periodo, corrispondente almeno a un triennio. In Italia il documento, denominato «Documento di economia e finanza» (Def), deve essere approvato dal Parlamento entro il 10 aprile e subito inviato a Bruxelles per un giudizio di merito. L’Unione europea si prende tre mesi di tempo per esaminarlo e formulare le proprie raccomandazioni.

3) Settembre: tramite un apposito documento denominato «Nota di aggiornamento al Def», il governo italiano recepisce le raccomandazioni dell’Unione europea e le sottopone all’approvazione del parlamento.

4) Ottobre: il governo elabora due documenti distinti: il primo, denominato «Documento programmatico di bilancio», descrive le spese previste per l’anno a venire e come saranno coperte; il secondo, denominato «Legge di bilancio», definisce nel dettaglio tutte le misure da assumere per raggiungere gli obiettivi previsti. Il primo documento è mandato a Bruxelles per un parere rapido. 5) Novembre-dicembre: il parlamento discute e approva il «Documento programmatico di bilancio» e la «Legge di bilancio».

Al servizio di pochi

Visto il potere delegato agli organi di controllo europeo, rimane difficile definire i nostri parlamenti strutture sovrane. Ma lo scandalo non è la perdita di sovranità a favore di una struttura sovrannazionale. Lo scandalo è che la struttura sovrannazionale non ha come fine la costruzione di un’Europa più equa, più solidale, più sostenibile al servizio dei diritti di tutti, ma un’Europa al servizio dei mercati affinché i padroni della finanza possano arricchirsi sempre di più alle spalle di tutti.

Francesco Gesualdi

 




Giovani, speranze da non tradire

Testo su Giovani e Giornata della Gioventù di Chiara Giovetti | Foto AfMC |


Il 12 agosto è la Giornata internazionale della gioventù, data fissata dalle Nazioni Unite nel 1999 per promuovere e valorizzare il ruolo dei 15-24enni. Nel 2017 il tema è stato «Giovani che costruiscono la pace», mentre quest’anno sarà «Spazi sicuri per i giovani». Al di là delle celebrazioni, qual è la situazione di questa fascia cruciale della popolazione mondiale?

I giovani sono, nella definizione delle Nazioni Unite, le persone di età compresa fra i 15 e i 24 anni. Sono un miliardo e duecento milioni, circa il 16% della popolazione mondiale. Il World Youth Report@, una pubblicazione delle Nazioni Unite che esce con cadenza biennale, aiuta a farsi un’idea complessiva della loro situazione. Il rapporto più recente (2016, su dati 2015) apre con un’analisi della situazione dei giovani che sottolinea il problema della disoccupazione, «un motivo di preoccupazione quasi ovunque e che interessava, nel 2014, 73 milioni di persone». I giovani che entrano nel mercato del lavoro oggi, si legge nel rapporto, hanno meno probabilità di assicurarsi un lavoro dignitoso rispetto a chi vi ha fatto il proprio ingresso nel 1995.

Se in alcuni paesi sviluppati i tassi di disoccupazione giovanile hanno avuto punte del 50%, in quelli in via di sviluppo – dove vivono quasi nove su dieci dei giovani del pianeta – il problema principale è che i giovani sono sotto impiegati, lavorano nel settore informale, spesso combinando più lavori part time o temporanei, in condizioni lavorative precarie e per un salario basso.

Le statistiche 2013 stimavano che 169 milioni di giovani occupati vivevano con meno di due dollari al giorno, numero che aumentava a 286 milioni per la soglia di 4 dollari al giorno. Le ragazze sono le più esposte ai rischi della precarietà e dello sfruttamento e hanno, fra l’altro, meno probabilità di diventare imprenditrici rispetto ai loro coetanei maschi.

Citando uno studio 2015 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo)@, il World Youth Report avverte che sarebbe necessario creare 600 milioni di posti di lavoro nelle prossime due decadi per assorbire l’attuale numero di giovani disoccupati e gli ulteriori 40 milioni di nuovi lavoratori che entrano annualmente nel mercato del lavoro.

Ovviamente il dato globale maschera differenze anche molto pronunciate nelle tendenze regionali. Il rapporto sottolinea come fra il 2012 e il 2014 il tasso di disoccupazione risultava aumentato ad esempio in Medio Oriente (dal 27,6 al 28,2%) e Nordafrica (dal 29,7 al 30,5%) mentre era diminuito in Africa subsahariana (dal 12,1 all’11,6%) e rimasto quasi uguale in America Latina e Caraibi (dal 13.5 al 13.4%).

Il rapporto menziona anche la condizione dei Neet (acronimo dell’inglese Not in employment, education or training), cioè i giovani che non sono occupati né stanno seguendo un percorso di formazione e istruzione. Il fenomeno interessa a livello globale circa un giovane su cinque e anche in questo caso le donne sono le più esposte. I maschi Neet sono più numerosi nei paesi sviluppati (11,3%); seguono i paesi emergenti (9,6%) e i paesi in via di sviluppo (8%), dove in assenza di meccanismi di protezione sociale i giovani non possono permettersi di non lavorare e sono costretti ad accettare impieghi precari e sottopagati.

Rispetto ai Neet della Ue, un documento del parlamento europeo@ riporta che nel 2015 nell’Unione a essere in questa condizione era il 12% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni (6,6 milioni di persone), cifra che aumenta a 14 milioni (14,8%) includendo le persone fino a 29 anni. Si tratta di un gruppo sociale molto diversificato, che comprende disoccupati a breve e lungo termine, ragazzi in transizione dalla scuola al lavoro, giovani con responsabilità familiari, persone con disabilità o problemi di salute. La probabilità di essere Neet è inoltre maggiore se si ha un livello di istruzione basso e varia notevolmente da uno stato membro all’altro. Gli ultimi dati della Commissione europea – riferiti però alla fascia di età 24-30 – segnalano Italia e Grecia in cima alla classifica con, rispettivamente, il 30,7% e il 30,5% e Lussemburgo, Svezia e Paesi bassi con i tassi più bassi, intorno al 10%.

Altro dato indicativo è quello sulla partecipazione dei giovani alle consultazioni elettorali: secondo uno studio effettuato in 33 paesi dalla rete World Values Survey, che riunisce studiosi di scienze sociali di tutto il mondo, se il 60% dei cittadini nel loro complesso dichiara di votare a ogni elezione, il dato si contrae al 44% considerando solo le persone fra i 18 e i 29 anni.

Quanto ai dati sull’istruzione, l’aggiornamento più recente sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile@ segnala che nel 2014 circa 263 milioni di bambini, adolescenti e giovani in età scolare non erano a scuola. Di questi, 61 milioni erano bambini della scuola primaria, 60 milioni adolescenti della scuola secondaria inferiore e 142 milioni erano giovani della secondaria superiore. Il 70% di questi bambini e ragazzi viveva in Africa subsahariana e Asia meridionale.

Infine, un dato sul rapporto fra giovani e migrazione: nel 2013 (ultimo dato disponibile) sui 232 milioni di migranti a livello globale circa 28 milioni, cioè un po’ più di uno su dieci, erano giovani fra i 15 e i 24 anni e, nello specifico, 11 milioni fra i 15 e i 19 anni e 17 milioni fra i 20 e i 24@.

I progetti di Mco per i giovani

Nel 2018, il lavoro di Mco si concentra proprio sulla promozione e valorizzazione dei giovani, specialmente dal punto di vista della loro condizione lavorativa. I microprogetti che quest’anno i nostri missionari stanno realizzando riguardano l’avvio di attività generatrici di reddito, l’inserimento lavorativo e la formazione professionale.

Uno dei progetti si svolge in Venezuela, paese ancora oppresso da una pesante crisi economica e da un tasso di inflazione che, riportava Reuters lo scorso maggio citando fonti dell’Assemblea nazionale venezuelana, era arrivato a poco meno del 14mila per cento. Il presidente Nicholas Maduro è stato rieletto lo scorso maggio col 67,7% dei voti, ma l’affluenza è stata moto bassa, intorno al 46%, e numerose sono state le contestazioni della regolarità del voto. Oltre un milione di venezuelani ha lasciato il paese negli ultimi due anni, migrando principalmente in Colombia e in Brasile.

«Il salario minimo», scrive padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata che opera in Venezuela, «è salito fino a un milione e trecentomila bolívar, ma non è sufficiente nemmeno a comprare cibo per una settimana» (cfr. MC giugno 2018, p. 27).

Pescatori e artigiani

I missionari della Consolata hanno una presenza a Tucupita, nello stato di Delta Amacuro, dove lavorano con la comunità indigena Warao. Il progetto che padre Zachariah e i suoi confratelli stanno realizzando mira a sostenere cinquanta giovani pescatori fornendo loro strumenti per la pesca – reti e altri accessori – e contribuendo alla fabbricazione di canoe. Questo supporto dovrebbe permettere ai giovani di fare della pesca non solo uno strumento di sussistenza ma anche un mezzo per generare un piccolo reddito che consenta loro di far fronte alle spese della famiglia, ad esempio quelle sanitarie o quelle collegate alla scolarizzazione dei bambini. I casi di abbandono scolastico, infatti, sono ora molto numerosi perché le famiglie non hanno le risorse per acquistare libri, uniformi e per pagare i costi dei mezzi di trasporto necessari ai figli per raggiungere la scuola.

Un altro intervento sarà coordinato da padre Juan Carlos Greco e coinvolgerà altri 90 giovani, sempre di Tucupita, nella produzione di manufatti artigianali. Il popolo Warao ha un artigianato tradizionale di alta qualità specializzato nella produzione di oggetti come cesti, amache, borse in fibra di moriche (palma) che vengono venduti o scambiati sul mercato locale. Questo progetto prevede anche una contestuale formazione alle modalità di estrazione sostenibile delle risorse naturali, la promozione di forme di aggregazione cooperativa fra i giovani e il rafforzamento delle relazioni e degli accordi con i commercianti locali per permettere ai manufatti di raggiungere in modo più sistematico un mercato più ampio.

Costa d’Avorio, crescita con scosse

A giudicare dai dati della Banca mondiale, la crescita economica in Costa d’Avorio nell’ultimo quinquennio è stata una delle più solide del continente. Tuttavia ha conosciuto un rallentamento (dal 10% del 2012 al 7,6% dell’anno scorso) dovuto soprattutto al crollo del prezzo del cacao, uno dei prodotti su cui si basa l’economia ivoriana, a cui si sono aggiunti l’ammutinamento dell’esercito e a una serie di scioperi nel settore pubblico che hanno creato nel 2017 una situazione temporanea di insicurezza e di stallo.

Se nell’inverno fra i 2016 e il 2017 400mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani a causa della caduta dei prezzi, due mesi fa è stato l’anacardio a creare non pochi grattacapi agli operatori economici del paese. Il prezzo al chilo stabilito a febbraio dal Consiglio cotone-anacardio, organo che regola la filiera, variava dai 500 franchi Cfa a bordo campo ai 584 di prezzo al porto (cioè fra i 76 e gli 89 centesimi di euro). Ma, riportava a maggio il segretario della Federazione nazionale compratori e cooperative dell’anacardio, Abdoulaye Sanogo, «a causa del crollo del prezzo, oggi si negozia entro una forbice che va dai 250 ai 400 franchi». Risultato: oltre 300 camion bloccati con il loro carico nei principali porti ivoriani perché gli esportatori rifiutavano di comprare a un prezzo che giudicavano troppo alto@.

Eventi come questo a livello di chi trasforma le statistiche in grafici sono rappresentati come nulla più che un breve segmento in discesa e possono, nel corso dell’anno, ritornare a valori positivi. Ma, al livello delle economie dei piccoli produttori, creano effetti devastanti in grado di mettere in ginocchio intere famiglie, le quali di solito ricevono per il raccolto venduto solo un acconto e aspettano per mesi un saldo che può anche non arrivare mai.

Un negozio per i giovani

Grand Zattry è un villaggio della Costa d’Avorio sudoccidentale nella regione del Basso Sassandra, di cui la città portuale di San Pedro è il capoluogo. Qui padre James Gichane sta realizzando un progetto che si rivolge ai giovani disoccupati di venticinque villaggi che fanno riferimento alla parrocchia.

Come in gran parte delle zone rurali della Costa d’Avorio, molti ragazzi terminano a fatica la scuola primaria e non proseguono il percorso scolastico. I genitori, infatti, non li sostengono negli studi, in parte perché le famiglie non riescono a coprire i costi per la scuola e in parte perché preferiscono impiegare il prima possibile i ragazzi nelle piccole piantagioni familiari. «Ma in questo modo», spiega padre James, «i giovani si trovano a dipendere totalmente dalla famiglia e a dover condividere il magro reddito che viene dal raccolto invece di acquisire le competenze necessarie a migliorare e ampliare l’attività agricola familiare o ad avviare un’attività propria». In tanti lasciano il villaggio per i centri urbani medi e grandi, finendo per ingrossare le fila dei lavoratori non qualificati, precari e mal pagati.

Il progetto che padre James sta portando avanti prevede l’avvio di un negozio di pagnes (il telo che in gran parte dell’Africa le donne usano come gonna, come porte-enfant, come copertura per i banchetti al mercato e per numerosi altri usi), magliette e polo. Il negozio, che con il progetto si provvederà a costruire ed equipaggiare, permetterà ai giovani coinvolti di avere un reddito e, a poco a poco, dei risparmi con i quali cominciare a loro volta un’attività. Alcuni giovani hanno proposto di utilizzare i guadagni per avviare dei vivai di alberi della gomma e di piante di cacao, le due specie maggiormente coltivate nella zona.

Spagna, da minori stranieri a lavoratori

Un altro progetto che i nostri missionari intendono realizzare è quello del supporto a dieci ragazzi migranti, fra i 18 e i 25 anni, arrivati in Spagna quando non avevano ancora raggiunto la maggiore età. Questi giovani, che escono dal Sistema di protezione dei minori, si trovano ora ad affrontare l’entrata nel mercato del lavoro spagnolo e, in particolare, quello della città di Malaga.

Il progetto prevede di formare i ragazzi come aiuto cuochi e seguirli nel percorso di inserimento lavorativo. Completeranno la formazione anche laboratori grazie ai quali i giovani acquisiranno conoscenze sul settore delle imprese ricettive a Malaga e sulle tecniche per affrontare un colloquio, compilare un curriculum e promuovere la propria candidatura a fronte di un’offerta di lavoro.

Chiara Giovetti




I Perdenti 36: Annalena Tonelli

Testo «intervista» di Mario Bandera a Annalena Tonelli |


Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sente chiamata a donarsi per gli altri, come racconta nel dicembre 2001, durante un convegno al quale è stata invitata, svolto presso l’Aula Nervi in Vaticano: «Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri attraverso Lui».

Dopo aver frequentato il liceo classico e un anno di stage a Boston in America, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna. Si forma nell’Azione Cattolica forlivese, nella sua parrocchia e nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), della cui sezione femminile locale diviene presidente. Nel tempo libero dagli studi, organizza convegni e incontri. Grande trascinatrice, porta le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuisce in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo». Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desidera partire per l’India, che ha imparato a conoscere attraverso la lettura dei libri di Gandhi.
I familiari non vogliono che parta né per l’India né per altri paesi, ma lei coglie la prima occasione possibile e, dietro consiglio di un’amica, parte per Nairobi, capitale del Kenya. Proprio in terra d’Africa comincia così la sua straordinaria avventura come missionaria laica, da cui scaturisce il nostro colloquio.

Primo piano di Annalena Tonelli scattato a Boston (1961) – © Erebfan

Annalena come è stato il tuo primo impatto con la realtà africana?

Padre Giovanni De Marchi, missionario della Consolata nella diocesi di Nyeri, mi accoglie a Nairobi e con lui vado come insegnante di inglese nella Chinga Boys, una scuola secondaria fondata nel 1964 vicino a Othaya nella missione di Karema. Lì comincio a farmi le ossa, a conoscere l’ambiente e ad allargare il mio interesse verso il Nord desertico del Kenya. Più passano i mesi, più mi convinco che il mio futuro è in Africa. A un amico sacerdote scrivo: «Sono certa che alla fine scoprirò che anche la vita qui è grazia, perché tutto è grazia, se io dovunque mi trovo, vivo semplicemente, nello sforzo umile ma potente e continuamente rinnovato di imitare il Cristo».

Come si caratterizza la tua permanenza in Africa?

Nel 1970 mi faccio trasferire nella scuola governativa di Wajir, nel Nord Est del Kenya, dove padre Salvatore Baldazzi, sempre missionario della Consolata e romagnolo come me, ha appena aperto una Girls’ Town. Lì mi raggiunge la mia amica Maria Teresa Battistini e poi altre compagne. Insieme diamo vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Ci dedichiamo in particolare ai nomadi – prevalentemente somali – del deserto, dei quali ammiro la fede semplice e l’abbandono totale in Dio.

La vostra presenza in quell’ambiente non è certamente priva di rischi.

Siamo ostacolate in diversi modi. Ci prendono a sassate e una notte i ladri non solo ci derubano ma anche ci malmenano pesantemente. Non molliamo però. Con gli aiuti che riceviamo da Forlì, fondiamo un centro di riabilitazione per disabili – non esisteva niente del genere in quel vasto territorio – e inizio anche a occuparmi dei malati di tubercolosi, tanto che riesco a mettere a punto un nuovo metodo efficace di cura (la TB manyatta) che si adatta perfettamente alla vita dei nomadi.

La situazione nel Nord del Kenya è tesa a causa della guerriglia degli Shifta e voi vi trovate coinvolte in un fatto molto grave.

Nel febbraio 1984 miliziani filogovernativi bruciano alcuni quartieri di Wajir accusando i residenti di essere sostenitori dei guerriglieri Shifta. Radunano poi migliaia di uomini nell’aeroporto di Wagalla, picchiano e torturano e il giorno 10 li cospargono di benzina e danno loro fuoco. È un massacro, anche se la maggioranza si salva togliendosi i vestiti. Alla notizia, dipingo una croce rossa sulla nostra Toyota e vado a curare i feriti, recuperare i morti e dare loro sepoltura. Per questo sono minacciata e anche picchiata. Mi salvo perché un vecchio capo musulmano locale mi difende.

Con l’aiuto di amici, mandi alle ambasciate a Nairobi le fotografie di mucchi di cadaveri e feriti per fermare l’eccidio che rischiava di estendersi.

Per tutti questi motivi veniamo espulse dal paese come «persone non gradite» e la nostra comunità di laiche missionarie deve sciogliersi.

Di fronte alla nuova situazione venutasi a creare, come reagisci?

Decido di trasferirmi in Somalia, prima a Merca e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondo un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili. Sono più che mai convinta che con l’istruzione si possa far evolvere la situazione economica e sociale di quella che ormai considero la mia gente.

Un bel progetto non c’è che dire.

Mi oppongo anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, in questo molto appoggiata dalle donne somale. Aggiornandomi continuamente, riesco a ottenere dei diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo laureata in medicina, investo tutti i miei sforzi in favore dei malati e perfeziono anche la profilassi per la tubercolosi già sperimentata con la TB manyatta a Wajir. Il metodo verrà utilizzato in seguito su larga scala dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Da dove ricavi la forza per andare avanti?

Se devo proprio essere sincera la radice che sostiene tutta la mia attività sta nella preghiera contemplativa, nella meditazione del Vangelo e nell’adorazione eucaristica, quando questa è possibile. Nei miei ritorni in Italia frequento l’eremo di Cerbaiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. In tutta la mia vita ho sentito costantemente la tensione verso una vita più contemplativa, ma il pensiero dei miei amati somali mi spinge sempre a tornare da loro.

Con questa forza interiore impari a far fronte alle difficoltà dell’ambiente e ai rischi e pericoli quotidiani.

Anche se sono continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata, non ho mai avuto paura, e anche questa è una cosa che ho imparato giorno dopo giorno vivendo con fede la mia situazione.

Alcune volte sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata anche imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Quando poi quel vecchio e rispettabile capo di Wajir decretò che sarei andata ugualmente in Paradiso, anche se ero un’infedele, tutti hanno accettato che io fossi l’unica cristiana residente in quel luogo.

Nella condizione singolarissima come quella da te vissuta in terra d’Africa, avrai messo a fuoco una visione più approfondita del messaggio di Gesù di Nazareth.

L’esperienza maturata vivendo in mezzo ai poveri mi ha dato la convinzione incrollabile che ciò che conta nella vita è amare, solo amare! Quando si ama, la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Io perdo la testa per i brandelli di una umanità ferita; più gli esseri umani sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io sento di amarli. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia.

Praticamente sei sempre vissuta con i somali, in un mondo rigidamente musulmano.

Foto di Annalena Tonelli durante l’incontro tenutosi a Forlì dopo aver ricevuto a Ginevra il Nansen Refugee Award. PASQUALE BOVE/ANSA/DEF 2003

Dove ho lavorato in Africa non c’era nessun cristiano con cui poter condividere un cammino di fede. All’inizio tutto mi era contro. Ero giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca, dunque disprezzata da quella gente che si considerano superiori a tutti. Ero cristiana, dunque oltraggiata, rifiutata, temuta. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore, anzi è un disvalore. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro. Io mi sento madre autentica di tutti quelli che ho salvato.

Questa è certamente un’esigenza fondamentale della tua natura.

Certo io in loro vedo Lui, Gesù il Cristo, l’agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo. Ma il dono più straordinario, il dono per cui ringrazierò Dio e loro per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Loro musulmani mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato che devo fare tutto, tutto incominciare, tutto operare, tutto sperare, sempre nel nome di Dio.

Sei mai stata aiutata da altri volontari nel tuo lavoro?

Dall’Italia e da altri paesi europei arrivavano in periodi diversi dei volontari per aiutarmi: c’era chi rimaneva qualche mese, chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive, ma nessuno ha mai deciso di fermarsi per qualche anno. Economicamente le opere che avevamo avviate erano sostenute da un Comitato di aiuto sorto nella mia città a Forlì, e da altre organizzazioni internazionali. Del resto, io non appartenevo a nessuna congregazione od organismo religioso o laico, mi bastava la scelta fatta nella gioia della mia gioventù, di dedicarmi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori.

Si può dire che tu donna di poche parole, eri impegnata più ad agire che a parlare, tanto meno di te stessa.

In compenso se in Italia, al di fuori della mia città, potevo essere poco conosciuta, le somale emigrate nel nostro paese, i nomadi del Kenya, i tubercolotici della manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè gli ultimi e più sconsolati della Terra, mi facevano buona pubblicità parlando delle nostre attività non appena se ne presentava l’occasione.

Inoltre, tu credevi fermamente nel dialogo: tra le persone, le culture, tra fedi diverse.

Si, ma senza indietreggiare di un millimetro, senza dimenticare l’assoluta originalità del Vangelo. Ogni giorno noi ci adoperavamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare. Sapessi come è difficile il perdono! I miei musulmani facevano tanta fatica ad apprezzarlo, ma lo chiedevano per la loro vita, riconoscevano in questo l’originalità della nostra presenza in mezzo a loro.

Il 25 giugno del 2003 Annalena Tonelli riceve dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, il prestigioso premio «Nansen Refugee Award», per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. La sua tenace dimostrazione di amore gratuito – capace di perdonare anche chi tenta di ammazzarla – fa breccia in tante delle innumerevoli persone che Annalena accosta durante la sua avventura africana. Solo alla luce di questo si capisce come mai donne musulmane accettino che una straniera (per di più cristiana) insegni loro – ben prima che la lotta alle mutilazioni genitali diventi una bandiera delle femministe occidentali – come liberarsi da una pratica tanto antica quanto devastante per le donne. Il paradosso è che a capire in profondità il segreto di quella donna umile e tenace è proprio il vecchio capo musulmano di Wajir: «Noi musulmani abbiamo la fede – confidò una volta alla missionaria italiana -, voi l’amore».

Il 5 ottobre 2003, mentre compie l’ultimo giro tra gli ammalati del suo ospedale a Borama, Annalena viene uccisa con un colpo alla nuca, sparato da un fanatico. Ha 60 anni, dei quali 34 trascorsi in Africa tra i poveri più poveri. Per suo espresso desiderio, è sepolta a Wajir, in Kenya, dove c’è il suo primo ospedale.

Don Mario Bandera

Documentario dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati su Annalena in inglese.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=TgTVdj1WXKQ?feature=oembed&w=500&h=281]

Versione italiana dello stesso documentario.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=SpTCSEzDuk4?feature=oembed&w=500&h=281]

«L’UNHCR Somalia ha girato un documentario di 26 minuti, prodotto e diretto da Matt Erickson della Poet Nation Media, per celebrare il suo incredibile lavoro. É stato girato a Nairobi, Borama e Wajir. Il filmato è stato doppiato in italiano dalle ragazze e dai ragazzi della A.C.R. di Vecchiazzano Forlì».




Amico: A due a due

Testo  editoriale di Amico di Luca Lorusso


È tempo di spogliarti e di metterti (di nuovo) in cammino. È tempo di liberarti dall’ingombro di ciò che è superfluo e di generare nuovi incontri. È tempo di lasciare la presa anche su ciò che superfluo non è e di provare la gioia di rinascere dalla cura delle Sue mani.

Che tu sia in vacanza o al lavoro. Che tu faccia un’esperienza di servizio o di preghiera, nel tuo paese o in missione, è arrivato il tempo, ed è ora, di muoverti e di uscire su strade nuove. Uscire dalle tue certezze, dalle consuetudini, uscire da te. Confidando nella leggerezza del tuo bagaglio lasciato a casa, della tua nudità appena celata da una veste consumata, del tuo sguardo creativo e aperto su tutto. Confidando in Lui.

Una sola tunica, un paio di sandali, un bastone. Un compagno di viaggio (fondamentale), e il dono di avere potere sugli spiriti impuri (cfr. Mc 6,7-13). Ecco tutto. Non un indirizzo, un nome di persona fidata cui chiedere alloggio. Non una lettera di referenze. Nemmeno l’olio per ungere e guarire gli infermi. Tantomeno del pane per saziare la tua fame, o un prontuario di preghiere per scacciare i demoni. Solo te stesso, un amico e la vostra vita in ricerca, accompagnata dallo spirito.

Il pane e una stuoia su cui riposare li troverai strada facendo. Anche l’acqua per lavare la tua gola secca, i tuoi piedi impolverati e la tua tunica sudata. Dovunque entrerai in una casa, lì rimarrai finché non scenderai di nuovo per la strada. Lì avrai il tempo di farti penetrare dal mistero dei volti che accoglierai e dai quali sarai accolto. Sarà lì, in quella dimora, nelle esistenze che vi abitano, che troverai l’olio per ungere gli ammalati, le parole e gli atti per scacciare i demoni. Nelle persone con cui condividerai la bellezza e la sporcizia, nella loro cultura, nel loro modo di amare e soffrire e gioire, troverai i semi della guarigione e della vita eterna alla quale sei chiamato, tu con loro.

Buona estate leggera, da amico

Luca Lorusso


Su Amico di questo mese:

  • Bibbia on the road: La preghiera secondo Matteo
  • Per la preghiera: Si alzò e andò in fretta
  • Progetto Tanzania: Formazione contro povertà
  • Amico mondo: L’istruzione che libera




Preghiera 15. Pregare:

desiderio di respirare in Dio

Testo su la preghiera di Paolo Farinella, prete |


Nel numero precedente abbiamo tentato di pregare con il brano del Vangelo di Mt 14,22-33 dando alcune indicazioni versetto per versetto.

Da questo testo, che descrive il modo di pregare di Gesù, possiamo dedurre alcuni atteggiamenti o, se vogliamo, regole, per semplificazione, sapendo che la preghiera e la vita spirituale non possono essere irrigidite dentro strutture immobili. Da un lato perché «lo spirito soffia dove vuole» e, possiamo anche aggiungere, «quando vuole» (Gv 3,8); dall’altro perché la preghiera è strettamente legata alla psicologia e alle condizioni del momento: euforia, depressione, gioiosità, preoccupazione, stanchezza, entusiasmo, delusione, serenità, attivismo, tensione, solitudine, paura, voglia di sole e vita, bisogno di starsene soli e rintanati, protesi verso gli altri, chiusi in se stessi… tutto ciò che è umano ci appartiene e non possiamo dismetterlo né nella vita né nella preghiera, altrimenti trasformiamo quest’ultima in alienazione, o nel migliore – o peggiore? – dei casi in abitudine che inevitabilmente scade nell’anonimato della routine.

Osservando intimamente il modo di essere e di agire di Gesù, possiamo imparare da lui nel tentativo di imitarlo, dal momento che il vangelo è stato scritto proprio per questo: farci vedere lui per convertirci noi, in forza del principio spirituale fondamentale: «Imparate da me» (Mt 11,29). Paolo di Tarso è intriso di questo principio fino al punto da diventare, a sua volta, lui stesso modello trasparente di Cristo: se in 1Cor 1,16 («Siate miei imitatori»), osa proporsi come modello, rischiando di apparire presuntuoso, appena dieci capitoli dopo, non ha dubbi e rafforza il suo atteggiamento, fondandolo sulla sua identità con il Signore: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Tutto questo è la traduzione lineare del motivo che Dio stesso dà come fondamento dell’agire umano: «Siate santi perché Io-Sono Santo» (Lv 11,44-45; 19,2; 20,7.26; 1Pt 1,16).

Il fondamento è Dio stesso, non un premio (paradiso), non un beneficio, ma la persona stessa di Dio perché se si è immagine sua non si può non mettersi a fuoco con lui fino a diventare una cosa sola, una sola identità. Gesù lo dice nel suo discorso costituente e programmatico: quello della montagna (cfr. Mt 5-7) dove propone non come un ordine, ma con una prospettiva e un processo di crescita: «Voi sarete perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48). In greco il verbo è al futuro «sarete» e l’aggettivo «perfetti – tèleioi» contiene il senso di maturità e di completezza nel divenire. Non «siete» che metterebbe in evidenza un impegno volontaristico di stampo morale: bisogna obbedire; ma «sarete» che si apre al divenire, all’evoluzione, alla crescita verso la maturità e la pienezza, avendo come modello il Padre, sperimentabile nella persona di Gesù (1Gv 1,1-4).

La preghiera è il processo di crescita di tutta la vita, non momenti staccati e separati, quasi occasionali. Essa non deve riempire nulla, non deve ottenere nulla, non deve nemmeno chiedere nulla, perché «il Padre vostro celeste sa» il vostro bisogno (Mt 6,32). Si prega per imparare a diventare uccelli del cielo e gigli del campo che senza affanno e preoccupazioni si lasciano nutrire e vestire da Dio con la gloria della sua bellezza (cfr. Mt 6,25-32). Pregare è desiderio di respirare in e con Dio.

Paesaggio desertico e roccioso nella penisola del sinai sulla strada verso Santa Caterina (© AfMC / Bellesi)

Di seguito presentiamo alcuni atteggiamenti o regole dedotti da Mt 14,22-22.


1ª regola della preghiera

Per pregare bisogna creare le condizioni ambientali che non si possono improvvisare «sul momento», del tipo «adesso vado in chiesa a recitare il breviario, il rosario (o quello che si vuole) così mi tolgo il pensiero». Dietro questo modo di «orazionare» c’è la paura (e solo quella) di venire meno a un obbligo; se non ci fosse l’obbligo, forse, quasi certamente, non vi sarebbe la preoccupazione di «togliersi il pensiero». Quando dobbiamo incontrare una persona importante o comunque non abituale, «ci prepariamo» e predisponiamo anche il luogo dell’incontro. Gli innamorati poi sono straordinari: prima dell’appuntamento si preparano meticolosamente: si lavano, si profumano, si vestono adeguatamente e vivono l’ansia dell’attesa che li predispone alla gioia della vista e dell’abbraccio. Tutto è proteso verso l’altro, il quale, anche da assente abita la vita di chi attende.
Nella 2ª puntata (marzo/2017), scrivemmo:

«Il Talmùd (trattato Berachòt/Benedizioni 30b) insegna che bisogna stare davanti a Dio in una condizione o stato di bellezza, cioè davanti a Dio bisogna presentarsi anche vestiti come si conviene e non a casaccio come capita. Nessuno si presenta in casa di ospiti vestito di stracci o in tuta da lavoro, ma si mette il vestito bello per rispetto. Se facciamo questo per gli appuntamenti mondani, o per un colloquio importante, o per galateo, come non vestirsi di bellezza nel presentarsi alla Maestà e alla Gloria della Shekinàh/Presenza, sapendo che è Dio stesso che vuole stare alla nostra presenza?».

Non basta essere protesi verso l’altro, è indispensabile essere disposti «a perdere tempo per Dio». Solo così la preghiera diventa un dono donato di sé senza calcoli, un abbandono senza riserve in cui trova riposo la vita vissuta prima del momento specifico della preghiera che a sua volta diventa fondamento della vita che segue. Anche se uno o una sono soli, la preghiera è sempre comunitaria perché per sua natura è ekklesiale. Pregando, infatti, si passa dallo stato di massa amorfa allo stato di persona cosciente che sa di appartenere a una comunità. Ci sembra che questo sia il senso della «costrizione» con cui Gesù obbliga i discepoli ad allontanarsi dal pericolo di essere coinvolti in una massificazione senza volto e nome. La folla è anonima, il popolo è sempre cosciente.

2ª regola della preghiera

Per pregare occorre «salire», mai scendere, perché pregare è alzarsi di tono, di stile, di vita, salire di senso. È andare in alto, non come estraniazione, ma come processo di allargamento dell’orizzonte. Essa «illimpidisce lo sguardo» e insegna a «vedere» con gli occhi di Dio, il quale, quando comunica, convoca sempre «in alto» e mai in pianura o negli anfratti nascosti. Israele è stato costituito popolo ai piedi del Sinai (Es 19,1-15) e la «Parola» scritta e orale scese dall’alto per consacrare l’alleanza (Es 32,15-16). Gesù attira tutti a sé non sdraiato per terra o dondolandosi su un’amaca prendendo il sole, ma dall’alto della croce, essendo «innalzato da terra» (Gv 12,32). I Padri della Chiesa definivano la preghiera come «elevatio mentis in Deum», dove la «mens» latina ha il senso di «energia mentale, comprensione, spirito dotato di ragione, coscienza» e quindi cuore, anima, temperamento, volontà e passione. Gli Ebrei quando pregano «si dondolano», avanti e indietro, perché nella preghiera anche il corpo deve partecipare, fondendo così un solo afflato, coscienza e corporeità. In una parola è la totalità della persona che «sale» a Dio: è la preghiera interiore, il fulcro e il punto di arrivo dello spirito e del corpo che si fondono in un’unica realtà espressa con sentimenti umani.

Nota etimologica.

«Salire» dalla radice «sal-, sar-» che si riscontra nel sànscrito, nell’antico (e moderno) francese «saillir» significa «zampillare» (dal basso in alto, quindi uscire), mentre nelle lingue slave si è sviluppato il senso derivato di «inviare/inviato/legato»: chi è inviato è letteralmente «mandato fuori» (idea di movimento finalizzato).

Applicando questi significati, per altro abbastanza uniformi, alla preghiera, possiamo dedurre che pregare voglia dire «zampillare» come una sorgente dal profondo verso l’alto, costruire, innalzare, in altre parole educarsi ad affacciarsi sulla soglia della vita di Dio e permettere a Dio di varcare la soglia della nostra vita. Paradossalmente, nella vita spirituale per salire bisogna avere coscienza del proprio «profondo», cioè della propria identità. Se si vuole, assumendo il significato che si è affermato nelle lingue slave, è anche bello immaginare che la preghiera sia un «atto diplomatico» dell’orante che porta a Dio le credenziali dell’umanità, facendosi garante con la vita e le parole di quello che porta. Qui possiamo intravedere un aspetto «mediatore» dell’orante che fa propria la vita della comunità/umanità e non si estrania, ma si confonde, diventando una cosa sola, legando il proprio destino al destino del mondo, come fa il grande profeta Mosè (Es 24,12-18; 34,2-4).

Nota patristica sull’«elevatio mentis» e bibliografia essenziale.

Scrive sant’Agostino nella Lettera a Proba: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime” (Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cfr. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (sant’Agostino, Lettera a Proba 130, 9,18–10,20; CSEI 44, GO 63).

Per approfondire

Cfr. ad es., sant’Agostino, Sermo 9,3; Giovanni Damasceno (676-749), De fide orthodoxa 3,24; Evagrio Pontico, De oratione, 3; cfr. anche san Tommaso D’Aquino, Summa, IIa-IIae q. 83, art 1, in La Somma Teologica, edizione bilingue, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014,788-789, dove cita e spiega Giovanni Damasceno.

Per un approccio semplice, non specialistico, e facilmente reperibile:

  • Carlo Maria Martini, Non date riposo a Dio. Il primato della Parola nella Chiesa, Edizioni Dehoniane, Bologna 2012.
  • Paolo Squizzato, Ancor meglio tacendo. La preghiera cristiana [sintesi a mo’ di slogan della tradizione], Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2016.
  • Monica Cornali, Le mie lotte con l’angelo. Elevazioni spirituali [la vita di ogni giorno immersa in Dio], Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2017.

Per un prontuario di preghiere del primo millennio, dalla Bibbia al sec. XI, testi greci e latini con traduzione a fronte, cfr. Salvatore Pricocco – Manlio Simonetti, La preghiera dei cristiani, Fondazione Lorenzo Valla /Arnoldo Mondadori Editore, Roma 2000.


3ª regola della preghiera

Non basta «salire», bisogna salire «sul Monte» perché Dio non sta mai in pianura, ma si manifesta sempre su un monte. Quando si prega è necessario, anzi indispensabile sapere dove si è, come si è, verso dove si va ed eventualmente anche che cosa si chiede. Sant’Ignazio di Loyola insegna che chi prega deve sapere quello che chiede. Pregare non è dire parole o sentimenti a caso, ma avere le idee chiare e cuore intenso sulla propria condizione, sulle proprie necessità, sulle proprie richieste. Dio non è una chiavetta dove ciascuno apre il file che vuole e quando vuole. Come abbiamo appena detto sopra, nella 2a regola, più alto è il monte più largo è l’orizzonte, più ampia la visione e la capacità di «vedere». Quello che a valle è striminzito, dalla cima del monte appare come è: un orizzonte mozzafiato, a perdita d’occhio che impone alla vista un contesto e un’armonia maggiori. Succede spesso che nella preghiera bisogni, necessità, progetti, prospettive, dolore, paura, sentimenti, cuore, limiti e sconfitte acquistano una nuova dimensione, cambiano perché il cuore e l’anima s’illuminano e vedono in modo nuovo, dopo avere sperimentato «collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista» (Ap 13,18).


4ª regola della preghiera

Non basta salire sul monte, occorre anche «starci»; non si tratta infatti di una gita in montagna che si esaurisce con la fatica della salita e un breve spuntino in cima, godendo il panorama di straordinaria bellezza per ridiscendere anche in fretta al piano, magari per timore di piogge o valanghe. Qui si tratta di uno «stato» permanente di frequentazione. La montagna è la parabola che deve animare ogni nostro agire e progetto: tutto deve convergere verso l’alto, cioè verso la pienezza della propria realizzazione che può attuarsi solo stando con Dio e assaporandone la Shekinàh/Dimora/Presenza. Bisogna avere la coscienza di essere «sacramento» dei popoli che aspirano a salire il monte del Signore (Is 2,1-5). Nel «luogo» dove è Dio, bisogna andarci da «soli» e restarci a lungo: «Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù» (Mt 14,23b), immerso nel rapporto personale col Padre, nel silenzio dell’Assenza di Dio, nell’aridità del deserto circostante. Stare «da solo» per Gesù non significa essere isolato o peggio ancora solitario. Egli non ha abbandonato i discepoli, ma li ha messi al sicuro dalla folla improvvisata e senza identità. Sperimentato il fallimento delle folle, Gesù prende coscienza che deve lasciare una strada e intraprenderne una nuova. Davanti a un bivio sa perfettamente che i discepoli, facili all’entusiasmo del successo, possono impedirgli l’immersione nella verità di sé. A volte per realizzare la comunione, può essere necessario, distaccarsi. Egli purifica la propria coscienza e i criteri di valutazione per scoprire se stesso e capire il suo futuro.

Pregare – ormai lo ripetiamo come un ritornello responsoriale – è illimpidirsi lo sguardo per vedere dove gli altri sanno solo gettare distrattamente uno sguardo superficiale. «Starci» ha un solo significato – anche questo lo abbiamo detto e ridetto – è perdere tempo per e con la persona amata: Gesù ne perde tanto di tempo con il Padre. Non agisce per dovere o per bisogno, solo l’amore lo guida, lo nutre, lo brucia e lo consuma come una candela che si lascia ardere, come il roveto della Presenza del Sinai (Es 3,2). Se non fosse così, potrebbe forse dire «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30)? Non potrebbe, non oserebbe. Gesù fa sua la fatica di Mosè e il suo anelito di pastore e guida e ne rivive la missione. Mosè sta sempre davanti a Dio fino a diventare così raggiante da doversi coprire il volto (cfr. Es 34,29-35). Egli, infatti, sale sempre «verso il monte del Signore» (Es 19,3; 24,18,34,4) per porsi come intermediario.

Per andare a Gerusalemme Gesù sosterà al monte della trasfigurazione, dove avrà come testimoni qualificati Mosè ed Elìa: il Lògos che è dal principio (cfr. Gv 1,1; cfr. Pr 8,22-31) è garantito da tutta la Toràh (Mosè) e da tutti i Profeti (Elia), cioè da tutta la Scrittura del popolo eletto. Pregare per Mosè e per Gesù è essere strabici: un occhio al cielo e uno alla terra. Davanti a Dio implorare il perdono per il popolo e davanti al popolo spronandolo a salire sempre più in alto. Da una parte sprona il popolo, dall’altra «costringe» Dio a essere Dio, cioè perdono (Es 32,30-31).


5ª regola della preghiera

Dopo la preghiera personale, Gesù ritorna alla vita dei discepoli che è agitata da un vento contrario (cfr. Mt 14,24) e in piena notte. La preghiera non è alienazione e astrazione dalla vita, perché sarebbe astrazione dall’umano, l’unico ambito dove possiamo incontrare Dio. La preghiera è una cattedra per imparare a trasformare la vita in dono orante, vivendola fino in fondo affrontandone anche gli aspetti negativi e pericolosi. Chi non sa pregare da solo, non sa pregare in comunità e chi non sa pregare ekklesialmente non è capace di pregare da solo, perché i due aspetti sono complementari ed essenziali.


6ª regola della preghiera

Dopo la preghiera, Gesù si manifesta ai suoi presentandosi come il Dio d’Israele che domina le acque. La preghiera ci rende partecipi della natura di Dio e ci fa assomigliare a lui anche nel compiere miracoli (cfr. At 3,2-16). Chi prega può camminare sulle acque e dominare il male che esso rappresenta perché non agisce in forza di strani poteri magici, ma in comunione con il Dio che ha creato il cielo e la terra e con il Figlio che ha redento il mondo e con lo Spirito Santo che lo santifica. Stare nel mondo assumendo la natura di Dio: è questo il compito supremo della preghiera cristiana. Non è un caso che noi iniziamo l’Eucaristia con la preghiera, databile sec. IV, che dice coralmente: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa» che è il cuore dell’atteggiamento orante. Cinque azioni o identità per un solo scopo: la gloria di Dio, che non significa l’onore e il rispetto della divinità onnipotente, ma solo innestarsi nella gloria ebraica, la «Kabòd – peso» di Dio, cioè la sua natura, la sua consistenza, la sua stabilità, in una parola, la sua Persona.


Bisognerebbe aggiungere la 7ª regola della preghiera, cui altre volte abbiamo accennato e descritta molto bene dal Targùm al Cantico dei Cantici dove il giovane amante cerca di vedere il volto dell’innamorata: «Colomba mia! Nelle spaccature della roccia, nel nascondiglio del dirupo, fammi vedere il tuo volto, fammi udire la tua voce! Perché la tua voce è soave, e bello il tuo volto» (Ct 2,14). Il Targùm proclamato in sinagoga al tempo di Gesù commenta questo testo del Cantico:

«Subito, allora, essa [l’Assemblea d’Israele] aprì la sua bocca in preghiera davanti al Signore (Es 14,10); e uscì una voce dai cieli dell’alto, che disse così: Tu, Assemblea d’Israele, che sei come colomba pura, nascosta nella chiusura di una spaccatura di roccia e nei nascondigli dei dirupi, fammi udire la tua voce (cfr. Esodo Rabba XXI, 5 e Cantico Rabba II, 30). Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, e bello è il tuo volto nelle opere buone» (cfr. Mekilta Es 14,13).

Al desiderio dell’innamorato di vedere il volto della sposa, il Targùm con un’arditezza straordinaria fa rispondere Dio che esprime un desiderio struggente: è lui stesso, che vuole contemplare il volto di chi prega, ribaltando i ruoli. Non è più l’orante che desidera vedere Dio, ora è Dio che vuole contemplare – ha bisogno di contemplare – il volto della sposa/assemblea d’Israele/Chiesa quando prega. Nella preghiera si consuma la sola conoscenza sperimentale possibile, pura estasi e contemplazione: l’amore, perché quando noi preghiamo è Dio che contempla noi e arde del desiderio di vedere il nostro volto. Sul contenuto di essa ci siamo soffermati ampiamente in MC giugno 2017, in cui descriviamo anche come, secondo la tradizione giudaica, Dio si presenta a Mosè sul monte Sinai, vestito con il mantello della preghiera (tallìt) per insegnare meglio a lui e agli Israeliti le regole della preghiera.

Da quanto abbiamo esposto, per quello che concerne la preghiera, dobbiamo cambiare radicalmente e capovolgere la nostra prospettiva e mentalità. Crescere vuol dire anche cambiare passo e direzione, con umiltà e desiderio di «crescere in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Se questa fu la regola cui si sottopose il Signore, se vogliamo imitarlo, deve essere la regola minima anche per la nostra vita. In fondo, a noi importa solo sprofondare sempre più nell’intimità con lui per la durata e la lunghezza di tutta la nostra vita e anche oltre.

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-15]




Parlare di Isis ai bambini

Recensione di Luca Lorusso su libri riguardanti l’Isis |


Quando eventi traumatici, come gli attentati dell’Isis, irrompono nella vita quotidiana

Quando la vita di ogni giorno è toccata, a volte sconvolta nelle sue certezze, da notizie di eventi tragici come le violenze dell’Isis, s’impone ai genitori e agli insegnanti il dovere di andare in soccorso dei loro piccoli. Rassicurando, spiegando, infondendo fiducia. Per farlo, gli adulti devono lasciarsi interrogare, documentarsi, riflettere, senza il timore di apparire ignoranti, essi stessi in cerca di senso.

 

Terrorismo, stragi, violenze. Dobbiamo raccontarle ai nostri bambini? Dovremmo far conoscere ai nostri figli o alunni eventi traumatici come quelli causati dall’Isis in paesi lontani e vicini, o anche altri eventi come terremoti, catastrofi, incidenti aerei, che vengono raccontati da tutti i mezzi di comunicazione con toni e immagini allarmanti?

L’Isis uccide 25 persone, tra cui diversi bambini e 9 giornalisti, a Kabul, in Afghanistan, in un duplice attentato il 30 aprile. Boko Haram attacca una moschea e un mercato in una città del Nord della Nigeria provocando 86 morti il 2 maggio. Uomini armati uccidono 17 persone tra cui un prete cattolico a Bangui, nella Repubblica Centrafricana lo stesso giorno.

Il racconto concitato di avvenimenti dolorosi irrompe nella tranquilla vita quotidiana delle nostre famiglie.

Il 14 luglio 2016 un camion fa strage sul lungomare di Nizza. Negli stessi giorni un uomo, armato di ascia ferisce diverse persone su un treno in Germania. Di nuovo in Germania, a Berlino, il 19 dicembre 2016 un altro camion travolge la folla al mercatino di Natale, uccidendo 12 persone. L’attentatore, Anis Amri, il 23 dicembre viene ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia a Sesto San Giovanni, Milano, praticamente sotto casa di ciascuno di noi.

L’insicurezza entra in casa (tramite lo schermo)

«Il mondo che sembrava chiuso fuori dalla porta di casa, improvvisamente vi fa un ingresso irruento», scrive Alberto Pellai nel primo dei tre capitoli del volume Parlare di Isis ai bambini, edito da Erickson nel 2016. Se da un lato la fruizione di notizie come quelle sopra citate porta con sé una quota positiva di conoscenza, dall’altro porta anche il rischio di attivare nei bimbi un profondo senso di pericolo – anche all’interno delle mura domestiche – che l’adulto deve saper affrontare. «Gli adulti hanno il compito di comunicare ai più piccoli che loro sanno tenere il controllo della situazione». Ai volti spaventati di uomini e donne intervistati dai telegiornali sul luogo dell’accaduto deve fare da contrappeso lo sguardo attento e pacato, non allarmato, del genitore, la sua capacità di verbalizzare la paura con parole rassicuranti e, magari, con l’attenzione fisica di un abbraccio protettivo.

«Quando si assiste a un evento tragico in televisione si è dentro a un flusso di parole e immagini ad alto impatto emotivo. Spesso siamo noi adulti i primi a venire così attratti e spaventati che quasi ci dimentichiamo che nella stessa stanza c’è un bambino che sta osservando le medesime immagini. Ma che al contempo vede il nostro volto teso e spaventato, ascolta i nostri commenti sconcertati e atterriti».

L’adulto – scrive Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, nel suo testo pieno di esempi e utili suggerimenti – deve saper tranquillizzare senza negare le emozioni che la notizia, la foto, il servizio al Tg provocano. In questo modo aiuta il bambino a integrare la tempesta emotiva con la comprensione dell’evento e della sua condizione di protezione e sicurezza.

Genitori e insegnanti in ricerca

I genitori e gli insegnanti dovrebbero parlare anche dei motivi che stanno dietro alle violenze raccontate dai media? «Certamente», sostiene Dario Ianes, curatore del libro, «ma spesso non sanno bene quali sono le cause di quello che accade, non sanno documentarsi… e non vogliono apparire ignoranti, anche se sarebbe invece un ottimo insegnamento mostrarsi adulti che si attivano in una ricerca razionale, il più possibile libera da pregiudizi, di informazioni indipendenti». Quando l’Isis entra in casa da uno schermo, quindi, il nostro compito è quello di interrogarsi ad alta voce – provando a darsi delle risposte ragionevoli – sulle questioni che fanno da sfondo, da causa, da motore di quegli eventi. Accanto al compito di rassicurare i piccoli, c’è anche quello di dichiarare la nostra poca conoscenza e di impegnarci ad approfondirla.

Uno strumento per tutto ciò può certamente essere il libro di cui scriviamo, Parlare di Isis ai bambini. Al primo capitolo di Alberto Pellai, intitolato L’adulto competente aiuta emotivamente il bambino, ne seguono, infatti, altri due che inquadrano l’Isis da diversi punti di vista: la storia del Medio Oriente, la storia dell’Islam, la situazione sociale e culturale dei paesi musulmani, le relazioni internazionali, la riflessione filosofica, politica e militare sulla violenza. Il primo dei due, Geografia concettuale dello Stato Islamico è scritto dal funzionario internazionale Marco Montanari, il secondo, Cercare di comprendere l’Isis nella complessità, da Riccardo Mazzeo, editor di Erickson, con il filosofo e sociologo francese Edgar Morin.

Luca Lorusso




Protezione dell’ambiente: urgenza, non lusso

Presentazione di microprogetti MCO sull’ambiente di Chiara Giovetti |


Alcuni microprogetti del 2017 di Missioni Consolata Onlus hanno avuto come tema la protezione e la salvaguardia dell’ambiente. Ve ne raccontiamo due: uno nella Colombia che faticosamente cerca di liberarsi dal conflitto, e uno in Costa d’Avorio che, come molti paesi africani, ha dichiarato guerra ai sacchetti di plastica.

Buenaventura, un porto fatto città

Buenaventura è una città di 390mila abitanti sulla costa occidentale della Colombia. Il suo porto, uno dei principali del paese, genera un terzo delle tasse doganali complessive, cioè oltre 2 miliardi di dollari su un totale di 6,7@ e ha visto nel 2017 un milione di container movimentati.

Ma la ricchezza che il porto genera per le casse nazionali non torna a Buenaventura sotto forma di servizi per i cittadini e la città è una delle più povere del paese. Nel 2014 Bbc Mundo l’ha descritta come la «nuova capitale colombiana dell’orrore». L’allora vescovo di Buenaventura, monsignor Hernán Epalza, ha raccontato all’emittente britannica: «È come se tutta la cattiveria della Colombia si fosse concentrata qui». L’articolo della Bbc descriveva una realtà in balia di gruppi armati paramilitari che si contendevano il controllo del narcotraffico e del contrabbando in un conflitto caratterizzato da episodi di violenza particolarmente efferata.

Nelle parole di Jaime Alves, ricercatore presso l’Universidad Ices de Cali e assistente di antropologia alla City University di New York, «in questo regime macabro la popolazione nera diventa materia prima non solo per il narcotraffico – che considera Buenaventura una rotta internazionale strategica e i giovani afro come manodopera usa-e-getta -, ma anche per la “guerra al sottosviluppo” del governo, per il quale la presenza nera in aree strategiche è un ostacolo da rimuovere»@. Nel maggio dell’anno scorso la società civile estenuata, stremata dal conflitto e dall’indifferenza che il governo mostrava nei confronti della situazione di Buenaventura, ha deciso di prendere posizione con il paro civico (sciopero civico)@.

Dopo ventuno giorni di proteste (e di blocco delle attività portuali, con i conseguenti danni economici), i leader del paro civico e il governo arrivarono a un accordo che prevedeva investimenti per realizzare opere prioritarie fra cui acquedotti, reti fognarie, unità di terapia intensiva della Ciudadela hospitalaria (cittadella ospedaliera).

A oggi, la situazione (circa l’ambiente) non si può dire significativamente migliorata. Come riferisce il presidente della Camera di commercio locale, Alexánder Micolta, al quotidiano El Tiempo, l’acqua è disponibile mediamente sette ore al giorno. La sicurezza «è migliorata, ma ci sono ancora bande criminali che continuano a far sparire le persone, anche se non si sente più parlare di casas de pique, le case dove le vittime del conflitto venivano letteralmente fatte a pezzi per farle sparire, e gli omicidi sono diminuiti»@.

È poi dello scorso febbraio la notizia dell’uccisione di Temístocles Machado Rentería, uno dei leader del paro civico, mentre gli altri leader ricevono continue minacce di morte@.

Il lavoro dei missionari per l’ambiente a Buenaventura

A Buenaventura i missionari della Consolata sono presenti dal 2016, in quella che nel 2017 è diventata la parrocchia di san Martín de Porres. Padre Lawrence Ssimbwa, ugandese, classe 1982, è il missionario responsabile delle attività. Riportando dati citati dal Cric – Consiglio Regionale Indigeno del Cauca -, padre Lawrence l’anno scorso scriveva: «La realtà di Buenaventura richiede un intervento immediato da parte dello stato. L’indice di disoccupazione è del 62% e il lavoro informale arriva al 90,3%, quello della povertà al 91% nelle zone rurali e al 64% in quelle urbane. (…) Di 407.539 abitanti, 162.512 sono vittime del conflitto armato».

Il corso di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente e le attività di pulizia del quartiere rientrano in una più ampia iniziativa di mobilitazione comunitaria che padre Lawrence sta portando avanti in parrocchia e che comprende anche, tra gli altri, corsi di formazione su diritti umani, identità culturale, arti e mestieri.

«Nei laboratori che abbiamo organizzato», scrive padre Lawrence, «abbiamo sensibilizzato circa 40 adulti, 60 bambini e una ventina di giovani, che hanno approfondito e discusso i problemi che si creano a causa dell’immondizia depositata nelle fognature e nei fiumi e dei roghi di pneumatici, fenomeni purtroppo frequenti nel quartiere».

Si sono poi realizzate quattro giornate di pulizia del quartiere e il risultato di questa attività è stato che alcuni membri della comunità si sono impegnati a organizzare mensilmente giornate di questo tipo (in favore dell’ambiente) per mantenere pulite le strade e le case in cui vivono.

Costa d’Avorio, la guerra contro la plastica

Dal 2013 in Costa d’Avorio (per proteggere l’ambiente, ndr) è vietato produrre, importare, commercializzare, detenere o utilizzare sacchetti di plastica che non siano biodegradabili. Il provvedimento, però, ha faticato e fatica parecchio a essere applicato. Una semplice visita al mercato di Abidjan, riportava Radio France International nel luglio 2017, mostrava chiaramente che la legge sulle buste di plastica era rimasta lettera morta, o quasi. «Sono i clienti che ci chiedono i sacchetti, vanno via come il pane!», spiegava una commerciante intervistata dall’emittente radiofonica francese. Riponendo la merce dentro buste biodegradabili, la signora commentava: «Sono i sacchetti di prima, salvo che sopra c’è scritto “biodegradabile”. Non c’è nulla per rimpiazzarli, eppure vogliono che smettiamo di usarli»@.

Nel marzo dell’anno scorso il governo è passato alle maniere forti, con il ministro della Salubrità, dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile, signora Anne Désirée Ouloto, che ha accompagnato le forze dell’ordine nei controlli a sorpresa presso le aziende che ancora producono le buste incriminate. Durante le perquisizioni, riporta il sito abidjan.net, il ministro e il suo seguito hanno trovato due fabbriche clandestine di sacchetti di acqua (usati invece delle bottiglie), una con allacciamento abusivo alla rete idrica pubblica e l’altra dissimulata dall’insegna «Livia Couture» per far pensare a una sartoria@.

Quello dei sacchetti di plastica è solo uno dei problemi ambientali che la Costa d’Avorio deve affrontare. Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente del 2015, Côte d’Ivoire – Évaluation environnementale post-conflit, ha individuato alcuni ambiti ai quali occorre prestare particolare attenzione, e cioè le foreste, il cui livello di degradazione è definito «grave», la laguna di Ébrié, vicino alla capitale economica Abidjan, i rischi legati all’espansione urbana non pianificata, l’impatto ambientale dello sfruttamento minerario industriale e artigianale e il rischio di sversamento di idrocarburi sul litorale ivoriano@.

«Una delle attività che svolgiamo con i giovani e i bambini durante la semaine de la jeunesse (settimana dei giovani) qui a San Pedro», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, «è proprio quella della pulizia delle strade». Nel popoloso quartiere nel quale i missionari lavorano – abitato soprattutto da operai del porto, piccoli commercianti e contadini – le vie a lato della strada principale asfaltata sono sterrate e sabbiose e mancano delle canalette di drenaggio che permettono all’acqua piovana di defluire. E quando ci sono, i sacchetti, le bottiglie e altra immondizia, prevalentemente di plastica, non di rado finiscono per intasarle del tutto.

Proteggere l’ambiente a Dianrà

Il progetto di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente del 2017 però non si è svolto a San Pedro, bensì a Dianra, nel Nord del paese, dove la comunità Imc gestisce, fra l’altro, un centro di salute, un programma di alfabetizzazione degli adulti e un progetto di apicoltura. «Da qualche anno», scrivono i padri Raphael Ndirangu e Matteo Pettinari, «la nostra missione dispone di un terreno sul quale intendevamo creare uno spazio verde accogliente e ricco di vegetazione all’interno del villaggio. Fino ad oggi non abbiamo potuto concretizzare l’idea perché lo spazio non era protetto e ogni tentativo di piantare alberi è andato perduto a causa della libera circolazione di capre, buoi e anche persone. Queste ultime, non vedendo una valorizzazione effettiva del terreno, se ne sono a più riprese “appropriate” per le loro più diverse esigenze. Di fatto, a volte il nostro spazio è diventato anche una discarica a cielo aperto, invaso in particolar modo da rifiuti di plastica».

Con la prima fase del progetto «Proteggiamo il nostro spazio verde» è stato possibile ripulire, livellare e recintare il terreno. I passi successivi saranno quelli della piantumazione di alberi da frutto e piante ornamentali, della predisposizione di un campo da calcio, della installazione di panchine, altalene, scivoli e altri giochi.

«La nostra», aggiunge padre Matteo, «è una zona di frontiera fra il deserto che avanza e la foresta che scompare. Quest’anno ad aprile la gente si trovava in difficoltà già da un mese per mancanza di acqua: pozzi che erano stati sinora una riserva d’acqua abbastanza sicura, ora sono secchi, la stagione delle piogge si riduce e i raccolti ne risultano danneggiati». Ecco allora, conclude il missionario, che il Nord della Costa d’Avorio può essere una zona strategica per sensibilizzare e possibilmente reagire a questi cambiamenti. Un progetto come quello di Dianra, per quanto piccolo, può accompagnare la comunità nel prendere coscienza e nel cercare soluzioni.

Non si tratta del primo tentativo di creare uno spazio di questo tipo nelle missioni Imc in Costa d’Avorio: a fare da apripista è stato il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’Amicizia). Situato poco fuori dal villaggio di Marandallah – un paio d’ore di pista a Sud Est di Dianra – il giardino è stato a poco a poco creato grazie al lavoro di padre João Nascimento con la comunità. È diventato non solo un’occasione di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente ma anche uno spazio ricco di angoli quieti in mezzo al verde per la riflessione, la preghiera e il riposo. Molte manifestazioni comunitarie si sono svolte presso il Giardino dell’Amicizia, che si è rivelato un utile strumento per quel dialogo interreligioso che è elemento caratterizzante del lavoro dei missionari in questa zona del paese, dove il 72% della popolazione è musulmano, il 25% pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento.

Chiara Giovetti

Clôture di Dianrà per parco giochi e riforrestazione




I Perdenti 35. Ernesto Che Guevara

più mito che mai

Testo su il Che Guevara di Mario Bandera |


Ernesto Che Guevara de la Serna nasce a Rosario, città situata sul fiume Paraná in Argentina, il 14 giugno 1928, da una famiglia della media borghesia latinoamericana. Il soprannome «Che» gli viene dato negli anni trascorsi a Cuba per la sua abitudine, tipica di tutti gli abitanti nati su quel fiume e in modo particolare di quelli della baia del Rio de la Plata dove c’è Buenos Aires in Argentina e Montevideo in Uruguay, di parlare intercalando l’espressione «che» (pron. cé), paragonabile al nostro diffuso «cioè» o al tipico «né» piemontese.

Il padre, Ernesto Rafael Guevara Lynch, è un ingegnere civile, mentre la madre, Celia de la Serna, è una donna intelligente e colta, grande lettrice, appassionata soprattutto alla letteratura francese. Poiché il piccolo è sofferente d’asma, i genitori, su consiglio dei medici, si trasferiscono nei pressi di Cordoba, dove c’è un clima più mite, più adatto alla sua salute. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di Medicina di Buenos Aires, dove nel frattempo la sua famiglia si è trasferita. Durante il periodo universitario, con l’amico Alberto Granado compie un lungo viaggio con la moto (da lui orgogliosamente chiamata «la Poderosa») in diversi paesi dell’America Latina. Nel 1953 si laurea e due anni dopo sposa la peruviana Hilda Gadea.

Nel 1955 mentre si trova in Messico incontra una persona decisiva per il suo futuro: Fidel Castro. Dopo una notte passata a discutere animatamente della situazione sociopolitica del subcontinente latinoamericano, Castro gli propone di unirsi a lui per liberare Cuba dal dittatore Fulgencio Batista. Guevara accetta e nel novembre del 1956 organizza con Fidel e altri compagni uno sbarco a Cuba, dove negli scontri con l’esercito di Batista si rivela un coraggioso combattente e un abile stratega.

Nell’impenetrabile Sierra Maestra, grazie alla sua sapiente tattica di guerriglia, Guevara si guadagna sul campo i galloni di «Comandante». Nel 1959 una volta liberata l’isola caraibica dal regime di Batista, entra a far parte del nuovo Governo rivoluzionario, presieduto da Fidel Castro, assumendo l’incarico della ricostruzione economica di Cuba in qualità di direttore del Banco Nacional e di ministro dell’Industria.

Con molta titubanza di fronte a un personaggio così illustre e controverso, iniziamo il nostro colloquio.

Preferisci che ti chiami Ernesto, tuo nome di battesimo, oppure devo usare Che, l’appellativo con cui sei diventato famoso?

Ormai mi conoscono tutti come il Che. Pertanto, anche per me è più congeniale rispondere a questo soprannome, piuttosto che ad altri, nome personale compreso.

Allora Che, parlaci un poco della tua infanzia e della tua famiglia.

Mio papà, uomo retto e tutto di un pezzo, era completamente preso dal suo lavoro che lo teneva parecchio tempo occupato fuori casa, lontano dalla famiglia. Il suo atteggiamento mi spianò la strada affinché fin da piccolo mi affezionassi sempre più a mia mamma, la quale, ne convengo, ebbe un ruolo fondamentale nella mia formazione.

Parlaci un po’ dell’influenza che ebbe tua mamma nella tua vita.

Nel periodo che va dal 1936 al 1939, anni in cui si consumava la guerra civile di Spagna, con gli inevitabili strascichi di dolore e sofferenza sulla popolazione, mia mamma, un’attivista politica e femminista militante, atea e anticlericale, con molta pazienza mi aiutò a capire quale era la posta in gioco e quali erano le forze autoritarie che usavano le armi per negare al popolo spagnolo democrazia e libertà.

È vero che eri un lettore accanito, praticamente «onnivoro»?

Sì, è vero, leggevo di tutto. In modo particolare i saggi relativi alle problematiche dell’America Latina, di quella «Patria grande» sognata da tutti i padri della patria del sub continente latinoamericano, come Simon Bolivar, José de San Martin, Bernardo O’Higgins, Gervasio Artigas e da tutti i libertadores dei nostri popoli.

Tu sei famoso anche per un mitico viaggio che hai fatto in moto, risalendo dall’Argentina attraverso tutti i paesi dell’America Latina fino ad arrivare in Messico.

In realtà ho fatto diversi viaggi attraverso il continente. Il primo, nel 1950, insieme al mio amico Alberto Granados, visitammo il Cile, il Perù, l’Ecuador, la Colombia e il Venezuela. Ero ancora studente. Nel viaggio fummo colpiti dalla situazione di povertà degli indigeni e dei minatori in molti paesi. Venimmo anche a contatto con la realtà della lebbra e questo stimolò la nostra volontà di terminare gli studi e diventare medici. Così tornai a casa e mi laureai nel 1953 specializzandomi in allergologia.

E cominciasti a lavorare come medico.

No. Mi rimisi in viaggio e nella mia irrequieta ricerca, mentre maturavo un’avversione sempre più grande verso l’ingerenza nordamericana nell’America Latina, visitai Bolivia e Perù, e poi su, verso i paesi dell’America Centale, fino in Guatemala dove venni a contatto con diversi esuli cubani e con colei che anni dopo divenne mia moglie, Hilda Gadea. Fu anche grazie a lei che fui stimolato a leggere e studiare molto per approfondire le mie idee filo marxiste. Abbandonato il Guatemala dopo il colpo di stato militare del giugno 1954, mi recai in Messico, dove sopravvissi facendo il cronista per i Giochi panamericani del 1955. A Città del Messico tornai a frequentare i molti esuli cubani che là avevano trovato rifugio.

Se non vado errato fu proprio in quella città che conoscesti Fidel Castro.

Fu una notte memorabile quella che passai con lui. Ovviamente ne avevo sentito molto parlare. Però non avevo una grande opinione di lui. Ma quella notte mi conquistò. E decisi di entrare a far parte del suo movimento, anche solo come medico.

Quale movimento?

L’M-26-7. Ma lascia che ti spieghi. Castro era un giovane avvocato cubano, diventato uno dei leader dell’opposizione nel suo paese. Dopo che, nel marzo del 1952, Fulgenzio Batista aveva assunto il potere con un colpo di stato, Fidel aveva cercato dapprima le vie legali per farlo condannare e ritornare alla democrazia, poi, fallite quelle, aveva fondato con diversi dissidenti un movimento per farlo cadere usando tutti i mezzi, anche la violenza.

Avevano ottenuto risultati?

Nessuno. Con gli amici del movimento aveva quindi organizzato un’azione dimostrativa cercando di coinvolgere gli universitari nell’assalto di una delle caserme simbolo del potere di Batista, la Caserma Moncada. L’attacco avvenne il 26 luglio 1953. Quello fu l’evento che segnò l’inizio della rivoluzione cubana, tanto che la data dell’episodio fu poi adottata da Castro come nome del movimento che prese il potere nel 1959, M-26-7 o Movimento 26 de Julio. Ma sul piano militare fu un fallimento totale per l’improvvisazione, la faciloneria e la mancanza di armi adeguate. Il risultato fu la morte di oltre sessanta compagni, l’imprigionamento di molti altri e l’arresto dello stesso Fidel Castro.

Ma Fidel non restò in prigione a lungo.

Fidel fu condannato a morte, nonostante la sua brillante arringa nella quale disse la famosa frase: «La storia mi assolverà». Nel frattempo il dittatore Batista, su richiesta della Chiesa, aveva abolito la pena di morte, e la condanna fu commutata in 15 anni di reclusione nel penitenziario dell’Isola dei Pini.

Nel 1955, su pressione di madri di prigionieri politici e di politici, editori e intellettuali, il Congresso cubano approvò un provvedimento di amnistia. I ribelli e il loro leader furono rilasciati.

Visto però che rischiava di essere di nuovo arrestato, andò in esilio volontario in Messico, dove l’ho incontrato e mi sono appassionato alla sua causa.

Qual era il vostro piano per liberare Cuba?

Con Fidel prendemmo la decisione di sbarcare sulle spiagge di Cuba usando una vecchia nave, la Granma (la nonna). Era il 2 dicembre 1956 e noi, 82 guerriglieri ben addestrati, ci inoltrammo nel territorio montagnoso della Sierra Maestra, difficile da attraversare ma molto adatto per la lotta di guerriglia che volevamo fare contro il dittatore Batista.

La liberazione di Cuba vi tenne impegnati su diversi fronti.

Il movimento rivoluzionario messo in piedi da Fidel Castro si diffuse sempre più all’interno dell’isola coinvolgendo in maniera massiccia la popolazione rurale anche grazie all’impiego di una campagna radiofonica da me diretta. Guadagnammo sempre più consenso, sia nel contesto latinoamericano che sul piano internazionale.

Nel 1958, Batista scatenò la sua offesiva, ma il terreno montagnoso non favoriva l’esercito regolare, minato da disorganizzazione e basso morale.

Dopo molte battaglie, nell’agosto la colonna da me comandata sbaragliò gli attaccanti. Da lì in avanti, fu tutta una serie di successi, fino a quando il 2 gennaio 1959 entrai all’Avana, seguito da Castro l’8.

Liberata Cuba, nel governo che si costituì sotto la presidenza di Fidel Castro, ti furono poi assegnate responsabilità molto importanti.

Il primo incarico fu «sporco»: responsabile della prigione dove erano tenuti i fedelissimi di Batista, quelli che si erano macchiati delle colpe più gravi. Poi, dopo essere stato direttore dell’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria e della Banca Nazionale di Cuba, fui nominato ministro dell’Industria.

Nella mia posizione girai mezzo mondo e cercai di aiutare movimenti rivoluzionari in diversi paesi. Poi, nel marzo 1965, di ritorno da un congresso ad Algeri, mi ritirai completamente, rinunciando a tutti i miei incarichi. Mandai una lettera a Castro per spiegare la mia decisione.


Il motivo di questo suo allontanarsi da Cuba rimane misterioso. Si parla di pressioni dei sovietici per liberarsi di uno che ha troppe simpatie per i Cinesi, del fatto che Castro sia geloso della sua rampante popolarità, di irrequietezza insita nel Che e tanto altro. Nel 1965 lo troviamo nell’ex Congo Belga con una spedizione cubana fallimentare a sostegno dei ribelli Simba. Dopo quella, vaga in diversi paesi e scrive libri. Nel 1967, coerente con i suoi ideali, il Che riparte per un’altra rivoluzione, quella boliviana, dove, in quell’impossibile terreno, viene tratto in agguato e ucciso dalle forze governative. Si è speculato sulla data esatta della sua morte, ma sembra certo che il Che fu assassinato l’otto ottobre di quell’anno.

Diventato in seguito un vero e proprio mito laico, un martire dei «giusti ideali», Guevara ha indubbiamente rappresentato per i giovani di tutto il mondo, un simbolo dell’impegno politico rivoluzionario, purtroppo oggi sovente svilito a semplice gadget o icona da stampare sulle magliette.

Cosa resta del mito del «Che» cinquant’anni dopo la sua morte? Perché questa icona del secolo Novecento resiste ancora?

Forse perché il «Che» rappresentò ideali di coerenza, di purezza e di coraggio disinteressato, un eroe senza macchia per l’Olimpo dei «Miti», quelli che seppero offrire la loro vita per un ideale di giustizia e di uguaglianza. E poi perché gli eroi nel nostro immaginario restano sempre giovani e belli, perché gli anni passano ma i sogni di coloro che lottano per un mondo più fraterno sono senza tempo e non tramontano mai.

Don Mario Bandera