Giovani, missione e cooperazione: l’occasione del Sinodo

 


Dal 3 al 28 di ottobre si svolgerà la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, quest’anno dedicato ai giovani. Vediamo come questo evento può essere un’occasione di riflessione sul rapporto fra giovani, missione e cooperazione.

«Il Sinodo ha un nome lungo – I giovani, la fede e il discernimento vocazionale – ma diciamo: il Sinodo dei giovani. Si capisce meglio». Così Papa Francesco, con il linguaggio diretto che lo contraddistingue, ha indicato quello che sarà il tema su cui i vescovi riuniti a Roma si concentreranno dal 3 al 28 ottobre. «È un Sinodo», ha aggiunto il Santo Padre, «dal quale nessun giovane deve sentirsi escluso, perché è di tutti i giovani». Anche i giovani agnostici, quelli che hanno una fede tiepida, quelli che si sono allontanati dalla chiesa e i giovani atei. A tutti va prestato ascolto. Perché «ogni giovane ha qualcosa da dire agli altri, agli adulti, ai preti, alle suore, ai vescovi e al Papa»@.

Colombia

Il ribaltamento di prospettiva è evidente: per anni la Chiesa si è chiesta come parlare ai giovani, andare verso di loro, raggiungerli, coinvolgerli, in tempi in cui il loro allontanamento si è fatto sempre più evidente. «Se agli inizi degli anni 2000 il 70-80 % dei giovani si dichiarava cattolico», riporta Sara Falco sul sito di Azione Cattolica, «negli ultimi anni la percentuale è scesa al 50%. Osservando gli anni più recenti, si può notare che oggi circa il 50% di adolescenti e giovani si dicono cattolici, circa il 25% è ateo o agnostico e il restante 25% si dichiara cristiano senza altra specificazione»@.

Papa Francesco, invece, ha messo l’accento sull’ascolto, un approccio che propone sempre con forza e su tutti i temi di cui la Chiesa intende occuparsi. Anche nel documento preparatorio del sinodo del prossimo anno sull’Amazzonia, infatti, il pontefice ha sottolineato l’importanza cruciale dell’ascoltare i popoli amazzonici.

Le iniziative ideate per realizzare questo ascolto sono state diverse, a cominciare dall’incontro presinodale dello scorso marzo che ha visto riuniti a Roma 300 giovani da tutto il mondo e che ha analizzato i contributi di circa 15 mila giovani arrivati attraverso la pagina Facebook appositamente creata@.

Tanzania

Al sondaggio preparatorio avevano partecipato 221mila giovani, di cui 100.500 avevano completato il questionario. Fra questi ultimi, «il 73,9% si dichiarano cattolici che considerano importante la religione, mentre i restanti sono cattolici che non considerano importante la religione (8,8%), non cattolici che considerano importante la religione (6,1%) e non cattolici che non considerano importante la religione (11,1%)@».

Altro strumento è stato #Velodicoio@, un progetto del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile della Cei che si è proposto di «fornire uno strumento che possa essere messo a disposizione di tutti per favorire un confronto di gruppo con i più giovani su dieci tematiche specifiche: ricerca, fare casa, incontri, complessità, legami, cura, gratuità, credibilità, direzione e progetti».

Una tappa importante verso il sinodo è stato l’incontro che il Papa ha avuto con 70mila giovani da 195 diocesi lo scorso 11 agosto al Circo Massimo, a Roma@.

Durante l’incontro Francesco ha risposto alle domande di alcuni giovani, esortando tutti i presenti a non lasciarsi rubare i sogni e a non stare alla larga dai luoghi di sofferenza, di sconfitta, di morte@.

«Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila», ha detto il Santo Padre. «Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarvi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fraternità: rischiate, andate avanti!».

Costa D’Avorio

Giovani e missione, quello che c’è

Il Sinodo dei giovani avrà fin da subito uno stretto legame con la missione. Non a caso, il messaggio del Papa per la giornata missionaria mondiale 2018, anch’essa in ottobre, si intitola Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti e comincia proprio con «Cari giovani». Il messaggio sottolinea sin dalle prime battute che «ogni uomo e donna è una missione, e questa è la ragione per cui si trova a vivere sulla terra». Essere attratti ed essere inviati «sono i due movimenti che il nostro cuore, soprattutto quando è giovane in età, sente come forze interiori dell’amore che promettono futuro e spingono in avanti la nostra esistenza». «Le Pontificie opere missionarie», si legge ancora nel testo, «sono nate proprio da cuori giovani», e tanti ragazzi «trovano, nel volontariato missionario, una forma per servire i “più piccoli”».

Molte congregazioni e istituti missionari hanno saputo accogliere, negli ultimi decenni, questa spinta dei giovani a mettersi al servizio, in Italia come all’estero.

Padre Giorgio Licini racconta come il Pime ha prima osservato e poi organizzato questo istinto di solidarietà: «Era la fine degli anni Ottanta, quasi trent’anni fa, quando al Centro Missionario Pime di Milano ci rendemmo conto che un flusso spontaneo di giovani si era incamminato da anni dall’Italia verso le missioni del Pime nel mondo. Si trattava soprattutto di compaesani, amici e parenti dei nostri missionari mossi dalla curiosità e dall’affetto verso coloro che non aspettavano più al ritorno in patria, ma andavano ad incontrare là dove avevano scelto di spendere la vita». Questa presa di coscienza fu presto organizzata e strutturata da un altro padre, Davide Sciocco: «Non più partenze all’arrembaggio e fai da te, ma preparazione, contenuti, motivazioni, obiettivi. Qualcosa che lasciasse un segno indelebile e positivo nella futura vita dell’adulto». Il risultato è stato l’invio in missione di oltre duemila ragazzi in 25 anni e il racconto di queste esperienze è diventato un libro, pubblicato nel 2015 da PIMEdit@.

Inviare giovani in missione per fare esperienza diretta in campi di lavoro in Africa e America Latina era una proposta comune a tutti gli istituti missionari ed era già iniziata negli anni Sessanta con Mani tese, fondata nel 1964 proprio con il contributo di missionari di vari istituti. Campi erano organizzati dagli universitari animati da don Tullio Contiero@ da Bologna, quelli di Africa Oggi a Milano@ e tantissimi altri. I missionari della Consolata dagli anni Settanta hanno inviato alcune migliaia di giovani per questi campi dai loro centri di animazione missionaria e probabilmente altrettanti «turisti» a visitare le loro missioni, prima con Amitour e poi con i viaggi organizzati per anni da padre Adolfo De Col.

Santiago di Compostela – Spagna

Laicato missionario

Vi è poi l’esperienza del laicato missionario, grazie al quale giovani (e anche meno giovani) hanno la possibilità di intraprendere un percorso di fede nel quale la solidarietà e, di fatto, l’impegno nella cooperazione hanno un ruolo centrale.

Fra i laici missionari della Consolata un’esperienza esemplificativa è quella di due laici spagnoli che hanno vissuto per sei anni della loro vita – dai trenta ai trentasei – in missione in Roraima, Brasile. Tutti e tre i loro bambini sono nati in missione. «Sì», raccontava Luis nel settembre 2008, «vedere il nostro progetto di famiglia crescere insieme a questa esperienza in Brasile e ai missionari della Consolata è una delle più grandi soddisfazioni che gli anni di missione ci hanno dato. Essere laici e vivere da missionari tra i missionari ci ha arricchito immensamente»@.

Tante sono anche le esperienze ispirate da un sacerdote con una sensibilità missionaria che hanno preso la forma di organizzazione strutturata e laica. La Lvia, Ong di Cuneo, nasce alla fine degli anni Sessanta dall’intuizione di don Aldo Benevelli.

«Adoperava termini strani (cooperazione, solidarietà, giustizia, comunità)» racconta di lui Riccardo Botta, uno dei primi giovani volontari che si fece coinvolgere da don Aldo. «Ebbe l’intuizione di parlare chiaro in difesa dei poveri e del mondo degli ultimi, di portare all’attenzione del mondo occidentale il cosiddetto terzo mondo». Don Aldo, scriveva lo scorso febbraio Luciano Scalettari su Famiglia Cristiana, «è prima di tutto, uno dei “padri” della cooperazione italiana, quando ancora la parola cooperazione non era nel vocabolario»@. I giovani che lo seguirono abbandonarono lavoro, famiglia e carriera per dedicarsi a una lunga formazione professionale e comunitaria per poi partire alla volta di Kenya, Burundi, Senegal, Burkina Faso, Etiopia. La prima volontaria Lvia, Rosanna Cayre, arrivò a Meru nel 1967, ospitata dai missionari della Consolata, mentre è del 1972 l’arrivo del primo volontario in Etiopia, che lavorerà come insegnante nella scuola tecnica degli stessi missionari a Meki@.

A raccogliere l’eredità di queste intuizioni e a federarle è stata la Focsiv, Federazione degli organismi oristiani servizio internazionale volontario, che ha appena compiuto 46 anni e conta oggi un’ottantina di organizzazioni aderenti. Dalla sua nascita, si legge sul sito, «Focsiv e i suoi soci hanno impiegato 27.000 volontari internazionali e giovani in servizio civile».

Siamo alla rocca di Cornuda con il campo mobile dei ragazzi di prima superiore

Giovani e missione: quello che ancora manca

Le realtà di cooperazione di ispirazione missionaria hanno indubbiamente contribuito a fare da ponte fra il mondo missionario e i giovani: i ragazzi che partono, infatti, non sono necessariamente credenti ma, attraverso un percorso professionale, vengono a contatto con la missione e con i suoi valori.

Questo reciproco conoscersi, come l’impegnarsi su problemi condivisi e confrontarsi lavorando nello stesso contesto permette tanto ai giovani che partono quanto ai missionari che li accolgono di superare i cliché e di trovare un linguaggio comune. «Ho lavorato con un missionario che era proprio “avanti”, non sembrava neanche un prete!», è la frase che chi scrive ha sentito pronunciare in diverse occasioni da ragazzi che, partiti con mille pregiudizi, si sono trovati a condividere mesi di lavoro con missionari capaci di leggere il loro tempo e di reagirvi con efficacia. E di ascoltare i dubbi, le proposte, le ingenuità e le intuizioni di un giovane che voleva confrontarsi con loro.

Questo ascolto e questo confronto li ho vissuti in prima persona: «Capisco la tua rabbia di fronte a un’ingiustizia come quella di una baraccopoli», mi disse una volta un missionario della Consolata oggi scomparso, «ma non hai capito niente se pensi che centinaia di migliaia di abitanti delle bidonville dovrebbero mettersi tutti insieme e marciare armati fino al Parlamento per chiedere case decenti e strade asfaltate. Otterrebbero solo scontri e il dispiegamento dell’esercito. Quello che fanno, invece, è organizzarsi in comitati, associazioni e gruppi e lottare giorno per giorno perché un chilometro in più sia asfaltato, un quartiere in più della baraccopoli sia riqualificato, una scuola e un dispensario in più siano costruiti. E noi siamo qui – e in tutto il mondo, anche a casa – proprio per non lasciare solo in questa lotta chi chiede giustizia».

Con quel «non sembra neanche un prete» i giovani intendono indicare probabilmente qualcosa di molto simile a quello che Papa Francesco ha stigmatizzato senza mezzi termini proprio davanti ai 70mila del Circo Massimo quando ha detto: «Penso tante volte a Gesù che bussa alla porta, ma da dentro, perché lo lasciamo uscire, perché noi tante volte, senza testimonianza, lo teniamo prigioniero delle nostre formalità, delle nostre chiusure, dei nostri egoismi, del nostro modo di vivere clericale. E il clericalismo, che non è solo dei chierici, è un atteggiamento che tocca tutti noi: il clericalismo è una perversione della Chiesa».

Chissà che non sia proprio la missione la chiave di volta per reggere la costruzione di un nuovo rapporto fra i giovani e la Chiesa.

Chiara Giovetti

Argentina

 




I Perdenti 38. «T2OS»: Chiquitunga, Maria Felicia Guggiari Echeverría


Grande gioia in tutto il Paraguay sabato 23 giugno 2018 per la proclamazione di Chiquitunga come la prima beata nata in terra Guaranì. La solenne celebrazione, presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, come delegato di papa Francesco, si è svolta nella capitale Asunción, nello stadio Pablo Rojas del Barrio Obrero.

Chiquitunga – © Carmel Holy Land / Stella Maris monastery

La nuova beata è María Felicia de Jesús Sacramentado, al secolo María Felicia Guggiari Echeverría, suora dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, nata a Villarica (Paraguay) il 12 gennaio 1925 e morta ad Asunción il 28 aprile 1959. Nella sua terra tutti la conoscono con il simpatico soprannome in lingua guaranì di Chiquitunga, che il suo papà le diede fin da piccola a motivo del suo fisico minuto.

Chiquitunga è diventata, così, la prima donna paraguayana a essere annoverata tra la schiera dei beati della Chiesa. Commentando tale evento, mons. Edmundo Valenzuela, arcivescovo della capitale, ha affermato che María Felicia Guggiari Echeverría è ascesa «alla gloria degli altari» in quanto tutta la sua vita fu interamente dedicata al Signore e ai poveri della sua terra. Mons. Valenzuela ha poi proseguito dicendo che: «Chiquitunga ha avuto una vita ricca di apostolato e contemplazione, sapendo mettere insieme questi suoi doni dentro una militanza molto intensa nell’Azione Cattolica (ricordiamo che prima di entrare nel Carmelo ella fece parte per diversi anni dell’A.C. paraguayana) dove si distinse come brillante catechista di bambini, ragazzi e giovani, oltre ad essere costantemente vicina ai poveri, agli emarginati e ai bisognosi».

Il 14 agosto 1955, all’età di 30 anni, abbracciò la vita contemplativa entrando nel ramo femminile dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, dove assunse il nome di María Felicia de Jesús Sacramentado. A causa di una malattia fulminante, si spense il 28 marzo 1959.

María Felicia, parlaci un po’ di te, della tua storia, della tua famiglia, in poche parole presentati a noi che conosciamo ben poco della tua vita e del tuo meraviglioso paese.

In famiglia eravamo sette fratelli ed io ero la primogenita, mio papà si chiamava Ramón Guggiari mentre la mamma Arminda Echeverría. Fui battezzata a tre anni, a cinque anni fui accettata nel Collegio Maria Ausiliatrice e a dodici anni feci la Prima Comunione.

Un evento che ebbe una particolare rilevanza nella tua vita, o sbaglio?

Da quel momento mi accordai con Gesù per migliorarmi giorno dopo giorno, per essere sempre più buona, più attenta ai bisogni e alle esigenze di chi mi stava attorno.

Già ma le turbolenze politico-militari del tuo paese, cominciarono a condizionare molto presto la tua esistenza.

Mio padre era noto in città come fervente oppositore a una visione politica e ideologica molto affine al fascismo che andava insinuandosi in quel periodo nella società paraguayana. Le sue ferme prese di posizione per una democratizzazione del nostro paese gli costarono l’esilio. Di conseguenza anche la nostra famiglia subì tutta una serie di angherie che turbarono non poco il clima di casa nostra.

Ovviamente tu non potevi sottrarti a quello che accadeva, sia nel tuo paese come nella tua famiglia.

Infatti, solo con molte difficoltà potei terminare la scuola primaria. Nel 1940 iniziai gli studi secondari fino ad ottenere il diploma di maestra elementare.

In quegli anni oltre alla scuola ci furono altre circostanze che ti portarono ad assumere ruoli molto importanti che incisero non poco nella tua vita. Se non sbaglio sei stata una delle prime ragazze del tuo paese ad aderire all’Azione Cattolica.

Un anno fondamentale nella mia vita giovanile fu il 1941, quando entrai a far parte dell’Azione Cattolica che proprio in quell’anno veniva istituita in Paraguay. E con l’entusiasmo dei neofiti, insieme ad alcuni amici, iniziammo ad organizzare riunioni e momenti di preghiera cui partecipavo con assiduità. Appresi così a conoscere e ad amare Gesù, che dal quel momento in poi fu per me l’ideale di vita del quale mi innamorai appassionatamente. A 17 anni decisi di consacrarmi all’apostolato dell’AC offrendo a Cristo tutta la mia esistenza.

Anche la tua pratica quotidiana di fede si perfezionò tantissimo.

In questa fase della mia gioventù mi dedicai interamente al Signore, che ricevevo quotidianamente, anche se ciò comportava alzarmi di buon’ora e recarmi alla messa a digiuno (da mezzanotte), per poter ricevere la santa comunione.

Non ti limitavi però a partecipare solo alle celebrazioni liturgiche.

È vero, il resto della giornata lo trascorrevo visitando gli ammalati e gli anziani. Mentre all’interno della vita associativa dell’Azione Cattolica, mi venne affidato un compito speciale e delicatissimo, ovvero seguire le «Piccolissime», cioè le bambine più piccole della mia parrocchia, un compito al quale ero preparata da tempo per l’impegno che avevo assunto in famiglia nel servizio verso i miei fratellini.

Sei davvero di una umiltà disarmante, infatti noi sappiamo che facevi molto altro.

Oltre che seguire le attività delle «Piccolissime» di AC, cercavo di avere una certa attenzione agli umili, ai malati, agli abbandonati, ai carcerati di qualunque tendenza politica o religiosa fossero. Quando li visitavo mi proponevo di dare loro sempre un pizzico di gioia e di allegria.

Una volta ritornato tuo papà dall’esilio, la tua famiglia si trasferì da Villarica ad Asunción per avere più tranquillità grazie all’anonimato della capitale e ritrovare così un po’ di pace.

Ad Asunción decisi di iscrivermi alla Scuola Normale per diventare maestra di scuola e una volta diplomata trovarmi un lavoro. In quel tempo cercavo di modellare la mia vita interiore su un permanente cammino di fede, fatto di speranza e amore, tutto ciò per essere più fedele a Gesù e vivere con maggiore coerenza il suo messaggio di tenerezza infinita, quindi invitando tutti al perdono reciproco e alla riconciliazione specialmente con gli avversari politici dopo anni di incomprensione.

In quel periodo conoscesti un giovane di cui t’innamorasti perdutamente.

Proprio così. Durante un’assemblea di AC, conobbi Ángel Sauá Llanes, un giovane studente di medicina, membro del comitato direttivo dell’opera, con il quale simpatizzai subito e dopo poco tempo iniziammo a uscire insieme per svolgere il nostro apostolato fra la gente.

La frequentazione di un giovane fu ben accettato dai tuoi, inoltre facilitava il tuo uscire di casa per i numerosi impegni – legati all’Azione Cattolica – che avevi avviato in diversi quartieri della città.

Sì e oltre tutto lavorare gomito a gomito con Ángel, mi diede l’opportunità di entrare in quei quartieri periferici nei quali per una ragazza sola sarebbe stato pericoloso avventurarsi. Con il tempo la simpatia tra noi si approfondì, fino a trasformarsi in un vero sentimento di amore reciproco. A quel punto cominciai a interrogarmi: «Cosa vorrà dirmi il Signore con questo amore che non ho cercato e che Egli ha suscitato nel mio cuore?».

Dopo intensi momenti di preghiera e lunghe riflessioni fu chiaro che il disegno che Dio aveva preparato per voi era piuttosto originale.

Difatti una sera egli mi confidò che avvertiva nel profondo della sua coscienza in maniera molto chiara la chiamata a diventare sacerdote. Allora compresi che con il mio sentimento genuino di amore, Dio mi chiedeva di amarlo come «sacerdote» e «santo».

Per cui il primo ottobre 1951, di comune accordo realizzammo quello che si chiama «sposalizio mistico», insieme ci consacrammo a Maria Immacolata perché presentasse questa nostra «piccola offerta» a suo figlio Gesù: Ángel sarebbe diventato sacerdote ed io mi sarei consacrata a Dio nel mondo o dove il Signore mi avrebbe indicato.

E cosa avvenne dopo?

Il primo aprile 1952 prendemmo l’impegno di separarci «a causa di Dio e per Dio» e il dieci dello stesso mese lui partì per l’Europa dove avrebbe terminato i suoi studi di medicina e iniziato quelli di teologia per il sacerdozio. Nei mesi seguenti gli scrissi una gran quantità di lettere incoraggiandolo ad andare avanti sulla strada intrapresa per seguire la sua vocazione.

Immagino che anche per te nella nuova situazione venutasi a creare cambiarono molte cose.

Partecipando agli Esercizi spirituali dell’AC nel gennaio del 1954, anch’io giunsi a prendere una decisione fondamentale per la mia vita, decisi di consacrarmi completamente a Dio nel Carmelo, realizzando quello che era un po’ il ritornello della mia vita fin dall’adolescenza, quando espressi il mio ideale di vita cristiana in una formula: «T20S», ad imitazione delle formule chimiche che vedevo nei miei libri e che stava a significare «Tutto Ti Offro Signore». E con un’autentica grande gioia nel cuore, donai a Gesù tutta me stessa: la mia giovinezza, il mio amore, l’impegno del mio apostolato.

E così il 2 febbraio del 1954, festa della Presentazione di Gesù al tempio, varcasti la porta della clausura e, con il sorriso sulle labbra, attorniata da tutta la tua famiglia che tanto amavi, entrasti nel Carmelo di Asunción.

Alcuni giorni dopo il Signore iniziò il suo lavoro di purificazione della mia persona facendomi attraversare quella che i mistici chiamano «la notte dello spirito». L’incertezza sulla scelta fatta si impossessò di me. Pensavo che forse era stato un errore lasciare il mondo, dove svolgevo tanto bene i miei molteplici impegni; che chiudermi in clausura era come mettere la lampada sotto il moggio.

Del resto, è abbastanza scontato che in questa fase della tua nuova vita potessi avere qualche momento di timore e apprensione.

Devo dire che l’apice dell’oscurità lo raggiunsi durante gli Esercizi Spirituali prima della vestizione solenne, ma a poco a poco queste paure si dileguarono. Nella nuova vita al Carmelo cominciavo a sperimentare la vicinanza dell’Amato a cui chiedevo insistentemente una cosa sola: «Amore per amare». Finalmente il 14 agosto del 1955 ricevetti l’abito claustrale del Carmelo.

Ti sentivi pienamente realizzata come donna, come religiosa e come monaca.

La mia vita nel Carmelo non poteva essere più semplice e gratificante, infatti non facevo altro che amare, amare e amare di più Gesù e i suoi fratelli, ovvero gli esseri umani di tutto il mondo, a qualunque continente o popolo appartenessero, soprattutto i più poveri ed emarginati. Un sentimento speciale lo coltivavo per le mie consorelle di comunità, per i sacerdoti, che avevo sempre presenti nelle mie preghiere, a cominciare dal mio «amico» che si preparava al sacerdozio, per i poveri e gli umili.

Il 15 agosto 1959 avrebbe dovuto essere il giorno del suo impegno definitivo di amore con il Signore, con la professione perpetua solenne. Ma María Felicia «sentiva» che Lui voleva incontrarla prima, e lei come sempre era pronta. Nel gennaio del 1959, le fu diagnosticata una epatite infettiva. Fu portata alla Croce Rossa per essere debitamente curata. In effetti, durante la Quaresima, poté essere dimessa. Ritornò al suo amato piccolo monastero. Si dedicò alla vita monastica con tutta la sua generosità unita al desiderio sempre più vivo d’immolazione. Giunse la Settimana Santa e si unì spiritualmente alla Passione di Gesù, mettendo a disposizione tutta la sua creatività piena di fantasia ed amore.

Il Venerdì Santo, il cappellano, dandole la comunione, notò un livido nella lingua. Il sabato cominciarono a manifestarsi macchie di sangue che la domenica ed il lunedì di Pasqua si moltiplicarono. Il martedì una grave emorragia allarmò la Madre priora che fece venire immediatamente Freddy Guggiari, il fratello medico. La diagnosi fu immediata: «Porpora trombotica».

Il giovane dottore uscì singhiozzando dalla stanza dell’inferma: «Essere medico e non poter salvare mia sorella!». Ricoverata di nuovo nell’Ospedale della Croce Rossa, cominciò il suo Calvario, la sua unione definitiva con la Croce, con una pazienza e un’allegria incredibili. Chi la vedeva anche solo per pochi istanti diceva: «È un’altra Teresina di Lisieux». Lei però desiderava tornare presto al Carmelo e il Signore la accompagnò al Carmelo del Cielo.

Ogni giorno era circondata dai suoi familiari a cui María Felicia ripeteva: «Sono felice di morire nel Carmelo!», anche in quei momenti non si spense mai il sorriso sulle sue labbra. Alle quattro del mattino del 28 aprile, la si udì bisbigliare: «Gesù, che dolce incontro! Vergine Maria!». Furono le sue ultime parole prima di entrare nel Regno dei Cieli.

Don Mario Bandera




Giovane: riconosci, comprendi, scegli…


Sei fuggito da un conflitto che ti pareva insanabile, e ti vedeva colpevole. Sei fuggito per salvare la tua vita da chi ti cercava e da te. E nella fuga hai ricevuto il sigillo della tua identità: uomo solo al quale il Dio di Abramo e di Isacco promette discendenza, terra e protezione. Uomo ferito per il quale si ritroveranno benedette tutte le nazioni della terra. Uomo colpevole, visitato in sogno da Dio, ai piedi di una scala che unisce terra e cielo.

Perché fosse la fiducia in Lui a generare la certezza di Lui, e non il contrario, ti ha incontrato nel sonno: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). E ti ha fatto rabbrividire il pensiero di quanto Dio fosse vicino, proprio a te e alla tua vita ingannata.

Sei di ritorno ora, dopo anni di fuga. Sei vicino alla terra che ti ha visto ladro e fuggiasco, e hai timore per la tua vita e per quella di chi ti è caro. Dio, che nel sogno ti aveva detto: «Io sono con te e ti accompagnerò dovunque tu andrai», ha mantenuto la promessa. E, certo, ti accompagna anche adesso, all’incontro con le conseguenze dell’antico inganno. Ti manca solo una cosa: la sua benedizione.

Sei di nuovo solo, è notte e il Signore si fa avanti. Non in sogno questa volta, ma in un corpo di uomo che lotta contro di te (Gen 32,25). Ti ferisce all’articolazione del femore, fa emergere la tua ferita profonda dalle gambe che hanno sorretto la tua fuga. Ma tu non cedi. Sai che quella lotta non prevede sconfitti, sai che incontrare l’altro e rimanere vivo è possibile. La ferita non estingue il desiderio di essere benedetto. Essa, anzi, è parte di quel desiderio, ne è conseguenza, e causa. E, alla fine, vinci. Non ti sei fatto sconfiggere dalla tua ferita, l’hai riconosciuta, lasciandola riconoscere da Dio, lasciandoti riconoscere da Dio con essa. Torni integro, finalmente. E il Signore ti benedice per ciò che sei, benedicendo per te tutte le nazioni della terra. Ora la promessa è compiuta e spunta l’alba. Rivelato a te stesso da Dio, puoi finalmente pronunciare il tuo nome, Giacobbe, e ricevere un nome nuovo, Israele, «colui che lotta con Dio» (e vive).

In questo ottobre missionario, mese del sinodo dei giovani, amico ti augura di riconoscerti, con la tua storia irripetibile, di comprendere la tua vita alla luce di una promessa che ti riguarda, di scegliere di essere, già oggi, tramite di benedizione per tutte le nazioni della terra.

Luca Lorusso

foto in CC da BostonCatholic / flickr.com




Cari missionari: umanoidi / padre Luigi Bruno / domande sulla Messa


Umanoidi

Caro padre Gigi,
è tempo di populismi. La Chiesa vive momenti molto travagliati in questa società che ci presenta un mondo sotto sopra. Come credere ai valori civili che ogni individuo dovrebbe esprimere? Ogni cristiano che crede in Dio, frequentando la madre Chiesa dovrebbe seguire l’insegnamento del vangelo e professarlo. In realtà nella Chiesa ci sono tanti che si professano credenti in Cristo ma considerano i rifugiati alla stregua di insignificanti umanoidi da lasciare al loro destino di morte.

Quanti i cristiani nella trappola salviniana, irretiti da slogan che il vento semina nei cuori.
Uno tsunami il senso più vero della venuta di Gesù Cristo, l’Amore! Nel giorno dedicato al rifugiato (20 giugno) dedico loro una mia poesia.

Rifugiato o rifiutato

Cara e bella Italia
Culla del cristianesimo
Dimentico e superficiale
Pieno di niente
Tanta la tradizione
Trionfo dell’edonismo
Dove cadono a pezzi
Sentimenti e valori
Richiamati dal vangelo sempre
Siamo diventati mummie
Imbalsamati nei profumi
Una vita nelle contraddizioni
Banderuole soggiogate
Porte aperte delle chiese
Fedeli senza anima
Come i porti
chiusi all’amore
Cosa ci porterà il vento?
Un mondo sotto sopra
Milioni di rifugiati rifiutati
Da paure ingiustificate.

Giovanni Besana
20/06/2018


Padre Luigi Bruno

Nasce a Barge (Cuneo) il 1° febbraio 1931. Studia nei seminari della diocesi di Torino a Giaveno, Chieri e Rivoli dal 9 settembre 1942 al 27 giugno 1954, quando è ordinato sacerdote dal card. Maurilio Fossati.

Fino al 1956 è nel Convitto ecclesiastico vicino al santuario della Consolata a Torino; dal 1956 al 1958 viceparroco a Caramagna e fino al 1963 nella parrocchia di san Massimo a Torino.

Nel 1963 chiede di entrare nell’Istituto Missioni Consolata e il 2 ottobre 1964 fa la sua professione religiosa a Bedizzole (Brescia).

Nel settembre del 1965 parte per il Kenya, nella prima missione del Meru, Mikinduri. E poi Chuka, Kiirua, Mujwa. È insegnante e padre spirituale al seminario di Nkubu, rettore del seminario filosofico della diocesi di Meru a Nairobi. Diventa poi assistente del maestro dei novizi a Sagana e direttore vocazionale a Sagana e a Nairobi. Nel 1992 comincia la missione di Chiga-Kisumu, imparando una lingua nuova.

Nel 1996 ritorna in Italia e lavora nell’animazione e amministrazione. In seguito, per alcuni anni, è direttore spirituale nel Collegio S. Paolo a Roma. Ritornando poi a Torino, finché la salute glielo ha permesso, si è dedicato al ministero della confessione presso il Santuario della Consolata. Nel 2015 ha dovuto ritirarsi ad Alpignano presso la Residenza Beato Giuseppe Allamano nella comunità dei missionari anziani ed ammalati.

Il Signore lo ha chiamato a sé il 24 giugno 2018, Solennità di San Giovanni Battista, patrono della città di Torino.

Nel suo testamento riassume così alcuni tratti della sua vita:

«Voglio ringraziare con sincera fede il buon Dio per la vocazione sacerdotale, diocesana prima e missionaria poi. L’enciclica Fidei Donum fu l’inizio della mia illuminazione sulla urgente necessità del lavoro missionario a tempo pieno. Della diocesi di Torino è sempre rimasto in me un grande e affettuoso ricordo. All’Istituto Missioni Consolata vada il mio “grazie” vivissimo per avermi accolto nella sua famiglia con benevola pazienza, così com’ero, già formato e con a base una formazione diocesana, con scarsa possibilità, a 33 anni, di ulteriori visibili cambiamenti e miglioramenti».

Padre Luigi ha sempre vissuto con entusiasmo e zelo il suo essere sacerdote e missionario. Ha aiutato molti seminaristi e giovani sacerdoti attraverso la direzione spirituale. Ha sempre svolto con disponibilità il ministero pastorale e aveva un amore particolare per la liturgia che voleva ben fatta. La Consolata, che lui tanto amava, lo accolga nella completa e piena liturgia del cielo.

padre Michelangelo Piovano
25 giugno 2018


Ancora domande sulla messa

Nel racconto dell’istituzione è più corretto dire «per voi e per tutti in remissione dei peccati» o «per molti». Se la direttiva di Benedetto XVI porta la data del 3 maggio 2012, perché l’Italia non si adegua?

Perché si dice «Signore non son degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto…» e non piuttosto «non son degno che tu entri nella mia casa» (intesa come anima)?

Tempo addietro ho ascoltato una conferenza sul «Padre nostro» nella quale si sosteneva che sarebbe ora di cambiare il testo e dire «non ci abbandonare nella tentazione» piuttosto che «non ci indurre in tentazione». In fin dei conti sarebbe la versione che leggo nel vangelo, o forse, mi hanno cambiato anche quello?

Emanuela
12/04/2018

Gesù sapeva il greco, tanto da essere in grado di scambiare anche delle battute, ma normalmente parlava in aramaico. Per questo fin dall’inizio del cristianesimo c’è stato il problema della traduzione fedele delle sue parole, visto che il Vangelo è stato presto annunciato a gente che non parlava aramaico ma greco. Traccia di questo è il fatto che gli evangelisti a volte riportano delle parole direttamente in aramaico. Vedi ad esempio il «Talita kum» del Vangelo di Marco. Ora, quando si traduce ci si imbatte in sfumature di significato in certe espressioni che sono veramente difficili da rendere e allora si scelgono le parole o le circonlocuzioni più vicine e fedeli, anche se non letterali.

Molti – tutti

Quando è stata fatta la prima traduzione della messa in italiano, si è voluto sì mantenere la fedeltà letterale al testo latino che era patrimonio secolare della tradizione cristiana, ma nello stesso tempo si è cercato di introdurre tutti gli adattamenti necessari a rendere la traduzione più fedele non alla lettera ma al significato profondo, senza ambiguità, per rendere il testo comprensibile al discepolo di oggi. Per questo la Conferenza episcopale italiana, e molte altre nel mondo, hanno accettato senza esitazione la traduzione «versato per voi e per tutti» che rende bene il significato più vero delle parole riportate da Luca e Paolo («per voi») e da Matteo e Marco (per / in favore di / per amore di «molti» / delle «moltitudini»). Infatti, secondo i biblisti e i linguisti il «pro multis» del latino non significa esclusione di alcuni, ma inclusione di tutti e tradurrebbe il termine greco «polloi» che a sua volta traduce la parola semitica «rabbiym», che indica «una grande moltitudine» e implica anche la nozione «tutti». È la traduzione che cerca di rendere nel modo migliore il senso originale delle parole di Gesù, che in ogni caso, non presupponevano alcuna contrapposizione tra «molti» e «tutti».

Sull’argomento è intervenuto papa Benedetto XVI con una lettera del 14 aprile 2012 al presidente della Conferenza episcopale tedesca. Il testo della lettera è complesso e non è certo questo il luogo per farne una presentazione. Rivela comunque come negli anni del dopo Concilio c’è stato un grosso dibattito sui temi della traduzione e della interpretazione, provocato dall’esistenza, accanto a quelle eccellenti, di traduzioni sciatte o che hanno addirittura banalizzato i testi sacri. Questo ha dato motivo alla linea più severa della fedeltà letterale di prevalere su quella più interpretativa. Per questo, scrive il papa: «In questo contesto, è stato deciso dalla Santa Sede che, nella nuova traduzione del Messale, l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale, senza essere già interpretata. Al posto della versione interpretativa “per tutti” deve andare la semplice traduzione “per molti”», anche se il papa è «consapevole che [tale traduzione] rappresenta una sfida enorme per tutti coloro che hanno il compito di esporre la Parola di Dio nella Chiesa». «Per questo motivo – continua papa Benedetto -, nel momento in cui, in base alla differenza tra traduzione e interpretazione, si scelse la traduzione “molti”, si decise, al tempo stesso, che questa traduzione dovesse essere preceduta, nelle singole aree linguistiche, da una catechesi accurata, per mezzo della quale i Vescovi avrebbero dovuto far comprendere concretamente ai loro sacerdoti e, attraverso di loro, a tutti i fedeli, di che cosa si trattasse. Il far precedere la catechesi è la condizione essenziale per l’entrata in vigore della nuova traduzione». Tale catechesi da una parte deve far capire come la morte di Gesù sia davvero per tutta l’umanità, e dall’altra come nella celebrazione eucaristica tale dono sia affidato ad una comunità concreta («voi», «molti»), che ha poi il dovere/missione di esserne testimone verso tutti.

«Non c’indurre» o «non ci abbandonare»?

Non è cambiato il Vangelo, ma solo la traduzione. Gesù con molta probabilità in aramaico ha detto «non lasciarci/farci entrare in tentazione». Gli evangelisti hanno poi scritto in greco, la lingua comune allora in tutta l’area attorno al Mediterraneo. Il verbo greco eis-enenk?s, tradotto in latino è in-ducas, in italiano in-durre. Tale espressione, letteralmente corretta, ha però perso il senso permissivo (lasciare/permettere) dell’espressione aramaica di Gesù. Dio permette le prove, ma non è lui a tentare. Per questo la nuova traduzione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana del 2008 ha reso la richiesta con «non abbandonarci alla tentazione».

Così scriveva Paolo Farinella:
«Alla» o «nella» tentazione? In greco c’è la preposizione «eis» che non indica solo direzione (verso la – alla) ma con-penetrazione/con-toccamento (dentro – nella) che esige un contatto. Forse non esiste una traduzione corretta in assoluto: non abbandonarci «alla tentazione» può significare ogni volta che si presenta la tentazione; «nella tentazione» può indicare una forma permanente di tentazione (vedi l’esigenza di «pregare per non cadere in tentazione» – Mt 26.41). Che si usi una traduzione o l’altra, il significato potrebbe essere parafrasato con «non abbandonarci “mai” perché viviamo in uno stato permanente di tentazione» (MC 10/2017 pag. 32).

Papa Francesco stesso ha ricordato, durante un’intervista su Tv2000 il 6 dicembre scorso, che «anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice: “Non mi lasci cadere nella tentazione” …». E ha aggiunto che «Sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito». «Quello che ti induce in tentazione – ha affermato Papa Francesco – è Satana, quello è l’ufficio di Satana».

Perché allora questa versione (del Padre nostro) non è ancora usata nella preghiera e nella messa? Semplicemente perché i vescovi italiani non hanno ancora pubblicato la nuova versione del messale nei quali sarà certamente inclusa la nuova traduzione usata nella Bibbia del 2008. La prima edizione del messale è del 1973, la seconda del 1983. Quando uscirà la nuova edizione (la terza) del messale in italiano? Non si sa. Restiamo in attesa. L’assenza di questa nuova edizione spiega anche il perché si continua ancora ad usare l’espressione «per tutti» nelle parole della consacrazione. Intanto, nell’incertezza, si continuano ad usare i messali vecchi, spesso ridotti in condizioni pietose.


Chiudiamo la forbice delle diseguaglianze

Una nuova campagna per il bene comune, perché siamo una sola famiglia umana, nessuno escluso

Perché un’iniziativa sulla diseguaglianza? «L’iniquità è la radice dei mali sociali», così scrive Papa Francesco nella Evangelii Gaudium (202), invitandoci a lavorare sulle cause strutturali di un sistema economico che uccide, esclude, scarta uomini, donne e bambini. La diseguaglianza segna in maniera profonda tutte le società del pianeta, che nei vari contesti e territori devono trovare le basi per la propria stessa sopravvivenza, e di quella delle generazioni future. Tutto questo causa delle ferite profonde, e genera malcontento sociale, rabbia, paura e rassegnazione: sentimenti di chi si percepisce escluso e che, nonostante i propri sforzi, vede le proprie condizioni diventare sempre più fragili, vulnerabili, precarie. Ad aggravare la situazione il fatto che la paura diventi il facile collante per un’agenda politica che crede di affrontare i problemi approfondendo i solchi che attraversano la società e il pianeta, e creando muri che generano nuove esclusioni e conflitti.

Chiudere la forbice delle diseguaglianze è dunque la nuova campagna, l’imperativo che vogliamo assumere come priorità per garantire ad ogni donna e ogni uomo che vive su questo pianeta la possibilità di vivere una vita dignitosa e piena, libera dalla paura e dal bisogno, in questa generazione e nelle generazioni future, affinché le migrazioni siano una scelta libera.

Si tratta di un impegno che completa e supera quello sui temi della povertà e dell’esclusione sociale: significa infatti interrogarsi circa le cause di queste, e sulle conseguenze concrete dei meccanismi attraverso cui la povertà stessa si produce e si riproduce.

Significa porre attenzione agli ostacoli che incontrano le iniziative volte a ridurre la distanza tra chi ha troppo e chi non ha abbastanza; significa mantenersi attenti alla concentrazione sproporzionata del benessere e delle opportunità, ma anche del potere e dello spazio operativo che questo squilibrio rischia di perpetuare ed aggravare. Significa infine cercare nuove soluzioni per una piena universalizzazione dei diritti, a partire dai ceti sociali più vulnerabili, cercando pratiche di emancipazione dai territori, dalle comunità locali, esempi positivi di creazione del bene comune, da cui sia possibile evincere linee guida per una politica trasformativa.

La campagna «Chiudiamo la forbice: dalle diseguaglianze al bene comune, una sola famiglia umana» pone questo tema all’attenzione di tutti, declinandolo in tre ambiti in particolare:

  • quello della produzione e del consumo del cibo,
  • quello della pace e dei conflitti,
  • quello della mobilità umana nel quadro delle nuove sfide sociali e climatiche, tra loro connesse, come ci indica l’enciclica Laudato Si’.

Un’ampia alleanza di soggetti promotori, aderenti e media partners. Un nuovo sito, un documento base, tre concorsi nazionali, materiali per approfondimenti, l’apporto (social e non solo) di tutti, strumenti per azioni diffuse sui territori che hanno già contribuito all’impostazione della campagna che si caratterizza per un approccio partecipativo e inclusivo. In linea con i contenuti.

Una campagna triennale, lanciata in occasione del terzo anniversario dell’uscita della Laudato Si’, per indicare l’ispirazione e il traguardo. Un mondo più giusto e solidale.

Per saperne di più: info@chiudiamolaforbice.it

www.chiudiamolaforbice.it

 




Preghiera 17: Pregare: una vocazione ecclesiale


La preghiera è una «vocazione», non è mai un dovere o un obbligo, perché non si può amare per obbligo: solo gli schiavi sono «obbligati» ad amare e il loro sarà comunque un atteggiamento solo esteriore, proprio perché imposto. La preghiera si colloca sul versante dell’amore e quindi deve essere libera nel dono, passionale nell’intensità, autentica nella verità, totale nell’abbandono. Essa è anche la discriminante tra «paganesimo» e «fede»: il primo, che si annida dentro ogni «religione», abbonda di formule e di «adempimenti», come eseguire perfettamente orari, regole e ritmi. Vi possono essere più miscredenti farisei nelle chiese, monasteri e conventi che tra la folla di un circo. Il fariseismo che è l’altro nome dell’irreligiosità è sempre in agguato e si veste del suo abito proprio: il formalismo, che, per sua natura, è vuoto e privo di anima.

Pregare è essere chiamati da…

Se la preghiera è una vocazione, ci deve essere uno che chiama/invita/convoca e uno che risponde/accetta o rifiuta. Questa dinamica si chiama relazione fiduciale, colloquio affettivo. Non nasce a caso, ma sgorga dal cuore stesso di Dio che così fonda la sua alleanza «nuova ed eterna» (Ger 31,31; Canone dell’Eucaristia; cfr. Lc 22,20). Sta qui la natura della Chiesa che da questo movimento nasce come desiderio di Dio.

Nota esegetica.

Nel NT vi sono due parole sulle quali spesso sorvoliamo superficialmente e che invece sono strettamente legate, a partire dal significato etimologico. A nostro avviso sono il fondamento fondativo della «preghiera». Le parole sono: «Chiesa» e «Paràclito» perché derivano dallo stesso verbo greco «kalé? – chiamo / parlo / dico», nel suo senso di base. Esaminiamole brevemente tutte e due.

Premettendo al verbo «kalé?» il prefisso «ek- da» (preposizione di origine o di moto da luogo) si ha il verbo composto «ek-kalé? – ri-chiamo/in-vito/con-voco da…/da parte di… [Dio]». Da questo verbo si forma la parola greca «ek-kl?sía», che ha il significato originario di «ri-chiamata/in-vitata/con-vocata da…». Nella tragedia «Oreste», Euripide (485-407/6 a.C.) usa l’espressione «ékkl?tos òchlos» nel senso proprio di «folla/assemblea convocata/radunata» (cfr. Lorenzo Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, ad vocem). Dal greco si passa al latino eccl?s?a, da cui derivano le traduzioni neolatine «chiesa, eglise, iglesia, església, igreja, ecc. (non il tedesco «Kirke» che deriva da «Kýrios – Signore» o l’inglese «Church» che risale all’antico sassone «Cirice – riunione/chiesa»). La Chiesa è «la chiamata, la radunata, la convocata, la riunita dallo Spirito di Dio attorno al Lògos/Parola che è Gesù. Di tutto questo l’Assemblea eucaristica è sacramento, simbolo, presenza, esperienza e testimonianza.

Premettendo al verbo «kalé?» il prefisso «parà- in favore di…/a nome di…/accanto a…», si ha la parola: «Parà-kalè? – chiamo/parlo/invito/in favore di… o a nome di… qualcuno» che per estensione diventa «avvocato – colui che difende qualcuno perché parla in suo favore o difesa». Da esso deriva anche l’aggettivo verbale «Parà-kl?tos – paràcleto/paràclito», che, sia nella tradizione biblica sia in quella giudaica, compresi Giuseppe Flavio e Filone, ha sempre il significato di intercessore e consigliere. In tutto il NT ricorre solo cinque volte e soltanto in Gv, quattro volte nei discorsi di addio (cfr. Gv 14,16.26; 15,26; 16,7; 1Gv 2,1). San Paolo usa l’aggettivo verbale da solo, «kl?tos – chiamato» per indicare la propria vocazione di apostolo (cfr. Rm 1,1; 1Cor 1,1) e quella dei credenti in Cristo, che pone sullo stesso piano (cfr. Rm 1,2; 1Cor 1,2.24). Nella Bibbia greca della LXX si trova 2 volte (cfr. Gb 16,2; Zc 1,13). Di norma traduce l’ebraico «Qahàl-adunanza/assemblea». Il lemma è prevalente di Gv, il quale gli attribuisce un’importanza particolare che tocca a noi capire.

Nel sistema giudiziario semitico, il «consolatore» è una figura giuridica e richiama quella dell’AT del «go’el – vendicatore/riscattatore/redentore». Quando un accusato veniva deferito in giudizio davanti agli anziani radunati alla porta della città, se uno dei giudici, stimato e autorevole, si alzava e andava a collocarsi «accanto» all’imputato, senza nemmeno proferire una sola parola, quell’uomo era salvo sulla garanzia dell’onorabilità di colui che «ri-»vendicava la sua innocenza sul suo onore e la sua credibilità. La figura del «paràclito» è dunque una figura stimata per la sua dirittura e autorevolezza che tutti gli riconoscono: un uomo il cui giudizio è inappellabile e in questo senso ha una valenza giuridica particolare. In questo contesto il «consolatore/redentore» è anche «avvocato» perché prende le difese di qualcuno e testimonia in suo favore. In 1Gv 2,1 «paràclito» è un attributo di Gesù, qualificato come giusto: «Se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto». Tutte le altre quattro occorrenze sono riferite allo Spirito Santo come è detto espressamente al v. 26. Perché? Nella risposta a questa domanda risiede la comprensione della festa della Pentecoste cristiana. L’affinità semantica tra «ek-klesìa» e «parà-clito» non è solo linguistica, ma anche funzionale, indica una reciprocità che bisogna mettere in luce.

«Ek-kl?sía» e «Parà-kl?tos», dunque, hanno la stessa radice e questo dovrebbe aprirci un orizzonte nuovo non solo sulla natura della Chiesa, ma anche sulla preghiera. L’ekkl?sía, infatti, non è una struttura, ma è [l’assemblea] radunata/ convocata/riunita da Dio, il cui fondamento e origine è il Paràkl?tos, il Consolatore, il Convocatore. Se la Chiesa è per sua natura «chiamata e convocata», la preghiera è l’atto, la realizzazione di questa convocazione o chiamata, cioè la risposta alla proposta di Dio d’incontrarsi, anzi di «vedersi» per realizzare il sogno/desiderio dei Greci espresso a Filippo: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Non si tratta di un desiderio per una visione estetica, come se si fosse in un museo, ma di una visione che è trasfusione di sguardi, di linfa, di confidenze, di parole, di sentimenti, di vita.

Ogni volta che ciascuno di noi «prega», risponde a un impulso, una chiamata del Paràclito che, in lui/lei, anche se da solo o sola, convoca l’Assemblea santa per dare a Dio l’opportunità di riposarsi nel «settimo giorno» (cfr. Gen 2,2-3) della preghiera, contemplando il volto e ascoltando i sentimenti dell’amore effuso sul mondo. L’orante è la sentinella sugli spalti del mondo, mentre questo è distratto e dispersivo, incurante e blasfemo, pieno di sé e attento solo a sé per vigilare, vegliare, impetrare misericordia, offrendo se stessi come «sacrificio di lode» (cfr. Sal 116/115,17; Eb 13,15). Se vedessimo la preghiera come la nostra disponibilità di «dare riposo» a Dio, ogni nostra prospettiva cambierebbe.

© Benedetto Bellesi

Essere chiamati e rispondere

Proviamo ad esercitarci a pregare con un testo classico: la stupenda pagina della vocazione di Samuele (cfr. 1Sam 3,4-11) che ha la dinamica puntuale di un percorso personale finalizzato alla comunità. Il testo ancora oggi costituisce una delle pagine più sublimi di tutta la Scrittura per descrivere che uno è chiamato non per se stesso, ma per esercitare una funzione profetica nella comunità. Nel racconto s’intrecciano diverse dinamiche che meritano di essere sottolineate.

«Il Signore chiamò: “Samuele!” ed egli rispose: “Eccomi”, 5poi corse da Eli e gli disse: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Egli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. Tornò e si mise a dormire. 6Ma il Signore chiamò di nuovo: “Samuele!”; Samuele si alzò e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Ma quello rispose di nuovo: “Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!”. 7In realtà Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore. 8Il Signore tornò a chiamare: “Samuele!” per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. 9Eli disse a Samuele: “Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”. Samuele andò a dormire al suo posto. 10Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: “Samuele, Samuele!”. Samuele rispose subito: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”. 11Allora il Signore disse a Samuele: “Ecco, io sto per fare in Israele una cosa che risuonerà negli orecchi di chiunque l’udrà”» (1Sam 3,4-11).

Nota esegetica.

Il profeta Samuele opera tra il 1075 e il 1035 a.C. (qualcuno lo colloca anche un secolo dopo), fu lacerato tra la monarchia e l’anti monarchia, tra il ritorno allo stile nomade delle origini, rappresentato dal suo maestro Eli, e la vita agricola e sedentaria piena di tentazioni di sicurezza e violenza. Egli vive la sua vocazione come lacerazione, sacrificio di dover sempre scegliere tra due opposti: la politica quotidiana e la mistica. Egli, nonostante la lacerazione interiore non separò mai i due aspetti, ma ne visse la fatica quotidiana, affrontandola con lo strumento del discernimento. Questo è il compito della preghiera: illimpidire lo sguardo dell’orante perché possa vedere con verità gli eventi della storia e valutarli nella libertà della propria coscienza.

Nota metodologica.

Dopo avere letto il testo una volta, per capirne il senso, e poi riletto una seconda volta più lentamente per afferrarne l’intensità, occorre rileggere per la terza volta, molto lentamente, facendo corrispondere più che sia possibile la lettura con il respiro e nel frattempo, con la fantasia, trovare all’interno del testo il proprio «dove». Questa Parola è per me, adesso e qui.
• Dove sono io?
• Dove mi piacerebbe essere nel testo da protagonista? • Mi sento più Dio che chiama? Se sì, perché?
• Mi sento Samuele, il chiamato? Perché?
• O Eli, il maestro e testimone, presente-assente, che guida e non si sostituisce, che indica e non determina il cammino del discepolo né si fa interprete di Dio?

Dopo avere riletto per la quarta volta il testo contando solo i verbi, quale di questi è più corrispondente al mio stato attuale?

«Il Signore chiamò: “Samuele!” ed egli rispose: “Eccomi”»

La scena è discreta, non eclatante. Solo una voce che pronuncia un «nome». C’è qualcuno che chiama e, se nessuno risponde, quella chiamata è vuota. Nella Bibbia il «nome» indica sempre la natura di chi lo porta e la sua proiezione futura. Il nome di «Samuele» è da solo un programma di vita: Shemù-èl/il suo nome è Dio per questo può rispondere con prontezza: «Eccomi!» (alla lettera, sia in ebraico sia in greco: «Guarda/vedi», Eccomi qua!). Non basta che uno si senta chiamato, deve essere il Signore a chiamare e quando ciò accade occorre «già» avere un nome predisposto. Stare pronti perché il Signore può chiamare è parte integrante della vigilanza di cui è intriso l’intero vangelo e ciò può avvenire solo se ogni giorno si vive in perenne stato di «Eccomi!». Chi è chiamato non s’improvvisa, ma si prepara.

«Il Signore chiamò: “Samuele!” ed egli rispose: “Eccomi”, 5Poi corse da Eli e gli disse: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Egli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. Tornò e si mise a dormire».

La scena si ripete tre volte con lo stesso schema:

  1. Il Signore chiama:  “Samuele!”.
  2. Samuele risponde “Eccomi!”.
  3. Samuele corre da Eli

A’. Mi hai chiamato, ” “Eccomi!”.
B’. “Non ti ho chiamato, ” torna a dormire!”.
C’. Tornò e si mise a dormire.

© Benedetto Bellesi

La prima annotazione da sottolineare è che la chiamata non è chiara, ma spesso è oscura, confusa. Anzi, non è evidente, ma si può confondere Dio con Eli. Per evitare qualsiasi confusione, c’è la chiave del v.7: «In realtà Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore». Per discernere occorre, nell’ordine: conoscere il Signore ed essere stati oggetto di rivelazione della sua Parola. La conoscenza qui può essere intesa anche come frequentazione, assiduità, consuetudine. Samuele vive nel tempio del Signore, ma deve ancora avere gli strumenti della conoscenza che lentamente Eli gli procura in quanto maestro e testimone. Al risuonare del suo nome, comunque, Samuele «corre» verso chi conosce e di cui si fida. C’è sempre qualcuno o qualcuna che ci fa da specchio per capire le nostre stesse parole, i nostri sentimenti, le nostre interpretazioni. Sul piano della fede nessuno può essere autodidatta, ma tutti siamo discepoli di qualcun altro, se questo qualcuno è come Eli che si mantiene a debita distanza dall’azione di Dio e dalla risposta di Samuele. Eli non è un genitore/superiore/vescovo/insegnante/educatore sostitutivo, ma applica alla lettera quello che Giovanni il Battezzante dirà mille anni dopo: «È necessario che lui cresca e io diminuisca» (Gv 2,30).

Solo così c’è spazio e ritmo perché la Parola del Signore, in apparenza confusa, possa riposare sul terreno fruttuoso per germogliare con abbondanza, e solo così Samuele può ascoltare un’altra parola di accompagnamento: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta!». Perché il discepolo possa ascoltare, è indispensabile che il maestro/la guida sappia riconoscere che sia il Signore a chiamare e non sia un’illusione a ingannare.

In una vocazione, occorrono due discernimenti, una del chiamato e uno della guida: se fallisce uno dei due, si annulla tutto e si creano adepti, gregari, ma mai discepoli e «con-vocati» per la profezia. La prima comunicazione, infatti, che Samuele riceve non riguarda la sua persona, ma la comunità d’Israele. Dio gli confida quello che è in procinto di fare al suo popolo e Samuele ne sarà parte integrante perché tramite. Chiamato per… andare.

Attualizzazioni sapienziali

Ognuno di noi immagini, per un momento, di essere Samuele.

  • Posso verificare nel corso della mia vita le volte che mi sono sentito chiamare «per nome»?
  • Sono in grado di individuare «i luoghi» materiali (i posti) dove ciò è avvenuto?
  • Cosa è accaduto?
  • Quali segni ha lasciato dopo?
  • Ho verificato con qualcuno di fiducia quanto mi è successo?
  • La mia guida è stata come Eli o si è intromessa in modo indebito?
  • Al sentire il «nome», sono corso o mi sono girato dall’altra parte?

In appena 8 versetti ricorrono 48 verbi (6 per ogni versetto): una ricorrenza impressionante, tutti inerenti la comunicazione (chiamare, rispondere, dire, parlare, ascoltare, udire) e le modalità di attuazione (correre, dormire, comprendere, stare accanto).

  • Se dovessi sintetizzare la mia vita in uno di questi 48 verbi, quale scelgo come sigillo esistenziale?
  • Se dovessi sintetizzare la mia vita di relazione con il Signore, con quale verbo lo identificherei?
  • Se dovessi sintetizzare la mia vita di relazione o di servizio quale verbo sceglierei come stemma emblematico?

Ho mai pensato alla preghiera come vocazione di vita «ordinaria» e cioè strumento di trasformazione del vivere quotidiano in «sacrificium laudis» (Sal 50/49,23), nel senso di dono senza condizioni nel lavoro, in famiglia, per strada, ovunque io sia? Oppure ho relegato la preghiera a «tempi» riservati, contingentati (Ufficio, Liturgia, ecc.) e a «luoghi» speciali (monasteri, conventi, ecc.). Nel mio rapporto con Dio, offro le primizie o gli scarti?

Se dovessi fare un parallelo con Samuele, la sua esperienza e il suo comportamento, posso indicare le differenze e le somiglianze? Quali prevalgono e perché? Se dovessi fare un confronto tra il comportamento di Eli, il maestro/la guida (il padre o madre spirituale) e il mio come guida/ accompagnatore/ trice, quali differenze sottolineo? Se potessi tornare indietro, cosa cambierei nel mio modo di «guidare» le persone nel discernimento della loro vita?

Solo alla terza volta, Eli, che era uomo di Dio, capì che il Signore «chiamava» Samuele e mentre gl’indicava la via, si ritrasse in disparte per lasciare spazio a Dio e a Samuele. Posso dire, in buona coscienza, come genitore, superiore, insegnante, educatore, mediatore, catechista, prete, autorità, politico, amministratore, di non avere prevaricato sulla libertà di chi chiedeva il mio sostegno?

Oggi, alla luce del mio passato, della mia storia, delle mie esperienze, posso dire di essere sempre pronto/a a correre dietro la «voce» che chiama e di dire «Eccomi!».

Il Paràclito, sorgente della Chiesa, c’insegni a «comportarci in maniera degna della chiamata che abbiamo ricevuto» (Ef 4,1), consapevoli di essere stati «chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia» (2Tm 1,9). È un cambio di prospettiva, anzi un capovolgimento di mentalità: è la metànoia del Regno di Dio, quella che riguarda l’essere e la vita, non il comportamento, l’usanza o, peggio, le apparenze.

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-17]

 




La vera storia del debito italiano


Perché siamo indebitati per 2.300 miliardi di euro? Abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità? È colpa del sistema pensionistico? L’evasione fiscale e la corruzione quanto pesano? Perché le diseguaglianze continuano ad aumentare? La pressione fiscale è giusta? E la tanto mitizzata «flat tax» per chi sarà vantaggiosa? Proviamo a dare qualche risposta.

Le turbolenze finanziarie vissute dall’Italia a fine maggio, in coincidenza con la formazione del nuovo governo, hanno dimostrato quanto sia rilevante il tema del debito pubblico ai fini politici ed economici. Soprattutto per l’Italia, il paese più indebitato dell’Unione europea. Almeno in termini assoluti. In termini relativi, ossia in rapporto al Pil, il primato tocca alla Grecia che è al 178%, mentre quello italiano è al 132% (mappa pag. 61).

Un luogo comune vuole che l’Italia sia indebitata perché pretende di vivere al di sopra delle proprie possibilità, ma i numeri raccontano un’altra storia. Se volessimo ricostruire l’evoluzione del nostro debito pubblico, dal dopoguerra ad oggi, noteremmo tre fasi: quella dei disavanzi in regime di sovranità monetaria, quella dei disavanzi in regime di schiavitù monetaria e quella degli avanzi ancora in regime di schiavitù monetaria.

Il divorzio più costoso della storia d’Italia (1981)

Il primo periodo, durato fino al 1980, era caratterizzato da spese a vantaggio dei cittadini superiori al gettito fiscale, ma i disavanzi erano coperti in larga misura dalla stampa di nuova moneta da parte della Banca d’Italia. Nel corso degli anni Settanta una serie di eventi, fra cui un’inflazione insidiosa, fece cambiare il vento politico ed uno degli effetti prodotti in Italia fu il così detto divorzio fra stato e Banca d’Italia che segnò la fine della sovranità monetaria. Così si entrò nella seconda fase, quella dei disavanzi in schiavitù monetaria. Era il febbraio 1981 e il governo decise che da quel momento avrebbe colmato i suoi disavanzi solo con prestiti ottenuti dalle banche private. A torto o a ragione, i governi che si susseguirono negli anni Ottanta decisero di fare spese superiori al gettito fiscale, molti dicono per colpa della decisione di mandare la gente in pensione troppo presto. E può darsi. Ma complessivamente il debito contratto a vantaggio dei cittadini fra il 1981 e il 1991 fu di 140 miliardi di euro, una somma che, sommata al debito già esistente nel 1980, darebbe un totale di 254 miliardi. In realtà, nel 1991 non trovammo un debito a 254 ma a 750 miliardi. La differenza è data dalla spesa per gli interessi che in quel decennio viaggiavano fra il 14 e il 20%.

Nel 1992 l’Italia entrò nella terza fase caratterizzata dal risparmio. Nel tentativo di ripagare il debito, tutti i governi che si sono susseguiti, ad eccezione del 2009, hanno speso per i cittadini meno di quanto abbiano incassato dal gettito fiscale. Complessivamente, dal 1992 al 2016 il risparmio è stato pari a 760 miliardi, ma il debito pubblico ha continuato a salire fino a sfondare i 2.300 miliardi. Il punto è che il risparmio realizzato non è stato sufficiente a coprire la spesa per interessi che nello stesso periodo è ammontata a 2.038 miliardi. Per cui lo stato italiano si è indebitato per altri 1.278 miliardi per pagare la parte di interessi non coperta dai risparmi. In altre parole, l’Italia si trova nella trappola dell’interesse composto che significa pagare gli interessi sugli interessi. Un meccanismo noto in ambito bancario come «anatocismo», dal greco ana, di nuovo, e tokos, interessi. E quando il debitore ci casca dentro non ne esce più perché il debito si autornalimenta: gli interessi non pagati fanno crescere il capitale da restituire e la crescita del capitale fa crescere gli interessi in una rincorsa senza fine.

Su chi ricade la pressione fiscale?

Appurato che l’Italia non vive al di sopra delle proprie possibilità, la domanda che, caso mai, dobbiamo porci è perché non riusciamo a tenere la corsa con gli interessi. Ma per trovare la risposta a questa domanda bisogna esaminare sia le entrate che le uscite per appurare eventuali lacune, errori, inefficienze. Sul lato delle entrate il quesito da porsi è se lo stato stia incassando tutto ciò che dovrebbe, o se stia rinunciando a cifre importanti per assecondare categorie privilegiate. Se esaminiamo la pressione fiscale, ossia il peso delle imposte sul prodotto interno lordo, scopriamo che è andata crescendo costantemente passando dal 31,4% nel 1980 al 42,9 nel 2016. Ma scopriamo anche che lo sforzo non è stato equamente distribuito e che la pressione è aumentata molto più sui redditi medio bassi che su quelli medio alti. Ce lo dice soprattutto l’Irpef, l’«Imposta sui redditi delle persone fisiche» che rappresenta il 65% dell’intero gettito diretto. Quando venne introdotta, nel 1974, era formata da 32 scaglioni, il più alto dei quali, oltre i 252mila euro di allora, corrispondenti a 3 milioni di oggi, era al 72%. Una grande parcellizzazione dovuta non alla bizzarria dei parlamentari, ma al rispetto dell’articolo 53 della Costituzione che espressamente recita: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Purtroppo non passò molto tempo e già si cominciò a picconare la progressività riducendo gli scaglioni e le aliquote sui redditi più alti. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati 9, col più alto al 65% oltre i 258mila euro, nel 2016 li troviamo a 5 col più alto al 43% oltre i 75mila euro. E per confrontare meglio lo scenario di oggi con quello di 40 anni fa, conviene ragionare su somme uniformate da un punto di vista del potere d’acquisto. Ebbene, su uno stipendio equivalente ai 25mila euro di oggi, nel 1974 l’Irpef si sarebbe preso il 12%, oggi se ne prende il 24%, praticamente il doppio. Viceversa, su un reddito equivalente a un milione di euro di oggi, nel 1974 l’Irpef si sarebbe preso il 45%, oggi se ne prende il 42%. E poi uno si meraviglia per l’acuirsi delle disuguaglianze.

Purtroppo, la lista dei favori fatti alle classi più agiate non si limita alla manomissione degli scaglioni dell’Irpef, ma si estende a molti altri ambiti facilmente individuabili, ma difficilmente quantificabili. In ogni caso si può dire che una via attraverso la quale è stato garantito un alto gettito fiscale sulle spalle dei più poveri è quella delle imposte indirette (ad esempio, l’Iva), che dal 1982 al 2016 hanno visto aumentare la propria pressione del 6,1%, passando dall’8,1% al 14,4% del Pil. Il lotto e il gioco d’azzardo ci hanno messo del loro per fare crescere il gettito delle imposte indirette, ma il ruolo principale l’ha svolto l’Iva, l’imposta sui consumi che rappresenta il 60% dell’intero gettito indiretto. Lo dimostra l’andamento dell’aliquota ordinaria che è passata dal 18% nel 1982 al 22% nel 2016. Un aumento odioso pagato principalmente dalle categorie più povere che per definizione consumano tutto ciò che guadagnano.

E sullo sfondo di un sistema fiscale sempre più iniquo, destinato a farsi ancora peggiore se passerà l’ipotesi della «flat tax», c’è la piaga dell’evasione fiscale che, secondo il rapporto 2018 della Commissione presieduta da Enrico Giovannini, ammonta a 110 miliardi all’anno. Una perdita enorme che, se fosse recuperata, permetterebbe di gestire agevolmente il nostro debito pubblico. Ma la si vuole veramente recuperare?

Le spese inutili

Un esame altrettanto rigoroso andrebbe svolto sul lato delle uscite per individuare spese inutili e dannose. E tanto per sgombrare il terreno da un altro luogo comune altrettanto diffuso, va detto che la cassa pensionistica che finanzia le pensioni dei lavoratori (l’Inps), in Italia non è in passivo, ma in attivo di ben 14 miliardi all’anno (205 miliardi di uscite a fronte di 219 miliardi di entrate nel 2016, come da bilancio dell’istituto). Gli sprechi, che senz’altro ci sono, vanno ricercati altrove. Nella corruzione ad esempio, che ogni anno provoca uscite indebite per 50 miliardi. Oppure nelle grandi opere totalmente inutili e deturpanti per l’ambiente. Per non parlare delle spese militari di tipo aggressivo contrarie all’articolo 11 della Costituzione. O dei soldi buttati nei salvataggi delle banche gestite in maniera scriteriata. O, peggio ancora, dei soldi persi nelle scommesse fatte con le grandi banche internazionali sull’andamento dei tassi di interesse. Fra il 2013 e il 2016 per questo genere di scommesse, lo stato italiano ha perso 18 miliardi di euro.

Per i livelli raggiunti, il debito pubblico italiano preoccupa tutti, ma non per le stesse ragioni. Tre le principali posizioni esistenti. La prima è dell’Unione europea, preoccupata per i destini dell’euro, che chiede rigore per conquistarsi la fiducia dei mercati finanziari. La seconda è del mondo imprenditoriale italiano, preoccupato per la sopravvivenza delle proprie aziende, che chiede un approccio più elastico per garantire più spesa. La terza è dei difensori dei poveri, preoccupati per l’impatto sociale, che chiede un’uscita dal debito facendo pagare i più ricchi. Nella prossima puntata, esamineremo più in dettaglio le tre posizioni, ma intanto conviene soffermarci sulle conseguenze del debito.

Le conseguenze del debito

Il debito ha tre gravi conseguenze sociali: crea povertà, aggrava le disuguaglianze e provoca disoccupazione. Produce povertà per l’aumento delle tasse e il taglio dei servizi. La forma più grave di povertà è quella di chi è in arretrato con le bollette, di chi non riesce a scaldare adeguatamente la casa, di chi non può permettersi un pasto appropriato almeno una volta ogni due giorni. Le persone in questo grave stato di deprivazione materiale sono oltre 7 milioni, 12,1% della popolazione. Ma se allarghiamo lo sguardo a chi vive in bilico a causa del suo stato di precarietà e di incertezza, troviamo che le persone a rischio povertà, o esclusione sociale, sono 18 milioni, il 30% della popolazione italiana, il 4% in più del 2004. Persone a cui basta un dente da riparare, degli accertamenti sanitari imprevisti, una riparazione d’auto fuori programma, per mandarle sott’acqua e costringerle ad arrangiarsi chiedendo un prestito o rinunciando ad altre spese importanti. Quanto alle disuguaglianze si può senz’altro affermare che il debito verso i privati è un meccanismo di redistribuzione alla rovescia: prende a tutti per dare ai più ricchi perché solo i facoltosi hanno un sovrappiù da prestare allo stato. E i risultati si vedono: l’Italia è sempre più disuguale.

Da un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza accumulata sotto forma di case, terreni, titoli, le famiglie più ricche, pari al 10% del totale, detengono il 46% dell’intera ricchezza privata, quelle più povere, pari al 50% del totale, posseggono il 9,4%. I segnali di un’Italia sempre più disuguale si ritrovano anche nella distribuzione del reddito. Ogni individuo del 10% più ricco ha un introito annuale di 77.189 euro, mentre quelli del 10% più povero si fermano a 6.521 euro. Un divario di quasi 12 a 1. Situazione peggiore rispetto agli anni Ottanta quando il rapporto era 8 a 1.

Disoccupati e fattorini

E, infine, c’è la disoccupazione dovuta a un rallentamento di tutta la macchina economica. Difficile dare i numeri al riguardo perché oggi si considera occupato anche chi lavora un’ora al giorno a partita Iva come fanno i fattorini di Foodora. L’Istat pone la disoccupazione a 2 milioni e mezzo di persone, 11,2% della forza lavoro, ma la Banca centrale europea (Bce) pensa che si debbano aggiungere altri 3 milioni di persone che un lavoro lo vorrebbero, ma non lo cercano perché scoraggiati.

Un quadro allarmante su cui dovremmo cominciare a riflettere, per trovare soluzioni alternative a tutte quelle che ci hanno imposto finora. Ma senza farci illusioni: ogni scelta fuori dall’ortodossia creditizia è destinata a suscitare scontri e ricatti. Intanto, però, cominciamo a parlarne.

Francesco Gesualdi

 




Popoli indigeni e alfabetizzazione


In agosto e settembre cadono due ricorrenze che riportano l’attenzione su due temi mai come oggi attuali: la giornata internazionale dei popoli indigeni del mondo (9 agosto) e la giornata internazionale dell’alfabetizzazione (8 settembre).

Era il 1994 quando le Nazioni Unite hanno fissato nel 9 agosto la giornata internazionale dei popoli indigeni. È stato scelto questo giorno perché in esso cade l’anniversario della prima riunione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sui Popoli indigeni, che aveva avuto luogo nel 1982.

Di fatto, l’ingresso delle popolazioni indigene fra i temi all’attenzione dell’Onu è storicamente avvenuto attraverso la porta dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) che si occupa dei popoli indigeni sin dagli anni Venti, quando l’organizzazione «madre» non era ancora l’Onu, bensì la Lega delle Nazioni.

Il motivo per cui l’Ilo, a suo tempo, ha portato alla ribalta il tema indigeno è che una serie di studi sui lavoratori rurali avevano mostrato come gli indigeni rappresentassero, all’interno di questa categoria, un gruppo piuttosto significativo e altrettanto discriminato.

Uno dei primi aspetti che le organizzazioni internazionali hanno tentato di affrontare è stato quello della definizione di popoli indigeni. Un primo contributo sostanziale è stato la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite durante la sua 62ª sessione in New York il 13 settembre 2007@.

Poi, in un rapporto del 22 novembre 2017, Decent Work for Indigenous and Tribal Peoples in the Rural Economy@, l’Ilo ricorda che: «Non esiste una definizione universale di popoli indigeni e tribali, ma la Convenzione Ilo sui Popoli Indigeni e Tribali del 1989, N. 169, fornisce un insieme di criteri soggettivi e oggettivi che vengono applicati congiuntamente per identificare chi sono questi popoli in un determinato paese».

Il criterio soggettivo sia per i popoli indigeni che per quelli tribali è il sentimento di appartenenza, cioè il sentirsi parte di un gruppo. I criteri oggettivi sono poi, nel caso dei popoli indigeni, il fatto di discendere da popoli che abitavano in quella zona all’epoca della colonizzazione, della conquista o della definizione degli attuali confini dello stato. A questo si aggiunge un secondo criterio oggettivo, cioè il fatto di conservare in tutto o in parte le proprie istituzioni sociali, economiche, culturali e politiche, a prescindere da quale sia il loro status giuridico.

Baragoi, Kenya

Chi è indigeno?

I criteri oggettivi riguardanti i popoli tribali, invece, sono il fatto di avere condizioni sociali, culturali ed economiche che li distinguono dalle altre componenti della comunità nazionale e l’avere uno status regolato in tutto o in parte dalle loro consuetudini e tradizioni o da leggi o regolamenti speciali.

Il rapporto del 2017 precisa, inoltre, che «data la diversità dei popoli che cerca di proteggere, la Convenzione usa la terminologia inclusiva di popoli “indigeni” e “tribali” e attribuisce a entrambi lo stesso insieme di diritti. Ad esempio, in alcuni paesi latino-americani il termine “tribale” è stato applicato ad alcune comunità afro discendenti».

La Convenzione, si legge sul sito di Survival, una delle organizzazioni più attive nel sostenere i diritti dei popoli indigeni, è importante perché «riconosce i diritti di proprietà della terra dei popoli tribali e stabilisce che essi debbano essere consultati ogniqualvolta vengono varati leggi o progetti di sviluppo che possono avere un impatto sulle loro vite. […] riconosce, inoltre, le pratiche culturali e sociali dei popoli tribali, garantisce il rispetto delle loro tradizioni e chiede che le loro risorse naturali vengano protette». A oggi è stata ratificata da 22 stati prevalentemente latinoamericani e, fra gli europei, solo da Danimarca, Olanda, Norvegia e Spagna.@

Per fare alcuni esempi, e limitandosi ad alcuni dei popoli con i quali i missionari della Consolata lavorano, sono identificati come popoli indigeni: i Pigmei in Rd Congo, i Turkana, i Samburu, i Masaai in Kenya, gli Yanomami, i Makuxì in Brasile, i Guarani-Kaiowá, i Toba, i Tupi-Guarani in Argentina.

South Horr, Kenya

Un quadro complesso e variegato, dunque, come lo è la realtà dei popoli indigeni ai quali ad oggi appartengono circa 370 milioni di persone che vivono in 90 stati e parlano una larga maggioranza delle lingue del mondo, le quali, secondo le Nazioni Unite, sono tra 6.000 e 7.000.

Ma ci sono anche alcuni elementi che accomunano la condizione delle popolazioni indigene: il rapporto Ilo indica che queste costituiscono il 5% della popolazione del pianeta ma al tempo stesso rappresentano il 15% dei poveri del mondo e la loro aspettativa di vita, riporta il Programma Onu (Undp) per lo sviluppo, è di 20 anni più bassa rispetto ai non indigeni@. Sono loro che si prendono cura di circa un quinto della superficie terrestre e proteggono quasi l’80% della biodiversità rimanente sulla Terra.

Quest’anno, la giornata del 9 agosto fa da preludio a una serie di iniziative che si terranno nei mesi successivi. Infatti, il 2019 è stato dichiarato Anno internazionale delle lingue indigene@.

«Nonostante il loro valore immenso», si legge nel Piano d’azione per l’organizzazione dell’anno internazionale, «le lingue di tutto il mondo continuano a scomparire a tassi allarmanti. […] Secondo il Forum permanente sulle questioni indigene, non meno del 40% delle circa 6/7.000 lingue parlate nel 2016 rischiavano di scomparire. Il fatto che molte di queste sono le lingue indigene mette a rischio le culture e i sistemi di conoscenza a cui appartengono quelle lingue».

Altro evento che vedrà come protagonisti i popoli indigeni sarà nell’ottobre 2019 il Sinodo sull’Amazzonia. Nella presentazione del documento di preparazione all’Assemblea speciale per la Regione Panamazzonia si insiste molto sulla «urgenza dell’ascolto», sulla imprescindibilità dell’ascoltare i popoli che abitano l’Amazzonia e i popoli indigeni in particolare@ (cfr. MC luglio 2018).

Bayenga, Congo RD

Alfabetizzazione, va meglio ma non basta

L’8 settembre si celebra la giornata internazionale dell’alfabetizzazione. Nel 2017 Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, aveva diffuso alcuni dati statistici aggiornati@: il tasso di alfabetizzazione globale fra le persone da 15 anni in su aveva raggiunto l’86%, dato che aumentava al 91% se si considerava solo la fascia d’età fra i 15 e i 24 anni. Tuttavia, sottolineava Unesco, 750 milioni di persone nel mondo erano analfabete e due terzi di queste erano donne, mentre i giovani fra 15 e i 24 anni non in grado di leggere e scrivere erano 102 milioni.

I tassi più bassi di alfabetizzazione si registrano nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale e sono inferiori al 50% in venti paesi: Afghanistan e Iraq in Asia; Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone e Sud Sudan, in Africa, e Haiti in America Latina.

Quanto ai bambini in età da scuola primaria e secondaria fino a 14 anni, secondo i dati 2016 non sono a scuola 63 milioni fra i 6 e gli 11 anni e 61 milioni fra i 12 e i 14 anni. Non solo: fra quelli in classe il problema è la qualità dell’insegnamento. Secondo un rapporto Unesco del 2014 i cui dati sono tuttora citati@, dei 650 milioni di bambini delle scuole primarie 250 milioni non stanno imparando in modo sufficiente le basi della lettura e della matematica. Di questi, quasi 120 milioni non sono arrivati alla quarta classe, mentre i restanti 130 milioni sono a scuola ma non hanno raggiunto gli standard minimi di istruzione. Questi bambini, precisa il rapporto, spesso faticano a capire una frase elementare e non hanno una preparazione adeguata per il passaggio alla scuola secondaria.

Anche nell’ambito dell’alfabetizzazione e dell’istruzione i popoli indigeni sono spesso penalizzati rispetto agli altri membri della comunità nazionale in cui vivono. Le principali cause sono la carenza di adeguate strutture e di personale qualificato nelle aree indigene e anche il mancato rispetto delle specificità delle culture nei programmi scolastici e nei metodi di insegnamento. Tutto questo fa sì che l’istruzione per i popoli indigeni sia non solo difficilmente accessibile ma anche espressione di una cultura imposta e lontana da loro.

Dianrà, Costa d’Avorio

I progetti dei missionari della Consolata

L’etno educazione è un ambito nel quale alfabetizzazione e cultura indigena trovano un terreno comune. Padre Corrado Dalmonego, che dal 2010 segue diverse attività di etno educazione con gli Yanomami del Catrimani (Roraima, Brasile), riporta che gli obiettivi dell’etno educazione sono quelli di «costruire con le comunità un processo specifico, differenziato, interculturale e bilingue, a partire dalle conoscenze e da una pedagogia propri. L’etno educazione non si riduce solo alla scuola, e neppure solamente all’alfabetizzazione; nasce dal modo di essere Yanomami e si espande attraverso tutte le relazioni interetniche».@

Iniziative che vanno in questa direzione sono in corso anche nella terra indigena di Raposa Serra do Sol, sempre in Brasile, ad esempio a Linha Seca, dove padre Joseph Musito ha seguito la realizzazione delle aule per la scuola Indio Luiz. «Questa scuola», scrive padre Joseph, «non ha solo il ruolo di trasmettere agli alunni le conoscenze sulla società moderna, ma anche la storia e i valori tradizionali attraverso i racconti orali, i canti, le danze, il disegno, le consuetudini e la lingua indigena».

Quanto alle iniziative con i popoli indigeni dell’Africa, ricordiamo la scuola itinerante che padre Andrés García Fernández sta portando avanti a Bayenga, nel Congo Rd, con i pigmei Bambuti@. Si tratta di un percorso prescolare rivolto ai bambini di 33 insediamenti nella foresta, realizzato «con metodi il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti» (cfr. MC giugno ‘17).

Al di là dell’ambito dell’istruzione, poi, il lavoro dei missionari della Consolata con i popoli indigeni consiste anche nell’accompagnare le comunità nel loro sforzo di mettersi in relazione con la cultura dominante senza esserne travolte. È il caso, ad esempio, dei progetti di promozione dell’artigianato Warao o delle attività generatrici di reddito legate alla sartoria nella zona di Tucupita, in Venezuela (vedi MC luglio 2018).

Altra iniziativa che ha come principale obiettivo quello della promozione, valorizzazione e difesa della cultura indigena è il Centro di documentazione Indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista, Brasile. Fratel Carlo Zacquini, veterano della missione in Roraima, vi ha riunito le testimonianze e i materiali che, insieme a diversi suoi confratelli, ha raccolto in 53 anni di lavoro con gli Yanomami.

Infine, vale la pena di citare un’iniziativa di alfabetizzazione non legata a popoli indigeni ma attiva in uno dei paesi con tassi di analfabetismo intorno al 50%. A Dianrà, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata organizzano corsi rivolti a circa 220 persone fra adulti e bambini in abbandono scolastico. Si svolgono presso i locali della missione della Consolata e nell’apatam (paillote) costruito a questo scopo in un villaggio vicino. Anche Marandallah, la missione a 80 chilometri da Dianra, ha realizzato progetti dedicati a chi non ha potuto ricevere un’istruzione scolastica o ha dovuto interromperla: fra il 2013 e il 2015 grazie al sostegno dell’Opera di Promozione dell’Alfabetizzazione nel Mondo (Opam) è stato possibile costruire degli apatam e dotarli di impianto fotovoltaico.

Chiara Giovetti

Tucupita, Venezuela

 




Perdenti 37. Teresio Olivelli, ribelle per Amore

Don Mario Bandera “intervista” Teresio Olivelli |


Teresio Olivelli nasce a Bellagio (Co) il 7 gennaio 1916. Dopo le scuole elementari e medie, frequenta il ginnasio a Mortara (Pv) e il liceo a Vigevano.

Nel tempo degli studi ginnasiali e liceali si mostra studente modello, ardente di carità verso i compagni, specie i più bisognosi. Partecipa intensamente anche alle attività dell’Azione Cattolica e della San Vincenzo, poiché avverte l’impellente richiamo di portare i valori evangelici nei diversi ambienti sociali che frequenta. Una volta conseguita la maturità si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia e viene accolto nel prestigioso ed esclusivo Collegio Ghislieri.
Nel periodo universitario, pur accettando il fascismo dominante, lavora soprattutto a costruire e rafforzare la sua vita spirituale. Convinto che «il cristianesimo vuole ascetica, che è esigenza d’ordine e di organizzazione delle proprie azioni», si impegna intensamente su due dimensioni: il crescere nella fede in Dio e il rafforzare la sua volontà di bene e di impegno concreto. Con il supporto di una fede intensamente vissuta, egli opera là dove il bisogno dei più poveri lo chiama per lenire sofferenze materiali e spirituali. È questo il periodo in cui diventa più concreta la sua vocazione alla carità, che egli testimonia con crescente ardore.
Dopo la laurea viene chiamato a Roma a lavorare come segretario dell’Istituto nazionale di cultura fascista, dove può intrattenere rapporti con personaggi autorevoli del panorama culturale e politico italiano, e compiere dei viaggi in Germania che lo aiutano ad aprire gli occhi sul nazismo. A Roma, dal maggio 1940 a febbraio 1941, vive intensamente la sua vita di fede, con messa e meditazione quotidiana, ed espletando il suo lavoro con fedeltà alla sua coscienza cristiana.
Allo scoppio la II Guerra mondiale, non accetta il vantaggio dell’esonero dal servizio militare che la sua posizione comporta ma vuole condividere la condizione dei suoi coetanei arruolati in massa e mandati poi a migliaia a morire nella Campagna di Russia.

Teresio, nel 1941 ti arruolano nominandoti sottotenente della Divisione tridentina degli alpini. Potresti avere l’esonero grazie alla tua posizione, ma chiedi di partire volontario per il fronte russo.

Voglio stare accanto ai giovani militari e condividere la loro stessa sorte. Non ho eroici furori. Solo desidero fondermi nella massa, in solidarietà col popolo che, senza averlo deciso, combatte e soffre. Sono pervaso da un’idea fissa: essere presente fra quanti sono gettati nella folle avventura della sofferenza, del dolore e della morte. Ed è proprio in quel periodo che si frantuma dentro di me l’idea che mi ero fatta del fascismo. In cuor mio divento sempre più critico nei confronti del sistema, vedendo e costatando con i miei occhi le violenze e le aberrazioni attuate dalla brutale logica della guerra.

Dopo la sconfitta sul fronte russo partecipi alla disastrosa ritirata con la sua scia di morte. Sei attento ai tuoi soldati e molti dei tuoi alpini ti devono la vita.

Durante la campagna cerco di sostenere i miei compagni, non solo condividendo il mio cibo con loro, ma anche aiutandoli spiritualmente. Tutte le sere ci raduniamo a dire il rosario. Poi, durante la ritirata, in condizioni di freddo polare, sto attento ai più deboli. Una sera, vedo che mancano due dei miei uomini che erano feriti. Torno indietro a cercarli pur sapendo di correre il rischio del congelamento restando fuori a quasi -30°, ma in coscienza non me la sento di lasciare indietro nessuno.

Rientrato a Pavia nella primavera del 1943, trovi una piacevole sorpresa.

Sì. Con mia grande sorpresa scopro di aver vinto il concorso al quale mi ero presentato prima di partire per il fronte russo: diventare rettore del Collegio Ghisleri, dove avevo studiato. Ho solo 27 anni, e in quel momento sono formalmente il più giovane rettore di un collegio universitario in Italia.

Un bel sogno che dura poco. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 la tua vita cambia di nuovo radicalmente.

L’8 settembre mi trova ancora nella caserma di Vipiteno, con i miei Alpini. Non accetto di schierarmi con la Repubblica di Salò. I soldati tedeschi mi arrestano e mi mandano in un campo di prigionia vicino a Innsbruck, in Austria, e poi in un altro. Da lì riesco a fuggire il 10 ottobre e a raggiungere fortunosamente Udine e da lì Brescia, dove collaboro alla nascita delle «Fiamme Verdi», le formazioni partigiane di orientamento cattolico. La mia è una scelta fatta seguendo la mia coscienza, secondo i principi della fede e della carità cristiana.

La tua scelta di unirti alla Resistenza è dovuta a motivi politici?

Ovviamente la mia presa di posizione avrà conseguenze politiche, perché devo decidere se stare con il Re d’Italia o con la Repubblica di Salò. Ma la ragione di fondo è la mia coscienza illuminata dal Vangelo. Non posso accettare la logica della violenza nazifascista e sogno un mondo nuovo più cristiano, basato sulla logica dell’amore. Divento un ribelle per amore.
Partecipo attivamente alla Resistenza, ma il mio contributo fondamentale è la fondazione, nel febbraio 1944, del giornale clandestino «Il Ribelle», un foglio di collegamento e di sensibilizzazione per diffondere gli ideali della Resistenza di ispirazione cattolica.

In quei fogli esprimi il tuo concetto di Resistenza intesa come una «rivolta dello spirito» alla tirannide, alla violenza, all’odio.

Per me resistere è una rivolta morale, diretta a suscitare nelle coscienze il senso della dignità umana e il gusto della libertà personale e a promuovere un ordine di valori sui quali primeggia la carità cristiana, volta a costruire la civiltà dell’amore contrapposta a quella dell’odio propugnata dai nazifascisti.

Sulle pagine del «Ribelle» pubblichi quello che può essere considerato il tuo «manifesto», la «preghiera del ribelle». In quel testo definisci te stesso e i tuoi compagni «ribelli per amore».

Pubblichiamo «Il Ribelle» a Milano e riusciamo a diffonderne ben 26 numeri, ognuno in almeno 15mila copie. La diffusione è possibile soprattutto grazie all’impegno di tante donne che lo distribuiscono a loro rischio e pericolo. Il giornale, con questa preghiera e tutte le nostre prese di posizione ricche di umanità e fedeli al Vangelo, è visto come una pubblicazione sovversiva. Per questo sia i nazisti che i fascisti danno la caccia a me, ai miei collaboratori e al tipografo, fino al mio arresto che avviene a Milano il 27 aprile 1944.

Teresio Olivelli viene dapprima torturato a San Vittore e poi deportato al campo di Fossoli, dove riesce a salvarsi dalla fucilazione nascondendosi. Riesce anche a fuggire, come aveva già fatto dall’Austria, ma lo catturano dopo pochi giorni e lo mandano prima a Bolzano-Gries e poi a Flossenbœrg in Baviera, e da ultimo al campo di Hersbrœck, dove non solo è marchiato col triangolo rosso dei politici ma anche col disco rosso dei sorvegliati speciali perché tentano la fuga.
Teresio comprende che è giunto il momento del dono totale e irrevocabile della propria vita per la salvezza degli altri. In questi luoghi aberranti il senso del dovere della carità cristiana portato fino all’eroismo, diventa per lui norma di vita. Infatti, interviene sempre in difesa dei compagni percossi, rinuncia spesso alla sua razione di cibo in favore dei più deboli e malati.
Resiste con fede, fortezza e carità alla repressione nazista, difendendo la dignità e la libertà di tanti fratelli sventurati come lui. Questo atteggiamento suscita nei suoi confronti l’odio dei capi baracca, i cosiddetti kapò, che di conseguenza gli infliggono dure e continue percosse. Tutto ciò non ferma il suo slancio di carità, a motivo del quale è consapevole di poter morire. Ormai deperito, si protende in un estremo gesto d’amore verso un giovane prigioniero ucraino brutalmente pestato, facendo da scudo con il proprio corpo. Viene colpito con un violento calcio al ventre, in conseguenza del quale muore il 17 gennaio 1945, a soli 29 anni.
La definizione più efficace di Teresio Olivelli l’ha data don Primo Mazzolari, qualificandolo come «lo spirito più cristiano del nostro secondo Risorgimento».
Il 4 febbraio 2018, nella Cattedrale di Vigevano, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, alla presenza di una nutrita partecipazione del Corpo degli alpini, lo ha proclamato Beato, definendolo un autentico «combattente» della carità.

Don Mario Bandera


PREGHIERA DEL RIBELLE

Signore
che fra gli uomini drizzasti la Tua croce,
segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro
le perfidie e gli interessi dominanti,
la sordità inerte della massa, a noi oppressi
da un giogo oneroso e crudele che in noi
e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite,
dà la forza della ribellione.

DIO
che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi,
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà,
moltiplica le nostre forze, vestici della Tua
armatura, noi ti preghiamo, Signore.

TU
che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso,
nell’ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria;
sii nell’indulgenza viatico, nel pericolo sostegno,
conforto nell’amarezza.
Quanto più si addensa e incupisce l’avversario,
facci limpidi e diritti.
Nella tortura, serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca
al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti,
a crescere al mondo giustizia e carità.

TU
che dicesti: «Io sono la Resurrezione e la Vita»,
rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti:
veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città,
dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo:
sia in noi la pace che Tu solo sai dare.

DIO
della pace e degli eserciti,
Signore che porti la spada e la gioia,
ascolta la preghiera di noi,
ribelli per amore.

Teresio Olivelli




Allamano, Giocando a bocce… coi giovani

il beato Allamano oggi secondo padre Giacomo Mazzotti |


È inutile nasconderla, questa voglia di vacanza, che seduce proprio tutti. Da tempo, le varie agenzie tentano di infilare un po’ dovunque le proposte più furbe, per accalappiare clienti. Non fanno eccezione i missionari, che propongono vacanze alternative, esperienze controcorrente, condivisione con popoli e culture lontane. Tutto questo, mentre aspettiamo il prossimo Sinodo di ottobre, scandito da tre flash, luminosi e provocanti: giovani – fede – vocazione (altro che vacanze!). Come sempre, papa Francesco non ha perso l’occasione per proporre un Sinodo diverso, con i giovani davvero protagonisti.

Citando la Scrittura, ha ricordato che spesso sono proprio i giovani a riaprire la porta della speranza nei momenti di crisi, mentre una Chiesa che non osa strade nuove è condannata a invecchiare.

Questo intreccio di idee mi ha fatto riaffiorare – spontaneamente – il volto paterno e amico dell’Allamano che, a cinquant’anni suonati, si ritrovò non solo a fondare un Istituto missionario, ma anche a diventare padre e guida di un bel grappolo di ragazzi e giovani che avevano nel cuore il sogno di mollare i loro amici per condividere, con gente ritenuta (allora) esotica e lontana… l’Evangelii gaudium, la gioia, cioè, di incontrare Gesù, portatore di una «buona notizia» per tutti. Per raccontare, allora, cosa sia stato il Fondatore per quei primi giovani sognatori e cosa furono loro per lui, ricordiamo un piccolo, simpatico episodio, quasi una parabola, che vale un libro di parole…

Durante le vacanze a S. Ignazio (luogo di villeggiatura), dopo pranzo i ragazzi dovevano ritirarsi nelle loro camere e non andare a giocare per non disturbare chi si riposava. L’assistente era inflessibile. Una volta, quando l’Allamano era presente, alcuni sgusciarono dalle camerette e bussarono alla sua porta, mentre riposava. «Cosa volete?» – «Signor Rettore, non possiamo dormire e vorremmo andare a giocare alle bocce» – «Andate pure» – «Ma, Sig. Rettore, l’assistente non ce lo permette, teme che disturbiamo la comunità». Avendo capito perché si erano rivolti a lui, si dimostrò comprensivo e rispose: «Vengo anch’io…». E poi si fermò con loro, contava i punti, lodando chi giocava meglio…

C’è proprio tutto: i giovani, la missione, la formazione, il cuore di un padre e… persino l’aria di vacanza, che tira in questi giorni d’estate.

padre Giacomo Mazzotti


I giovani aspettavano lui

Alla comunità dei missionari alla Consolatina, prima Casa Madre dell’Istituto, l’Allamano diede un’organizzazione semplice, come era il suo stile, e sufficiente: due suore di S. Gaetano per i vari servizi e un sacerdote, don Luigi Borio, per la celebrazione della messa e per l’assistenza ai giovani. L’anima della comunità, però, era lui, pur vivendo al santuario della Consolata. All’inizio specialmente, veniva ad incontrare i suoi giovani come gruppo e individualmente, non tutti i giorni, ma quasi. Li voleva conoscere bene e preparare alla missione secondo il suo spirito in modo da «saper essere con loro», in futuro, anche da lontano.

C’è da aggiungere un particolare di grande importanza. L’Allamano non agì da solo. Per il Santuario e per il Convitto ecclesiastico, si era scelto come collaboratore un sacerdote di sua fiducia, il can. Giacomo Camisassa. Per i due Istituti missionari il Camisassa è da considerare a buon diritto il «Confondatore» perché fu il braccio destro dell’Allamano, soprattutto sul piano organizzativo, dei lavori e delle spedizioni di persone e di merci.

Il programma formativo

Appena un mese dopo l’apertura della casa, l’Allamano inviò al piccolo gruppo di aspiranti alla missione una magnifica lettera, indicando le vie maestre della formazione missionaria. Ecco la parte centrale: «Non potendo per ora soddisfare al mio desiderio di trovarmi frequentemente in mezzo a voi per aiutarvi a mettere le fondamenta al nostro piccolo Istituto, stimo bene con questa lettera di aprirvi il mio cuore.

Anzitutto godo di dichiararvi che i vostri principi mi sono di vera consolazione. Il vostro buon animo, la carità vicendevole e lo spirito di sacrificio di cui siete animati promettono bene della vostra opera. Deo gratias! Gesù Sacramentato deve essere contento delle frequenti vostre visite. Il S. Tabernacolo è il centro della casa ed ogni punto deve tendere come raggio colà. Quante grazie deriveranno su di voi e sull’Istituto! Egli stesso, Gesù nostro padrone, si formerà i suoi apostoli!

Tenete caro il libretto del Regolamento, meditatene ogni giorno qualche punto, procurando di osservare, per quanto è possibile al presente, quanto vi è prescritto. Amate quindi il ritiro nelle vostre camerette, dove attendete allo studio della S. Scrittura, delle lingue e delle materie insegnate. Riservandomi di dirvi a poco a poco, a voce o per scritto, tante altre cose che vi aiutino a perfezionarvi ed a prepararvi alla grande opera dell’apostolato, vi benedico».

I giovani aspettavano lui

Gli scritti del Fondatore erano attesi e graditi, ma i giovani aspettavano soprattutto lui. Volevano vederlo, incontrarlo di persona, parlargli.

Uno di essi, poi missionario in Tanzania, p. Gaudenzio Panelatti, scrisse: «La sua presenza era sempre una grande e attesa gioia. Egli c’intratteneva familiarmente e c’infervorava, quasi sen-za che ce ne accorgessimo, nella nostra vocazione. A volte ci leggeva lettere o brani di lettere scritte dall’Africa da coloro che noi avevamo conosciuto, e di qui prendeva lo spunto per le sue considerazioni così pratiche e incisive che non si son più potute dimenticare.

Ciascuno era libero di parlargli in privato; e prima di partire ci lasciava ogni volta la sua paterna benedizione, ovunque ci trovava raccolti.

A me dava l’impressione ch’Egli avesse giammai niente da fare. Da noi occupava molto bene il suo tempo, poi per andare alla Consolata; mai che mostrasse avere impegni o urgenze, e più tardi soltanto venimmo a sapere che dirigeva mezza Diocesi ed era occupatissimo. L’ordine gli diede modo di attendere a tutto.

Dava importanza alla preghiera, quale mezzo principale di formazione sacerdotale, religiosa e missionaria. Una volta gli sfuggì questa confidenza: “Dicono che vi faccio pregare troppo, ma in Cielo che faremo d’altro? Gli Apostoli non si riservarono, come compito proprio, la Parola di Dio e l’orazione?”».

Uno dei primi fratelli coadiutori laici, fr. Benedetto Falda, volle lasciare il suo ricordo in modo brioso: «Alla domenica poi era tutto per i suoi figli. Giungeva per i Santi Vespri e dopo la S. Benedizione si recava nel salone, o, tempo permettendolo, in giardino e là ci voleva tutti attorno a sé. La sua conferenza non aveva nulla di cattedratico o di rigido, ma era il Padre che, seduto in mezzo ai suoi figli, che voleva ben vicini, specialmente i Coadiutori, ci parlava alla buona. Erano consigli detti quasi all’orecchio, ma che restavano impressi nell’animo e ci imbeveva del suo spirito!

Alla fine della conferenza, faceva portare una bottiglia di vino scelto e distribuiva a ciascuno dei biscotti (che veramente i benefattori gli regalavano per il suo stomaco delicato) poi si alzava e dopo una visita al SS. Sacramento lo si accompagnava tutti assieme fino al cancello della palazzina. Un giorno che toccò a me l’onore di accompagnarlo al tram, ad una svolta mi congedò dicendomi: “Proseguo a piedi, così risparmio due soldi che sono della Provvidenza!”».

Giovani alla tomba del beato Giuseppe Allamano.

Difese lo spirito delle origini

L’Allamano aveva una convinzione di fondo che lo guidò nel realizzare il suo compito di fondatore. Era convinto che lo Spirito Santo non solo lo avesse indotto a dare vita a quest’opera, ma gli avesse pure ispirato i valori da infondere e trasmettere ai futuri missionari e missionarie e che nessuno aveva il diritto di modificare.

Questa grazia delle origini si chiama «Carisma di fondazione», divenuta poi il «Carisma dell’Istituto». Ecco perché più di una volta, l’Allamano intervenne, anche con energia, a difendere questo spirito delle origini. Ad un anno appena dalla fondazione, nel marzo del 1902, sentì il bisogno di parlare chiaro ai suoi giovani, senza paura di offenderli, anzi sicuro di aiutarli: «Sono io, e chi vi pongo io a guidarvi che dovete solamente ascoltare. La forma che dovete prendere nell’istituto è quella che il Signore m’ispirò e m’ispira, ed io atterrito dalla mia responsabilità voglio assolutamente che l’istituto si perfezioni e viva vita perfetta. Sono d’avviso che il bene bisogna farlo bene; altrimenti fra le altre mie occupazioni, non mi sarei sobbarcato ancora questa gravissima della fondazione di sì importante istituto».

Queste parole sembrano piuttosto severe, ma a giustificarle c’è una postilla annotata di suo pugno in calce al manoscritto della conferenza: «Così parlai perché taluni, anche buoni, venivano a disturbare i giovani con idee…».

padre Francesco Pavese

 

Alla tomba del beato Allamano (16 febbraio 2018).


Novena e festa del beato Allamano

La comunità di Casa Madre si è preparata alla festa dell’Allamano assieme alle missionarie della Consolata, mediante la novena celebrata nella chiesa che accoglie il sepolcro del Fondatore delle nostre famiglie missionarie.

Padre Giuseppe Ronco, con le sue riflessioni, ci ha coinvolti con la spiritualità del Beato partendo da una pagina degli «Atti capitolari», frutto del Capitolo generale svoltosi l’anno scorso, dove si parla della necessità di rivitalizzare e di ristrutturare l’Istituto tenendo presente il suo fine che è la missione.

«Il cuore di ogni rinnovamento umano e spirituale del missionario – scrive il Capitolo – sta nel recuperare la centralità di Cristo» nella vita.

La tematica è presente nel Fondatore il quale l’ha espressa con i termini del suo tempo presentando Cristo come modello per eccellenza di tutte le virtù.

Si appoggiava, in questo, sull’autorità di san Giuseppe Cafasso, suo zio: «Come diceva il nostro venerabile: “Bisogna che facciamo tutte le cose come nostro Signore quando era su questa terra”».

L’Allamano dava molta importanza all’imitazione di «Gesù mite», un concetto che si riassume nell’esortazione: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione».

Il missionario deve saper trasformare la realtà non dominando, non spadroneggiando sul gregge, ma col cuore umile e mite, facendosi quasi pecora al seguito del suo pastore.

Citando san Basilio, il Fondatore definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo, non solo nel campo dell’evangelizzazione, ma anche nel tessuto sociale e umano. «Mi sta a cuore la mansuetudine. Quando si tratta di salvare un’anima, si pensi che una parola secca basta a impedire una conversione forse per sempre».

Giuseppe Allamano ci insegna, attraverso la sua vita, che noi potremo imboccare la strada della trasformazione con la virtù della mitezza. Trasformare, non rompendo, ma con umiltà e mitezza di cuore.

Ne corso della novena, parlando di «ristrutturazione», p. Ronco ha messo in evidenza come il Fondatore non era interessato alla «quantità» ossia ad aprire più missioni possibile, ma alla qualità. Si interessava cioè alle persone che aveva a disposizione, e voleva che fossero missionari santi e qualificati per compiere una missione di qualità ottimale: «Noi non abbiamo la mania di avere molta terra e non le mani per lavorarla; meglio poche missioni ma curate bene».

La missione era l’orizzonte di ogni suo desiderio, era la lente fissa davanti ai suoi occhi attraverso la quale guardava tutto. «Noi siamo per i pagani», diceva, che tradotto vuol dire: «Noi siamo ad gentes».

L’Allamano vedeva la missione come un’attività da svolgere in una comunione di vita che aveva come modello Gesù, primo apostolo del Padre. Da qui egli deduceva che la vocazione missionaria è la più bella in assoluto e invitava a ringraziare sempre il Signore per questo dono.

Inoltre voleva una missione «inglobante» e il fatto che lui abbia speso tutta la sua vita a Torino, testimoniando il Vangelo nel suo ambiente, fa capire che la missione non è solo quella geografica. In questo senso è missione il dialogo interreligioso, l’ecumenismo, la collaborazione tra le fedi, ecc.

L’Allamano voleva anche una missione «integrale»; il termine indica la metodologia della missione. Essa cioè deve rivolgersi alla persona umana nella sua parte spirituale e poi nella sua parte materiale. Fu lui a volere l’integrazione della promozione umana con l’evangelizzazione. Per lui l’uomo e il cristiano andavano formati insieme.

Un quarto aspetto della missione nel pensiero dell’Allamano era «lavorare insieme con spirito sinodale». Il concetto significa «camminare insieme», missionari, missionarie, catechisti, e tutto il popolo. E questo comporta un metodo di lavoro che è quello dell’armonia, della condivisione, del mettere insieme.

Infine l’Allamano era convinto che la missione dipendesse dalla qualità del missionario, espressa dalla frase «Prima santi e poi missionari». «La vostra santità deve essere maggiore di quella dei semplici cristiani, superiore a quella dei religiosi, distinta da quella dei sacerdoti secolari; la santità dei missionari deve essere speciale, anche eroica e all’occasione straordinaria da operare miracoli».

Il 16 febbraio, giorno della nascita al cielo del beato Allamano, missionari e missionarie, assieme a tanti laici amici, si sono stretti nella chiesa-santuario dove riposano i suoi resti mortali per partecipare all’eucaristia solenne presieduta da mons. Giacomo Martinacci, rettore del santuario della Consolata e perciò successore dell’Allamano nella guida del santuario.

Parlando dell’Allamano alla luce del Vangelo: «Lo Spirito del signore è su di me e mi ha mandato…», «Davvero lo Spirito di Dio è stato su questo sacerdote – ha detto -. Egli non l’ha tenuto per sé, ma ha portato frutto che ha espresso, prima di tutto come formatore di sacerdoti e poi come fondatore di famiglie missionarie per portare il Vangelo di Gesù alle genti.

Sergio Frassetto

 

Novizie della missionarie della Consolata alla tomba del beato Giuseppe Allamano.




Riconoscere i conflitti per gestirli in modo nonviolento

Suggerimenti di lettura per gestire i conflitti, da Luca Lorusso |


I conflitto esistono. È in te, con il tuo partner, figli, genitori, fratelli, con i tuoi colleghi o vicini di casa, con il capo (o il dipendente), con i Rom (o i gagè, ovvero non Rom), con i migranti (o gli italiani). I conflitti esistono tra classi sociali, tra regioni, tra paesi, tra blocchi di alleanze internazionali, tra mercati e singoli risparmiatori, tra economia e diritti. E la violenza non è l’unico modo per affrontarli.

Puoi decidere di far finta che il conflitto non esista o girarci attorno (e ne subirai le conseguenze), puoi metterti in competizione (e rischierai di perdere, o di vincere, che è anch’esso un rischio), puoi adeguarti passivamente alla volontà dell’altra parte (annullando i tuoi bisogni e la tua dignità), puoi cercare il compromesso (senza generare nulla di nuovo ma dimezzando i bisogni di entrambe le parti), oppure puoi collaborare (trovando una risoluzione creativa che apre a prospettive nuove e positive per entrambe le parti).

Per prepararci al nuovo anno sociale che ci aspetta, e che certamente non sarà privo di conflitti a tutti i livelli, quale modo migliore di dedicare qualche lettura estiva al tema della nonviolenza?

Ecco alcuni suggerimenti che spaziano dai fondamenti teorici della nonviolenza a spunti pratici di comunicazione nonviolenta nella quotidianità.

La sfida sarebbe quella di leggerli tutti entro il 2 ottobre, giornata internazionale della nonviolenza.

Buona lettura.

Luca Lorusso

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