I Perdenti 41. I Santi Martiri Canadesi


Con il titolo «Santi Martiri Canadesi» veneriamo un gruppo di otto missionari francesi (sei sacerdoti e due religiosi professi) della Compagnia di Gesù, uccisi nelle aree a cavallo dell’attuale confine tra Canada e Usa dagli indigeni Irochesi mentre svolgevano il loro ministero presso gli Uroni tra il 1642 e il 1649.

Questi i nomi dei martiri:

  • fratel René Goupil (1608-1642);
  • padre Isaac Jogues (1607-1646);
  • fratel Jean de La Lande (1615-1646);
  • padre Antoine Daniel (1601-1648);
  • padre Jean de Brébeuf (1593-1649);
  • padre Gabriel Lalemant (1610-1649);
  • padre Charles Garnier (1605-1649);
  • padre Noel Chabanel (1613-1649).

Furono proclamati beati da papa Pio XI il 21 giugno 1925 e dichiarati santi dallo stesso pontefice il 29 giugno 1930. La loro memoria liturgica è il 19 ottobre.

Fu la devozione popolare a riunire in un unico gruppo gli otto missionari gesuiti martirizzati in quella che allora era chiamata la Nuova Francia (un territorio allora ancora largamente inesplorato) e a coniare per loro il nome di «martiri canadesi». La chiesa rispettò tale indicazione beatificandoli e canonizzandoli tutti insieme.

Tuttavia, questa denominazione non sarebbe la più esatta dal momento che i confini fra Stati Uniti e Canada non corrispondono più a quelli del XVII secolo. René Goupil, Isaac Jogues e Jean de La Lande, infatti, subirono il martirio nell’attuale territorio statunitense mentre gli altri cinque in quello canadese. Di conseguenza, negli Stati Uniti la denominazione più diffusa è quella di «martiri nordamericani» e talvolta addirittura «martiri americani». Del resto, gli stessi testi liturgici della loro commemorazione parlano di «borealibus Americae regionibus» (regioni boreali dell’America).

Per conoscere meglio la loro storia abbiamo parlato con padre Jean de Brébeuf, nato in Normandia, Francia, nel 1593 e ucciso presso il Lago Huron in Canada nel 1649.

Come mai tu e i tuoi giovani compagni gesuiti sceglieste di svolgere la vostra azione evangelizzatrice proprio in Canada?

Da seminaristi eravamo affascinati dai primi missionari che dopo aver vissuto per anni negli immensi territori del Nord America, ritornando in Europa, ci entusiasmavano con i loro racconti. Posti di fronte alla responsabilità del primo annuncio del Vangelo in terre sconosciute, pregando molto e facendoci coraggio l’un l’altro, chiedemmo ai nostri superiori di poter essere inviati nel continente americano. In quel territorio, che ai miei tempi era chiamato «Nuova Francia», come ardenti neofiti missionari volevamo portare la Buona Notizia del Vangelo ai popoli nativi.

Eravate coscienti dei pericoli ai quali andavate incontro, stabilendovi fra tribù indigene spesso in lotta fra di loro? È vero che alcuni di voi avevano lucidamente previsto, e in coscienza accettato, la probabile prospettiva del martirio?

È vero. Io stesso avevo fatto voto di non tirarmi indietro davanti al martirio. Fin dall’inizio eravamo preparati e attenti per annunziare il Vangelo nel pieno rispetto della cultura delle tribù locali: Algonchini, Uroni, Irochesi e altre.

Una volta stabiliti in Nordamerica, incominciammo a vivere con loro, imparando le loro lingue, i loro usi e costumi, dando testimonianza del vivere cristiano nella quotidianità di ogni giorno. Non esitammo un solo momento a mettere a rischio la nostra stessa vita per portare avanti questo compito che ci era stato assegnato. Era mio desiderio «farmi tutto a tutti per guadagnarli a Gesù Cristo», come dice san Paolo, conquistando il loro cuore.

Ero più che mai convinto che Gesù Cristo fosse la nostra vera grandezza. Perciò nel seguire quei popoli, dovevamo cercare solo Lui e la Sua Croce. Perché se avessimo cercato qualcos’altro, avremmo trovato solo afflizioni fisiche e spirituali. Ma se hai trovato Gesù Cristo e la Sua Croce, allora hai trovato le rose nelle spine, la dolcezza nell’amarezza, il tutto nel nulla.

Ma la tua prima esperienza in quelle terre fu breve.

Arrivai in quello che oggi è il Canada, nel 1625. Avevo 32 anni. Dopo un breve periodo di «apprendistato» con gli Algonchini, mi mandarono tra gli Uroni, che da tempo avevano buone relazioni con i francesi con i quali avevano intensi scambi commerciali.

Rimasi con loro fino al 1629 imparando la loro lingua e costumi. Fu un periodo di grande impegno. Imparai bene la loro lingua tanto da scrivere un dizionario per aiutare gli altri missionari. Scrissi anche un catechismo. Quei due testi sono diventati una delle poche testimonianze rimaste della lingua e cultura degli Uroni dopo il loro annientamento avvenuto qualche decennio più tardi.

Fui poi richiamato a Québec per un nuovo incarico.

Proprio quando la città di Québec e la colonia francese furono occupate dagli inglesi e i missionari cattolici a malincuore dovettero lasciare il Canada e ritornare in patria.

Infatti. Anch’io fui rispedito in Francia quando, nel 1629, gli inglesi conquistarono la città con un colpo di mano. Però, dopo un accordo di pace con l’Inghilterra (nel 1632), la Francia riebbe quella parte del Canada e anche i Gesuiti ritornarono nelle loro missioni. Rientrai nel 1633 e fui mandato fra gli Uroni per condividere la loro esistenza molto semplice e continuare così l’opera di evangelizzazione appena abbozzata.

Se non vado errato tra il 1634 e il 1639 ci furono violente epidemie di vaiolo, dissenteria e influenza che colpirono voi e decimarono la popolazione locale.

Noi missionari fummo i primi a essere colpiti da quelle malattie portate dall’Europa. Anche se privi di forze, debilitati e convalescenti, ci demmo da fare in ogni modo per aiutare tutti, nonostante l’avversità degli stregoni, che ci ritenevano responsabili dell’epidemia e aizzavano la gente contro di noi.

Va detto che avevano tutte le ragioni per accusarci, ma in quel tempo nessuno sapeva che eravamo noi stessi i portatori di quelle malattie che erano completamente sconosciute agli indigeni, malattie che si diffusero rapidamente tra gli Uroni causando moltissimi morti e decimando la popolazione.

E tu come vivesti quegli eventi?

Quello fu uno dei momenti più difficili della mia vita missionaria. Da parte mia sopportavo con infinita pazienza, e sempre con il sorriso sulle labbra, gli insulti, le offese, le botte e le ferite che gli Uroni mi infliggevano, aizzati dai loro stregoni. Lungo le giornate cercavo di essere sempre il primo per svolgere i compiti più gravosi, mi alzavo la mattina presto per accendere il fuoco che sarebbe poi stato utilizzato dalle diverse famiglie nelle loro tende, così come alla fine della giornata mi coricavo per ultimo dopo essermi assicurato che nel villaggio tutto fosse in ordine. Ma fu molto duro, e più volte corremmo il rischio che la missione fosse distrutta.

Nonostante l’ostilità degli stregoni e le calunnie nei vostri confronti, voi continuaste la vostra presenza nella confederazione delle tribù degli Uroni.

Dopo le epidemie noi continuammo e intensificammo la nostra presenza tra gli Uroni e fondammo nuove missioni, intraprendendo viaggi avventurosi e rischiosi sia per l’ostilità degli «uomini medicina» (che noi spesso liquidiamo come stregoni) che per le razzie degli Irochesi. Durante uno di questi viaggi ebbi una brutta caduta sul ghiaccio e così fui costretto a restare nella missione centrale a Québec dove mi diedero il compito di coordinare i rifornimenti. Impegno non facile perché spesso i nostri convogli venivano attaccati e depredati da razziatori Irochesi, sempre più aggressivi, che rubavano i rifornimenti e le pellicce raccolte dagli Uroni. Sono nel 1644 potei tornare nelle terre degli Uroni a tempo pieno.

Ma quando le razzie degli Irochesi si trasformarono in una vera guerra contro gli Uroni, per voi cambiò tutto.

Negli anni 1647-48 tra le due popolazioni indigene scoppiò una vera e propria guerra «di sterminio», che terminò con l’annientamento quasi totale degli Uroni e di conseguenza con l’apparente annullamento della nostra opera missionaria.

Le guerre tribali non erano una novità tra i popoli di quelle regioni, ma quest’ultima fu particolarmente feroce per varie ragioni. Le tribù Irochesi (Mohawk, Cayuga, Oneida, Onondaga e Seneca) avevano stretti rapporti commerciali con gli Olandesi a cui vendevano soprattutto pellicce. Ma l’uccisione sconsiderata dei castori aveva portato alla loro quasi totale estinzione nei loro territori. Gli Irochesi, quindi, avevano bisogno di conquistare nuove aree per continuare i loro commerci. In più gli Olandesi, al contrario dei Francesi, non si facevano scrupolo a vendere armi da fuoco agli Irochesi, per cui questi, meglio armati e istigati dagli Olandesi e Inglesi (alleati e protestanti, che volevano mandare via i Francesi, competitori nella colonizzazione e per di più cattolici), ebbero facilmente la meglio sugli Uroni, con poche armi da fuoco e già decimati dalle epidemie che avevano dimezzato la popolazione.

Fu proprio nel contesto di questa sanguinosa guerra fra i due gruppi di tribù che si collocò la nostra storia con il conseguente sacrificio di noi Gesuiti francesi che, fatti prigionieri, fummo sottoposti ad prolungate e feroci sevizie, secondo l’uso degli Irochesi di torturare i loro nemici per ore e ore, a volte addirittura per giorni interi sino alla morte.

Il vostro eroismo nel sopportare le torture e nell’andare incontro alla morte pregando per i vostri torturatori, impressionò gli Irochesi, tanto che vi strapparono il cuore per mangiarlo e diventare partecipi del vostro coraggio.

Per voi questo è certo un risvolto macabro e disgustoso, ma se lo guardiamo dal punto di vista della storia della Missione possiamo dire che un po’ del cuore dei martiri restò davvero nell’anima degli Irochesi. Infatti, l’esperienza cristiana non si estinse completamente, anzi, nei decenni successivi, riprese vigore e fiorì di nuove opere, che dal sangue dei martiri traevano insostituibile linfa.

Il 16 marzo 1649 la nascente missione di sant’Ignazio fu assalita da oltre mille Irochesi che uccisero moltissimi Uroni, altri furono torturati senza pietà e un gran numero di donne e bambini furono rapiti per essere assimilati e schiavizzati nella tribù dei vincitori. Catturarono i padri De Brébeuf e Gabriel Lalemant. Strapparono loro le unghie e li legarono a un palo, con delle scuri incandescenti legate al collo che bruciarono loro il dorso e il petto, mentre una cintura di corteccia con pece e resina incendiate cingeva i loro fianchi. Li «battezzarono» con acqua bollente e trafissero con aste arroventate, strappando loro brandelli di carne e divorandola davanti ai loro occhi. I torturatori, infuriati perché padre Jean invece di gridare dal dolore continuava a pregare Dio, gli strapparono le labbra e la lingua, gli ruppero le mascelle, ficcandogli in gola tizzoni ardenti; poi finalmente sazi di tanta crudeltà, gli aprirono il petto e gli strapparono il cuore, lo mangiarono e ne bevvero il sangue, convinti – secondo le loro credenze – di assimilarne così il coraggio.

Con il passare degli anni l’evangelizzazione seminata da padre Jean de Brébeuf e dai suoi compagni, cominciò a dare i primi frutti, al punto che nel 1649, anno in cui egli fu ucciso, gli Uroni battezzati erano quasi settemila.

Come dicevano i cristiani dei primi secoli: «Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani», così il sacrificio dei martiri canadesi non fu inutile, perché nei decenni successivi, la comunità cattolica riprese vigore e si affermò saldamente in quei vasti territori, donando alla Chiesa altri santi come Kateri (Caterina) Tekakwitha (+1680).

Don Mario Bandera

 




Deserto, il test della finitezza

La prima coppia umana è lì, in quel giardino colmo di vita da gustare. Tutto è promessa di pienezza, predisposto per il bene dell’uomo e della donna. Dio plasma il creato e lo dona loro. E li istruisce per distinguere gli alberi commestibili dagli altri, l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male, che coltiveranno senza cibarsene.

Si fonda lì la loro libertà: sulla distinzione tra ciò che è disponibile al loro appetito e ciò che non lo è, sull’esperienza del limite, sulla presenza nella sazietà di un buco che rimanda ad altro, che fa sorgere il desiderio, che è il luogo nel quale si manifesta la promessa. E sull’amicizia con Dio.

La prima coppia umana è lì. Anche il serpente è lì: il più astuto tra gli animali. Egli non genera il dubbio, che è parte del desiderio, ma insinua il sospetto, che è anzitutto un taglio di fiducia, un tarlo di relazione che trasforma il desiderio in brama. Basta un attimo, e la conoscenza del bene e del male è divorata. Il limite rimane tale, ma è rifiutato. La libertà è compromessa.

L’uomo e la donna si nascondono, ora. Si vergognano di ciò che sono, della loro nudità. E il Signore inizia lì la sua ricerca. Come uno sposo che cerca la sua innamorata nella notte per coprirla con una veste tessuta dalle sue mani e riportarla nel suo amore.

Gesù è nel deserto. Sta al di là del Giordano, come Israele sotto la guida di Mosè prima di entrare nella terra promessa per dare vita al suo regno. Regno di uomini costruito sul sangue, quello d’Israele, Regno di Dio sotto il segno della debolezza, quello che Gesù realizzerà.

Sta nel deserto quaranta giorni Gesù. Sospinto dallo Spirito santo, vi sperimenta il limite dell’uomo, ciò che gli è indisponibile, la sua finitezza. Prova fame, ma pur essendo figlio di Dio non trasforma la pietra in pane, prova rabbia per il sangue sparso dalle guerre e dalle ingiustizie, ma non trasforma il mondo in un paradiso terrestre, prova pena per gli uomini persi dietro chimere inconsistenti, ma rifiuta di attirarli a sé tramite uno spettacolo di potenza divina.

Gesù sta lì. Abita il limite, non lo divora. Lo ama. Ama la libertà giocata nella condizione umana. Ama l’uomo, la finitezza dell’uomo che è la dimora dell’infinita possibilità d’affidarsi.

Non di solo pane vive l’umanità, ma di una promessa già realizzata e non ancora, e rinnovata da Lui, il crocifisso risorto.

Buon cammino nel deserto, buona Quaresima,

da amico.

Luca Lorusso


Pennellate di Kenya

Padre Nicholas Muthoka ci manda dal suo Kenya una foto del paese e della Chiesa locale. Come in ogni foto, le ombre mettono in risalto le forme e i colori.

Sono in modalità vacanza, tranquillo, senza pensieri e, onestamente, alla ricerca di un po’ di svago.

È l’imbrunire ed esco dalla nostra tranquilla casa regionale dei missionari della Consolata a Westlands, Nairobi, per fare una passeggiata.

La capitale del Kenya è una città caotica, popolatissima e inquinata all’ennesima potenza. La gola si irrita quando esci di casa.

Cammino per strada. Ci sono macchine che corrono e gente che attraversa in modo disordinato e spesso pericoloso. Noto un ragazzino sui 13 anni che gioca, da solo, sul bordo della strada. Fa le capriole e altra ginnastica. Si diverte. È sporco e nessuno lo guarda, e neanche lui si lascia guardare.

Ragazzi di strada

È uno dei tanti ragazzi di Nairobi cresciuti in strada, duri e pericolosi, almeno all’apparenza. Ho paura, perché ho con me un nuovo cellulare che un parrocchiano mi ha regalato a Natale e non vorrei che questo qui me lo rubasse, ma mi si stringe il cuore. Che un bambino di quell’età viva in quelle condizioni mi sembra disumano. Poi mi viene in mente la parabola del buon samaritano, di quel malcapitato sulla strada verso Gerico, dei tre personaggi che gli passano accanto, e mi interrogo.

Ho paura, ma vorrei anche aiutarlo, e non so cosa decidere. «D’altronde – mi giustifico -, ci sono migliaia e migliaia di altri ragazzi di strada così per la città, posso mica aiutarli tutti». Alla fine, vado in un fast food lì vicino, compro delle patatine fritte e gliele porto.

Mi guarda incuriosito e le prende. Mentre mangia, facciamo due parole. Gli chiedo il nome: James.

Ricchi e poveri nella stessa chiesa

Mi sono riproposto di andarlo a trovare altre volte e mettermi in contatto con qualche organizzazione o casa di accoglienza per ragazzi di strada. Come missionari ne abbiamo una proprio qui a Nairobi, «Familia ya ufariji».

Accanto a questo ragazzo, passavano macchine grosse, attorno a lui grattacieli modernissimi, tanta gente, ogni persona con i suoi pensieri e la propria vita. Il Kenya è un paese in forte crescita economica e anagrafica. Sono molte le persone che fanno grande fortuna con il commercio, gli investimenti e la corruzione, mentre altri giacciono nella povertà, nelle malattie e nell’ignoranza. La classe media stenta a crescere mentre la forbice tra ricchi e poveri aumenta. La cosa assurda è che questi ricchi e poveri si trovano spesso negli stessi banchi della chiesa.

Comunità vive e accoglienti

Le comunità qui in Kenya sono spesso osannanti ed esuberanti. La domenica è bella, anzi bellissima. Trovi comunità vivaci che celebrano l’eucarestia in modo gioioso e convinto.

Non ho le statistiche sottomano, ma ho l’impressione che negli ultimi anni i numeri siano aumentati. Le chiese sono piene e si sono moltiplicate le realtà ecclesiali.

Ho l’occasione di partecipare alla messa nella parrocchia di Tassia, qui a Nairobi, dove lavorano due sacerdoti fidei donum di Torino, don Paolo Burdino e don Daniele Presicce.

La parrocchia è inserita in un quartiere davvero povero, popolazione numerosissima, ambiente maleodorante, ma, anche qui, ho incontrato una comunità viva e accogliente.

Si celebra la messa senza fretta. Mentre siamo all’altare, don Paolo, che è stato parroco nell’arcidiocesi di Torino per molto tempo, mi dice: «Per avere tanta gente così in Italia, bisogna mettere insieme un po’ di parrocchie! Qui ce n’è tutte le domeniche, per tre messe di fila». I due sacerdoti hanno infatti il progetto di allargare la chiesa.

Chiese sempre più grandi

A proposito di lavori: un po’ ovunque, qui, le parrocchie sembrano cantieri, stanno facendo opere per allargare le chiese e le strutture parrocchiali, o per farne di nuove, più grandi e spaziose, mentre in Europa non sappiamo che farne. Anzi, delle grandi strutture, si cerca a fatica di disfarsene.

Bene, in Africa, in Kenya in particolare, sembra essere un momento di gloria.

Volti stanchi e induriti

Nei villaggi e nelle campagne, la vita pian piano migliora, ma è ancora dura. Lo si capisce dai volti stanchi e induriti di uomini e donne.

Sono ancora molte le persone che non hanno acqua potabile e devono fare chilometri per andare nei fiumi o scavare buche nella sabbia. Molti i ragazzi che fanno fatica ad andare a scuola, anche se il governo cerca di agevolare il più possibile l’istruzione pubblica.

Una Chiesa chiamata alla santità

La Chiesa del Kenya, e dell’Africa in generale, rappresenta una bella pagina della storia universale dell’evangelizzazione. I missionari hanno seminato, il numeroso e giovane clero locale, gli istituti di vita consacrata e i laici locali, continuano ad arare, irrigare. Ma, come dice san Paolo, è il Signore che fa crescere. Davvero si prova, da una parte, una bella sensazione a vedere la comunità cattolica così piena di vita e propositiva, ma, allo stesso tempo, ci si affida al Signore, perché le sfide e i peccati non mancano e sono anche enormi.

Questa Chiesa sarà chiamata a coinvolgersi sempre di più nella lotta contro la povertà, la corruzione e le grandi disuguaglianze che rendono disumana la società.

Se vorrà continuare a essere significativa nel lungo corso della storia, ho la sensazione che dovrà produrre santi, ed essere autentica e trasparente, cioè, capace di quella santità che inietta nella società i valori eterni del Vangelo.

Nicholas Muthoka


Ciao padre Giordano

Padre Giordano Rigamonti, 80 anni, dopo una vita spesa per il Signore e per Maria Consolata, per l’Africa e per i giovani, è andato alla casa del Padre il 30 dicembre scorso. Ecco il ricordo, pronunciato al funerale, di uno dei suoi amici e compagni di cammino.

Non so se sono degno di parlare in questo momento. Ciascuno di noi avrebbe un milione di cose da dire oggi, molto meglio di me. Ciascuno di noi ha trascorso un pezzo della sua vita con lui, è stato coinvolto, trascinato, appassionato, ha fatto del bene con lui.

Conosco padre Giordano da 35 anni. Come molti qui presenti, sono andato in Africa la prima volta grazie a lui. Ho partecipato a convegni missionari giovanili, congressi, manifestazioni, mostre… tutto grazie a lui e ai missionari della Consolata.

Sono un figlio dei missionari della Consolata.

Sono un figlio di padre Allamano. Sono figlio di padre Giordano. Sì, perché se è vero che di mamma ne abbiamo una sola, sono convinto che i padri sono tutti coloro che nel corso della vita ci aiutano a crescere. Lui è mio papà come è padre per molti di noi qui presenti.

Padre Giordano è così: non riesce mai a tenere il suo entusiasmo, i suoi ideali, la sua fede, Dio, le sue sfide e il suo ardore missionario solo per sé.

Dal profondo del cuore deve raccontarlo a tutti, deve raccontarlo al mondo.

Da quando è arrivato a Torino nel 1982 si è lanciato, da vero innamorato di Dio e della missione, instancabile, in una miriade di iniziative, tutte volte a far conoscere l’amore di Dio per l’uomo e padre Allamano, fondatore dei missionari della Consolata.

L’animazione missionaria al Cam (Centro di animazione missionaria) e nelle parrocchie, i convegni, l’impegno con Facciamo pace durante la guerra in Bosnia, l’Expo Missio durante il Giubileo del 2000 e, per ultimo, forse una delle sue più belle creature: Impegnarsi serve.

Caro Padre Giordano, ci ritroviamo oggi qui ad augurarti buon viaggio, come tu hai fatto con noi e con centinaia di giovani e adulti che hai inviato nel mondo per fare un’esperienza missionaria.

Attraverso l’associazione Impegnarsi serve, hai voluto formare tutti noi per renderci dei missionari, non solo in terre lontane, ma anche qui fra le vie delle nostre città.

Ci hai fatto conoscere e amare l’Allamano, per farci sentire parte della famiglia dei missionari e far sentire nostri i suoi comandamenti.

Di questi ho sempre pensato che tu li seguissi tutti, tranne uno: quello che dice: «Fate bene il bene e senza rumore». Tu di rumore ne hai fatto eccome, e ce ne fai fare ancora tanto, per attirare l’attenzione della gente e condurla alla visione della giusta prospettiva, nelle piazze, fra i banchi di scuola, con convegni, mostre, spettacoli, cene, messe. E tu eri sempre in prima fila, per condurci e seguirci allo stesso tempo.

Per citare una frase che dicevi spesso, ci hai lanciato tante «provocazioni» e tante «sfide», sfide che a volte avevamo timore di accettare, perché ci sembravano troppo grandi per le nostre forze. Ma tu ci hai sempre spronati a provarci e ad affidarci alla Divina Provvidenza e al supporto di Maria Consolata.

Sei stato per molti di noi un grande amico. Ci hai accompagnati nelle fasi belle della nostra vita e ci ha sostenuti nelle fasi più dure.

Resti per noi un esempio di instancabile servo di Dio, con un entusiasmo missionario che ha saputo contagiare tantissime persone.

Ora l’entusiasmo che ci hai trasmesso deve farci ripartire da qui, senza la tua presenza. Ma tu non lasciarci soli, continua a seguirci da lassù e a guidare i nostri passi perché possiamo ancora fare bene il bene e riusciamo a insegnarlo anche alle generazioni future.

Grazie Giordano! Ci mancherai tanto, ma ti promettiamo che il tuo ricordo continuerà a vivere forte in ognuno di noi e a essere di ispirazione per condurre una vita fatta di servizio e di aiuto verso gli altri.

Kwa heri Padre Giordano, Tutaonana!

I tuoi amici di Impegnarsi Serve
Testimonianza di Angelo D’Auria, letta durante il funerale di padre Giordano a Rivoli (To) il 02/01/2019




Atti degli Apostoli:

il nostro libro

Tempo di novità

Spesso si dice che viviamo in tempi di trasformazione, di cambiamento.
Probabilmente non esiste nessun tempo che non sia di cambiamento, ma è vero che
certi passaggi storici sembrano stravolgere tutto ciò che trovano, e il nostro
è uno di quelli. È comprensibile lo sconcerto dei credenti in Cristo che si
chiedono come continuare a nutrirsi della fede quando tanto sembra contestarla
e spingerla a rinnovarsi. La paura del cambiamento, ovviamente, è quella di
perdere qualcosa di fondamentale. Nello stesso tempo è certo che, restando come
ci si era abituati a essere, si rischia di morire, ossia che il rapporto con
Gesù diventi insignificante innanzitutto per noi, il che sarebbe una grave
perdita per la nostra vita.

Come fare a mantenere equilibrio tra conservazione dell’essenziale e
rinnovamento vitale?

Può confortare che il primo libro nel quale si parla della Chiesa, gli
Atti degli Apostoli, sia situato su uno sfondo simile al nostro. Anche nel I
secolo d.C., infatti, c’era un «grande mondo» che affascinava perché ricco,
luccicante, abbagliante: il potere politico romano, con i suoi commerci e la
facilità dei viaggi, che grazie alla cultura greca metteva a disposizione una
lingua con cui farsi capire ovunque (come oggi l’inglese) e un modello
culturale attento all’essere umano, alla sua intelligenza, alla sua autonomia,
al suo farsi da solo con la forza del cervello e della propria forma fisica. Il
divino sembrava più formale e trascurabile. Accanto, c’era un «mondo antico»
ebraico fatto di regole minuziose che però rimandavano a una saggezza
interiore, di fedeltà al rapporto con un Dio unico, senza statue né quadri, un
mondo che in fondo affascinava gli stessi romani. Gesù non era quasi mai uscito
da questo mondo ebraico, ma i cristiani si troveranno presto sfidati a
entrarvi: come farlo senza perdere la propria anima?

In queste pagine, cercheremo di percorrere il libro degli Atti tenendo
sempre sullo sfondo la nostra situazione e la nostra vita, per provare a
cogliere che cosa quella vicenda di duemila anni fa insegna a noi. Proveremo a
lasciarci guidare dall’ordine del libro biblico, senza essere noi a imporgli
temi o questioni: sia lui a portarci dove ritiene opportuno.

La copertina

Un libro non si dovrebbe giudicare dalla sua copertina, anche se già
questa ci dice qualcosa sul suo contenuto: non solo il titolo o l’immagine sul
frontespizio, ma anche quanto è spesso, quanto è scritto fitto, quante immagini
ha al suo interno, sono elementi che già ci fanno capire se il libro potrà
interessarci o no.

Gli Atti degli Apostoli sono la seconda parte di un’opera che
comprende il Vangelo secondo Luca: questo vuol dire che l’autore pensava al
Vangelo, che pure è autonomo, come un testo in qualche modo da completare con
gli Atti, i quali a loro volta sono autonomi ma non possono essere capiti
appieno senza il Vangelo. Anche se negli Atti non si cita esplicitamente il
Vangelo di Luca, la vicenda di Gesù resta assolutamente il contesto nel quale
comprenderli: pur avendo la vita della Chiesa delle logiche e dei tempi suoi, è
Gesù a renderla sensata.

Nel leggere in greco gli Atti, si resta colpiti dalla trasformazione
della lingua che avviene nel corso dei capitoli: i primi sembrano essere
redatti da qualcuno che, pur scrivendo in greco, continua a pensare con una
testa ebraica (come succede a chi vuole scrivere un bell’inglese pur
continuando a pensare in italiano). Qualcosa del genere succedeva in effetti
anche nel Vangelo, benché nei primi due capitoli di Atti questo avvenga in modo
più marcato. Poi, poco per volta, nel corso della narrazione, la lingua si
purifica, si fa più elegante, più «greca». Dalla metà circa del libro in poi,
siamo davanti a un discorso puro, sciolto, affascinante. È come se anche il
modo di scrivere progressivamente si facesse più internazionale. Non a caso i
primi capitoli si svolgono tutti a Gerusalemme, ma poi un po’ per volta la
geografia si allarga, e nelle ultime righe la storia si sviluppa a Roma, la
grande capitale, il centro del mondo.

L’introduzione (At 1,1-2)

Luca è uno storico che conosce bene il suo mestiere. Gli storici del
nostro tempo dimostrano di fare un buon lavoro quando usano bene le fonti,
fanno vedere di aver consultato gli archivi e danno prova di aver letto le
opere degli altri storici. Al tempo di Luca, un bravo storico mostrava di
essere tale innanzitutto con due strumenti: i discorsi, che non dovevano
necessariamente essere fedeli parola per parola a come erano stati pronunciati,
ma che servivano a spiegare il senso del momento raccontato, a chiarire che
cosa c’era in ballo, e poi l’introduzione, dove lo storico faceva sfoggio della
propria lingua. Il sottinteso era che chi scriveva bene doveva aver studiato
tanto, e quindi essere anche capace di applicare lo studio nella ricerca e
nell’interpretazione dei fatti. E Luca mostra eccome di saper scrivere.

In pochissime parole, nei primi due versetti, dice tantissimo. Intanto
indirizza la sua opera a Teofilo. Chi sia questa persona, non lo sappiamo.
Anzi, potrebbe non essere una persona reale, dal momento che il nome significa
«amico di Dio»: può darsi che Luca intenda dire che qualunque amico di Dio è il
destinatario del suo lavoro. Era indirizzato alla stessa persona anche il
Vangelo (basta guardare Lc 1,3). Per rendere chiaro, fin dall’inizio, che i due
libri vanno letti insieme.

Luca dice poi che nel Vangelo ha
esposto quello che Gesù «iniziò a fare ed insegnare»: con queste parole vuole
dirci che la vicenda storica di Gesù non è finita con la sua ascensione. Il
Signore si identifica con la sua Chiesa, come farà intuire anche a Saulo di
Tarso quando lo incontrerà sulla strada di Damasco: «Io sono Gesù, che tu
perseguiti» (At 9,5), gli dirà, anche se, a essere pignoli, Saulo era convinto
di perseguitare non Gesù ma i cristiani. Nel prologo degli Atti, quindi, Luca
dice che quello che Gesù ha fatto nella sua vita non è finito, ma prosegue
nell’opera dei cristiani. E come Gesù non ha soltanto insegnato, ma ha agito,
così anche il cristianesimo non è questione di conoscenza sola, né solo di
azione, ma di agire consapevole, di intuizione che si fa vita vissuta.

Quindi Luca fa notare che l’opera di Gesù nel mondo è finita (ascende
al cielo) ma non per caso o incidente: egli dà disposizioni ai suoi, organizza
la sua partenza, e infine non è più fisicamente presente ma solo dopo aver
lasciato lo Spirito. Insomma, Gesù continua a esserci ma in una modalità nuova,
che aumenta la responsabilità dei suoi discepoli.

Gesù in cielo (At 1,3-11)

Gesù risorto non resta nel mondo. Lo sappiamo. Anche perché Luca lo
aveva già detto alla fine del Vangelo (Lc 24,51). Là, però, sembra che tutto
sia successo in un giorno solo, qui si parla di un tempo di quaranta giorni tra
la risurrezione e l’ascensione al cielo. Possibile che Luca si sia contraddetto
da solo? A partire da ciò che abbiamo già intuito sulla sua precisione, è
improbabile. Piuttosto, la contraddizione è uno dei trucchi degli scrittori,
soprattutto nell’antichità, per suggerire al lettore quali sono gli aspetti più
importanti cui fare attenzione. Se nel Vangelo ci dice che Gesù è asceso dopo
un giorno e poi, negli Atti, dopo quaranta, significa che la durata non è
importante. E che quindi il dato temporale vuole indicare altro, è un dato
simbolico. Gesù nel Vangelo ascende al cielo il giorno della risurrezione
perché il suo essere il Vivente e il suo essere alla destra del Padre
coincidono. Gesù negli Atti ascende al cielo quaranta giorni dopo la
resurrezione, perché comunque c’è un distacco tra i due elementi, la
risurrezione di Gesù non è soltanto un modo per dire che in qualche modo lui
vive ancora, spiritualmente o nel ricordo: no, lui è davvero il Vivente,
davvero il suo corpo ha lasciato il sepolcro. Ma non è più fisicamente tra noi.

La tentazione di aggrapparci alla nostalgia è umana e Dio la capisce
bene, infatti due angeli, dice Luca in At 1,10, arrivano a scuotere i
discepoli: «Perché state a guardare il cielo?». Andate, agite. Gesù tornerà, ma
adesso non è qui; c’è lo Spirito Santo che vi accompagnerà, ma dovrete metterci
del vostro.

Di nuovo in dodici (At 1,15-26)

Cosa fanno i discepoli appena rispediti nel mondo? Può stupirci, ma
iniziano prima di tutto a recuperare le proprie radici. Innanzitutto, si
trovano nel cenacolo, ossia là dove avevano celebrato l’ultima cena con Gesù.
Con loro ci sono la madre e i fratelli di lui (At 1,13-14): è chiaro che tutto
rimanda a colui che sembra assente. E poi ricostituiscono il numero dei dodici.
Dodici rimandava al numero dei patriarchi, alle dodici tribù d’Israele. Giuda
non c’è più, ma il numero non va perso. È un rimando importante alla storia che
c’è alle loro spalle, a quello che noi chiamiamo tempo dell’Antico Testamento.
Tutto è nuovo, ma non dimentica le proprie radici.

È poi curioso come procedano a scegliere il dodicesimo: selezionano
chi è stato testimone della vicenda di Gesù (At 1,21-22), e ne trovano due. Uno
dei due ha una bella presentazione, più ampia («Giuseppe, detto Barsabba,
soprannominato Giusto»), l’altro ha solo il nome, Mattia. Tra questi si tira a
sorte. Era il modo con cui in Israele si affidava la scelta a Dio. Ancora una
volta si ricorre a modalità «antiche», tradizionali, che stanno alle spalle,
per impostare il nuovo che va costruito. E Dio, stranamente (ma come ha già
fatto tante volte nell’Antico Testamento), sceglie colui che potevamo ritenere
svantaggiato. Fin dall’inizio, si tratta di collaborare noi con Dio per
costruire il nuovo che abbiamo davanti senza dimenticare ciò da cui veniamo.

Angelo Fracchia
(1 – continua)

Iniziamo in queste pagine la collaborazione con Angelo Fracchia che ci accompagnerà alla scoperta del libro degli Atti degli Apostoli, il libro della missione.

Ecco come lui stesso si presenta:

«Ci vuole coraggio per subentrare a un maestro come don Paolo Farinella nel tentativo di far conoscere e affascinare ai testi biblici. Coraggio, o incoscienza. Più probabilmente la seconda. Forse la stessa incoscienza che si mette in campo nel far crescere un figlio, avventura per la quale, a pensarci, non possiamo che dirci incapaci (nel mio caso, poi, quell’incoscienza si è ripetuta quattro volte). O l’incoscienza che ci vuole nel pronunciare un per sempre, quale che esso sia. Potrebbe essere l’incoscienza di chi ama. Che quindi si apre semplicemente in un grazie, nel mio caso a don Paolo, a padre Gigi che – incosciente anche lui – mi ha chiamato a questa bella avventura. Che lo Spirito mi aiuti a dire di lui cose rette, come Giobbe (Gb 42,7), rimproverato per la sua incoscienza ma lodato per come di Dio si era fidato, anche quando se ne lamentava».

Chi è Angelo Fracchia?

Padre di quattro figli, amante della musica, ha studiato all’Istituto biblico di Roma e collaborato come traduttore con l’editrice Paideia. Guadagna il pane quotidiano per sé e la sua numerosa famiglia facendo l’insegnante di religione in due scuole superiori a Saluzzo e Dronero nella provincia di Cuneo. Ma la sua vera passione e missione è far conoscere e amare la Parola di Dio.

Perché gli Atti degli Apostoli?

Uno degli inviti pressanti di papa Francesco a tutta la Chiesa è quello di essere «una Chiesa in uscita». Il libro degli Atti, continuazione del cammino di Gesù nella storia dell’umanità attraverso la sua Chiesa, non è certo un semplice libro di storia, ma è piuttosto una fonte di ispirazione, un paradigma di vita. Il mandato degli Apostoli diventa allora il nostro mandato. Il loro stile di dare la bella testimonianza di Gesù è ispirazione e modello per noi. Non per ripetere quello che gli apostoli hanno fatto, ma per acquisire il loro stesso spirito e imparare e riconoscere l’azione dello Spirito nel nostro oggi.




Un’India per soli indù.

Il nazionalismo induista contro le minoranze

Dopo dieci anni dagli assalti anticristiani avvenuti nello stato di Orissa,
la situazione non è migliorata. Anzi. L’ideologia nazionalista indù, al potere
dal 2014, sembra voler soffiare sul fuoco. E le minoranze, non solo quella cristiana,
hanno sempre più paura.

Il 23
agosto del 2008, nello stato dell’Orissa, nell’India orientale, scoppiò la
peggiore persecuzione contro i cristiani della storia del paese. Sono passati
più di dieci anni da allora, eppure continua a essere forte la difficoltà
indiana di mantenere l’equilibrio tra il progresso, il particolarismo e i suoi
ideali di convivenza e nonviolenza.

In quei giorni di violenza che costrinsero alla fuga 50mila
individui e provocarono un centinaio di morti, la devastazione delle abitazioni
dei cristiani e dei loro luoghi di preghiera, l’esproprio delle loro terre e la
confisca dei loro beni dimostrarono che le forze di ispirazione religiosa induista,
connesse anche a interessi economici e di potere, erano in grado di operare
nell’impunità. Infatti, non solo mancò un’opera di prevenzione da parte delle
istituzioni, ma ci fu anche un intervento tardivo e parziale delle forze
dell’ordine per fermare le folle di indù che, in diversi casi, provenivano da
altri distretti e persino da altri stati dell’India.

(Photo by DESHAKALYAN CHOWDHURY / AFP)

Impunità e paura

Sul piano della giustizia, l’impunità su ampia scala ha segnato
finora le decine di processi avviati contro presunti esecutori e organizzatori
delle violenze del 2008. La propaganda induista descrive quegli eventi come
reazione spontanea all’uccisione del leader estremista indù Swami Laxmanananda
Saraswati, della quale peraltro si erano da subito dichiarati autori i
guerriglieri maoisti attivi nella regione.

Per gli avvocati e gli attivisti che ancora oggi si occupano di
sostenere le vittime, la maggioranza dei crimini non sarebbe registrata
correttamente dalla polizia e quelli già passati in giudicato si sono risolti
perlopiù in mancate condanne.

Il sistema di tribunali speciali che giudicano con rito abbreviato
ha registrato qualche successo, ma l’isolamento geografico della zona, il clima
di paura diffusa, le intimidazioni e minacce, le manifestazioni organizzate
addirittura all’esterno del tribunale, hanno spinto molti testimoni al silenzio
o a una verità parziale e a un basso profilo giudici e legali.

La situazione di rancori e di sospetto e il rischio sempre
presente di nuove violenze rendono l’impegno per la giustizia assai difficile.
D’altra parte, quando su dodici giudizi per omicidio, solo uno si è chiuso con
una condanna, pace e riconciliazione restano obiettivi lontani.

Vecchie e nuove logiche di sottomissione

Come sottolinea John Dayal, attivista cattolico tra i più accesi
nel contrastare l’offensiva dei radicali indù, «l’impegno settario degli
estremisti in Orissa è vecchio di quarant’anni, e il distretto di Kandhamal è
stato da loro scelto per il suo isolamento e per il significato che ha per la
popolazione cristiana.

Obiettivo immediato di quelle violenze era di estendere
l’esperienza di sottomissione del Kandhamal ad altri distretti, quello finale
di rimuovere ogni traccia del cristianesimo tra le comunità indigene per
poterle così del tutto asservire alle vecchie logiche castali e alle nuove
logiche del potere economico e politico».

Nonostante l’attenzione della comunità internazionale e della
Chiesa non siano mai mancate, nulla mostra, a distanza di dieci anni, che la
situazione si sia modificata, se non di facciata.

Ancor più dopo la vittoria dei nazionalisti induisti nel maggio
2014 sotto la guida di Narendra Modi, leader del Bharatitya Janata Party
(Bjp). I nuovi attori istituzionali hanno portato maggiore impunità per gli
estremisti e legittimazione ufficiale a iniziative come la riconversione
all’induismo, la proibizione della commercializzazione e del consumo di carne
bovina, il rafforzamento dei tradizionali consigli di villaggio e altro,
rafforzando il grande progetto di un’India per soli indù.

www.flickr.com/photos/adamcohn/45461015822/

Induità e discriminazioni

La dottrina dell’hinduttva (induità) è al centro degli
interessi e delle azioni della maggioranza politica che guida, da oltre quattro
anni, il governo centrale e sempre più stati e territori dell’immenso paese
asiatico, vasto dieci volte l’Italia e con una popolazione di 1,35 miliardi di
individui all’80 per cento di fede indù.

Dopo decenni di governo pressoché ininterrotto del Partito del
Congresso, ispirato dagli ideali indipendentisti e gandhiani, ora, il partito
confessionale filoinduista Bjp propone una cittadinanza piena ai soli indù,
lasciando alle altre comunità religiose la scelta tra conversione,
discriminazione ed esilio.

Difficile valutare i risultati delle campagne
di conversione che hanno interessato e ancora interessano milioni di indiani.
Per molti di essi si tratta di una «riconversione»: storicamente il
cristianesimo e, in misura minore, l’islam e il buddhismo, sono rifugio di indù
che sfuggono ai limiti e agli abusi del sistema castale, centrale
nell’induismo.

L’induizzazione procede erodendo la
consistenza delle fedi che nei secoli sono nate per scissione dall’induismo,
usando incentivi e pressioni per promuovere l’identità indù, mentre le leggi
anticonversione e la tolleranza verso i gruppi radicali e xenofobi che si
appoggiano all’induismo per ottenere benefici e potere, rendono difficoltose la
pratica e l’esistenza stessa sul territorio indiano delle religioni considerate
«straniere» come l’islam e il cristianesimo.

I discorsi d’odio dei leader

A confermare il ruolo della politica filoinduista in una
situazione di crescente tensione, ci sono i dati diffusi qualche mese fa da New
Delhi Television (Ndtv), dai quali emerge che i responsabili di «discorsi
d’odio» registrati dall’inizio della legislatura che si avvia al termine il
prossimo anno, sono stati per il 77 per cento esponenti del Bjp.

Nessun provvedimento è stato preso nei loro confronti. Ad esempio,
contro la ministra per le Industrie agroalimentari Niranjan Jyoti, già abituata
a proclami sopra le righe, che in una dichiarazione pubblica ha affermato che
gli indù sono da considerarsi discendenti del dio Rama, mentre gli altri –
musulmani, cristiani, sikh, jain, buddhisti, parsi, atei – sarebbero dei «bastardi».

Che dire poi di Yogi Adityanath, ora capo del governo nel più
popoloso stato indiano, l’Uttar Pradesh, secondo il quale per ciascuna donna
indiana sposata a un musulmano e convertita all’islam, gli indù dovrebbero
sposare con la forza cento donne musulmane e convertirle come ritorsione?

© Un photo / Mark Garten

Dal divieto di conversione alle «guerre delle mucche»

Preoccupa che questioni un tempo considerate anacronistiche e
innocue dalle stesse minoranze, siano oggi diventate strumenti di dominio
dell’induismo estremista.

L’accusa di proselitismo nei confronti dei cristiani ha alimentato
l’ondata di provvedimenti legislativi per proibire ogni iniziativa che
incentivi o forzi gli indù a un cambio di fede. Anche l’attività di sacerdoti,
religiosi, pastori nelle chiese è stata limitata fortemente, e addirittura nelle
scuole e nelle istituzioni socioassistenziali avviate o gestite da cristiani.

Pesa invece sui musulmani l’accusa induista di «jihad matrimoniale»,
ovvero di perseguire una strategia di matrimoni con donne indù al fine della
conversione e di avere una prole ampia allo scopo di arrivare al sorpasso
demografico dei musulmani sugli indù.

Soprattutto tra i musulmani si contano le vittime della «guerra
delle mucche» dichiarata dai leader indù contro chi macelli i bovini, animali
legati alla tradizione religiosa indù, ne utilizzi pelli e altre parti e ne
consumi le carni, attività appannaggio nei secoli di islamici, dalit e
cristiani.

Significative le esternazioni di Subramanian Swami, parlamentare
del Bjp, che lo scorso anno ha chiesto una legge per condannare a morte chi
uccida le mucche. Il tentativo non è andato in porto, ma questo non ha fermato
in diversi stati l’approvazione di provvedimenti che vietano la macellazione e
il trasporto di carni bovine. Non senza ricadute cruente, come dimostrano le
aggressioni di gruppo registrate, a volte i linciaggi di musulmani e dalit («esclusi»,
un tempo noti come «intoccabili») motivati dalla loro dipendenza dall’uso
commerciale e alimentare di questi animali.

© Deshakalyan Chowdhury / Afp

I dalit e le prossime elezioni

In questo quadriennio di controllo nazionalista sul paese e di
quasi annichilimento del Partito del Congresso, le violenze ispirate,
ammesse o non sanzionate degli estremisti sono state una realtà preoccupante
per le minoranze. «Siamo ormai al crollo dello stato di diritto. Ogni giorno i
mass media riportano notizie di atrocità compiute contro le minoranze
religiose, i dalit e i tribali», ha sottolineato Jignesh Mewani, leader dalit e
parlamentare nello stato del Gujarat, roccaforte di Narendra Modi.

Lo scorso aprile è stato segnato da scontri tra polizia e
manifestanti dalit: roghi, posti di blocco, coprifuoco, morti e feriti si sono
registrati in varie zone dell’India mettendo in rilievo il disagio profondo di
questi gruppi meno favoriti della comunità indù.

La loro rabbia si è espressa con la dichiarazione di un «Bharat
bandh» (blocco dell’India) dopo che la Corte suprema si era opposta all’arresto
di chi violi la legge vigente sulla tutela della loro dignità. Le tensioni
hanno coinvolto la maggior parte dei grandi stati settentrionali, incluso il
territorio della capitale, che ospitano la maggioranza dei 250 milioni di
dalit. La Legge sulla prevenzione delle atrocità verso le caste e tribù
registrate
è del 1989, e rappresenta uno dei paradossi dell’India odierna,
la cui Costituzione proibisce le caste, già vietate in precedenza dai
colonizzatori britannici.

Per certi aspetti, le tensioni della scorsa primavera hanno
anticipato alcuni temi della campagna elettorale verso il voto per il rinnovo
del parlamento nazionale del maggio 2019. L’opposizione guidata dal Partito
del Congresso
, infatti, ha sostenuto le proteste «di migliaia di fratelli e
sorelle dalit che chiedono la tutela dei loro diritti», mentre il governo
nazionalista, dal canto suo, ha chiesto, da un lato ai partiti di non accentuare
le tensioni sociali, e dall’altro alla Corte suprema di ripensare la sua
posizione. Riguardo a queste ultime, è difficile non rilevare il paradosso del
sostegno ai fuoricasta da parte di un governo che esprime l’ideologia che ha
nei secoli contribuito alla loro subordinazione.

Cristiani perseguitati

La comunità cristiana, che conta circa 30 milioni di fedeli (il
2,3 per cento degli indiani), è pure sotto attacco. Negli ultimi anni si sono
moltiplicati drammaticamente gli assalti a chiese, incontri di preghiera e
istituzioni culturali e caritative. Secondo segnalazioni di attivisti
cristiani, le autorità tendono a ignorare le denunce e a minimizzare i fatti e,
quando arrestano presunti colpevoli, li indicano nei rapporti come «individui
affetti da disturbi mentali».

A documentare questa situazione sono vari studi e rapporti. Tra i
più recenti quello della Commissione statunitense per la Libertà religiosa
internazionale
(Uscirf), che ha messo apertamente sotto accusa il governo
indiano per lo scarso impegno nel prevenire «una pressione diffusa contro le
minoranze religiose e contro i dalit che raggruppano fuoricasta, tribali e
aborigeni e che totalizzano il 20 per cento degli 1,35 miliardi di indiani».

Il rapporto ha registrato che «nel 2017 le condizioni della libertà
religiosa hanno visto proseguire la tendenza al peggioramento» e che «la realtà
di una società multiculturale e multireligiosa come quella indiana è minacciata
da una crescente concezione esclusivista di identità nazionale basata sulla religione».

A confermare un incremento della persecuzione ci sono anche dati
governativi diffusi a febbraio: 111 uccisi e almeno 2.398 feriti in 822 episodi
di violenza settaria nel 2017, contro 86 morti e 2.321 di 703 eventi nel 2016.

Stefano Vecchia




Diseguaglianza, la sfida che decide il nostro futuro

Il 18 giugno 2018, a tre anni di distanza dalla pubblicazione della Laudato
Si’, circa venti partner, fra cui Caritas Italiana e Focsiv, hanno lanciato la
campagna triennale «Chiudiamo la forbice: dalle diseguaglianze al bene comune,
una sola famiglia umana». Vediamo i numeri delle disparità nel mondo e alcune
iniziative che la campagna ha messo in campo su uno dei tre ambiti: il cibo.

Immaginiamo per un attimo che sul pianeta vivano cento persone e che il presidente della Banca Planetaria chieda loro di portare in banca tutti i soldi che possiedono perché viene emessa una moneta nuova e quelle vecchie non valgono più. In cambio verrà distribuita la nuova moneta che si chiama globone.

La Banca Planetaria convoca i cento abitanti del
pianeta e, cominciando da chi possiede di più, restituisce a ciascuno il suo
con le dovute rivalutazioni.

Per facilità supponiamo che tutti i soldi
raccolti equivalgano a cento globoni.

Arriva il primo signore, solo. Gli danno i suoi
soldi: 33 monete. È molto soddisfatto. Proprio un bell’affare. Nel 1980, quando
era stata fatta un’operazione simile, aveva avuto «solo» 28 monete.

Arrivano poi altre 9 persone. Ricevono 37 monete,
più o meno quattro a testa. Per loro è un colpo, perché nel 1980 ne avevano
ricevute 40, ma visti i tempi che corrono, meglio non lamentarsi, le perdite
sono contenute.

Dei 100 globoni iniziali, ne rimangono 30, ma le
persone da rimborsare sono ancora 90. Quanto riceverà ciascuno? Tutti lo
stesso?

Sono chiamate altre 15 persone: ricevono 20
globoni da dividere fra loro. Mugugnano un po’ perché rispetto al 1980 hanno
perso almeno un globone, o forse due, in favore del primo uomo.

Rimangono ancora 10 monete in tutto per 75
persone. A 25 sono distribuiti equamente 8 globoni, 32 centesimi a testa.
Speravano di prendere un po’ di più, ma possono andarsene contenti perché
almeno non hanno perso molto nel cambio. Metà dei «clienti» è sistemata.

A questo punto, le 50 persone rimanenti devono
spartirsi quel che rimane: due monete. Non due a testa: due in tutto, 4
centesimi ciascuno.

Una storia per capire

Questa storiella è una semplificazione dei dati riguardanti la distribuzione della ricchezza nel mondo pubblicati nel World Inequality Report (Wir) del 2018. Va detto che queste percentuali devono essere prese cum grano salis, come gli autori stessi tengono a chiarire, perché i dati affidabili sulla ricchezza nel mondo sono meno disponibili di quelli sul reddito, altra misura su cui si basa il rapporto. Inoltre, lo scenario è costruito sui dati dei soli Stati Uniti, Unione europea e Cina.@

Tuttavia, con le dovute cautele, è possibile
sostenere che di questo passo – cioè ai tassi di crescita della diseguaglianza
attuali – nel 2050 l’1% più ricco della popolazione mondiale arriverà a
possedere di più di tutta la classe media mondiale.

Per capire meglio riprendiamo la nostra storiella
e immaginiamo di moltiplicare tutto per dieci: gli abitanti del pianeta sono
mille, non cento, l’uomo con 33 monete diventa 10 uomini con 330 monete, e i 40
(15 + 25) della fascia intermedia con 28 globoni diventano 400 con 280 globoni.
Oggi, per eguagliare la ricchezza dei 400 uomini della fascia intermedia serve
la ricchezza di otto uomini e mezzo dei dieci più ricchi.

Le proiezioni nel rapporto dicono che nel 2050
basterà la ricchezza di uno solo dei dieci super ricchi per eguagliare la
ricchezza dei 400 della classe media mondiale.

Ma di quante persone reali stiamo parlando? I
dieci ricchi con 330 monete (l’1% della popolazione) corrisponono a circa 70
milioni di persone, spiega Lucas Cancel, uno degli autori del Wir 2018, alla
rivista francese Alternatives Economiques, o 40 milioni considerando la
sola popolazione adulta. Il livello di reddito di queste persone è di 330mila
euro all’anno.

La metà più povera della popolazione mondiale, invece (i cinquanta uomini che si dividono due monete nella storiella iniziale) corrispondono a tre miliardi e mezzo di persone e hanno un reddito sotto i 3.200 euro l’anno per ogni adulto@.

Diseguaglianza in crescita

© Gigi Anataloni /AfIMC

Nel 2016 la quota di reddito nazionale detenuta
dal 10% più ricco della popolazione variava dal 37%  in Europa al 61% nel Medio Oriente. Dal 1980
al 2016 – il periodo considerato dal Wir – la diseguaglianza è aumentata un po’
ovunque, ma con tassi molto differenti: mentre in Europa la variazione è stata
di pochi punti percentuali, in Russia è passata da poco più del 20% nel 1980 a
oltre il 40% nel 2016.

Del complessivo aumento del reddito globale nei
36 anni considerati, l’1% più ricco della popolazione mondiale ha «catturato»
circa il 27%. Il 50% più povero ha certamente beneficiato di tassi di crescita
degni di nota, ma la quota  di aumento
del reddito «catturato» dalla fascia più povera è stata del 12%, pari cioè a
meno della metà rispetto alla quota dei super ricchi. Chi ha visto la propria
parte restare invariata, se non addirittura erodersi, è ancora una volta la
classe media.

Da qui al 2050, gli scenari riguardanti le
diseguaglianze sono molti. Il migliore è quello che le vede crescere in tutti
paesi ai tassi «contenuti» dell’Europa. Questo porterebbe la quota dei più
ricchi dal 27% al 19% e aumenterebbe dal 12% al 13% la quota goduta dai più
poveri. Viceversa, se il mondo seguisse il trend degli Stati Uniti, la «fetta»
di crescita a beneficio dei 3 miliardi e mezzo di poveri crollerebbe al 6%,
mentre i 70 milioni di persone più ricche otterrebbero un ulteriore aumento di un
punto percentuale.

Chiudiamo la forbice, ora

Chiudiamo la forbice@ è la campagna lanciata il 18 giugno dell’anno scorso da Caritas Italiana, Focsiv e una ventina di altri soggetti, prevalentemente di ambito ecclesiale. L’attenzione per il tema delle diseguaglianze è sintetizzata in una frase chiave contenuta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «L’iniquità è la radice dei mali sociali».

La data del lancio di Chiudiamo la forbice, precisa il comunicato stampa che apre la campagna, corrisponde al terzo anniversario della pubblicazione dell’enciclica Laudato Sì’@.

«Non ci sono due crisi separate, una ambientale e
un’altra sociale», sostiene Francesco nell’enciclica, «bensì una sola e
complessa crisi socioambientale» che richiede un «approccio integrale per
combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso
tempo per prendersi cura della natura».

Di questo approccio integrale vuole farsi
portatrice la campagna, che concentra il proprio lavoro principalmente su tre
ambiti: il cibo, i conflitti e la mobilità umana, da leggere nell’insieme
attraverso due elementi trasversali del contesto: la dimensione ambientale, cioè
la cura della casa comune, e la dimensione finanziaria, in particolare «la
relazione tra debito, crisi finanziarie, diseguaglianze e resilienza rispetto
all’instabilità sociopolitica e allo svilupparsi di conflitti violenti».

A Chiudiamo la forbice sono legati tre concorsi
per la produzione di un video, una foto e un disegno che esprimano il titolo e
il tema della campagna. La scadenza per la presentazione dei lavori è il 30
giugno 2019, mentre la premiazione avverrà il 30 dicembre.

Il cibo, diritto basilare negato

© AfMC / Cogliati Matteo

Quello del cibo, dalla produzione al consumo, è un ambito nel quale le diseguaglianze sono di un’evidenza schiacciante. Del cibo sprecato annualmente sul pianeta, pari a 1,3 miliardi di tonnellate, gli abitanti di Europa e Nord America ne buttano fra i 95 e i 115 chili a persona contro i 6-11 chili a testa del resto del mondo. Nel primo caso, le perdite avvengono principalmente al livello del consumo e della vendita al dettaglio. In quest’ultimo ambito, buona parte dello spreco è l’effetto dell’applicazione di norme che danno eccessiva importanza all’aspetto dei prodotti. Nei paesi in via di sviluppo, invece, gli sprechi avvengono soprattutto nella fase successiva al raccolto e in quella di lavorazione, spesso a causa di limiti e inefficienze nelle tecniche di raccolta e nella catena del freddo. Nei paesi a medio reddito, infine, a causare le perdite di cibo sono principalmente la mancanza di coordinamento fra produttori e venditori e la scarsa consapevolezza da parte di produttori, venditori e consumatori sul problema dello spreco e su eventuali modi per riutilizzare il cibo che viene attualmente buttato@.

La campagna cerca di far emergere gli aspetti
disfunzionali in questo settore: «Se il 2017 è l’anno in cui la Fao ha rilevato
per la prima volta da tempo un nuovo aumento delle persone che soffrono la fame
sul pianeta, non cessano di aggravarsi le varie malattie dell’opulenza, come
l’obesità, lo spreco di cibo, la sovra alimentazione, ecc. Sullo sfondo vi sono
fenomeni complessi come la concentrazione del potere economico nelle filiere
della produzione del cibo, o i fenomeni dell’accaparramento della terra».

Fra le iniziative promosse in questo ambito vi è la spesa sospesa, che a Roma ha preso forma il primo fine settimana di ottobre al Villaggio Coldiretti. «Per tutto il weekend della manifestazione i visitatori dei banchi del maximercato degli agricoltori promosso da Coldiretti e Campagna Amica al Circo Massimo hanno avuto la possibilità di fare una donazione libera grazie alla quale acquistare prodotti a favore dei più bisognosi, sul modello dell’usanza campana del “caffè sospeso”, quando al bar si lascia pagato un caffè per il cliente che verrà dopo». Frutta, verdura, formaggi, salumi e altri generi alimentari così raccolti, per un totale di una tonnellata e mezzo, sono stati poi consegnati alla Caritas e alla Comunità di Sant’Egidio, che li hanno utilizzati per rifornire i quattro Empori della Solidarietà promossi dalla Caritas di Roma, che sono «supermercati di medie dimensioni a cui possono accedere gratuitamente persone che si trovano in temporanea difficoltà e che non riescono a sopperire a tutte le loro necessità»@.

Anche a Torino si è svolto a giugno un evento simile ai Giardini Reali superiori. Il bilancio è stato di una tonnellata di cibo raccolta e distribuita alle famiglie bisognose@.

Chiara Giovetti

© AfMC



I Perdenti 40.

Luz Long e Jesse Owens campioni nello sport e nella vita

Quel
che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion
di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo
dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di
una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano
nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le
altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale
e civile.

L’aspetto
più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz
Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens,
nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità
sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di
un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni.
Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta
corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale
sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio
figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci
separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa
terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della
Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita
del suo primogenito.

Proprio
con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro
chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.

Jesse Owens in piena corsa alle Olimpiadi del 1936 a Berlino (Collection MNS)
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato
per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…

Devo dire
che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere
parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della
guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche
gli atleti sportivi di ogni disciplina.

Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?

Cominciamo
col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive,
pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime
Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un
modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il
potere nazista.

L’Olympiastadion era veramente così imponente?

Con
chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion,
poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso,
costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime
nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso
gli avvenimenti sportivi.

Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era
usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?

Hitler
intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia
della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere
all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi
azzurri.

Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.

Sì.
Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré
anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista
sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel
salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam
dallo statunitense Edward Hamm.

Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti
classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.

Mi
rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da
Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli
occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano
quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti
provenienti da tutto il mondo.

Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?

Parteciparono
ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che
tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento
berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline
sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali
fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica
americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una
percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante
discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava
James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.

Hitler come vedeva questi atleti di colore?

La
presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da
Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano
vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare
l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da
Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli
Stati Uniti.

In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto
bene.

Basti
pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella
parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di
servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini
della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure,
silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base
della libertà stessa: vivere come loro desideravano.

Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società
civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.

Proprio
così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto
anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più
dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di
farcela.

Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?

Furono le
sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di
studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei
migliori coach in circolazione.

Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.

Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un
evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un
quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione
americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare
alle Olimpiadi di Berlino.

Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.

Il tre
agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei
cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero
particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa
per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due
salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato
di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se
confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri
atleti.

Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.

Senza
contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti.
Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale,
influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori
gioco senza troppi complimenti.

Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla
finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz,
l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.

Mi
avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in
grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco
ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco
posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi
superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87
centimetri.

Jesse Owens saluta mentre riceve la medaglia d’oro per il salto in lungo.

Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.

Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.

Don Mario Bandera




Il falso anniversario della crisi (economica)

Si dice che (la crisi) sia iniziata il 15 settembre 2008. È un falso inventato per non ammettere che la crisi è nata dalla globalizzazione. Un processo che ha prodotto sfruttamento nei paesi del Sud, salari bassi e disoccupazione in quelli del Nord. Quando i consumi sono risultati insufficienti, il sistema ha pensato di uscirne con i mutui facili. Quello che poi è successo è storia recente.

L’anno appena trascorso è stato commemorato in tutto il
mondo come il decennale di una crisi da cui non siamo ancora realmente usciti. L’anniversario è dovuto alla
narrazione ufficiale che vuole fare coincidere l’inizio della crisi con la
caduta della Lehman Brothers, la
banca d’affari fallita il 15 settembre 2008. Tuttavia, se vogliamo capire
davvero come essa si sia prodotta e perché non si sia ancora esaurita,
nonostante le migliaia di miliardi di dollari messi in campo dalle principali
banche centrali, dobbiamo andare molto più indietro. Il decennio giusto da cui
partire è quello degli anni Ottanta del secolo scorso, quando a Punta del Este,
una località balneare situata su una stretta penisola nel Sud Est dell’Uruguay,
si tenne l’ultima tornata (round) di riunioni sotto l’egida di un accordo
commerciale internazionale nato nel 1947 e conosciuto come General Agreement on Tariffs and Trade (Gatt, Accordo Generale
sulle Tariffe e il Commercio). L’Uruguay Round, avviato nel 1986, durò ben otto
anni e aveva come scopo la sepoltura del Gatt e la nascita al suo posto di un
nuovo organismo denominato World Trade
Organization
(Wto, Organizzazione Mondiale del Commercio – Omc).

Arriva la globalizzazione

WTO Public Forum 2016, Day 1, Open Plenary Debate

L’atto di nascita dell’Omc avvenne il 15 aprile
1994 a Marrakesh per volontà di 123 paesi. Questo organismo si può considerare
l’inizio ufficiale di ciò che chiamiamo «globalizzazione».

Nonostante le molteplici definizioni date al
termine, da un punto di vista economico la globalizzazione è riassumibile come
il tentativo di trasformare il mondo intero in un unico mercato, un’unica
piazza finanziaria, un unico villaggio produttivo. È il passaggio da un mondo
strutturato su mercati nazionali, ognuno con le proprie regole commerciali e
doganali, a un mondo strutturato come mercato unico con da regole comuni, per
permettere a merci e capitali di fluire senza ostacoli da un capo all’altro del
globo.

Un cambiamento non casuale, perché rispondente ai
bisogni dei nuovi padroni del mondo, le multinazionali, ormai con capacità di
vendita così ampie da far sì che nessuna nazione possieda un numero di
consumatori sufficienti ad assorbire i loro prodotti. Immaginarsi, ad esempio,
se una Coca-Cola, una Nestlé o una Volkswagen può accontentarsi dei consumatori
esistenti nel proprio paese di origine. Per le dimensioni raggiunte, ognuna di
esse aveva bisogno di rivolgersi ai consumatori di tutto il mondo e,
chiedendosi come fare per tagliare il traguardo, capirono che il vero ostacolo
da affrontare erano gli stati. Questi, in nome della difesa dei propri
consumatori, dei propri posti di lavoro, della propria sicurezza sociale,
pretendevano di definire in totale autonomia le regole di entrata e uscita di
beni e servizi. In effetti 150 nazioni, con 150 legislazioni, 150 regimi
doganali, l’uno diverso dall’altro, rappresentano una vera complicazione per i
mercanti globali che invece hanno bisogno di uniformità. Per questo è stata
istituita l’Organizzazione Mondiale del Commercio col compito di scrivere le
regole sovrannazionali, una sorta di «supercostituzione mondiale», che ogni
nazione deve impegnarsi a rispettare quando legifera su tematiche che hanno a
che fare col commercio internazionale. Disgraziatamente per noi, tali ambiti
sono molto vasti e vanno dalle questioni sanitarie a quelle ambientali, da
quelle culturali a quelle sociali. Immancabilmente, la supercostituzione
dell’Omc impone agli stati di ridurre al minimo, se non di eliminare, ogni
regola che si pone in contrasto con gli interessi commerciali. Basti pensare
che nel 1999 l’Unione europea è stata condannata dall’Omc per aver vietato
l’ingresso della carne proveniente da bestiame statunitense allevato con ormoni
ritenuti pericolosi per la salute dei consumatori.

La corsa alla riduzione dei costi e dei salari

Proprio quando la globalizzazione ha cominciato a
materializzarsi, le imprese hanno scoperto che il grande mercato mondiale che
loro sognavano in realtà non esiste perché il numero di famiglie con soldi
sufficienti per entrare nell’olimpo dei consumatori non va oltre il 30% della
popolazione mondiale. Tutte le altre sono solo zavorra. Così milioni di imprese
di tutto il mondo si sono trovate l’una in guerra con l’altra per conquistarsi
un mercato mondiale tutto sommato piccolo senza possibilità di espansione
immediata. Ne è venuta fuori una concorrenza all’ultimo sangue combattuta non
solo con i mezzi moderni della tecnologia, del design, della velocità di
consegna, ma anche con le armi più tradizionali della pubblicità e
dell’abbassamento dei prezzi. Un insieme di misure che certo possono fare
aumentare le vendite, ma anche assottigliare i profitti se contemporaneamente
non vengono ridotti i costi. Così nel vecchio lupo capitalista è riemerso,
prepotente, l’istinto di risparmiare attaccando il lavoro con strategie
differenziate a seconda del settore di attività. In quelli ad alta tecnologia è
stata intensificata l’automazione per sostituire i lavoratori con robot, che
non pretendono contratti, non dichiarano sciopero e non si suicidano, come
invece fanno gli umani quando non ne possono più. Nei settori ad alta
manovalanza, invece, si è optato per la delocalizzazione, prima verso l’Asia,
poi anche verso l’Europa dell’Est, in ogni caso verso paesi dove salari e
diritti sono così ridotti da garantire costi di produzione anche venti volte più
bassi di quelli in vigore nei paesi di vecchia industrializzazione. Di colpo è
stata riscritta la geografia mondiale del lavoro con risultati drammatici:
sfruttamento e industrializzazione selvaggia nel Sud, aumento della
disoccupazione e riduzione dei salari nel Nord. Un attacco al lavoro in piena
regola che ha prodotto come risultato finale la riduzione della massa salariale
a livello globale.

In Europa, ad esempio, l’Ocse ha certificato che
la quota di prodotto interno lordo per i salari è scesa dal 72%, nel 1975, al
63% nel 2014. Una perdita di 9 punti percentuali che, nel caso specifico
italiano, è stata addirittura di 13 punti. Un fenomeno purtroppo non confinato
ai soli paesi di vecchia industrializzazione, ma che coinvolge anche i paesi
emergenti. In Cina, ad esempio, nel periodo 1995-2012 la quota di Pil andata ai
salari è scesa del 7%, in Turchia addirittura del 17%.

I guasti della globalizzazione

Che la globalizzazione abbia aggravato le
disuguaglianze lo dice non solo la diversa distribuzione del Pil fra salari e
profitti, ma anche la distribuzione della ricchezza patrimoniale. Per
intendersi il possesso di case, aziende, depositi bancari. Nel 2000 l’1% più
ricco della popolazione mondiale deteneva il 40% della ricchezza privata
mondiale. Oggi ne detiene il 50%. Dolce musica per i detentori di capitale, ma
al tempo stesso rumore sordo di tempesta: se i salari scendono, chi comprerà
tutto ciò che il sistema produce? In effetti l’ombra della crisi da scarsità di
mercato si è manifestata fin dall’inizio della globalizzazione con l’arrivo di
due cavalieri. Il primo: l’espansione della finanza, un fenomeno che fa
capolino ogni volta che aumentano i profitti, ma ci sono basse prospettive di
vendite. Il secondo: l’espansione del debito, che si affaccia ogni volta che i
magazzini si ingolfano di materiale invenduto.

La strada maestra per sbloccare la situazione
sarebbe stata la crescita salariale, ma non sentendoci da quell’orecchio il
sistema ha cercato di fare crescere le vendite spingendo le famiglie a
consumare oltre le proprie possibilità tramite l’indebitamento. Strada che gli
Stati Uniti hanno imboccato a piene mani a inizio anni Duemila utilizzando come
esca l’acquisto della casa.

L’imbroglio dei mutui

Complessivamente fra il 2000 e il 2007 vennero
concessi mutui per 18.000 miliardi di dollari, ma un buon 15% erano subprime, ossia scadenti nel senso che
erano a rischio di non ritorno perché concessi a famiglie così povere da non
poterli restituire. Così successe che gli stessi agenti che, un paio di anni
prima, erano passati casa per casa per strappare una firma sotto un contratto
per l’accensione di un mutuo, ora passavano per pignorare le abitazioni degli
insolventi e metterle sul mercato al fine di recuperare le somme prestate. Ma
le case pignorate e messe in vendita erano tante. L’effetto fu un crollo del
prezzo del mercato immobiliare che impediva il pieno recupero delle somme
impegnate.

La cosa strana, tuttavia, fu che quando il marcio
venne a galla, non furono le banche che avevano stipulato i mutui a
preoccuparsene, ma tutte le altre. E qui si scoprì che la concessione di mutui
a famiglie troppo povere per poterli ripagare non era stato il frutto di errori
di valutazione, ma di disonestà. Il fatto è che le banche che concedevano i
mutui non avevano nessun interesse a valutare la solidità delle famiglie perché
sapevano che avrebbero scaricato la patata bollente su altri.

Il trucco su cui si reggeva l’intero castello
stava nel fatto che le banche concessionarie di mutui avevano trovato il modo
di dare prestiti alle famiglie e riscuoterli subito, non dalle famiglie che già
erano in difficoltà a restituirli in trent’anni, ma da altri soggetti disposti
a subentrare come creditori al posto loro.

In fin dei conti avevano messo in piedi un
gigantesco meccanismo di vendita dei mutui che trovava clienti soprattutto fra
banche, fondi pensione e assicurazioni. Per di più quegli stessi mutui erano
stati utilizzati come base di scommesse complicatissime che si rivelarono tutte
perdenti quando trapelò la notizia che molte famiglie americane non pagavano più.

Il terremoto fu mondiale e a rimanere sotto le macerie furono soprattutto le banche di qua e di là dell’Atlantico che si ritrovarono i cassetti pieni di titoli che ormai non valevano niente. La Lehman Brothers forse venne lasciata fallire appositamente per fare conoscere al mondo quanto fosse grave la situazione delle banche che, trovandosi piene di debiti e un capitale altamente svalutato, non erano più in grado di svolgere la loro funzione istituzionale di concedere prestiti. Così la crisi finanziaria si estese al sistema produttivo con fabbriche che chiusero e investimenti che non vennero realizzati. Una vera tragedia sul piano occupazionale che, secondo le Nazioni Unite, comportò la perdita di 30 milioni di posti di lavoro.

© KevinDooley

Serve più salario e più lavoro

Di chi è la colpa di tutto questo? L’accento è
stato posto sulla mancanza di regole che ha consentito al sistema bancario e
finanziario di avventurarsi per strade insane e piene di azzardi. Una diagnosi
verissima, purtroppo ancora valida per responsabilità della politica che non ha
saputo intervenire per metterci al riparo da nuove crisi bancarie che magari
possono avere come nuovo epicentro la crisi dei prestiti per mantenersi agli
studi piuttosto che ai consumi. La mancanza di regole è però solo una parte
della storia. A monte di tutto c’è l’ingiusta distribuzione della ricchezza che
provoca povertà e indebitamento.

Il sistema deve capire che l’equilibrio può essere
ritrovato solo in due modi: aumentando i salari e permettendo a tutti di avere
un lavoro. Che non significa automaticamente produrre più beni per il mercato,
ma ridurre l’orario di lavoro e rilanciare l’economia pubblica. Ricette
semplici e possibili ma che attueremo solo se cambieremo mentalità.

Francesco Gesualdi




2019 all’insegna della missione

Buon anno! I nostri auguri ai missionari e missionarie della Consolata, ai
laici che ci seguono e ci vogliono bene, ai tanti amici che, conoscendo il
nostro beato fondatore, seguono il suo esempio e continuano ad invocarlo con
fiducia.

Abbiamo da poco iniziato il cammino di questo 2019 e ci
siamo augurati vicendevolmente che sia «buono» (anzi, migliore dell’anno appena
passato). Certamente ci riserva una bella sorpresa: un intero «mese missionario
straordinario», il prossimo ottobre, dentro il quale si incastonerà il «Sinodo
per l’Amazzonia».

Inutile dire che il Sinodo 2019 ci tocca da vicino, perché
parecchi nostri missionari lavorano in quell’immenso territorio che si allarga
in vari paesi latinoamericani e dove «una profonda crisi è stata scatenata da
un prolungato intervento umano, caratterizzato da una “cultura dello scarto” e
da una “mentalità estrattiva”».

Papa Francesco, prima dell’indizione del Sinodo
amazzonico, così scriveva al cardinale prefetto della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli: «Indìco un mese missionario straordinario
nell’ottobre 2019, al fine di risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio
ad gentes
e di riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria
della vita e della pastorale. Ci si potrà ben disporre ad esso, anche
attraverso il mese missionario di ottobre del prossimo anno, affinché tutti i
fedeli abbiano veramente a cuore l’annuncio del Vangelo e la conversione delle
loro comunità in realtà missionarie ed evangelizzatrici; affinché si accresca
l’amore per la missione, che “è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è
una passione per il suo popolo”».

A questi due eventi, vorremmo aggiungere la memoria di un
centenario che ci è caro e che celebra la nostra presenza missionaria in
Tanzania, dove i primi quattro «arditi della Consolata» sbarcarono nell’aprile
del 1919; avevano il permesso e la benedizione dello stesso fondatore, che
aveva acconsentito a quella terza apertura missionaria del suo giovane
Istituto, nonostante «la scarsità di personale» e in obbedienza al papa…
soggiungendo: «Io sorrido quando sento dire che c’è tanto lavoro. Più lavoro c’è
e più se ne fa; ma bisogna lavorare con energia, che è la caratteristica del
missionario».

Sia ancora lui, allora, a ispirarci e accompagnarci nel
nuovo anno perché, nella preghiera, nella riflessione e in gesti concreti di
apertura e solidarietà, ci prepariamo al prossimo «straordinario ottobre» che
colora di intensa gioia missionaria i giorni della nostra attesa.

P. Giacomo
Mazzotti

L’Allamano nella vita di ogni giorno

Questa rubrica che propone diversi aspetti della ricca personalità del
beato Giuseppe Allamano, durante l’anno 2019 conterrà due pagine con la pretesa
di una certa novità: un Allamano «a tu per tu».

Non si può dire che l’Allamano non sia conosciuto,
soprattutto nei territori dove vivono e operano i suoi missionari e
missionarie, sia in Italia che in tante altre nazioni. Sono state pubblicate
tutte le sue conferenze come pure tutta la sua corrispondenza scritta e
ricevuta. Le pubblicazioni che trattano di lui sono numerosissime e in diverse
lingue.

Non è facile offrire ancora qualcosa di nuovo
sull’Allamano. A ben pensarci, però, c’è ancora una strada da percorrere. Si
tratta di aprire gli archivi e ascoltare certe sue parole che abitualmente
rimangono nascoste. L’Istituto possiede un archivio molto ricco, nel quale, tra
il resto, è conservata una grande quantità di testimonianze sull’Allamano.

Subito dopo la sua morte, molti sacerdoti, religiosi,
suore e laici, che lo avevano conosciuto da vicino, hanno sentito il desiderio
di riferire i propri ricordi personali. Non volevano che la memoria di un tale
personaggio finisse per scomparire. Quando poi è stata iniziata la causa per la
beatificazione, molte di queste testimonianze sono state garantite dal
giuramento.

È interessante riprendere in mano questi documenti, per
lo più manoscritti, e rileggerli con attenzione. Spesso i testimoni non si
accontentano di parlare di lui, ma riportano addirittura sue parole che
ritengono di ricordare, scrivendo: «l’Allamano diceva…» e, tra virgolette,
riportano le sue espressioni in forma diretta.

Riguardo queste testimonianze, si deve tenere presente
che il testimone ridice le parole dell’Allamano come le ricorda, affidandosi
cioè alla propria memoria. Non è quindi sempre possibile pretendere l’esattezza
assoluta della terminologia, ma solo quella del concetto.

La novità di queste pagine consiste nel fatto che
contengono le parole e le reazioni dell’Allamano «nella vita di ogni giorno».
Non l’Allamano delle conferenze o delle lettere, ma nei suoi interventi in
situazioni concrete della vita, diverse l’una dall’altra e quindi spontanee. In
definitiva un Allamano immediato  proprio
come era nella vita ordinaria.

Proporrò queste parole, riferite dai testimoni e poco
conosciute, attraverso dei fatterelli e facendo notare come l’Allamano li seppe
vivere e interpretare. Le sue parole collegate a questi episodi sono quelle che
i testimoni riferirono avendole udite direttamente da lui.

Al Paese

Il primo tema che propongo riguarda Castelnuovo, suo paese natale, oggi
detto il paese dei santi (Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Giuseppe Allamano).
Sono quattro fatterelli che dimostrano la sua semplicità umana e la sua
ricchezza interiore.

Il primo fatto
tocca la sua vocazione al sacerdozio a proposito della quale l’Allamano seppe
dare la giusta importanza ad un dettaglio della sua infanzia. Un giorno, il
parroco e il sindaco del paese capitarono a casa sua a visitare la mamma.
Avendolo visto lì in cucina, piuttosto timido, domandarono alla mamma: «Che
cosa facciamo di questo ragazzo?». La risposta di quella saggia donna dimostra
che conosceva di quale stoffa era fatto il figlio: «Gli lascio fare quello che
vorrà», rispose. Il parroco, che stimava il ragazzo, non si accontentò: «Non lo
sprechi; lo faccia studiare».

Un fatto così
semplice poteva passare inosservato, ma non per l’Allamano, che fin da ragazzo
sapeva rendersi conto della presenza di Dio nella propria vita.

Ecco il suo
commento, confidato anni dopo ad un suo missionario: «Se non fossero passati da
casa mia il sindaco e il parroco, forse non avrei seguito la vocazione». Sembra
che abbia voluto dire: «È stata la Provvidenza a mandarli a casa mia proprio
quel giorno, quando io ero in cucina con la mamma, che così fu convinta e mi
mandò a studiare a Valdocco da Don Bosco».

Un secondo
fatterello riguarda il suo rapporto proprio con la mamma, quella «santa donna»,
come lui la chiamava, alla quale era molto legato, particolarmente durante gli
anni di una lunga malattia che la portò alla cecità e alla totale sordità. La
mamma era la sorella di Giuseppe Cafasso, morto in concetto di santità. Per
ottenere la guarigione, sicuramente il figlio, affezionato, l’avrà raccomandata
all’intercessione dello zio. Riferendosi poi al fatto che non era stata
guarita, pur essendo sorella, si accontentò di questo bonario commento
confidato ad una suora missionaria: «I Santi non fanno le grazie ai parenti». Né
perse la sua fiducia nel Cafasso, del quale curò la causa presso la Santa Sede
fino alla beatificazione.

Il terzo fatto riguarda la sua
presenza a Castelnuovo. Dopo l’ordinazione, si recò al paese sempre più
raramente. Quando il cognato Giovanni Marchisio si ammalò, andò a trovarlo, ma
senza dilungarsi troppo. Lo raccontò così: «Sono stato a trovare mio cognato;
mi fermai poche ore; alle due ero ancora a Torino, alle sette avevo già finito
il viaggio. Da ben quindici anni non ero più stato a Castelnuovo».

Un ultimo
episodio piuttosto curioso. Al sacerdote don Pagliotti, suo penitente, saputo
che dedicava la nuova chiesa parrocchiale in Torino a S. Agnese, espresse la
sua soddisfazione aggiungendo questa confidenza: «I miei genitori avevano già
deciso, prima della mia nascita, di pormi il nome di Agnese… se fosse nata una
bambina. E poiché nacqui proprio il giorno di S. Agnese [21 gennaio 1851], mia
madre mi instillava gran devozione a questa cara martire, e alla sua protezione
ho pure riposto l’esito del gran passo dell’istituzione delle Missioni della
Consolata».

P. Francesco Pavese




Preghiera 20. La preghiera immerge nella presenza dell’Assente

 


Concludiamo la lettura di Mc 4,35-41, iniziata nella puntata precedente (MC n. 11, nov 2018).


Testo di Paolo Farinella, prete


Mc 4,37
Allora sopraggiunse una forte tempesta di vento; le onde si scagliavano contro la barca tanto che ormai era piena.

Si pone il problema della presenza di Dio che il nostro ateismo religioso semplifica nella convinzione che Dio debba intervenire come un orologiaio ad aggiustare le cose della natura, gli errori o le malvagità degli uomini. Quando diciamo: se Dio è Padre (se è buono, se è onnipotente, ecc.), non dovrebbe permettere questo o quello (dolore, sofferenza, cataclismi, ecc.), non siamo consapevoli della bestemmia che proferiamo, bisognosi come siamo di un «dio-jukebox» pronto a cantare la canzone che vogliamo, pigiando un tasto. La presenza di Dio nella barca della vita e della Chiesa non ci risparmia la fatica del cammino personale lungo la nostra storia e il nostro percorso di maturazione con il lavoro che comporta e le regole insite nella vita stessa che è vita «umana», cioè limitata, caduca, mortale.
Essere cristiani non ci mette al riparo dalle tempeste e dalle bufere che ci sovrastano.

Sullo sfondo di questo racconto c’è quello di Giona che scappa da Dio perché non accetta che egli sia «salvatore» dei pagani e si mette a dormire nella stiva (cfr. Gio 1,5) scatenando così una grande tempesta che solo l’ammissione della colpa farà cessare. I credenti rinnegano il loro Dio quando ne vogliono limitare l’anelito universale di salvezza. Nel racconto del Vangelo la colpa della tempesta è determinata dall’incredulità degli apostoli (cfr. Mc 4,40-41) che vorrebbero impedire a Gesù di andare verso i pagani. È lo stesso atteggiamento che moltissimi cosiddetti credenti hanno verso gli immigrati, i poveri del Sud del mondo che vengono, novelli «Lazzari», a mendicare le briciole delle nostre mense (cfr. Lc 16,21) e che assumono la forma della nuova Nìnive, da cui anche noi scappiamo, pensando forse che il Dio di Gesù debba tutelare solo noi, abbandonando gli altri alla deriva, nel cuore della tempesta della povertà.

«12Cristo Gesù: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. 13Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza. 14Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: 15“Colui che raccolse molto non abbondò,
e colui che raccolse poco non ebbe di meno”»
(2Cor 8,12-15).

Al di fuori della logica dell’agàp?, sacramento primo del riconoscimento dell’altro e dell’accoglienza, ogni discorso religioso è un gargarismo vacuo. La tempesta è un’opposizione all’ordine di Gesù: «Passiamo all’altra riva». I Giudei che si ritengono superiori ai pagani non vogliono mischiarsi con essi. In termini moderni è l’aberrazione della civiltà occidentale che si crede superiore alle altre e di alcuni, anche religiosi, che pretendono che Dio s’identifichi con essa. Se così fosse, il Dio di Gesù Cristo rimarrebbe ancora nell’ambito della concezione territoriale o nazionalista: il Dio di una parte, non il «Padre nostro», cioè di tutta la famiglia dei popoli della terra.

Mc 4,38a
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.

Il versetto è drammatico per due motivi: mentre tutto attorno parla di paura e di pericolo mortale, l’evangelista sottolinea il contrasto di un Gesù che se ne sta a poppa, cioè in fondo alla barca, dietro a tutti. E non solo, ma indifferente e disinteressato a quanto accade, se ne sta anche «sul cuscino», che è un non senso in questo contesto. Una barca di pescatori non ha un cuscino per riposare comodi: la barca è sporca, piena di salsedine e nessuno vi porterebbe un cuscino. Poiché è inverosimile, bisogna fermarsi e interrogarsi sul suo senso «nascosto». L’evangelista vuole esprimere qualcosa che probabilmente ha ricevuto dalla tradizione orale, un significato importante. Cuscino (gr. proskefàlaion, lett. capezzale/guanciale/cuscino) è un termine che indica ciò che si mette sotto la testa di un defunto (cfr. Lisia, XII,18).

Detto così, il cuscino e il sonno di Gesù sono un riferimento anticipato alla sua morte e alla sua lontananza: verrà veramente un giorno in cui Gesù non ci sarà più fisicamente e regnerà l’angoscia della persecuzione: «Ancora un poco e non mi vedrete più» (Gv 16,16-20, qui 16).

L’episodio è un’evidente riflessione post pasquale, quando la prima comunità cristiana si interroga su come Gesù, assente fisicamente, possa essere presente nella storia. Come a dire: il Signore è morto, se n’è andato, noi siamo soli in balia delle onde: chi ci salverà? Perché il Signore ci abbandona e non interviene? È il dramma che si consuma sempre nella storia, specialmente nel sec. XX, che ha visto i genocidi pensati scientificamente, la shoàh programmata in ogni particolare. In tutto questo dov’era Dio? Con una formula a effetto si parla di «silenzio di Dio». Già nel capitolo 4, l’evangelista ci mette in guardia sul fatto che andare dietro a Gesù non è una passeggiata, ma un cammino verso la morte e la morte violenta (tempesta). Qui è anche la prova che la vita di Gesù descritta nei vangeli, è illuminata costantemente, a posteriori, dalla luce della Pasqua: morte e risurrezione, che ci vengono offerte come le chiavi per entrare nella dinamica del pensiero di Dio.

Mc 4,38b
Allora lo svegliano e gli dicono: «Maestro, non t’importa che moriamo?».

Il testo greco usa il verbo al presente che dona vivacità e contemporaneità all’azione: «Lo svegliano» (gr. eghèirousin, lett. lo risorgono). Si potrebbe anche tradurre con un drammatico: «Continuano a svegliarlo». Non è sufficiente per loro la presenza assente del Signore, essi lo vogliono vedere all’opera e quindi non si rassegnano alla sua morte. Gli apostoli sembrano dire: come facciamo adesso che tu non ci sei? È un’accusa a Dio di non occuparsi di loro, di lasciarli soli: essi esprimono un senso materialistico della fede. Il versetto dice la fatica che vissero i discepoli nel loro cammino di fede prima di interiorizzare la risurrezione e la presenza di Gesù come dinamica delle proprie responsabilità. Solo dopo la Pasqua con l’irruzione dello Spirito Santo, capiranno di essere responsabili dell’«Assenza-Presenza» del Signore attraverso il sacramento o magistero della testimonianza.

Mc 4,39a
Dopo essersi svegliato, intimò al vento e disse al mare: «Silenzio!/Sta’ zitto!».

Gesù deve risorgere perché i suoi apostoli non sono in grado di reggere la sua morte: sono perduti. Egli deve svegliarsi dal sonno della morte e riprendere in mano la situazione per ristabilire i confini della competenza di Dio e quelli della natura. «Intimò» (da epitimà? – io intimo/minaccio) è un verbo che nella LXX è riservato all’autorità con cui Dio domina le forze negative (Sal 9,6; 67/66,31; 105/104,9; 118/117,21), mentre nel Nt, Gesù lo utilizza negli esorcismi contro le forze del maligno che dominano l’uomo (cfr. Mc 1,25 per l’uomo posseduto e Mc 3,12 per gli spiriti impuri). Il mare è sede degli spiriti malvagi ed è dominato da Gesù che assume su di sé la potenza creatrice di Dio: «Silenzio! Sta’ zitto!». Il verbo greco siôpà?, usato qui all’imperativo «(fa) silenzio/taci!», in Mc 3,4 indica il silenzio ostinato dei farisei: «Essi rimasero in silenzio», un silenzio nemico, ostile, oppositore, un silenzio che è premessa di morte. Il silenzio che impone Gesù è invece quello del suddito che deve obbedienza al suo signore.

Mc 4,39b
Il vento cessò e sopraggiunse una grande calma.

Alla parola autorevole di Gesù corrisponde un fatto: «Il vento cessò». Gesù domina le acque come Yhwh dominò il Mare Rosso (cfr. Es 14,15-31), come il Creatore dominò gli abissi e regolò e rinchiuse entro i confini prestabiliti le acque delle origini (cfr. Gen 1). Gen 1 ha lo stesso schema: «Dio disse …. E così fu!» (Gen 1,3.6-7.9.11.14-16.20-21.24.26-27.29-30). Anche Gesù ordina, intima, comanda e così avviene. Gesù è il senso nuovo del creato e con lui l’ordine della creazione è ristabilito per essere riportato al suo «principio» e al suo fine. Dio non è la risposta ai nostri bisogni; egli è la prospettiva del nostro senso, la direzione del nostro obiettivo esistenziale.

Mc 4,40
Poi disse loro: «Perché siete codardi?
Ancora non avete fede?».

Il termine greco dèilos significa meschino/codardo e indica chi non osa affrontare il nemico (cfr. Dt 20,8; Gdc 7,3; Sir 22,18; Sap 9,14-15). Non basta stare fisicamente con il Signore per avere il coraggio della lotta o vivere un impegno di fede. Si può essere specialisti di Dio, praticanti di molta religione, si possono fare indigestioni di preghiere precostituite, si può passare la vita a imparare a memoria la Bibbia, si può essere specialisti di essa, ma si può anche restare del tutto privi di fede perché fuori dalla prospettiva di Dio e dalla sua logica. Si può essere preti, frati, monaci, monache, vescovi e papi ed essere tecnicamente religiosi, ma sostanzialmente atei. La fede non è uno stato o un accredito, ma un impegno da assolvere e da condividere; non è la conseguenza di un miracolo, ma la premessa di un incontro che la rafforza e la semplifica: avere fede è una questione di cuore perché il cuore ha l’intelligenza della volontà e della ragione (cfr. Lc 24,25.32). Si crede perché si vuole intraprendere un cammino di vita che può solo essere un’avventura d’amore.

Mc 4,41a
E li prese un enorme timore e si dicevano l’un l’altro…

È la stessa paura dei marinai di Giona (cfr. Gn 1,16). È lo stesso stupore e timore degli abitanti di Cafàrnao di fronte alla guarigione dell’indemoniato (cfr. Mc 1,27) o del paralitico (cfr. Mc 2,12). È lo stesso timore e stupore che popola la vita dei discepoli, confermati dopo la risurrezione a superare ogni forma di timore: «Io-Sono. Non abbiate paura!» (Gv 6,20; cfr. Mt 28,5.10). Se fosse vero che crediamo in Dio, nulla e nessuno ci potrebbe smuovere di un solo millimetro dalla trasparenza della testimonianza che non può conoscere né paura né coraggio perché essa esige solo che siamo noi stessi. Sempre. Ovunque.

Mc 4,41b
«Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?».

È la stessa domanda che si pongono i presenti all’esorcismo dell’indemoniato: «Chi è mai questo? … Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (cfr. Mc 1,27). Per conoscere «chi è» Gesù non basta stare con lui e condividerne la vita (cfr. Gv 1,39), è necessario partecipare alla sua azione liberatrice. Per stare con Gesù bisogna essere e agire come lui. I preti sono soliti dire di essere «alter Christus», ma solo in riferimento all’aspetto sacerdotale-eucaristico: «Un altro Cristo», perché il prete consacra il pane. Che povera teologia, quella che riduce la questione dell’identità a un solo aspetto per mettere in sicurezza il prete dalle commistioni col mondo e con la vita reale degli uomini. Questa teologia è servita per condannare i preti-operai col divieto di fare lavori manuali o di vivere la vita dei propri contemporanei, solo perché «le sue mani sono consacrate» (anni ’50-’60 del sec. XX). Oppure per giustificare la gestione «monarchica» del prete nella pastorale e nell’economia. In questo c’è un abisso tra la «singolarità» di Gesù e la nostra stupidità che cerca ogni mezzo per distinguersi dal Gesù della storia a vantaggio di un Gesù addomesticato e, diciamola tutta, all’occorrenza molto comodo perché inoffensivo.

Somigliare a Gesù Cristo, o meglio essere «come lui», significa farsi carico della croce della sofferenza del mondo, diventare cirenei dei poveri della terra e assumere l’annunzio di liberazione del Vangelo per combattere ogni forma di ingiustizia e disuguaglianza per impiantare l’inizio del regno di Dio che ha diritto di cominciare sulla terra per estendersi fino ai confini dell’eternità. Imitare Cristo significa decidere di voler morire per la salvezza e la liberazione dell’umanità che oggi è martoriata, rifiutata e crocifissa nei migranti, carne di Dio vilipesa. Bisogna pescare nel pozzo profondo del proprio essere e divenire una cosa sola con lui che non perde mai di vista il senso della sua vita e non ha paura di sporcarsi le mani.

Conclusione

Nell’intervento di Gesù notiamo che egli prima agisce per ristabilire l’ordine e la calma e poi parla ai discepoli e li rimprovera. Non basta recriminare – specialmente a caldo – bisogna creare le condizioni per una vita reale. Un secondo elemento è dato dalla personificazione degli elementi della tempesta: il vento e il mare ai quali Gesù parla sono descritti come se fossero persone. Ciò ci fa supporre fondatamente che il racconto sia da leggersi in modo figurato anche perché Mc usa lo stesso termine per descrivere il silenzio ostile dei farisei (cf Mc 3,4). I farisei anteponevano la struttura «religione» alla persona: l’osservanza materiale della Toràh prima di ogni cosa. Allo stesso modo il popolo ebraico e i primi cristiani non immaginavano che anche i pagani potessero accedere alla salvezza con gli stessi diritti e le stesse prerogative. Gli apostoli, da veri ebrei religiosi, sono sulla stessa linea.

Con questo racconto simbolico, post pasquale, scritto quando già Paolo aveva evangelizzato i pagani della Turchia e della Grecia, l’evangelista ci presenta il vento/pnèuma come parallelo dello spirito impuro che si è impossessato dei discepoli, la cui mentalità ristretta e chiusa provoca la reazione del mare, simbolo del mondo pagano. Gesù usa una forza veemente solo nei confronti del vento: «Silenzio!/Sta’ zitto», invece al mare Gesù non fa alcun rimprovero o intimazione. Il testo greco annota solo che «disse al mare»: cioè sollecita i popoli pagani a calmarsi perché egli ha messo il vento al suo posto. È come se l’evangelista volesse informare le nazioni pagane che la reazione del vento non gli appartiene perché il suo messaggio è universale, senza confini, aperto a tutti, senza esclusione di alcuno. In fondo credere non è difficile: basta lasciarsi amare e prendere in carico da qualcuno che ne abbia voglia e desiderio. Per questo bisogna invocarlo e chiederlo nella preghiera. Questo è il senso ultimo dell’Eucaristia: prendere coscienza che Dio si prende cura di noi per avere la forza di prenderci cura degli altri.

Per la lettura personale. In tutto il brano, riletto ancora una volta a livello del cuore, scelgo un elemento o un personaggio che corrisponde alla mia situazione (discepoli, Gesù, barca, vento, mare, paura, ecc.) e mi metto a confronto. Chi sono io? Chi è Gesù per me? È il perno portante della mia vita o un corollario di seconda scelta?

Signore, sono qui, non ho nulla per te, se non me stesso, so che tu mi accetti come sono e che mi trasformi come devo essere senza violentarmi, senza prevaricare. Mi abbandono a te perché mi fido, sapendo che la mia fiducia, riposta sul cuscino della tua Presenza, accompagna il mio cammino nella vita e nella morte per una esistenza di pienezza che vale la pena vivere.

 

Cielo da casa Gabry


Alle lettrici e ai lettori di MC

Con questa puntata si chiude la mia collaborazione con la rivista, iniziata a febbraio 2005, 13 anni completi. Ricordo come fosse oggi quando il redattore Paolo Moiola inventò la rubrica «Così sta scritto», appositamente per me, e l’entusiasmo di padre Benedetto Bellesi che non solo accettò, ma volle che fosse una rubrica biblica «e di esegesi», lui che ogni giorno pregava con il vangelo greco. Alla sua morte, vissuta con grande testimonianza cristiana, alla direzione di MC gli succedette padre Gigi Anataloni, che ha sempre avuto benevolenza nei miei riguardi, facendomi a volte anche da scudo. A loro voglio bene e restano amici del cuore.

Alle lettrici e ai lettori di MC sono particolarmente grato perché mi hanno costretto a pensare e a scrivere dal loro punto di vista, con un linguaggio semplice e mai ricercato, almeno nell’intenzione. Ho vissuto la responsabilità di entrare nelle loro case e nelle loro letture con «timore e tremore», senza per altro mai venire meno al mio dovere d’integrità e di fedeltà alla Scrittura. Tutti ogni giorno sono stati e continueranno a essere presenti nel mio cuore e nella mia preghiera perché non si può condividere la Parola per 13 anni e poi fare finta di niente.

La decisione di interrompere la mia collaborazione è stata condivisa con la redazione di MC per due semplici motivi.

  • Ho detto loro che le lettrici e i lettori di MC avevano il diritto di sentire altre voci, altri stili, altri metodi, anche come segno interiore di rispetto e di amore verso di loro, in totale spirito di servizio.
  • Il secondo motivo è la mia salute che da tempo è barcollante: è necessario che riduca gl’impegni e inizi a prepararmi all’esodo verso quel regno di Dio che è già cominciato con Gesù e di cui sono sempre stato strenuo annunciatore.

So che hanno cercato e trovato un altro biblista, che, sono sicuro, saprà meglio di me essere in sintonia con la Parola e con il meraviglioso pubblico di MC. A lui il mio affetto e la mia gratitudine, anche senza conoscerlo, perché sia che spieghiamo sia che leggiamo, siamo tutti figli e servi della Parola che si fa storia in e tra di noi. Continuerò a leggere la Rivista per sentirmi a casa e respirare l’afflato mondiale, «cattolico», che MC sa dare in modo eminente. È una bella rivista, tra le più belle esistenti, che vale la pena «lasciare in eredità» a chi viene dopo di noi perché ci permette di non ripiegarci su di noi, ma di respirare con i polmoni della Chiesa del Vangelo: il respiro del mondo, il respiro di Dio. Se volete fare un vero regalo a figli e nipoti regalate loro MC che li fa viaggiare nel mondo con una informazione di prima mano e di rilievo.

Nell’augurarvi un Natale nel segno dell’incarnazione, un abbraccio affettuoso, garante, ogni giorno, della mia preghiera, specialmente nell’Eucaristia, con e per voi come per le persone che amate. A tutti con immenso affetto,

Paolo Farinella, prete,
grato per la vostra pazienza. [La Preghiera-20 – FINE]

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Indagine sulla maternità surrogata


Le attuali conoscenze scientifiche dicono che il rischio di conseguenze psichiatriche sulla madre surrogata e sul bambino è elevato. È difficile sostenere la tesi che avere dei figli sia un diritto. È altrettanto difficile non considerare la maternità surrogata come una particolare forma di sfruttamento della povertà. Per ora la sola e indiscussa certezza è che la pratica si è trasformata in un enorme affare.


Testo di Rosanna Novara Topino


In Italia le tecniche di Procreazione medicalmente assistita (Pma) restano precluse alle coppie omosessuali, ai single e alle mamme-nonne. Sono inoltre vietate la fecondazione post-mortem, cioè l’utilizzazione dei gameti del marito o compagno deceduto e l’utilizzazione degli embrioni a scopo di ricerca (permessa invece dal 2016 in Gran Bretagna). Peraltro il Tribunale di Milano, con una sentenza del 15 ottobre 2013 che riguardava un caso di surrogazione di maternità richiesta da una coppia italiana in Ucraina, stabilì che doveva escludersi la consumazione del delitto, da parte della coppia italiana, di falsa dichiarazione di maternità poiché l’atto di nascita del figlio era conforme alla lex loci, che in Ucraina impone il riconoscimento dello status di madre alla madre sociale (la committente) e non alla madre surrogata (cioè della gestante) o alla madre biologica (cioè della donatrice degli ovuli). Per quanto riguarda le coppie omosessuali, che hanno avuto un figlio mediante maternità surrogata all’estero, attualmente in Italia il figlio viene registrato a nome di un unico genitore, come genitore single. Non è infatti passata la proposta di legge della stepchild adoption, che prevede il riconoscimento, come genitore adottivo, del compagno di un genitore biologico. Va detto che il Tribunale di Roma, la Corte d’Appello di Torino e la Corte di Cassazione hanno più volte concesso la stepchild adoption ai partner dei genitori biologici, nell’ambito di coppie omosessuali, sottolineando la preminenza dell’interesse del minore rispetto a qualsiasi altro interesse dello stato.

(Arizona reproductive institute / iStock)

Affari e turismo riproduttivo

Nei paesi in cui è consentita la surrogazione della maternità, essa si è ben presto trasformata in un enorme giro d’affari. Negli Stati Uniti esistono oltre 400 cliniche dedicate. Le donne single o le coppie lesbiche possono scegliere su internet gli spermatozoi in base alle caratteristiche genetiche, al quoziente intellettivo e al carattere del donatore. L’acquisto viene recapitato dai corrieri in una notte, per cui si parla di overnight-male, cioè di «uomo di una notte». Gli ovociti di donne belle e intelligenti (spesso vengono messi annunci per cercarne sui giornali studenteschi universitari) arrivano a costare 50mila dollari. Naturalmente sono nate numerosissime agenzie specializzate nel far incontrare la domanda e l’offerta: forniscono le madri in affitto (che spesso possono essere scelte su catalogo), si occupano eventualmente della ricerca dei gameti se la coppia richiedente è sterile, delle visite mediche della futura gestante e della clinica in cui avverrà il parto e infine delle pratiche legali. Con un piccolo sovrapprezzo, di circa 250 dollari, è inoltre possibile scegliere il sesso del nascituro.

Naturalmente l’acquisto di gameti, il pagamento delle madri in affitto e tutte le spese mediche, assicurative, legali, di sostegno psicologico per la gestante che dovrà poi cedere il neonato alla coppia committente, sono a carico di chi richiede la Gestazione per altri (Gpa), quindi è evidente che il presunto «diritto alla procreazione», sbandierato da chi sostiene questa pratica, è senza alcun dubbio un privilegio per persone o coppie facoltose, che molto spesso alimentano il turismo riproduttivo per recarsi dai paesi come il nostro, dove la Gpa è vietata, in quelli dove tutto è permesso. In California nel 2010 sono nati 1.400 bambini con maternità surrogata, metà dei quali richiesti da coppie straniere, mentre in India, dove sono attive oltre 3.000 cliniche, nascono oltre 1.500 bambini l’anno con Gpa, un terzo dei quali per coppie straniere. In Ucraina nel 2011 sono state portate a termine con Gpa 120 gravidanze, ma il numero reale potrebbe essere più elevato.

Sfruttamento della povertà

(laboratorio_Instituto Ingenes, Mexico)

Non c’è dubbio che la maternità surrogata sia una particolare forma di sfruttamento della povertà da parte di persone facoltose. Basti pensare a cosa prevedono i contratti di maternità surrogata: la donna che si presta per la gravidanza deve rinunciare a ogni diritto sul bambino, deve acconsentire all’aborto in caso di malformazione, deve essere disponibile a fornire il proprio latte dopo il parto e deve pagare delle penali se non rispetta gli standard sanitari richiesti. In alcuni stati, come la Thailandia, i committenti possono rifiutare il figlio con una malattia o un handicap, come capitato nel 2014: una coppia australiana committente di due gemelli ne rifiutò uno, nato Down e con una grave patologia cardiaca.

In realtà, secondo i risultati di alcune ricerche scientifiche, la maternità surrogata è un’autentica violenza perpetrata sia alle madri surrogate che ai figli.

Le madri surrogate, infatti, per favorire l’impianto degli embrioni, devono essere sottoposte a ingenti dosi di ormoni, che ne possono pregiudicare la salute. Oltre a questo bisogna considerare che, secondo una ricerca condotta da neuroscienziati dell’Università autonoma di Barcellona e pubblicata su Nature Neuroscience, i cambiamenti ormonali che avvengono in gravidanza modificano la struttura cerebrale della madre, riducendo per un lungo periodo di tempo il volume di alcune specifiche regioni cerebrali deputate alla cognizione sociale e funzionali alla focalizzazione della madre sul figlio. Si tratta della rete neurale associata alla teoria della mente, cioè la capacità di attribuire stati mentali (pensieri, sentimenti, intenzioni, desideri) a sé stessi e agli altri. In alcune di queste regioni si verificherebbe, durante la gravidanza, un aumento dell’attività neuronale, che rende le madri particolarmente sensibili alle immagini dei propri neonati, molto più che a quelle di altri bambini. Nel cervello dei futuri padri, secondo questa ricerca, non si verifica niente di analogo. Questi risultati ci fanno intuire quale violenza ci sia nella richiesta a una donna di cedere il proprio neonato alla coppia committente e, nel contempo, fanno pensare che una coppia di omosessuali maschi oppure un uomo single siano forse meno adeguati ad allevare il proprio figlio, senza la presenza materna.

Un’altra ricerca, condotta da studiosi della Stanford University e pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha rivelato che per tutti i bambini, la voce della madre rappresenta una fonte importante di comfort emotivo, grazie alla complessa interazione tra diverse regioni cerebrali. Il feto sente la voce della madre mentre si trova in utero e, dopo la nascita, rappresenterà una costante nell’ambiente uditivo del bambino per tutta la fase del suo sviluppo. Essa inoltre accompagnerà molte delle informazioni fondamentali per il comportamento e l’apprendimento del piccolo. Durante l’ascolto della voce della propria madre, nel cervello dei bambini si attivano regioni che elaborano le informazioni uditive e le emozioni, le regioni che rilevano gli stimoli di ricompensa e li elaborano, le regioni che elaborano le informazioni sul sé e le aree che sono coinvolte nella percezione ed elaborazione dei visi. È chiaro che privare un bimbo della propria madre, sia pure surrogata, per farlo crescere con un single o una coppia di gay equivale a renderlo di fatto orfano di madre.

Conseguenze psichiatriche

Secondo le attuali conoscenze in campo psicanalitico e psichiatrico, la maternità surrogata è una pratica ad altissimo rischio di gravi patologie sia per la madre surrogata che per il bambino. L’osservazione del comportamento dei lattanti separati dalla madre che li ha portati in grembo e dei loro vissuti da adulti ha evidenziato la presenza di un grave trauma infantile. Il dialogo sensoriale ed emotivo fra madre e feto infatti si instaura durante la gravidanza, per cui, anche nel caso di maternità surrogata, si forma un vero e proprio legame madre-figlio. Inoltre, secondo le moderne teorie sull’epigenetica, l’espressività genetica viene modulata dall’ambiente che per il feto è rappresentato dalla madre che lo porta in grembo. Esperimenti condotti su animali hanno dimostrato che le madri e i cuccioli si riconoscono immediatamente dall’odore e dai suoni emessi, in linea con le ricerche sopra citate ed effettuate in campo umano. Cambiare la figura di riferimento, che per il neonato è soltanto la propria madre, può risultare pericoloso per la sua integrità psichica. Oltre a questo bisogna considerare le ripercussioni psichiche sulle donne, che hanno ceduto i figli portati in grembo. Spesso si verificano patologie psichiatriche di natura depressiva, che possono portare al suicidio. Un figlio ottenuto mediante maternità surrogata, una volta diventato adulto e venuto a conoscenza della sua reale origine, potrebbe vedere nei genitori sociali o biologici quasi degli aguzzini, nei confronti della propria madre surrogata.

L’assenza di una figura paterna, nel caso di figli di donne single o di coppie lesbiche, può avere ripercussioni altrettanto gravi, perché, secondo gli psichiatri, la figura paterna aiuta il bambino a comprendere le abilità sociali necessarie a vivere nel mondo esterno, nonché il senso del limite e del controllo. Inoltre la figura paterna aiuta a sostenere la frustrazione e a costruire l’autostima. L’assenza del padre determina un notevole senso di vulnerabilità, che può dare luogo a pensieri catastrofici riguardanti determinati accadimenti o la propria salute (con il rischio di cadere nell’ipocondria).

I sostenitori della gestazione per altri, della stepchild adoption o della genitorialità dei single dovrebbero seriamente prendere in considerazione i risultati di studi come quelli appena citati e ricordare che avere dei genitori è un diritto, mentre avere dei figli non lo è mai stato. In realtà al loro figlio mancherà per sempre un genitore.

Rosanna Novara Topino
(seconda puntata – fine)