Cari missionari, lettere a MC


Messaggi alienanti?

Gent. direttore
riportare su una rivista missionaria ciò che il sito Raiawadunia, curato dal comunista Montanaro (che ho letto anch’io), gestito da gente che non ha mai fatto niente per gli internati veri dei gulag sovietici, non quelli fasulli girati da blogger nigeriani guarda caso, è alienante. Se fosse vero che Scaroni ha dato tanti milioni per sondare l’esplorazione di greggio in Nigeria, perché il governo non li ha impiegati per far lavorare i maschi nigeriani? In fondo gli africani reclamano tasse per far usare il loro territorio alle multinazionali e questa non è una tassa? Uno stato è libero di chiamare chi vuole o lo devono fare solo le multinazionali americane e olandesi? Che il franco Cfa sia una convenzione vecchia lo sapevano solo gli addetti ai lavori e non le brave persone del parlamento europeo che hanno sfruttato e sfruttano l’Africa senza pagare nulla vedi Belgio nel Congo, ecc. Che questo giornale riduca la sua missione a scagliarsi contro questo governo lo trovo per nulla cristiano. Ogni stato ha diritto di accogliere chi vuole, inoltre con tutto il denaro che viene dato ai governi africani e le ricchezze del loro territorio, dovrebbero essere gli europei ad andare in Africa e non viceversa. L’Italia ha sempre avuto una sola grande ricchezza: la volontà di lavorare. E non dimentichiamo che il cristianesimo ha fondato l’Europa diventata lurida per colpa di atei, protestanti, calvinisti e banche e di finti cattolici che cadono nelle trappole dei relativisti. Riguardate le visioni di Leone XIII e le parole di Pio IX. Saluti.

Emiliano Errico
20/03/2019

Caro sig. Emiliano,
questo direttore o qualche giornalista di MC a volte segnalano su MC(e sullla sua pagina FB) anche degli articoli di Raiawadunia perché trovano che sono ben fatti e documentati. Grazie di avermi dato l’occasione di approfondire chi è Silvestro Montanaro che non conoscevo. I gulag della Libia non sono frutto della fantasia di blogger nigeriani, ma realtà ben documentate da rapporti dell’Onu e aggravatesi ancor prima di questo governo dopo la sciagurata campagna euroamericana contro Gheddafi interessata più a mantenere i nostri privilegi che al bene di quella gente.

I soldi che le multinazionali (petrolifere e non) investono in Africa putroppo non vanno nelle casse di quei paesi, ma nelle tasche dei corrotti per poter portare via a prezzi irrisori le materie prime che interessano al nostro sistema industriale e produttivo. È grazie a questa corruzione che si mantengono dittatori e oligarchie che rimpinguano le proprie casse a spese della loro gente e chiudono gli occhi di fronte ad abusi come smaltimento di rifiuti tossici, estrazione del petrolio e altre risorse energetiche, del coltan e altri minerali strategici (vedi articolo a pag. 12) , disboscamento dissennato di foreste e land grabbing. Questo rende possibile il furto sistematico di risorse strategiche pagate all’Africa «noccioline» in confronto al loro reale valore di mercato. Un esempio: il coltan sul mercato vale almeno 100$ al chilo, mentre ai minatori vanno solo 18 centesimi.

Questa rivista non si scaglia contro il governo, che rispetta come istituzione legittima e necessaria della nostra nazione. L’essere critici di comportamenti, decisioni ed esternazioni di alcuni dei nostri governanti fa parte del nostro diritto di cittadini di questo paese che, grazie a Dio, non è una dittatura ma una democrazia.

Che poi un paese abbia il diritto e dovere di vegliare su chi entra e chi esce, non è in discussione. È anche vero però che un paese non è isolato e come tale accetta tradizioni, usanze e leggi di valore universale codificate da trattati e convenzioni internazionali che sono fatte per proteggere le persone, non per dividere il mondo in buoni e cattivi, amici e nemici.

Denaro dato ai governi africani. Questo riporta a quanto già detto sopra per le multinazionali. Le statistiche dicono impietosamente che quanto abbiamo preso e prendiamo
(italiani, europei, americani, russi e cinesi) dall’Africa è molto ma molto di più di quello che diamo come contributo allo sviluppo, che spesso è ben al di sotto dei parametri che noi stessi ci siamo dati (dovrebbe essere almeno lo 0,7% del Pil di ogni paese; l’Italia dà il 0,26%). Basterebbe che pagassimo all’Africa il prezzo giusto delle materie prime che là prediamo e non ci sarebbe bisogno di alcun aiuto. In realtà oggi è l’Africa che aiuta noi e ci permette di mantenere il nostro livello di vita, e non noi che aiutiamo l’Africa.

Italiani grandi lavoratori. Non metto in discussione questo mantra. Probabilmente è stata questa voglia di lavorare che ha portato milioni di italiani a emigrare nelle Americhe e nei paesi del Nord Europa. O forse sono state anche le guerre. Cinque milioni sono emigrati dal Sud Italia dopo la cosiddetta unificazione. Milioni sono partiti dopo la vittoria della prima guerra mondiale. Altri milioni dopo la seconda. Oggi se ne vanno a decine di migliaia a causa della crisi economica che attanaglia il paese.

Non entro nel merito delle cosiddette radici cristiane dell’Europa, ma dopo papa Leone XIII e papa Pio IX abbiamo avuto molti altri papi e perfino un Concilio ecumenico.

Forse anche leggere criticamente Raiawadunia (che in swahili vuol dire «cittadino del mondo») può aiutare a disintossicarci da un’informazione a senso unico che ci lava il cervello e non ci aiuta a pensare.


Qualche riflessione

Buongiorno padre Gigi,
MC di marzo, appena ricevuto, mi offre l’opportunità di alcune riflessioni, nonché l’invio di un paio di testimonianze raccolte nel mio lungo peregrinare per il mondo alla ricerca di usi, costumi, tradizioni diverse, ma soprattutto di nuovi contatti umani.

Rinnovi e cancellazioni. Condivido pienamente il suo consiglio al signore che preferisce destinare i suoi aiuti a una fra le più conosciute (forse la più conosciuta) e reclamizzate Onlus. Nessuno mette in dubbio quanto questa organizzazione e altre che occupano stabilmente larghi spazi pubblicitari, facciano in positivo. Ma quando le percentuali sotto la voce «spese di rappresentanza» superano a volte il 70% qualche dubbio resta. E quando, viste le mie ripetute esperienze in terre di missione, qualcuno mi chiede consigli, rispondo di controllare sempre i bilanci (normalmente pubblicati) prima di dare il proprio contributo. Le spese non destinate all’obbietivo principale non dovrebbero mai superare il 15-20%.

Migrazioni, Viaggio della speranza.

Ho raccolto la testimonianza che riporto sotto in pieno deserto del Niger nel gennaio 2000 (19 anni fa), quando Gheddafi era ancora saldamente in sella e il sogno di una vita migliore in Europa era già diffuso nei paesi del Nord Africa, mentre da noi se ne parlava pochissimo. Per i politici italiani ed europei era un fenomeno irrilevante destinato a scomparire nel giro di poco tempo viste le difficoltà.

Come sempre, «avevano visto giusto».

© Mario Betrami

«Arriviamo in Libia, faccio un po’ di soldi e poi… via in Italia». Mi guarda e sorride Mohamed. Nei suoi occhi l’entusiasmo di chi sta per aprire un importante capitolo della sua vita, lasciando alle spalle un mondo che gli ha dato la vita, ma che non gli sa offrire i mezzi per continuarla. Dice di avere 18 anni, ma ne dimostra 16. Con lui, una trentina di giovani; suoi coetanei o poco più. Nei pressi, un vecchio autocarro di fabbricazione libica. È il loro Concorde, il loro treno, il loro autobus di linea.

Mohamed è uno dei tanti che lasciano l’Africa per il «viaggio della speranza». Lui è di qui. È nigerino. Ma, sulla pista che da Agadez porta a Bilma e a Dirkou, ne abbiamo incrociati parecchi di questi autocarri, sempre stracarichi, con giovani provenienti da altri stati di questa zona africana. Paesi anche non confinanti direttamente col Niger. Autocarri che, come autotrasportatori, fanno regolarmente la spola con la Libia. Mezzi già carichi di merce, su cui trovano posto 20-30 persone. In equilibrio precario. Appollaiate a grappoli. Aggrappate alle corde che reggono la merce, per non essere sbalzate fuori ogni 10 metri dalle enormi buche. In quelle condizioni viaggiano giorni e giorni. Allegramente. Senza lamentarsi. Tutto è accettato con filosofia africana, che non significa necessariamente rasse-
gnazione.

È solo un modo di vivere di chi, da generazioni, deve aspramente lottare per sopravvivere. Di chi ha la sofferenza come inseparabile compagna di viaggio. E non è che questa scomodissima tradotta venga regalata. È pagata profumatamente. La sola tratta Agadez-Libia costa circa 200mila lire (ca. 100 euro, ndr). E, per chi viene da altri paesi, la cifra è ben maggiore. Cifre spropositate per chi non ha di che vivere.

Arrivati in Libia, dicono, possono trovare qualcosa da fare. Ben pochi, però, hanno intenzione di fermarsi lì. La Libia sembra conceda una sorta di lasciapassare, di salvacondotto, per tentare poi il gran balzo verso l’Europa. L’Italia in particolare. Il paese dei loro sogni. La realizzazione dei loro progetti. La fine dei loro problemi.

È convinto Mohamed nel ribadirmelo in un più che accettabile francese. È l’unico del gruppo a parlarlo, anche se è la lingua ufficiale del Niger.

Stanno per ripartire. Non ho il coraggio di dirgli che, in Italia, le cose non stanno proprio così. Che non è così facile. Soprattutto per chi entra come clandestino. Sarebbe inutile. Sicuramente, non mi crederebbe. E, in ogni caso, il peggio che troverà da noi, potrebbe essere molto meglio di ciò che lascia qui.

Mario Beltrami
19/03/2019


Populismo?

Carissimo padre
ho letto il suo editoriale (agosto-settembre 2018) e sono molto perplesso sul suo contenuto.

Sono Veneto, faccio l’imprenditore, sono sposato con due figli. La nostra terra è sempre stata generosa, qui accogliamo tutti, non c’è alcun populismo, nessuna violenza o traccia di razzismo nei confronti delle persone di colore o verso altri extracomunitari. Anzi loro stessi si sono inseriti nella nostra cultura e sono sul libro paga di molti imprenditori come me che li pagano per il lavoro che fanno. Certo, ci sarà qualcuno che li sfrutta, spero pochissimi. Come facciamo a essere sicuri che tutti i nostri conterranei siano onesti? Se non lo sono non sarà certo per il colore della pelle, la disonestà non guarda al colore della pelle.

Il Veneto è una terra amministrata bene, che insieme alla Lombardia e al Piemonte ha contribuito a fare dell’Italia quella che è, un paese moderno per cui rammarica sentir parlare di populismo perché sappiamo che si parla di partiti politici fortemente radicati qui.

Ma le ripeto, il Veneto è amministrato bene, la sanità funziona, i trasporti funzionano, non è questo quello per cui aleggiano i politici? Venga qui da noi, a parte certe zone di degrado a Padova zona stazione, gli immigrati sono accolti, lavorano, pagano le tasse.

Detto questo, di cosa stiamo parlando quando si parla di populismo? Scandire con fermezza diritti e doveri non è il dovere di ogni buon padrone di casa? A presto

Carraro Francesco
08/03/2019

Caro sig. Carraro,
sono andato a rileggermi l’editoriale che lei cita.

    • Non ho accusato nessuna regione italiana né in particolare né in generale, anche se mi dispiace che proprio nelle regioni in cui sono nato e vissuto, oggi la voce più grossa la faccia una minoranza xenofoba nel silenzio di una maggioranza sana e generosa, ma confusa e un po’ impaurita.
    • Ho un grande rispetto e stima per chi si guadagna il pane col sudore della fronte e pratica la giustizia tirando avanti la carretta con fedeltà, amore e compassione nonostante le difficoltà. Sono queste le persone che rendono bella l’Italia.
    • Quanto alla maggiore o minore simpatia per questo governo, è chiaro che non condivido un modo di governare che si legittima con l’uso smodato di social, che è perennemente in campagna elettorale e usa un linguaggio perlomeno discutibile se non incitatore di odio e discriminazioni. Plaudo a quegli amministratori – come il sindaco di Riace – che davvero hanno a cuore il bene comune, sono attenti all’ambiente, a ogni persona e in particolare ai gruppi più deboli.
    • Scandire con fermezza diritti e doveri è più che giusto. Ma è sicuro che tutti i doveri siano davvero rispettati, anche quelli più onerosi, o invece si applicano solo quelli che fanno più comodo?
    • È vero che la disonestà non guarda il colore della pelle, ma spesso nei media questo è dimenticato e le persone vengono trattate con pesi e misure diverse. Prostituzione, caporalato, consumo di droga, abusi edilizi, evasione delle tasse, inquinamento dell’ambiente, corruzione… sono tutte «cose nostre», non ce le hanno portate i migranti che piuttosto ne sono diventati vittime o capri espiatori.

Non solo perdenti

Carissimo direttore,
ho letto con molto piacere su MC di marzo 2019, «4 chiacchiere con i perdenti» che mi ha stimolato ad inviare questi pensieri per richiamare il valore della memoria storica. Da sempre ne sono un cultore, non tanto per essere diventato «vecchio», ma perché nella memoria, come ricorda papa Francesco, ci sono le radici della nostra fede. Detto questo, voglio sottolineare perché mi ha molto colpito il suddetto articolo. Nel rileggere in questo periodo quaresimale un vecchio libro, «Vivere in Cristo» di Mario Corti S.J. (Edizioni La Civiltà Cattolica, 31/12/1951) nel capitolo «La preghiera è infallibile», a pag. 193 si legge: «Il 17 marzo 1649 tra torture inaudite, S. Gabriele Lallemant S.J., a trentanove anni, consumava l’olocausto della sua vita col martirio nel Canada. Appena caduto in terra, sfigurato con il capo spezzato dall’ultimo colpo di scure, un selvaggio gli spaccò il petto, ne estrasse il cuore palpitante, ne sorbì il sangue e lo divorò, certo di appropriarsi così dell’eroico coraggio del martire». Segue poi la descrizione del martirio così come è riportato fedelmente in MC da don Mario Bandera. Ecco, ho pensato «queste sono più di 4 chiacchiere con i perdenti», e non è solo pura coincidenza se ritroviamo, dopo quasi 70 anni, in un libro pur datato in molte parti per ragioni storiche (in quanto scritto prima del Concilio Vaticano II) dove viene richiamato il valore della preghiera. In questo senso richiamo il valore della memoria storica che ritrovo con piacere in «4 chiacchiere con i perdenti». Chiudo con un augurio a tutti i missionari ed un ringraziamento per don Paolo Farinella.

Pino Cadiani
28/03/2019


Mozambico: Ricardo

Il signor Ricardo è seduto in un angolo all’ombra, nella «Scuola industriale» di Tete, dove con sua moglie e i suoi 5 figli è alloggiato alla meglio con le altre 656 famiglie dopo la grave alluvione che ha colpito la nostra città di Tete, e i comuni di Doa, Mutarara, Angonia, Ikondezi. Ricardo aspetta che i funzionari della protezione civile distribuiscano il pranzo. Dopo una timida presentazione mi parla di sé e della sua storia.

Il suo terreno è lontano dal letto del fiume. Lo ha comprato e il comune lo ha autorizzato a costruire. La sua casa in mattoni aveva tre stanze e una sala grande, costruita con sudore e amore. Lui se la cava come falegname e idraulico. I bambini sono piccoli, il più grande frequenta la 6ª elementare, e la più piccola ha appena 5 giorni: è riuscito a portarli via dalla furia delle acque uno per uno, addormentati. Mezz’ora dopo ha visto la casa cadere, muro per muro, e le sue cose sparire sott’acqua. Letti, vestiti, cucina, frigorifero, sedie… tutto. «Non so come farò nel futuro».

Il caso di Ricardo è simile a quelli di centinaia di famiglie nella nostra diocesi di Tete, che ancora non sanno come e cosa faranno per alzarsi da questa tremenda disgrazia. Alcuni sono tornati alle loro terre, alloggiati in tende, altri ancora nella Scuola industriale; tutti aspettano che il governo assegni loro un terreno in un luogo più sicuro, ma con il timore si essere portati lontano da scuole e ambulatori.

Tutto è iniziato nella notte tra il 7 l’8 di marzo scorso. Le abbondanti piogge cadute nei comuni dell’altopiano di Tsangano e Angónia, dove hanno distrutto campi, villaggi, scuole e sei chiese, si sono riversate sul fiume Rowubwe, a marzo normalmente secco e senza un filo d’acqua. Il Rowubwe, non riuscendo a defluire nel fiume Zambesi già in piena, ha invaso  in poco tempo villaggi e campi, in un crescendo violento e drammatico.

Si parla di una trentina di morti accertati, ma anche di decine di dispersi. Resta ancora da sapere con esattezza la situazione dei comuni di Doa e Mutarara ancora coperti dalle acque, e dove l’accesso per strada è impossibile.

Dopo appena una settimana, le regioni del centro del Mozambico hanno vissuto un dramma ancora peggiore.

Il ciclone Idai (Idai è un nome di ragazza in Hindi, significa svegliarsi o amore, ndr) formatosi nel Canale del Mozambico, con una velocità fino a 220 Km/h ha raso al suolo la grande città di Beira, la città di Dondo, e centinaia di paesi e villaggi, e tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Pioggia e venti hanno devastato il centro del paese. Una vera catastrofe per ambiente, persone e strutture.
Una intera regione sommersa dall’acqua. Manca energia elettrica, comunicazioni telefoniche, acqua potabile. Strade interrotte. Villaggi isolati e sommersi. Scuole, ospedali, chiese, fabbriche, università… nulla è rimasto in piedi. Morti? Più di mille. Il colera ne sta mietendo altri.

In mezzo a tanta sofferenza, il paese intero, dal presidente all’ultimo cittadino, vive un momento di bellissima solidarietà. Aiuti da tutte le parti stanno arrivando a Beira perché non manchino cibo, acqua  e il necessario finché le cose possano tornare se non come prima, almeno vivibili e dignitose.

Padre Sandro Faedi,
amministratore apostolico di Tete

 




L’euro della discordia


Entrato in circolazione il 1° gennaio 2002, oggi l’euro è la moneta comune di 19 paesi europei. Dopo il dollaro, è la seconda valuta più importante al mondo. La sua storia è però anche una storia di vincitori e vinti. Tra i primi si annovera la Germania, tra i secondi l’Italia.

Testo di Francesco Gesualdi

Il primo gennaio 1999 undici nazioni europee si legarono a un patto di cambi fissi e crearono l’euro. Tre anni dopo vennero stampate anche le relative banconote e la nuova moneta soppiantò lire, franchi, fiorini, marchi, per rimanere l’unica in circolazione nei paesi aderenti al patto. In seguito, altre otto nazioni adottarono la moneta unica, e oggi l’euro è usato in 19 paesi per un totale di 340 milioni di persone.

A livello internazionale è la seconda moneta più importante del mondo dopo il dollaro: copre il 36% dei pagamenti internazionali e costituisce il 20% delle riserve di tutte le banche centrali del mondo. Dunque, quella dell’euro sembrerebbe una storia tutta improntata al successo. Ma, a guardare meglio, è una storia di vincitori e vinti e non per il principio di unificazione su cui la moneta unica si basava, ma per il modo in cui è stata gestita.

L’euro «neoliberista»

Per cominciare è importante capire il contesto ideologico prima che economico. Il segno astrale sotto cui nasce l’euro è quello neoliberista caratterizzato da tre atti di fede: il mercato è la forma suprema di funzionamento dell’economia; il mercato trova da solo i propri equilibri; il privato è bello il pubblico è brutto. Da cui altrettante conclusioni: la concorrenza è il motore dell’economia; le regole vanno eliminate; tutto va privatizzato. Inevitabilmente l’euro nasce non come una moneta di stato al servizio dei bisogni sociali della collettività, ma come una moneta bancaria al servizio del mercato organizzato sulla concorrenza. Nella convinzione che la politica faccia solo danni, il governo dell’euro è affidato a una struttura indipendente, la Banca centrale europea (Bce), gestita dal sistema bancario europeo. Questa ha come mandato esclusivo ciò che più serve al mercato ossia la difesa del valore della moneta tramite il contenimento dell’inflazione. E, per evitare ogni rischio di pressione da parte della politica, che poi significa del popolo visto che la politica è espressione degli elettori, la Bce nasce con il divieto di prestare anche un solo centesimo direttamente agli stati. Neanche il paese più capitalista del mondo, ossia gli Stati Uniti, è arrivato a tanto dal momento che, tra gli scopi della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, è compresa la piena occupazione mentre sono previsti rapporti finanziari diretti fra questa e il governo statunitense.

Nessuna svalutazione, massima concorrenza

Oltre a una gestione totalmente privatistica dell’euro, l’altro grande elemento che caratterizza gli effetti della nuova moneta è il regime di massima concorrenza in vigore nell’Unione europea. Per la verità l’Europa nasce come un progetto di unione doganale, ossia come spazio di libero scambio dentro il quale merci e servizi possano circolare senza ostacoli tariffari. Un conto è però avere un’unione doganale con monete differenziate, un altro un’unione doganale che è anche unione monetaria. Da un punto di vista tariffario fra le due situazioni non c’è differenza: in entrambi i casi le vendite sono regolate dalla concorrenza, ossia dalla capacità delle imprese di farsi spazio producendo beni di qualità crescente a prezzi sempre più bassi. Ma in un regime di monete nazionali, in caso di cattiva parata, le nazioni possono ridurre artificialmente i prezzi dei propri prodotti ricorrendo alla svalutazione. Con la moneta unica questa possibilità viene meno e la concorrenza diventa l’unica modalità di confronto tra le imprese. Se sei capace di produrre roba buona a prezzi bassi ti fai spazio, altrimenti sei sopraffatto. E nessuno viene in tuo aiuto. In definitiva adottare una moneta unica è come spalancare le gabbie dello zoo: le bestie più forti possono saccheggiare le gabbie delle bestie più deboli senza che intervenga alcun guardiano. Che tradotto significa piena possibilità per le imprese più forti di penetrare nei mercati delle imprese più deboli e portarsi via i loro clienti.

Perché la Germania stravince

Da un punto di vista della forza industriale, l’Europa è sempre stata a due velocità con un Nord più forte e un Sud più debole, un po’ come è l’Italia. E, tra i paesi del Nord, quello che ha sempre avuto il ruolo di leader è la Germania, pur avendo anch’essa i suoi alti e i suoi bassi (come in questo momento storico). Per la verità se guardiamo l’interscambio fra Italia e Germania, troviamo che prima del 1985 l’Italia era in vantaggio, poi la situazione si è rovesciata e l’Italia è rimasta in uno stato di permanente disavanzo verso la Germania. Ad esempio, nel 2018 ha esportato verso la Germania beni per 55 miliardi di euro, mentre ne ha importati per 65 miliardi. Va detto, tuttavia, che la Germania trionfa non solo in Europa, ma nel mondo intero. Con 1.400 miliardi di dollari di esportazioni (al 2017) contende agli Stati Uniti il secondo posto fra gli esportatori mondiali, dopo la Cina. Ma mentre gli Stati Uniti registrano un debito commerciale nei confronti del resto del mondo pari a 566 miliardi di dollari, la Germania registra un avanzo di 250 miliardi.

Indiscutibilmente il successo tedesco ha subìto un’accelerazione con la nascita dell’euro. E se nel 1999 aveva un saldo commerciale negativo pari all’1,7% del Pil, nel 2008 lo troviamo positivo del 6,8% per raggiungere il 7,6% nel 2016.

Altrettanto indiscutibilmente una forte spinta è provenuta dalle riforme del lavoro, realizzate tra il 2002 e il 2005, che vanno sotto il nome di riforme Hartz (in tedesco Hartz-Konzept), dal nome del suo proponente. Oltre a una maggiore libertà di licenziamento, esse comprendevano l’ampliamento delle forme di assunzione, ivi compresi i mini-jobs retribuiti in forma forfettaria con salari non superiori ai 450 euro mensili. Inoltre, con l’ingresso nell’Unione europea dell’Ungheria e di altri paesi dell’Est, la Germania ha anche potuto trarre vantaggio dall’esportazione di fasi produttive in questi paesi che hanno un costo del lavoro anche dieci volte più basso. Tuttavia, non si può neanche tacere il ruolo della formazione e degli investimenti in sviluppo e ricerca, che hanno permesso alle imprese tedesche di accrescere considerevolmente la loro produttività e, quindi, di ridurre i prezzi pur aumentando i salari.

Vincitori e vinti secondo l’istituto tedesco Cep

A tutto questo, molti però aggiungono che la fortuna della Germania è stata costruita anche sull’uso di un euro che, essendo ancorato all’economia di un continente che non ha la sua stessa solidità, di fatto è sottovalutato rispetto alle capacità produttive tedesche. Come dire che la Germania usa uno strumento monetario truccato che la rende artificiosamente più competitiva. Seppure sia impossibile stabilire quanta parte del successo tedesco sia imputabile all’uso di un euro sottovalutato, rimane il calcolo del centro studi tedesco Cep (Centrum für Europäische Politik) secondo il quale l’ingresso nell’euro ha permesso alla Germania di accrescere la propria ricchezza di 1.893 miliardi di euro dal 1999 ad oggi, 23mila euro in più per ogni cittadino tedesco. Per contro, l’Italia sarebbe quella che ci ha rimesso di più: in 20 anni avrebbe perso 4.325 miliardi di euro, 73.605 euro in meno per ogni italiano (numeri visibili nei due grafici, ndr).

Lo studio non è molto chiaro sui criteri di calcolo, per cui si tratta di numeri da prendere con le pinze. È innegabile, tuttavia, che l’euro abbia giocato (e giochi) un ruolo frenante nei confronti dell’Italia, non solo perché – non potendo svalutare – il nostro paese ha perso quote di mercato interno a favore di una Germania più competitiva, ma soprattutto perché si è dovuta piegare alle politiche di austerità imposte dall’Europa in nome dell’alto debito pubblico. Lo stesso Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, in un discorso tenuto a inizio anno al Parlamento europeo ha parlato di «austerità avventata» da parte dell’Europa. Austerità che, per l’innalzamento delle tasse e la riduzione delle spese da parte dello stato, ha provocato una pesante battuta d’arresto nella domanda di beni e servizi aggravando la recessione messa in moto dalla crisi finanziaria mondiale.

Uscire dall’euro?

Nonostante tutto, sembra che la domanda se rimanere o uscire dall’euro non si ponga più, in quanto la maggior parte degli italiani sembra propensa a restare temendo che, in caso di uscita, le perdite possano essere superiori ai vantaggi.

Ciò non toglie che si debba fare una battaglia più ampia per chiedere una diversa gestione dell’euro perché questo è il vero nodo da affrontare se vogliamo mettere fine all’austerità che ancora ci perseguita.

Il punto da cui partire è che si sono raccontate molte falsità rispetto al nostro debito pubblico, la principale delle quali è che siamo indebitati perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. La verità è che non siamo stati capaci di tenere la corsa con gli interessi e ogni anno accendiamo nuovo debito per pagare gli interessi non coperti dal risparmio realizzato dalla pubblica amministrazione. Questa storia non può durare in eterno. Non si può continuare all’infinito a farci mungere per arricchire banche, assicurazioni e altri investitori. La montagna di interessi che abbiamo pagato a questi signori dal 1980 a oggi supera i 2.000 miliardi di euro. Fin dove vogliamo arrivare?

Azzerare il debito pubblico

L’unico modo per uscire da questo meccanismo infernale è azzerare il nostro debito pubblico, ma togliamoci dalla testa di poterlo fare pagandolo: è diventato troppo grande per essere ripagato. Esso potrebbe essere azzerato solo buttandolo sulle spalle della Banca centrale europea, l’unica che può caricarsi di debiti senza rischiare di subire ricatti. Come massima autorità capace di emettere moneta non rischia di fallire, né di subire attacchi speculativi, mentre può gestire interessi e capitale con una varietà di strumenti molto più ampia di quelli a disposizione dei governi. Vari studi hanno dimostrato la fattibilità di questa ipotesi, ma il vero ostacolo sono i trattati europei che escludono ogni possibilità di coinvolgimento diretto della Bce con i debiti pubblici. Dunque, è da qui che bisogna partire. Ma i nostri rappresentanti politici vogliono farlo? Un modo per capirlo è chiedere ai candidati delle prossime elezioni europee (23-26 maggio 2019) come pensano che vada gestito il debito pubblico. Se vi rispondono che la strada è la crescita, diffidate: è il paravento che tutti usano per imporci la solita vecchia ricetta dell’austerità che tanto ci danneggia. La soluzione è in mano all’Europa, ma verrà solo se essa sarà rifondata. Ora che stiamo per andare a votare anche noi possiamo decidere quale Europa vogliamo.

Francesco Gesualdi




Atti 4: Uno sguardo «dall’alto»

Testo di Angelo Fracchia


Gli Atti degli Apostoli si presentano, apparentemente, come una cronaca dei primi tempi di vita della comunità cristiana. Non appena li si legga in modo non ingenuo, però, ci accorgiamo che non si tratta di una vera e completa cronaca: Luca trascura moltissimi aspetti e luoghi geografici abitati dal primo cristianesimo. Per non fare che un esempio, dagli Atti non veniamo a sapere nulla sulla comunità cristiana dell’Egitto, paese vicinissimo alla Palestina che contava una forte presenza di ebrei (dalle cui fila provengono i primi cristiani, come è ovvio) e dove già all’inizio del II secolo sappiamo esistere una comunità cristiana molto numerosa e ben organizzata, che quindi evidentemente doveva essere nata decenni prima. Sembra facile spiegare che Luca abbia deciso di trascurarla perché, chiaramente, non sarebbe stato possibile raccontare tutto. L’autore seleziona ciò che ritiene utile per comprendere quello che per la prima generazione era stato importante. Non è, quindi, una cronaca, né un saggio su come dovesse essere la chiesa, ma qualcosa di intermedio, un racconto fondato su elementi storici con un forte taglio teologico.

Anche per questo, di tanto in tanto, Luca sembra fermarsi e contemplare dall’alto ciò che accade, quasi a fare il punto della situazione, come un riassunto che aiuti a capire meglio dove si sta andando. Da molto tempo i biblisti definiscono «sommari» queste soste contemplative. In essi, più ancora che altrove, l’autore ci mostra con trasparenza ciò che, a suo parere, doveva essere la chiesa ideale di Cristo.

Il grande sommario: la comunità (At 2,42-47)

Il primo di questi sommari è anche, probabilmente, il più importante. Qui Luca, che sa narrare bene, si ferma a contemplare dall’alto la Chiesa dilungandosi e strutturando il proprio racconto. Siccome è la prima volta che fa qualcosa del genere, vuole indicare in modo chiaro al lettore che si trova davanti a qualcosa di diverso da un semplice racconto cronologico. Quando in seguito inserirà altri sguardi dall’alto, sarà molto più facile per il lettore intuirne subito la natura e allora l’autore potrà procedere più spedito.

In questo primo sommario notiamo anche una costruzione più accurata rispetto ai due successivi. Molto spesso noi, quando guardiamo un film o ascoltiamo un brano musicale, magari senza essere degli specialisti di quel genere, cogliamo comunque che cosa è importante, capiamo anche su che cosa l’autore vuole suggerirci di fare più attenzione, ma magari non afferriamo bene come abbia fatto a ottenere questo risultato. Chi è esperto, d’altra parte, può anche riconoscere e indicare con chiarezza i «trucchi del mestiere». A volte, poi, ci sono anche delle semplici convenzioni, che con il tempo ci siamo però semplicemente abituati ad afferrare. In un film giallo, ad esempio, quando la telecamera si ferma su particolari apparentemente secondari, magari con una musica di sottofondo priva di una vera melodia, noi spettatori automaticamente facciamo più attenzione, perché siamo abituati a quel segnale che ci avverte che probabilmente quei dati secondari in seguito diventeranno molto importanti. Anche se non siamo «del mestiere», a forza di vedere film abbiamo imparato a conoscere quel tipo di linguaggio.

Anche gli scrittori antichi utilizzavano trucchi del genere. Alcuni di essi possono essere letti e risultare efficaci anche se ne siamo del tutto inconsapevoli. Per altri, più tipici di quel tempo, possiamo avere bisogno di qualcuno che ci aiuti a vederli e ci indichi come usarli bene, esattamente come in certi indizi dei film gialli. Noi, ad esempio, quando esponiamo un tema (ma anche quando raccontiamo una barzelletta…) siamo molto abituati a utilizzare la struttura della «scala»: ogni dato è più importante di quello precedente e ci aiuta a capire quello successivo. L’ultima è l’informazione più importante. Possiamo anche non esserne consapevoli, ma ormai siamo abituati a usarla. Gli scrittori biblici usano invece spesso la struttura dell’«incrocio»: accumulano delle informazioni in modo apparentemente casuale, ma, a ben guardare, le dispongono come in cerchi concentrici, dove la prima informazione rimanda all’ultima, la seconda alla penultima, e al centro c’è quella più importante. È la cosiddetta struttura a chiasmo usata da Luca in questo brano.

Intanto ripete due volte che quella descritta non è una forma di vita comunitaria occasionale: «perseveravano», «erano costanti».

Il livello più esterno (1) è quello più lasco, che da solo non ci farebbe intuire la struttura: ascoltavano l’insegnamento degli apostoli (è il punto di partenza: v. 42) e godevano della simpatia di tutto il popolo (è il punto di arrivo: v. 47). In mezzo, quasi come parentesi, Luca aggiunge che tutti provavano un timore religioso nei loro confronti (v. 43), come chi si accorge di assistere a qualcosa di speciale, non semplice frutto del lavoro umano.

Il secondo livello (2), più importante, parla dell’«unione fraterna, comunione» (v. 42) e del mangiare insieme in gioia e semplicità (v. 46), proprio ciò che accade in una fraternità autentica.

Poi, Luca parla, ancora più al centro (livello 3), dello «spezzare il pane» (vv. 42.46), che per le prime generazioni cristiane era la formula per indicare l’eucaristia. Possiamo stupirci allo scoprire che l’eucaristia non sia il centro del centro, l’elemento assolutamente più importante della vita cristiana: come accade spesso, Luca non ha paura di spiazzarci.

Avvicinandoci ancora di più al centro (livello 4), in questo sommario che parla della vita cristiana, sta la preghiera (alla fine del v. 42, e poi ancora nella frequentazione del tempio, al v. 46: al tempio si andava per pregare (ma su questo continuare a «fare gli ebrei» avremo occasione di parlare più approfonditamente più avanti).

Al centro di tutto (livello 5), ai vv. 44-45, c’è la condivisione totale, che peraltro riprende quella «comunione» spontanea e gioiosa che stava nel secondo cerchio.

Sembra che Luca ci suggerisca che la chiesa ideale impara dagli apostoli e va al mondo, ma più importante ancora è l’esperienza di una dimensione di comunione fraterna spontanea che ci aiuta a vivere l’ancora più fondamentale comunione con Gesù (nella frazione del pane) e quindi il dialogo con Dio (la preghiera), fino ad arrivare al punto più importante di tutti, la condivisione completa con gli altri, magari vissuta con meno spontaneità rispetto all’unione fraterna, ma intesa come decisione di fondo, anche quando fosse faticosa ed esigente. L’autore degli Atti sostiene che non siamo chiamati innanzi tutto a vivere una vita di liturgia e preghiera (che restano ottime, ma come strumenti per arrivare ad altro), bensì che la chiesa perfetta è quella che mette al centro gli altri, la comunità. Se possiamo confermare questa intuizione con uno sguardo fuori dall’opera lucana, il vangelo secondo Giovanni afferma che i cristiani saranno riconoscibili non perché celebrano messa o perché pregano bene, ma per come si amano (Gv 13,35).

Gli altri due sommari

Non è un caso che su questo tema, in una forma più limitata e concreta, si torni anche nel secondo dei grandi sommari. In Atti 4,32-35 si presenta quello che alcuni hanno etichettato come «comunismo cristiano». L’indicazione è semplice: «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune». Più che di abolizione della proprietà privata, sembra dal contesto che si tratti di abolizione dell’egoismo: chi ha bisogno, otterrà ciò che gli serve, perché gli viene messo a disposizione da coloro che non si limitano a chiamarsi fratelli, ma davvero si dimostrano tali. Luca sarà poi costretto a confessare che questo quadro ideale, nella comunità reale non era sempre vissuto in pienezza, ma resta l’ideale verso cui tendere.

Peraltro, questo ideale porta a compimento ciò che nell’Antico Testamento era stata una promessa di Dio: in Dt 15,4, all’interno delle norme sull’anno sabbatico (un anno in cui non si sarebbe dovuto coltivare la terra), Mosè dà voce a Dio nel promettere che non ci sarà da avere paura di non mangiare, in quell’anno, perché la terra avrebbe prodotto da sé quanto necessario all’uomo per vivere. «Del resto non vi sarà nessun bisognoso in mezzo a voi». A questa promessa fa eco l’affermazione di Luca: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso» (At 4,34).

Nel terzo dei sommari (At 5,12-16) si insiste sul cammino della chiesa verso l’esterno. Tutti guardano con simpatia questo nuovo movimento, anche se magari se ne tengono a distanza (v. 13). Ma ad essere interessante è soprattutto il modo con cui i cristiani si muovono dentro la società da cui provengono. Non provano a distinguersi con la forza, non polemizzano con nemici (è purtroppo il modo più facile per farsi conoscere, e infatti è quello più utilizzato dai movimenti nascenti), ma si comportano in modo coerente con questa generosità che abbatte l’egoismo: non contestano, non provano a convincere, non cercano di difendersi, ma guariscono i malati (vv. 15-16).

Coloro che si affidano a Gesù vivono, insomma, per gli altri (che siano cristiani o no), abbattono le barriere di autodifesa che l’umanità sempre cerca di costruirsi e vivono nella confidenza e nella leggerezza. L’incontro con Gesù porta alla fiducia di fondo verso Dio e verso gli altri, e questo fa vivere meglio. Perché l’obiettivo ultimo di Dio non è di essere venerato, ma che gli uomini, che Lui ama, vivano bene.

Angelo Fracchia
 (4. continua)




Comunicare la cooperazione nel tempo delle fake news


In vista della 53ª giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebrerà il prossimo 2 giugno, affrontiamo il rapporto fra comunicazione e cooperazione, ragionando sulle fake news che riguardano sviluppo, migrazioni e cambiamento climatico e sul perché è più difficile smontarle.

Testo di Chiara Giovetti

«Ti è mai capitato di sentire il bisogno irresistibile di inoltrare agli amici o di condividere sui social network una notizia che ti è piaciuta o ti ha fatto indignare soltanto perché ne hai letto il titolo? Capita a tutti: è un effetto naturale del pregiudizio di conferma (o bias di conferma), cioè la tendenza comune a credere che sia vero quello che vogliamo che sia vero (anche quando non è vero)».

Così Paolo Attivissimo, giornalista e studioso della disinformazione nei media, apre Come diventare detective antibufala@, una guida commissionata dal Miur e dalla Camera dei Deputati.

Le fake news sono agili, immediate, semplici. Spesso sono perfino rassicuranti, anche quando diffondono un’informazione allarmante, perché confermano una nostra opinione e ci fanno sentire scaltri, persone capaci di scoprire la verità anche oltre ciò che «loro non dicono».

Le fake news on devi cercarle, ti trovano loro: ti aspettano sui social, ti inseguono su whatsapp, ti raggiungono passando di bocca in bocca, si mimetizzano fra le altre notizie.

Il debunking e il fact-checking – traducibili come demistificazione e verifica dei fatti – sono invece più lenti, articolati e impegnativi per chi li legge o ascolta. Per verificare le informazioni che ti raggiungono, inoltre, devi volerlo, non puoi essere di fretta e devi essere disposto a farti venire un dubbio, che per definizione non è rassicurante.

Le cose si complicano parecchio quando le fake news si applicano a un ambito poco conosciuto, complicato e eticamente delicato, come è il caso della cooperazione allo sviluppo e dei temi ad essa collegati, dalle migrazioni al cambiamento climatico, dalla povertà e ai diritti umani. Un esempio è la presa di posizione del 4 febbraio 2018 dell’allora eurodeputato Matteo Salvini, che durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti citava la relazione di una deputata svedese nella quale si introduceva la figura dell’immigrato climatico: «Adesso», commentava sarcastico Salvini, «dovremo ospitare anche gli immigrati climatici: cioè se uno ha freddo, se uno ha caldo… […] A Milano c’è la nebbia, a me non piace la nebbia, e allora mi sposto perché sono un immigrato climatico»@.

Sulla stessa falsariga ci sono state, successivamente, altre interviste televisive di diversi esponenti politici sul franco Cfa (vedi Cooperando su MC di marzo) e sulla Dichiarazione di New York per i migranti e i rifugiati, nota anche come Global Compact. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha definito quest’ultimo accordo internazionale «una vera e propria fregatura» perché «garantisce qualunque tipo di immigrazione: non solo chi scappa dalla guerra, dalla violenza e dalla tortura, ma anche chi scappa dalla povertà, chi scappa dal caldo e chi si muove semplicemente perché gli va».

Sarebbe bastato opporre a Salvini che un migrante climatico non scappa dal caldo o dalla nebbia, ma da fenomeni estremi che rendono invivibile il luogo in cui abita; sul Global Compact sarebbe stato sufficiente controbattere a Giorgia Meloni – come ha fatto Nino Sergi sul giornale online La Voce di New York@ – che «non si tratta di un patto vincolante né intacca la sovranità degli stati. Ma la sua adozione, anche da parte dell’Italia, potrebbe mettere le basi per potere iniziare un cammino, difficile ma possibile, verso un governo ordinato, regolare, sicuro della migrazione».

Tuttavia, in nessuno dei casi citati gli intervistatori sono stati in grado di contestare nel merito le affermazioni dei leader politici proprio perché si tratta di temi scarsamente o per nulla frequentati nei talk show e nei tg del nostro paese. E le informazioni errate contenute in quelle affermazioni, se non vengono immediatamente arginate finiscono per dilagare, amplificate dai social network. Dimenticando, tra l’altro, che ci sono diversi italiani «migranti climatici», secondo la definizione salvianiana, in altri paesi, come a Malindi in Kenya o in Portogallo.

© Daniele Biella

Perché cooperazione e temi limitrofi sono tanto indigesti?

Il problema principale nel correggere un’informazione imprecisa sulla cooperazione, sulla migrazione e sugli ambiti a esse vicini è che non basta opporre un’argomentazione corretta, bisogna anche spiegare un sacco di cose. Non si parla di pensioni, di partite Iva o di reddito di cittadinanza, argomenti con cui la stragrande maggioranza delle persone viene a contatto direttamente o attraverso le esperienze di amici e parenti. Si parla viceversa di un tema che, per quanto negli ultimi anni ampiamente trattato e fortemente sentito@, rimane percepito come lontano dal quotidiano e dai bisogni immediati dei cittadini italiani.

A sua volta, chi si trova a comunicare la cooperazione e il suo funzionamento deve avvalersi di strumenti che tengano conto della delicatezza dell’argomento. Deve, cioè, evitare sia quella che in un acceso dibattito di qualche anno fa venne definita la pornografia del dolore, sia la troppa leggerezza@.

A questo proposito il Saih, Fondo degli studenti e accademici norvegesi per l’assistenza internazionale, ha monitorato fino al 2017 gli spot promozionali delle organizzazioni attive nello sviluppo, istituendo premi – ironicamente chiamati golden radiator o rusty radiator, il radiatore d’oro o arrugginito – per i migliori e i peggiori messaggi pubblicitari. Nell’ultima edizione, il vincitore del radiatore arrugginito è stato lo spot del Disasters Emergency Committee, organizzazione che riunisce 14 agenzie britanniche per l’aiuto umanitario. Il video promozionale, che aveva l’obiettivo di raccogliere fondi per la crisi in Yemen@, è stato giudicato «didascalico e stereotipato, lesivo della dignità di coloro che soffrono, uno spot che ci riporta agli anni ottanta e che sottintende: noi siamo i buoni, voi gli egoisti». Viceversa, il radiatore d’oro è andato allo spot di War Child Holland@, organizzazione attiva nella protezione e assistenza ai bambini in zone di conflitto. Il video ritrae un bambino in un campo profughi mentre gioca e svolge le sue attività quotidiane insieme a un Batman grosso e rassicurante ma anche divertente e un po’ buffo che lo accompagna e lo protegge, con il sottofondo musicale di You’re my best friend dei Queen. Solo nelle ultime inquadrature cessa la musica e il Batman si rivela essere il papà del bambino, un supereroe del giorno per giorno che porta in braccio il figlio allontanandosi dalle macerie fumanti di una città in guerra. Il video si conclude con una frase che recita: per alcuni bambini la fantasia è l’unico modo per scappare dalla realtà.

Comunicare la cooperazione significa muoversi all’interno di questi confini, per delineare meglio i quali la rete nazionale di Ong irlandesi ha elaborato nel 2015 un Codice di condotta@ in cui si raccomanda di evitare gli stereotipi, di dar precedenza alla testimonianza delle persone direttamente interessate e ottenerne comunque sempre il consenso prima di usarne immagini e parole, favorire una comunicazione in cui le immagini e situazioni non illustrino solo l’immediato – un bisogno, un problema – ma anche il più ampio contesto in cui si colloca, così da permettere al pubblico una miglior comprensione delle realtà e delle complessità dello sviluppo.

© AfMC / Beppe Svanera – Marialabaja, Colombia / È l’olio di palma che fa male o il modo di coltivarlo?

Le fake news sulle Ong

Una efficace sintesi delle principali notizie false che circolano sulle Ong era stata fornita lo scorso marzo da Paolo Dieci, il compianto presidente della Ong Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e della rete Link2007 scomparso nell’incidente aereo del 10 marzo, quando il Boeing diretto a Nairobi su cui volava insieme ad altri 156 passeggeri è caduto poco dopo il decollo da Addis Abeba. La rete Link2007 ha dedicato a Paolo Dieci un documento dal titolo Ong e trasparenza. Realtà e normativa in essere, che si chiude con il testo di una mail inviata dal presidente ai colleghi la sera prima dell’incidente. Nel messaggio, individuava cinque falsi miti secondo i quali le Ong «fanno ciò che vogliono; nessuno le controlla; fanno politica di parte; sottraggono risorse alla collettività; favoriscono la migrazione irregolare».

Paolo Dieci smentiva questi luoghi comuni precisando i seguenti punti:
«a) non esiste un singolo progetto realizzato che non sia stato approvato da soggetti rappresentativi dei paesi, inclusa l’Italia;
b) in media un’Ong della nostra dimensione riceve 30-40 audit annuali oltre a 2 livelli di verifica del bilancio;
c) le Ong non si schierano per “partiti” ma per “cause” e ho fatto l’esempio del Global Compact sulla Migrazione;
d) le Ong di Link 2007 portano molte più risorse al sistema Italia di quante ne ricevano, impattando anche sul piano occupazionale e formando giovani;
e) le Ong, concretamente, sono spesso sole a prevenire la migrazione a rischio, ma sempre avendo come riferimento i diritti umani»@.

© Paolo Moiola / moschea in Pakistan / È la religione che fa diventare violenti o i violenti che usano la religione per giustificarsi?

Il messaggio del Papa sulla comunicazione

Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana: questo il titolo del messaggio di papa Francesco per la 53a giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebrerà il prossimo due giugno@.

Pubblicato il 24 gennaio – giorno in cui si ricorda San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti – il messaggio parte dall’invito del pontefice a riflettere sul nostro essere «in relazione» e a riscoprire «il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine».

La rete in sé è uno strumento neutro: può essere un veicolo di incontro con l’altro ma anche di autoisolamento, «come una ragnatela capace di intrappolare», di cui sono vittima specialmente i ragazzi, più esposti all’illusione che la rete da sola possa soddisfare le loro esigenze relazionali.

«È chiaro», prosegue il messaggio, «che non basta moltiplicare le connessioni perché aumenti anche la comprensione reciproca», che può crescere solo nella comunione, la quale si nutre della verità mentre al contrario la menzogna divide e «smembra».

Il riferimento all’essere membra gli uni degli altri rimanda poi anche a un secondo aspetto, quello dell’importanza dell’incontro in carne e ossa. Se la rete è funzionale a questo incontro, lo facilita e lo arricchisce, allora è una risorsa.

«Questa è la rete che vogliamo», conclude il papa, «una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere».

Il tema della precedente giornata mondiale delle comunicazioni era illustrato da una frase del Vangelo di Giovanni: la verità vi renderà liberi. Se è così, allora la post verità – in cui l’emotività sostituisce i fatti oggettivi nella formazione delle opinioni delle persone – prelude alla post libertà. E non ha l’aria di essere uno scenario da augurarsi.

Chiara Giovetti




I Perdenti 43. Sitting Bull,

il capo «Toro Seduto»

Testo di don Mario Bandera


Toro Seduto nasce nel 1831 in un villaggio Sioux situato sulle sponde del fiume Grand River, uno dei corsi d’acqua che attraversa l’immensa prateria nordamericana. Il suo nome nella versione lakota, sua lingua madre, è declinato Ta-Tanka I-Yotank (letteralmente: bisonte seduto). Toro Seduto è la traduzione italiana dell’inglese Sitting Bull, nome affibbiatogli dai colonizzatori europei del Nord America. I Sioux sono una confederazione di gruppi di popoli indigeni amici e alleati, detti anche Lakota (parola che significa «alleanza di amici»).

A quattordici anni Sitting Bull prende parte a una spedizione di guerra durante la quale ha modo di conoscere i guerrieri Crow. Nel corso di un conflitto, si guadagna una penna di aquila bianca per aver sconfitto un guerriero avversario. È da quel momento che acquisisce il nome di Toro Seduto. Nel 1851 si sposa con Capelli Lucenti, che sei anni più tardi gli dà un figlio. La donna, però, muore durante il parto, e anche il bambino morirà poco dopo a causa di una grave malattia. Dopo la morte del figlio, quindi, egli decide di adottare un suo nipote. Nel frattempo, si guadagna la fama di «uomo saggio, o sant’uomo». Pur non essendo uomo di medicina, impara le arti di guarigione usando erbe medicinali. Diventa membro dell’Heyoka (società che include coloro che praticano la danza della pioggia) e della Buffalo Society (connessa con la caccia al bufalo), ma egli si fa apprezzare soprattutto come valoroso guerriero. Il 17 agosto del 1862, nello stato del Minnesota esplode un conflitto tra i coloni (i wasichu nome lakota che indica tutti i non Sioux, anche gli africani, ndr) e cacciatori Sioux, che si conclude con la sconfitta di questi ultimi: alcuni di essi si rifugiano lungo il fiume Missouri, dove vengono raggiunti da guerrieri della tribù degli Hunkpapa. A dispetto dei rinforzi ricevuti, le battaglie di Dead Bufalo Lake (lago del buffalo morto, ndr), del 26 luglio 1863, e di Stony Lake, che avviene due giorni più tardi (battaglie alle quali Toro Seduto partecipa), si concludono con la sconfitta dei Sioux da parte del colonnello Henry Sibley. L’esercito degli Stati Uniti prevale anche nella battaglia di Whitestone Hill, del 3 settembre, catturando decine di Sioux e uccidendone almeno un centinaio. L’anno successivo i Sioux, compresi Toro Seduto e suo nipote Toro Bianco, durante uno scontro con l’esercito degli Stati Uniti, occupano l’area ai piedi delle Monti Killdeer (ammazza cervo, ndr). In quel luogo il 28 luglio del 1864 c’è una battaglia che vede una nuova sconfitta dei Sioux e conseguentemente la perdita dei loro territori e della loro indipendenza in quanto vengono relegati nelle riserve loro assegnate.

 

Nei mesi seguenti alla vostra sconfitta dell’estate 1864, convincesti i tuoi compagni a tornare alle armi, e dopo aver dichiarato nuovamente guerra ai coloni invasori, incominciasti una micidiale guerriglia contro di loro.

Cercai di respingere le infiltrazioni dei Wasichu, con attacchi su Fort Buford, Fort Stevenson e Fort Berthold compiuti tra il 1865 e il 1868; quindi, accompagnai Nuvola Rossa, altro famoso capo Sioux che nel frattempo aveva ordinato di assaltare la contea di Powder River, nella regione settentrionale. Poco dopo, attaccai anche la linea ferroviaria del Pacifico Settentrionale, perché era cresciuta in noi e in tutte le tribù indiane del Nord America la convinzione che dovevamo contrastare con ogni mezzo l’avanzata dei coloni che stavano occupando gli immensi spazi delle nostre praterie per coltivare i loro prodotti agricoli, sottraendoli al pascolo per i bisonti, fonte indispensabile per la nostra alimentazione.

Toro Seduto con la famiglia nel 1881 a Fort Randall

In questo contesto, nel 1876, dimostrando un coraggio non indifferente, tu e i tuoi Sioux dichiaraste formalmente guerra agli Usa.

Dopo aver messo insieme più di tremila guerrieri, con gli altri capi Sioux, Nuvola Rossa e Cavallo Pazzo, affrontammo l’esercito degli Stati Uniti al comando del generale George Custer, e lo sconfiggemmo nella famosa battaglia di Little Bighorn.

Tu però non partecipasti alla battaglia.

Secondo un sogno che avevo fatto poco tempo prima, affidai il comando delle operazioni a Cavallo Pazzo, in quanto a tattica e strategia militare era il più esperto di tutti noi.

Nonostante ciò ti accusarono di aver provocato il massacro dei soldati degli Stati Uniti e quindi fu spiccato un mandato d’arresto nei tuoi confronti.

A quel punto decisi di non arrendermi, e nel maggio del 1877 mi trasferii, insieme alla mia gente, in Canada, nello stato del Saskatchewan, ai piedi della Wood Mountain: qui rimasi in esilio per anni, rifiutando l’opportunità di ritornare anche dopo che il presidente degli Stati Uniti mi aveva concesso il perdono per tutti i capi d’accusa che pendevano sul mio capo.

Solo i malanni e la fame ti convinsero a tornare negli Usa con i tuoi familiari e ad arrenderti.

Proprio così, ma anche i consigli di padre Martin Marty, un monaco benedettino che venne a visitarmi durante il mio esilio. Ritornai come perdente nella mia terra il 19 luglio del 1881. Il giorno dopo venni arrestato insieme con mio figlio Piede di Corvo. Il governo, comunque, mi concesse l’amnistia. Rendendomi conto che ero ormai incapace di condurre altre guerre, confidai ai militari statunitensi di nutrire nei loro confronti profonda ammirazione. Pochi giorni dopo, venni trasferito con altri Sioux e con mio figlio nella riserva indiana di Standing Rock, a Fort Yates.

Pur essendo confinato nella riserva indiana, nel 1883 ti fu concesso di aggregarti al famoso Circo Barnum dove in poco tempo diventasti un’attrazione del «Wild West Show» di Buffalo Bill, avendo così anche l’occasione di viaggiare in America e in Europa.

Nelle performance degli spettacoli del circo mi calavo nel ruolo di narratore di storie che avevano come protagonisti gli uomini bianchi e i nativi americani e come scenario l’imponente magnificenza delle grandi pianure americane, nei miei discorsi invitavo il pubblico a indurre i giovani a favorire il dialogo e le relazioni tra indiani nativi e coloni bianchi.

La tua permanenza nel circo Barnum durò quattro mesi e diventasti una celebrità sia a livello europeo che americano. Terminata l’esperienza del circo, tornasti fra la tua gente non prima di aver regalato i soldi guadagnati ai poveri e ai bisognosi della tua tribù.

Vero, anche se non era una gran cosa. Mi davano cinquanta dollari alla settimana, una bella paga per allora, ma i soldi che ho preso sarebbero bastati solo per comperare cinque bei cavalli.

Dopo aver visto cambiare il mondo e soprattutto l’avanzare di un nuovo tipo di civiltà che modificava radicalmente lo stile di vita dei popoli indigeni americani, decisi di ritornare a casa per trascorrere una vecchiaia serena insieme alla mia famiglia e a tutti i membri della mia comunità.

Toro Seduto e Buffalo Bill a Montreal, 1885

Il ritorno a Standing Rock, però, viene poco tempo dopo seguito dal suo arresto, eseguito dalle autorità dell’Agenzia Indiana preoccupate che potesse fuggire. Negli scontri che seguirono, Toro Seduto venne assassinato insieme con suo figlio Piede di Corvo. Il 15 dicembre 1890 padre e figlio morirono sotto i colpi di pistola di alcuni membri del comando che li doveva arrestare. Il corpo di Toro Seduto venne sepolto a Fort Yates, ma nel 1953 la sua salma fu riesumata e spostata a Mobridge, località in cui il leggendario capo indiano aveva passato gli anni della sua gioventù. A tutt’oggi essa è meta incessante di uomini e donne di ogni colore e provenienza che vanno a pregare sulla sua tomba e a rendergli omaggio per i valori umani che seppe incarnare nella sua vita.

Don Mario Bandera

Nota:

La foto di Toro Seduto con il crocifisso al collo ha fatto sorgere molte domande. Era battezzato, era cattolico? Chi gli ha dato la croce? Di certo si sà che per anni è stato in contatto con i missionari gesuiti, conosciuti dagli indigeni come «tonache nere». Il crocifisso che porta al collo nella foto scattata a Bismark, la capitale del territorio lakota nel 1885 da David F. Barry, è tipico dei gesuiti con un teschio ai piedi della croce. Forse gli fu dato da padre Pierre-Jean De Smet (1801-1873) con il quale si era incontrato per la prima volta il 19 giugno 1868 lungo il fiume Powder. Ma si pensa anche che possa essere stato un dono di padre Martin Marty (1834-1896), un benedettino che visitò Toro Seduto durante l’esilio in Canada e poi diventò il primo vescovo del Dakota nel 1889. Pur legato ai missionari cattolici, è abbastanza sicuro che Toro Seduto non fu mai battezzato perché questo gli avrebbe richiesto l’abbandono di una delle sue due mogli.




Mi hai vinto, non ho perso


L’editoriale di Amico

La morte e il lutto sono il nostro pane quotidiano. Il lamento, il pianto e l’affanno, una postura consolidata. La fame e la sete non si smorzano mai. Nessun riparo dall’arsura, nessuna tenda da abitare (cfr Ap 7, 9-17), nessuno sguardo al quale affidare la nostra vita. Tantomeno un Dio che elimina la sofferenza.

«È triste, ma è così», dicevo.

Allora, quando ti ho visto passare tra la folla che t’insultava, anch’io ti ho sputato. E quando eri in croce, anche io ti ho detto di scendere, di salvare te stesso (e me) dalla morte, se veramente eri Dio (cfr Lc 23, 35-39). Quando hanno chiuso il sepolcro con la pietra, ho dato una mano a sigillarla, e ho portato cibo e bevande alle guardie perché tenessero la tua morte, la tua speranza morta, sotto controllo (cfr Mt 27,66).

La speranza, quand’è illusione, fa male, bisogna tagliarla via e togliere le radici dal terreno. E io ce l’ho messa tutta per farlo.

Poi è successo l’imprevedibile. Un terremoto, la pietra ribaltata, i guardiani stesi a terra, la tomba vuota. Quei codardi dei tuoi amici che ti dicevano risorto.

«Davvero quella speranza era un’illusione?», mi sono chiesto.

E alla fine ho ceduto. Ce l’ho messa tutta per tenerti a bada, ma tu sei più forte e mi hai vinto. Senza lasciarmi sconfitto. Mi hai mostrato che il male non è la sofferenza, ma l’assenza di amore, e che ogni assenza d’amore può essere colmata con la tua presenza, amore eccedente. Hai beffato la morte passandoci dentro, hai restituito alla vita la pienezza desiderata da Dio fin dal principio.

Quella che credevo illusione si è rivelata speranza. Bisogna coltivarla perché porti frutto e lo porti per tutti.

Buon tempo di Pasqua, da amico
Luca Lorusso

 


Bibbia on the road

Quando Gesù prega

La spiritualità missionaria si fonda sulla preghiera.
E la preghiera del missionario si fonda sulla preghiera di Gesù descritta nel Vangelo di Luca.
Ecco la quarta puntata sulla spiritualità missionaria.

Le comunità cui si rivolge Luca sono ormai convinte che il ritorno in gloria del Risorto non è imminente. Per questo motivo esse sentono vivo il compito di continuare a dare testimonianza a Cristo. E per Luca il compito missionario richiede preghiera assidua e meditazione quotidiana sugli insegnamenti del Maestro. Ecco perché presenta diverse volte Gesù in preghiera, molto più che non Matteo e Marco.

Gesù prega durante la vita pubblica

Nella descrizione che Luca fa della Chiesa delle origini negli Atti degli apostoli, viene messo in rilievo come i fratelli di Gerusalemme (Atti 1,4), Pietro (Atti 10,9; 11,5), Giovanni (Atti 3,1), Paolo (Atti 9,11) si ritirino in solitudine per pregare.

Una simile esigenza ha il suo modello nel Gesù storico che lo stesso Luca descrive nel suo Vangelo. Gesù, inviato del Padre, descritto in preghiera in alcuni momenti decisivi della sua missione, è origine e fonte della preghiera delle comunità.

A differenza di Matteo e Marco, Luca presenta Gesù «in preghiera» (3,21) nel momento del battesimo al Giordano, quando riceve lo Spirito e ascolta la voce del Padre che lo chiama «figlio amato». In un’atmosfera di preghiera, il battesimo di Gesù diventa il luogo teologico della rivelazione.

Luca riprende l’episodio di Marco 1,35 nel quale Gesù «si ritirò in un luogo deserto, e là pregava», e lo colloca in un momento diverso: dopo la guarigione del lebbroso (5,16). Questo spostamento rende la preghiera di Gesù non più un evento come tanti altri, ma uno schema che guida la sua missione: la preghiera è sorgente delle sue parole e dei suoi gesti. Nel terzo Vangelo, Gesù si ferma a pregare anche in altri due eventi importanti: prima della scelta dei Dodici (6,12) e in occasione della trasfigurazione (9,28-29). La preghiera prima di designare i suoi accompagnatori sottolinea l’importanza della scelta. I Dodici sono persone per le quali anche in seguito egli pregherà (9,18; 17,5; 22,32). La preghiera prima della trasfigurazione prepara Gesù a rivelarsi come il Servo sofferente.

Nel racconto dell’attività pubblica di Gesù prima della passione, Luca riferisce le parole di una sola preghiera: l’atto di ringraziamento per la diffusione del Regno attraverso la predicazione ai «piccoli». Con un acume letterario di rilievo Luca fa coincidere l’esultanza di Gesù con il ritorno dei 72 discepoli dalla missione, e dice: «In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”» (10,21). Quindi Gesù esulta di gioia nello Spirito nel momento in cui i discepoli lo ragguagliano sul successo della loro missione, durante la quale la misteriosa azione del Padre diventa visibile.

La spiritualità missionaria lucana scaturisce dalla centralità della preghiera: la proclamazione della parola e il dono del battesimo devono di necessità essere preceduti da essa. Ancora oggi il missionario è chiamato a proclamare l’evento Cristo e a operare l’elezione dei catecumeni durante la Quaresima accompagnandoli verso la grande notte della salvezza, la notte di Pasqua, lasciandosi guidare da criteri spirituali. Nella scelta dei battezzandi deve seguire la sapienza del cuore che si ottiene solo attraverso un’assidua e costante vita di preghiera. Il missionario che non prega è un «cembalo che tintinna».

Gesù prega durante la sua passione

https://www.flickr.com/photos/theholyspirit/7287460084/

Durante la celebrazione della Pasqua nel cenacolo, Gesù rivela a Pietro che Satana è in cerca di loro per vagliarli come si fa con il grano (cf.

23,31) e, ancor prima di predire che Pietro lo tradirà, dice: «Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22:32).

Il Signore conosce coloro che ha scelto e coloro che hanno creduto in lui, e sa anche che la loro fede può soccombere se si lasciano ingannare da Satana. Essi devono, quindi, essere accompagnati e confermati dalla preghiera.

Alla stessa maniera il missionario deve far crescere e confermare la fede delle giovani chiese con la sua preghiera. Essa otterrà certamente l’effetto desiderato se il missionario s’ispira all’esempio del Maestro, il quale ha dimostrato che la preghiera provvede la forza necessaria per superare ogni tipo di tentazione.

Un altro momento importante della preghiera di Gesù è quello dell’orto degli ulivi. Similmente a Marco e Matteo, Luca presenta la filiale preghiera di Gesù, la sua tensione tra il rifiuto e l’accettazione della volontà del Padre, la sua solitudine nella notte, e la decisione finale di rimanere fedele.

Tuttavia Luca ha alcuni tratti che sono solo suoi. Solo Luca sottolinea il fatto che la preghiera di Gesù è difficile e sofferta al punto che un angelo viene a consolarlo (cf. 22,43-44). Si tratta di una lotta, un momento di angoscia, una prostrazione psicologica. Nell’orto degli ulivi Gesù suda sangue. Questo episodio è preceduto e seguito dal racconto dell’esortazione del Mastro ai discepoli, «pregate, per non entrare in tentazione» (22,40), che richiama l’esortazione che si trova in Marco: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione» (Mc 14,38). Nella versione lucana l’espressione assume un valore di rilievo poiché sottolinea quanto è stato affermato nei versetti 43-44 tramite la scena dell’angelo che consola Gesù: è difficile e doloroso pregare quando ci si sente deboli e soli.

L’evento della croce segna un altro momento significativo della preghiera di Gesù. Sulla croce egli prega per coloro che lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (23,23). Il Signore ha speso tutta la sua vita per portare la salvezza a tutti. Per questo le sue ultime parole sono una preghiera: «Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (23,46). Nel Vangelo di Luca le prime (cf. 2,49) e le ultime parole di Gesù sono rivolte al Padre. Tutta la sua vita è stata vissuta in perfetta unione con il Padre e in totale dipendenza da lui fino al momento supremo della croce. Anche in questo frangente Gesù offre le linee portanti di una spiritualità missionaria.

Il missionario è inviato dalla Chiesa a impiantare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra (1,8), e, seguendo l’esempio del Maestro, egli deve essere in totale dipendenza dal Padre e in perfetta comunione con Lui. Questo è possibile solo se la vita del missionario è segnata da un costante e assiduo ritmo di preghiera. Senza preghiera nessun campo, per quanto arato, produce frutto.

Antonio Magnante


Parole di corsa

Gesù ha bisogno di noi

Padre Osvaldo Coppola, nato a Specchia (Lecce) nel 1953 ha vissuto la sua chiamata alla missione tra Italia, Portogallo, Inghilterra e Sudafrica. Una vita spesa a dire sì al Signore e ai fratelli.

Ciao amico. Mi presento: sono padre Osvaldo Coppola, nato a Specchia (Lecce) nel 1953. Da ragazzino frequentavo la parrocchia come ministrante e membro del coro. A 15 anni, mentre frequentavo l’Istituto professionale di Casarano, è nato in me il desiderio di diventare missionario per portare il Vangelo ai popoli che non lo conoscevano, così ho deciso di entrare in seminario.

Ho scelto l’istituto dei missionari della Consolata quando ho capito che era una congregazione dedicata alle missioni tra i popoli più poveri e ancora non cristiani. Ma anche per la mia forte devozione a Maria: mi piaceva che l’istituto si chiamasse «missionari della Consolata».

Tra Veneto, Piemonte e Londra

Così sono andato in provincia di Treviso, nel seminario di Biadene, e ho frequentato le scuole superiori di Montebelluna. Subito dopo gli esami di maturità ho fatto l’anno di noviziato in Certosa di Pesio (Cuneo). Per gli studi di filosofia e teologia, invece, sono stato al seminario internazionale di Londra per cinque anni.

La prima sfida a Londra è stata quella di imparare la lingua inglese per poter affrontare gli studi teologici.

È stato un periodo bello, ricco di esperienze arricchenti umanamente, spiritualmente e culturalmente. A Londra, oltre alla cultura inglese, si viveva anche un’atmosfera mondiale.

Tappa in Portogallo

Dopo essere stato ordinato diacono a Londra ero pronto per la missione in Africa o in America Latina, ma i superiori mi hanno destinato in Portogallo. Così ho imparato un’altra lingua facendo una bellissima esperienza nella parrocchia della Serafina nella periferia di Lisbona nel Bairro da Liberdade.

Il 27 giugno del 1981 sono stato ordinato sacerdote a Specchia. Sarei ritornato volentieri nella parrocchia della Serafina per continuare il servizio pastorale tra la gente della quale ormai ero innamorato. Invece mi è stato chiesto di andare a Ermesinde, sempre in Portogallo, nel seminario di Aguas Santas con i ragazzi delle scuole medie.

Dopo due anni sono passato al seminario di Fatima. Essere responsabile della formazione dei giovani, inizialmente mi ha preoccupato, ma ho trovato dei bravi confratelli che mi hanno aiutato a inserirmi in quel ruolo delicato. Era bello pensare che tra quei ragazzi c’erano alcuni futuri missionari della Consolata.

Nel Sudafrica dell’apartheid

Dopo tre anni a Fatima è giunta per me l’ora di cambiare continente. Sono stato destinato in Sudafrica. Finalmente la tanto desiderata Africa!

Quando sono arrivato in Sudafrica nell’agosto del 1987, Nelson Mandela era in prigione, il paese era ancora in pieno regime dell’apartheid: i popoli delle varie tribù africane erano vittime del regime razzista. Questa era la sfida che si affrontava con sofferenza ma anche con determinazione annunciando il Vangelo di Cristo. Era un periodo di intense lotte per l’uguaglianza, la libertà, la giustizia e la pace tra tutti i popoli.

Quotidianamente eravamo testimoni di episodi di insurrezione da parte degli oppressi e di repressione da parte degli oppressori.

L’apartheid non solo divideva le varie etnie, ma era una ferita profonda che ci tagliava dentro l’anima. Come Cristo è il Cristo di tutti, così il missionario è missionario di tutti: lo sforzo quotidiano era quello di combattere le divisioni, spegnere il fuoco dell’odio per accendere quello dell’amore fraterno. Per contrastare la lotta armata dei vari gruppi, portavamo avanti la lotta spirituale della preghiera.

E il Signore ha ascoltato il grido del suo popolo ed è venuto in suo aiuto. Ho avuto la gioia di votare «sì» nel primo referendum che chiedeva il cambiamento del regime.

Ero ancora in Sudafrica quando Nelson Mandela è stato liberato nel 1991. Nel 1994 ho potuto partecipare alle prime votazioni democratiche e universali, quelle nelle quali Nelson Mandela è stato eletto presidente della Repubblica. Abbiamo vissuto momenti di grande trepidazione, commozione e gioia. Un grande senso di gratitudine a Dio Padre di tutti e commossa gratitudine ai fratelli e sorelle che avevano sacrificato la loro vita nella lotta per la libertà, la giustizia, la pace e l’uguaglianza.

Mandela è stato un grande dono di Dio, non solo per il Sudafrica, ma per tutta l’umanità.

Ritorno in Italia

Dopo dieci anni di Sudafrica sono stato richiamato in Italia, nella parrocchia Maria Regina delle Missioni a Torino. Dopo 21 anni, ci ho messo un po’ per «rientrare» in un paese cambiato.

A Torino ho trovato una calorosa accoglienza. Gli otto anni trascorsi in parrocchia sono stati belli, di intenso lavoro pastorale tra i giovani e gli adulti. Anche lì, come in Sudafrica, la fatica principale è stata quella di creare comunione nella comunità.

Nel 2005, per obbedienza, ho lasciato Maria Regina delle Missioni e, prima di andare in una nuova missione, ho frequentato dei corsi di aggiornamento presso l’Università urbaniana a Roma. Poi sono stato destinato al Centro di animazione di Martina Franca (Ta) dove ho lavorato molto con i giovani e per i giovani.

Questa bella esperienza è terminata dopo due anni, quando mi è stato chiesto di tornare a Roma per fare il segretario generale dell’Istituto.

Dopo aver svolto per quattro anni questo importante servizio, ho continuato la mia missione a Galatina, in provincia di Lecce, dove mi trovo ancora attualmente.

Viviamo la pastorale parrocchiale come animazione missionaria e vocazionale. Lavoriamo per evangelizzare e costruire una comunità cristiana nella quale il Signore possa chiamare giovani che sappiano accogliere l’invito a seguire Cristo e mettersi al Suo servizio per portare il Vangelo a tutti i popoli.

L’umanità ha bisogno di Gesù Cristo.

Gesù Cristo ha bisogno di noi, uomini e donne che abbiano il coraggio, la generosità di lasciare da parte il resto e dedicarsi a seguire Cristo per conoscerlo e farlo conoscere a tutti.

Osvaldo Coppola


Progetto Colombia

https://www.flickr.com/photos/lisamikulski/17456904840/

Giovani di Solano costruttori di pace

Un progetto per costruire coscienze e tessere legami di pace in un territorio nel quale i ragazzi respirano violenza fin dalla nascita e sono corteggiati dai gruppi armati in cerca di nuove leve.

Educare alla pace i giovani di Solano, villaggio nel Sud della Colombia, in un territorio per decenni dominato dalla guerriglia e oggi da gruppi armati che non hanno accettato gli accordi tra Farc e governo del 2016.

Tentare di sottrarre i ragazzi poveri e privi di strumenti culturali e di rete sociale ai gruppi armati sempre in cerca di nuove leve.

Mettere in sinergia questo lavoro di prevenzione della violenza con l’educazione ambientale, perché in quelle terre una buona relazione con la natura è parte del cammino di pace.

Ecco gli obiettivi del nuovo progetto di amico per il 2019, anno del sinodo panamazzonico.

Un territorio immenso e ricco

I padri Angelo Casadei e Rino Dellaidotti, missionari della Consolata impegnati nella parrocchia Nuestra Señora de las Mercedes di Solano, propongno ai lettori di amico un progetto per costruire coscienze e tessere legami di pace in un territorio nel quale i ragazzi respirano la violenza fin dalla nascita.

Solano si trova nel dipartimento del Caquetá, in piena foresta Amazzonica, nella Colombia del Sud. Nel villaggio vivono 2mila abitanti, mentre il territorio municipale, che è uno dei più estesi della Colombia (43mila km2, come Lombardia e Veneto messi insieme), conta in tutto 24mila abitanti, distribuiti in circa 100 villaggi raggiungibili solo a piedi, via fiume o a cavallo. Questi sono organizzati in nove «nucleos», raggruppamenti di 8-12 villaggi che fanno capo a quello più facile da raggiungere nel quale vi è di solito la scuola media e superiore e un collegio che alloggia i ragazzi dei villaggi vicini.

Nella giurisdizione della parrocchia sono presenti anche sedici comunità indigene.

La città più vicina è Florencia, la capitale del Caquetá a 170 km via fiume.

Nell’immenso territorio di Solano è presente uno dei più bei parchi amazzonici della Colombia, la «Serrania del Chiribiquete», nel quale vivono popolazioni indigene isolate e specie di flora e fauna ancora non catalogate.

Una storia in movimento

A Solano i missionari della Consolata sono presenti dal 1952. Nella sua storia, questo territorio è stato meta di varie ondate di colonizzazione dovute allo sfruttamento della foresta, delle pelli pregiate, dei suoi animali, del caucciù, del legname e alla coltivazione della pianta di coca. Esso è anche rifugio di banditi. Per lungo tempo è stato dominato dalla guerriglia: prima la M19, poi le Farc-Ep. Oggi, dopo l’accordo di pace del 2016, gruppi «dissidenti» continuano la lotta armata, imponendo la loro legge, e arruolando giovani nelle loro fila.

Le attività economiche

Tra la popolazione locale è diffuso l’allevamento del bestiame e la produzione di latte e formaggio per l’industria, nonostante il trasporto verso Florencia e le altre comunità della zona sia molto costoso perché avviene solo via fiume.

Le altre attività sono tutte finalizzate all’autoconsumo e al commercio locale: si coltivano yuca, banane, canna da zucchero, mais, riso; vengono allevati galline, polli, tacchini, capre, maiali e viene praticata la pescicoltura su piccola scala.

A 2 km da Solano vi è una base aerea militare che effettua voli di appoggio per la popolazione civile in caso di emergenza.

Il rischio per i giovani

«La Colombia dopo 60 anni di guerra ha firmato un accordo di pace con la Farc-Ep, una delle guerriglie più forti in questo paese», afferma padre Angelo. «Stiamo vivendo una tappa storica e allo stesso tempo delicata. Soprattutto nel nostro territorio dove la guerriglia era molto forte: come ricostruire una società che per decenni è stata governata dalle armi? Chi occuperà gli spazi di potere lasciati vacanti dalla Farc in un territorio dove lo stato si fa presente a fatica?». In questo periodo di post conflitto stanno emergendo gruppi di «dissidenti» composti da guerriglieri che non hanno aderito al processo di pace e che vogliono continuare a governare il territorio con la forza, in modo autonomo.

«Pensiamo che le future generazioni siano quelle più a rischio – prosegue padre Angelo -: sia perché manca una formazione umana e religiosa che li possa orientare verso i valori della vita, sia perché, per sete di potere, ambizione, ignoranza, i giovani si lasciano convincere ad arruolarsi nei gruppi armati illegali. È importante formare giovani leader che diventino capaci di attirare e animare altri giovani. Inoltre altro punto importante è un lavoro sulle coscienze: perdono e riconciliazione con se stessi, gli altri e verso la creazione».

Padre Angelo accenna al tema della creazione. Il progetto infatti prevede, tra gli obiettivi, anche quello di educare all’ambiente: «Viviamo nella conca Amazzonica, uno dei territori che dobbiamo conservare per il bene dell’umanità. È importante educare le nuove generazioni nell’amore per il luogo privilegiato nel quale vivono».

Luca Lorusso




Aleida Guevara, una degna figlia del Che


Il papà è stato e ancora rimane un’icona globale. Lei, medico pediatra, ha girato il mondo per ricordare la sua figura. Lo scorso marzo Aleida è tornata in Italia. A pochi giorni dall’approvazione definitiva della nuova Costituzione cubana.

Testo di Gianni Minà

Essere figlia di un mito della storia del ventesimo secolo è un impegno che può schiacciarti o, al contrario, esaltarti. Ho conosciuto e frequentato, negli anni, Aleida Guevara March, figlia di Ernesto Che Guevara, e posso dire di ammirarla per la sua capacità di sostenere questo peso nel tempo con assoluta leggerezza umana.

Aleida, che gli amici chiamano Aliucha, è oggi un medico pediatra all’ospedale William Soler di La Habana, ma il destino ha voluto che venisse scelta anche come rappresentante della famiglia e della rivoluzione nel difficile compito di continuare a portare, in giro per il mondo, la parola di suo padre, il Che, in decine di avvenimenti dove si narrano le gesta e spesso anche l’epopea di Ernesto Guevara.

La storia ha voluto così, disegnando per lui un ruolo di esempio indiscutibile a fianco di Fidel Castro e per lei un compito importante all’interno della rivoluzione stessa.

Aliucha è stata ed è la portavoce dell’utopia di suo padre e ancora adesso, a 58 anni, è capace di rinverdire, con le sue conferenze e le interviste, una testimonianza che sfiora la leggenda in Africa come in Australia, nella scettica Europa o nel Sud del mondo e nel cuore dell’America Latina.

«Il fatto è che ho dovuto supplire a volte alla timidezza dei miei fratelli. Di Hilda, figlia del primo matrimonio di mio padre, di Camilo, responsabile del Centro culturale Che Guevara, e di Celia, che è veterinaria all’acquario nazionale di Cuba, e di Ernesto, che lavora nel settore turistico. Il merito è stato di mia madre, un’antica combattente della rivoluzione che pure seppe conciliare i suoi doveri di madre con quelli da militante (è stata per anni deputata e guidava la delegazione della commissione esteri del parlamento cubano, ndr)».

Aleida nel tempo si è preparata con puntiglio, conscia del dovere di essere pronta per questa incombenza e fornendo un esempio tangibile pure alle figlie Celia, anch’essa medico, come tradizione famigliare, specializzata in chirurgia cardiovascolare, ed Estefania, studentessa di economia.

Nel 1996 accompagnai Aleida a un ricevimento che le sorelle Fendi, le signore della moda italiana, offrivano per festeggiare l’uscita italiana della rivista «George», fondata da John John Kennedy, che era ospite dell’evento. Nell’occasione colpiva il contrasto tra lo sguardo affascinante, ma discreto del giovane Kennedy e quello sbarazzino della figlia del Che.

John evitava di guardare negli schermi dove passavano le immagini della presidenza tragica di suo padre, Aleida invece raccontava le sue esperienze fatte in Angola e in Nicaragua nell’impegno di alleviare le difficoltà di quei popoli. I due simpatizzarono. Purtroppo, tre anni dopo il giovane Kennedy sarebbe perito in un incidente accaduto su un aereo che lui stesso pilotava.

Aleida l’ho rivista l’11 marzo scorso in un incontro ad Assisi per una conferenza sulla mediocrità della vita che attualmente viviamo, in una sala della Pro Civitate Christiana che straripava di persone. Nella circostanza la figlia del Che, in due ore, ha chiarito molti degli interrogativi, che la nuova Costituzione, recentemente varata a Cuba, aveva posto, avendo come obiettivo una migliore qualità della vita.

L’iter di questo rinnovamento, dopo la scomparsa di Fidel Castro, era stato avviato dal Parlamento cubano con un progetto costituzionale discusso poi in tutti i Cdr (Comitati di difesa della Rivoluzione). I cittadini cubani avevano presentato a loro volta un milione di modifiche al progetto iniziale e il Parlamento, grazie a queste proposte, aveva rettificato il progetto iniziale del 60%. Il 24 febbraio 2019 si è poi svolto un referendum per rendere ufficiale il cambiamento. L’85% degli aventi diritto al voto si sono recati ai seggi e l’83% di questi ha votato sì.

Cuba ha mantenuto così la prerogativa di nazione latinoamericana più equa e più sicura del continente malgrado un vergognoso embargo degli Stati Uniti che dura da più di mezzo secolo. Credo che questa caratteristica, al di là di qualunque sbaglio, sia il frutto di una nazione ancora unita che si riflette nella serenità del suo popolo.

Non è un caso che quando finalmente, nel 1997, il corpo dell’eroe più splendido di tutta l’America Latina era stato restituito a Cuba dalla Bolivia, Aleida, la figlia che non si arrende, aveva salutato la salma del padre con queste parole:

«Più di trenta anni fa i nostri padri
si congedarono da noi.

Partirono per tenere alti gli ideali di Bolivar, di Martì:
un continente unito e indipendente, ma nemmeno
loro sono riusciti in questo intento
Erano coscienti che i grandi sogni si avverano
solo a costo di immensi sacrifici.

Non li abbiamo più visti.
Allora quasi tutti noi eravamo molto piccoli,
adesso siamo uomini e donne
e abbiamo visto e vissuto,
forse per la prima volta, momenti
di grande dolore, di pena intensa.

Sappiamo come si sono svolti i fatti
e ancora ne soffriamo.

Oggi tornano a noi le loro spoglie,
ma non tornano sconfitti. Tornano da eroi,
eternamente giovani, coraggiosi, forti, audaci.
Nessuno può toglierci questo.
Saranno sempre vivi, insieme ai loro figli,
nel loro popolo».

Gianni Minà

 




Iraq: Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, ricostruire dopo l’Isis

Testi di Marta Petrosillo, foto ACS |


Estate 2014: centinaia di migliaia di cristiani fuggono da Mosul e dalla piana di Ninive. L’Isis ha iniziato la sua avanzata con distruzioni e massacri. Quando la zona viene liberata più di due anni dopo, molti decidono, con coraggio, di tornare. Vogliono ricostruire una presenza cristiana vecchia di duemila anni. In prima fila a sostegno delle popolazioni le Chiese cristiane.

Ritornare a vivere a casa propria dopo l’Isis, dopo l’orrore, dopo aver visto tanti, familiari e amici, abbandonare per sempre il paese, è possibile. Ce lo dimostrano i cristiani iracheni che, nonostante il dolore e l’incertezza, non si sono arresi a chi voleva cancellare la loro presenza da queste terre e oggi sono tornati in gran numero nella piana di Ninive dalla quale erano dovuti fuggire in massa.

Quando è stata liberata tra fine 2016 e inizio 2017, e quando si sono potute constatare le distruzioni compiute, nessuno sperava in un simile miracolo.

Iraq Ninive area Qaraqosh/Bakhdida – ritorno a casa

Tornare in città distrutte

A Qaraqosh, piccolo centro urbano a circa 30 km a Sud Est di Mosul, nel Nord dell’Iraq, noto per essere la roccaforte della cristianità nel paese, si stima che siano ritornati 25.650 cristiani: il 46 per cento di quanti abitavano la cittadina prima dell’invasione dell’Isis nell’agosto 2014.

Notevoli risultati si sono registrati anche in altri villaggi della piana: a Karemlesh, distante 5 km da Qaraqosh, sono rientrati il 26 per cento dei cristiani fuggiti nel 2014, mentre a Telskuf, 60 km più a Nord, i rientri sono stati ben 5.313, ossia il 73 per cento, la quota più alta della zona. Proprio nel villaggio di Telskuf è stata riconsacrata la prima chiesa della piana di Ninive, quella di San Giorgio, danneggiata e profanata dall’Isis. «Un messaggio di speranza e di vittoria. Lo Stato islamico voleva cancellare la presenza cristiana e invece i jihadisti se ne sono andati, mentre noi siamo tornati», ha detto monsignor Bashar Matti Warda festeggiando la riconsacrazione della chiesa l’8 dicembre 2017.

Le Chiese unite per ricostruire

Il processo di ricostruzione ha visto le Chiese irachene in prima linea. L’opera di ripristino e di riedificazione delle oltre 13mila abitazioni bruciate, distrutte e danneggiate dallo Stato islamico, è stata ed è coordinata, infatti, dal Comitato per la ricostruzione di Ninive (Nrc, Nineveh Reconstruction Committee), istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese dell’Iraq: caldea cattolica, siro cattolica e siro ortodossa, con la collaborazione della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre.

Ognuna delle tre Chiese ha due suoi rappresentanti nel comitato. Monsignor Timothaeus Mosa Alshamany, arcivescovo della Chiesa siro ortodossa di Antiochia e priore del monastero di San Matteo, dopo la firma dell’accordo ne ha sottolineato la duplice, storica portata: da un lato lo spirito ecumenico, dall’altro la reale possibilità per migliaia di cristiani di tornare alle loro radici e a una vita dignitosa. «Oggi – ha affermato – siamo una Chiesa davvero unita; unita per la ricostruzione delle case nella piana di Ninive, per infondere fiducia nei cuori delle persone che vivono in quei villaggi e per invitare quelli che li hanno lasciati a tornare».

Iraq, Bartela, 10/09/017, distribuzione di piantine di palma alla chiesa della Vergine Maria della Chiesa ortodossa siriaca. © ACS

Ripristinare la dignità

Molti sacerdoti si sono trasformati in ingegneri, architetti e geometri. Don Georges Jahola è uno di loro: è il sacerdote siro cattolico che ha coordinato la ricostruzione di Qaraqosh. Non appena celebrata la messa, don Jahola smette i paramenti e prende il cellulare per seguire i lavori. Gli abbiamo parlato a fine gennaio scorso: «Dopo 2 anni di occupazione dello Stato islamico, al nostro rientro abbiamo trovato quattro chiese bruciate, due siro cattoliche e due siro ortodosse. Abbiamo trovato una chiesa totalmente distrutta, mentre altre erano gravemente danneggiate. Abbiamo celebrato la messa in chiese bruciate. Ora stiamo costruendo e ristrutturando edifici dove poter svolgere catechesi e altre attività pastorali».

La priorità è quella di ristabilire una presenza cristiana, per fare in modo che anche altre famiglie decidano di tornare. «Vogliamo creare spazi per i bambini e per il tempo libero degli adulti e dei giovani», continua don Jahola che ricorda anche le drammatiche condizioni in cui ha trovato Qaraqosh: «Abbiamo visto una città distrutta. Da un lato a causa di oltre due anni di abbandono, dall’altro per via della furia dell’Isis. Il 35% delle case era stato distrutto. Ci siamo spaventati, ma non ci siamo persi d’animo. Abbiamo mappato tutte le case, le abbiamo fotografate, assegnato loro un codice ed elencato i danni di ciascuna. Qui in Iraq se non ci pensa la Chiesa a far fronte alle necessità di questa povera gente non lo farà nessuno».

Oggi, laddove un tempo sventolavano le bandiere nere dell’Isis, sono tornate le famiglie cristiane. «Quasi tutte le parrocchie hanno riaperto – continua don Jahola -. Soltanto due anni fa era impensabile poter ritornare a Ninive. Ma questo significa per noi riacquistare le nostre radici e poter vivere la nostra fede in unione con quella dei nostri antenati».

«Qui c’è il nostro futuro»

Ritornare a casa non è stato semplice per i cristiani. «È stata una ferita al cuore quando ho visto cosa rimaneva della mia abitazione e della mia città», ci confida Wisam, rientrato a Qaraqosh assieme alla sua famiglia dopo aver vissuto da rifugiato a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, per oltre due anni.

Ad aiutare Wisam e gli altri cristiani desiderosi di tornare a casa vi è anche Amjeed Tareq Hano, un giovane di 28 anni che aiuta il team di 70 ingegneri al lavoro nella sola Qaraqosh. Sulla sua scrivania un’alta pila di richieste. «Per poter ricevere un sostegno i proprietari devono contribuire personalmente alla ricostruzione o al ripristino – spiega il giovane ad Acs -. Soltanto così possiamo contenere i costi e aiutare altre famiglie».

Amjeed sottolinea come il governo iracheno non abbia affatto sostenuto l’opera di ricostruzione. «Sconfiggiamo l’Isis armati di intonaco e mattoni».

Dopo la presa della piana di Ninive da parte dell’Isis, anche Amjeed ha vissuto con la sua famiglia a Erbil. Non ha mai rimpianto la decisione di rimanere nel proprio paese, in Iraq. «Dobbiamo bollire l’acqua, l’elettricità è prodotta dai generatori e le strade sono piene di buche. L’Iraq è tutto fuorché sicuro, ma questa è la nostra casa e qui è il nostro futuro. E la nostra patria ha estremamente bisogno della presenza di noi cristiani».

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, padre Georges Jahola mostra figure e dati del piano di ricostruzione. © ACS

Un nuovo vescovo per i Caldei

Ma se nella piana di Ninive il ritorno dei cristiani dopo la liberazione dallo Stato islamico è stato a dir poco sorprendente, a Mosul, seconda città dell’Iraq, la situazione è ben diversa.

«La nostra più grande sfida è quella di restituire la fiducia ai fedeli, così che possiamo lavorare insieme per costruire il futuro dei cristiani in Iraq», ci dice monsignor Michaeel Najeeb Moussa, domenicano, poco dopo la sua ordinazione episcopale come vescovo dei caldei di Mosul avvenuta il 25 gennaio. Dopo quasi cinque anni da quando lo Stato islamico aveva costretto il suo predecessore monsignor Emil Shimoun Nona a lasciare la città, la comunità caldea di Mosul e della piana di Ninive ha nuovamente un pastore.

Vi sono molti funzionari governativi e anche studenti universitari cristiani che si recano a Mosul ogni giorno, ma nessuno ha il coraggio di rimanere stabilmente a vivervi. Il timore è che permangano in città cellule nascoste di jihadisti e, in ogni caso, che l’Isis possa tornare. In più i cristiani ora faticano a fidarsi anche dei loro ex vicini di casa musulmani che in molti casi hanno aiutato i combattenti islamisti. «Preferiscono percorrere anche 85 chilometri per tornare a dormire nei villaggi della piana di Ninive, perché qui non si sentono al sicuro», ci spiega il presule.

Al momento neanche lui può tornare a risiedere in città: «L’85 per cento delle chiese di Mosul è stato distrutto così come l’arcivescovado». Ma monsignor Najeeb spera di tornarvi presto ed è sicuro che la presenza di un vescovo in città donerà di nuovo speranza anche agli altri. «Credo che il ritorno dei cristiani a Mosul sia possibile, e credo che tutto cambierà quando si tornerà a celebrare stabilmente la messa, come si è fatto per duemila anni, prima dell’arrivo dell’Isis».

Convertirsi, fuggire o morire

Monsignor Najeeb ha avuto un ruolo essenziale nella salvaguardia delle radici cristiane. Quando è fuggito a Erbil, dopo l’arrivo dell’Isis nel 2014, ha salvato decine e decine di manoscritti antichi che catalogava e digitalizzava da decenni per preservare il patrimonio storico del popolo cristiano e di tutti gli iracheni.

Esattamente come il suo predecessore, l’arcivescovo emerito dei caldei di Mosul, Emil Shimoun Nona, anche monsignor Najeeb ha affrontato lo stesso destino dei cristiani di Mosul e della piana di Ninive.

Nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 2014, l’Isis ha preso possesso della città, costringendo alla fuga oltre metà della popolazione. Ai pochi cristiani che, nelle prime settimane dopo l’arrivo dell’Isis, sono rimasti a Mosul, è stata imposta inizialmente la jizya, la tassa, cosiddetta «di protezione», riscossa ai non musulmani ai tempi dell’impero ottomano. Ma il piano per trasformare l’Iraq e la Siria in un unico Califfato islamico non poteva prescindere dall’eliminazione delle minoranze religiose. Così a metà luglio i jihadisti hanno marchiato le case cristiane della città con la lettera araba «ن», iniziale della parola nasara: nazareni. Quindi i fondamentalisti hanno obbligato i cristiani rimasti a scegliere se convertirsi, fuggire oppure essere uccisi. Nelle ore seguenti code interminabili di auto e di persone si sono dirette verso il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive. Ma chi ha optato per la seconda scelta si è visto costretto a fuggire di nuovo nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, quando lo Stato islamico ha preso possesso di 13 villaggi cristiani della piana.

In una sola notte, oltre 125mila fedeli hanno dovuto abbandonare le proprie case senza poter prendere nulla. Molti di loro hanno camminato per ore in pigiama prima di giungere a Erbil o alla vicina città di Duhok. Sfuggiti alla crudeltà dei miliziani, gli ultimi cristiani in Iraq hanno dormito per giorni nelle chiese, nelle scuole, all’ombra di palazzi fatiscenti per poi trovare «finalmente» una casa in tende asfissianti in cui le temperature, nella calda estate del 2014, sfioravano i 44 gradi.

Poi, fortunatamente, grazie alle Chiese locali e alla generosità di molti benefattori, le famiglie hanno trovato alloggio in case prefabbricate o in appartamenti in affitto dove hanno vissuto almeno fino alla metà del 2017.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, madre e figli davanti alla loro casa ricostruita a Qaraqosh. © ACS

Una storia di persecuzioni

Quella perpetrata dallo Stato islamico non era tuttavia la prima persecuzione subita dai cristiani iracheni. Il loro numero complessivo nel paese era già diminuito da un milione e 200mila fedeli nel 2003 ai poco più di 300mila del 2014.

L’instabilità del paese, in seguito all’inizio della guerra nel 2003 e alla caduta del regime di Saddam Hussein, ha significato l’inferno per la minoranza cristiana, schiacciata nel fuoco incrociato tra sunniti e sciiti e direttamente perseguitata.

In città come Baghdad, Bassora, Kirkuk, Mosul, tante famiglie cristiane si sono viste recapitare messaggi minatori sull’uscio delle proprie case e, col passare del tempo, hanno dovuto rinunciare alla Messa di Natale nella sera del 24 e a fare l’albero e il presepe se non all’interno delle proprie case. Alcuni cristiani hanno dovuto pagare la jizya, sono stati espropriati delle loro terre e le donne si sono abituate a coprire il capo con un foulard, per confondersi tra le musulmane.

Numerosi rapimenti e uccisioni di fedeli, sacerdoti e perfino vescovi hanno segnato gli ultimi anni della vita dei cristiani in Iraq.

Uccisi in odio alla fede

A Mosul, uno dei simboli del martirio cristiano in Medio Oriente, dopo la caduta di Saddam sono stati uccisi in odio alla fede oltre mille cristiani. La persecuzione non ha risparmiato né l’arcivescovo caldeo monsignor Faraj Rahho, rapito e poi ucciso nel 2008, né il suo segretario, padre Ragheed Ganni.

Padre Ragheed non aveva voluto arrendersi alle minacce di chi gli intimava di chiudere la sua chiesa dello Spirito Santo a Mosul. È stato ucciso il 3 giugno, al termine della Messa. «Ti avevo detto di chiudere la chiesa. Perché non l’hai fatto?», gli ha domandato uno dei suoi assassini. «Come posso chiudere la casa di Dio?», ha risposto lui prima di soccombere al fuoco dei proiettili.

Non vi è dunque da stupirsi se nei lunghi mesi tra il 2014 e il 2017, molti cristiani hanno lasciato il paese in preda allo sconforto e a causa della mancanza di prospettive future.

Poi però con la liberazione della piana di Ninive e la ricostruzione delle case cristiane è avvenuto un vero e proprio miracolo. Lo stesso che oggi si attende a Mosul.

Marta Petrosillo

Iraq, dicembre 2014, bambini al centro “Werenfried” creato per accogliere persone forzate a lasciare le loro case dall’Isis. © ACS


La solidarietà del papa viaggia in Lamborghini

«Ci lasciano increduli e sgomenti le notizie giunte dall’Iraq: migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera brutale». Così papa Francesco all’Angelus del 10 agosto 2014. Sono passati soltanto tre giorni dalla presa dei villaggi della piana di Ninive, ma il santo padre nomina già come suo inviato speciale nel paese il cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e già nunzio in Iraq dal 2001 al 2006. È il primo di molti gesti di vicinanza del pontefice ai cristiani iracheni e alle altre minoranze schiacciate dall’Isis.

«Cari fratelli e sorelle, siete nel mio cuore», dirà poi il santo padre in un videomessaggio registrato il 6 dicembre 2014 per i cristiani di Mosul ricordando l’importanza della loro testimonianza di fede, «la vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda».

Segni concreti di vicinanza

Sin dall’inizio della tragica avanzata dell’Isis il papa esprime il desiderio di visitare i suoi fedeli iracheni. Le precarie condizioni di sicurezza non rendono possibile la visita, anche se il viaggio del cardinal Parolin in terra irachena, dal 24 al 28 dicembre 2018, fa ben sperare per il futuro.

Tuttavia i cristiani d’Iraq percepiscono forte la vicinanza del pontefice, attraverso le sue parole, la sua preghiera e i suoi gesti concreti.

Già nel 2016 papa Francesco, attraverso la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha finanziato con 100mila euro la Saint Joseph Charity Clinic che a Erbil offre assistenza medica gratuita.

Poi il 15 novembre 2017, Francesco ha deciso di devolvere al progetto Acs per la ricostruzione dei villaggi cristiani della piana di Ninive, parte del ricavato della vendita all’asta della Lamborghini Huracan da lui ricevuta in dono dalla casa automobilistica.

I fondi ricevuti sono stati impiegati nella ricostruzione di due strutture della Chiesa siro cattolica distrutte dalla guerra nel villaggio di Bashiqa: l’asilo intitolato alla Vergine Maria e il centro polivalente dell’omonima parrocchia, che sarà a disposizione di oltre 30mila abitanti di diverse etnie e fedi.

M.P.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018. Cristiani che ricostruiscono le loro case con l’aiuto di ACS. © ACS




Dopo la pentecoste: Una predicazione «arcaica»

Testo di Angelo Fracchia |


La prima chiesa, ritratta dagli Atti degli Apostoli, non si limita ovviamente a ricevere dei doni (la visione di Gesù risorto, l’effusione dello Spirito), ma si impegna da subito a testimoniare e annunciare ciò che le è accaduto. È quanto Luca ci racconta in un lungo discorso attribuito a Pietro, che parte dalla buffa osservazione che questi uomini, che parlano in lingue strane e potrebbero sembrare ubriachi, in realtà non hanno ancora bevuto vino, anche perché è mattina presto, ma si comportano in questo modo per un’altra ragione (At 2,14-15).
Come è ovvio per ogni opera che pretenda di essere storica e come ci capiterà di chiederci più volte lungo la lettura degli Atti, insieme alla domanda su che cosa insegni ancora a noi oggi questo annuncio nasce quella riguardante la verità di ciò che è narrato: davvero Pietro ha detto queste cose?

Sappiamo bene che non ci interessa la verità assoluta di ogni singolo particolare, ma la proclamazione di una storia che non abbia alcun fondamento storico sarebbe falsa. È ovvio che nessuno potrà mai restituirci la registrazione di quelle prime parole ed è anche altamente improbabile che spunti una cronaca diversa ma altrettanto vicina a quegli avvenimenti. In loro mancanza, dobbiamo provare a ragionare su ciò che leggiamo.

Se da una parte Pietro, già nei vangeli, era in qualche modo il portavoce dei dodici, tanto che poteva essere naturale che fosse lui a parlare a nome di tutti (benché in fondo non ci importi chi avesse parlato allora, l’importante era che rappresentasse i discepoli), dall’altra parte qualcosa possiamo ricavare da ciò che Pietro dice. E prima ancora di entrare nel cuore delle questioni, da buoni detective dell’antichità, possiamo trarre importanti deduzioni da due particolari che potrebbero sfuggire a una lettura superficiale.

Intanto, Pietro parla di Gesù come se fosse uno sconosciuto: «Gesù di Nazareth, uomo accreditato da Dio presso di voi…» (v. 22); «Questo Gesù…» (v. 32); «Quel Gesù che voi avete crocifisso…» (v. 36). Non pensa di presentarlo come «Gesù (il) Cristo», come se il fatto fosse qualcosa già ben noto a tutti. Presenta invece uno che gli interlocutori non conoscono.

Ma è ancora più significativo un altro passo: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù» (v. 32). Sembrerebbe che Pietro pensi che Gesù è diventato Signore e Cristo solo dopo che Dio, con la risurrezione, l’ha costituito tale. Lo stesso Luca, in realtà, nel suo Vangelo, aveva spiegato, nei primi due capitoli, che Gesù era Cristo fin dal concepimento. Ma è comprensibile che la prima comunità cristiana abbia capito solo nella risurrezione chi davvero Gesù era e si sia persino trovata a dire che Gesù era diventato Cristo nella risurrezione, prima di riflettere con più calma e precisione sugli avvenimenti e trovare formule teologiche più precise.

Si direbbe, insomma, che il primo discorso di Pietro sia stato scritto troppo presto; ma ciò non è verosimile, perché sicuramente Luca ha composto gli Atti dopo il suo Vangelo. Possiamo allora affermare, per esprimerci meglio, che probabilmente l’autore ha voluto restituirci quella prima predicazione nel modo più vicino possibile a ciò che davvero era stato detto, a costo di essere impreciso. Luca voleva farci sentire «il profumo» dell’inizio.

Fondati nella Scrittura

Da dove parte, allora, Pietro?

Dalla Bibbia ebraica. Non parte dalla tomba vuota, come forse avremmo fatto noi. Ma siccome sta cercando di annunciare un evento unico nella storia della religione, ritiene opportuno partire proprio dalla religione. Noi a volte pensiamo di poter parlare di Gesù dimenticandoci del tutto dell’Antico Testamento, ma Pietro sta lì a dirci che ciò non è possibile. Gesù è cresciuto conoscendo Dio innanzi tutto nell’ascolto della Bibbia, e per capirlo non possiamo saltarla.

In particolare, Pietro utilizza tre passi. Due di questi possono forse sembrarci più o meno prevedibili: è innanzi tutto il salmo 15 che prefigura un diletto di Dio che sarebbe stato sottratto alla morte (At 2,25-28; Sal 15,8-11). Come fosse un rabbino del suo tempo, Pietro dà per scontato che il salmo sia stato scritto da Davide e fa notare che però Davide è morto: a conferma, tutti sapevano dove fosse la sua tomba (v. 29). Siccome però Davide non parlava per fantasie proprie ma istruito da Dio, di certo quel progetto di Dio si sarebbe prima o poi compiuto. Ed ecco, dice Pietro, è oggi che si è compiuto, e con Gesù (vv. 30-33).

In aggiunta, come ciliegina sulla torta, il primo degli apostoli aggiunge anche un’altra citazione di un salmo (il 109), che doveva essere stata enormemente significativa per i primi cristiani, perché ritorna in tanti autori e contesti: «Dice il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra…» (At 2,34-35; Sal 109,1), testo che lasciava intuire che si poteva continuare a venerare Dio come Padre pur ammettendo che Gesù era Dio allo stesso modo. Questo passaggio, iniziare a venerare Gesù come Dio pur riconoscendolo in rapporto con un Padre che supera anche lui, è stato sicuramente uno dei più impegnativi per i primi cristiani: ci sono arrivati grazie alle parole della Bibbia, che li hanno aiutati a capire ciò che pure avevano visto e vissuto ma per la cui descrizione mancavano loro le parole adeguate.

Il primo dei brani citati da Pietro, però, potrebbe stupirci. È la visione di Gioele (Gl 3,1-5), che immagina un futuro nel quale Dio avrebbe donato il suo Spirito a tutti, così che tutti avrebbero potuto parlare le parole di Dio: uomini e donne, liberi e schiavi (At 2,16-21). E lo scopo di questo dono dello Spirito sarebbe stato la salvezza di tutti. I primi cristiani capiscono che il fondamento della novità che stanno vivendo è ovviamente la risurrezione di Gesù; ma la vera novità è che Dio non vuole tenersi staccato dagli uomini. Si è fatto conoscere nella vita di un uomo, che ha liberato dalla morte (orrenda per tutti gli uomini), per certificare che quell’uomo era davvero secondo il suo cuore; e poi aveva concesso a tutti, di qualunque condizione umana, di parlare per annunciarlo. Perché se Dio si dona a tutti, come aveva promesso e fatto in Gesù, e conferma che davvero Gesù è affidabile, non c’è più bisogno, per ascoltarlo, di essere liberi (non schiavi), o maschi, o ebrei, ma davvero tutti possono capirlo, incontrarlo, annunciarlo. Insomma, quello che per Gioele era un sogno degli ultimi giorni, si è compiuto.

Prima ancora di dire che con Gesù è vinta la morte, si dice che con la risurrezione di Gesù non c’è più nessuna condizione umana che ci possa separare da Dio.

Che cosa fare?

È comprensibile che la prima reazione di chi ascolta sia chiedere: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Va comunque notato che Pietro non è partito dal fare, dalla morale, ma dall’annuncio. Più importante di ciò che siamo chiamati a fare, c’è il capire la novità, intuire che qualcosa di decisivo è successo, che da quel momento le cose non potranno più essere uguali.

Poi, certo, si risponde anche alla domanda sul che cosa fare: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Noi siamo condizionati da secoli di annuncio cristiano concentrato sulla morale, e rischiamo di fraintendere. Pietro ha detto che gli ascoltatori sono cattivi? No! Allora, perché dovrebbero tutti convertirsi? Perché in quello che lui ha annunciato c’è qualcosa di nuovo, di imprevedibile, a cui bisogna volgersi: non a caso il senso originario della parola greca che traduciamo con «convertirsi» è «cambiare pensiero».

Pensavamo di dover fare delle cose, un cammino, fatica, per arrivare a Dio; pensavamo anche che alcuni fossero a Lui più vicini, che fosse per loro meno difficile raggiungerlo. Ma Dio, nel dono dello Spirito, ci dice che vuole incontrarci, e che non mette nessuna condizione. L’unica cosa necessaria è che dobbiamo cambiare testa: smettere di pensare di doverci conquistare l’incontro con Lui, e accettare che ci sia semplicemente regalato.

A quel punto anche i peccati possono essere perdonati, con quel battesimo nel nome di Gesù che indica l’intenzione, da parte del singolo, di vivere come e con Gesù, in quell’intimità con Dio che era di Gesù e che lui promette a tutti. A quel punto possiamo ricevere il dono dello Spirito, come garanzia, caparra (cfr. 2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,12) di quell’unione con il Padre che potevamo immaginare ci fosse impedita e che invece il Figlio è venuto a rendere possibile a tutti noi. Grazie a lui diventiamo pienamente figli del Padre (Gv 17,20-21).

È una nuova apertura senza confini quella che si spalanca davanti a coloro che cercano Dio: «Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro» (At 2,39). Davanti allo Spirito di Dio non ci sono confini, non ci sono muri, non c’è nulla che giustifichi qualunque forma di pregiudizio o privilegio di uomini nei confronti di altri uomini. Per Dio non ci sono distinzioni.

Ecco perché quella che potrebbe sembrarci una semplice annotazione finale, un po’ compiaciuta, sul numero dei convertiti, presenta comunque un particolare che, stavolta, la traduzione non ci consente di apprezzare appieno: «Quel giorno furono aggiunte circa tremila persone». Il greco, però, non parla di «persone» ma di «anime», che indubbiamente è un modo per indicare la persona, ma vista soprattutto nel suo rapporto con lo spirito, con Dio. Non importa il numero, importa che ci siano persone che entrano finalmente in rapporto intimo e autentico con Dio. Per questo viene lo Spirito, per questo Gesù ha dato la vita.

Angelo Fracchia
(3. continua)




Aiutarli a casa loro:

dalle parole ai fatti

Testo di Chiara Giovetti |


Negli ultimi anni si susseguono le dichiarazioni di intenti dei governi sull’impegno per lo sviluppo. Spesso si tratta di declinazioni più o meno esplicite dell’idea «aiutiamoli a casa loro» e si concentrano principalmente sull’Africa. Ma, ancora una volta, gli slogan allontanano, non avvicinano, i cittadini dalla comprensione dei fatti.

Diciamolo subito: ci vorranno anni, decenni probabilmente. Anche volendo prendere sul serio lo slogan «Aiutiamoli a casa loro», anche cominciando subito e anche mettendoci il doppio delle risorse che ci mettiamo ora, ci vorranno anni prima che il livello di sviluppo nei paesi di provenienza dei migranti sia tale da ridurre i flussi migratori.

Qualunque politico che affermi: stiamo lavorando per creare lavoro e opportunità in Africa, dovrebbe aggiungere almeno tre cose: la prima è che ci vorrà tempo prima che l’aiuto mondiale allo sviluppo sia in grado di incidere in modo decisivo sulle economie dei paesi a cui è diretto. La seconda è che, comunque, questo aiuto può essere efficace a patto che si riducano le spinte in senso contrario e che gli sia consentito di orientare in senso redistributivo l’aumento di ricchezza che i paesi a basso reddito tenteranno di raggiungere con le proprie forze. La terza, di cui solo da pochi anni si è cominciato a parlare, ma che ha il potenziale di minare alle fondamenta le tesi degli anti immigrazionisti, è che potrebbe andare peggio prima di andare meglio. Diversi studi, infatti, mettono in discussione l’equazione «più sviluppo uguale meno migrazione» e suggeriscono, al contrario, che il miglioramento delle condizioni di un paese potrebbe spingere i suoi cittadini a emigrare di più, non di meno.

Secondo il sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso settembre, gli italiani nel 2017 erano più convinti rispetto all’anno precedente che affrontare il problema della povertà nei paesi in via di sviluppo dovrebbe essere una priorità sia per l’Unione europea che per il governo italiano. Rispetto alla rilevazione del 2016, inoltre, gli intervistati favorevoli a che l’Ue e i suoi stati membri spendessero di più per aiutare i paesi poveri erano aumentati del 10%@.

La crescente sensibilità verso questo tema è con tutta probabilità legata al fenomeno migratorio e all’urgenza di trovare soluzioni per gestirlo: l’arrivo di migliaia di esseri umani sulle coste europee ci ha spinti a chiederci quali siano i motivi che portano i migranti ad affrontare un viaggio così drammatico e i rischi mortali ad esso connessi. A fronte di questa maggior sensibilità verso lo sviluppo, lasciare intendere – con affermazioni pressappochiste – che la cooperazione sia lo strumento per una soluzione raggiungibile nello spazio di una legislatura rischia di peggiorare, e di molto, le cose. Perché crea aspettative che, semplicemente, non possono che essere disattese e getta le basi per un pericoloso passaggio successivo: se la cooperazione non serve, non facciamola più.

A che punto siamo

Il mondo dello sviluppo non solo è lontano dall’essere una bancarella di bacchette magiche capaci di risolvere velocemente i problemi se solo ci si decidesse a usarle; è anche un mondo inquieto e percorso in profondità da dubbi e contraddizioni. Sono passati dieci anni da quando il libro Dead Aid (in italiano: La carità che uccide), scritto dall’economista zambiana Dambisa Moyo, ha ferocemente criticato il sistema degli aiuti. «Negli ultimi cinquant’anni», scriveva Moyo nell’introduzione, «più di mille miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai paesi ricchi verso l’Africa. Questa assistenza ha migliorato la vita degli africani? No. In realtà, in tutto il globo, i beneficiari di questo aiuto stanno peggio. Molto peggio». E solo quattro anni fa la comunità internazionale si sedeva (simbolicamente) intorno a un tavolo per constatare che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, trionfalmente lanciati nel 2000, non erano stati completamente raggiunti@.

Oggi, mentre gli Obiettivi di sviluppo del Millennio hanno lasciato il posto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015-2030, gli addetti ai lavori nelle agenzie internazionali, nei governi e nelle Ong stanno ancora ponendosi molte domande non solo sugli interventi sui quali concentrarsi ma anche su come misurare i risultati.

Euractiv, rete di media europei che segue l’attualità e il dibattito sui temi rivelanti per l’Ue, ne ha parlato con Sarah Holzapfel, economista e ricercatrice specializzata sull’agricoltura all’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo (Die). Non basta, sottolinea Holzapfel, citare come risultati il numero di chilometri di strade costruiti o l’acqua fornita con i progetti idrici. «Le vite dei gruppi beneficiari sono cambiate? Il loro reddito è cresciuto? La sicurezza alimentare è aumentata?». Queste sono le domande da porsi per capire qual è l’impatto della cooperazione. E, in mancanza di criteri comuni e di sforzi coordinati fra tutti i donatori, compiere queste misurazioni è a oggi estremamente complicato@.

Non bisogna inoltre dimenticare che parte delle difficoltà a misurare non solo i risultati ma anche i problemi da affrontare deriva dalla molto variabile disponibilità di dati statistici e dalla loro non sempre immediata comparabilità. È un’informazione che fatica a farsi strada fino alle pagine degli esteri dei quotidiani nazionali e, meno ancora, dei Tg della sera, eppure è fondamentale.

Haishan Fu, direttrice della sezione della Banca Mondiale che si occupa dei dati dell’economia dello sviluppo, ammoniva lo scorso febbraio che «ci sono ancora molti spazi vuoti sulla mappa dei dati a livello globale», e che «fino a pochi anni fa, 77 paesi ancora non disponevano dei dati adeguati a misurare la povertà. Quel che è peggio è che spesso i dati sono più scarsi proprio nelle zone dove sarebbero disperatamente necessari»@.

D’altro canto, da paesi che, come vedremo fra poco, non riescono a finanziare sanità e istruzione non ci si può aspettare che investano fondi per potenziare i propri istituti nazionali di statistica.

Questo significa che la cooperazione è uno strumento eccessivamente fragile ed è meglio non contarci troppo? No, il contrario. Significa che va fatta a meglio. Con più risorse e anche più coordinamento.

L’Overseas Development Institute (Odi), centro di ricerca con sede a Londra, sottolineava lo scorso autunno che ci sono ancora 800 milioni di persone in povertà estrema, ma il grosso dell’aiuto va ai paesi a medio reddito, non ai più poveri, perché in questi ultimi è più rischioso investire. Anche quando si tratta di aiuti@.

In un rapporto del settembre 2018@ l’Odi individua 48 paesi nei quali l’aumento (stimato) del gettito fiscale nei prossimi anni non arriverà comunque a coprire del tutto i costi per finanziare i tre settori chiave: istruzione, sanità e protezione sociale. Fra questi 48, il rapporto ne isola poi 29 in forte difficoltà economica (severely financially challenged, in inglese): tutti africani tranne Afghanistan, Corea del Nord e Haiti. Si tratta di paesi che non riescono a coprire nemmeno la metà dei costi per far funzionare i tre settori. Se almeno 33 dei 40 miliardi di dollari in aiuti che ora vanno a paesi già in grado di far fronte da soli ai quei costi venissero invece spostati su quei 29 Paesi più deboli, la spesa di questi ultimi per sanità, istruzione e protezione sociale sarebbe coperta.

Inoltre, se tutti i paesi donatori destinassero come da accordi internazionali lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione, 184 miliardi di dollari all’anno in più sarebbero disponibili. Ipotizzando che anche solo metà di questi fossero utilizzati dai 48 paesi di cui sopra, tutti potrebbero far fronte al 94% dei costi per i tre ambiti cruciali.

È ovvio che un aiuto efficace richiede coordinamento, assunzione (e mantenimento) di impegni a livello internazionale e, lo ripetiamo, tempo per produrre e consolidare gli effetti.

Le spinte in senso contrario

Non è colpa solo di quell’arpia della Francia o dei malvagi cinesi. Le spinte in senso contrario allo sviluppo e alla riduzione della povertà sono forti e arrivano da molte direzioni. Honest accounts@, un rapporto prodotto nel 2017 da un gruppo di Ong britanniche e africane, rileva che nel 2015, a fronte di circa 162 miliardi di dollari ricevuti in prestiti, rimesse dei migranti e aiuto allo sviluppo, l’Africa subsahariana ha visto uscire dal continente risorse per 203 miliardi. Il saldo, per gli stati a Sud del Sahara, è negativo di circa 40 miliardi.

Come sono usciti questi soldi? Attraverso fatturazione irregolare e altri illeciti finanziari, rimpatrio dei profitti delle grandi aziende (realizzati sul continente africano ma poi riportati nei paesi dove le multinazionali hanno sede o nei paradisi fiscali), rimborso degli interessi sul debito e contrabbando di legno, prodotti ittici e piante o animali selvatici. A questo si aggiungono i fondi che una manciata di milionari africani mettono al sicuro nei paradisi fiscali. Secondo Gabriel Zucman, studioso della London School of Economics, nel 2014 gli africani ricchi detenevano 500 miliardi di dollari in conti offshore. Questi denari non tassati provocano una perdita fiscale per il continente di circa 15 miliardi.

Altra nota dolente è quella della svendita delle risorse naturali: sono numerosi e documentati i casi di funzionari pubblici o membri dei governi africani che, in cambio di tangenti, hanno ceduto a imprese straniere i diritti sullo sfruttamento delle risorse minerarie a prezzi stracciati.

Un esempio per tutti: il rapporto cita uno studio pubblicato nel 2013 dalla Ong britannica Global Witness e dall’Africa Progress Panel, un gruppo di studiosi e leader africani all’epoca presieduto dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Lo studio si concentrava su cinque grandi concessioni per estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo e riportava che lo stato congolese aveva accettato di cedere i diritti di estrazione alle compagnie acquirenti – tutte società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche – per un miliardo e 360 milioni in meno rispetto al valore di mercato, praticando alle aziende «sconti» fino al 95%. I diritti sono poi stati acquistati da due grandi multinazionali, la Enrc (Eurasian Natural Resources Corporation, fondata in Kazakistan e quotata in borsa a Londra) e l’anglo-svizzera Glencore, mentre le società offshore sono risultate legate a Dan Gertler, uomo d’affari israeliano membro di una delle famiglie più influenti nel mercato dei diamanti. Il miliardo e 360 milioni di mancato introito per le casse dello stato congolese, conclude il rapporto, equivale al doppio di quanto il Congo ha speso nel 2012 per istruzione e sanità.

Più sviluppo meno migrazione?

Sulla rivista dei gesuiti Aggiornamenti Sociali, il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini segnala che secondo diverse ricerche sul rapporto fra aiuto e migrazione «in una prima non breve fase lo sviluppo incrementa le partenze: più gente accede alle risorse per muoversi, accresce l’istruzione, si apre a nuovi orizzonti e aspirazioni. Solo in seguito, dopo diversi anni, l’emigrazione cala»@.

È la cosiddetta «gobba della migrazione» o migration hump: studi storici e comparati, si legge in un documento dell’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo, hanno mostrato che quando la crescita economica e l’innalzamento del livello dei redditi sono tali che un paese non è più definibile a basso reddito, l’emigrazione inizialmente aumenta. Solo quando il paese diventa a medio reddito è ragionevole aspettarsi una diminuzione del fenomeno@.

Per riassumere: chi ci dice che il problema della migrazione degli africani si risolve aiutandoli a casa loro, in sostanza, ci sta dicendo che bisogna almeno raddoppiare i fondi italiani per lo sviluppo, mettersi d’accordo con una trentina di altri paesi donatori perché il denaro sia usato al meglio, convincere la parte corrotta delle élites africane e la parte corruttrice delle grandi aziende internazionali – italiane comprese – a piantarla e, fatto questo, metterci comodi e pazientare ancora qualche anno perché lo sviluppo nei paesi africani sia sufficiente a far diminuire l’emigrazione invece che incrementarla. «Sapevatelo», diceva un famoso comico.

Chiara Giovetti