A proposito di Brexit: a che punto siamo?

Testo di Francesco Gesualdi


Nel Regno Unito ci sono oltre 9 milioni di stranieri (600mila italiani) su un totale di 66. La guerra degli indipendentisti dell’Ukip contro l’Unione europea è iniziata da questo dato. Una guerra vinta con il referendum che, nel giugno 2016, ha sancito l’uscita del paese dall’Europa: la Brexit. Da allora tutto si è però bloccato. Nel frattempo, ci sono state le nuove elezioni europee del 26 maggio.

Nel Regno Unito il movimento indipendentista fa la sua comparsa nel 1993 con la nascita dell’Ukip, United Kingdom Independent Party. A fondarlo sono alcuni fuoriusciti del partito conservatore che, oltre a non sopportare l’idea di dover sottostare alle decisioni prese da una realtà sovrannazionale, sono anche convinti che le regole europee siano dannose per gli interessi inglesi. Ci vogliono però venti anni per arrivare al successo elettorale: alle europee del 2014 l’Ukip raggiunge il 27,5% dei voti aggiudicandosi il titolo di primo partito inglese (sotto la guida di Nigel Farage, poi uscito per fondare, a poche settimane dal voto del 26 maggio scorso, il «Brexit Party», ndr). E se ottiene un così alto consenso non è per merito delle argomentazioni usate in ambito giuridico ed economico ma per la capacità di far presa sulle ansie del popolo inglese. Gli strateghi del marketing elettorale sanno che non è parlando alla testa delle persone che si ottengono voti, ma rivolgendosi al loro stomaco, e nel 2014 hanno buon gioco a battere questa strada considerato il clima di insicurezza che si respira da un capo all’altro d’Europa.

La colpa è degli stranieri

Benché siano già passati sei anni dal collasso dei grandi gruppi bancari, l’onda della crisi non si è ancora esaurita e ovunque si contano i danni, anche in Inghilterra. La disoccupazione, che nel 2007 era al 5,3%, ha raggiunto l’8,1% nel 2011 e nel 2013 era ancora al 7,6%. Intanto gli studi sulla povertà raccontano di una situazione sociale ancor più preoccupante. Un rapporto, pubblicato nel 2014 dal Poverty and Social Exclusion in collaborazione con The Open University, certifica che in trenta anni la percentuale di famiglie al di sotto dello standard di vita minimo è passata dal 14 al 33%. Più in specifico: 18 milioni di persone non  possono permettersi un’abitazione adeguata, 12 milioni sono troppo povere per avviare qualsiasi attività economica, una su tre non riesce a scaldare a sufficienza la propria casa, 4 milioni, fra adulti e bambini, non mangiano in maniera appropriata. Ma Ukip sa a chi attribuire la responsabilità delle sofferenze inglesi: la colpa è degli stranieri che possono insediarsi con troppa facilità in Inghilterra. Una colpa che dimostra con l’aiuto dei numeri: fra il 2004 e il 2017 la presenza di stranieri (sia quelli nati all’estero che quelli nati in Inghilterra da genitori stranieri) è quasi raddoppiata passando da 5,3 a 9,4 milioni. A livello nazionale rappresentano il 14% della popolazione con punte che in certe aree arrivano al 50%. E se in passato ai porti inglesi si presentavano prevalentemente africani ed asiatici, ora arrivano soprattutto cittadini dell’Unione europea che non hanno bisogno di visti per oltrepassare la frontiera inglese. L’Office of National Statistics conferma: in Inghilterra la comunità straniera più numerosa è quella polacca con quasi un milione di persone. Seconda è quella rumena con mezzo milione. Quella indiana, che caratterizzava l’immigrazione del secolo scorso, ormai arriva terza con poco più di 300mila persone. Per Ukip ce n’è abbastanza per concludere che i mali degli inglesi vengono dall’appartenenza all’Unione europea e che solo abbandonando l’Unione potranno essere risolti.

Euroscettici (da sempre)

L’Ukip non è la sola a pensarla così. In Inghilterra l’adesione all’Unione europea è sempre stata una questione controversa che ha generato divisioni in ogni partito. E ogni volta è stato un referendum a decidere quale scelta compiere. La prima volta è successo nel 1975 per decidere se confermare o meno l’adesione dell’Inghilterra al Mercato comune avvenuta due anni prima. Poi è successo di nuovo nel 1998 per chiedere al popolo inglese se voleva adottare la moneta unica. E se nel primo caso gli europeisti avevano vinto due a uno, nel secondo sono stati gli euroscettici a vincere con l’84% dei voti. Una linea sostenuta principalmente dai conservatori a dimostrazione di quanto questo partito sia sempre stato tentennante rispetto all’Europa. Con la nascita dell’Ukip gran parte del dissenso è migrato, ma una parte è rimasto nel partito conservatore ed è montato fino al punto che, nel gennaio 2013, David Cameron, segretario del partito, ha promesso che, se la sua formazione politica avesse ottenuto la maggioranza parlamentare alle elezioni politiche del 2015, avrebbe indetto un referendum per chiedere al popolo inglese se voleva o meno rimanere in Europa. Promessa temeraria perché Cameron era pro Europa, ma sperava che, con alcune  rinegoziazioni, il popolo si sarebbe espresso per il sì e ciò gli avrebbe permesso di mettere finalmente a tacere il dissenso interno. Il referendum del 23 giugno 2016 è stato però vinto da chi voleva lasciare – ecco la famosa «Brexit» – con un vantaggio dell’1,9% dei voti. Cameron ha abbandonato ogni carica e al suo posto è diventata primo ministro Theresa May, il cui compito principale è stato di gestire il divorzio con l’Unione europea. Compito però non semplice, perché, al di là della retorica legata al problema migratorio, i problemi veri sono quelli economici, sapendo che ogni settore presenta le sue peculiarità e quindi le sue esigenze talvolta più propense a mantenere legami con l’Unione europea, talvolta a reciderli del tutto.

Le imprese e la Ue

In linea di massima le imprese britanniche hanno un rapporto di amore-odio con l’Unione europea. Di amore perché è un mercato protetto, quindi sicuro. Di odio perché costringe a sottostare a regole non sempre gradite e perché fa correre il rischio di perdere mercati di altri paesi dal momento che l’adesione all’Unione europea non permette di stipulare accordi basati su regole diverse da quelle fissate dall’Unione. Come dire: non permette di cogliere le occasioni di nuovi mercati che si possono aprire in un mondo in continua trasformazione. Non a caso, appena si è saputo che aveva vinto la Brexit, gli Stati Uniti si sono precipitati a proporre al paese di stipulare un accordo di libero scambio (confermato da Trump nella visita londinese dello scorso giugno).

Per dimostrare come l’Ue sia una palla al piede dell’industria britannica, piuttosto che un’opportunità, l’Institute of Economic Affairs (Iea), un centro studi di dichiarata fede antieuropeista, cita come esempio il «Reach», il regolamento adottato nel 2006 che impone all’industria chimica di applicare misure molto severe per garantire che le sostanze prodotte, importate, vendute e utilizzate nell’Unione, siano sicure. «I test e le procedure imposte dal regolamento sono un aggravio di spese per le imprese, riducono i margini di guadagno e mettono le piccole imprese fuori mercato» lamenta l’Iea in un opuscolo intitolato «Plan A+». E conclude: «Il risultato è che alcune imprese hanno trasferito la produzione all’estero e hanno depennato l’Unione europea dal proprio mercato, danneggiando non solo se stesse, ma la stessa Ue che corre il rischio di aumenti di prezzi a causa di una minor concorrenza dovuta alla riduzione di aziende chimiche presenti nel suo mercato». Di regole considerate soffocanti per le imprese, l’Iea ne cita anche altre, come quelle sul rispetto dei dati personali, sul funzionamento dei porti o sugli obblighi di trasparenza imposte alle imprese finanziarie. Di qui il monito al governo inglese di stare molto attento alle nuove relazioni che imbastirà con l’Unione europea.

Nigel Farage / foto Gage Skidmore-2018

L’articolo 50 e il nodo del confine irlandese

Allo stato attuale la Gran Bretagna deve affrontare due nodi. Il primo, più urgente, è come impedire che l’uscita dall’Unione blocchi l’economia inglese considerato che è totalmente costruita su un rapporto di interscambio con essa. Il secondo, di più largo respiro, come costruire le future relazioni con l’Unione europea. Due snodi chiave visti con molta apprensione soprattutto dal settore finanziario (banche, assicurazioni, fondi speculativi) che in Inghilterra contribuisce al 10% del Pil, impiega 2,3 milioni di persone ed è il principale settore di esportazione che genera un attivo nella bilancia dei pagamenti uguale a quello di tutti gli altri settori messi assieme.

L’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, che definisce le procedure da seguire in caso di separazione, concede due anni di tempo per la messa a punto di un accordo provvisorio che permetta di continuare la convivenza senza scossoni, in attesa che le due parti stabiliscano i criteri su cui vogliono costruire i loro rapporti futuri. Il governo inglese ha comunicato in maniera ufficiale la sua volontà di abbandonare l’Ue il 29 marzo 2017, per cui l’uscita sarebbe dovuta avvenire il 29 marzo 2019. In realtà è stata posticipata al 31 ottobre 2019 perché il Parlamento inglese non ha approvato l’accordo provvisorio stipulato fra Theresa May e la Commissione europea. Il nodo del contendere è la frontiera fra l’Irlanda di Belfast (sotto giurisdizione inglese) e l’Irlanda di Dublino. Attualmente è come se non esistesse frontiera perché ambedue i territori fanno parte dell’Unione europea. Ma un domani, con regole diverse esistenti nei due territori, si imporrebbero controlli e dazi per impedire passaggi di persone e merci  non conformi a una delle due legislazioni. L’unico modo per tenere la frontiera aperta è che tutta l’Irlanda sia assoggettata alla stessa legislazione. Ma quale: quella dell’Unione europea in vigore nell’Irlanda di Dublino o quella nuova che adotterà Londra? Alla fine May ha accettato la così detta «clausola backstop»: indipendentemente dalla legislazione che adotterà la Gran Bretagna, nell’Irlanda del Nord si continueranno ad applicare le regole dell’Ue. La maggioranza dei parlamentari britannici ha però ripetutamente bocciato l’accordo, considerando questa soluzione una violazione della sovranità nazionale. Se dovesse continuare l’opposizione del Parlamento inglese al Trattato di separazione provvisorio e neanche l’Unione europea dovesse accettare di modificarlo, la prospettiva sarebbe quella di un’uscita del Regno Unito senza accordi. Una prospettiva che molti considerano catastrofica perché la posizione di milioni di persone non  britanniche diventerebbe irregolare, mentre la circolazione di persone, merci e servizi cadrebbe nel caos.

Nel frattempo, Theresa May ha annunciato (24 maggio 2019) le dimissioni e il Brexit Party di Nigel Farage ha vinto le elezioni europee. Per sapere come finirà non rimane che attendere i prossimi eventi.

Francesco Gesualdi




L’insostenibile leggerezza del turista

Testo di Chiara Giovetti – Foto di Ennio Massignan


Il turismo si conferma anche per il 2018 un settore in espansione nel mondo, con un miliardo e 400 milioni di viaggi internazionali e un giro d’affari di 1.700 miliardi di dollari. Ma, accanto a realtà e comunità che hanno saputo governare il fenomeno, ve ne sono altre che ne sono state travolte.

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt), nel 2018 il settore del turismo a livello globale ha registrato un’ulteriore espansione raggiungendo con due anni di anticipo rispetto alle previsioni il tetto del miliardo e 400 milioni di movimenti internazionali che la stessa Omt aveva invece previsto per il 2020. Il dato 2018 consolida quello del 2017 – pari a un miliardo e 326 milioni – e rappresenta in termini percentuali un incremento di sei punti. Considerando che l’economia mondiale nel suo complesso è cresciuta al ritmo del 3,7%, si può dire che il settore turistico preso singolarmente «viaggia» a una velocità un terzo più elevata rispetto a tutti i settori economici aggregati.

L’Europa resta la meta preferita con 713 milioni di arrivi internazionali, seguita dall’Asia con 343 milioni e dalle Americhe con 217, mentre Africa e Medio Oriente si attestano rispettivamente sui 67 e 64 milioni di turisti internazionali@.

Quanto al dato economico, il giro d’affari è stato pari a 1.700 miliardi di dollari, cioè il 7% delle esportazioni mondiali (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

Questa cifra è composta dagli introiti del settore più quelli relativi al trasporto passeggeri@.

Circa sei turisti su dieci hanno viaggiato in aereo e poco più della metà si sono spostati per svago e diporto, mentre uno su dieci ha viaggiato per motivi di lavoro. Sono i cinesi a guidare con ampio margine la classifica delle dieci nazionalità che nel 2018 hanno speso di più in turismo; ben 277 miliardi di dollari. I secondi classificati, gli statunitensi, hanno speso un po’ più della metà rispetto ai cinesi: 144 miliardi. Seguono poi tedeschi, britannici, francesi, australiani, russi, canadesi, sudcoreani. Decimi gli italiani, con 30 miliardi di dollari.

Il World Travel and Tourism Council (Wttc), forum dell’industria del turismo e dei viaggi, ha quantificato il Pil del settore del turismo, una grandezza che considera non solo il denaro generato dalle imprese che vendono prodotti e servizi direttamente ai turisti – alberghi, agenzie di viaggio, trasporti e souvenir – ma anche gli investimenti, la spesa pubblica per il turismo, gli effetti sulle filiere connesse (cibo, offerta culturale, eccetera) e sul reddito di coloro che lavorano direttamente nel turismo. Nel 2018 il turismo ha raggiunto un Pil di settore di 8,8 mila miliardi, pari a un decimo del Pil mondiale, e ha impiegato 319 milioni di persone. Oggi, nel mondo, un posto di lavoro ogni dieci esiste perché esiste il turismo e il Wttc prevede che nei prossimi dieci anni continuerà a crearne ulteriori 10 milioni l’anno, fino a un totale di 421 milioni nel 2029.@

I rischi ambientali

È chiaro che, con questi numeri, il settore del turismo ha un potenziale enorme che può contribuire parecchio a devastare o, viceversa, a salvaguardare il pianeta a seconda di come viene usato.

Uno degli aspetti che desta più preoccupazione rispetto alla sostenibilità del fenomeno turistico riguarda i danni da esso provocati all’ambiente. Secondo un rapporto del Wwf che si concentra sul bacino del Mediterraneo, «gli oltre 200 milioni di turisti che lo visitano annualmente generano un aumento del 40% dei rifiuti in mare ogni estate»@.

La mancanza di infrastrutture adeguate e lo sfruttamento massiccio del territorio ha costretto nell’aprile del 2018 il governo delle Filippine a chiudere al pubblico per mesi un’intera isola, la bellissima Boracay@, ridotta a «una cloaca» dai rifiuti e dagli scarichi abusivi che rovesciavano il proprio contenuto direttamente in mare, minacciando la barriera corallina. Situazioni simili si sono verificate in Thailandia, dove Maya Bay – spiaggia di una delle isole Phi Phi nota per il film The Beach – rimarrà chiusa fino al 2021 per permettere all’ecosistema e in particolare ai coralli di rigenerarsi dopo essere stati messi a dura prova da un’eccessiva presenza di turisti, che arrivavano fino a 5.000 al giorno@.

In Europa, fra i casi più discussi di turismo di massa vi è senza dubbio quello di Venezia, una città che riceve giornalmente un numero di turisti più alto della sua popolazione di 53 mila persone residenti nel centro storico. Secondo uno studio dell’Università Ca’ Foscari del 2018, Venezia può reggere 52mila turisti al giorno, mentre ad arrivare sono in 77mila@. Tale flusso di viaggiatori mette a dura prova una città per sua natura fragile e i motivi di maggior preoccupazione riguardano la gestione dei rifiuti, l’inquinamento causato dalle navi da crociera@, lo spopolamento della città, l’invecchiamento della popolazione e la conversione in bed & breakfast di molte case del centro.

Altra notizia che di recente ha portato l’attenzione sul cosiddetto overtourism riguarda il numero di escursionisti morti sull’Everest e la quantità di rifiuti da loro lasciata. Lo scorso maggio, in una sola settimana sono decedute sette persone per il sovraffollamento del sentiero che porta alla cima@ e per l’impreparazione fisica di molti scalatori che per il fatto di pagare pensano di avere il diritto di arrivare in cima a tutti i costi.

Nel documentario Gringo Trails@,  uscito nel 2013, si racconta di diverse di queste situazioni finite ormai fuori controllo, ma anche di luoghi dove il governo e le comunità sono riusciti a imbrigliare e regolare i flussi turistici. Uno di questi è il regno del Bhutan, stato dell’Himalaya incapsulato fra Cina e India: chi vuole visitarlo deve prevedere una sorta di tassa, obbligatoria e ufficiale, di 250 dollari al giorno che comprendono vitto, alloggio, trasporti via terra e il servizio di guide autorizzate. I risultati del provvedimento, sinora, sono stati soddisfacenti nel demotivare il turismo di massa e nel contempo rendere gratificante il soggiorno di chi sceglie di accollarsi la spesa.

Un fenomeno da governare

Un altro aspetto ancora poco misurato, ma di cruciale importanza, è quello del cosiddetto leakage, la dispersione (o perdita, come quella dei tubi idraulici bucati) degli introiti derivanti dal turismo e può prendere la forma di profitti e ricavi pagati agli operatori turistici internazionali, di costi per beni e servizi importati, o di pagamenti di interessi sul debito. Uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) stima che il leakage medio per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo è tra il 40% e il 50% dei proventi lordi e tra il 10% e 20% per i paesi sviluppati o in via di sviluppo ma con economie più diversificate e quindi in grado di rispondere almeno in parte alla domanda di beni e servizi che il settore turistico rivolge ai vari comparti produttivi del paese@.

Il Wttc fornisce del leakage una stima al rialzo, segnalando fughe di introiti che vanno dal 40% dell’India all’80% dei Caraibi, con punte dell’85% in posti come le Bahamas@.

Tenendo in considerazione entrambe le ipotesi si può in sintesi dire che su 100 dollari spesi da un turista in un paese in via di sviluppo, dieci, bene che vada, o addirittura 85, nella peggiore delle ipotesi, escono dal paese e vanno a incrementare i profitti di intermediari turistici, oppure di aziende alimentari o tessili che producono cibo, tovaglie o lenzuola a migliaia di chilometri di distanza e li esportano perché siano utilizzati in un resort tanzaniano o in un mega albergo thailandese.

Chiunque si sia trovato a viaggiare nei paesi del Sud del mondo per vacanza o per lavoro si è probabilmente trovato almeno una volta nella sala da pranzo di una struttura turistica africana, asiatica o sudamericana e si è sentito disorientato nel constatare come questa fosse identica al ristorante di un centro congressi all’uscita di un’autostrada francese, inglese o italiana, l’unica differenza sta nella variante esotica rappresentata dal tetto in paglia e dalle finestre senza vetri.

Spesso l’importazione di beni è legata all’assenza di collegamento fra le filiere produttive locali e le strutture turistiche: la mancanza di una catena del freddo affidabile per la conservazione dei cibi nel tragitto dagli agricoltori e allevatori locali al turista consumatore, le condizioni precarie delle vie di comunicazione che rendono troppo costoso il trasporto e altre simili interruzioni del processo che connette il produttore interno all’utente sono fra i principali ostacoli. Lucie Servoz, esperta di turismo dell’Organizzazione internazionale del lavoro, indica come primo passaggio verso un turismo sostenibile proprio il «rafforzamento dei collegamenti del settore turistico con i settori connessi nella sua filiera (ad esempio l’agricoltura, l’artigianato, i trasporti, le infrastrutture, le costruzioni) e la contestuale promozione di un approccio integrato e dell’approvvigionamento locale»@.

Altro aspetto da tenere in considerazione quando si parla di turismo sostenibile è quello delle ricadute occupazionali che potrebbe avere, ad esempio, in un continente come l’Africa, che secondo le proiezioni raggiungerà nel 2030 il miliardo e settecentomila abitanti e dove i bambini di età compresa fra 0 e 14 anni rappresentano oggi il 43% della popolazione nei paesi subsahariani, tre volte tanto rispetto ai coetanei che abitano nell’Unione europea@.

Sempre secondo le stime del Wttc, se i Paesi africani faranno riforme in materia di visti per facilitare gli spostamenti, si impegneranno per aumentare la connettività nel trasporto aereo e realizzeranno programmi efficaci di crescita, entro il 2028 il settore del turismo e dei viaggi potrebbe arrivare a generare fra i 30 e i 45 milioni di posti di lavoro.

Che cosa può fare il turista?

L’Organizzazione mondiale del turismo ha diverse raccomandazioni anche per i viaggiatori che vogliano contribuire a rendere il turismo sostenibile. Fra queste: non sprecare il cibo, dare visibilità alle iniziative interessanti – sulla promozione delle donne, o sulle risposte al cambiamento climatico – che si incontrano nel corso del soggiorno, informarsi prima di partire in modo da soggiornare in strutture che applichino pratiche sostenibili e non dannose per l’ambiente, imparare qualche parola della lingua locale per entrare in contatto con le comunità.

In aiuto del viaggiatore vengono anche i sistemi di certificazione bio e fair trade applicati alle strutture turistiche; di solito queste certificazioni sono accompagnate da un simbolo che viene esposto sia nelle strutture che nei loro siti web. Le «etichette» sono tante perché tanti sono gli enti e i metodi di certificazione e in effetti tutti questi simboli – spesso verdi e contenenti una fogliolina o qualcosa che richiama la natura – rischiano di assomigliare a una giungla. A tentare di mettere ordine sono state alcune organizzazioni tedesche, austriache e svizzere, che hanno prodotto una guida dal titolo Sostenibilità nel turismo. Una guida nella giungla di etichette@.

Per chi parla solo italiano, un buon punto di partenza anche solo per farsi un’idea di quali caratteristiche ha un viaggio improntato a principi opposti a quelli del turismo di massa, è il sito dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr), che raccoglie fra l’altro le proposte di viaggio dei soci, in Italia e all’estero@.

Chiara Giovetti




I Perdenti 44. Rosario Livatino, il «giudice ragazzino»

Testo di Don Mario Bandera


La mattina del 21 settembre 1990 il giudice Rosario Livatino venne ucciso lungo la strada statale 640 che da Agrigento porta a Caltanissetta. La sua auto venne speronata e spinta fuori strada. Il giovane giudice, già ferito a una spalla, tentò la fuga correndo per i campi, ma venne raggiunto e poi ucciso con un colpo di pistola in pieno viso.

Livatino aveva solo 38 anni, era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952. Durante gli anni del liceo e poi dell’università era stato uno studente brillante, negli studi aveva seguito le orme del padre Vincenzo. Si era laureato con lode all’età di 22 anni, giovanissimo, presso la facoltà di Giurisprudenza all’università di Palermo. Poco tempo dopo vinse il concorso indetto dalla magistratura, pertanto divenne giudice a latere presso il tribunale di Agrigento.

Alcuni mesi dopo la morte del giovane giudice, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì «giudici ragazzini» una serie di giovani magistrati impegnati nella lotta alla mafia. Anni dopo, in una lettera alla famiglia, Cossiga provò a circostanziare quelle affermazioni, scrivendo che non intendeva riferirsi a Livatino, che descrisse come «eroe» e «santo». Papa Giovanni Paolo II lo definì «martire della giustizia e, indirettamente, della fede».

La sua esecuzione fu un’azione coordinata da un commando formato da quattro malviventi ventenni appartenenti alla cosiddetta «Stidda», ovvero l’associazione mafiosa che, secondo i magistrati, si contrapponeva a Cosa Nostra.

Il giudice Livatino fu ucciso perché «perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbero aspettate dalle istituzioni un trattamento più “morbido”, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno debole, (atteggiamento) che ha consentito in molti casi la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».

Così è scritto nella sentenza che ha condannato i suoi assassini. Dell’omicidio del giudice, furono individuati dalle forze dell’ordine gli esecutori e i mandanti e condannati all’ergastolo. Il processo di beatificazione avviato dalla diocesi di Agrigento è stato aperto ufficialmente il 21 settembre 2011, nel 21° anniversario della sua morte.

Caro giudice Livatino, di fronte alla testimonianza di vita che tu hai offerto attraverso il tuo percorso umano e professionale esemplare, c’è da rimanere ammirati e stupiti.

Io mi muovevo sostenuto da alcuni principi fondamentali, acquisiti soprattutto nella mia famiglia, che stavano alla base del mio impegno in magistratura. Ero convinto che «rendere giustizia è preghiera» e che «per giudicare occorre la luce, e nessun uomo è luce assoluta».

Per te era chiaro che l’indipendenza del giudice stava sia in una coscienza rettamente formata che nella fedele interpretazione della legge.

Avevo ben chiaro che la funzione di un giudice doveva avere come base una cristallina libertà morale, una ferrea fedeltà ai principi della Costituzione, una grande capacità di sacrificio, buona conoscenza dell’immenso patrimonio legislativo, chiarezza e linearità nelle decisioni da prendere, oltre a un’autentica trasparenza di condotta anche fuori delle aule giudiziarie.

Vedevi la funzione del giudice quasi in ottica «francescana».

Soprattutto avevo ben chiaro che assumendo una funzione così importante nella vita pubblica e sociale dovevo rinunciare a ogni desiderio di incarichi e prebende. Specie in un settore che, per sua natura o per le sue implicazioni, può produrre il germe della contaminazione e il pericolo dell’interferenza. In fondo è nella sua indipendenza e onestà che un giudice guadagna la sua credibilità, che deve conquistare nel travaglio delle sue decisioni e in ogni momento della sua attività.

È risaputo che non facevi nulla per nascondere la tua fede religiosa. Il tuo essere cristiano cattolico, coerente e praticante, era visto come testimonianza di una persona che non aveva paura di mostrare in pubblico quello che era il tesoro prezioso che portava in cuore.

Il dono della fede che mi portavo in cuore mi aiutava a leggere la realtà con occhi diversi. Questo anche nella prassi quotidiana dove non mi accontentavo di risposte tradizionali o superficiali ai grandi problemi che la mia professione continuamente mi poneva davanti, ma cercavo incessantemente il senso sia dell’esistenza che dei valori insiti nella persona umana.

Non si spiegherebbe altrimenti la tua decisione di ricevere il sacramento della Confermazione nel 1988, a ben 36 anni.

Per compiere l’itinerario di preparazione al sacramento scelsi di inserirmi in un gruppo di ragazzi – futuri cresimandi – per ascoltare in assoluto anonimato, tutte le settimane, il catechismo che veniva dato per coloro che avrebbero ricevuto durante l’anno la Cresima.

In fondo non ti sei mai sentito un cristiano arrivato. Vivevi una continua ricerca di assoluto, eri un cristiano che voleva spingersi sempre
oltre, andare al di là dei confini spirituali, considerati «tranquillizzanti» per dei credenti «normali».

Il mio essere cristiano cattolico me lo sono conquistato pezzo per pezzo, perché a mano a mano che proseguivo la mia ricerca, mi rendevo conto che cattolici cristiani si diventa, non si nasce. L’essenza dell’esperienza di fede, che è conquista, lotta e cammino, può diventare un formidabile programma di vita per un vero credente.

Come magistrato hai dovuto prendere decisioni che influivano in maniera decisiva sulla vita delle persone che eri chiamato a giudicare, come ti orientavi in queste circostanze?

Decidere è scegliere e, a volte, scegliere tenendo presente le numerose strade o soluzioni che hai davanti. Scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione totale a Dio. Un rapporto indiretto con la trascendenza per il tramite dell’amore verso la persona giudicata.

«Amore per la persona giudicata», sono parole tue. Sono parole da leggere e rileggere, da pesare in tutta la loro dirompente forza rivoluzionaria.

L’unica forma di vero autentico amore possibile è quella cristiana, l’unica che rovescia i ruoli, come quello di chi giudica, e quindi ha il potere, e di chi deve essere giudicato. Il punto di vista da cui si guardano le cose e gli avvenimenti della cronaca quotidiana è, per un cristiano, quello da cui le guarda Dio. Quello di un padre, appunto, che tutto ha fatto e tutto ama.

In questa affermazione possiamo riscontrare il tuo rifiuto di avere una scorta fissa al tuo fianco nonostante le numerose minacce che ti erano arrivate dagli ambienti mafiosi?

Non mi sentivo per niente un eroe, facevo semplicemente il mio dovere. E lo facevo coniugando le ragioni della giustizia con quelle della fede cristiana. Il mio senso del dovere, messo al servizio della giustizia faceva di me una specie di missionario: il «missionario» del diritto, così mi chiamavano alcuni colleghi. Allo stesso tempo, per la profonda conoscenza che avevo del fenomeno mafioso e per la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, con il passare del tempo mi venivano affidate delle inchieste molto delicate.

Determinato a contrastare il fenomeno mafioso nella tua terra, firmavi sentenze su sentenze contro gli uomini di Cosa Nostra, in questo modo entravi sempre più nel loro mirino.

Sapevo molto bene i rischi che correvo, ma considerando che ero l’unico tra i sostituti procuratori di Agrigento a non avere famiglia, chiesi che mi fosse affidata una difficile inchiesta di mafia e con fiducia totale mi affidai – come sempre – nelle mani di Dio.

Il giudice Livatino nell’aula delle udienze aveva voluto un crocefisso, come richiamo di carità e rettitudine. Inoltre teneva un crocefisso anche sul suo tavolo, insieme a una copia del Vangelo, tutto annotato: segno che doveva frequentarlo piuttosto spesso, almeno quanto i codici, strumenti quotidiani del suo lavoro. Su ogni pagina della sua agenda, in alto, in un angolino scriveva «std» che stava a significare «sub tutela Dei» affidando così ogni giorno della sua vita alla protezione di Dio.

Il suo sincero senso del dovere messo al servizio della giustizia ne fa una specie di missionario: il «missionario del diritto».

Il giorno in cui fu ucciso il giudice era da solo, aveva rifiutato la scorta proprio perché voleva proteggere altre vite, e viaggiava a bordo della sua Ford Fiesta rossa. Stava andando al lavoro, al tribunale di Agrigento, quando fu affiancato dall’auto e dalla moto dei suoi assassini.

Rosario Livatino è diventato per tutti gli italiani un «faro ed esempio da seguire» per aver «scoperto e indagato sugli intrecci tra mafia, politica e imprenditoria». In uno dei suoi appunti aveva scritto: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».

Don Mario Bandera




La parabola del Malcapitato


Quando mi sono alzato per metterti alla prova, non pensavo che la prova sarebbe stata più mia che tua. «Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?», ti ho chiesto (cfr Lc 10,25-37). Tu hai girato la domanda a me, e io ho sfoggiato la mia sapienza: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto te stesso, e il tuo prossimo».

Volevo mostrare a tutti chi fosse il vero maestro tra me e te, ma tu non ti sei difeso dal mio attacco e, anzi, mi hai elogiato.

Hai ribaltato i nostri ruoli con la tua mitezza. Mi hai disarmato con la tua accoglienza.

Quando poi ti ho chiesto, per giustificarmi, «e chi è mio prossimo?», e tu hai iniziato a raccontare la storia del
Samaritano che aiuta l’uomo malmenato dai briganti,
sapevo già dove volevi arrivare: il mio prossimo è il malcapitato.

Per ereditare la vita eterna, quindi, devo amare il Signore Dio mio e aiutare i malcapitati, gli ultimi, le vedove, gli oppressi, i malati.

Niente di nuovo sotto il sole. Lo faccio già.

Ma quando sei arrivato alla fine del racconto, mi hai spiazzato: mi hai chiesto di mettermi nei panni dell’uomo malcapitato e di dirti chi fosse, secondo me, il suo prossimo. Non chi fosse il prossimo del Samaritano, ma dell’aggredito. Hai ribaltato di nuovo i ruoli, hai messo sotto sopra le prospettive.

Ed ecco la vertigine: per ereditare la vita eterna amerò il Signore e il mio prossimo mettendomi nella prospettiva del malcapitato, dell’uomo insufficiente, non del benefattore, di quello che basta a se stesso. In questa prospettiva amare l’altro e amare Dio non è mia iniziativa, ma risposta alla loro presenza. Da malcapitato posso riconoscere che non nasco da me stesso e non mi curo da solo, ma è l’altro che mi fa essere e mi fa vivere; che non vengo da me stesso e non mi salvo da solo, ma posso accogliere e vivere un amore che mi precede e che forma il mio orizzonte.


In questi mesi estivi di incontri, campi missionari, vacanze, immersione nel creato, preghiera, mettiamoci nella prospettiva giusta.

Buon cammino, da amico

Luca Lorusso


Leggi tutti i testi di Amico qui:




Libri: Afro ottimismo

Testo di Chiara Brivio


Qual è il futuro dell’Africa? Un economista senegalese e un teologo nigeriano affrontano questa domanda da due punti di vista diversi. Entrambi in una prospettiva decisamente afro ottimista. Dai loro testi emerge l’immagine di un continente dinamico e vivace, ansioso di lasciarsi alle spalle il doloroso passato coloniale e desideroso di riappropriarsi del suo destino. Includere le tradizioni, le mitologie e le narrazioni locali nel discorso sull’Africa, sottolineano i due intellettuali, sarà la chiave del riscatto culturale del continente.

L’economista senegalese Felwine Sarr e il teologo nigeriano Agbonkhianmeghe Orobator, nei loro libri, Afrotopia e Confessioni di un animista impostano un discorso di riscatto e di riscoperta dell’Africa e della sua identità più propria. Un discorso che vuole contrapporsi alla narrazione occidentale del continente, caratterizzata da clichés e da luoghi comuni su povertà, guerre e fame, e soprattutto su una ipotetica mancanza di agency da parte delle società africane, come se esse dovessero continuare a dipendere da «agenti» esterni per governare se stesse.

Afrotopia

Afrotopia è il primo libro tradotto in italiano di Felwine Sarr, un saggio breve ma denso, ben scritto, che gli è valso il Gran prix de la recherche, nell’ambito del Grands Prix des associations littéraires, premio camerunense. In esso Sarr, intellettuale senegalese poliedrico (è economista, sociologo, musicista, editore), attua una vera e propria decostruzione della categoria occidentale di «sviluppo», considerato uno strumento di misurazione del «benessere» ormai superato perché esclude l’uso di indicatori (culturali, sociali, ecc.) diversi dall’economia.

Per Sarr la vasta produzione culturale africana – dalla musica, all’arte, all’architettura, alla letteratura, alla sociologia, con autori come Achille Mbembe, Cornélius Castoriadis, Jean-Marc Ela, Cheick Anta Diop, Chimamanda Ngozi Adichie, Kobina Banning – ha contribuito alla creazione di quello che lui definisce l’afrotopos, «un luogo altro africano», un immaginario autoctono, libero dall’asservimento psicologico e culturale al colonialismo, nel quale le società africane possono immaginare, formare, creare un loro discorso sulla modernità, diventando «soggetti» della loro storia, finalmente riconoscendo il giusto valore alle tradizioni e alle culture locali. È la «via africana» allo sviluppo, che include altri indicatori al di là del mero progresso economico, quali l’educazione, la cultura, la spiritualità, la religiosità.

Afrotopia non va tuttavia letto come una semplice critica alla narrazione pessimista e paternalista dell’Occidente sull’Africa o dell’Africa su se stessa, è in realtà un’analisi lucida e consapevole della mancanza di un immaginario culturale condiviso, di una diffusa prospettiva autoctona sul futuro del continente. Come sottolinea Sarr, la crescita economica e le potenzialità finanziare dell’Africa non sono state accompagnate da una nuova produzione di senso, da una «liberazione» tanto culturale quanto sociologica dal colonialismo. Il mondo africano che Sarr descrive – interconnesso, multi-temporale, fondato su un cosmos integrato – in realtà già esiste, ciò che manca è la consapevolezza della sua pregnanza e la costruzione di un discorso pubblico e politico su di esso.

Questa è, secondo il sociologo senegalese, la sfida che il continente deve raccogliere se vuole affermare la sua identità. Una sfida che deve essere affrontata soprattutto dalla classe dirigente africana. Il percorso è arduo e in salita, ma Sarr è speranzoso sulla sua praticabilità.

Afrotopia, nella sua brevità, rappresenta un contributo importante alla discussione sulla narrazione del continente.

L’autore

Felwine Sarr (Senegal, 1972), sociologo ed economista, è uno dei più attivi intellettuali contemporanei africani. È condirettore dal 2017 con Achille Mbembe degli Ateliers de la Pensée di Dakar e Saint-Louis. Musicista, ha pubblicato fino a oggi tre album. Con gli scrittori senegalesi Boubacar Boris Diop e Nafissatou Dia, è il cofondatore della casa editrice Jimsaan.

È stato inoltre uno dei due commissari nominati dal presidente francese Emmanuel Macron per studiare la fattibilità della restituzione degli artefatti sottratti dalla Francia durante il periodo coloniale a diversi paesi africani. Il rapporto, dal titolo The Restitution of African Cultural Heritage. Toward a New Relational Ethics è consultabile a su https://restitutionreport2018.com.


Confessioni di un animista

Confessioni di un animista è la «prima» italiana del gesuita nigeriano Agbonkhianmeghe Orobator, in uscita a settembre per Emi, l’Editrice missionaria italiana. Presidente della conferenza della Compagnia di Gesù di Africa e Madagascar, considerato uno dei più brillanti e originali teologi del continente, Orobator affronta la discussione teologica sul rapporto tra animismo e cristianesimo in modo innovativo e con particolare sensibilità dovuta anche alla sua conversione adulta al cattolicesimo. Cresciuto in una famiglia animista nella cui casa era presente «la stanza delle medicine», tra rituali, abluzioni e devozione per un nutrito pantheon di divinità, il teologo traspone la sua esperienza personale di riscoperta delle proprie radici animiste nel discorso generale della storia e del futuro dell’inculturazione del Vangelo in Africa.

Orobator non si sente «lacerato tra due tradizioni religiose», ed è convinto che il cristianesimo debba riscoprire e valorizzare le radici animiste africane sulle quali si è innestato (allo stesso modo dell’islam). Egli rifiuta «le etichette di “schizofrenia della fede” o di “doppia mentalità religiosa” che certi teologi regolarmente impongono agli africani». La reciprocità e l’interdipendenza dei vari elementi del creato – uomo, natura, mondo sovrannaturale – e il riconoscimento della «vita» come bene comune ultimo condiviso dalla comunità, sono tutte caratteristiche dell’animismo che permettono di trasformare la realtà in «una realtà sacramentale» fonte di vita e di spiritualità. È da queste che sgorga e si genera, secondo il teologo nigeriano, «un imperativo morale o il dovere di prendersi cura della nostra casa comune». Un’affermazione nella quale si può facilmente riconoscere un’eco forte e distintiva del concetto di ecologia integrale di papa Francesco espresso nella Laudato si’.

Il suo tentativo di ridefinire epistemologicamente l’animismo mettendolo in relazione stretta con la teologia esige qualcosa di molto simile a un riscatto morale dei cristiani africani, e richiede da parte degli europei un abbandono delle vecchie categorie di esotismo e primitività che persino i primi missionari avevano affibbiato agli abitanti del continente.

Per Orobator, stanze delle medicine, rituali, abluzioni, nella loro ricchezza spirituale e come segni di una profonda «religiosità» che permea ogni aspetto della quotidianità dei popoli africani, non devono più essere relegati al folklore continentale, ma messi a tutti gli effetti alla base dell’esponenziale crescita della pratica della fede e della spiritualità del continente. Una crescita che coinvolge anche e soprattutto il cattolicesimo (si stima che nel 2040 saranno 460 milioni i cattolici africani) e che non può essere dovuta a semplici fattori demografici o agli alti tassi di fertilità.

Il discorso di Orobator è originale e innovativo, e andrebbe decisamente approfondito. La ricchezza e la vitalità dell’immaginario spirituale che le tradizioni africane hanno mantenuto nel loro incontro con il cristianesimo, e che forse noi europei abbiamo perso nella nostra pratica di fede, potrà apportare un grande contributo al rinnovamento della spiritualità globale. Magari anche tramite un’evangelizzazione che già oggi e, verosimilmente sempre più in futuro, parte dall’Africa in direzione del Nord del mondo.

L’autore

Agbonkhianmeghe Orobator, gesuita nigeriano (classe 1967), è il presidente della conferenza della Compagnia di Gesù di Africa e Madagascar. Ha conseguito il dottorato in teologia e in scienze religiose nel 2004 all’Università di Leeds, in Inghilterra, ed è stato superiore della provincia orientale africana della Compagnia dal 2009 al 2014. Definito da Avvenire come uno dei più brillanti teologi africani contemporanei, è membro del Boards of Directors della Georgetown University di Washington. Tiene conferenze e lezioni in tutto il mondo. Lo scorso mese di aprile, su proposta del primate della Chiesa anglicana Justin Welby e con l’approvazione di papa Francesco, padre Orobator ha predicato gli esercizi spirituali a Casa Santa Marta durante il ritiro per i due leader del Sud Sudan.

 




Atti 5. Sulle strade del mondo


Testo di Angelo Fracchia


Negli Atti degli Apostoli, Luca presenta il percorso ideale della chiesa nel mondo. Nei primi due capitoli imposta la scena: dopo aver salutato Gesù (At 1,4-11), ricostituito il numero dei dodici (1,15-26) e accolto lo Spirito (2,1-13), che suscita il primo annuncio di Pietro (2,14-41), troviamo un primo grande sommario (At 2,42-47), scritto per offrire un quadro globale di questa nuova comunità.

Nella nostra lettura sistematica degli Atti degli Apostoli, nello scorso numero abbiamo anticipato anche gli altri sommari (At 4,32-35; 5,12-16): Luca, infatti, come i bravi autori, intreccia le diverse questioni di cui gli interessa narrare, così da risultare più vario e attraente, allo stesso modo con cui in un film la trama principale e i diversi temi secondari si alternano con grazia. Chi però voglia analizzarne il contenuto, può tornare a distinguerli, con meno eleganza artistica, ma forse con più chiarezza.

È ciò che faremo anche in questo numero. In tal modo, quando torneremo a leggere Luca ci risulterà ancora più interessante e piacevole.

La ricchezza della chiesa (At 3,1-10)

Il primo appuntamento storico in cui vediamo impegnata la prima comunità cristiana potrebbe subito stupirci. Troviamo infatti Pietro e Giovanni che si recano… al tempio!

L’imponente tempio di Gerusalemme, rifondato, ampliato e arricchito da Erode il Grande e ancora in parte in costruzione negli anni ‘30 del primo secolo, era già da lustri un punto di riferimento fondamentale per gli ebrei. Riprendeva e superava la gloria del tempio di Salomone e dava agli Israeliti la speranza che forse un giorno sarebbero tornati quegli antichi splendori. Anche Gesù lo aveva frequentato regolarmente fin da bambino, ma se si era anche sempre scontrato con le autorità religiose proprio sulla natura e uso del tempio. Tenendo conto dell’atteggiamento critico di Gesù non era scontato che il tempio divenisse luogo di incontrode i primi cristiani.

Subito dopo la risurrezione di Gesù e la discesa dello Spirito Santo, Pietro e Giovanni si pensano semplicemente come degli ebrei. E, come gli altri ebrei, ritengono che il modo più facile per incontrare Dio sia andare al tempio di Gerusalemme. Non pensano di essere stati mandati a rinnovarne o abolirne il culto.

È pur vero, però, che vanno al tempio per la preghiera della sera, l’unica che non prevedeva l’offerta di sacrifici (è solo un caso, oppure già sono consapevoli che con Gesù i sacrifici animali sono diventati inutili?). E insieme, pur essendo galilei, decidono di non tornare a casa: evidentemente pensano che debba succedere, a breve, qualcosa di importante in città.

Sulla strada, trovano uno storpio che chiede l’elemosina. La città e i dintorni del tempio erano pieni di mendicanti. Pietro ne viene forse colpito, ma non ha soldi. «Quello che ho, te lo dò: nel nome di Gesù, alzati e cammina!» (At 3,6).

Quell’uomo cercava soldi, Pietro guarda la persona e le viene incontro. Offrendo la possibilità di non avere più bisogno di invocare la benevolenza dei passanti. Il primo volto della neonata chiesa è quello di chi si accorge di chi c’è accanto e viene incontro a quel bisogno; non in modo paternalistico e provvisorio, come avrebbe fatto dando delle monete, ma puntando a rendere la persona capace di prendere in mano la propria vita.

E questo Pietro lo fa «nel nome di Gesù». La prima chiesa è ricca di Gesù. Non si limita a predicare, ma agisce, facendo esattamente ciò che avrebbe fatto Gesù. Luca aveva appena detto che «segni e prodigi avvenivano per opera degli apostoli» (At 2,43), ed eccoli subito visibili. La missione non è semplicemente quella di annunciare un messaggio, ma di proseguire il vangelo, iniziando a operare, in prima persona, ciò che aveva fatto Gesù. Pietro non usa il nome del Maestro come una parola magica, ma si mette al suo posto, ripetendo il modo con cui aveva visto tante volte comportarsi il maestro.

La prima chiesa, da subito, si chiede che cosa farebbe Gesù al suo posto, e lo fa.

Raffigurazione del tempio al tempo di Cristo, con scalinata e arco di Robinson / © Benedetto Bellesi – AfMC

Una chiesa arcaica (At 3,11-26)

Come è prevedibile, allo stupore del miracolo segue un discorso di Pietro che lo spiega. Succede molto spesso, negli Atti degli Apostoli, che i personaggi importanti spieghino, in brevi discorsi, ciò che è accaduto. Era tipico di tutte le opere storiche dell’antichità, e Luca è un buono storico, che sa come si scrive. Inoltre, ci ricorda che non c’è niente di magico in ciò che accade, tanto che se ne può sempre spiegare la ragione. Prodigi, di certo, ma non magia: Dio non vuole privarci della nostra intelligenza.

Può semmai stupirci il modo con cui Pietro parla di Gesù. Non so se sia consolante scoprire che stupisce anche i biblisti.

Gesù viene infatti definito il «servo» (At 3,13,26: riprendendo di certo l’immagine del servo del Signore di Isaia), e poi il «santo e giusto» (3,14), «l’autore della vita» (3,15), tutti titoli che di certo si addicono a Gesù, ma non ci sono per niente consueti. Di fatto, non erano consueti neppure più al tempo della chiesa di Luca, e non saranno ripresi nelle preghiere che sono arrivate fino alla nostra liturgia.

Altrettanto curioso è il tipo di ragionamento che troviamo in 3,19-21: se ci si pente (se si «inverte il senso» della propria vita) il Signore, ossia il Padre, ci consolerà e farà tornare a noi Gesù, che sembra essere lì in attesa di venire a finire l’opera che ha iniziato. Dopo duemila anni, non ci aspettiamo certo che Gesù stia per ritornare da un momento all’altro, ma è significativo, di nuovo, che lo stesso Luca, che scrive molti anni dopo il discorso di Pietro, non sembra credere a un’idea del genere, tanto che non la ripeterà più nel resto del suo libro.

Ancora, è strano sentire presentare Gesù come quel profeta che compie la promessa divina di mandare qualcuno simile a Mosè (At 3,22-24). E, infine, ci suona curiosa l’affermazione finale, secondo cui Gesù compie la parola garantita ad Abramo, per il bene di tutti i popoli, ma soprattutto di Israele (3,24-26).

Che cosa dovremmo pensarne? Che di certo questo discorso non è tutta farina del sacco di Luca, il quale invece l’ha ripreso da altri, più vecchi di lui. Che all’inizio della chiesa, nei primi tempi, non tutto era chiarissimo, e alcune idee si sarebebro dovute precisare meglio in seguito. È ciò che nella storia, anche personale, è sempre accaduto e accadrà: troviamo le parole giuste per spiegare certi passaggi della nostra vita solo lentamente, anche se il loro senso era già lì, presente fin dall’inizio.

Ma in fondo Luca ci dice soprattutto che il modo con cui si pensa a Gesù, si capisce il suo ruolo e la sua importanza e si cerca di annunciarlo, cambia nel tempo, si trasforma, perché cambiamo noi e perché capiamo meglio le cose. Anche la chiesa ha cambiato e approfondito il suo modo di pensare a Gesù, perché è nella storia e cresce e si sviluppa non solo in ciò che fa ma anche in ciò che crede. In ogni caso, a restare immutato nei tempi è il desiderio di unirsi a Gesù e di vivere come lui vivrebbe.

Porta di Damasco, la più impressionante, risale forse alla costruzione della terza muraglia nord, di Erode Agrippa nel 40-41 dC. Ideata da Adriano come entrata monumentale della città Aelia Capitolina, rimangono le arte originali riscavate, sulle quali è stata innalzata l’odierna ornamentazione musulmane / © Benedetto Bellesi – AfMC

Perseguitati dai «poteri forti»? (At 4)

E per la prima volta la neonata chiesa si scontra con la persecuzione. «Irritati per il fatto che insegnavano al popolo e annunciavano la risurrezione» (At 4,2), i capi religiosi arrestano Pietro e Giovanni. Peraltro, siccome è già tardi, rimandano al giorno dopo l’interrogatorio, arrogandosi il diritto di trattenerli lungo la notte (At 4,3). Il potere contro il quale i discepoli di Gesù si scontrano non si cura delle persone, né di essere trasparente nelle motivazioni (a sentire loro, a essere discutibile è l’autorità con cui hanno guarito: At 4,7).

È interessante notare come le autorità si accorgano del nuovo movimento non dopo il primo discorso di Pietro, non dopo la Pentecoste, ma dopo il primo miracolo, che evitando di beneficare paternalisticamente un mendicante, lo ha tolto invece dalla condizione di emarginazione.

Sembra quasi che Luca ci voglia suggerire, già duemila anni fa, che finché ci limitiamo a parlare non diamo fastidio a nessuno, ma quando iniziamo ad agire, a cambiare le cose, allora sì che arrivano le critiche e gli ostacoli. Nello stesso tempo, è chiarissimo che l’agire della chiesa di Pietro scaturiva da convinzioni profonde, che nascevano dall’incontro con Gesù. È perché Pietro ha conosciuto Gesù che può arrivare a pensare, e quindi a dire, ciò che dice, e quindi anche a comportarsi come si comporta. Il comportamento è il frutto che stuzzica interessi e fastidi di chi passa per strada, ma le radici, che non si vedono, sono ciò che rende possibile il frutto.

E di fronte alla persecuzione si vedrà quanto davvero le trasformazioni nelle menti e nei cuori di questi galilei siano profonde, quanto il nuovo movimento sia solido. Fin dall’inizio, Luca, mentre parla dell’arresto, dice che cresce il numero dei credenti (At 4,4). Poi, di fronte alla richiesta di credenziali («Con quale potere avete fatto questo?»: At 4,7; anche a Gesù avevano chiesto con quale autorità guariva: Mc 11,28-33), rispondono con il dato di fatto (hanno salvato la vita del mendicante: At 4,9) e poi con il fondamento di quel fatto, ossia l’incontro con Gesù salvatore (At 4,10). I responsabili religiosi che avrebbero dovuto aiutare le persone a incontrare Dio avevano voluto cancellare Gesù, ma Dio stesso ne ha fatto il fondamento su cui costruire quell’incontro (At 4,10-11).

In radice, quei provinciali rozzi e incolti (At 4,13) capiscono di aver incontrato davvero Dio, e di non poter quindi far altro che seguire lui, piuttosto che le parole di uomini (At 4,19-20). Tant’è vero che, di fronte al potere delle autorità religiose e alla loro dissimulazione delle proprie intenzioni autentiche, i due discepoli reagiscono in piena schiettezza e trasparenza, indicando il motivo vero dell’arresto e anche, con decisione e coraggio, di non poter tacere. Il Pietro che poco tempo prima aveva negato di conoscere Gesù per paura delle conseguenze (Lc 22,54-62), ora parla senza paura di fronte a chi può farlo giustiziare.

Non si tratta della rivolta di «sempliciotti» contro i «poteri forti». Più seriamente, è la presa di coscienza di aver incontrato chi può salvarli, può rendere sensata la loro vita; di conseguenza viene la scelta di seguirlo comunque. Non è un caso che un ragionamento simile sarà seguito, poco dopo, da Gamaliele, maestro di san Paolo (At 22,3), importante rabbino che è citato nelle fonti giudaiche come persona di particolare saggezza e intelligenza. Gamaliele ripercorrerà le vicende di personaggi che avevano preteso di interpretare l’intenzione di Dio nel ribellarsi ai romani. Questi personaggi, pur importanti sul momento, erano periti e le loro opere umane erano state cancellate. Se però dovesse mai accadere che sia davvero Dio ad agire nella nuova comunità, sarà inutile perseguitarla: «Non vi accada di combattere contro Dio!» (At 5,35-39).

Non siamo di fronte a un partito. Siamo di fronte a persone che hanno incontrato il Salvatore, e scelgono e si comportano di conseguenza. Persone che, liberate dal Signore, diventano coraggiose e autonome. Luca, con l’esempio di Gamaliele, importante membro del sinedrio, ci dice che si può anche essere «dall’altra parte della barricata», ma se si è persone di buon senso e di attenzione all’opera di Dio, non ci si troverà a contrapporsi a Lui.

Angelo Fracchia
(5. continua)




Stati Uniti versus Cina: la lotta per la supremazia


Testo di Francesco Gesualdi


Trump accusa la Cina di pratiche commerciali sleali. Per questo ha adottato dazi sui prodotti cinesi, innescando una guerra commerciale che ha conseguenze mondiali. Quella tra Stati Uniti e Cina è una lotta tra giganti, a cui nulla importa delle persone e del Creato. Nel frattempo, l’Italia…

Uno degli elementi di complicazione del capitalismo è che le imprese non sono un corpo omogeneo. Unite dal medesimo obiettivo di fare profitto, si dividono in mille rivoli quando veniamo alle strategie. Grandi contro piccole, finanziarie contro produttive, locali contro globali, sono solo alcune delle contrapposizioni in campo. Ogni gruppo tenta di far prevalere il proprio interesse e, a seconda di quale si impone, il capitalismo cambia forma. Senza mai arrivare a un assetto definitivo perché la lotta è continua. Talvolta il cambiamento è così repentino che non facciamo in tempo a capire cosa è successo che già è in corso un nuovo mutamento. E, a rendere le cose ancora più complicate, ci sono i calcoli della politica che oltre a voler soddisfare le esigenze dei potentati economici hanno interesse a sopire le frustrazioni popolari per garantirsi un largo consenso. Ed ecco il riemergere di nazionalismi e posizioni di indiscussa fede mercantilista che, attribuendo la responsabilità di tutti i mali agli stranieri, pretendono di risolvere i problemi nazionali semplicemente spuntando rapporti più favorevoli nei confronti del resto del mondo. Magari cominciando a erigere muri contro chiunque pretenda di entrare in casa sua senza essere stato espressamente invitato.

I rappresentanti di questo nuovo corso sono Le Pen, Salvini, Orban, ma soprattutto Donald Trump che è stato anche il più audace in campo economico.

Produzione e posti di lavoro

Il paese contro il quale il presidente americano si è scagliato di più è stato la Cina accusandolo di avere fatto perdere agli Stati Uniti oltre tre milioni di posti di lavoro. In effetti, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono passate da 2 miliardi di dollari nel 1979 a 636 miliardi nel 2017. E se, nel 2000, gli Stati Uniti registravano un deficit commerciale verso la Cina (differenza fra importazioni ed esportazioni) pari a 84 miliardi di dollari, nel 2017 lo troviamo a 375 miliardi di dollari.

Ciò che Trump ha sempre omesso di dire è che gran parte della crescita delle esportazioni cinesi è pilotato dalle stesse imprese statunitensi che hanno eletto la Cina a principale paese in cui spostare la produzione. Valga come esempio la Nike che, in Cina, dispone di 116 terzisti su un totale di 527 imprese appaltate a livello mondiale. Oppure Apple, che in Cina annovera 380 terzisti sul migliaio che registra a livello planetario.

Sia come sia, già in campagna elettorale Trump aveva promesso battaglia alla Cina con un’accusa durissima lanciata in un comizio del 2 maggio 2016: «Non possiamo continuare a permettere alla Cina di saccheggiare la nostra nazione, perché questo è ciò che sta facendo. Stiamo assistendo alla più grande rapina della storia mondiale». E una volta vinte le elezioni, appellandosi alla Sezione 301, la legge Usa che consente agli Stati Uniti di porre limitazioni alle importazioni provenienti dai paesi che adottano pratiche sleali, Trump ha decretato aumenti doganali sui prodotti provenienti dalla Cina.

Al primo provvedimento, adottato nell’aprile 2018, ne sono seguiti altri, per cui si è messa in moto un’escalation della quale al momento è difficile prevedere gli esiti, perché ad ogni iniziativa statunitense la Cina reagisce con contromosse uguali e contrarie. Al di là di questa contrapposizione, è importante sottolineare che la questione commerciale è usata come pretesto per mettere i puntini sulle «i» su una serie di altre questioni, anch’esse di importanza strategica per le imprese statunitensi.

Le accuse e i dazi punitivi

Tre le questioni di fondo: la proprietà intellettuale, gli aiuti pubblici, l’accesso al mercato cinese.

La proprietà intellettuale è un tema che sta molto a cuore alle imprese americane basate sull’innovazione. In particolare quelle delle telecomunicazioni, dell’elettronica, della chimica, della farmaceutica, dei macchinari. La loro espansione si basa sulla capacità di elaborare prodotti nuovi, all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, per cui è di vitale importanza che nessuno possa utilizzare le loro scoperte o le loro invenzioni senza licenza, che poi significa autorizzazione a pagamento. Per capire quanto sia potente la lobby dell’innovazione tecnologica, basti dire che uno dei 15 trattati istitutivi dell’Organizzazione mondiale del commercio è dedicato proprio alla proprietà intellettuale con lo scopo di definire i principi a cui ogni stato deve uniformarsi quando legifera in materia. Naturalmente la regola d’oro è che nessuna impresa può usare l’invenzione messa a punto da un’altra impresa senza contratto di licenza. E i risultati si vedono: la proprietà intellettuale smuove ogni anno svariate centinaia di miliardi di dollari a livello mondiale, con gli Stati Uniti in cima alla lista dei beneficiari. Nel 2017, le licenze sui brevetti hanno generato a favore delle imprese statunitensi incassi per 128 miliardi di dollari, di cui  8,8 miliardi da imprese cinesi. Il governo statunitense, tuttavia, ritiene che la cifra copra solo una piccola parte dei benefici realmente goduti dalle imprese cinesi, perché gran parte delle innovazioni sarebbero copiate in maniera abusiva procurando alle imprese americane un danno per 50 miliardi di dollari. Di qui i dazi punitivi contro la Cina.

La seconda accusa rivolta alla Cina è che sostiene in maniera eccessiva con aiuti statali le proprie imprese. La prova sarebbe contenuta nel documento di programmazione economica adottato dal governo cinese nel 2015, noto come Made in China 2025. Il piano, che si pone l’obiettivo di trasformare la Cina in un leader mondiale in alcuni settori chiave come i semiconduttori, la robotica, l’intelligenza artificiale, l’energia rinnovabile, l’auto elettrica, il materiale biomedico, prevede di farlo attraverso una serie di misure che le autorità americane bollano come concorrenza sleale. Non solo perché le imprese cinesi possono godere di sovvenzioni pubbliche nell’ambito della ricerca, ma anche perché sarebbero previste delle procedure di acquisto che privilegiano le imprese nazionali a detrimento di quelle estere.

La terza accusa, infine, è che la Cina continua ad imporre troppi limiti e vincoli alle imprese estere che vogliono entrare nel capitale delle imprese cinesi. Uno degli obblighi più odiosi, a detta delle autorità americane, è quello di dover condividere i segreti industriali. Dunque, la questione tecnologica torna e ritorna, facendoci capire che è il vero nodo attorno al quale ruota l’intero contenzioso fra Cina e Stati Uniti, come del resto è confermato anche dal caso Huawei.

Il caso Huawei

Fra le più grandi multinazionali del mondo attive nel campo delle telecomunicazioni, delle reti e dei dispositivi informatici, c’è la Huawei, un’impresa cinese a proprietà collettiva, addirittura posseduta dai lavoratori stessi. Ma il condizionale è d’obbligo visto la cortina di segretezza che avvolge la Cina. Nata come impresa privata nel 1987, Huawei ha avuto uno sviluppo rapidissimo, con filiali sparse in tutti i continenti. Si narra, ad esempio, che sia di Huawei la tecnologia usata nei 16 mila uffici postali distribuiti in Italia. Uno degli ambiti in cui Huawei sta avanzando di più è quello del 5G anche detto «internet delle cose», la tecnologia dell’avvenire che permetterà di controllare a distanza elettrodomestici e macchinari nelle nostre case, uffici, stabilimenti.

Huawei è nel mirino del governo americano già dal 2012, con l’accusa di spionaggio e pirateria industriale. Ma recentemente è stata anche accusata di mantenere relazioni economiche con l’Iran contravvenendo alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Per questo il 1° dicembre 2018, Meng Wanzhou, alto dirigente di Huawei, è stata arrestata mentre era di passaggio in Canada e successivamente estradata negli Usa, dove dovrà rispondere di 13 capi d’accusa che vanno dallo spionaggio alla truffa finanziaria. Non contento, Trump ha anche chiesto ai paesi occidentali in rapporti commerciali con Huawei di sospendere qualsiasi relazione economica con questa impresa.

Dunque i rapporti fra Cina e Usa sono al calor bianco e non per qualche manciata di miliardi di import export, ma per il dominio dell’economia mondiale che si gioca su due piani: la supremazia tecnologica e la capacità di dominare le rotte commerciali.

L’Italia sulla «Via della seta»

Il tema delle rotte commerciali ci porta al progetto cinese inizialmente chiamato «Via della seta» e poi ribattezzato Road and Belt Initiative (in sigla Rbi) che potremmo tradurre come «Progetto di cintura stradale». Un progetto faraonico che ha il duplice scopo di rafforzare la rete stradale che collega la Cina all’Europa e quindi all’Asia Occidentale e di rafforzare le infrastrutture marittime dei paesi asiatici, africani ed europei. Il tutto per permettere alla Cina di espandere i suoi rapporti commerciali (come nella mappa sotto lo sguardo del presidente Xi Jinping).

Il costo totale del progetto, spalmato in più anni, è stimato in 8.000 miliardi di dollari e sarà sostenuto in parte dai governi che aderiscono all’iniziativa, in parte dal governo cinese. Più in particolare il governo cinese partecipa sia con investimenti diretti che con prestiti. Al 2017 si stima che il governo cinese abbia investito nel progetto 350 miliardi di dollari di cui 70 sotto forma di investimenti diretti e 280 sotto forma di prestiti. Su proposta del governo cinese, nel 2015 è stata istituita anche l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib) come ulteriore strumento di finanziamento delle opere progettate nell’ambito della Road and Belt Initiative. A essa partecipa anche l’Italia per il tramite di «Cassa depositi e prestiti», che detiene il 2,58% del capitale sociale della banca pari a 2,5 miliardi di euro. Ed è stato proprio per rafforzare questo rapporto di collaborazione che, a marzo a Roma (e poi ad aprile a Pechino), il governo italiano ha firmato con il presidente cinese Xi Jinping un Memorandum d’intesa. «Le parti – è scritto nel documento – esploreranno modelli di cooperazione di reciproco beneficio per sostenere la realizzazione del maggior numero di programmi inseriti nella Rbi». Beneficio che, nel caso della Cina, si traduce nell’interesse a rafforzare la propria presenza nelle società che gestiscono  porti e autostrade d’Italia, senza dimenticare che già detiene il 5% di Società autostrade e il 49% della società che gestisce il porto di Vado presso Savona. Quanto all’Italia il suo interesse è sia industriale che finanziario. Da un punto di vista industriale l’interesse è quello di fare realizzare ai cinesi opere che altrimenti non potrebbero decollare per mancanza di fondi italiani. Un esempio è l’ampliamento del porto di Trieste. Da un punto di vista finanziario è quello di aprire nuove opportunità di affari per il sistema bancario italiano. E poi, chissà, se la Cina diventasse amica potrebbe anche comprarsi un po’ di debito pubblico italiano, considerato che già possiede il 5,6% del debito pubblico americano (circa 1.100 miliardi di dollari).

Lotta tra giganti

In conclusione, ha ragione l’America o la Cina? In una logica di espansione hanno ragione entrambi. L’America, che rappresenta chi è già gigante, vuole mantenere il primato imponendo al mondo intero le regole del gioco che vanno bene ai giganti. La Cina, che sta cercando di diventare gigante, vuole raggiungere il primato con metodiche di concorrenza protetta. Tutt’intorno i paesi minori come l’Italia che, non sapendo come finirà, cercano di essere amici dell’uno e dell’altro, godendo intanto di ciò che la situazione può dare. Il problema è che ciò che conta, ossia la dignità delle persone e la tutela del Creato, non è al centro dell’attenzione né di una parte, né dell’altra.

Come paesi minori, forse è proprio questo che dovremmo fare: sperimentare nuove formule economiche non orientate alla conquista, ma alla tutela delle persone e della sostenibilità in spirito di cooperazione e solidarietà. Ma, per riuscirci, dobbiamo uscire dalla logica delle bandiere e dell’accumulazione ed entrare in quella del rispetto.

Francesco Gesualdi

 




L’altra facia della soia (e della quinoa)


Testo di Rosanna Novara Topino


La sua dentatura dimostra che l’essere umano è onnivoro. Anche per questo è riuscito ad adattarsi all’ambiente. Oggi il problema è trovare una dieta che risponda alle esigenze nutritive e, allo stesso tempo, rispetti gli animali e l’ambiente. I pro e i contro della scelta vegetariana e di quella vegana.

Come dimostra la nostra dentatura, in cui sono contemporaneamente presenti sia canini di modeste dimensioni, ma comunque atti a mangiare carne, che denti molari e premolari per triturare vegetali (mentre gli incisivi servono per mordere ogni tipo di cibo), l’essere umano è onnivoro e forse questa caratteristica ha determinato il successo evolutivo dell’Homo sapiens, per la sua grande capacità di adattamento all’ambiente e a tutti i tipi di cibo in esso presenti. Tuttavia non siamo erbivori, cioè non disponiamo del corredo enzimatico necessario per ricavare energia dalla cellulosa, lo zucchero complesso maggiormente presente nei vegetali. Per non andare incontro a carenze vitaminiche, soprattutto di vitamina B12 e di aminoacidi essenziali, presenti nella carne e che non siamo capaci di sintetizzare in proprio, siamo quindi costretti a mangiare di tanto in tanto cibi di origine animale. In pratica, ciò che dobbiamo introdurre nel nostro organismo con l’alimentazione è strettamente correlato al nostro Dna, ereditato dai nostri antenati, che in effetti si cibavano anche, ma non solo, di carne.

Vegetariani e vegani: non va tutto bene

Resta il dilemma del rispetto degli animali. Da questo punto di vista la dieta che meglio concilia quest’ultimo con le nostre esigenze nutritive è quella latte-ovo-vegetariana, anche se si rischia di eccedere nel consumo di latte e uova, per ottenere la stessa qualità di principi alimentari presenti in quantità superiore nella carne. Inoltre, questa dieta è inadatta per gli intolleranti al lattosio e per coloro che hanno problemi di ipercolesterolemia familiare.

La dieta vegana, nata come scelta etica del rispetto per gli animali e per l’ambiente, esclude invece totalmente i prodotti di origine animale e li sostituisce con prodotti vegetali particolarmente ricchi di proteine come la soia (abbondantemente utilizzata nella cucina vegana per produrre alimenti che ricordano, per consistenza, la carne e i prodotti caseari senza avere però le stesse proprietà nutritive), la quinoa, le mandorle, l’avocado e gli anacardi. In realtà questa dieta è controversa perché, per ricavare le proteine necessarie, utilizza grandi quantità di soia, con il grande impatto ambientale che essa comporta (disboscamenti, impoverimento dei suoli, ecc.).

Un altro alimento largamente utilizzato nella cucina vegana (ma non solo) è la quinoa coltivata in Bolivia, Cile, Perù ed Ecuador. Si tratta di una pianta erbacea della famiglia delle Chenopodiacee (a cui appartengono anche spinaci e barbabietole), dalle grandi proprietà nutritive perché composta per il 60% da amido e per il 12-18% da proteine ricche di due aminoacidi essenziali: la lisina e la metionina. La lisina è necessaria allo sviluppo e alla fissazione del calcio sulle ossa e inoltre favorisce la produzione di anticorpi, ormoni ed enzimi. La metionina ha un’azione lipolitica e partecipa ai processi di detossificazione e di eliminazione dei prodotti metabolici di scarto.

Nel 2013 la quinoa è stata dichiarata «cibo dell’anno» dall’allora segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e la sua produzione è stata interessata da un vero e proprio boom, vista la domanda a livello mondiale. In Bolivia, i terreni destinati alla produzione di questa pianta sono passati, nel giro di pochi anni, da 10.000 a 50.000 ettari e il 90% dei semi prodotti è destinata all’esportazione. In pratica i terreni, che in passato producevano una grande quantità di colture diverse, si sono trasformati in monocolture di quinoa. Data la grande richiesta, il prezzo della quinoa è aumentato fino a triplicare, al punto che per i contadini del Perù, per i quali questa pianta è sempre stata parte della cucina tradizionale da migliaia di anni, è diventato impossibile cibarsene. In Bolivia il suo prezzo è diventato quattro volte tanto quello del riso o di altri cereali. La quinoa viene perciò venduta quasi del tutto o scambiata con Coca-Cola, dolciumi e cibo della dieta occidentale. Anche per questa causa, attualmente il 19,5% dei bambini peruviani (dato Unicef) soffre di malnutrizione. Inoltre, in passato la quinoa veniva coltivata solo sui pendii delle Ande, mentre i terreni più a valle erano destinati all’allevamento di lama e alpaca. Ora molti di questi terreni sono utilizzati per la coltivazione della pianta, mentre gli allevamenti si sono notevolmente ridotti e sono stati confinati nelle zone collinari, riducendo ulteriormente le possibilità di sostentamento del popolo andino. A tutto questo si aggiunge l’uso di fertilizzanti e di anticrittogamici di scarsa qualità, che inquinano il suolo, le falde acquifere e l’aria, impoverendo il terreno, la cui resa sta diminuendo progressivamente.

Altro alimento controverso presente spesso nella dieta vegana sono gli anacardi coltivati per il 40% nel Vietnam, spesso da tossicodipendenti condannati ai lavori forzati in centri di recupero, mentre il restante viene prodotto nelle zone più povere della Costa d’Avorio e dell’India. Qui gli anacardi vengono ripuliti dai loro gusci a mani nude dalle donne, che non possono permettersi i guanti per proteggersi dall’olio caustico formato dagli acidi anacardici cardolo e metilcardolo, i quali provocano ferite permanenti simili a ustioni sulla pelle.

La dieta mediterranea

È evidente che la dieta vegana è molto rispettosa degli animali, ma non altrettanto delle persone che producono parte del cibo utilizzato. Questa dieta sarebbe forse più rispettosa sia degli animali che degli umani, se utilizzasse esclusivamente frutta e verdura, cereali e oleaginose a Km 0. Resta il fatto che necessita dell’integrazione di vitamine del gruppo B, in particolare di B12, per non incorrere nel rischio di anemia perniciosa e di disturbi neurologici ed è decisamente sconsigliata per i bambini, gli adolescenti, le donne in gravidanza e in allattamento.

Per chi non può fare a meno della carne, la dieta più rispettosa dell’ambiente è quella mediterranea, che prevede un abbondante consumo di cereali, di ortaggi e frutta, un consumo medio di pesce e un limitato consumo di carne e di latticini, mentre gli zuccheri semplici sono ridotti al minimo indispensabile.

I gas serra delle risaie

Sia la dieta vegetariana che quella vegana, se particolarmente ricche di riso possono avere un certo peso a livello di impatto ambientale. Questo perché, come si è visto da recenti studi, tra i principali produttori di gas serra al mondo ci sono le risaie a sommersione, che emettono metano e protossido di azoto in quantità tali da potere essere paragonate all’attività di almeno 200 centrali a carbone per quanto riguarda il loro effetto sul riscaldamento globale, ma la stima è per difetto, se si considerano le emissioni sul lungo periodo. Perché avviene tutto ciò? Il riso, almeno nel 75% dei casi, viene coltivato in sommersione, tecnica che soddisfa sia le esigenze idriche che quelle di termoregolazione delle piante, con limitazione delle escursioni termiche a cui esse sarebbero esposte se coltivate su terreno asciutto. Questo però comporta che si crei un ambiente anaerobico sommerso con la crescita di batteri anaerobi metanogeni, che riescono a ottenere metano dalla digestione dell’amido presente nelle radici delle piante, liberandolo nell’atmosfera. Per quanto riguarda la produzione di protossido di azoto, essa deriva dalla nitrificazione e denitrificazione del suolo, a seguito dell’uso dei fertilizzanti azotati. Considerando l’estensione delle risaie sulla Terra, le emissioni di metano ad esse dovuto rappresentano il 20% del totale. Tali emissioni possono variare a seconda del clima, dell’annata e del modo di coltivare il riso. Mediamente per la coltura in sommersione continua vengono emessi 185 Kg/ha/anno, mentre per la semina interrata con sommersione differita vengono rilasciati 115 Kg/ha/anno e infine 5Kg/ha/anno per la semina a irrigazione turnata, che però rende il 40% in meno come prodotto. Il rovescio della medaglia è che man mano che diminuisce la produzione di metano delle risaie, aumenta quella di protossido d’azoto, gas serra 12 volte più potente del metano stesso e 296 volte più della CO2, come già detto. Nelle risaie a sommersione continua ne viene rilasciato 1 Kg/ha/anno, per la semina interrata a sommersione differita 1,6 Kg/ha/anno e per quella a irrigazione turnata 4,5 Kg/ha/anno. Se tutte le risaie del mondo fossero convertite a irrigazione turnata, le emissioni annue di metano diminuirebbero di 12 Tg, ma occorrerebbe detrarre l’incremento di protossido di azoto stimabile in 7,7 Tg di metano equivalente. Questo però comporterebbe la riduzione del 30% della produzione mondiale di riso, che è la seconda coltura più importante per la nutrizione umana dopo quella del frumento. Ne varrebbe la pena? La risposta è ardua, perché altri studi hanno dimostrato che elevati livelli di CO2 causerebbero una riduzione dei tassi di minerali, di proteine e di vitamine di questo cereale, vale a dire che i gas serra stanno anche rendendo il riso meno nutriente.

Nel nostro piccolo

Quello che possiamo fare noi, per pesare meno sull’ambiente con la nostra alimentazione è probabilmente fare sempre attenzione alla provenienza dei cibi, prediligendo quelli a Km 0, o addirittura coltivandoci qualche ortaggio e frutta direttamente in proprio, se possibile (per pomodori e insalata bastano un paio di cassette di terra sul balcone), in modo da non favorire più di tanto il trasporto su gomma.

Rosanna Novara Topino
(fine seconda parte – continua)




Mi pare che la Madonna abbia sorriso


Testo di Giacomo Mazzotti


Il mese di maggio appena trascorso e, soprattutto, giugno, con la festa della Consolata, ci fanno sentire più forti la presenza e l’affetto di Maria, definita da papa Francesco, nella sua ultima Lettera ai giovani Christus vivit, «il grande modello per una Chiesa giovane, che vuole seguire Cristo con freschezza e docilità», che ci stimola a vivere il vangelo e a diffonderlo intorno a noi «con coraggio, entusiasmo» e… grinta missionaria. Il papa tuttavia riconosce che non è necessario fare un lungo percorso perché i giovani diventino missionari: «Anche i più deboli, limitati e feriti possono esserlo a modo loro… Un giovane che va in pellegrinaggio per chiedere aiuto alla Madonna e invita un amico ad accompagnarlo sta compiendo una preziosa azione missionaria». In questo piccolissimo spunto di «metodologia missionaria», Maria si intrufola ricordando ai giovani (e non solo a loro) che la vita non è «nel frattempo», ma che tutti noi siamo «l’adesso di Dio», chiamati a vivere il presente, l’oggi, con dedizione e generosità.

È sempre lei la «donna forte del sì che sostiene e accompagna, protegge e abbraccia» i discepoli del Figlio, in attesa dello Spirito Santo, perché con la sua presenza nasca «una Chiesa giovane», con i suoi apostoli in uscita, per far sorgere un mondo nuovo.

Dobbiamo, allora, anche noi, non solo amare e invocare Maria, ma anche «custodirla nel cuore», perché ci è stata affidata dallo stesso Gesù come un tesoro prezioso, una Madre che ci ricolma di attenzioni, nonostante la nostra piccolezza, la nostra fede fragile e, forse, la passione missionaria senza slancio.

Preparandoci alla festa della Consolata, vogliamo ringraziarla con le parole «autobiografiche», tenere e commosse di questa preghiera del nostro Fondatore:

«Ringrazio più voi, o Maria, che il Signore, di essere già da 35 anni vostro custode. Che cosa ho fatto in questi 35 anni? Se fosse stato un altro al mio posto, che cosa avrebbe fatto? Ma non voglio investigare; se fossi stato tanto cattivo, non mi avreste tenuto tanti anni: è questo certamente un segno di predilezione. Se ho fatto male, pensateci, aggiustate voi, e che sia finita; accettate tutto come se l’avessi fatto perfettamente. Prendete le cose come sono; mi avete tenuto, dunque dovete essere contenta. – E mi pare che la Madonna abbia sorriso».

Giacomo Mazzotti


Padre di missionari

Giuseppe Allamano nella vita di ogni giorno

L’Allamano attorniato dalla comunità dei missionari di fronte al pilone delal Consolata fatto da lui costruire all’inizio della salita che porta al santuario di St Ignazio, nel 1908, per commemorare il primo centenario di fondazione della casa di spiritualità.

L’Allamano aveva una visione positiva circa il futuro del suo Istituto, fondato nel 1901, e seppe infonderla nei suoi missionari. Incoraggiò fratel Benedetto Falda già nei primi anni, mentre era a Marsiglia in partenza per il Kenya, perché un missionario che avrebbe dovuto partire con lui era stato dimesso: «L’albero dell’Istituto è piantato saldamente. Cadranno ancora delle foglie, forse dei rami si piegheranno, ma l’albero crescerà gigantesco; ne ho le prove in mano». La sua convinzione era fondata su criteri apostolici: «Il nostro Istituto durerà sempre finché ci saranno anime da salvare. Vedete la perpetuità dell’Istituto!». Non era la sua abilità di organizzatore che lo convinceva, ma la sua fede nel progetto di Dio di salvare tutta l’umanità.

Anche sul piano economico la sua fiducia era illimitata. Confidò ad un missionario: «Non datevi mai pensiero dei mezzi materiali, del denaro. Purché voi vi manteniate fedeli ai vostri impegni e conserviate il vero buono spirito, nulla vi mancherà mai. Io non ho mai cercato il denaro; e il denaro mi corse sempre appresso, senza domandarlo».

Agli ordini della Consolata

Come fondatore di un istituto missionario, l’Allamano tenne sempre un atteggiamento di grande modestia. Si riteneva un semplice operaio agli ordini della Consolata. Mirava alla qualità dei missionari e non al loro numero; all’efficacia spirituale del loro ministero e non alla potenza esteriore delle opere. Sentiva forte la sua responsabilità di educatore dei giovani che la Provvidenza gli affidava perché li educasse ad essere veri missionari. Anzitutto sapeva accogliere con simpatia quanti si presentavano per essere ammessi nell’Istituto. Ad un gruppo di nuovi allievi suggerì: «Ora scriverete alla vostra mamma di stare tranquilla, perché voi qui avete trovata una nuova Mamma, la Consolata». Non temeva di proporre ai suoi giovani grandi ideali fino alla santità. Oltre agli incontri individuali, ogni domenica era puntuale a tenere una conferenza formativa a tutti. Però non intendeva essere solo maestro, ma voleva soprattutto essere padre. Assicurava: «A voi parlo semplicemente, ma prima mi preparo, consulto e poi vi dico quanto il cuore mi detta». Soprattutto chiedeva fiducia e sincerità: «Di voi voglio sapere tutto, eccetto i vostri peccati; per il resto non dovete nascondermi nulla». «Io amo la spontaneità del cuore. E voi ragazzi dovete venire a me con il cuore aperto».

L’aria sana che si respirava

Non mi soffermo ad indicare i valori formativi sui quali l’Allamano insisteva, quali la fede nell’Eucaristia, la preghiera assidua, l’amore alla Madonna, l’ubbidienza, lo spirito di sacrificio, ecc., ma mi limito a riportare tre piccoli episodi, scelti tra molti. Presi separatamente sembrano insignificanti, ma letti insieme rivelano l’aria bella e pulita che si respirava in quel tempo. Tra l’Allamano e i giovani si era creato un rapporto molto spontaneo, proprio di famiglia, che favoriva la formazione, e che l’Istituto ha cercato di conservare anche in seguito.

Un primo fatterello avvenne durante le vacanze estive a S. Ignazio. Dopo pranzo i ragazzi dovevano ritirarsi nelle loro camere e non andare a giocare per non disturbare chi si riposava. L’assistente era inflessibile. Una volta, quando l’Allamano era presente, alcuni sgusciarono dalle camerette e bussarono alla sua porta, mentre riposava. Ecco il dialogo: «Cosa volete?» – «Signor Rettore, non possiamo dormire e vorremmo andare a giocare alle bocce» – «Andate pure» – «Ma, sig. Rettore, l’assistente non ce lo permette, teme che disturbiamo la comunità». Avendo capito perché avevano bussato alla sua porta, si dimostrò comprensivo e rispose: «Vengo anch’io…». E poi si fermò con loro, contava i punti, lodava chi giocava meglio. Quei ragazzi avevano soggezione dell’assistente, ma non di lui.

Un secondo episodio riguarda una pratica piuttosto singolare. Il direttore di Casa Madre suggerì ai giovani di inginocchiarsi davanti all’Allamano per baciargli la mano, in segno di rispetto. Egli se ne accorse subito e, durante una conferenza, ne parlò chiaramente: «Ho un’altra cosa da dirvi. Ho visto che da un po’ di tempo mi fate la genuflessione. Ma non voglio che mi facciate la genuflessione. Perché io temo che aumentando i segni esterni di rispetto, diminuiscano quelli di confidenza. Io preferisco che manteniate la vostra confidenza a tutti questi segni esterni. No, no, non fatelo. Non la farete neppure quando sarò morto la genuflessione».

Un terzo episodio coinvolse i ragazzi del ginnasio che l’Allamano incontrò mentre stavano facendo merenda sotto il portico. Avendo promesso per scherzo che sarebbe venuto a vivere con loro, essi gli chiesero di fermarsi subito. Iniziò un simpatico dialogo: «Ma non mi avete ancora preparato la camera». All’assicurazione dei ragazzi che la camera c’era già: «Ma alla Consolata c’è la Madonna che mi aspetta». I ragazzi non cedettero e assicurarono che la Consolata c’era anche qui: «Ma non è quella là». Essi promisero di andare a prenderla e portarla in Casa Madre. L’Allamano, un po’ commosso, concluse la conversazione così: «Oh, miei cari, per venire qui, bisogna che rinunzi là… E come volete dopo 40 anni che vi sono? Verrò a trovarvi più spesso che posso». Salutandoli: «Ci rivedremo ancora». Fu di parola.

Concluso con le parole che l’Allamano rivolse ai giovani al termine di una festicciola di famiglia in occasione del suo onomastico. Di fronte alle numerose lodi che gli furono rivolte, fece questo semplice commento: «Quello che avete detto di me, ve lo ha detto il vostro buon cuore, e ve ne ringrazio. E quello che non merito questa volta, cercherò di meritarlo un’altra».

Padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano: uno di famiglia

Il 16 febbraio scorso i missionari della Consolata hanno celebrato la festa del beato Allamano. Durante il triduo di preparazione alcuni laici hanno offerto la loro testimonianza su come hanno conosciuto la figura dell’Allamano e come essa ha inciso sulla loro vita. Di seguito riportiamo la prima parte della toccante testimonianza del dott. Ottavio Losana, già professore universitario, membro attivo del gruppo «Amici Missioni Consolata» e, per tanti anni, medico di famiglia della comunità di Casa Madre. È cresciuto con una vera devozione per l’Allamano grazie ai genitori e soprattutto ai nonni materni che l’avevano conosciuto e frequentato di persona.

«Alla mia nascita, l’Allamano era morto da otto anni e questo vuol dire che era contemporaneo dei miei genitori e ancora di più dei miei nonni. In quegli anni la famiglia di mio padre abitava in via San Dalmazzo e quella di mia mamma in via Delle Orfane: tutti nel centro di Torino, a due passi dal Santuario della Consolata che frequentavano. In particolare, la nonna paterna, Eleonora, conosceva l’Allamano molto bene, lo aveva invitato più di una volta a casa, lo frequentava abitualmente nel Santuario, lo chiamava semplicemente “El canonic” (Il canonico) perché allora in famiglia si parlava in piemontese e diceva che non l’avevano fatto vescovo perché era “cit e brut” (piccolo e brutto). Forse non era vero, forse per fare i vescovi importava anche l’aspetto fisico, comunque lei gli era affezionatissima.

Teneva nel suo messale un’immaginetta, una specie di “ricordino di morte”, che rappresentava il busto dell’Allamano che poi col papà era passato alla nostra famiglia e lo facevano vedere a noi bambini e noi lo chiamavamo “barba santo” (zio santo). In pratica ci dicevano che era un santo molto prima del processo di canonizzazione. Nell’opinione dei suoi fedeli era un santo. E questo è significativo.

Quando poi la famiglia si è trasferita in Piazza Bernini, via Giacomo Medici, mia mamma ha cominciato a frequentare la chiesa dei missionari di C.so Ferrucci, vicina a casa nostra. E la frequentava anche una signora, profuga da Pola con la sua famiglia, che aveva due bambini piccoli: Marcella e Mario. Marcella aveva due anni, ma sarebbe diventata mia moglie.

Poi c’è stata la parentesi della guerra: dal ‘42 al ‘45 a Torino bambini non ce n’erano più perché tutte le famiglie erano sfollate. Di notte, venivano gli aerei a bombardare e poi, nel ‘43-’44, lo facevano anche di giorno. Casa Madre, centrata da una bomba, fu ridotta a un cumulo di macerie. Ma negli anni successivi l’hanno ricostruita e la nostra frequentazione dei missionari è ripresa.

Io ero diventato medico e venivo tutti i lunedì mattino in infermeria per vedere se qualche padre avesse problemi di salute. Fra i tanti, mi permetto di ricordare p. Saverio Dalla Vecchia: è lui che aveva “inventato” – diciamo così – l’infermeria e p. Armanni Daniele che è stato suo successore.

Nel 1962 mi sono sposato proprio in questa chiesa per cui questo luogo ci è molto caro e abbiamo continuato a frequentarlo sempre. Nel 1990 c’è stata la beatificazione dell’Allamano e allora ho deciso che dovevo saperne di più e che non mi bastava ricordare il “barba santo”, l’immaginetta della nonna.

La prima documentazione che ho avuto è un bel libro fotografico – Giuseppe Allamano. Uomo per la missione, Imc – e qui ho cominciato a saperne qualcosa di più. Poi ho letto altre cose, non tutti i volumi di p. Tubaldo… in ogni modo ho appreso molte cose che mi hanno fatto conoscere e apprezzare la figura e l’opera di Giuseppe Allamano.

Ho ascoltato anche tante testimonianze dalla viva voce di p. Pasqualetti, p. Pavese e altri, ma quello che mi ha fatto conoscere a apprezzare di più l’Allamano sono stati i suoi missionari».

…continua

L’ho affidato al beato Allamano

Parlando al telefono con una mia amica, disperata e piangente, mi ha detto che suo fratello Marzio era in fin di vita (il male era iniziato 4 giorni prima): i medici gli avevano somministrato un farmaco e, se nella notte non avesse funzionato, sarebbe morto. La mia amica mi ha chiesto di pregare per lui. Io l’ho affidato al beato Giuseppe Allamano e ho iniziato la novena: la faccio a casa e tengo una candela grande, accesa tutta la notte, fino al mattino…

Circa un’ora fa, la mia amica mi ha comunicato che il fratello era fuori pericolo.

Nei giorni successivi, mi ha riferito che stava meglio, ha cominciato a mangiare, lo hanno anche liberato dai tubi che aveva e stava migliorando piano piano. Io continuo con la novena al beato Allamano e, se non basta, la ripeto di nuovo. Non mi arrendo a pregare, perché possa migliorare (dopo che era stato dato due volte per morto) e possa guarire del tutto.

Silvana M. – Roma
(messaggi SMS)




Di cicloni in Mozambico

e nuovi dirigenti AICS in Italia


Testo di Chiara Giovetti


Mozambico, alluvioni e cicloni

Prima le inondazioni, poi i cicloni. Il Mozambico colpito dalla violenza della natura cerca di rimettersi in piedi.

Forti piogge hanno colpito il Mozambico centro settentrionale a partire dal 6 marzo scorso. Le regioni più interessate sono state Zambezia, Tete e la regione centrale. I primi bilanci parlavano di sette morti, oltre 32mila persone coinvolte dagli allagamenti e 4.242 sfollati.

Il 10 marzo l’Istituto nazionale di meteorologia del Mozambico ha diramato un’allerta in cui segnalava che la depressione in corso sarebbe diventata una tempesta tropicale, denominata Idai.

Oltre alle zone già colpite sono stati inondati anche parte del Niassa e 83mila ettari di terreni coltivati. Un totale di quasi 55mila piccoli coltivatori danneggiati.

Il ciclone Idai

Il ciclone Idai si è abbattuto sul paese nella notte fra il 14 e il 15 marzo, in particolare sulla città di Beira, provincia di Sofala, nel Mozambico centrale.

Le Nazioni Unite hanno immediatamente lanciato un appello per raccogliere 40,8 milioni di dollari necessari a soccorrere 400mila persone che, secondo le proiezioni sul percorso del ciclone, si stimava sarebbero state colpite.

Dopo una serie di aggiornamenti e verifiche, il 3 aprile scorso il numero ufficiale delle vittime è stato quantificato in 598, più oltre 1.600 feriti. Vi erano 131mila persone ospitate in ricoveri temporanei.

Le case completamente distrutte sono risultate essere oltre 85mila, 97mila erano parzialmente distrutte e quasi 16mila allagate.

Gli ettari di coltivazioni distrutti sono stati più di 715mila.

Idai ha poi continuato la sua corsa verso lo Zimbabwe dove, a fine marzo, si contavano 181 vittime, 175 feriti, circa 330 dispersi e un totale di 270mila persone colpite dagli allagamenti.

La città di Beira

Beira è la quarta città più grande del Mozambico con 500mila abitanti. Capitale della provincia di Sofala, al centro del paese, è affacciata sull’Oceano Indiano. Il suo porto è uno snodo cruciale sia per il Mozambico che per alcuni paesi vicini che non hanno sbocco al mare: Malawi, Zimbabwe e Zambia. Parte della città si trova sotto il livello del mare, «su una costa che secondo gli esperti è una delle zone del mondo più vulnerabili all’innalzamento delle acque dovuto al cambiamento climatico»@.

Mentre il porto ha ripreso le attività poco dopo il ciclone@, l’area circostante deve fare i conti con una devastazione senza precedenti: il 90% della città è infatti stato danneggiato o distrutto@.

La zona di Beira è il granaio del paese con un ruolo cruciale nei periodi di carestia. L’80% della popolazione mozambicana – e la regione intorno a Beira non fa eccezione – basa la propria sussistenza sull’agricoltura; nel 99% dei casi si tratta di piccoli coltivatori@.

Tete e Cuamba

Padre Sandro Faedi, Imc, ha testimoniato il 3 aprile per la rubrica online di Missioni Consolata, «Fuori Carta», la situazione di Tete, capoluogo della provincia omonima, confinante con la provincia di Sofala: «Centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».

Oltre a occuparsi di Tete, dove lo stato sta cercando di intervenire, padre Sandro segue anche la situazione nelle più sguarnite Mpenha e Nkondezi, dove le famiglie colpite sono rispettivamente 673 e 12. A Nkondezi, grazie alla generosità di alcuni donatori privati, padre Sandro sta aiutando le famiglie a ricostruire le loro case.

Padre Willhard Kiowi da Cuamba (Niassa) segnala invece che circa ottanta famiglie sono ospiti a Nossa Senhora Aparecida, una delle chiese legate alla parrocchia di San Miguel Arcanjo dove lavorano i missionari della Consolata. Qui i missionari hanno intensificato l’assistenza alimentare, di solito rivolta ai bambini malnutriti del centro nutrizionale, fornendo anche alle famiglie riso, farina di mais, zucchero, sale e olio per cucinare, oltre che materiale per l’igiene personale, coperte e stuoie. Secondo la rivista Africa e Affari, «il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha concesso un sostegno finanziario di emergenza al Mozambico per un importo di 118,2 milioni di dollari, in seguito alle gravi conseguenze, anche economiche, provocate dal passaggio del ciclone Idai su alcune zone del paese»@.

Era inoltre prevista per fine maggio una conferenza dei donatori internazionali organizzata dal governo di Maputo per discutere e coordinare la ricostruzione.

Il ciclone Kenneth

Mentre lavoravamo a questo articolo, un altro ciclone, denominato Kenneth, si è abbattuto il 25 aprile sul Nord del Mozambico (tra Pemba e Mocimboa e sulle isole Comore) e ha raso al suolo interi villaggi e provocato decine di vittime. Nei giorni precedenti, nel paese erano state evacuate 30mila persone. Secondo l’Unicef@, dopo l’ultimo disastro, 368mila bambini sono bisognosi di sostegno umanitario.

È rarissimo che due cicloni di tale intensità colpiscano il Mozambico nella stessa stagione, essi riportano la nostra attenzione ai cambiamenti climatici che interessano l’Africa. Il Mozambico, con i suoi 2.400 chilometri di costa sull’Oceano Indiano, è in prima linea nella lotta al cambiamento climatico.

Chiara Giovetti


Aics – Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo

Nuovo direttore, vecchi problemi?

L’Aics ha un nuovo direttore, il candidato della Farnesina Luca Maestripieri. Un diplomatico invece di un tecnico a capo di un’agenzia che dovrebbe essere indipendente dalla politica. Il punto sulle polemiche.

Dal 6 aprile scorso Luca Maestripieri è il nuovo direttore dell’Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Nato a Viareggio 58 anni fa, laureato in giurisprudenza, ha una carriera diplomatica che lo ha portato a Lubiana, Lisbona, New York e Parigi. Prima della nomina a direttore dell’Aics, Maestripieri ricopriva la carica di direttore centrale per gli affari generali e amministrativi presso la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) del ministero degli Affari esteri e della cooperazione (Maeci).

Contestualmente alla nomina di Maestripieri, un’altra figura di rilievo dell’Agenzia, il direttore del Dipartimento per le relazioni istituzionali e internazionali Emilio Ciarlo@, ha rassegnato le proprie dimissioni. La sua reazione alla nomina del nuovo direttore è stata la pubblicazione, il 5 aprile, sul suo profilo Facebook, di un’immagine del processo alle streghe di Derneburg (1555) sovrastata dalla scritta «Controriforma»@.

Due giorni dopo, in una lunga nota tecnica intitolata «Evitiamo titoli», Ciarlo ha più chiaramente argomentato la sua posizione@: «Volevamo che la cooperazione fosse una politica. Il contributo dell’Italia a un’idea di globalizzazione dei diritti e dei rapporti internazionali, un modo per essere “creatori” di sviluppo, non pianificatori, non benefattori, non semplicemente caritatevoli. Per questo doveva essere complementare e non succube della politica estera. Parte integrante non ancillare. Per questo è stata istituita un’Agenzia, autonoma, specializzata […]. A fare una sintesi con le istanze politiche, le preoccupazioni diplomatiche, le considerazioni commerciali ci avrebbe pensato l’altra gamba, quella del ministero, in una dialettica trasparente che sarebbe stata mediata e risolta, a favore dell’una o dell’altra posizione, dal viceministro […]. Questo era l’equilibrio. Questo il disegno, originale, considerato ora dall’Ocse e dai nostri partner europei un’architettura innovativa e promettente. Questo equilibrio ora salta».

A rendere più esplicito il punto ci ha pensato Carlo Ciavoni su la Repubblica, che ha ricostruito la vicenda in un articolo dal titolo Cooperazione italiana: con la nomina di Luca Maestripieri alla direzione dell’Aics vince la diplomazia@.

«La bisbetica maggioranza di governo», scrive Ciavoni, «con tutti i problemi che ha, ha pensato bene di non rischiare e di non superare quel confine sottilissimo che divide la Cooperazione dalla Diplomazia».

Il dibattito sulla «vittoria della diplomazia»

Che cosa significa «vince la diplomazia» e qual è il problema se questo succede?

A contendersi con Luca Maestripieri il ruolo di direttore erano stati, nella fase iniziale, 56 candidati, ridotti poi a una terna di nomi finalisti che comprendeva, oltre al diplomatico poi nominato, anche Emilio Ciarlo e Flavio Lovisolo, il direttore dell’Agenzia a Tunisi. La vittoria della diplomazia dunque consiste in questo: che fra i tre candidati, dei quali due erano tecnici di alto profilo già attivi nell’Agenzia e il terzo un diplomatico del ministero degli Affari esteri, è stato scelto quest’ultimo. Il problema che molti vedono sorgere di conseguenza a questa scelta è che l’Agenzia perda di autonomia e diventi «ancella» del ministero. Di conseguenza, il timore è che la cooperazione diventi non più parte integrante e qualificante della politica estera, come l’ha definita la legge 125 del 2014, ma un’appendice striminzita in balia degli umori e delle decisioni prese alla Farnesina, che a loro volta dipendono da equilibri politici più attenti agli interessi economici e alla pancia dell’opinione pubblica che alla solidarietà internazionale.

Interni contro esterni

Accanto a questo dibattito (chiamiamolo per brevità diplomatici versus tecnici) se ne è poi sviluppato uno parallelo, quello degli interni versus esterni, cioè dei candidati appartenenti all’Agenzia o al Maeci, da un lato, e dei candidati provenienti da altri settori – a cominciare dalla società civile – dall’altro.

La prima fase della selezione ha visto uno dei concorrenti «esterni», l’ex presidente della Ong Vis, organizzazione di ispirazione salesiana, poi sindaco di Gaeta e portavoce del network di Ong Cini, Antonio Raimondi, ricorrere al Tar «contro la totale mancanza di trasparenza e contro le palesi ingiustizie da parte della commissione esaminatrice nel proporre la “lista ristretta” al ministro degli Esteri»@.

Non meno polemico è stato Edoardo Missoni, medico specializzato in medicina tropicale e segretario generale dell’Organizzazione mondiale del Movimento Scout dal 2004 al 2007, che sul blog info-cooperazione così ha commentato@ l’incarico al diplomatico toscano: «Era il candidato della Farnesina. Hanno avuto bisogno di tredici mesi per decidere quello che avevano già deciso». Dato il suo precedente ruolo alla «Dgcs che controlla l’Aics», rincara Missoni, a sua volta candidato alla direzione dell’Agenzia nel 2015, «difficile pensare che non abbia avuto voce in capitolo nell’organizzare il concorso al posto per il quale si era candidato. Conflitto d’interessi? L’Avvocatura dello stato deve aver chiuso un occhio (forse entrambi)». Secondo Missoni, il nuovo direttore ha un’esperienza nella cooperazione allo sviluppo «limitata alla burocrazia […], ma la gestione di una Agenzia di cooperazione allo sviluppo avrebbe richiesto altre competenze (anche di un po’ di “gavetta” nei Pvs). E poi, di quale autonomia (di pensiero e azione) sarà capace nei confronti della “casa madre”?».

Più incline a smorzare i toni è stato Nino Sergi, fondatore di Intersos, organizzazione specializzata nell’intervento umanitario d’emergenza, e policy advisor della rete di Ong Link2007, che definisce fuorviante il titolo dell’articolo di Ciavoni su la Repubblica. Il punto non è, a detta di Sergi, se abbia o meno vinto la diplomazia, ma se la scelta di Maestripieri sia quella giusta per contribuire a far funzionare la cooperazione italiana, a migliorarne la qualità e a renderla più efficace. «Oggi la decisione è stata presa e lo sforzo va tutto indirizzato a sostenere il nuovo direttore nel non facile suo compito. È ciò che ho fatto», conclude il fondatore di Intersos, «quando è stata nominata Laura Frigenti (precedente direttrice dell’Aics, ndr), anche se avrei preferito un’altra scelta».

Infine, arriva da Silvia Stilli, portavoce dell’Associazione Ong Italiane (Aoi), un invito all’esame di coscienza: «Credo che tutta questa vicenda in ogni caso meriti una riflessione su come sia percepita la cooperazione internazionale fuori dai nostri contesti di vita ad essa dedicata». Nel suo commento, Stilli sembra voler suggerire che è mancata una nutrita e credibile rappresentanza di candidati non squisitamente ministeriali: «Chi si è candidato all’uscita dell’avviso pubblico dei vari attori? Chi vuole mettersi in gioco in questo percorso? […[ Mi riferisco senza peli sulla lingua al “mio (?) mondo”. Antonio Raimondi escluso. […] Non sono ottimista e non mi va di dare sempre la colpa ai governi». Come dire: se i candidati qualificati e motivati esterni al recinto della diplomazia non si fanno avanti, è ancor più facile che poi «vinca la Farnesina».

Intanto la cooperazione frena

Il 10 aprile è uscito il rapporto annuale dell’Ocse@ sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps), che introduce un nuovo metodo per misurarlo@. Sarà pienamente utilizzato solo dal 2019 ma già per il 2018 l’Ocse pubblica i dati preliminari ottenuti utilizzando la nuova misurazione, che si basa non più sul cosiddetto cash flow, cioè il complessivo valore dei prestiti fatti ai paesi, ma sul grant equivalent, cioè la componente di dono contenuta in questi prestiti. Il principio, insomma, è che chi fa un dono (grant) «aiuta di più» rispetto a chi concede un prestito, ed è necessario misurare l’aiuto in modo da evidenziare più chiaramente questa parte di regalo.

Utilizzando il nuovo metodo, nel 2018, i 30 paesi donatori membri del Development Assistance Committee (Dac, in italiano Comitato di assistenza allo sviluppo) hanno fornito aiuti per un totale di 153 miliardi di dollari, con gli Stati Uniti primo donatore (34,3 miliardi) seguiti da Germania (25), Regno Unito (19,4,), Giappone (14,2) e Francia (12,2 miliardi).

Se si guarda la percentuale dell’aiuto rispetto al Pil, a superare la soglia dello 0,7% sono stati solo la Svezia (1,04%), il Lussemburgo (0,98%), la Norvegia (0,94%), la Danimarca (0,72%) e il Regno Unito (0,7%).

Utilizzando invece il metodo del cash flow, il totale dell’Aps per i paesi Dac è stato di 149,3 miliardi di dollari, con una contrazione del 2,7% rispetto all’anno precedente causata principalmente dalla diminuzione dei costi per l’assistenza ai rifugiati nei paesi donatori. L’Italia è passata dai 5,86 miliardi di dollari del 2017 agli attuali 4,9: una diminuzione del 21,3%. La riduzione dei costi per i rifugiati è responsabile di questo calo solo per meno della metà: al netto di questa voce, infatti, l’aiuto italiano è comunque diminuito di oltre 12 punti percentuali e si attesta sullo 0,24% del Pil a fronte di uno sforzo medio dei paesi Dac pari allo 0,38%@.

Chiara Giovetti