Sudafrica, trent’anni dopo Mandela


Nel 1994 Nelson Mandela diventava il primo presidente del Sudafrica libero e democratico, cioè post-apartheid, generando grandi speranze e aspettative. Oggi il Paese, tornato alle urne a fine maggio, si trova a tracciare un difficile bilancio di questo trentennio.

«Abbiamo trionfato nello sforzo di infondere la speranza nel petto di milioni di persone del nostro popolo. Abbiamo stretto un patto: costruiremo una società in cui tutti i sudafricani, sia bianchi che neri, potranno camminare a testa alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana, una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo». Così si rivolgeva al popolo sudafricano Nelson Mandela, leader del partito African national congress (Anc), nel discorso di insediamento come presidente del Sudafrica, il 10 maggio 1994@.

Fra il 27 e il 29 aprile1994 si erano svolte le prime elezioni libere dopo la fine dell’apartheid, termine che indica sia la politica di rigida segregazione razziale e discriminazione economica che separava i bianchi dai non bianchi in Sudafrica, sia il sistema istituzionale e giuridico che ha messo in pratica questa politica dagli anni Trenta ai Novanta.

«La vittoria dell’Anc è scontata», prevedeva su MC poco prima del voto padre Benedetto Bellesi, missionario che in Sudafrica aveva lavorato dal 1974 al 1986, ma «Mandela non si fa illusioni. Dovrà riportare l’ordine nel paese: dal giorno della sua liberazione la violenza ha fatto oltre 13mila morti» (MC 4/1994).

Mandela aveva trascorso 27 anni in carcere per il suo impegno nella lotta all’apartheid ed era stato liberato nel febbraio del 1990: alla sua scarcerazione avevano contribuito il combinarsi di pressioni sia interne che internazionali, manifeste queste ultime anche nell’assegnazione, dieci anni prima, del premio Nobel per la pace al noto e pugnace arcivescovo anglicano sudafricano, Desmond Tutu, «per il suo ruolo di leader unificante nella campagna non violenta per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica»@. Nel 1993, erano stati proprio Nelson Mandela e Frederik Willem De Klerk, allora presidente in carica in Sudafrica e leader del National party, a ricevere il Nobel per la pace: anche se questa non era ancora realizzata, scriveva sempre Bellesi, «si vuole premiarli per aver creduto al dialogo e incoraggiarli a continuare sulla stessa strada, disseminata ancora di tante incognite e ostacoli».

L’ultimo miglio della long road to freedom

Ostacoli come, appunto, la violenza: quella, scoppiata all’indomani della scarcerazione di Mandela e che aveva come protagonisti gli estremisti bianchi che non si rassegnavano alla fine dell’apartheid. Altri ostacoli come il rigetto, da parte del Congresso panafricanista di Azania, dell’ipotesi di convivenza multirazziale sostenuta dall’Anc; la volontà dell’Inkatha, il partito guidato da Mangosuthu Buthelezi, di costituire un regno zulu autonomo guidato dal suo re all’interno di un Sudafrica federale, cosa che lo portò allo scontro con l’Anc, provocando migliaia di vittime.

Ma c’era anche una violenza più antica e radicata, che innervava la società sudafricana. Ancora Bellesi: «L’apartheid è scomparsa, ma le sue disuguaglianze e ingiustizie sociali ci sono ancora tutte. Con un’economia tanto disastrata, non basterà un colpo di spugna a cancellarle, anche se la propaganda elettorale dell’Anc promette casa, scuola lavoro».

Il Sudafrica del 1994 era un Paese dove erano appena state abolite leggi come il Natives land act, la legge del 1913 che assegnava alla minoranza bianca prima il 93% e poi l’87% del territorio, e il Group areas act, del 1950, che Mandela, nel suo libro Long walk to freedom, definiva come il «fondamento dell’apartheid residenziale», per cui «ogni gruppo razziale poteva possedere terre, occupare locali e commerciare solo nella propria area separata». Da questo impianto giuridico, imposto da cinque milioni di sudafricani bianchi a 23 milioni di sudafricani neri, 3,4 milioni di meticci e un milione di asiatici, erano sorti i cosiddetti Bantustan@, territori designati dal governo bianco come «patrie» nazionali per i neri, e le township o location, nomi che indicavano spazi urbani nei quali i sudafricani bianchi costringevano i non bianchi. La disoccupazione era al 20,1% e le persone che abitavano in baracche in aree senza alcun servizio erano circa sette milioni. Durante il dibattito elettorale del 14 aprile 1994@, Mandela accusò De Klerk di aver speso per l’istruzione di un bambino bianco tre volte tanto di quanto aveva speso per un bambino nero.

Aiuto ai migranti in Eswatini durante il Covid. (AfMC)

Dopo Mandela

La presidenza di Mandela, durata fino al giugno del 1999, avviò il difficile lavoro di riconciliazione, consolidamento della pace e transizione democratica.

Ottantunenne alla scadenza del suo primo mandato, non si candidò per ottenere il secondo. Gli succedette il suo vicepresidente Thabo Mbeki – figlio di quel Govan Mbeki incarcerato con Mandela per il suo ruolo di leader di Umkhonto we Sizwe (tradotto come Lancia della nazione), l’ala armata dell’Anc – e poi altri tre presidenti, tutti dell’Anc: Kgalema Motlanthe, Jacob Zuma, fino a Cyril Ramaphosa, presidente dal febbraio 2018.

L’attuale non rosea situazione del Sudafrica, scriveva lo scorso anno Roger Southall, dell’Università di Witwaterstand, sul giornale online The Conversation@, ha spinto diversi sudafricani a tentare di far ricadere sulle scelte di Mandela le responsabilità per i fallimenti successivi.

Secondo una parte dell’Anc, l’accordo raggiunto da Mandela sarebbe quindi stato una resa al «capitale monopolistico bianco», mentre la ministra del turismo Lindiwe Sisulu, figlia di un’altra figura chiave nella lotta all’apartheid, Walter Sisulu, critica la costituzione – frutto anche questa delle negoziazioni condotte da Mandela fra il 1990 e il 1994 – e i magistrati che la applicano e difendono. Questi sarebbero, a suo dire, «africani mentalmente colonizzati» alleati con le élite contro il popolo@.

Vi sono poi le frustrazioni dei neolaureati e della massa di disoccupati neri, le centinaia di migliaia di persone che non hanno un alloggio adeguato e gli oltre due milioni di famiglie sudafricane, cioè più di una su dieci, che le statistiche del governo del 2021 indicavano come sofferenti la fame. I sudafricani, scriveva ancora Southall, vogliono qualcuno da incolpare.

Lavoro minorile nelle miniere di Blaauw Bosh Kloof nell’Eastern Cape del Sudafrica (AfMC)

La xenofobia degli ex oppressi

In questa ricerca di colpevoli, i migranti sono un bersaglio ideale. Secondo il censimento più recente (2022)@, i migranti presenti in Sudafrica sono 2,4 milioni, di cui un milione dallo Zimbabwe, 416mila dal Mozambico, 227mila dal Lesotho, 198mila dal Malawi, 61mila dal Regno Unito e 8mila dall’Etiopia, per limitarsi alle prime cinque nazionalità. I rifugiati e i richiedenti asilo, riportava invece il «Rapporto sulla migrazione» pubblicato dal dipartimento di statistica lo scorso marzo, sono circa 170mila@, principalmente da Etiopia e Repubblica democratica del Congo, ma anche da Bangladesh, Repubblica del Congo, Burundi, Zimbabwe, Pakistan, Somalia e Uganda.

Rispetto al totale della popolazione sudafricana, che nel 2022 è arrivata a 62 milioni, i migranti quindi sono quattro ogni cento persone. Eppure, un sondaggio del 2021, riportato da Bbc lo scorso settembre@, mostrava che metà degli intervistati era convinta che i migranti presenti nel Paese fossero fra i 17 e i 40 milioni.

Queste percezioni si combinano con un tasso di disoccupazione oltre il 30%, il più alto al mondo, che aumenta al 60% fra i giovani sotto i 25 anni. «Una sensazione diffusa nella popolazione locale», scrive padre Samuel Gitonga, missionario della Consolata che lavora a Kwaggafontein, a circa cento chilometri da Pretoria, «è che gli stranieri stiano togliendo lavoro ai locali e stiano approfittando di risorse e servizi che spetterebbero ai sudafricani», mentre nei fatti ne sono spesso esclusi. Ai migranti viene attribuito l’aumento degli episodi di criminalità. Si diffondono dicerie, come nel caso di alcuni messaggi girati sui social, per avvertire «i sudafricani di stare attenti agli stranieri che avvelenano i bambini con i prodotti dei loro negozi di dolciumi», cioè nei cosiddetti tuck shops che sono spesso gestiti da immigrati.

Nel settembre dell’anno scorso, spiega padre Samuel, a Dennilton, uno dei villaggi seguiti dai missionari, gli abitanti hanno cacciato diversi stranieri accusandoli di stregoneria@.

Questo contesto crea i presupposti per le aggressioni contro i migranti e per l’emergere di gruppi come Operation Dudula, un gruppo xenofobo poi diventato partito politico. Operation Dudula sperava di riuscire ad approfittare dell’eventuale calo nei consensi dell’Anc che prima delle elezioni risultava, per la prima volta in 30 anni, essere sul filo della maggioranza dei voti (mentre scriviamo, le elezioni devono ancora avvenire).

Al di là della propaganda delle formazioni xenofobe, continua padre Samuel, gli esempi di discriminazioni nei confronti dei migranti non sono difficili da trovare: «Durante il lockdown per il Covid, il governo ha distribuito pacchi alimentari alle persone che ne avevano bisogno, escludendo però i migranti. Inoltre, ci sono segnalazioni secondo cui alcuni operatori sanitari negli ospedali pubblici negano i servizi agli stranieri». E ancora: il Sudafrica dispone di un fondo per gli incidenti stradali che copre le spese mediche e il risarcimento delle perdite subite da chi è vittima di un incidente stradale e ci sono stati tentativi di interpretare la legge in modo da non coprire chi non è sudafricano.

Periferia della città di Merrivale (AfMC)

Migranti per strada

«Le persone con cui lavoriamo si erano accampate in strada fuori dagli uffici delle Nazioni Unite a Pretoria, sperando di attirare l’attenzione e di vedere soddisfatti i propri bisogni più elementari». A parlare è padre Daniel Kivuw’a, missionario della Consolata che lavora nella capitale amministrativa del Sudafrica, collaborando con l’arcidiocesi e con la Caritas. «Un’ordinanza del tribunale ha stabilito che queste persone dovevano spostarsi in un insediamento informale e, una volta trasferite, avrebbero ottenuto assistenza. Ma, di fatto, appena si sono stabilite nell’area assegnata, sono state abbandonate: per questo la chiesa locale si è attivata in modo da fornire almeno cibo e materiale per l’igiene personale a settanta famiglie». È padre Daniel che gestisce il progetto insieme al comitato della Caritas della parrocchia Christ the king di Queenswood.

Il lavoro dei missionari della Consolata in Sudafrica oggi, spiega il superiore della Delegazione, padre Nathaniel Mwangi, si svolge in sei comunità nelle diocesi di Pretoria, Johannesburg e Durban e riguarda soprattutto le attività pastorali e quelle legate a emergenze, come nel caso dei migranti o, durante la pandemia, l’assistenza a persone indigenti che a causa delle restrizioni avevano difficoltà a procurarsi il cibo.

«Per i progetti in settori come l’istruzione, la sanità, l’accesso all’acqua, la sanificazione», spiega padre Fredrick Agalo, che in Sudafrica ha lavorato dal 2015 al 2019, «la domanda che le autorità locali fanno è: “Può farlo il governo?”. Se la risposta è sì, allora è escluso che enti non sudafricani, come una Ong o un Istituto missionario, ottengano il permesso di realizzare iniziative di sviluppo».

Chiara Giovetti

Danza tradizionale degli Zulu (AfMC)

 




Trattori selvaggi


Quella che oggi prevale è l’agricoltura industriale: a monte le multinazionali dei fertilizzanti, a valle quelle commerciali. Con una dinamica dei prezzi che premia quelle stesse aziende mentre penalizza produttori e consumatori finali. Dopo le proteste e i successivi compromessi al ribasso, a perdere sono l’ambiente e i cittadini.

I trattori che, fra gennaio e febbraio 2024, si sono visti sfilare per le vie di varie città europee, non erano macchine vecchie e di piccola taglia, ma imponenti e di alto valore economico. Segno che, a scendere in piazza, non erano tanto i piccoli coltivatori, magari dediti all’agricoltura biologica, ma i produttori di medie e grandi dimensioni pienamente inseriti nella filiera agricola industriale. Quei produttori, cioè, che si pongono l’obiettivo di ottenere rese quanto più alte possibili tramite l’impiego di macchinari sofisticati e l’uso indiscriminato di ogni tipo di sostanza chimica. Rappresentanti di un’agricoltura che, oltre ad avere pessime ricadute sull’ambiente, è anche estremamente rischiosa per i produttori stessi, perché impone l’esborso di grandi quantità di denaro senza nessuna certezza rispetto ai ricavi. I raccolti, infatti, sono sempre un grande punto interrogativo, specie di questi tempi: con il sopraggiungere dei cambiamenti climatici, di raccolti che vanno male ce ne sono sempre di più. Ma il clima che cambia è solo una delle minacce che condizionano i ricavi degli operatori del settore. L’agricoltura industriale è dominata da pochi sciacalli posizionati sia a monte che a valle della filiera. A monte ci sono le multinazionali dei fertilizzanti, dei pesticidi e dei carburanti, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopolio per imporre prezzi di vendita più alti possibili sui propri prodotti. A valle ci sono le multinazionali commerciali, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopsonio, ossia di acquirente unico, per imporre prezzi di acquisto più bassi possibili. Così i produttori dell’agricoltura industriale lamentano di sentirsi in una morsa che li impoverisce sempre di più.

Costi, ricavi, prezzi finali

Negli ultimi anni vari elementi hanno influito negativamente sia sul fronte dei costi che dei ricavi, mettendo in difficoltà i produttori dell’agricoltura industriale che hanno cercato di rimediare producendo ancora di più, ossia costringendo la terra a dare rese sempre più alte. Sul piano dei costi, sappiamo tutti che, nel corso del 2022, la guerra fra Russia e Ucraina ha fatto impennare i prezzi del gas e più in generale dei carburanti. Una crescita che, se per le famiglie si è tradotta principalmente in aumento delle bollette elettriche e del gas, per i produttori agricoli ha significato aumento oltre che dei carburanti anche dei fertilizzanti azotati considerato che la materia prima da cui si ottengono questi ultimi è il metano. L’Istat certifica che nel corso del 2022, in Italia, i prezzi dei beni e servizi utilizzati in agricoltura sono cresciuti del 25,3 per cento con rincari guidati soprattutto dai prodotti energetici (+49,7%) e fertilizzanti (+63,4%). Gli aumenti hanno investito tutti i settori, seppur con diversa intensità, a seconda della combinazione dei fattori produttivi. I più colpiti sono stati i produttori di semi oleosi e cereali senza risparmiare la zootecnia. Gli esborsi degli allevatori sono aumentati di media del 16,6% e più precisamente del 9,8% per l’acquisto degli animali da allevamento, del 25% per i mangimi, del 61,5% per i prodotti energetici. Incrementi di costo che non sono stati compensati da uguali aumenti di prezzo alla vendita. L’Istat informa che, sempre nel 2022, in Italia il prezzo dei beni agricoli è aumentato mediamente del 17,7% con una differenza negativa, rispetto ai costi, di circa il 7%.

Coldiretti, la principale associazione degli agricoltori italiani, è più pessimista. Basandosi sui dati Fao a livello globale, forniti nel gennaio 2024, l’associazione sostiene che a volare sono stati i prezzi del cibo al consumatore finale, mentre ai contadini i prodotti agricoli sono stati pagati il 10,4% in meno rispetto all’anno precedente. Più precisamente meno 18% per il latte alla stalla e meno 19% per i cereali nei campi. E pensare che, nel 2022, tutto il mondo era in apprensione per l’aumento del prezzo internazionale dei cereali cresciuto di oltre il 20% come conseguenza della mancata commercializzazione di quelli provenienti dall’Ucraina. Ma i guadagni sono stati intascati tutti dalle grandi multinazionali commerciali. In particolare, Archer Daniels, Bunge, Cargills, in sigla Abc, che dominano il mercato internazionale delle derrate agricole.

Il prezzo dei cereali e quello del pane. Foto Mp1746-Pixabay.

Pane e finocchi

Del resto, che esista un’ampia sfasatura fra prezzi pagati al produttore e quelli pagati al consumo finale, è cosa risaputa. Coldiretti cita il caso della filiera del pane, facendo notare che in Italia il prezzo finale di questo prodotto cresce anche di venti volte rispetto al grano. Un chilo di grano che viene pagato oggi agli agricoltori attorno a 24 centesimi di euro serve per fare un chilo di pane che viene venduto ai consumatori a prezzi che variano dai 3 ai 5 euro a seconda delle città.

Le anomalie – continua la Coldiretti – sono evidenti anche nei prodotti freschi come gli ortofrutticoli che dai campi agli scaffali dei supermercati vedono salire i prezzi di tre-cinque volte. Il tutto benché non debbano subire trasformazioni. Come esempio vengono citati i finocchi.

Secondo i calcoli di Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) del gennaio 2024, per produrre un chilo di finocchi il contadino deve spendere 18 centesimi di euro, ma riesce a venderli a 12 centesimi, mentre al supermercato sono venduti ai consumatori finali a 1,69 euro, il 1.308% in più. E pensare che i finocchi non necessitano neanche di imballaggio: sono venduti sfusi. Ulteriore conferma di come la filiera agricola sia dominata da posizioni di abuso al cui apice si trovano i signori della grande distribuzione che contribuiscono a ridurre i guadagni degli agricoltori. Signori evidentemente considerati troppo forti per essere presi di petto dalle istituzioni, per cui vengono lasciati in pace. E, infatti, è successo che gli agricoltori hanno diretto la propria protesta verso il soggetto pubblico ritenuto più malleabile. Con richieste sia nei confronti dei rispettivi governi che dell’Unione europea. Ai primi per ottenere abbattimenti fiscali e contributi ai carburanti; alla seconda per ottenere modifiche a certe sue scelte riguardanti sia il commercio internazionale che le condizioni imposte per avere accesso ai suoi contributi.

Il prezzo dei finocchi è basso per i produttori, alto per i consumatoeri finali. Foto Ylanite-Pixabay.

Accordi e concorrenza

Un fenomeno fortemente sostenuto dall’Unione europea (Ue), che alcuni agricoltori del continente considerano lesivo dei loro interessi, è rappresentato dagli accordi di libero scambio. Questi consistono in contratti fra due paesi per facilitare i reciproci scambi commerciali. Di norma le facilitazioni consistono nell’abbattimento reciproco delle barriere doganali e nell’accettare le caratteristiche produttive dei prodotti importati anche se non in linea con la legislazione del paese importatore.

Parlando di prodotti alimentari, un’eccezione ammessa di frequente dalla Ue è quella di importare prodotti ottenuti con metodiche proibite nell’Unione europea: ad esempio con l’impiego di particolari farmaci o sostanze chimiche. Pratica contestatissima dai nostri produttori che si sentono penalizzati rispetto a quelli esteri.

A gennaio 2024 l’Unione europea risultava avere ben dodici accordi di libero scambio in ambito agricolo. E non tanto con paesi che si affacciano sul Mediterraneo, quanto con paesi dell’Estremo Oriente e d’oltre oceano, come Canada, Messico, Cile, Giappone, Vietnam, addirittura la Nuova Zelanda. L’Unione europea sostiene di averli stipulati perché procurano un vantaggio ai consumatori europei e agli stessi agricoltori. Ai consumatori perché possono garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, magari a prezzi più bassi di quelli interni; agli agricoltori perché ampliano i loro sbocchi di mercato con le esportazioni.

E può darsi anche che sia così. Ma solo per i grandi produttori che possono permetterselo, metre quelli piccoli, più orientati al mercato interno, si lamentano perché subiscono la concorrenza sleale di prodotti provenienti dai paesi agevolati dagli accordi di libero scambio. Un esempio è rappresentato dall’accordo recentemente stipulato con la Nuova Zelanda: gli allevatori europei dediti al latte e agli ovini temono di essere danneggiati dai prodotti lattieri e animali provenienti da questo paese che, in virtù degli abbattimenti tariffari, potrebbero entrare a prezzi più bassi di quelli esistenti internamente. Lo stesso vale per alcuni prodotti provenienti dall’Ucraina. In particolare, gli agricoltori di Polonia e Francia, grandi produttori di cereali, hanno chiesto che venisse rivisto l’accordo di libero scambio stipulato con l’Ucraina già nel 2016, perché la guerra ha alterato tutti i flussi commerciali creando una situazione di concorrenza sleale in seno all’Unione europea. Richiesta accolta dalla Commissione europea che, nel marzo 2024, ha introdotto restrizioni alle importazioni agricole provenienti da questo paese.

Le regole della Ue

I produttori si lamentano anche delle regole ambientali imposte dall’Unione europea per poter godere dei contributi agricoli. Il sistema di sostegno all’agricoltura oggi previsto in ambito europeo prevede sia forme di agevolazione finanziaria per specifici investimenti, sia contributi a fondo perduto in rapporto alla quantità di terra posseduta.

In ogni caso i meccanismi di godibilità sono tutti organizzati affinché i beneficiari principali siano le grandi aziende. Ciò nonostante, sono soprattutto i piccoli produttori a lamentarsi delle condizioni da rispettate per potere accedere ai contributi e alle agevolazioni. In particolare, sono messe sotto accusa alcune regole che l’Unione europea ha imposto a tutela della biodiversità e della salvaguardia dei suoli.

Le più odiate sono quelle che limitano l’uso di pesticidi e che prevedono l’obbligo di tenere a riposo il 4% dei propri terreni.

I piccoli produttori sostengono che si tratta di condizioni capestro che riducono la loro capacità produttiva e quindi i loro già magri guadagni. Richieste di nuovo accolte dalla Commissione europea che, nel febbraio 2024, ha reso più blanda la regola di messa a riposo delle terre e ha ritirato la proposta di regolamento tesa a ridurre del 50% l’uso di pesticidi entro il 2030.

Nelle campagne i braccianti agricoli sono spesso sottopagati. Foto Tim Mossholder-Unsplash.

Ambiente e cittadini

Gli agricoltori industriali tireranno un respiro di sollievo: nell’immediato i loro guadagni sono salvaguardati. Ma per la collettività nel suo insieme si tratta di una disfatta perché continuerà ad aggravarsi il degrado ambientale di cui l’agricoltura industriale è una forte responsabile.

Quello che servirebbe è una profonda revisione del modello economico che seguiamo, un radicale ripensamento del modo di produrre e consumare per fare finalmente pace con la natura. Non per amore disinteressato verso il pianeta, ma per amore di noi stessi, per garantirci un futuro meno problematico.

La grande sfida è avviare questo processo di cambiamento senza lasciare indietro nessuno. Ma, per riuscirci, bisogna cominciare a prendere consapevolezza che cambiare è necessario e che occorre farlo con spirito di solidarietà. Ossia sapendo soccorrere coloro che maggiormente sono investiti dai mutamenti, ma al tempo stesso sono troppo deboli per affrontarli da soli.

Fra essi ci sono sicuramente anche gli agricoltori, specie quelli di piccola taglia, che vanno aiutati a passare a pratiche di tipo biologico senza subire contraccolpi eccessivi.

Francesco Gesualdi




Al pozzo di Giacobbe (Gv 4)


Ci sono pagine evangeliche che conosciamo bene. È un vantaggio, perché diventa più semplice riprenderle per andare in profondità. Una di queste è l’incontro di Gesù con la donna samaritana, episodio giustamente famoso e noto. Vi troviamo infatti un racconto abbastanza comprensibile nelle sue dinamiche, interessante e profondo nei contenuti e pieno di quell’ironia che Giovanni utilizza spesso, per indicare che Gesù e i suoi interlocutori intendono, con le medesime parole, idee diverse.

Lo sfondo (Gv 4,1-6)

Può valere la pena situare questo incontro sullo sfondo di tutto il Vangelo di Giovanni. I primi versetti, infatti, ci spiegano che cosa ci facciano Gesù e discepoli in Samaria: stanno scappando dal Giordano, dove i farisei hanno cominciato a puntare Gesù che aveva iniziato a fare più discepoli e a battezzare più di Giovanni Battista (4,1.3).

L’evangelista, a dire il vero, sente il bisogno di precisare che «non era Gesù stesso che battezzava, ma i suoi discepoli» (Gv 4,2), quasi per scusare Gesù, facendo cadere la reponsabilità sui discepoli i quali avevano ripreso il gesto «inventato» dal Battista.

Viene da sospettare che Gesù tema di aver fatto troppo notizia, attirando dei rischi su di sé. Qualche maligno potrebbe accusarlo di avere paura, di volersi nascondere, anche perché dal Giordano alla Galilea, dove Giovanni dice che è diretto, certamente la via più corta non passa dalla Samaria.

In ogni caso questo trasferimento sembra un fallimento, o almeno un ripensamento profondo della missione di Gesù che, secondo Giovanni, è iniziata al Giordano.

Lungo la strada, la comitiva si ferma in un villaggio, Sicar, di cui non sappiamo niente di più di ciò che ci racconta il Vangelo. E ciò che ci dice rimanda alla vita dei patriarchi, ai rapporti tra Giuseppe e suo padre Giacobbe, che secondo la tradizione aveva scavato quel pozzo (cfr. Gen 33,18-19 e Gs 24,32).

La storia di Giacobbe e Giuseppe è zeppa di ingiustizie, violenze, ambiguità: Giacobbe inizia il suo percorso di vita ottenendo tutto con la violenza o con l’inganno, Giuseppe viene venduto dai suoi fratelli di cui poi si prenderà gioco quando diventerà viceré dell’Egitto. Allo stesso tempo, però, è una storia che ci parla di rapporti personali che, al di là dello sfruttamento, parlano di «gratuità». Giuseppe, infatti, è il figlio preferito dal padre nonostante sia l’undicesimo (quindi non il primogenito, ma neanche l’ultimo), ed è preferito perché figlio di Rachele, la moglie più amata tra le due che aveva, benché la meno «utile» per via della sua prolungata sterilità.

Il rimando ai patriarchi, insomma, sembra richiamare a una realtà umana ambigua ma anche capace di andare al cuore delle relazioni. E ciò che viene narrato accade quando Gesù potrebbe sentirsi almeno in parte sconfitto e, sicuramente, affaticato e assetato (Gv 4,6).

Creazione di Marco Francescato

Un dialogo inatteso (Gv 4,7-15)

I Vangeli ci chiariscono spesso quanto complicati fossero i rapporti tra samaritani ed ebrei. E sappiamo anche quanto fosse sconveniente che un uomo parlasse da solo con una donna. Aggiungiamo a questi elementi che era del tutto improbabile che qualcuno andasse ad attingere acqua al pozzo a mezzogiorno. Di solito ci si andava al mattino, perché l’acqua serviva già all’inizio della giornata per i lavori domestici, e perché si approfittava delle ore più fresche anche per incontrarsi con le altre donne. Insomma, di questa donna non  sappiamo niente, ma – a vederla recarsi al pozzo a metà giornata – viene da pensare che abbia anche qualcosa da nascondere e che non abbia tanta voglia di incontrare altre persone.

Eppure Gesù le parla. Sembra completamente fuori di sé, forse per la sete e la stanchezza, dimentico delle convenzioni sociali, che invece la donna conosce bene, perché di certo le aveva subite: «Come mai tu, uomo giudeo, chiedi da bere a me, donna samaritana?» (v. 9).

Il dialogo che segue, come tutti quelli di Giovanni, sembra andare avanti a salti, come se i due non si capissero fino in fondo. Un dato emerge in modo chiaro: Gesù chiede di essere dissetato e, allo stesso tempo, sostiene di avere un’acqua che potrebbe dissetare sempre. Si capisce l’interesse della donna (per non andare al pozzo, per non fare quella fatica ma anche evitare di vedere gente). Ma è chiarissimo, almeno a noi lettori, che Gesù sta parlando di altro.

Di che cosa abbiamo sete? Di acqua, quando siamo disidratati. Ma, certo, lo sappiamo che dovremo bere ancora. E poi? Abbiamo sete anche di qualche cosa d’altro? Che cosa desideriamo nel profondo, come quando siamo assetati? Di avere un senso, di essere amati, di essere in pace con noi stessi?

È di qualcosa del genere che sta parlando Gesù, e subito, immediatamente, presenta quell’acqua come qualcosa in grado di dissetare non solo chi beve, ma anche chi è intorno (v. 14), «per la vita eterna». Ecco un altro modo di indicare la nostra sete: la vita che viviamo è promettente, bella, attraente, ma ci delude anche con i suoi fallimenti, dolori, affanni, malattie. E poi finisce. E non mantiene quello che promette. Invece una vita che non finisce, una vita piena, è una promessa che non può non toccarci. Come se quell’acqua raccogliesse in sé tutto quello di cui sentiamo di aver sete. Non è difficile capire l’entusiasmo, quasi l’ansia della donna, che chiede di poter avere di quell’acqua (v. 15).

Cambiamo discorso?  (Gv 4,16-26)

Invece di rispondere alla richiesta della donna, Gesù sembra cambiare discorso, chiedendole di andare a chiamare il marito. Perché lo fa? Solo per mostrarsi ancora più capace di guardare in profondità nella vita della samaritana?

Anche chi passa con facilità da un partner all’altro, anche chi ha diverse separazioni e divorzi alle spalle o ha smesso di credere all’amore, sa comunque con certezza che nella relazione di coppia non si gioca una parte secondaria della vita umana. Posso trasferirmi, cambiare mestiere, ma certi legami personali sono più profondi, dicono troppo di me, mi smuovono nell’intimo. Fanno parte di quella sete di vita piena che posso anche soffocare, fingendo di star bene, ma che è la mia dimensione umana più autentica.

Alla domanda di Gesù, la donna, pur essendosi sposata più volte, dice di non avere marito. E Gesù, riconoscendole di aver risposto bene, ammette che la samaritana si è messa in gioco davvero, ha accettato di non rifugiarsi dietro alle certezze di ruolo o sociali (una donna non sposata, in quella società, era più esposta a ingiustizie e violenze). Ha accettato la sfida di un confronto senza filtri, senza reticenze, senza ruoli dovuti. E Gesù lo vede, se ne accorge, glielo indica: «Hai detto bene».

È a questo punto che si arriva a parlare di Dio. È la donna a spostare il discorso lì. E lo affronta dal punto di vista della legittimità rituale: il tempio giusto nel quale adorare Dio è quello di Gerusalemme o del Garizim?

La risposta di Gesù è stravolgente, perché da una parte suggerisce che non tutto è uguale, che c’è un centro più affidabile e corretto, ed è quello di Gerusalemme, ma dall’altra afferma che il vero luogo di adorazione non è in Giudea, né in Samaria, in quanto Dio non cerca zelanti esecutori di riti, ma adoratori «in Spirito e verità» (v. 23).

Che cosa intende dire Gesù? Oltre all’ascolto attento delle parole utilizzate, è utile che ci sintonizziamo con lo scorrere del discorso. Progressivamente ma anche velocemente i due interlocutori sono arrivati a cogliere che la sete più profonda dell’essere umano è intima. E Gesù ci svela che il Padre a questa sete è attento e le risponde.

Un Padre che, Gesù ce lo mostra, si accorge di chi ha davanti, non lo valuta in base a criteri formali, esteriori di integrità o ortodossia: esattamente come nella storia di Giacobbe e Giuseppe, anche nel caso di questa donna dai troppi mariti e dalla coscienza sporca, il Padre di Gesù guarda oltre, guarda all’interiorità, vede la domanda vera di vita che lei, come ogni altro essere umano, porta in sé, e a questa intende dare risposta. Non perché lei abbia il diritto di bere, non perché sia «a posto», ma perché ha sete.

Ci viene svelato un Padre insofferente per le etichette, le categorie, i diritti acquisiti, la correttezza formale, che poi in fondo sono ancora un modo per nascondersi dietro a una corazza, senza ammettere la propria debolezza, la propria imperfezione, la propria sete.

A chi è assetato, e lo ammette, il Padre è pronto a dare la sua acqua viva, tanto abbondante che disseterà anche chi è lì intorno.

La missione (Gv 4,27-42)

Il pozzo di Giacobbe come è oggi nella chiesa greco-ortodossa della città di Samaria. (Benedetto Bellesi)

Senza che Giovanni ce lo dica, l’acqua viva del Padre è già stata versata da Gesù nel cuore della donna, e ha iniziato a diffondersi.

Lei, infatti, proprio mentre arrivano i discepoli (stupiti, ma incapaci, per rispetto, di chiedere quei chiarimenti che invece la samaritana aveva chiesto, mettendosi in gioco), abbandona lì la sua brocca, e corre in paese. La donna che si nascondeva, che andava al pozzo a mezzogiorno, forse per non sentire le dicerie sul suo conto («cinque mariti!»), lascia il motivo che l’aveva portata lì, dimentica un oggetto che non era di poco valore e utilità, e va a raccontare ciò che le è accaduto.

Tra l’altro, lo fa con una grazia ed eleganza insospettata in lei. Non dà infatti per scontato quello che, lo intuiamo, deve essere stata la sua conclusione, ma la affida ai suoi ascoltatori come semplice possibilità: «Che sia lui il Cristo?» (v. 29). E infatti, alla fine del racconto, i samaritani stessi ammetteranno di credere per ciò che avranno visto, non semplicemente per la parola della donna (v. 42). Una parola però alla quale, evidentemente, avevano prestato fede, nonostante la reputazione di chi l’aveva pronunciata.

Poteva sembrare la destinataria meno probabile dell’acqua viva portata da Gesù, ma si è dimostrata una discepola pronta a mettersi in gioco, a rischiare, a uscire dalla propria area di comodità.

Quella stessa acqua, scopriamo, ha dissetato anche Gesù. Infatti, egli, che poco prima affaticato e assetato, ora non vuole più bere né mangiare, perché è stato nutrito dal vedere l’amore del Padre diffondersi per suo tramite (vv. 32-37).

Questa «sazietà» di Gesù possiamo capirla bene tutti: quando sperimentiamo che il nostro impegno porta frutti, quando ci accorgiamo che le persone amate traggono del bene dai nostri suggerimenti, quando vediamo camminare sulle loro gambe le persone che abbiamo aiutato, proviamo una gioia interiore difficile da spiegare in termini economici (di dare e avere).

Una delle tante scoperte di questo episodio evangelico è che sia Gesù che il Padre vedono questa profondità di relazione che sta proprio al cuore del loro pensiero. Una relazione con il Padre vissuta «in Spirito e verità», nella quale il Padre è fonte di vita che dona acqua viva.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 05 – continua)




Vite contro Hitler


Storie di cristiani nonviolenti tedeschi e austriaci oppositori del regime nazista ce ne sarebbero molte da raccontare. Il libro di Francesco Comina ne raccoglie alcune note e altre sconosciute. Tutte esemplari.

È esistita un’opposizione tedesca a Hitler? Certamente sì, in Germania e in Austria sono state scritte pagine ammirevoli di resistenza al regime nazista.

Il recente libro del giornalista e scrittore di Bolzano, Francesco Comina, La lama e la croce, fa emergere tracce significative di tali storie: «In queste pagine, che non vogliono essere né un’opera storiografica né una galleria esaustiva di cattolici antinazisti, si ricordano alcune vite, solo alcune fra le tantissime vicende di uomini, donne, ragazzini rimasti fedeli alla coscienza in nome del Vangelo». Non è un saggio storico critico, dunque, ma un resoconto memorialistico appoggiato su una solida base documentaria che ricostruisce il nucleo essenziale di vite, in genere giovani, illuminate dalla volontà di opporsi alla crudeltà della tirannia.

Una varietà di storie

Alcune di queste storie godono di una certa notorietà, come quella di Franz Jägerstätter, il contadino austriaco che rifiutò di far parte dell’esercito di Hitler.

Altre sono pressoché sconosciute, come quella di Heinrich Dalla Rosa, giovane prete della zona di Merano.

In queste vicende possiamo rintracciare differenti modalità di contrapposizione al regime hitleriano: ci sono «i casi di testimoni “solitari”», come Max Josef Metzger o suor Angela Autsch, l’angelo di Auschwitz, oppure quelli di resistenti inseriti in un gruppo, come Eva-Maria Buch e Maria Terwiel, che erano parte dell’organizzazione della «Rote Kapelle», o Walter Klingenbeck e i suoi amici a Monaco di Baviera. C’è anche un esempio di disobbedienza di massa: le duemila reclute di Bressanone che nel febbraio del 1945 non pronunciarono la formula canonica del giuramento a Hitler, «l’unico gesto – scrive Comina – di ribellione da parte di una compagnia di soldati di cui si è a conoscenza sotto il nazionalsocialismo».

Comune a tutti è stata la concreta spinta ad agire, l’«obiezione di coscienza», l’insopprimibile necessità di disobbedire e di non essere complici di chi calpestava la dignità e i diritti fondamentali di altri uomini.

Visioni di mondi futuri

Dei personaggi di cui racconta la vita, Comina aiuta a cogliere, oltre alla centralità dell’obiezione di coscienza, la capacità di leggere alcuni segni del mondo futuro, sia in senso drammatico, come l’affacciarsi di una nuova guerra mondiale, intravisto da Max Josef Metzger già nel 1929, sia in direzione opposta, come i germi di novità politica e religiosa, intravisti sempre da Metzger, che saranno alla base della costruzione di un’Europa più giusta e pacifica e di una Chiesa cattolica meno ripiegata su se stessa. Ecco allora la sua prefigurazione di una Confederazione europea e l’aspirazione a un dialogo ecumenico fra Chiese d’Oriente e d’Occidente.

In padre Dalla Rosa e in altri, invece, Comina trova le anticipazioni di istanze che saranno alla base del Concilio Vaticano II, un cattolicesimo più aperto al mondo moderno e capace di innovare la propria liturgia e azione pastorale.

Mayr-Nusser e Jägerstätter

Alcune delle figure ricordate in questo libro possono essere approfondite grazie ad altri studi dello stesso Francesco Comina. È il caso, ad esempio, di Josef Mayr-Nusser che, da recluta delle SS, decise di non giurare ad Adolf Hitler e, accusato di «disfattismo», fu processato e condannato a essere internato nel campo di Dachau, dove Mayr-Nusser non arrivò mai, perché morì prima di raggiungerlo di broncopolmonite e stenti (L’uomo che disse no a Hitler, Il Margine, 2014).

Comina ha dedicato un libro anche a Jägerstätter, il cui caso è stato poco conosciuto fino alla sua beatificazione nel 2007.

Con il tempo la bibliografia su di lui è cresciuta, e la sua storia è stata raccontata anche nel film di Terrence Malick, La vita nascosta – Hidden Life (2019).

Oltre a quello di Comina (Solo contro Hitler, Emi, 2021), in lingua italiana sono disponibili diversi altri testi che ricostruiscono la biografia di questo straordinario obiettore, condannato a morte e ghigliottinato per avere rifiutato di prestare il servizio militare nell’esercito nazista. «Besser die Hände als der Wille gefesselt», ha scritto Jägerstätter negli ultimi giorni della sua vita, «meglio avere incatenate le mani piuttosto che la volontà». L’esito della sua breve vita si è rivelato una testimonianza altissima in omaggio a questo principio. Chi volesse confrontarsi direttamente con le sue parole, può farlo grazie a un libro che raccoglie le lettere che scrisse in carcere (Scrivo con le mani legate, Berti, 2005).

Le due storie più note

Come si diceva, in La lama e la croce, Comina ha ripercorso soltanto alcune delle vite dei molti resistenti al nazismo. Molte altre ne esistono, e forse non poche attendono di essere portate alla luce ed esplorate. Tra quelle note, nelle pagine del libro viene citata, anche se non narrata, quella che probabilmente è la storia di opposizione al nazismo più celebre: l’azione di controinformazione che vide protagonisti i ragazzi della Rosa Bianca e che ebbe come epicentro Monaco di Baviera tra l’estate del 1942 e il febbraio del 1943. In tanti ne hanno scritto ma forse la prima testimonianza da leggere è quella lasciataci da Inge Scholl, sorella di Sophie e Hans, i due componenti più noti del gruppo (La Rosa Bianca, Itaca, 2006).

Altra vicenda molto conosciuta è quella del grande teologo e pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, impiccato il 9 aprile 1945 nel campo di Flossenbürg perché coinvolto nel complotto per uccidere Hitler. Resistenza e resa, che raccoglie le lettere e altri scritti composti nel carcere di Tegel, nel quale Bonhoeffer fu rinchiuso tra il 1943 e il 1945, è un libro indispensabile, un classico del Novecento che non si può evitare di leggere.

Massimiliano Fortuna
Centro studi Sereno Regis

I LIBRI E IL FILM CITATI

  •  Francesco Comina, L’uomo che disse no a Hitler. Josef Mayr-Nusser, un eroe solitario, Il Margine, Trento 2014, pp. 179, 14 €.
  •  Francesco Comina, Solo contro Hitler. Franz Jägerstätter, il primato della coscienza, Emi, Verona 2021, pp. 173, 16 €.
  •  Franz Jägerstätter, Scrivo con le mani legate. Lettere dal carcere e altri scritti dell’obiettore-contadino che si oppose ad Adolf Hitler, Berti, Piacenza 2005, pp. XXXV, 231, 13 €.
  •  Inge Scholl, La Rosa Bianca, Itaca, Castel Bolognese 2006, pp. 190, 12 €.
  •  Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, Queriniana, Brescia 2024, pp. 688, 23 €.
  •  Terrence Malick, La vita nascosta. Hidden Life, Germania-Stati Uniti, 2019.




La Pentecoste di Maria


Il suo volto ti abita, Maria, ora che non puoi più toccarlo.
Lo vedi ogni momento.
È tranquillo mentre, neonato, si addormenta attaccato al tuo seno.
È sorridente a due anni tra le braccia di Giuseppe.
È serio tra i maestri nel tempio in adolescenza.
È il volto del tuo Signore, il viso bello di tuo figlio.

Lo scruti tra la folla che lo ama.
Lo contempli sporco di polvere e sangue.
Lo abbracci nell’orto degli ulivi, quando vi ordina di rimanere a
Gerusalemme per ricevere lì lo Spirito Santo, poco prima che venga elevato in alto e sottratto al tuo sguardo da una nube.

Erano quaranta giorni che stava con voi, e pronunciava parole di consolazione, e compiva prodigi. Ora ne sono trascorsi nove senza vederlo più, e tu custodisci tutto nel tuo cuore.

Oggi il tuo popolo celebra la Pentecoste, il memoriale della consegna a Mosè della Legge sul Sinai, del momento in cui Israele è diventato il popolo di Dio e il Signore suo Dio. La Città Santa è in fermento. Anche gli amici di Gesù lo sono. Si domandano che fare, cosa celebrare.

E all’improvviso viene dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempie la casa dove state tutti insieme. Vedi lingue come di fuoco che si dividono e si posano su ciascuno. Anche su di te. E tutti venite colmati di Spirito Santo (cfr. At 2,1-11).

A quel rumore, la folla multietnica di Gerusalemme si raduna. E tutti rimangono stupiti nel sentire gli apostoli parlare delle grandi opere di Dio nelle loro lingue native.

Oggi la Chiesa nasce dallo Spirito, e nasce missionaria. Nasce da una Legge scritta sul cuore, capace di parlare di vita piena ed eterna alla vita di ogni donna e ogni uomo.

Anche tu rinasci Maria.

Forse speravi che lo Spirito promesso ti avrebbe chiarito tutto. Quello che da più di trent’anni in qua è accaduto in te e attorno a te e che ancora oggi accade.

Invece hai ricevuto la chiarezza definitiva che, semplicemente, tutto sta in modo saldo nelle mani amorevoli del Padre, che tutto viene da Dio e a Dio torna. Anche tu, anche tutto ciò che hai meditato e mediterai nel tuo cuore.

Oggi sei consolata, Maria, sorella e consolatrice.

Consolati dal Consolatore,
buon cammino sulle strade del mondo,

da amico
Luca Lorusso

In questo inserto:

  • Bibbia on the road: Inni cristologici /1
  • Parole di corsa: Dio ha il suo piano per noi
  • Amico mondo: Laudate Deum, il creato chiama
  • Progetto Mongolia: Per i ragazzi di Zuunmod

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Ict4d e sviluppo, una continua evoluzione


Il dibattito sul contributo che i sistemi integrati di telecomunicazione possono dare allo sviluppo economico, sociale e culturale dei paesi impoveriti va avanti da decenni: il loro utilizzo può aiutare, ma a condizione che sia inclusivo ed equo.

In Ghana, la coltivazione dell’anacardio è la fonte di reddito per centinaia di migliaia di lavoratori e per le loro famiglie. Essa garantisce la sussistenza a circa due milioni di persone. Il settore deve però affrontare problemi come la diffusione di malattie parassitarie, ad esempio l’antracnosi, e il deperimento delle piante, che causano perdite stimate fino al 40% del raccolto.

Il progetto Cashew disease identification (Cadi Ai), realizzato dall’azienda ghanese KaraAgro con il sostegno dell’agenzia tedesca per la cooperazione, Deutsche gesellschaft für internationalezusammenarbeit (Giz), aiuta a individuare l’insorgere delle malattie e degli stress nutrizionali nelle piante di anacardio già nelle fasi iniziali, attraverso l’analisi con l’intelligenza artificiale di immagini registrate dai droni sui campi. Un’app fornisce poi ai coltivatori una mappa con la geolocalizzazione delle piante interessate, in modo da permettere un intervento tempestivo.

È, questa, la sintesi del progetto Cadi Ai fornita dalla consulente tecnica di Giz, Mary Afram, che si legge sul sito di Ict4d conference, la conferenza che si occupa dell’uso delle tecologie di informazione e comunicazione (Tic, o Ict, information communication technology nell’acronimo inglese) nello sviluppo e nella risposta alle emergenze umanitarie@.

La Conferenza, avviata nel 2010 dall’Ong internazionale Catholic relief service@, è arrivata lo scorso marzo alla sua dodicesima edizione e si è svolta ad Accra, in Ghana, Paese che – nelle parole della sua ministra per le Comunicazioni e la digitalizzazione, Ursula Owusu-Ekuful – aspira a essere «l’hub delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per l’Africa occidentale»@.

Consolata Centenary school, Tanzania

Le origini dell’Ict4d

Una ricerca dell’università di Torino@, pubblicata lo scorso novembre e realizzata dal ricercatore Ron Salaj, ripercorre attraverso il pensiero di diversi autori la genesi e l’evoluzione dell’Ict4d che, dalla seconda metà del secolo scorso a oggi, ha attraversato quattro fasi.

La prima, denominata Ict4d 0.0, va dagli anni Sessanta agli anni Novanta del Novecento e vede la nascita di Internet, ma senza grandi applicazioni al di fuori del settore pubblico.

Nella seconda fase, Ict4d 1.0, a partire dai tardi anni Novanta, si combinano invece l’ampliarsi dell’accesso a internet e la formulazione degli obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite. Lo studio cita due iniziative, simboliche di questa fase e anche dei suoi insuccessi: i telecenter, spazi pubblici dove gli utenti possono usare un computer, internet e altre tecnologie digitali, e l’iniziativa One laptop per child (un computer portatile per ogni bambino), lanciata dall’architetto e informatico statunitense Nicholas Negroponte del Massachusetts institute of technology – Mit di Boston.

I risultati di queste iniziative non sono stati ovunque all’altezza delle aspettative, anche a causa di alcuni limiti nella progettazione, che avveniva nei paesi industrializzati, lontano dalle realtà nelle quali le soluzioni proposte dovevano applicarsi. Erano infatti troppo concentrate sugli aspetti tecnici e non abbastanza sui contesti sociali, culturali e istituzionali in cui si inserivano, e si scontravano spesso con delle condizioni concrete sfavorevoli, come la mancanza di infrastrutture adeguate.

Ict4d oggi

La successiva fase, Ict4d 2.0, va da circa metà degli anni Duemila a oggi e segue il passaggio dal cosiddetto Web 1.0 al Web 2.0, quindi da una tecnologia digitale i cui utenti si limitavano a fruire passivamente dei contenuti a una che permette agli utenti di partecipare, collaborare, interagire per creare contenuti. E i modelli di sviluppo, spiega la ricerca citando un articolo del 2010 di Richard Heeks, dell’università di Manchester, si sono trasformati per adattarsi a questo cambiamento.

Alcuni esempi citati da Heeks permettono di capire meglio: dal 2001, il progetto Bhoomi@ ha introdotto un software che fornisce servizi amministrativi nello stato indiano del Karnataka, ad esempio, rilasciando certificati di proprietà fondiaria agli agricoltori che ne hanno bisogno per ottenere prestiti bancari. In questo modo, i contadini hanno potuto liberarsi dalle pressioni di funzionari locali corrotti che chiedevano denaro per fornire quei servizi.

Un altro esempio, questa volta per illustrare l’adattamento delle tecnologie ai bisogni locali, è quello del beeping, o flashing – in italiano: chiamata persa, squillo – che in alcuni contesti è diventato un sistema di messaggistica alternativo e gratuito: ad esempio, un cliente può usare questo metodo per avvisare un venditore ambulante quando è pronto per fare un acquisto.

La quarta fase, Ict4d 3.0, che, secondo alcuni studiosi, è iniziata nel 2019, va di pari passo con il Web 3.0 e le sue cosiddette tecnologie di frontiera – blockchain, intelligenza artificiale, Internet delle cose, big data – e con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg) dell’Agenda 2030 dell’Onu, che nel 2015 sono succeduti agli obiettivi del millennio.

Familia ya Ufariji, Nairobi, Kenya.

Rischi e opportunità mancate

La ricerca di Salaj prova a definire a che condizioni la tecnologia può davvero aiutare a raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030. In sintesi: occorre assicurarsi che le soluzioni offerte da queste tecnologie migliorino le condizioni di vita delle comunità del Sud del mondo, riducendo la povertà, promuovendo il rispetto dei diritti umani e permettendo a sempre più persone di accedere a servizi e beni primari.

Senza queste attenzioni, avverte Salaj, il rischio è quello di cedere al tecno soluzionismo, cioè all’idea che la tecnologia basti, da sola, per risolvere i problemi. A contraddire questa idea, la ricerca cita l’esempio di un’app per trovare persone migranti di cui i congiunti hanno perso le tracce: a volte, la persona che migra sta scappando proprio da familiari che vogliono fare loro del male e che per questo forniscono all’applicazione la foto per il riconoscimento facciale. Il paradosso è quindi che la soluzione tecnologica può aiutare a trovare una persona, ma facendo questo metterla in pericolo.

Un altro rischio è quello di promuovere un colonialismo dei dati: il risultato della diffusione degli strumenti digitali nei Paesi meno sviluppati può essere infatti quello di permettere a colossi tecnologici del Nord globale di raccogliere anche dalle comunità del Sud del mondo grandi quantità di dati – secondo diversi osservatori, il petrolio del XXI secolo@ – per trarne profitto, estraendo informazioni da gruppi vulnerabili, come i rifugiati o le persone colpite da una catastrofe naturale, che usano app o servizi digitali per cercare di uscire da una situazione di difficoltà.

Il lavoro di Salaj include anche un’analisi sull’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte delle Ong italiane che fanno cooperazione allo sviluppo. Su 195 Ong interpellate, solo 26 hanno risposto, e questo – notava durante l’evento di presentazione@ la professoressa Elisa Bignante, anche lei dell’università di Torino – «è un dato sul quale riflettere».

Praticamente tutte le organizzazioni che hanno risposto confermano di usare le Ict, ma concentrandosi sui social media: il 96% utilizza infatti queste piattaforme, mentre il 40% usa le applicazioni per dispositivi mobili e una Ong su tre si serve di strumenti di visualizzazione dei dati.

Nessuna ricorre invece alle tecnologie emergenti come blockchain, machine learning, big data e realtà virtuale, né conosce i principi digitali@, cioè le nuove linee guida per l’integrazione delle Ict nella cooperazione, approvati e adottati da 200 enti fra organizzazioni internazionali e governative, Ong, fondazioni e centri di ricerca. Eppure, concludeva Bignante nel suo intervento, il 43% delle Ong intervistate definisce sostanziale l’impatto delle Ict nel loro lavoro: occorre chiedersi allora che cosa impedisce loro di utilizzare in maniera più articolata le tecnologie disponibili.

Invinha, Mozambico, scuola secondaria e pre-universitaria, gestita dalle suore francesacne ospedaliere, fondate da Madre Clara, beatificata il 22 maggio 2011
Sala di scuola di informatica

Rapporto con donatori e beneficiari

L’uso preferenziale di social network e applicazioni di messaggistica per i dispositivi mobili si conferma anche nell’esperienza dei Missionari della Consolata e questi strumenti hanno cambiato la relazione sia con i donatori che con i beneficiari.

Padre Gigi Anataloni, direttore responsabile di MC e missionario in Kenya dal 1988 al 2009, ha visto evolversi le Ict e il loro impatto in missione. Oggi, in contatto con i confratelli in Kenya, raccoglie fondi per garantire istruzione e cure mediche a bambini e ragazzi in difficoltà. Così sintetizza l’evoluzione nei modi di comunicare con i donatori: «Prima siamo passati dalle lettere all’email e, dopo un breve periodo nel quale abbiamo usato gli sms, siamo entrati nei social per arrivare a WhatsApp, lo strumento che oggi uso di più per aggiornare e ringraziare amici e benefattori, inviando loro notizie e immagini delle attività realizzate con i fondi raccolti tramite Missioni Consolata onlus».

Questi strumenti facilitano molto il contatto e lo rendono più immediato, conferma il missionario, ma forse c’è il «rischio di diventare più superficiali nella comunicazione».

Anche il rapporto con i beneficiari si è modificato, continua padre Gigi: «Un papà o una mamma che si ammalano in Kenya, il figlio studente che si fa male o che deve rientrare dal collegio a fine trimestre per le vacanze, il padrone di casa che dà lo sfratto perché il o la capofamiglia non ha pagato l’affitto, i ladri che rubano le divise scolastiche messe a stendere dopo essere state lavate… questi e molti altri problemi si riversano come un fiume in piena sul tuo cellulare e ti spiazzano. Allora devi valutare quali sono i problemi più urgenti, prendere una difficile decisione e poi fare come faceva il nostro fondatore, Giuseppe Allamano: dire alla nostra Consolata “pensaci tu”».

Un altro cambiamento che padre Gigi rileva è nella programmazione delle spese scolastiche: quando in Kenya si poteva pagare solo con denaro contante o trasferimento bancario, la scuola mandava alle famiglie una lista di ciò che serviva agli alunni e gli acquisti venivano fatti tutti in una volta, all’inizio del trimestre. Oggi i genitori pagano anche le spese scolastiche con Mpesa, il servizio di trasferimento di denaro via cellulare attivo in Kenya dal 2007: sapendo che le famiglie hanno uno strumento immediato per pagare, gli istituti propongono iniziative come gite, gare canore, tornei, nuovi libri o altro anche nel corso del trimestre. Questo però a volte mette in difficoltà chi, come padre Gigi, riceve richieste di aiuto per coprire queste spese  in qualunque momento dell’anno.

Dottori oculisti a Wamba, Kenya.

Le Ict nelle missioni

A rendere invece più organizzato il lavoro del Consolata Ikonda hospital, in Tanzania, contribuisce il sistema informatico che, riferisce uno dei responsabili della struttura, padre Marco Turra, «da anni governa l’ospedale, registrando entrate e pagamenti in contanti, iscrizioni e dati clinici dei pazienti: va migliorato continuamente, ma è chiaro che la via da seguire è questa».

Per le diagnosi e per la chirurgia Ikonda si avvale della telemedicina, grazie al contributo di medici che, da Italia, Spagna, Germania o da altre zone della Tanzania, forniscono letture dei risultati di Tac e risonanze magnetiche, degli esami istologici del laboratorio di anatomia patologica o delle analisi per la diagnosi dell’anemia falciforme. Inoltre, conclude padre Marco, grazie ai cellulari, i nostri chirurghi possono comunicare con dei colleghi durante gli interventi per ricevere consigli e indicazioni.

Anche al Catholic hospital di Wamba, in Kenya, le Ict hanno migliorato le cose: «Attraverso WhatsApp, YouTube, Zoom», spiega fratel Severino Mbae, missionario della Consola responsabile dell’ospedale, «posso vedere quale farmaco o macchinario sto per comprare, o monitorare le condizioni dei pazienti. Lo smartphone per me è un ufficio mobile: ha sostituito il registratore, la segreteria, la macchina da scrivere, la calcolatrice, la macchina fotografica».

Ci sono anche molti altri ambiti in cui le Ict facilitano il lavoro dei missionari della Consolata nello sviluppo. Scrive la responsabile dell’ufficio progetti dei missionari della Consolata in Kenya e Uganda, Naomi Nyaki: «Le istituzioni formative, come le scuole Consolata e Kiambu, o il seminario, utilizzano queste tecnologie per garantire agli studenti accesso alle informazioni necessarie per le loro ricerche e alcune lezioni si svolgono online.»

«Le persone possono pagare le bollette dell’acqua tramite i loro telefoni cellulari,», aggiunge la responsabile dell’ufficio progetti in Tanzania, Modesta Kagali, «e questo, soprattutto nelle zone remote, dà loro la possibilità di garantirsi il servizio idrico senza dover percorrere lunghe distanze per cercare un intermediario che possa fare il pagamento per loro».

La radio della diocesi di Maralal. Radio Mchungaji 94.5 FM

Diffusione disomogenea

Ma ci sono ancora zone del mondo in cui l’uso di queste tecnologie non è possibile: «Un donatore ci aveva proposto una collaborazione con un ospedale in Camerun con il quale lui era in contatto», spiega dal nord della Repubblica democratica del Congo il laico missionario della Consolata Ivo Lazzaroni, responsabile dell’ospedale di Neisu, «ma purtroppo qui la connessione internet non permette di fare videochiamate o videoconferenze. È un peccato, ci aiuterebbe a migliorare le competenze dei nostri medici». L’ospedale di Neisu, inoltre, non è informatizzato e questo rende più laborioso gestire conti e dati clinici dei pazienti.

Se è vero che ci sono stati miglioramenti nei Paesi di missione, non va dimenticato che molte zone di questi c’è una connettività ridotta: secondo i dati forniti dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni nell’Ict development index 2023@, nei paesi a basso reddito in media solo il 21,7% delle persone usa internet, mentre poco meno di un nucleo familiare su quattro ha una connessione in casa, contro una media mondiale intorno al 70% per entrambi gli indicatori. I possessori di cellulare sono in media il 45,8% nei paesi a basso reddito, cioè meno della metà rispetto ai paesi ad alto reddito, i quali hanno anche 117 abbonamenti alla banda larga mobile ogni 100 abitanti, a fronte di 29 abbonamenti nei paesi a basso reddito.

Chiara Giovetti




Madagascar. Mission impossible (o quasi)


La «grande isola» è come un ponte tra l’Africa e l’Asia. Porta in sé contrasti e difficoltà, oltre a tanta bellezza. Iniziamo questa serie dall’ultimo paese nel quale hanno messo piede i «figli» di Giuseppe Allamano.

«Ormai è venuto il tempo di una missione più discreta, umile, solidale, propositiva, fondata più sull’essere che sul fare» (cfr. dalla presentazione degli atti del capitolo generale dei Missionari della Consolata del 2017).

La genesi

Nel 2012 il vescovo di Abanja, monsignor Rosario Vella, salesiano, passa alla casa Generalizia a Roma. Mi cerca perché le suore Battistine gli hanno parlato bene di noi. Io all’epoca ero superiore generale dei Missionari della Consolata. Mi dice: «perché non venite ad aprire in Madagascar, è una missione ad gentes, adatta a voi. Venite nella nostra diocesi».

Io gli rispondo: «È una bellissima idea, ma noi stiamo lavorando a livello continentale, per cui per aprire una missione in un nuovo paese, mi piacerebbe sentire cosa pensa il consiglio continentale dell’Africa dell’istituto». «Ma come, un generale non può decidere?», dice lui. Io presento l’idea al consiglio, che ci lavora quasi due anni.

Nel 2016, una prima delegazione va in Madagascar a incontrare il vescovo e vedere il possibile luogo di missione. Ne fanno parte il vice superiore generale padre Dietrich Pendawazima, il consigliere per l’Africa padre Marco Marini, e padre Hyeronimus Joya, all’epoca superiore del Kenya, a rappresentare il consiglio d’Africa.

Ma facciamo un passo indietro. Nel 2010, quando ero vice superiore generale, io ero andato a trovare il nostro confratello padre Noè Cereda (recentemente scomparso, ndr) nella capitale Antananarivo. Lui era lì perché aveva lavorato come responsabile all’Emi (Editrice missionaria italiana), e aveva avuto un contratto per pubblicare i libri per le scuole elementari e medie dello Stato. Quando ha lasciato l’Emi, dati i suoi contatti, si è trasferito in Madagascar, a lavorare con delle suore. Mi ero dunque fatto un’idea del Paese.

Motivazioni

Ma perché il Madagascar? Per noi rispondeva a una delle nostre inquietudini come missionari della Consolata. Oggi tutto è missione e il significato dell’«ad gentes» è in crisi. Non si capisce più esattamente quale sia l’identità concreta dell’andare «alle genti». Diciamo che sono i luoghi dove bisogna annunciare il Vangelo per la prima volta. In Madagascar i cattolici sono una minoranza (circa il 16%, ndr).

Una seconda motivazione era che questo Paese è un ponte che unisce l’Africa all’Asia. La popolazione è in parte di origine africana e in parte austronesiana (come i popoli di Malaysia e Indonesia, ndr).

Il terzo elemento di interesse era quello dare occasione ai nostri missionari africani di realizzare una missione tutta africana.

Difficoltà

Quando i nostri primi tre sono partiti nel marzo 2019, sono andati dal vescovo di Ambanja e hanno iniziato a imparare la lingua. Si trattava del congolese Jean Tuluba, l’ugandese Kizito Mukalazi e il keniano Jared Makori. Come africani non hanno avuto grosse difficoltà a comprendere la cultura. Ma dopo qualche mese il vescovo è cambiato, monsignor Vella è stato trasferito e siamo rimasti per un paio di anni con un amministratore apostolico, che però stava in un’altra diocesi e aveva molto altro da fare. I nostri sono stati lasciati un po’ soli. Questo aspetto ha penalizzato la nostra missione.  Quando abbiamo fatto la visita con la nostra delegazione si è dunque pensato di aprire nel Nord del Paese, a Beandrarezona, dove i nostri sono arrivati nell’ottobre 2020. Abbiamo subito visto che si tratta di una missione puramente ad gentes: è proprio un luogo fuori dal mondo.

Durante la stagione delle piogge, per sei mesi all’anno, non si può neppure arrivare con la macchina. Inoltre, l’unica auto che c’è in zona è la nostra. Nella cittadina dove stiamo, le case sono molto vicine tra loro, perché chi vi abita non aveva mai pensato che potesse passare un mezzo, quindi non c’è una vera strada. Anche le comunicazioni sono difficoltose: per usare il telefono cellulare, i missionari devono andare su una montagna.

Inoltre, la nostra è stata la prima presenza missionaria straniera in assoluto. Prima c’era solo un gruppo di suore malgasce che, ancora oggi, gestiscono una scuola. Forse come prima apertura in un paese nuovo è stata un po’ un azzardo.

Quando ho fatto la mia ultima visita canonica, nel luglio 2022, abbiamo confermato che la missione di Beandrarezona è quella dove vogliamo stare. Allo stesso tempo abbiamo rinforzato l’idea di aprire una nuova comunità nella capitale Antananarivo. Abbiamo infatti visto che in Madagascar, tutto si gioca in capitale, quindi una nostra presenza lì è fondamentale. Non soltanto per gli aspetti pratici ma anche per essere riconosciuti e significativi. Molte congregazioni presenti nel Paese non sanno neppure che esistiamo.

Missione povera

È una missione povera, le entrate sono limitate, anche per mantenere il minimo di strutture non è facile. I tre missionari sono rimasti per tre anni in una famiglia il cui papà era direttore della scuola. Loro si sono ristretti e ci hanno lasciato due stanze con una specie di cucina. Solo recentemente abbiamo fatto fare una casa e poi anche una scuola, che potrebbe dare un senso alla missione e una piccola entrata economica. Il luogo ci definisce, ovvero certe scelte ci definiscono. Essere in Madagascar in questo momento storico è una scelta di campo, da ad gentes, tra i più poveri e abbandonati. La forza di questo Paese è il turismo, ma si concentra sulle coste mentre all’interno la popolazione vive in una povertà estrema.

Adesso padre Kizito ha cambiato destinazione, mentre due padri giovani si stanno preparando per integrare il gruppo.

Provocazione

Questa nuova modalità di missione, si presenta con pochi mezzi. Si esplicita in tre punti: stare con la gente, avere meno potere e più condivisione. Il missionario non deve essere il solito straniero potente che risolve tutto. Questa è però una fatica per i giovani, che sono portati a essere protagonisti.

Bisogna trovare le condizioni per riuscire a stare o, al contrario, capire le condizioni che ti obbligano ad andare via.

La missione oggi chiede una grande conversione: si fa fatica a individuarla, è diversa da quella di una volta, ed è difficile portarla avanti.

Stefano Camerlengo

 




Un clandestino (Gv 3,1)


Che cosa penseremmo di un uomo importante che, di fronte a una persona controversa, anziché prendere posizione aperta, cerchi di incontrarla di nascosto? Forse che è ambiguo, o un opportunista, o come minimo un pavido.

Il terzo capitolo del Vangelo di Giovanni ci presenta un personaggio del genere: Nicodemo, un fariseo influente, membro del sinedrio. Egli cerca Gesù di notte per confrontarsi con lui, dialogando e interrogandolo. Gesù, pur non mostrandosi per nulla intimidito, non sembra nemmeno trattarlo con durezza, anzi lo definisce «maestro d’Israele» (v. 10), sia pure mentre lo rimprovera perché non capisce quello che gli sta dicendo.

Peraltro, Nicodemo, riapparirà un poco più avanti nel Vangelo, mentre invita i capi dei sacerdoti e dei farisei a procedere con rispetto nei confronti di Gesù (Gv 7,50-53, e di nuovo si beccherà, questa volta dai suoi pari, dell’ignorante). Infine, Giovanni ne parlerà ancora nel capitolo 19 mentre si prende cura del corpo di Gesù e della sua sepoltura, quando, cioè, è ormai chiaro che Nicodemo non può aspettarsi nessun vantaggio dal prendere posizione in favore del Nazareno.

Insomma, Nicodemo è un personaggio rilevante, influente, che non diventa in modo chiaro un discepolo, ma che, con senso critico e autonomia, si sforza di capire Gesù e viene da lui apprezzato e rispettato. Un personaggio peculiare, soprattutto in un Vangelo che tende a dividere tutti coloro che ruotano intorno a Gesù in amici o nemici. E quindi un personaggio da ascoltare con maggiore attenzione.

Da dove parte la vita? (Gv 3,2-8)

Nel nostro percorso attraverso il Vangelo secondo Giovanni ci imbattiamo nel primo dei dialoghi di Gesù, che ci sembrano spesso strani perché, da una parte sembrano volerci dare l’impressione di essere autentiche trascrizioni di quanto è stato detto, dall’altra sono condotti in modo innaturale, con argomentazioni che ritornano sempre sugli stessi temi ma non sono ben coordinate. I dialoghi di Gesù proposti da Giovanni costringono i lettori a non perdere un solo particolare, per cercare di seguire il discorso. È probabile, infatti, che l’evangelista voglia in questo modo attrarre la nostra totale attenzione. Eppure, alla fine, restiamo con l’amaro in bocca, come se non fossimo riusciti a capire abbastanza. È il modo di procedere di Giovanni, che a sua volta significa e indica qualcosa.

Se non capiamo immediatamente i dialoghi, non è perché siamo diventati improvvisamente stupidi, ma perché ci troviamo davanti a una sfida seria. Affrontiamola con rispetto, sapendo che forse non riusciremo ad afferrare tutto, ma anche consapevoli che molto potremo gustare.

Nel testo in questione Nicodemo inizia ammettendo che Gesù è un maestro che conosce Dio (Gv 3,2). Non è poco, anche se pare solo un primo approccio, per introdursi. La risposta di Gesù, però, sembra supporre una domanda che non abbiamo letto: «Se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio» (v. 3). Il «regno di Dio» è il mondo come l’ha sognato Dio, che procede secondo i suoi piani. È l’obiettivo della vita di un credente, vedere finalmente il mondo immaginato da Dio, confidando che sia anche il mondo migliore in cui un essere umano possa vivere. Gesù afferma che per vederlo bisogna «rinascere».

Il verbo greco, in realtà, può significare sia «nascere di nuovo» che «nascere dall’alto», e le traduzioni a nostra disposizione ci restituiscono entrambi i significati, ovviamente alcune il primo e altre il secondo, dal momento che in italiano non abbiamo una parola con questo doppio significato.

L’evangelista, però, chiaramente vuole che entrambi i significati ci restino nella mente. Si nasce «di nuovo», perché si tratta di ricominciare a capire, a costruirsi un modello mentale, a scoprire il mondo come funziona. È la «nuova nascita» di chi si converte (Mc 1,15; Gv 12,40), di chi «stravolge» il proprio modo di pensare. Noi abbiamo già delle idee su Dio, pensiamo di sapere già chi è: Gesù ci chiede di mettere le nostre certezze in discussione, di provare a capire di nuovo. Questo perché forse il Padre è molto diverso da ciò che ci aspettiamo. Nello stesso tempo, «rinascere» è un seme che parla già di risurrezione, di un ritornare alla vita, anzi, a una vita nuova.

E allora qualcosa iniziamo a capire, perché così dicendo Gesù ci fa intuire che la vita promessa non giungerà sfuggendo alla morte, evitandola (come potevamo spontaneamente ma ingenuamente pensare), bensì attraversandola, andando oltre, in una condizione di vita nuova, dove la morte non ci minaccia più. Anche il «regno di Dio», allora e chiaramente, non sarà uno stato come gli altri, un regno politico instaurato nella storia e in qualche regione, ma potrà essere ricevuto come dono pieno solo oltre questa vita.

Questi chiarimenti, in effetti, si connettono bene con il nascere «dall’alto»: se dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare su Dio, non può che essere Lui a mostrarcelo, a farcelo capire. E il dono di una vita «nuova», se ricevuto dopo la morte, non può che essere «dall’alto», da Dio, giacché nessun essere umano, mai, ha potuto ridarsi la vita dopo essere morto.

Lo Spirito

Nicodemo mostra di non aver capito l’affermazione di Gesù, e gli chiede come sia possibile ritornare, da vecchi, nel grembo della madre (Gv 3,4).

Gesù, nella risposta, sembra iniziare a spiegarsi di nuovo e meglio, ma in realtà sposta il discorso a un livello superiore. Come dicevamo, è il modo di procedere tipico di Giovanni: egli conduce il lettore a seguirlo in un ragionamento «a spirale» che ritorna sui temi già affrontati ma a un livello di profondità maggiore.

In questo modo, tra l’altro, il Vangelo di Giovanni trasmette anche l’idea che non potremo mai raggiungere una conoscenza teorica precisa di Gesù e di Dio, non perché siano incomprensibili, ma perché sono vivi. Come accade con tutti i viventi, benché riusciamo a intuire anche molto della loro interiorità, sappiamo che non sono un teorema matematico completamente sviscerabile. La conoscenza di Dio è un percorso esistenziale che mantiene sempre una quota di mistero e di sorpresa.

È comunque chiaro che Gesù introduce nel discorso lo Spirito: «Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,5).

Su che cosa c’entri l’acqua, si discute da duemila anni e forse non si smetterà mai, non perché non ci sia un’idea di come spiegarlo, ma perché di idee ce ne sono troppe, e forse ognuna dice qualcosa di giusto: può darsi che Gesù, citando l’acqua, parli dei riti di purificazione che anche l’ebraismo conosceva (e che quindi rimandi a un aspetto liturgico, ecclesiale o pubblico), o del battesimo (ma se così fosse, davvero Nicodemo non poteva capirci niente), oppure del Battista di cui Gesù aveva ripreso il gesto, o forse di altro ancora.

Più chiara, di certo, ci risulta l’analogia con il vento, che non vediamo e non sappiamo da dove venga, ma che pure percepiamo, sapendo che può causare conseguenze anche grandi. Quasi Gesù dicesse che è vero che non riusciamo razionalmente a spiegare del tutto l’opera dello Spirito e la sua presenza, eppure la cogliamo al lavoro, nei suoi effetti, che sono autentici e reali.

Anzi, a voler essere ancora più precisi, si dice che a non essere prevedibile, eppure è reale, è «chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8), come se entrasse in una comunione tanto stretta con Dio da comportarsi come Lui.

Il volto inafferrabile

Possiamo riprendere meglio che cosa già Gesù ci ha svelato sul Padre. Il «re» di quel «regno di Dio» di cui abbiamo parlato ci chiede di rinunciare alle immagini che di lui abbiamo già. Si tratta di rinascere, di ricominciare a imparare e a farci stupire dalla vita che ci ritroviamo e ritroveremo come dono. È quell’«alto» da cui rinascere, che ci invita alla sorpresa, alla vita piena e nuova, a ciò che intuiamo ma non riusciamo a prevedere o spiegare.

Perché chi è mosso dallo Spirito non è del tutto spiegabile, anche se i frutti della sua azione si colgono (Gv 3,8). E quello Spirito è inviato dal Padre di Gesù. Non si può pretendere di ingabbiare il Padre in definizioni rigide, ferme, inflessibili. Queste ultime, forse, ci renderebbe più sereni, perché ci darebbero l’impressione di poterlo tenere sotto controllo, di avere a che fare con qualcosa di prevedibile, ma sarebbe un’impressione falsa. Il Padre è vivo e ci chiede di scoprirlo come un vivente, pronto a sorprenderci.

Questo significa che per noi ci potrebbero essere in serbo anche sorprese brutte?

Amante della vita (Gv 3,16-21)

Di fronte a questa possibilità, l’evangelista si affretta a chiarire il principio di fondo dell’agire divino, in qualche modo certificato da un esempio che è ben più di un esempio.

Il principio è che il Padre non vuole condannare il mondo, ma salvarlo (v. 17), e questo viene dimostrato dall’offerta stessa del Figlio (v. 16), che il Padre ha consegnato agli uomini semplicemente per amore. L’amore di una persona può arrivare al punto che essa offra se stessa per qualcuno che ama (Gv 15,13), o addirittura per un uomo giusto (come dice Paolo in Rm 5,7: «Forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona»), ma quell’abisso tremendo di sacrificare chi si ama («Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco, e offrilo in olocausto» Gen 22,2), esperienza che Abramo stava per vivere finché Dio non lo ha fermato, lo compie lui stesso. Come il padrone della vigna che, di fronte ai vignaioli ribelli, decide, illogicamente, di mandare il proprio figlio (Mc 12,6), così il Padre dona al mondo il suo Figlio unigenito, che mostra, con la sua vita e il suo sacrificio, fino a che punto Dio sia disposto ad arrivare per seguire il suo desiderio di vivere la comunione e l’amore con gli esseri umani.

Ecco perché chi non crede in lui viene condannato o, per dire meglio, si condanna da sé (Gv 3,18), come chi, di fronte alla luce che gli viene donata, decide di rifiutarla, di chiudersi al buio, per vivere nelle tenebre (v. 19: pare quasi che Gesù prenda bonariamente in giro Nicodemo, che di notte è andato a raggiungerlo).

Il Padre è imprevedibile e sorprendente, misterioso e stupefacente, ma tutto ciò che opera e inventa va nella stessa direzione, quella di tutelare la vita umana, di renderla più autentica e preziosa, migliore e difesa. È una tutela della vita non imposta a tutti i costi, ma sempre donata nel totale rispetto della libertà umana, che nella propria autonomia potrà rifiutare quell’amore, non accoglierlo, costringendosi nelle tenebre della morte.

Perché il Padre di Gesù, come un vero e autentico innamorato, è disposto a tutto per venire incontro agli esseri umani, tranne violare la loro libertà. È un Dio che cerca persone adulte che scelgano liberamente di amare e lasciarsi amare, non schiavi costretti a servire o addirittura a farsi servire.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 04 – continua)

Jesus Mafa




Privato non è bello


Beni comuni persi dalla comunità a favore dei singoli. Questo sono le privatizzazioni. Anche l’antica Roma distingueva tra ambito «pubblico» e ambito «privato», ma quest’ultimo prese il sopravvento quando, nel Settecento, gli inglesi permisero ai grandi proprietari di recintare le terre collettive.

Capita a molti politici di condannare certe scelte, quando sono all’opposizione, e di perseguirle, quando sono al governo. Uno degli ultimi casi riguarda la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, nel 2018, scriveva sui social: «Poste [italiane] è un gioiello che deve rimanere in mano pubblica». Passata dall’opposizione al governo, in un’intervista televisiva rilasciata nel gennaio 2024 la stessa Meloni cambiava opinione prevedendo la possibilità di procedere a privatizzazioni comprendenti anche Poste italiane. Scelta puntualmente ufficializzata il 26 gennaio 2024 dal Consiglio dei ministri.

«Privatus» versus «publicus»

Da qualche decennio le privatizzazioni sono diventate pratica corrente di tutti i governi, sia quelli di destra che di sinistra, forse perché i margini di differenza fra le due sponde ideologiche si stanno restringendo sempre di più. Nel contempo, però, va precisato che, dietro questa parola, si racchiudono vari concetti, assai diversi fra loro per meccanismi e portata politica.

Da un punto di vista etimologico, privatizzare deriva da privatus, parola che, nell’antica società romana, indicava la condizione dei singoli individui in contrapposizione allo Stato definito publicus. Ma è bene ricordare che, dalla stessa radice, proviene anche il verbo «privare» che significa togliere, sottrarre. E si scopre che, presso gli antichi, il soggetto di riferimento era lo Stato che considerava la «roba» dei singoli come qualcosa che era stato sottratto alla sua potestà.

Una concezione che ritroviamo ancora oggi nel verbo privatizzare che si riferisce ai beni comuni persi dalla comunità a favore di singoli. Un fenomeno che ebbe un grande impulso nell’Inghilterra del Seicento e del Settecento quando il Parlamento autorizzò i grandi proprietari terrieri a recintare le terre che, fino ad allora, avevano lo status di proprietà collettiva (enclosures acts). Un processo tutt’altro che terminato considerato che la collettività continua a essere depredata delle sue proprietà e delle sue attività in nome delle motivazioni più varie.

Lo Stato e le crisi

Per una comprensione più articolata dei processi di privatizzazione è bene tenere a mente che, nel corso del tempo, l’idea di Stato ha avuto profonde modificazioni, con cambiamenti anche nella tipologia dei beni posseduti e delle attività svolte. Per quanto riguarda le proprietà, una categoria di beni tradizionalmente posseduti dagli Stati sono sempre stati quelli naturali: mari, fiumi, laghi, coste. Però, con l’avanzare del modello capitalista, lo Stato si è ritrovato anche proprietario di attività industriali, non per scelta ma come rimedio ai processi di autodistruzione che spontaneamente il capitalismo tende a mettere in atto. Emblematica la grande crisi che investì il mondo industrializzato nel 1929 o quella del 2008 che coinvolse l’intera finanza internazionale. Benché molto diverse fra loro, entrambe hanno avuto in comune il crollo di valori finanziari che mettevano fortemente a rischio il sistema bancario, nei confronti del quale i governi si sono sempre sentiti in dovere di intervenire in caso di cattiva parata. Nel 1929 la crisi riguardò il valore dei titoli azionari, ossia dei titoli attestanti la proprietà delle aziende. Titoli che le banche possedevano a piene mani. Il problema è che, se i titoli crollano, anche le banche vacillano perché risultano impoverite e, nella paura di non poter riprendere ciò che hanno depositato, molti risparmiatori corrono in banca per riprendersi i propri soldi. Ma così facendo trasformano il rischio in realtà perché nessuna banca è in grado di restituire in poco tempo tutti i soldi ricevuti in deposito.

Per il capitalismo il sistema bancario rappresenta la spina dorsale e nessun governo può permettersi di assistere inerme al suo naufragio. Perciò, dopo la crisi del 1929, molti governi si organizzarono per salvare le proprie banche. Ciascuno con il proprio programma. Il governo di Mussolini optò per due strategie: nazionalizzare le banche più traballanti e acquistare i titoli deteriorati posseduti da tutte le altre. A questo scopo, nel 1933 venne creato l’Istituto di ricostruzione industriale (Iri) e lo Stato italiano si trovò maggiore azionista, se non azionista unico, di decine di complessi industriali attivi nei settori chiave del paese: armame-

nti, telecomunicazioni, siderurgia, meccanica. Nelle intenzioni, l’Iri doveva essere liquidato di lì a poco, ma sopravvisse e nel dopoguerra procedette a ulteriori salvataggi divenendo il maggiore gruppo italiano che comprendeva aziende chimiche e meccaniche, siderurgiche e alimentari.

Privato versus pubblico. Foto Wesley Tingey-Unsplash.

Il vento ideologico cambia

Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, in tutta Europa dominava un pensiero politico favorevole all’intervento dello Stato in economia. Non a caso in quel periodo, in Italia nacque l’Eni, di totale proprietà pubblica, per l’estrazione di gas e petrolio, mentre l’intero comparto dell’energia elettrica venne portato sotto controllo pubblico tramite l’Enel. Ma, a partire dagli anni Ottanta, il vento ideologico cambiò e anche in Italia ci furono pressioni per spogliare lo Stato delle sue attività produttive. L’annuncio al mondo della finanza venne dato in circostanze carbonare, niente po’ po’ di meno che a bordo di un panfilo di sua Maestà la Regina d’Inghilterra. Era il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, quando nel porto di Civitavecchia attraccò lo yacht Britannia per fare salire a bordo vari dirigenti dello Stato italiano, fra cui Mario Draghi, direttore generale della Banca d’Italia. A bordo erano già presenti rappresentanti della finanza londinese pronti ad accogliere la delegazione italiana. Questa, durante una gita che aveva come meta l’isola del Giglio, avrebbe dovuto relazionare sulle prospettive di privatizzazione in Italia. L’evento venne confermato da Mario Draghi nel corso di un’audizione alla Commissione bilancio nel marzo 1993, ma venne descritto come un banale convegno.

Meno imprese pubbliche

Le prime privatizzazioni avvennero nel 1993 e riguardarono alcune imprese alimentari che videro Nestlé come principale acquirente. Più avanti fu la volta dell’attività telefonica, petrolifera, elettrica, automobilistica. Talvolta attraverso la cessione di tutte le quote, come è avvenuto nel caso di Cirio (Iri), talvolta attraverso la cessione di quote parziali come nel caso di Eni, Enel, Poste e varie altre.

L’ultimo rapporto Istat certifica che, nel 2020, le società a partecipazione pubblica sono 7.969, precisando che alcune ricadono in questa categoria perché possedute in tutto o in parte da ministeri, mentre altre vi ricadono perché partecipate da enti locali, o dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), una banca particolare controllata dal ministero dell’Economia. Considerato che, in Italia, le imprese sono 1,6 milioni, le società a partecipazione pubblica rappresentano solo lo 0,5% del totale. Con la prospettiva che continuino a calare, dal momento che, dal 2012 al 2020, hanno registrato una flessione del 25%.

Fino a ora abbiamo valutato le privatizzazioni usando come criterio quello della proprietà. Ma il concetto di privatizzazione ha significati più ampi e comprende anche le finalità dell’impresa. Prendiamo, ad esempio, Ferrovie dello Stato. Da un punto di vista della proprietà è una società pubblica perché posseduta interamente dal ministero dell’Economia. Ma, da un punto di vista delle finalità, è come una qualsiasi società privata perché il suo fine non è il servizio pubblico, ma il profitto. Quando si ha come obiettivo il servizio pubblico si accetta di avere anche dei bilanci in perdita, magari perché ciò serve a mantenere bassi i prezzi dei biglietti o perché serve a tenere aperte anche delle tratte poco frequentate. Se si ha per obiettivo il profitto, si fanno scelte che privilegiano i più facoltosi rinforzando il raccordo ad alta velocità di città importanti, mentre si mantengono in cattivo stato le tratte locali frequentate dai pendolari. Una politica che, purtroppo, non si riscontra solo nell’ambito dei trasporti, ma anche di servizi ancora più essenziali come l’acqua.

Il caso dell’acqua

Prima del 1990 gli acquedotti erano gestiti da aziende municipalizzate, strutture autonome da un punto di vista tecnico operativo, ma un tutt’uno con i Comuni da un punto di vista economico e politico. L’azienda municipalizzata faceva pagare un prezzo per i servizi che forniva, ma l’ammontare era deciso dal consiglio comunale in base a criteri sociali. E se l’incasso non bastava per fare fronte a tutte le spese o agli investimenti da effettuare, provvedeva il Comune  con integrazioni di altra natura. Semplicemente perché l’acqua non era considerata una merce, ma un diritto da tutelare. Nel 1990 questa impostazione cominciò a essere smantellata tramite norme che spostavano la gestione dalle aziende municipalizzate ad aziende pubbliche. Da un punto di vista linguistico la differenza è impercet-

tibile, ma da un punto di vista giuridico la differenza è abissale.

L’azienda pubblica, pur essendo di proprietà del Comune, diventa un corpo a sé stante, una sorta di figlio adulto che deve arrangiarsi da solo. D’ora in avanti non può più ricorrere a mamma Comune: deve coprire tutte le spese da sola con i proventi delle sue vendite. I prezzi li decide lei stessa non più secondo criteri di equità sociale, ma secondo logiche di contabilità di bilancio. Per di più è una Spa, una Società per azioni. Per legge il suo compito è garantire profitti agli azionisti. Un cambiamento totale di prospettiva: la municipalizzata guardava alla gente, la Spa guarda agli azionisti. Potremmo dire «all’azionista» visto che il capitale è del Comune. Ma la Spa ha la caratteristica che le quote si possono vendere, e altri soci possono aggiungersi.

Le leggi che seguirono aprirono l’ingresso ai privati e le multinazionali dell’acqua calarono come cavallette per entrare nelle società pubbliche costituite per gestire gli acquedotti. Tanto per citare i casi più clamorosi, Suez è penetrata in Acea, azienda del Comune di Roma, controllando un pacchetto azionario che oggi è al 23%. Veolia, invece, è stata a lungo in Acqualatina, azienda dei comuni della provincia di Latina, con una quota del 49%, ceduta a Italgas nel luglio 2023. Ma, ad argini rotti, è successo di tutto: la compagine degli azionisti delle società pubbliche si è allargata a banche e affaristi, alcune aziende pubbliche si sono fuse fra loro, altre si sono compenetrate in un groviglio che non permette di capire chi possiede e chi è posseduta. Alcune sono addirittura finite in borsa com’è il caso della romana Acea, dell’emiliana Hera, della lombarda A2A. Acea la ritroviamo addirittura in Honduras a gestire l’acquedotto di San Pedro Sula, come se fosse una multinazionale qualsiasi.

Prima gli azionisti

La motivazione addotta per vendere le società pubbliche ai privati, è stata la necessità di fare soldi per pagare il debito pubblico. I fatti hanno dimostrato che si è trattato di un’operazione inutile perché ha procurato solo gocce rispetto a un oceano. La motivazione addotta per chiudere le municipalizzate e fare gestire i servizi pubblici a società per azioni aperte ai privati è stata l’efficienza. Ma i fatti dimostrano che a guadagnarci sono stati gli azionisti, non i cittadini.

La verità è che i processi di privatizzazione sono figli di un progetto ideologico teso ad affermare la supremazia del mercato sulla logica dei beni comuni e sui diritti dei cittadini. Un processo fortemente promosso dall’Unione europea che ha posto il mercato e la concorrenza a fondamento del proprio ordinamento. Tant’è che condiziona ogni sua concessione all’attuazione di riforme tese a consolidare il processo di mercantilizzazione dell’economia e della società. Lo stesso Pnrr è stato un’occasione utilizzata in questa direzione. Prima o poi i cittadini europei si accorgeranno dell’inganno e pretenderanno un’altra Europa.

Francesco Gesualdi

Privato versus pubblico. Foto Call-me-Fred_Unsplash.




Nicaragua. Una Chiesa in esilio


Cacciati il nunzio apostolico, alcuni vescovi, presbiteri e persino le suore di Madre Teresa. Il regime di Daniel Ortega accusa la Chiesa cattolica di sostenere gli oppositori. Ma i vescovi del Paese centroamericano replicano che loro sono solo dalla parte degli ultimi.

Era la fine di giugno del 2022 quando Daniel Ortega ha deciso l’espulsione delle Missionarie della Carità dal Paese.

Presenti a Managua dal 1986, le suore di Madre Teresa hanno dovuto lasciare il Nicaragua perché non avevano rispettato le leggi sul «finanziamento del terrorismo e sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa». Questa almeno era l’accusa rivolta loro dalla «Direzione generale di Registro e controllo delle organizzazioni senza scopo di lucro» del ministero dell’Interno nicaraguense. La stessa motivazione con la quale sono state messe al bando, in questi ultimi anni, oltre cento organizzazioni non governative (Ong).

(Photo by Cesar PEREZ / Nicaraguan Presidency / AFP)

Fuori chi contesta il regime

Il caso dell’espulsione dal Paese delle suore di Madre Teresa che, con una mitezza divenuta addirittura proverbiale, portano la loro assistenza agli ultimi in quasi tutti gli angoli del mondo, anche in contesti di guerra come sono oggi Gaza o l’Ucraina, ha fatto il giro del mondo. Le fotografie e i video che le ritraggono mentre, con le poche cose che avevano deciso di portare con loro, attraversavano a piedi il confine con il Costa Rica, sono tra le immagini simbolo della persecuzione dei cristiani in Nicaragua.

Un’oppressione che negli ultimi anni non ha avuto riguardo per nessuno, neanche per il Papa che si è visto cacciare su due piedi il nunzio apostolico dal Paese.

Monsignor Waldemar Stanislaw Sommertag, vescovo polacco, ambasciatore vaticano a Managua da quattro anni, il 6 marzo del 2022 è stato, infatti, accompagnato all’aeroporto della capitale in tutta fretta. Gli erano state concesse poche ore per raccogliere le sue cose prima di essere espulso.

L’ambasciatore della Santa Sede era arrivato in Nicaragua nel 2018, proprio quando esplodevano le proteste contro il governo di Daniel Ortega e sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo.

La Chiesa già allora era nel mirino per avere sostenuto la popolazione che protestava.

Venivano assaltate le chiese dai paramilitari e minacciati i vescovi. Uno di loro, il vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Managua, monsignor Silvio Josè Baez, nel 2019 era stato costretto a lasciare il Paese. Una sorte che sarebbe toccata a molti, fino a monsignor Rolando Alvarez, il vescovo di Matagalpa che, dopo oltre cinquecento giorni di carcere duro, e con una condanna a 26 anni di detenzione, il 14 gennaio del 2024 è arrivato a Roma, accolto in Vaticano insieme ad altri diciotto ecclesiastici scarcerati. Liberati grazie a una delicata trattativa condotta dalla Santa Sede, ma espulsi. Tutti messi su un aereo con un biglietto di sola andata.

La cacciata del nunzio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Il nunzio Sommertag i primi anni aveva cercato di tenere il dialogo aperto con il Governo consumando anche qualche frizione con la Chiesa locale.

La volontà era di utilizzare gli strumenti diplomatici per pacificare il Paese. E nel 2019 era stato anche mediatore nei colloqui tra Governo e oppositori.

Negli anni, però, la situazione si è fatta via via più difficile. Uno dei motivi è stato certamente la vicinanza espressa dal nunzio ai familiari dei tanti prigionieri, molti dei quali oppositori al regime di Ortega, che gli avevano chiesto di mediare per la loro liberazione. Una vicinanza che non è stata gradita dal Governo.

La situazione è poi precipitata quando il rappresentante della Santa Sede ha utilizzato l’espressione «prigionieri politici». A novembre 2021 è arrivato il primo segnale concreto del «non gradimento» quando è stato tolto al nunzio Sommertag il titolo di «decano» degli ambasciatori. In seguito, la situazione si è sempre più deteriorata fino all’espulsione. Oggi la Nunziatura apostolica è vuota, ed è custodita dal personale dell’ambasciata italiana a Managua.

Minacce, confische, arresti

«Le sofferenze inferte alla Chiesa in Nicaragua sono immani», commenta Alessandro Monteduro, il direttore della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) che sostiene i cristiani nelle terre di persecuzione. «Dall’aprile del 2018 sono stati centinaia gli attacchi nei confronti di religiosi, religiose e fedeli perpetrati dalla polizia fedele al regime di Ortega. Con la parola attacchi si indicano atti come minacce, rapine, profanazioni, arresti arbitrari, espulsioni, confische, divieti di ogni genere».

Tra le mosse per tagliare le gambe alla Chiesa, a metà del 2023, il Governo ha deciso anche il blocco dei suoi conti correnti. Questo ha portato come conseguenza la difficoltà, quando non la vera e propria impossibilità, di pagare qualsiasi cosa, persino le bollette della luce e dell’acqua. Per non parlare di tutte le opere di sostegno alla popolazione in difficoltà, dalle mense agli aiuti in denaro.

«Il Governo da anni è quotidianamente impegnato nel tentativo di mettere a tacere la Chiesa – riferisce ancora Monteduro -. Sacerdoti e vescovi sono stati arrestati, molte Ong sono state cacciate. Ma anche alcune manifestazioni di pietà popolare come la Via Crucis o le processioni sono state impedite. Succede anche che le spie del regime si presentino alle messe per registrare le omelie. I sacerdoti versano in uno stato di reale persecuzione».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

L’università dei Gesuiti

Fanno paura al regime di Managua anche i centri del sapere. La storica Uca, l’Università centroamericana del Nicaragua, ad agosto del 2023 è stata sottoposta a sequestro, e tutti i suoi beni, mobili e immobili, sono stati trasferiti allo Stato nicaraguense.

Sono stati gli stessi Gesuiti, che avevano fondato il prestigioso ateneo nel 1963, a rendere nota, in quei giorni, la notifica da parte del decimo Tribunale penale di Managua, con la quale si accusava l’Uca di essere «un centro di terrorismo che organizza gruppi criminali».

La Provincia centroamericana della Compagnia di Gesù ha obiettato a quelle accuse definendole «totalmente false e infondate» e affermando con coraggio, in un comunicato del 16 agosto del 2023, che il sequestro e la confisca altro non erano che il frutto «di una politica governativa che viola sistematicamente i diritti umani e che sembra essere finalizzata al consolidamento di uno Stato totalitario». Da allora l’Uca ha sospeso le sue attività accademiche.

Scout, Ong e vie crucis

La scure è caduta anche sugli Scout, la cui associazione, a metà febbraio 2024, ha perso la personalità giuridica. Questo a causa, sostiene il Governo di Managua, di irregolarità nella presentazione dei bilanci.

Con gli Scout, in quella stessa data, hanno subito la medesima sorte altri dieci organismi, tra cui la Fraternidad misioneras del fiat de María. Un mese prima, il 16 gennaio, a farne le spese erano state sedici Ong, dieci delle quali cattoliche o evangeliche.

Le organizzazioni non governative soppresse o cacciate sono ormai innumerevoli.

A tutto questo si aggiunge il fatto che anche in questo 2024, come era già accaduto negli anni scorsi, ai cristiani è stato impedito di celebrare la Via Crucis nelle strade durante la Quaresima. I divieti sarebbero stati almeno quattrocento, secondo quanto ha denunciato alla stampa indipendente l’avvocata e attivista Martha Patricia Molina, anche lei, come tanti, da anni in esilio.

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

La delicata posizione della Santa Sede

Gli interventi pubblici del Papa e del Vaticano sulla situazione della Chiesa in Nicaragua sono stati in questi anni centellinati al contagocce. La situazione è troppo pericolosa per i cattolici che vivono nel Paese, per questo la Santa Sede è impegnata in un paziente lavoro diplomatico quanto più possibile lontano dai riflettori dei media.

Quando a gennaio di quest’anno sono arrivati a Roma due vescovi (monsignor Rolando Alvarez e monsignor Isidoro Mora Ortega), quindici sacerdoti e due seminaristi scarcerati, e sono stati presi in carico dal Vaticano, su di loro è scesa una cappa di protezione. L’unica informazione trapelata è che sono ospitati da diverse diocesi italiane, da quella di Roma a quella di Civitavecchia-Tarquinia. Ma c’è il massimo riserbo sulle località o le parrocchie nelle quali alloggiano e continuano, per quanto possibile, il loro ministero.

Il Papa in questo 2024 ha parlato del Nicaragua pochissime volte, e sempre per chiedere il rispetto dei diritti umani e lo spazio per aprire un dialogo.

All’Angelus del primo gennaio ha lanciato un vero e proprio appello: «Seguo con preoccupazione quanto sta avvenendo in Nicaragua, dove vescovi e sacerdoti sono stati privati della libertà. Esprimo ad essi, alle loro famiglie e all’intera Chiesa del Paese la mia vicinanza nella preghiera. Alla preghiera insistente invito pure tutti voi qui presenti e tutto il popolo di Dio: che si cerchi sempre il cammino del dialogo per superare le difficoltà».

In seguito, la situazione del Paese è emersa nelle parole del Pontefice nel discorso dell’8 gennaio al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, «desta ancora preoccupazione la situazione in Nicaragua: una crisi che si protrae nel tempo con dolorose conseguenze per tutta la società nicaraguense, in particolare per la Chiesa cattolica. La Santa Sede non cessa di invitare ad un dialogo diplomatico rispettoso per il bene dei cattolici e dell’intera popolazione».

Scalata la classifica dei Paesi a rischio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Nella classifica dell’organizzazione Open doors, la World watch list che misura i Paesi con il più alto tasso di persecuzione dei cristiani, il Nicaragua nel 2023 si è collocato al trentesimo posto, mostrando un peggioramento della situazione rispetto all’anno precedente.

«L’obiettivo del Governo – spiega la Ong nel suo rapporto presentato lo scorso gennaio – non è semplicemente quello di mettere a tacere la voce dei cristiani, ma, data la loro influenza nel Paese, di ostacolare la loro credibilità e impedire la diffusione del loro messaggio. Va notato che mentre molti cristiani sono in prima linea, c’è una minoranza di credenti che, per paura o convinzione, sceglie di tacere. In alcune comunità ecclesiali ciò sta causando divisioni, che probabilmente stanno facendo il gioco del Governo».

Tra le tante storie colpisce quella del pastore evangelico Wilber Alberto Perez. Prima di essere espulso dal Paese, nel 2021 era stato arrestato e condannato a dodici anni di carcere. L’accusa inizialmente era di avere sollecitato una rivolta solo perché era stato trovato seduto in un luogo dove si erano assembrate molte persone. Dato che lui era riuscito a dimostrare di essersi trovato in quel luogo a riposare in compagnia di amici, è stato allora accusato di traffico di droghe illegali. Detenuto per un po’ di tempo, anche in una cella al buio, infine, gli è stato dato il foglio di via.

Un Paese cristiano

Ma che cosa è successo in questo Paese, a larghissima maggioranza cristiana?

Secondo i dati più recenti, riferiti al 2020, dell’Association of religion data archives, i cristiani in Nicaragua sono il 95% della popolazione. La maggior parte cattolici. Secondo altre stime più prudenti, i cristiani superano comunque l’80 per cento della popolazione. Perché dunque il Governo mette in atto la repressio- ne di un sentimento così diffuso? Perché la distruzione di chiese, la cacciata di religiosi e religiose?

Secondo gli osservatori è proprio la larga adesione alla Chiesa, l’unica che può dare voce a coloro che si sentono oppressi, che intimorisce il regime di Ortega.

Uno dei primi a essere stato esiliato e, dal febbraio 2023, anche privato della cittadinanza nicaraguense, è monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, che vive attualmente tra Miami, negli Stati Uniti, e il Vaticano.

Il 16 novembre del 2023, nel ricevere la «Medaglia per il servizio alla democrazia» dell’istituto statunitense National endowment for democracy, ha dichiarato: «Questa onorificenza non è solo un onore personale, ma una testimonianza della resilienza collettiva del popolo nicaraguense e dell’impegno incrollabile della Chiesa cattolica del Nicaragua nel difendere la libertà, la pace e la giustizia». Parole inequivocabili sulla posizione della Chiesa nel Paese e che dunque mettono paura al regime che ha scelto la strada del non dialogo e della repressione.

Secondo mons. Báez, «nel corso della storia, il popolo del Nicaragua ha dimostrato un coraggio eccezionale di fronte a sfide immense. Abbiamo affrontato il dominio oppressivo di una dittatura brutale e abbiamo assistito alla lenta erosione dei valori democratici, fino alla loro completa scomparsa». In questo contesto, sottolinea il vescovo, la Chiesa cattolica in Nicaragua «è sempre stata un rifugio sicuro per i poveri e gli oppressi e continua a essere un faro di speranza nella società».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Un futuro incerto

«La liberazione ad opera del regime Ortega-Murillo dei diciannove religiosi il 14 gennaio scorso – commenta Alessandro Monteduro, rispondendo sulle prospettive future dei cattolici in Nicaragua – ha consentito all’intera comunità cattolica mondiale di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, non è ancora chiaro se sia stata il frutto di un nuovo clima o una manovra politica.

Certamente ha influito la pressione internazionale che si è intensificata sia sul fronte politico, dagli Stati Uniti all’Alto commissariato dell’Onu per i Diritti umani, sia su quello mediatico.

Tutto ciò avrebbe indotto il regime a trattare con la Santa Sede. È probabile – prosegue Monteduro – che abbia inciso anche la volontà del Governo di non alienarsi completamente la comunità cattolica. Tuttavia, è anche vero che Ortega ha espulso un gruppo di leader caratterizzati da notevole spessore pastorale e ampia visibilità pubblica. Cosa che, agli occhi del regime, rappresenta un’azione di successo nel più ampio tentativo di reprimere e depotenziare la Chiesa.

Al di là dei toni apparentemente rassicuranti del Governo, è pertanto opportuno valutare l’accaduto con molta cautela».

Manuela Tulli

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com