Lo spread, una questione di fiducia

Testo di Francesco Gesusaldi


Il termine è inglese e significa «divario», differenziale tra i titoli di stato di un paese (per esempio, l’Italia) e quelli di un altro (per esempio, la Germania). Minore è la fiducia nel paese che ha emesso quei titoli, più alto sarà il differenziale. È esagerata l’attenzione concessa allo spread? No, perché il suo meccanismo (perverso) porta conseguenze reali per tutti. Cerchiamo di capire come e perché.

Ci sono parole oscure che ci piombano addosso dal niente e hanno il potere di terrorizzarci. Una di queste è «spread», parola che si è affacciata nella nostra vita nel 2011 e da allora non ci ha più abbandonati. Non che prima non esistesse, ma circolava solo in ambienti ristretti e specialistici, per cui non ci coinvolgeva.

Abbiamo sempre visto questo termine associato al debito pubblico e, nel nostro immaginario, si è radicata l’idea che se sale porta tormenta, se si riduce torna il bel tempo.

Ma di cosa parliamo esattamente? Non è semplice dirlo, prima di tutto perché non è un vocabolo costruito per noi, intendo dire noi comuni cittadini che ci alziamo al mattino, andiamo in ufficio o in officina e viviamo di ciò che guadagniamo dal nostro lavoro. No, la parola spread è stata coniata a uso e consumo degli operatori finanziari e per capire di quale messaggio è portatrice, bisogna aprire un po’ di parentesi. La prima di queste riguarda la finanza pubblica.

Prestare allo stato

Il canale normale di finanziamento dei governi è quello fiscale, ma quando per questa via essi non riescono a coprire l’intero fabbisogno, allora ricorrono ai prestiti bancari, se non dispongono di sovranità monetaria.

Per lasciare traccia dei prestiti ricevuti, i governi rilasciano dei certificati, titoli su cui sta scritto l’importo da restituire, la data di scadenza, l’interesse riconosciuto. Si tratta dei famosi titoli del debito pubblico che a seconda delle loro caratteristiche assumono nomi diversi. Nel caso italiano il ventaglio comprende i Buoni ordinari del tesoro (Bot), i Buoni del tesoro poliennali (Btp), i Certificati di credito del tesoro (Cct) e altre varietà ancora. La parola «tesoro» ricorre costantemente perché l’organismo governativo addetto al reperimento dei prestiti è il ministero del Tesoro che oggi si chiama ministero dell’Economia e delle Finanze.

Dal momento che i certificati hanno assunto il ruolo di controfigure dei prestiti, hanno finito per prendersi tutta la scena ed ormai è solo di loro che si parla in tutte le operazioni che chiamano in causa i prestiti richiesti e/o ottenuti dai governi. Ad esempio, le operazioni attivate per chiedere prestiti, sono state battezzate «operazioni di collocamento dei titoli» che in Italia avvengono tramite apposite aste. Di fatto succede che lo stato annuncia di essere alla ricerca di una certa quantità di prestiti e che prediligerà i soggetti che richiedono i tassi di interesse più bassi. Va precisato, tuttavia, che le aste non sono aperte a tutti, ma a pochi soggetti, così detti specialisti in titoli di stato, che possono intervenire per sé o per conto di terzi. All’aprile 2019 erano meno di venti e comprendevano UniCredit, Monte dei Paschi, Deutsche Bank, Barclays Bank, Goldman Sachs.

Questo primo livello di vendita, che vede come protagonista lo stato alla ricerca di prestiti, è definito mercato primario. Ma accanto ad esso si è sviluppato anche un altro circuito di compra vendita che è stato definito mercato secondario dei titoli. Per capirlo bisogna abbandonare certi stereotipi che abbiamo rispetto alla macchina dei crediti. Nel nostro immaginario chi ha prestato dei soldi non ha altro modo per riaverli se non aspettando che il debitore li restituisca alle scadenze prefissate.

Entrano gli speculatori

Nel mondo reale le cose non funzionano così: le somme date in prestito si possono recuperare anzi tempo cercando altri soggetti disposti a diventare creditori al posto proprio.

Nel caso dei titoli di stato l’operazione avviene tramite la vendita dei titoli posseduti. Con questo passaggio di proprietà il creditore dello stato cambia, ma a quest’ultimo importa poco perché le condizioni di rimborso rimangono quelle pattuite in partenza. Del resto lo stato sa che prima di arrivare a scadenza, i suoi titoli possono cambiare di mano infinite volte perché attorno a essi ruotano gli speculatori. Soggetti, cioè, che comprano titoli non perché siano interessati a trattenerli, ma per guadagnare sulle variazioni del loro prezzo. Un po’ come fa lo speculatore di case: non compra abitazioni perché sia senza alloggio, ma perché spera di poterci guadagnare rivendendole qualche tempo dopo a un prezzo più alto.

Valore nominale e valore reale

Il fatto che sul mercato secondario i titoli di stato possano cambiare di prezzo ci costringe a segnalare che il valore dei titoli può essere espresso sotto due forme. Da una parte il valore nominale che è quello scritto sul titolo e che corrisponde all’importo che lo stato restituirà alla scadenza. Dall’altra il valore reale che corrisponde al prezzo di scambio in vigore sul mercato. Prezzo determinato dalle dinamiche della domanda e dell’offerta: alto se il titolo è molto richiesto, basso se poco desiderato.

A quanto ammonti il numero di titoli di stato scambiati quotidianamente forse nessuno lo sa, ma tutti concordano che si tratta di una cifra elevata. Per questo si sono sviluppati degli indicatori per fare capire a colpo d’occhio come si muovono sul mercato i prezzi dei titoli di stato di ogni singola nazione.

Lo spread e lo stato

Uno di questi è lo spread che, a onor del vero, è piuttosto cervellotico perché riflette la mentalità dell’investitore tutta concentrata sul guadagno. Cominciamo col dire che «spread» è una parola inglese che significa divario, differenziale, discrepanza. In effetti lo spread è il frutto di un confronto: indica la differenza di guadagno che si ottiene investendo sul titolo maggiormente richiesto, generalmente il Bund tedesco, e su quello del paese preso in considerazione. Si misura in punti base dove un punto corrisponde allo 0,01 di rendimento. Per cui se l’investimento nel Btp italiano a 10 anni rende il 3% e quello nel Bund tedesco rende l’1%, lo spread del titolo italiano è di 200 punti base. Se sale a 500, come è successo nel 2011, vuol dire che la differenza di rendimento fra i due titoli è al 5%.

Fin qui il ragionamento è piuttosto lineare.

Rendimento e rischio

Le complicazioni arrivano se tentiamo di capire in che modo lo spread dà indicazioni sul prezzo e perché la sua crescita è motivo di preoccupazione per il paese bersaglio. I due temi sono collegati: se capiamo l’uno, capiamo anche l’altro. Concentriamoci sulla relazione fra prezzo e rendimento, partendo dalla nascita del titolo. Su di esso ci sono tre numeri che rimangono tali fino alla morte: la durata, il valore nominale e il tasso di interesse. Se il suo valore nominale è 100 euro, la durata 12 mesi e il tasso di interesse 3%, quel titolo frutta 3 euro. Quei tre euro sono indiscutibili, ma a seconda del prezzo pagato sul mercato secondario assume un diverso valore percentuale. Se, ad esempio, il giorno dopo l’emissione viene ricomprato a 90 euro, il vero tasso d’interesse sarà del 3,3%. Da cui l’analogia: spread in crescita prezzo in discesa. A cui segue una seconda analogia: prezzo in discesa, fiducia ridotta.

In effetti, la ragione per cui certi titoli si deprezzano è legata al fatto che si riduce il numero di coloro che li vogliono. Ragione spesso dovuta alla paura che il paese che ha emesso il titolo non dia sufficienti garanzie di solidità e quindi di restituzione del capitale e dell’interesse. Così lo spread da «indicatore di rendimento» si è trasformato in «indicatore di rischio paese». Esprime la fiducia del mercato sulla capacità dei singoli governi di restituire i prestiti ricevuti: spread alto fiducia bassa, spread basso fiducia alta. Ed è proprio il tema della fiducia che genera preoccupazione nei governi ed ha trasformato lo spread in un ricatto. Preoccupazione non tanto per i titoli in circolazione, quanto per quelli di futura emissione. Il mercato, infatti, aspetta i governi deboli al varco e quando si presentano per collocare titoli di nuova emissione ricorda loro che attraverso la caduta dei prezzi, il mercato li ha giudicati debitori poco affidabili, ossia più rischiosi. Quindi, se vogliono nuovi denari, devono essere disposti a pagare tassi di interesse più alti, perché così esige il mercato: a rischio elevato deve corrispondere compenso elevato. Ed ecco la spirale: spread più alti generano spesa per interessi più alti e quindi debito più alto in una rincorsa alquanto pericolosa. Lo abbiamo sperimentato nel 2012 quando la spesa per interessi crebbe dell’11% a seguito del tracollo dei nostri titoli avvenuto nel 2011.

I riflessi sulle banche

Oltre che per il futuro dei bilanci pubblici, lo spread che cresce mette paura anche per le ricadute sul costo dei mutui a interesse variabile. Ancora una volta la connessione è piuttosto tortuosa e passa attraverso il fatto che i tassi sui mutui risentono del tasso di interesse che le banche applicano sui prestiti che si fanno fra loro.

Anche nei rapporti fra banche vige la regola secondo la quale a minore affidabilità corrispondono interessi più alti.

Succede che, se i titoli del debito pubblico dello stato italiano risultano svalutati, anche la posizione delle banche italiane si fa più debole. Non bisogna dimenticare, infatti, che le banche italiane detengono circa il 26% del debito pubblico italiano e, se questo si svaluta, automaticamente anche il capitale delle banche risulta compromesso. Di conseguenza sono più fragili: quando si presentano presso le altre banche per ottenere esse stesse dei prestiti, pagano il prezzo della loro debolezza tramite il pagamento di interessi più alti che puntualmente poi riversano sui loro clienti.

Dunque, il timore per lo spread è giustificato. Non è invece giustificata la nostra ostinazione a mantenere la testa fra le fauci del mercato.

Francesco Gesualdi


Lo spread Btp-Bund: Quel numero fatidico

Ormai gli italiani si sono abituati a sentire dai telegiornali frasi del tipo: «Oggi lo spread è salito a…», «lo spread è tornato sotto la soglia di…».

Il 30 dicembre del 2011 esso arrivò al picco di 528 e costò la poltrona di primo ministro a Silvio Berlusconi (che da allora parla di «colpo di stato internazionale» ai suoi danni).

Oggi (luglio 2019), dopo una nuova altalena dovuta alle incertezze sull’economia italiana, lo spread si attesta poco sopra i 200 punti base. Ma – ne siamo certi – questo è un numero destinato a subire nuovi scossoni.




Gioie e fatiche di camminare insieme

All’inizio del capitolo sesto degli Atti degli Apostoli la chiesa sembra stabilizzata: ha subito alcune persecuzioni, che però non l’hanno sconvolta troppo; ha già una sua struttura interna, molto minimale, con l’abitudine di mettere in comune i beni perché i poveri possano essere sostenuti. E il numero dei discepoli continua ad aumentare. Sorge però un problema, apparentemente secondario, che invece è serio e, soprattutto, è sintomo di una realtà molto più complicata di quanto non ci verrebbe da immaginare: «Gli ellenisti mormorarono contro gli ebrei perché nella distribuzione quotidiana venivano trascurate le loro vedove» (At 6,1).

Luca vuole presentare la comunità ideale senza però nascondere le tensioni interne e i problemi reali che continueranno a riproporsi nella chiesa di tutti i tempi: ecco, dunque, che ci lascia degli indizi per capire che anche la prima chiesa, pur idealizzata, non presenta solo rose e fiori.

Ebrei ellenisti a Gerusalemme

Luca può dare per scontato che i suoi contemporanei conoscano abbastanza bene una realtà che per noi è invece lontana e difficile da immaginare.

L’impero romano, nella sua espansione, porta una riduzione delle autonomie e una tassazione più rigorosa, ma porta anche una legge prevedibile e affidabile che, pur non uguale per tutti, concede addirittura a dei provinciali di denunciare il proprio procuratore romano, se disonesto, con una certa speranza di vincere la causa. Il tutto sostenuto da ordine pubblico e strade che fanno crescere la ricchezza, soprattutto per i commercianti.

Un discreto numero di ebrei, con conoscenze e agganci in tutto il Mediterraneo, approfitta di questa opportunità.

Angolo sud orientale della spianata delle mosche, conosciuto come l’evangelico pinnacolo del tempio

Diventano relativamente numerose le famiglie ebree i cui i figli (principalmente maschi, ma non solo) si dedicano al commercio a tempo pieno. Spesso questi decidono di sposarsi solo avanti nella vita, dopo aver raggiunto una certa solidità economica e, di solito, con mogli molto più giovani di loro. Tra questi non pochi, più avanti ancora nell’età, lasciano la gestione degli affari ai figli più grandi e si ritirano con mogli e figli più piccoli a recuperare ciò che fino ad allora hanno dovuto tralasciare: per alcuni è il lusso, ma per altri, persino più numerosi, è la dimensione spirituale. E deve essere attraente, per un ebreo del I secolo d.C., in una situazione di serenità economica e politica, ritirarsi a Gerusalemme, nella città santa, accanto al tempio, per essere sepolto subito fuori dalla città, così da essere tra i primi a risorgere all’arrivo del messia. Non è un caso che in quel tempo i prezzi dei sepolcri intorno a Gerusalemme spiccano il volo: la regione, di suo, non è ricca, ma chi arriva da fuori è pieno di soldi che lì rendono ancora di più e che vengono facilmente investiti in case e sepolcri. Ai contemporanei degli evangelisti non sfugge che essere posti, come Gesù, in un sepolcro appena scavato, mai usato, subito fuori dalle mura della città, è un evento da privilegiatissimi: Gesù muore da scarto umano e viene sepolto da re.

Possiamo solo immaginare come venga vissuta questa «invasione» di persone che condividono, sì, la religione, ma che sono ricche, forestiere e si sentono superiori, tra l’altro senza conoscere la lingua del posto. Se a Gerusalemme infatti si parla ancora ebraico o forse aramaico, la maggior parte degli ebrei nuovi immigrati parla soprattutto le lingue delle zone da cui proviene, oltre forse al latino e sicuramente al greco, se questa non è già la lingua madre. «Ellenista» (che è la vecchia traduzione della Bibbia della Cei) significa in effetti «di lingua greca» (come ci dice la nuova versione).

I nuovi immigrati ricchi sono già attempati e si portano dietro mogli più giovani e i figli minori. È normale quindi che muoiano per primi, lasciando delle vedove che dipendono dalla benevolenza del tempio e dei figli cresciuti tra terme, palestre e vita mondana, che si ritrovano in una piccola cittadina dominata dal tempio e dalla carità dei sacerdoti… I nuovi immigrati sono ricchi, certo, ma di una ricchezza che non si rinnova e che è destinata a finire, incastrati in una regione che non permette loro di riprendere ad arricchirsi.

I «diaconi» (At 6,2-6)

Sono questi «ellenisti» a lamentarsi. Il verbo usato, mormoravano, ricorda le lamentele degli ebrei nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Sembra di sentire la reazione degli ebrei di Giudea, che li vedono come degli esiliati, scappati dal mondo esterno cattivo e persecutore, che osano anche lamentarsi della terra promessa nella quale sono stati accolti.

Che le vedove elleniste siano trascurate, peraltro, è scontato. Non sono probabilmente ben viste, non avendo un uomo che le protegga (mancanza già pesante nel mondo greco, ma peggiore in Giudea) e non parlando la lingua del posto, per cui probabilmente non hanno neppure quei contatti che possono offrire loro delle garanzie di assistenza o di tutela.

Può stupirci, tuttavia, che il problema esista anche tra i cristiani. Potevamo pensare che la nuova fede trasformasse tutto (come sogna Paolo di Tarso: Col 3,11), ma evidentemente il legame linguistico e culturale è più importante di quello religioso. Prima di essere cristiane, queste vedove sono elleniste. E restano marginalizzate.

La loro lamentela raggiunge però le orecchie dei Dodici, che ovviano al problema. Come? Facendo attenzione anche a loro? No. Limitandosi a nominare alcuni responsabili che si occupino del problema. La bella notizia, ci verrebbe da dire, è che tra i cristiani le lamentele vengono ascoltate e vi si pone rimedio; la cattiva è che non si pensa di integrare meglio queste vedove ellenistiche, ma di nominare alcuni che si occupino di loro, lasciandole nella loro emarginazione, anche se, almeno, un po’ meno povere.

Non stupisce che i nomi dei sette incaricati di servire (diakoneo è il verbo usato; li chiamiamo «diaconi» ma in realtà negli Atti non sono mai chiamati così) abbiano tutti nomi greci. È vero che il mondo greco era affascinante e anche tra i dodici discepoli galilei di Gesù alcuni avevano nomi greci (Andrea, Filippo), ma qui lo sono tutti e sette.

Stefano (At 6,8-15)

Dunque vengono nominate sette persone perché provvedano a dare cibo a povere vedove straniere?

Più o meno. Due sono quelli di cui si racconti qualcosa di più del nome, uno è Filippo, a cui è dedicato poi il capito 8 degli Atti. L’altro è Stefano, del quale non si dice che distribuisca pane, ma che opera prodigi e segni (At 6,8), esattamente come Gesù (Lc 10,13). Predica ricolmo di Spirito e sapienza, come Gesù (Lc 2,52; 21,15 lo promette per i discepoli). Viene accusato da falsi testimoni di aver bestemmiato contro Mosè e la legge, come Gesù. Viene portato davanti al sinedrio, come Gesù. E si presenta sereno e luminoso come Gesù (At 6,15).

Stefano non solo al prezioso servizio della carità, quindi, ma globalmente al servizio del Vangelo. E si comporta in tutto come il suo modello, Gesù di Nazaret.

Il grande discorso (At 7)

Sepolcro giudaico, detto tomba di Giuseppe d’Arimatea nella basilica del Santo Sepolcro, proprietà dei Copti.

Di fatto Stefano è ricordato dagli Atti degli Apostoli soprattutto per due motivi: il suo martirio (è il primo cristiano a morire per la propria fede) e il suo lunghissimo discorso, tra i più lunghi del libro, nel quale parla quasi solo dell’Antico Testamento. Ricorda che Dio era con Abramo in Mesopotamia (7,2), con Giuseppe in Egitto (7,9), con Mosè sul Sinai (7,30-33), sempre lontano dalla Terra promessa, che i primi patriarchi non avevano ottenuto in eredità (7,5): ossia, Dio non è legato a un luogo. Peraltro, quando gli ebrei si sono legati ad un culto, questo è diventato presto idolatrico (7,41-43: dal vitello d’oro in poi). Insomma, Dio era con Israele quando il tempio non c’era (7,45-46), mentre la costruzione del tempio da parte di Salomone è stata sostanzialmente un fraintendimento della volontà divina (7,48-50), perché Dio non risiede in costruzioni umane: addirittura, «fatto da mano d’uomo» (v. 48) era la definizione degli idoli. E ciò che era accaduto ai tempi antichi, il rifiuto dei veri profeti di Dio, si è rinnovato con Gesù (7,51-53).

Il discorso è il più violento attacco contro il tempio condotto a partire dall’Antico Testamento dall’interno del mondo ebraico. Non ci sarà più niente di simile in tutto il libro degli Atti. E non dimentichiamoci che Pietro e gli altri continuavano a frequentare il tempio (At 3,1). Si potrebbe pensare che il risentimento di Stefano dipendesse dalla sua storia familiare? Può darsi, ma intanto le argomentazioni sono scritturistiche, l’inutilità del tempio è dimostrata a partire dall’Antico Testamento, ed è un’inutilità che non era saltata fino ad allora agli occhi dei cristiani.

Il primo martire (At 7,54-60)

Chi ascolta Stefano capisce la portata del suo discorso. E reagisce come forse è inevitabile che accada. Stefano ha appena affermato che il tempio, «il luogo che Dio si è scelto dove porre la sua dimora tra gli uomini» (Dt 12,5; Ez 37,27), è considerato inutile da Dio. Per i Giudei è una blasfemia, punibile con la pena di morte, sostenuta per di più con argomenti biblici, quindi è ancora più incisiva e offensiva. Infatti, Stefano non viene giustiziato in modo regolare, benché venga ascoltato davanti al sinedrio, ma viene linciato.

E muore come il suo Signore, affidando il proprio spirito a Gesù (At 7,59) come Gesù lo aveva affidato al Padre (Lc 23,46) e perdonando chi lo uccide (Lc 23,34; At 7,60), vedendo Gesù già pronto ad accoglierlo in paradiso accanto al Padre (At 7,56).

Assiste alla scena un Saulo (At 7,58) che viene citato per la prima volta ma diventerà importantissimo negli Atti: come fa spesso, Luca si prepara con intelligenza gli sviluppi successivi.

Ieri come oggi

È umano idealizzare gli inizi, pensare alla prima generazione cristiana come a un tempo paradisiaco. Luca stesso, che scrive gli Atti degli Apostoli, ci invita a guardare a questa comunità come un modello.

Ma questo modello non è perfetto. La divisione tra ellenisti ed ebrei, che vigeva a Gerusalemme, si ritrova anche tra i cristiani. Quando gli ellenisti si lamentano, gli ebrei non pensano anche a loro, ma incaricano alcuni al posto loro. E non sembra che nessuno si sia mosso, tra i «giudei» (ossia, tra i cristiani che erano originari della Palestina), per difendere Stefano o gli ellenisti. I quali, da parte loro, fanno sorgere il sospetto di essere mossi all’odio per il tempio più dalla loro vicenda personale che da ragioni teologiche, anche se poi elaborano anche queste. Se fossimo stati contemporanei di Stefano, probabilmente lo avremmo definito attaccabrighe ed esagerato.

Ma lo Spirito si muove anche dentro a queste tensioni umanissime, Dio scrive dritto anche su righe storte, la chiesa cresce anche grazie al sangue di Stefano, il quale potrà anche sembrare eccessivo, ma paga con la propria vita, e il suo martirio si fa a immagine della morte di Gesù, perché sia più chiaro che con il suo Signore risorgerà.

Non tutto nella nostra chiesa è perfetto, ma questo vale anche per la prima generazione cristiana. E lo Spirito si muove anche nelle nostre imperfezioni.

Angelo Fracchia
(7. continua)




Obesi e denutriti, il paradosso alimentare

Testo di Rosanna Novara Topino


Nel mondo ci sono 821 milioni di persone denutrite e 672 milioni di obesi. Sia gli uni che gli altri sono in aumento. Cerchiamo di analizzare le molteplici cause di questo paradosso alimentare.

Ai giorni nostri stiamo assistendo a un vero e proprio paradosso, per quanto riguarda l’accesso al cibo a livello mondiale. Secondo il rapporto Food security and nutrition in the world (Lo stato della sicurezza alimentare e nutrizione nel mondo) del 2018, realizzato congiuntamente da cinque agenzie Onu – la Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), il World Food Programme (Programma alimentare mondiale, Pam), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms / Who) e il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad) – attualmente vi sono al mondo 821 milioni di persone denutrite e 672 milioni di obesi.

Fame zero: obiettivo fallito

Per quanto riguarda la fame nel mondo, non solo siamo ancora lontani dall’obiettivo che si erano prefissati gli stati di eliminare la fame entro il 2030 (il Sustainable development goal of zero hunger, l’obiettivo dell’annullamento della fame con uno sviluppo sostenibile), ma negli ultimi tre anni si è assistito a un trend in crescita, con una persona su nove al mondo che soffre la fame, soprattutto in Africa, Asia e America Latina, praticamente un ritorno alla situazione di dieci anni fa. Stanno nuovamente aumentando il rischio di insufficienza di peso alla nascita, il ritardo nella crescita e l’anemia nelle donne gravide, rispetto al minimo storico di 783,7 milioni di persone denutrite nel 2014.

Le cause di questa tendenza al rialzo del numero di persone denutrite (vedi anche l’articolo seguente a pag. 68, ndr) sono molteplici. Ai gravi conflitti che interessano diversi paesi si è aggiunta una notevole variabilità climatica, spesso con fenomeni estremi, che compromettono la produzione delle risorse alimentari, quindi la loro disponibilità continuativa.

Le alterazioni climatiche causano non solo la riduzione della quantità degli alimenti, ma anche della qualità dei nutrienti e della loro diversità.

Altre cause importanti sono il crescente fenomeno dell’urbanizzazione (nel 2008 il numero delle persone che vivono in città ha superato quello degli abitanti delle zone rurali); la volatilità dei prezzi degli alimenti a seguito dell’aumento della speculazione finanziaria, che ha vincolato il prezzo del cibo ad altre commodity (prodotti primari o materie prime, che rappresentano fondamentali oggetti di scambio internazionale perché sono fungibili, cioè sono gli stessi indipendentemente da chi li produce), ad esempio alle quotazioni del petrolio. Questo è accaduto, ad esempio, tra il 2010 e il 2011 quando vi fu un rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari di quasi il 20% che ridusse alla fame altri 44 milioni di persone, grazie alle operazioni finanziarie dei trader e degli investitori che considerano il cibo semplicemente come un qualunque oggetto di indicizzazione e di speculazione finanziaria.

La diffusione delle tossine

Altra causa dell’aumento della fame nel mondo è stata una maggiore diffusione e contaminazione degli alimenti da parte di aflatossine o altre micotossine: tossine prodotte da muffe o funghi, di cui le specie più comuni che colpiscono i vegetali sono l’Aspergillus, soprattutto nel mais, il Penicillium, una muffa che contamina i cereali e i legumi in fase di raccolta e di conservazione, il Fusarium, una muffa, che contamina le piante e i semi durante la coltivazione, nonché i prodotti alimentari derivati.

Sicuramente i cereali, il mais in primis, sono i vegetali più colpiti. Seguono i legumi, le arachidi, le noci, le mandorle, il cacao e tutti i loro derivati, nonché le spezie. Possono risultare contaminati anche latte e carne, se i mangimi per animali a base di mais sono stati precedentemente contaminati. Va ricordato che l’aflatossina B1 è un cancerogeno del gruppo 1, cioè il più pericoloso e colpisce soprattutto il fegato.

Senza verdure, senza frutta

La malnutrizione è spesso causata anche dalla dieta povera di nutrienti derivati dai diversi tipi di verdure. Purtroppo molto spesso gli enti finanziatori, i donatori e i governi si concentrano sulla produzione e fornitura di calorie, piuttosto che di nutrienti. Basti pensare che, da ormai quasi tre decenni, nell’Africa subsahariana e in Asia la produzione di alimenti si è concentrata soprattutto sulle commodity come mais, frumento e riso e molto meno sui prodotti autoctoni come miglio, sorgo e ortaggi. Per buona parte dei poveri, le verdure rappresentano spesso un bene di lusso e la ricerca agricola internazionale impiega molti più fondi negli studi per il miglioramento della produzione dei cereali che di ortaggi e frutta. Questo significa non essere lungimiranti, perché la produzione di frutta e di ortaggi è il modo più sostenibile ed economico per porre rimedio alla malnutrizione – dovuta a carenze di micronutrienti, come la vitamina A, ferro e iodio -, che colpisce circa un miliardo di persone in tutto il mondo. Tali carenze comportano uno sviluppo mentale e fisico inadeguati, causano cecità e anemia soprattutto nell’infanzia e inoltre una riduzione delle prestazioni lavorative e scolastiche, che si ripercuotono sull’economia di comunità povere e già gravate da altri problemi sanitari. La denutrizione e la malnutrizione infatti hanno ripercussioni sul sistema immunitario, che risulta meno efficiente nella difesa dalle malattie, le quali si presentano perciò di gravità e durata superiori rispetto a quanto succede nelle persone alimentate bene. Si è osservato che ridotti consumi di verdure sono correlati a tassi di mortalità più alti per bambini sotto i 5 anni di età. Attualmente sono circa 151 milioni al mondo, circa il 22%, i bambini sotto i 5 anni con un ritardo nella crescita. In Niger ad esempio, le persone hanno a disposizione giornalmente circa 100 grammi di verdura, mentre la dose giornaliera di frutta e verdura raccomandata è di circa 600-800 grammi e questo paese è tra quelli con le più alte percentuali di malnutrizione e di mortalità infantile al mondo.

Attualmente oltre due terzi del suolo terrestre sono rappresentati da terreni coltivati per lo più a monocolture. Questo comporta la perdita di biodiversità agricola, nonché l’impossibilità per i piccoli agricoltori di accedere ai mercati. Per risolvere il problema della fame, tra le altre cose, è perciò indispensabile tornare ad un sistema agricolo salutare, sostenibile e praticabile, dove trovano spazio i piccoli agricoltori, che devono potere accedere a mercati dove le loro merci siano valutate equamente, in modo da ricavare un reddito dal proprio lavoro.

È poi fondamentale imparare (e insegnare) a cucinare gli ortaggi in modo da preservarne le proprietà nutritive. Spesso infatti le verdure vengono cotte troppo a lungo, perdendo così gran parte dei nutrienti, quindi per migliorare il loro valore nutrizionale è necessario abbreviare i tempi di cottura.

Per migliorare la produzione agricola sostenibile sono indispensabili servizi di divulgazione agricola nelle comunità rurali, gestiti da persone realmente competenti. Attualmente nell’Africa subsahariana i divulgatori agricoli, che un tempo fornivano informazioni su nuove varietà di sementi, sulle tecnologie per l’irrigazione e sulle condizioni atmosferiche, sono stati sostituiti da commercianti di fertilizzanti e di pesticidi, spesso con scarsissime conoscenze e formazione. Un aiuto in tal senso potrebbe venire dalla tecnologia informatica. Esistono già servizi su internet come «FrontlineSms», che offrono informazioni in tempo reale e permettono agli agricoltori di rimanere in contatto tra loro e con potenziali clienti. Inoltre, poiché in Africa l’80% di coloro che coltivano la terra sono donne, che solitamente hanno maggiori difficoltà di accesso alle informazioni tramite passaparola, internet rappresenta un modo per ottenere le stesse informazioni, che di solito sono una prerogativa maschile. Laddove l’agricoltura è praticata maggiormente da donne, che quasi mai sono proprietarie del terreno, un miglioramento nella legislazione per l’accesso femminile alla proprietà, all’istruzione e al credito bancario, potrebbe rappresentare un ulteriore passo avanti per un’agricoltura di qualità e sostenibile.

Geografia dell’obesità

L’altra faccia di un’alimentazione inadeguata e di un’infrastruttura agricola carente è rappresentata dal dilagare a livello mondiale dell’obesità che colpisce 672 milioni di persone nel mondo. Secondo uno studio condotto da Majid Ezzati dell’Imperial College di Londra e da oltre mille ricercatori della Ncd Risk Factor Collaboration sulle variazioni dell’indice di massa corporea (Bmi), cioè del rapporto tra altezza e peso di oltre 112 milioni di persone di 200 paesi tra il 1985 e il 2017, sta cambiando la geografia globale dell’obesità. La tendenza all’aumento di peso è presente quasi ovunque e questo fenomeno risulta più accentuato nelle aree rurali dei paesi poveri o a medio reddito. Quando l’indice di massa corporea è nel range 19-24, la persona ha un peso nella norma, tra 25-30 è in sovrappeso, oltre 30 è obesa. Lo studio ha dimostrato che nell’intervallo di tempo considerato, le donne dei paesi presi in esame hanno acquisito 2 punti di Bmi e gli uomini 2,2 in media, corrispondenti a un aumento ponderale di circa 5-6 chilogrammi. In particolare gli aumenti ponderali sono stati più marcati per le donne nelle aree rurali in Egitto e in Honduras (con 5 punti in più), per gli uomini nell’isola caraibica di S. Lucia, in Barhein, Perù, Cina, Repubblica Dominicana e Stati Uniti (con oltre 3,1 punti in più). I motivi di tale aumento soprattutto nelle zone rurali possono ascriversi a modesti aumenti di reddito, ad una agricoltura più meccanizzata, ad un maggiore uso dell’auto. Se però consideriamo l’aumento di peso della popolazione mondiale e facciamo un confronto tra molti dei cibi consumati attualmente e quelli consumati prima del secondo conflitto mondiale, ci rendiamo conto che a farla da padrone sono quantità smodate di cereali prodotti e trasformati, soprattutto mais e soia.

A tutto mais

Il granoturco o mais, grazie alla sua enorme capacità di adattamento ad ogni tipo di terreno e alla sua altrettanto enorme versatilità di trasformazione, è presente in tutto ciò che mangiamo o quasi. Esso viene usato come mangime per animali d’allevamento: bovini, ovini, suini, pollame, ma anche salmoni e pesci gatto. Queste specie sarebbero erbivore o tutt’al più onnivore le prime quattro e carnivore le ultime due, se considerate in natura, ma che vengono riprogrammate tutte come vegetariane dalla moderna zootecnia. Troviamo poi il mais in ogni cibo confezionato. Se diamo un’occhiata agli ingredienti, spesso vi troviamo componenti come amido modificato, lecitina, mono-, di-, trigliceridi, coloranti che danno un gradevole aspetto dorato, acido citrico: sono tutti derivati del mais. E che dire delle bevande gassate o di quelle non gassate al gusto di frutta, dove è onnipresente l’Hfcs (High Fructose Corn Syrup), uno sciroppo dolcificante a base di fruttosio ricavato dal mais, che fece la sua apparizione nel 1980? O della birra, il cui alcool deriva dalla fermentazione del glucosio sempre proveniente dalla stessa pianta? Del resto uno dei primi impieghi della montagna di mais a disposizione, negli anni ’20 del secolo scorso, fu proprio quello di distillarlo e di trasformarlo in whisky nella valle dell’Ohio. All’epoca il mais dette origine a una massa di alcolizzati, oggi ci fa diventare obesi.

E perché c’è tutto questo mais (e soia) da impiegare ovunque? Perché il prezzo delle materie agricole tende a scendere con il tempo, specialmente se aumenta la produzione nei campi o la lavorazione. C’è quindi una tendenza da parte degli agricoltori a seminare sempre più e a occupare nuovi terreni, per potere avere lo stesso guadagno. Questo spiega l’espansione delle monocolture.

Rosanna Novara Topino
(fine terza parte – continua)


Glossario essenziale

Aflatossine: sono micotossine prodotte da due specie di Aspergillus, un fungo tipico delle zone con clima caldo-umido. Si tratta di sostanze genotossiche e tra le più cancerogene. Esse possono contaminare arachidi, frutta a guscio, granoturco, riso, fichi ed altra frutta secca, spezie, oli vegetali grezzi e semi di cacao. Esistono diversi tipi di aflatossine. Le più diffuse sono la B1 prodotta dall’Aspergillus flavus e dall’Aspergillus parasiticus e la M1, che deriva dal metabolismo della B1 e può contaminare il latte, se gli animali produttori si sono nutriti di mangimi contaminati dalla B1.

Micotossine: sono composti tossici prodotti da diversi tipi di funghi appartenenti solitamente ai generi Aspergillus, Penicilium e Fusarium. Esse possono entrare nella filiera alimentare a partire da colture, principalmente di cereali, destinate alla produzione di alimenti e di mangimi.

Denutrizione: consiste essenzialmente in una carenza di calorie e di proteine, nonché di vitamine e di minerali. È un tipo di malnutrizione.

Malnutrizione: è uno squilibrio tra i nutrienti necessari per un organismo e quelli che effettivamente riceve. Essa comprende sia l’ipernutrizione (eccesso di calorie o di qualsiasi nutriente), sia la denutrizione.

Obesità: sindrome caratterizzata da un aumento patologico del peso corporeo, dovuto ad un’eccessiva formazione di adipe (grasso) nel tessuto sottocutaneo. Il grasso corporeo può aumentare sia per l’aumento delle dimensioni degli adipociti (cellule adipose), sia per l’aumento del loro numero. I trigliceridi costituiscono circa il 65% del tessuto adiposo ed il 90% della massa adipocitaria. Quasi tutti i casi di obesità sono dovuti, da un lato alla predisposizione genetica, dall’altro ad uno scorretto stile di vita, che consiste in uno squilibrio tra apporto calorico e consumo energetico.


Nutrienti contenuti nei sette gruppi alimentari

Gruppo 1

  • carni, pesci, uova: proteine di elevato valore biologico, ferro, alcune vitamine del gruppo B.

Gruppo 2

  • latte e derivati: proteine di elevato valore biologico, ferro, alcune vitamine del gruppo B.

Gruppo 3

  • cereali, patate: carboidrati, proteine di medio valore biologico, alcune vitamine del gruppo B.

Gruppo 4

  • legumi secchi: proteine di medio valore biologico, ferro, alcune vitamine del gruppo B.

Gruppo 5

  • grassi da condimento (oli di oliva, di semi, burro, margarina, lardo, strutto): grassi, acidi grassi anche essenziali (acido linoleico e linolenico), vitamine liposolubili (A,E).

Gruppo 6

  • ortaggi e frutta  di colore giallo arancione o verde scuro (carote, albicocche, cachi, melone, zucca, peperoni, spinaci, biete, broccoletti, cicoria, indivia, lattuga, radicchio verde, ecc.): vitamina A, minerali, fibre.

Gruppo 7

  • ortaggi tipo crucifere (cime di rapa, broccoli, cavolfiore, cavolo, cavolini di Bruxelles, cavolo cappuccio), patate novelle, peperoni, radicchio, spinaci, agrumi, fragole, frutti di bosco, ananas, kiwi, ecc.: vitamina C, minerali, fibre.

R.N.T.




Stiamo buttando via troppo cibo

Testo di Chiara Giovetti


Secondo uno studio della Fao ogni anno un terzo del cibo prodotto a livello mondiale finisce nell’immondizia o si rovina prima di essere consumato, danneggiato da trasporti inadeguati o da pratiche agricole non efficienti. Nel contempo, un abitante su dieci del pianeta soffre di malnutrizione cronica, mentre due miliardi di persone sono sovrappeso e, di queste, 650 milioni sono obese.

Secondo i dati della Fao ogni anno un miliardo e trecento milioni di tonnellate di cibo, pari a un terzo di quello prodotto, finisce sprecato@.

Detto così può sembrare solo l’ennesimo numero del quale si fatica a farsi un’idea concreta. Ma proviamo a metterla in questo modo: immaginiamo dei container standard da 20 piedi e supponiamo di caricarli con 28 tonnellate di cibo ciascuno; immaginiamo poi di metterli sulle più grandi navi portacontainer attualmente esistenti, capaci di trasportare 21 mila container ciascuna. Per caricare 1,3 miliardi di tonnellate ci servirebbero 2.200 navi: buttare quella quantità di cibo equivale ad affondarne ogni giorno sei. O lasciare che 127 mila camion che trasportano uno di questi container svuotino la merce in una discarica.

Così fa più impressione, ma non è finita qua. Lo studio della Fao è del 2011, quindi non recentissimo. Per questo nel 2018 un gruppo statunitense di consulenti – il Boston Consulting Group – ha tentato di attualizzarlo e, secondo le proiezioni che ha ottenuto@, lo spreco è aumentato: nel 2015 siamo arrivati a 1,6 miliardi di tonnellate, per una perdita economica pari a 1.200 miliardi di dollari. Una misura del denaro bruciato? Equivale a poco meno del Pil della Spagna, o a una trentina di manovre finanziarie dell’Italia.

Il Boston Consulting Group prevede anche che nel 2030 si arriverà a più di 2 miliardi di tonnellate di cibo perso o sprecato, pari a 1.500 miliardi di dollari.

Date queste premesse, il raggiungimento del sotto-obiettivo di sviluppo sostenibile 12.3 stabilito dalle Nazioni Unite («Entro il 2030, dimezzare l’ammontare pro-capite globale dei rifiuti alimentari e ridurre le perdite di cibo lungo le catene di produzione e fornitura, comprese le perdite post-raccolto»@) appare decisamente lontano.

Altro aspetto da considerare è quello delle conseguenze sull’ambiente: la produzione di questo cibo che poi non si utilizza è responsabile dell’8% delle emissioni di gas serra a livello mondiale: lo spreco alimentare emette gas serra come Russia e Giappone messi insieme@.

Come si butta cibo nei paesi in via di sviluppo

Sempre secondo i dati Fao@, i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo dissipano all’incirca le stesse quantità di cibo: rispettivamente 670 e 630 milioni di tonnellate. Tuttavia, lo spreco pro capite dei consumatori di Europa e Nord America è compreso tra i 95 e i 115 kg all’anno, mentre i consumatori dell’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e del sud-est asiatico buttano annualmente via fra i 6 e gli 11 chilogrammi. Viceversa, nei paesi in via di sviluppo le perdite avvengono prevalentemente non a livello del consumatore bensì nelle fasi di produzione e di trasformazione.

Lo studio di un caso pubblicato dalla Fao sulla produzione di manioca, pomodori e patate in Camerun illustra@ nel dettaglio quali problemi intervengono nelle varie fasi dalla raccolta alla commercializzazione. Nel caso del garri di manioca, cioè della manioca trasformata in farina, ad esempio, la perdita complessiva è pari al 41,6% rispetto alla produzione iniziale, con il 30% della perdita che avviene in fase di pre-raccolta o raccolta, il 5,6% durante la pelatura, il 3,1% nel momento in cui la si grattugia e il 2,9% nella fase di stoccaggio.

Una tecnica utilizzata per conservare la manioca, spiega lo studio, è ritardare la raccolta finché non vi è sufficiente domanda del prodotto. La radice tuberizzata può rimanere in terra fino a 18 mesi dopo la maturazione, ma se non raccolta nei tempi corretti diventa rapidamente legnosa. Inoltre perde amido e valore nutritivo ed è più esposta agli attacchi di insetti e roditori e alle malattie.

Pelatura e grattatura inducono un’ulteriore dispersione del prodotto perché sono quasi sempre effettuate manualmente, asportando più radice di quella che sarebbe necessario eliminare o eliminando pezzi troppo piccoli per essere grattugiati a mano. Altre perdite derivano dall’imballaggio del garri in sacchi di juta o di polipropilene non nuovi e non adeguatamente lavati che si rompono o che, ostruiti da altri residui, non lasciano passare abbastanza aria per garantire l’eliminazione dell’acqua durante la fermentazione e portano così il prodotto a marcire o a inumidirsi perdendo valore di mercato. Il resto, in fase di commercializzazione, lo fanno i tempi lunghi del trasporto dovuti alla stagione delle piogge o al dissesto delle strade, l’inadeguatezza degli imballaggi, la mancanza di refrigerazione, l’esposizione a sole, vento e polvere durante la vendita nei mercati.

Come si butta cibo nei paesi industrializzati

Nei paesi industrializzati, continua il rapporto Fao@, i motivi della perdita sono legati ad altri fattori. In primo luogo, la necessità per i produttori di cibo di rispettare gli accordi presi per contratto con i rivenditori spinge a produrre più del necessario per assicurare la fornitura anche in caso di imprevisti – eventi naturali estremi, epidemie – che danneggino la produzione.

Vi sono poi gli standard molto rigidi legati all’aspetto dei prodotti: il rapporto cita una ricerca che lo scrittore e storico inglese Tristram Stuart ha realizzato per scrivere il suo libro del 2009 dal titolo Waste – Understanding the global food scandal. Stuart ha visitato un’azienda agricola britannica, la M.H. Poskitt Carrots nello Yorkshire, una delle principali fornitrici della catena di supermercati inglese Asda, legata al colosso statunitense della grande distribuzione Walmart. Nel corso della visita sono state mostrate all’autore grandi quantità di carote che, in quanto leggermente curve, venivano scartate e destinate al consumo animale. Nel settore del confezionamento le carote passavano poi attraverso dei sensori fotografici che rilevavano eventuali difetti estetici: le carote che non erano di un arancio brillante o che avevano macchie o che erano rotte venivano gettate in un contenitore di mangime per bestiame. Asda, riferiva lo staff dell’azienda, richiede che le carote siano dritte così che i consumatori possano pelarle con un solo, semplice gesto lineare. In questo modo il 25-30% delle carote veniva scartato, la metà per motivi estetici.

Altri motivi di perdita di cibo sono legati al processo produttivo industriale stesso, che rendono più sconveniente scartare cibo che utilizzarlo o riutilizzarlo. Come nel caso, citato dal rapporto, di un’azienda olandese produttrice di patatine fritte: tagliare le patate per renderle della forma e dimensione desiderata produce pezzi tagliati in modo irregolare che sono ancora del tutto commestibili ma che è più conveniente per l’azienda buttare che tentare di recuperare.

Ancora, il rapporto cita l’abitudine dei rivenditori dei paesi industrializzati a riempire gli scaffali per fornire al consumatore, che se la aspetta, la più ampia scelta possibile. In questo modo, però, i prodotti più lontani dalla scadenza vengono preferiti a quelli che scadono prima, benché questi ultimi siano ancora sicuri e commestibili.

Infine, pratiche come le offerte 3×2 nei supermercati o le formule all you can eat nei ristoranti, conclude il rapporto, invogliano i clienti ad acquistare e consumare anche ciò di cui non hanno necessità.

Immagini da “La Terza Settimana” a Torino

Che cosa si butta di più

A livello mondiale, frutta e verdura, insieme a radici e tuberi, hanno i più alti tassi di spreco di qualsiasi cibo, con il 45% di prodotto buttato. Spariscono anche un terzo dei cereali e un quinto dei latticini, della carne e dei semi e legumi. Finisce sprecato un prodotto ittico su tre e l’8% dei pesci catturati viene ributtato a mare morto, moribondo o pesantemente danneggiato.

Nell’infografica di Save the Food@, l’iniziativa per la riduzione della perdita e dello spreco di cibo, la Fao propone esempi utilizzando un solo tipo di prodotto per categoria – mele per frutta e verdura, pasta per cereali, vacche per carne, e così via – per dare di quello che buttiamo una misura un po’ più visualizzabile rispetto alle percentuali. Ogni anno eliminiamo cibo equivalente a 3.700 miliardi di mele, un miliardo di sacchi di patate, 75 milioni di mucche, 763 miliardi di confezioni di pasta – cento per ogni abitante del pianeta – 574 miliardi di uova, 3 miliardi di salmoni atlantici e 11 mila piscine olimpioniche di olive.

L’Africa subsahariana perde poco meno di un terzo della carne, di cui la metà nella fase dell’allevamento, mentre l’Europa ne spreca un quinto prevalentemente concentrato nel momento del consumo. Quanto ai cereali, il Nord America e l’Oceania ne buttano oltre un terzo – circa il 25% nella sola fase di consumo e poco più del 10% nelle altre fasi – mentre l’Asia meridionale e il sudest asiatico ne disperdono un quinto soprattutto nella produzione e nella raccolta.

Che cosa si sta facendo

La risposta breve è: non abbastanza. Dal punto di vista legislativo diversi Paesi europei – fra cui Italia, con la legge 166/16 Francia e Regno Unito – hanno adottato misure per far fronte al fenomeno@.

Vi sono poi numerose iniziative, alcune delle quali si avvalgono della tecnologia e della vasta diffusione dei dispositivi mobili@.

L’app Too good to go (Troppo buono per essere buttato), lanciata tre anni fa da due allora venticinquenni londinesi, permette di verificare quali negozi o ristoranti nella propria zona hanno cibo ancora buono ma che non sarà venduto nella giornata, di pagarlo e di passare presso l’esercizio a ritirare la cosiddetta Magic Box, cioè la scatola contenente quanto si è acquistato. Altre app (o siti) permettono poi di scambiarsi con gli utenti il cibo che si ha in casa e che non si è in grado di consumare, di donare alimenti a associazioni caritatevoli, di leggere consigli su conservazione dei cibi e ricette per il riuso di ciò che rischiamo di non consumare, di visionare le offerte di prodotti alimentari vicini alla scadenza nei supermercati della zona, di compilare liste della spesa “intelligenti” per evitare di acquistare ciò che non ci serve, e così via. In Italia vi sono realtà come il Banco Alimentare, Terza Settimana e Equoevento@, solo per citarne tre fra tante, e non mancano le iniziative di sensibilizzazione.

Tuttavia, commenta Shalini Unnikrishnan del Boston Consulting Group sul Guardian@, la risposta globale è ancora frammentata, limitata e in definitiva insufficiente rispetto alla vastità del fenomeno.

Chiara Giovetti


Cibo perso:

è il cibo che va perduto nelle fasi della filiera
produttiva che riguardano la produzione, il dopo raccolta e la trasformazione.

Cibo sprecato:

è il cibo che va perduto nel punto finale della
catena alimentare, quella della vendita (negozi
e ristoranti) e del consumo ed è legata al comportamento di rivenditori e consumatori.

Fonte: Fao, Global Food Losses and Food Waste, 2011@

Su MC:




I Perdenti 45. Il comandante José Gervasio Artigas

Testo di don Mario Bandera


José Gervasio Artigas nacque a Montevideo in Uruguay il 19 giugno del 1764, a quel tempo territorio giuridicamente soggetto al Vice Reame spagnolo del Perù, e concluse la sua esistenza terrena a Quinta Ybyray località nei pressi di Asunción del Paraguay, il 23 settembre del 1850.

Fu un militare rioplatense e uno dei più importanti statisti nelle lotte per l’indipendenza dei paesi che si affacciano sul Rio de la Plata. In Uruguay è considerato il padre della patria, così come in Argentina è ricordato con stima e affetto per il contributo dato a quella nazione nella lotta per staccarsi dalla Spagna.

I suoi contemporanei lo onorarono con il prestigioso appellativo di «Protettore dei popoli liberi».

La sua formazione culturale e spirituale la ricevette presso il convento dei francescani di Montevideo. In gioventù fu tra i membri fondatori del corpo dei Blandengues, milizia armata che aveva il compito di difendere Montevideo. Successivamente, per non essere obbligato ad accettare la tutela spagnola sulla sua città, abbandonò con 1.500 famiglie (circa 16 mila persone) il territorio dell’Uruguay rifugiandosi nel Nord dell’Argentina, realizzando così un esodo impressionate che colpì l’opinione pubblica del tempo, sia in America Latina come in Europa.

Nel 1815 riprese la lotta per sottrarre la sua terra ai tentativi di annessione portati avanti questa volta da una coalizione militare tra portoghesi e brasiliani. Purtroppo, dopo diversi tentativi, i loro sforzi ebbero successo e nel 1820 in una battaglia campale le truppe fedeli ad Artigas vennero sconfitte, e lui, come Comandante Generale venne esiliato in Paraguay. Nel 1856 – a titolo postumo – il governo uruguayano lo dichiarò «Fundador de la nacionalidad uruguaya oriental».

Monumento a José Gervasio Artigas en el bosque, ciudad de La Plata.

Comandante Artigas se non sbaglio la tua famiglia era una delle più rinomate della città.
I tuoi avi furono tra i primi coloni europei a insediarsi in forma stabile a Montevideo.

Non ti sbagli affatto, la mia gente era emigrata dalla penisola iberica con il proposito di acquistare e coltivare la terra nel continente americano visto che in Spagna ciò era abbastanza difficile. In Uruguay i miei avi trovarono le condizioni favorevoli per realizzare i loro desideri, ciò che a loro stava a cuore.

E con il passare degli anni la tua famiglia andò conquistando rispetto e autorevolezza tra la popolazione autoctona.

Mio padre come colono desideroso di acquisire terreni fertili (purtroppo tutti da dissodare, bonificare e coltivare) si mise subito all’opera, coadiuvato in questo da tutta la nostra famiglia, anche dai miei nonni, dando così una testimonianza di gente volenterosa e caparbia, con tanta voglia di lavorare.

Tu però preferivi svolgere altre mansioni.

Osservando i gauchos, i mandriani delle praterie che a cavallo riuscivano a dominare mandrie bovine ed ovine molto consistenti, incominciai anch’io a domare cavalli, a usare il lazo e le bolas e, inevitabilmente, le armi.

Iniziasti così una nuova attività che ti realizzava pienamente sul piano umano e sociale.

Cavalcare per la pampa, scambiare bestiame con altri proprietari terrieri, comprare dei puledri per poi passare la frontiera e venderli in Brasile, dove erano molto richiesti, era per me e per i miei compagni motivo di orgoglio e soddisfazione oltre che fonte non indifferente di guadagno.

In quel periodo venisti a contatto con i Blandengues, volontari creoli che sopraintendevano il mercato del bestiame e tramite loro avesti contatti con la tribù dei Charruas, l’etnia indigena che occupava da tempo immemorabile la sponda orientale del Rio de la Plata.

Grazie a loro andai a vivere per un certo tempo in un villaggio charrua dove negli anni trovai una compagna che mi diede anche un figlio che chiamai Manuel, anche se nella tribù tutti lo chiamavano Caciquillo.

Nel 1797, approfittando di una amnistia generale emessa dal Re di Spagna per coloro che nelle colonie non si erano macchiati di delitti di sangue, entrasti a far parte del corpo dei Blandengues.

Subito mi spedirono insieme ad altri compagni a sorvegliare e controllare la vasta frontiera con il Brasile.

Lì incontrasti una persona che ebbe un’influenza significativa sulla tua vita.

In quella terra di confine incontrai un afro-montevideano che era stato catturato dai portoghesi e ridotto in schiavitù. Ebbi pena per quel giovane e decisi di comprarlo per ridargli la libertà.

Da allora Joaquin Lenzina, più noto come el negro Ansina, grato per averlo tirato fuori dalla schiavitù, mi accompagnò per il resto della vita, diventando il mio miglior amico e nell’esilio paraguaiano biografo ufficiale della mia esistenza.

Intanto che voi in America Latina eravate impegnati nelle vostre faccende, Napoleone Bonaparte in Europa conquistava una nazione dietro l’altra, tra cui la Spagna, facendo inoltre prigioniero Re Ferdinando VII.

Quando si venne a conoscenza dei fatti che trasformavano radicalmente la situazione sociale e politica in Europa, le colonie iberiche, non avendo più una Corona Reale a cui far riferimento, si sentirono svincolate dalla sottomissione alla monarchia spagnola e i vari movimenti indipendentisti – sull’esempio degli Stati Uniti d’America – costituitesi nelle varie capitali latinoamericane promuovevano e alimentavano l’idea che era giunta anche per loro il momento tanto atteso dell’indipendenza.

Purtroppo le truppe spagnole di stanza nei paesi dell’America Latina, la vedevano in altro modo. Essi dicevano: «Adesso il nostro Re è prigioniero di Napoleone, ma quando sarà rilasciato tutto dovrà tornare come prima».

Ovviamente le popolazioni delle nascenti nazioni latinoamericane non accettavano questo modo di procedere per cui inevitabilmente sorsero dei conflitti tra le truppe spagnole e i patrioti dei diversi paesi dell’America del Sud.

Tu, intravedendo il caos che sarebbe sorto dopo la sconfitta della Spagna tra le diverse città desiderose di avere un ruolo da protagonista nella storia latinoamericana, elaborasti l’idea federalista come collante per tenere insieme le varie province latinoamericane.

La mia idea di federalismo era molto semplice: un governo centrale forte a cui doveva essere affidata la gestione economico finanziaria per ogni paese, nonché la difesa del territorio di fronte a un attacco esterno. Per il resto ogni realtà locale (Perù, Venezuela, Argentina, ecc.) potevano imbastire la loro vita sociale e politica secondo il volere dei propri cittadini.

Tutto ciò non fu possibile realizzarlo a causa dell’opposizione, neanche tanto nascosta, che fece la potenza imperiale di allora, cioè l’Inghilterra, che piano piano andava sostituendosi alla Spagna sulla scena internazionale.

Infatti una delle conseguenze di questa nuova fase fu il mio esilio in Paraguay voluto sia dalla Spagna che dall’Inghilterra. Con il mio fedele amico e servitore Ansina, fui confinato in una località vicina ad Asunciòn, in una forma che possiamo paragonare agli arresti domiciliari, in quella situazione passai oltre trent’anni.

Ma intanto le mie idee facevano sempre più presa tra le varie popolazioni sudamericane fino a diventare patrimonio culturale e universale di tutte le nazioni che allora premevano per trovare il loro posto sul nuovo scenario internazionale.

Nel 1814 organizzasti a Buenos Aires la Unión de los Pueblos Libres (Unione dei popoli liberi). Durante quella assemblea tutti i delegati presenti all’unanimità ti onorarono con il titolo di Protettore dei popoli liberi. Un bel riconoscimento per le tue idee e per il tuo modo di conquistare le nuove nazionalità ai principi che propugnavi da sempre di uguaglianza e di libertà.

Fu un momento molto gratificante per me in quanto stava a significare che tutta la mia vita era stata spesa per la libertà delle colonie spagnole che si affacciavano sul Rio de la Plata, per la dignità dei popoli indigeni e per l’uguaglianza di tutti gli emigranti che cominciavano a riversarsi in Uruguay e nelle province argentine.

Però le nuove autorità che si erano sostituite ai vecchi padroni spagnoli, pur dichiarandoti personaggio prestigioso ed eroe nazionale di tutta la storia latinoamericana, strinsero un accordo per mantenerti confinato ad Asunciòn nel Paraguay, impedendoti così di avere un ruolo di dirigente politico nella nuova società che tu avevi così generosamente aiutato a nascere e svilupparsi.

Ho sempre cercato di realizzare fino in fondo il compito che la Provvidenza mi aveva affidato, per cui anche il mio esilio forzato in Paraguay l’ho vissuto come parte importante della mia vita.

E per come si sono evolute le cose nei paesi latinoamericani, dove nonostante tutto è rimasta traccia del mio disegno federalista, penso che tutta la mia azione abbia inciso in maniera positiva sullo sviluppo successivo di quelle nazioni.

Confinato nella remota e inospitale Villa di San Isidro Labrador Curuguaty, visse gli ultimi anni della sua vita coltivando la terra. Fu in questa città che Artigas, nel 1825, sposò Clara Gómez Alonso, sua compagna fino alla morte. Da questa unione nacque nel 1827 Juan Simeón, l’ultimo della sua numerosa prole, che divenne tenente colonnello in Paraguay e confidente del maresciallo Francisco Solano López.

Artigas seppe conquistarsi la fiducia degli indios guaraní, che nella loro lingua lo chiamavano Caraì Marangatù (padre dei poveri). Dopo trent’anni di esilio in Paraguay, morì a 86 anni. Il 23 settembre 1855, i suoi resti mortali furono rimpatriati in Uruguay con una solenne cerimonia, e furono collocati in Plaza Indipendencia a Montevideo, in un imponente mausoleo meta ancora oggi di numerosi visitatori.

Don Mario Bandera




La Polveriera


«I poveri hanno bisogno delle nostre mani per essere risollevati, dei nostri cuori per sentire di nuovo il calore dell’affetto, della nostra presenza per superare la solitudine. Hanno bisogno di amore, semplicemente» (messaggio di papa Francesco per la III giornata mondiale dei poveri).

Quanto dà fastidio questo papa che, un giorno sì e l’altro pure, continua a parlare dei poveri, non accontentandosi mai, neppure di quello che la chiesa, le parrocchie, i missionari fanno per loro. Ne ha parlato anche nel bel mezzo di questa caldissima estate, nel suo messaggio per la celebrazione (il prossimo 17 novembre), della giornata che lui stesso ha inventato per tenere accesa nel popolo cristiano l’attenzione verso tutti i poveri del mondo. Diventano, così, graffi impietosi le parole di papa Francesco che, avendo messo i poveri – davvero – al centro, non può tollerare che siano trattati con retorica e sopportati con fastidio, giudicati parassiti, scartati e sfruttati. Perché i poveri non sono numeri, ma persone a cui andare incontro. E, citando don Mazzolari, aggiunge: «il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera, se le dai fuoco, il mondo salta!».

Occuparsi dei poveri, attendere con passione alla loro promozione non è allora un optional esterno all’annuncio del vangelo; al contrario, «è un servizio che è autentica evangelizzazione». E anche ai tanti volontari, che il papa ringrazia per la loro dedizione, chiede di non accontentarsi di venire incontro alle prime necessità materiali dei bisognosi, ma di «scoprire la bontà che si nasconde nel loro cuore, facendosi attenti alla loro cultura e ai loro modi di esprimersi, per poter iniziare un vero dialogo fraterno».

Le parole, appassionate e dure, del messaggio arrivano dritte al cuore di noi missionari che, seguendo l’invito di Giuseppe Allamano, nostro fondatore, siamo mandati tra le genti a portare la consolazione del Signore, che si attua «accompagnando i poveri non per qualche momento carico di entusiasmo, ma con un impegno che continua nel tempo». È questa la nostra vocazione ad vitam, che ci spinge ogni giorno a camminare con loro; ed è proprio in questo camminare insieme che la «Chiesa scopre di essere un popolo, sparso tra tante nazioni, con la vocazione di non far sentire nessuno straniero o escluso, perché tutti coinvolge in un comune cammino di salvezza». A noi missionari, allora, le parole di papa Francesco non danno fastidio; semmai ricordano, una volta di più, la bellezza e le esigenze senza sconti della nostra vocazione, che viviamo nella scia del nostro fondatore.

padre Giacomo Mazzotti

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Tra diritto e non diritto

Testo di Chiara Brivio


Immigrazione, sovranismo, razzismo, opinione pubblica, rapporto tra cristiani e politica. In un recente convegno presso la fraternità di Romena, il giornalista de «La Stampa» ha offerto un’analisi di alcuni dei temi più caldi della nostra Italia e del mondo odierno. Con il suo tono «apocalittico» tenta di rompere il silenzio e l’apparente indifferenza dell’opinione pubblica sulla deriva del discorso politico nei riguardi della dignità delle persone.

Nostro malgrado viviamo in un tempo nel quale espressioni come «migranti», «porti chiusi», «diritto di emigrare» (presunto o negato), «accoglienza», sono parti integranti della narrazione della nostra realtà quotidiana, non solo italiana, ma mondiale.

Lo stesso papa Francesco è tornato su questo tema firmando il 13 giugno scorso La speranza dei poveri non sarà mai delusa, il messaggio per la III Giornata mondiale dei poveri che si celebrerà il 17 novembre.

Nel messaggio, il pontefice evidenzia ancora una volta come «si possono costruire tanti muri e sbarrare gli ingressi per illudersi di sentirsi sicuri con le proprie ricchezze a danno di quanti si lasciano fuori. Non sarà così per sempre. Il loro grido (dei poveri, ndr) aumenta e abbraccia la terra intera. Come scriveva don Primo Mazzolari: “Il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera. Se le dai fuoco, il mondo salta”».

Far saltare il mondo dei poveri

È stato proprio questo «far saltare il mondo» dei poveri e dei migranti il fulcro di un intervento del giornalista Domenico Quirico a un recente convegno della fraternità di Romena1 sul tema dell’accoglienza.

L’inviato de «La Stampa» – noto per i suoi reportage e articoli dalle zone più calde del mondo, rapito e tenuto prigioniero in Siria per cinque mesi nel 2013 -, a partire da uno dei suoi ultimi libri, Esodo. Storia del nuovo millennio, edito da Neri Pozza, ha proposto una riflessione a 360 gradi su alcune delle questioni più pressanti del nostro tempo: immigrazione, sovranismo, razzismo, rapporto tra giornalismo e opinione pubblica.

L’Esodo

Esodo è il racconto del viaggio che il giornalista ha intrapreso con i migranti sulle rotte verso l’Europa – quella africana, quella balcanica e quella dell’enclave spagnola di Melilla in Marocco -, che l’ha portato ad attraversare il Mediterraneo su un barcone, a rischiare di naufragare, e a essere salvato dall’intervento della guardia costiera italiana.

Parte del racconto è anche l’approdo a Lampedusa, dove il fatto di possedere il passaporto italiano ha significato uno spartiacque tra lui (che è potuto tornare alla propria identità e alla propria vita), e gli altri: «Il migrante è la personalità più straordinaria del XXI secolo – ha detto Quirico a Romena -. Non ha nulla, non ha passato, non ha presente, non ha futuro. Ha fatto saltare i confini nel secolo dei confini».

Il movimento di persone, il flusso enorme che nel continente africano è in moto da generazioni, nel libro del giornalista è descritto anche dalle voci dei compagni di strada: «La migrazione è una religione per noi, siamo tutti migranti, la nostra vita è la migrazione», afferma Nyang, maliano che conta i morti del suo villaggio.

«La speranza è inestirpabile. Perché mai i migranti non dovrebbero fuggire?», scrive Quirico, ponendo una domanda che sembra il rovescio dell’«aiutiamoli a casa loro». Fuggono perché a casa loro la differenza tra essere un «uomo» ed essere un «non uomo» a volte passa dal possesso di un kalashnikov, perché «casa loro» sono paesi nei quali «un passaporto è un’utopia», sono villaggi distrutti dalla guerra o sconvolti dal cambiamento climatico. Fuggono perché non vogliono più subire torture o vederle subite da altri, o essere costretti a farle subire.

Quel che resta è il diritto

«Che cos’è che distingue l’Occidente?», si è domandato Quirico nel suo intervento. «L’invenzione del diritto», è stata la sua risposta: l’idea che l’uomo nasca con dei diritti, come quelli fondamentali alla vita, alla libertà, alla ricerca della felicità. «Ma la ricerca della felicità comprende tutti i paesi, e si può ricercare muovendosi. La gente viene qui per sfuggire alla morte e per cercare la libertà e la felicità».

Ed è precisamente questa libertà di movimento, di superamento delle barriere e dei confini, che rende il migrante «un problema». Egli «ha fatto un gesto rivoluzionario: ha preso un barcone ed è arrivato qui», ha detto il giornalista, ma questo gesto rivoluzionario, che afferma il diritto dell’umanità alla vita e alla dignità, allo stesso tempo è usato dal potere come pretesto per affermare l’inesistenza del diritto, per sperimentare la creazione di una società «illiberale». Anche nelle nostre democrazie occidentali.

I migranti diventano il capro espiatorio, il nemico che non c’è ma che tuttavia deve continuare a esistere per motivare l’erosione dei diritti. Alla fine, ha affermato Quirico in tono apocalittico, «ci troveremo in una società illiberale dove se staremo buoni ci verranno dati dei diritti», proprio come accade già oggi nei paesi dai quali fugge la gran parte dei migranti. «L’unica cosa rimasta su cui bisogna battersi è il diritto. Il mondo oggi è diviso tra diritto e non diritto», tra una sparizione forzata e un processo giusto ed equo sulla base del diritto.

Il fallimento del giornalismo

La disamina di Quirico si è incentrata anche sul ruolo del giornalismo come strumento di comunicazione e di «commozione», e sulla sua (in)capacità di smuovere le coscienze e formare l’opinione pubblica.

«Mi muovo per raccontare la sofferenza altrui – ha affermato -, la sofferenza umana è il materiale su cui costruisco la mia narrazione». Tuttavia, ha continuato, oggi il meccanismo della narrazione della commozione sembra non sortire più alcun effetto: «In Siria ci sono stati 500mila morti in 8 anni, e molti di noi sono morti per scrivere 70 righe per raccontare la vita dei siriani. Risultato? Zero», ha concluso Quirico, non senza un pizzico di rammarico: «I razzisti sono al 50% oggi, nel 2011 erano al 3%. Un fallimento totale».

Una visione della realtà forse troppo negativa, quella del giornalista. Tanto negativa da evocare gli anni ‘30, decennio nel quale opinioni pubbliche sopite e intorpidite, composte da «gente per bene», decisero, «pur di non avere guai», di seguire una minoranza estremista facendola diventare maggioranza. Attenzione quindi a sottovalutare il problema. Attenzione a pensare che i razzismi, i sovranismi e i nazionalismi siano appannaggio di una minoranza. Bisogna mettersi in allerta sullo stato dell’opinione pubblica di oggi a livello globale, e comprendere meglio che «il nostro compito di giornalisti è fare in modo che nessuno possa dire “non sapevo”»: non possiamo non sapere dell’esistenza delle carceri libiche, delle orribili torture che subiscono i migranti, dei naufragi, della disperazione.

Cristiani e politica

A conclusione del suo intervento, Quirico si è, infine, posto una domanda sul rapporto tra i cristiani e il clima politico degli ultimi mesi e anni. Come può un cristiano definirsi tale se non difendendo i valori della carità e dell’accoglienza? Davanti a uno scioccante 30% di cattolici che ha deciso di votare Lega alle recenti elezioni europee, per Quirico la risposta è netta: «O sei cristiano o non lo sei. Chi è razzista non può essere cristiano!».

Note:

1- Sulla fraternità di Romena si veda: Massimo Orlandi, Un porto di terra, MC gennaio 2017.




Atti 6. Situazione economica dei credenti a Gerusalemme

Testo di Angelo Fracchia


Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli abbiamo già parlato (nel numero di maggio) dei «sommari lucani», che presentano in sintesi il quadro della chiesa degli inizi e, probabilmente ancora di più, della chiesa ideale sognata da Luca. In uno di questi sommari, si parlava della comunione dei beni: «Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,34-35).

Si trattava di una condivisione probabilmente necessaria, soprattutto a Gerusalemme. Nel tempo della prima chiesa, infatti, la città dipendeva economicamente dal tempio. La Giudea è una regione povera, composta da colline scoscese e rocciose dove piove poco e dove quindi è difficile coltivare, né sono presenti particolari tesori minerari nel sottosuolo. Nei tempi più antichi la pastorizia aveva costituito un ripiego interessante per sopravvivere, ma l’economia del primo secolo dopo Cristo era più avanzata e ricca e non si reggeva più sui pastori.

Per una serie di fortunate o intelligenti prese di posizione politiche gli ebrei avevano acquisito in quei decenni, sotto Roma, alcuni privilegi, tra cui il diritto per ogni ebreo maschio adulto di inviare ogni anno al tempio di Gerusalemme una parte delle proprie tasse. Era mezzo siclo d’argento all’anno, ossia circa 25 euro odierni, che possono non sembrare molto, ma moltiplicati per il numero di ebrei maschi adulti che nell’impero pare arrivasse intorno ai due milioni, costituivano un’entrata importante per il tempio, che si aggiungeva alle offerte di coloro che a Gerusalemme arrivavano in pellegrinaggio. È vero che con quei soldi si manteneva una classe dirigente (sacerdoti e leviti) e le strutture di un tempio davvero imponente, ma avanzavano ancora molte ricchezze, che venivano in parte ridistribuite sotto forma di aiuto ai bisognosi. Dovevano essere molti quelli che si facevano mantenere da questa forma di carità: il motore dell’economia di Gerusalemme era il tempio.

Anche i credenti in Cristo inizialmente lo frequentavano (At 2,46; 3,1-10, ecc.), ma forse erano già rimasti un po’ ai margini di quella ridistribuzione. È ciò che sembra emergere anche dal bisogno che sorgerà, qualche anno dopo, di fare una colletta per sostenere i poveri (cristiani) di Gerusalemme (At 24,17; 1 Cor 16,1-2; 2 Cor 8-9; Rom 15,25-28). Ma questo in seguito. Per il momento, ci informa Luca, «nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva» (At 4,32) e tutto era condiviso.

L’esempio di Barnaba (At 4,36-37)

Segue subito un esempio: Giuseppe, detto Barnaba, uno dei discepoli, un levita originario di Cipro, vende un campo e ne mette tutto il ricavato ai piedi degli apostoli.

Chi ha già letto il libro sa che Barnaba ritornerà più avanti, e sarà una figura importantissima: non di quelli che fanno parlare molto di sé, ma uno di coloro che, in silenzio, lavorano a recuperare gli esclusi, a garantire che tutto funzioni, a rendere umilmente la vita più semplice per tutti. Abbiamo un’ulteriore conferma del fatto che Luca sa narrare bene proprio da questo suo introdurre quasi per caso un personaggio che in seguito diventerà rilevante.

Quando però guardiamo all’episodio narrato con un poco di malizia, non possiamo non porci delle domande. Ma se tutti condividevano tutto ciò che avevano, perché citare Barnaba? Uno che, a ben guardare, vende solo un campo, ossia nulla di particolarmente rilevante.

L’esempio negativo di Anania e Saffira (At 5,1-11)

La domanda si fa più forte quando leggiamo l’episodio che segue. C’è anche una coppia, Anania e sua moglie Saffira, che vende un campo e ne pone il ricavato ai piedi degli apostoli. Solo che Anania, a differenza di Barnaba, non deposita tutto ciò che ha incassato. D’accordo con la moglie, consegna solo una parte, attento però a dare l’immagine di uno che dà tutto. Pietro smaschera la sua furbizia e rimprovera Anania, accusandolo di avere il cuore pieno di Satana e di aver voluto mentire allo Spirito Santo. E gli fa anche notare che non c’era nessun bisogno di imbrogliare, perché non c’era nessun obbligo di dare tutto e «l’importo della vendita non era forse a tua disposizione?» (At 5,4). L’osservazione è importante, perché ci fa capire che la condivisione di beni non era una legge vincolante, bensì una buona pratica che molti, se non tutti, si assumevano. Pietro, chiaramente, non rimprovera Anania per essersi tenuto qualcosa, ma per aver sostenuto di aver dato tutto; non è l’avidità o il bisogno che Pietro censura, ma la menzogna. «Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio». E subito Anania crolla a terra, morto.

Senza neanche avvisare la moglie, dei giovani raccolgono il suo corpo e lo vanno a seppellire.

Arriva poi la moglie Saffira, che Pietro sottopone a un rapido interrogatorio su ciò che già sa. La moglie conferma la versione fraudolenta di Anania e muore immediatamente anche lei, prontamente sepolta accanto al marito.

Non è la prima volta che Luca ci informa del «timore» diffuso in tutta la Chiesa e all’intorno (At 2,43), ma stavolta ci sembra che il rispetto religioso rischi di essere sostituito dalla paura. Da quando il Dio buono e amante della vita si è trasformato in un giudice così implacabile da essere pronto a dispensare la pena di morte?

Leggere tra le righe

Chi commenta la Bibbia prova spesso a rendere attuale ciò che è stato scritto quasi duemila anni fa, per evitare che testi che possono nutrire la fede e la vita sembrino semplicemente stranezze incomprensibili. Nel fare ciò, si corre spesso il rischio di volerla troppo addomesticare. È nota la battuta sui biblisti che sosterrebbero: «La Bibbia dice bianco, ma voleva dire nero», come se quello che l’autore voleva dire non sia ricavabile da ciò che c’è scritto. Ecco perché invito il lettore a seguirmi in un percorso appena più intricato, per poter valutare in prima persona gli indizi che Luca distribuisce per leggere con correttezza il suo racconto.

L’autore degli Atti degli Apostoli, lo abbiamo già fatto notare e si può facilmente verificare, è bravo, sa scrivere e sa modulare molto bene i suoi personaggi. Eppure qui sembra quasi perdersi, trasformarsi in un autore superficiale e grezzo nel presentare situazioni e persone: troppi particolari sembrano forzati, strani. È tutto normale? Per capire, ricordiamoci che anche noi, quando facciamo uno scherzo, assumiamo spesso un tono di voce e una modalità di comportamento che dovrebbero suggerire a chi ci ascolta che si tratta, appunto, di uno scherzo. Magari chi ci conosce sa che siamo persone corrette e oneste, eppure ci mettiamo a difendere, scherzando, l’evasione delle tasse: i nostri amici capiscono subito che non siamo seri, ma anche chi ci conosce meno potrebbe intuire la burla dal modo con cui parliamo. Chi scrive, a volte si comporta in modo simile. L’autore raffinato si trasforma d’un tratto, cambia stile, come se fosse un narratore di favolette, di leggende. Sarà da intendere alla lettera? O bisogna capire quale senso dare al racconto? Probabilmente non vuole prenderci in giro, ma sta solo usando un paradosso. Allora, che cosa vuole comunicare? Quando un narratore cambia in modo tanto plateale il proprio stile, suggerisce al lettore che deve sforzarsi di ragionarci sopra.

Proviamo ad analizzare insieme alcuni elementi, partendo da quello più evidente: abbiamo qui due esempi, uno positivo e l’altro negativo, di dono dei propri beni. L’uno, Barnaba, vende un campo e dona tutto, e la sua vita sarà fruttuosa e lunga; gli altri, Anania e Saffira, si limitano a fingere la generosità, e muoiono. Forse non forziamo la mano a Luca se intendiamo che voglia dirci che chi inganna la comunità per avidità, rinuncia a vivere e uccide se stesso. D’altronde, sarebbe strano un Dio che dona la vita, che ha fatto risuscitare Gesù, e poi distribuisce pene di morte con tanta facilità. Pietro, dopo la sua domanda, non dichiara che moriranno, non dà una sentenza di morte: è l’inganno stesso a essere mortale.

Una seconda osservazione importante che Pietro stesso ci fa notare, è che a essere ingannati non sono degli uomini ma Dio. Questa annotazione, che potrebbe giustificare la morte della coppia soltanto per dei lettori un po’ superficiali, ci riporta però a un’osservazione che ritorna spesso negli Atti degli Apostoli: la Chiesa non è una comunità soltanto umana, Dio si identifica pienamente in lei (il passo in cui sarà affermato questo principio nel modo più scenografico sarà alla conversione di Paolo: «Io sono Gesù, che tu perseguiti», benché, a voler essere precisi, Paolo perseguitasse non Gesù ma i cristiani. At 9,5 esprime con forza il principio che «toccare i cristiani è toccare Gesù»).

Proprio nel modo tanto schematico e paradossale di presentare questo episodio, Luca vuole probabilmente suggerire al lettore che quello che narra forse non è accaduto davvero, che è più una parabola che un fatto storico, ma serve a far intuire che quanto sta crescendo nella chiesa non è uno scherzo. Non è indifferente fare sul serio o no, è una questione di vita o di morte. Infatti, ad Anania e Saffira non è rimproverata l’avidità, ma l’inganno. Si può non essere totalmente generosi, ma non si può prendere in giro Dio. E a non prendere sul serio Dio, si rinuncia a vivere.

Per la chiesa di oggi

Ancora una volta, quello che sembra un racconto antico scritto in modo antico per gente antica si svela utile e «parlante» anche per noi oggi.

Anche oggi si tratta di scegliere da che parte stare. La strada di Dio è quella della condivisione generosa. Ma se Dio può sopportare i tentennamenti, le incertezze e le paure, non tollera la falsità e l’inganno. Se ci pensiamo, è coerente con un Dio che vuole non essere servito, ma incontrato e amato. Anche noi, nelle nostre relazioni personali, capiamo le titubanze, i timori e i passi falsi, ma l’inganno intenzionale uccide la relazione.

E poi, anche oggi siamo chiamati a scoprire, a credere, che nelle persone che vediamo, nella comunità che incontriamo, è presente Dio. E Dio, però, non parla dalle nubi, in modo misterioso e magico, ma si esprime tramite persone umane. Nella Chiesa è davvero presente Dio, totalmente coinvolto, ma per vederlo devo guardare agli esseri umani. Forse non è un caso che in questo passo, per la prima volta, leggiamo negli Atti degli Apostoli la parola «Chiesa» (At 5,11).

Ma insieme, Luca ci fa intuire che questa splendida comunità non è esente da colpe, dalla presenza del male al proprio interno, da falsità e ipocrisie. L’inquinamento della purezza non è una decadenza dei nostri tempi, è sempre accaduto. La Chiesa è fatta di uomini, ne porta tutta la ricchezza e il limite. Luca comincia a condurci sulla strada che ci farà scoprire come è davvero nella Chiesa che incontro Dio, senza per questo dedurne che la Chiesa sia perfetta. Tutt’altro. Nello stesso tempo, l’imperfezione della Chiesa non toglie che lì dentro davvero si incontri Dio. Allora come oggi.

Angelo Fracchia
(6. continua)




A proposito di Brexit: a che punto siamo?

Testo di Francesco Gesualdi


Nel Regno Unito ci sono oltre 9 milioni di stranieri (600mila italiani) su un totale di 66. La guerra degli indipendentisti dell’Ukip contro l’Unione europea è iniziata da questo dato. Una guerra vinta con il referendum che, nel giugno 2016, ha sancito l’uscita del paese dall’Europa: la Brexit. Da allora tutto si è però bloccato. Nel frattempo, ci sono state le nuove elezioni europee del 26 maggio.

Nel Regno Unito il movimento indipendentista fa la sua comparsa nel 1993 con la nascita dell’Ukip, United Kingdom Independent Party. A fondarlo sono alcuni fuoriusciti del partito conservatore che, oltre a non sopportare l’idea di dover sottostare alle decisioni prese da una realtà sovrannazionale, sono anche convinti che le regole europee siano dannose per gli interessi inglesi. Ci vogliono però venti anni per arrivare al successo elettorale: alle europee del 2014 l’Ukip raggiunge il 27,5% dei voti aggiudicandosi il titolo di primo partito inglese (sotto la guida di Nigel Farage, poi uscito per fondare, a poche settimane dal voto del 26 maggio scorso, il «Brexit Party», ndr). E se ottiene un così alto consenso non è per merito delle argomentazioni usate in ambito giuridico ed economico ma per la capacità di far presa sulle ansie del popolo inglese. Gli strateghi del marketing elettorale sanno che non è parlando alla testa delle persone che si ottengono voti, ma rivolgendosi al loro stomaco, e nel 2014 hanno buon gioco a battere questa strada considerato il clima di insicurezza che si respira da un capo all’altro d’Europa.

La colpa è degli stranieri

Benché siano già passati sei anni dal collasso dei grandi gruppi bancari, l’onda della crisi non si è ancora esaurita e ovunque si contano i danni, anche in Inghilterra. La disoccupazione, che nel 2007 era al 5,3%, ha raggiunto l’8,1% nel 2011 e nel 2013 era ancora al 7,6%. Intanto gli studi sulla povertà raccontano di una situazione sociale ancor più preoccupante. Un rapporto, pubblicato nel 2014 dal Poverty and Social Exclusion in collaborazione con The Open University, certifica che in trenta anni la percentuale di famiglie al di sotto dello standard di vita minimo è passata dal 14 al 33%. Più in specifico: 18 milioni di persone non  possono permettersi un’abitazione adeguata, 12 milioni sono troppo povere per avviare qualsiasi attività economica, una su tre non riesce a scaldare a sufficienza la propria casa, 4 milioni, fra adulti e bambini, non mangiano in maniera appropriata. Ma Ukip sa a chi attribuire la responsabilità delle sofferenze inglesi: la colpa è degli stranieri che possono insediarsi con troppa facilità in Inghilterra. Una colpa che dimostra con l’aiuto dei numeri: fra il 2004 e il 2017 la presenza di stranieri (sia quelli nati all’estero che quelli nati in Inghilterra da genitori stranieri) è quasi raddoppiata passando da 5,3 a 9,4 milioni. A livello nazionale rappresentano il 14% della popolazione con punte che in certe aree arrivano al 50%. E se in passato ai porti inglesi si presentavano prevalentemente africani ed asiatici, ora arrivano soprattutto cittadini dell’Unione europea che non hanno bisogno di visti per oltrepassare la frontiera inglese. L’Office of National Statistics conferma: in Inghilterra la comunità straniera più numerosa è quella polacca con quasi un milione di persone. Seconda è quella rumena con mezzo milione. Quella indiana, che caratterizzava l’immigrazione del secolo scorso, ormai arriva terza con poco più di 300mila persone. Per Ukip ce n’è abbastanza per concludere che i mali degli inglesi vengono dall’appartenenza all’Unione europea e che solo abbandonando l’Unione potranno essere risolti.

Euroscettici (da sempre)

L’Ukip non è la sola a pensarla così. In Inghilterra l’adesione all’Unione europea è sempre stata una questione controversa che ha generato divisioni in ogni partito. E ogni volta è stato un referendum a decidere quale scelta compiere. La prima volta è successo nel 1975 per decidere se confermare o meno l’adesione dell’Inghilterra al Mercato comune avvenuta due anni prima. Poi è successo di nuovo nel 1998 per chiedere al popolo inglese se voleva adottare la moneta unica. E se nel primo caso gli europeisti avevano vinto due a uno, nel secondo sono stati gli euroscettici a vincere con l’84% dei voti. Una linea sostenuta principalmente dai conservatori a dimostrazione di quanto questo partito sia sempre stato tentennante rispetto all’Europa. Con la nascita dell’Ukip gran parte del dissenso è migrato, ma una parte è rimasto nel partito conservatore ed è montato fino al punto che, nel gennaio 2013, David Cameron, segretario del partito, ha promesso che, se la sua formazione politica avesse ottenuto la maggioranza parlamentare alle elezioni politiche del 2015, avrebbe indetto un referendum per chiedere al popolo inglese se voleva o meno rimanere in Europa. Promessa temeraria perché Cameron era pro Europa, ma sperava che, con alcune  rinegoziazioni, il popolo si sarebbe espresso per il sì e ciò gli avrebbe permesso di mettere finalmente a tacere il dissenso interno. Il referendum del 23 giugno 2016 è stato però vinto da chi voleva lasciare – ecco la famosa «Brexit» – con un vantaggio dell’1,9% dei voti. Cameron ha abbandonato ogni carica e al suo posto è diventata primo ministro Theresa May, il cui compito principale è stato di gestire il divorzio con l’Unione europea. Compito però non semplice, perché, al di là della retorica legata al problema migratorio, i problemi veri sono quelli economici, sapendo che ogni settore presenta le sue peculiarità e quindi le sue esigenze talvolta più propense a mantenere legami con l’Unione europea, talvolta a reciderli del tutto.

Le imprese e la Ue

In linea di massima le imprese britanniche hanno un rapporto di amore-odio con l’Unione europea. Di amore perché è un mercato protetto, quindi sicuro. Di odio perché costringe a sottostare a regole non sempre gradite e perché fa correre il rischio di perdere mercati di altri paesi dal momento che l’adesione all’Unione europea non permette di stipulare accordi basati su regole diverse da quelle fissate dall’Unione. Come dire: non permette di cogliere le occasioni di nuovi mercati che si possono aprire in un mondo in continua trasformazione. Non a caso, appena si è saputo che aveva vinto la Brexit, gli Stati Uniti si sono precipitati a proporre al paese di stipulare un accordo di libero scambio (confermato da Trump nella visita londinese dello scorso giugno).

Per dimostrare come l’Ue sia una palla al piede dell’industria britannica, piuttosto che un’opportunità, l’Institute of Economic Affairs (Iea), un centro studi di dichiarata fede antieuropeista, cita come esempio il «Reach», il regolamento adottato nel 2006 che impone all’industria chimica di applicare misure molto severe per garantire che le sostanze prodotte, importate, vendute e utilizzate nell’Unione, siano sicure. «I test e le procedure imposte dal regolamento sono un aggravio di spese per le imprese, riducono i margini di guadagno e mettono le piccole imprese fuori mercato» lamenta l’Iea in un opuscolo intitolato «Plan A+». E conclude: «Il risultato è che alcune imprese hanno trasferito la produzione all’estero e hanno depennato l’Unione europea dal proprio mercato, danneggiando non solo se stesse, ma la stessa Ue che corre il rischio di aumenti di prezzi a causa di una minor concorrenza dovuta alla riduzione di aziende chimiche presenti nel suo mercato». Di regole considerate soffocanti per le imprese, l’Iea ne cita anche altre, come quelle sul rispetto dei dati personali, sul funzionamento dei porti o sugli obblighi di trasparenza imposte alle imprese finanziarie. Di qui il monito al governo inglese di stare molto attento alle nuove relazioni che imbastirà con l’Unione europea.

Nigel Farage / foto Gage Skidmore-2018

L’articolo 50 e il nodo del confine irlandese

Allo stato attuale la Gran Bretagna deve affrontare due nodi. Il primo, più urgente, è come impedire che l’uscita dall’Unione blocchi l’economia inglese considerato che è totalmente costruita su un rapporto di interscambio con essa. Il secondo, di più largo respiro, come costruire le future relazioni con l’Unione europea. Due snodi chiave visti con molta apprensione soprattutto dal settore finanziario (banche, assicurazioni, fondi speculativi) che in Inghilterra contribuisce al 10% del Pil, impiega 2,3 milioni di persone ed è il principale settore di esportazione che genera un attivo nella bilancia dei pagamenti uguale a quello di tutti gli altri settori messi assieme.

L’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, che definisce le procedure da seguire in caso di separazione, concede due anni di tempo per la messa a punto di un accordo provvisorio che permetta di continuare la convivenza senza scossoni, in attesa che le due parti stabiliscano i criteri su cui vogliono costruire i loro rapporti futuri. Il governo inglese ha comunicato in maniera ufficiale la sua volontà di abbandonare l’Ue il 29 marzo 2017, per cui l’uscita sarebbe dovuta avvenire il 29 marzo 2019. In realtà è stata posticipata al 31 ottobre 2019 perché il Parlamento inglese non ha approvato l’accordo provvisorio stipulato fra Theresa May e la Commissione europea. Il nodo del contendere è la frontiera fra l’Irlanda di Belfast (sotto giurisdizione inglese) e l’Irlanda di Dublino. Attualmente è come se non esistesse frontiera perché ambedue i territori fanno parte dell’Unione europea. Ma un domani, con regole diverse esistenti nei due territori, si imporrebbero controlli e dazi per impedire passaggi di persone e merci  non conformi a una delle due legislazioni. L’unico modo per tenere la frontiera aperta è che tutta l’Irlanda sia assoggettata alla stessa legislazione. Ma quale: quella dell’Unione europea in vigore nell’Irlanda di Dublino o quella nuova che adotterà Londra? Alla fine May ha accettato la così detta «clausola backstop»: indipendentemente dalla legislazione che adotterà la Gran Bretagna, nell’Irlanda del Nord si continueranno ad applicare le regole dell’Ue. La maggioranza dei parlamentari britannici ha però ripetutamente bocciato l’accordo, considerando questa soluzione una violazione della sovranità nazionale. Se dovesse continuare l’opposizione del Parlamento inglese al Trattato di separazione provvisorio e neanche l’Unione europea dovesse accettare di modificarlo, la prospettiva sarebbe quella di un’uscita del Regno Unito senza accordi. Una prospettiva che molti considerano catastrofica perché la posizione di milioni di persone non  britanniche diventerebbe irregolare, mentre la circolazione di persone, merci e servizi cadrebbe nel caos.

Nel frattempo, Theresa May ha annunciato (24 maggio 2019) le dimissioni e il Brexit Party di Nigel Farage ha vinto le elezioni europee. Per sapere come finirà non rimane che attendere i prossimi eventi.

Francesco Gesualdi




L’insostenibile leggerezza del turista

Testo di Chiara Giovetti – Foto di Ennio Massignan


Il turismo si conferma anche per il 2018 un settore in espansione nel mondo, con un miliardo e 400 milioni di viaggi internazionali e un giro d’affari di 1.700 miliardi di dollari. Ma, accanto a realtà e comunità che hanno saputo governare il fenomeno, ve ne sono altre che ne sono state travolte.

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt), nel 2018 il settore del turismo a livello globale ha registrato un’ulteriore espansione raggiungendo con due anni di anticipo rispetto alle previsioni il tetto del miliardo e 400 milioni di movimenti internazionali che la stessa Omt aveva invece previsto per il 2020. Il dato 2018 consolida quello del 2017 – pari a un miliardo e 326 milioni – e rappresenta in termini percentuali un incremento di sei punti. Considerando che l’economia mondiale nel suo complesso è cresciuta al ritmo del 3,7%, si può dire che il settore turistico preso singolarmente «viaggia» a una velocità un terzo più elevata rispetto a tutti i settori economici aggregati.

L’Europa resta la meta preferita con 713 milioni di arrivi internazionali, seguita dall’Asia con 343 milioni e dalle Americhe con 217, mentre Africa e Medio Oriente si attestano rispettivamente sui 67 e 64 milioni di turisti internazionali@.

Quanto al dato economico, il giro d’affari è stato pari a 1.700 miliardi di dollari, cioè il 7% delle esportazioni mondiali (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

Questa cifra è composta dagli introiti del settore più quelli relativi al trasporto passeggeri@.

Circa sei turisti su dieci hanno viaggiato in aereo e poco più della metà si sono spostati per svago e diporto, mentre uno su dieci ha viaggiato per motivi di lavoro. Sono i cinesi a guidare con ampio margine la classifica delle dieci nazionalità che nel 2018 hanno speso di più in turismo; ben 277 miliardi di dollari. I secondi classificati, gli statunitensi, hanno speso un po’ più della metà rispetto ai cinesi: 144 miliardi. Seguono poi tedeschi, britannici, francesi, australiani, russi, canadesi, sudcoreani. Decimi gli italiani, con 30 miliardi di dollari.

Il World Travel and Tourism Council (Wttc), forum dell’industria del turismo e dei viaggi, ha quantificato il Pil del settore del turismo, una grandezza che considera non solo il denaro generato dalle imprese che vendono prodotti e servizi direttamente ai turisti – alberghi, agenzie di viaggio, trasporti e souvenir – ma anche gli investimenti, la spesa pubblica per il turismo, gli effetti sulle filiere connesse (cibo, offerta culturale, eccetera) e sul reddito di coloro che lavorano direttamente nel turismo. Nel 2018 il turismo ha raggiunto un Pil di settore di 8,8 mila miliardi, pari a un decimo del Pil mondiale, e ha impiegato 319 milioni di persone. Oggi, nel mondo, un posto di lavoro ogni dieci esiste perché esiste il turismo e il Wttc prevede che nei prossimi dieci anni continuerà a crearne ulteriori 10 milioni l’anno, fino a un totale di 421 milioni nel 2029.@

I rischi ambientali

È chiaro che, con questi numeri, il settore del turismo ha un potenziale enorme che può contribuire parecchio a devastare o, viceversa, a salvaguardare il pianeta a seconda di come viene usato.

Uno degli aspetti che desta più preoccupazione rispetto alla sostenibilità del fenomeno turistico riguarda i danni da esso provocati all’ambiente. Secondo un rapporto del Wwf che si concentra sul bacino del Mediterraneo, «gli oltre 200 milioni di turisti che lo visitano annualmente generano un aumento del 40% dei rifiuti in mare ogni estate»@.

La mancanza di infrastrutture adeguate e lo sfruttamento massiccio del territorio ha costretto nell’aprile del 2018 il governo delle Filippine a chiudere al pubblico per mesi un’intera isola, la bellissima Boracay@, ridotta a «una cloaca» dai rifiuti e dagli scarichi abusivi che rovesciavano il proprio contenuto direttamente in mare, minacciando la barriera corallina. Situazioni simili si sono verificate in Thailandia, dove Maya Bay – spiaggia di una delle isole Phi Phi nota per il film The Beach – rimarrà chiusa fino al 2021 per permettere all’ecosistema e in particolare ai coralli di rigenerarsi dopo essere stati messi a dura prova da un’eccessiva presenza di turisti, che arrivavano fino a 5.000 al giorno@.

In Europa, fra i casi più discussi di turismo di massa vi è senza dubbio quello di Venezia, una città che riceve giornalmente un numero di turisti più alto della sua popolazione di 53 mila persone residenti nel centro storico. Secondo uno studio dell’Università Ca’ Foscari del 2018, Venezia può reggere 52mila turisti al giorno, mentre ad arrivare sono in 77mila@. Tale flusso di viaggiatori mette a dura prova una città per sua natura fragile e i motivi di maggior preoccupazione riguardano la gestione dei rifiuti, l’inquinamento causato dalle navi da crociera@, lo spopolamento della città, l’invecchiamento della popolazione e la conversione in bed & breakfast di molte case del centro.

Altra notizia che di recente ha portato l’attenzione sul cosiddetto overtourism riguarda il numero di escursionisti morti sull’Everest e la quantità di rifiuti da loro lasciata. Lo scorso maggio, in una sola settimana sono decedute sette persone per il sovraffollamento del sentiero che porta alla cima@ e per l’impreparazione fisica di molti scalatori che per il fatto di pagare pensano di avere il diritto di arrivare in cima a tutti i costi.

Nel documentario Gringo Trails@,  uscito nel 2013, si racconta di diverse di queste situazioni finite ormai fuori controllo, ma anche di luoghi dove il governo e le comunità sono riusciti a imbrigliare e regolare i flussi turistici. Uno di questi è il regno del Bhutan, stato dell’Himalaya incapsulato fra Cina e India: chi vuole visitarlo deve prevedere una sorta di tassa, obbligatoria e ufficiale, di 250 dollari al giorno che comprendono vitto, alloggio, trasporti via terra e il servizio di guide autorizzate. I risultati del provvedimento, sinora, sono stati soddisfacenti nel demotivare il turismo di massa e nel contempo rendere gratificante il soggiorno di chi sceglie di accollarsi la spesa.

Un fenomeno da governare

Un altro aspetto ancora poco misurato, ma di cruciale importanza, è quello del cosiddetto leakage, la dispersione (o perdita, come quella dei tubi idraulici bucati) degli introiti derivanti dal turismo e può prendere la forma di profitti e ricavi pagati agli operatori turistici internazionali, di costi per beni e servizi importati, o di pagamenti di interessi sul debito. Uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) stima che il leakage medio per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo è tra il 40% e il 50% dei proventi lordi e tra il 10% e 20% per i paesi sviluppati o in via di sviluppo ma con economie più diversificate e quindi in grado di rispondere almeno in parte alla domanda di beni e servizi che il settore turistico rivolge ai vari comparti produttivi del paese@.

Il Wttc fornisce del leakage una stima al rialzo, segnalando fughe di introiti che vanno dal 40% dell’India all’80% dei Caraibi, con punte dell’85% in posti come le Bahamas@.

Tenendo in considerazione entrambe le ipotesi si può in sintesi dire che su 100 dollari spesi da un turista in un paese in via di sviluppo, dieci, bene che vada, o addirittura 85, nella peggiore delle ipotesi, escono dal paese e vanno a incrementare i profitti di intermediari turistici, oppure di aziende alimentari o tessili che producono cibo, tovaglie o lenzuola a migliaia di chilometri di distanza e li esportano perché siano utilizzati in un resort tanzaniano o in un mega albergo thailandese.

Chiunque si sia trovato a viaggiare nei paesi del Sud del mondo per vacanza o per lavoro si è probabilmente trovato almeno una volta nella sala da pranzo di una struttura turistica africana, asiatica o sudamericana e si è sentito disorientato nel constatare come questa fosse identica al ristorante di un centro congressi all’uscita di un’autostrada francese, inglese o italiana, l’unica differenza sta nella variante esotica rappresentata dal tetto in paglia e dalle finestre senza vetri.

Spesso l’importazione di beni è legata all’assenza di collegamento fra le filiere produttive locali e le strutture turistiche: la mancanza di una catena del freddo affidabile per la conservazione dei cibi nel tragitto dagli agricoltori e allevatori locali al turista consumatore, le condizioni precarie delle vie di comunicazione che rendono troppo costoso il trasporto e altre simili interruzioni del processo che connette il produttore interno all’utente sono fra i principali ostacoli. Lucie Servoz, esperta di turismo dell’Organizzazione internazionale del lavoro, indica come primo passaggio verso un turismo sostenibile proprio il «rafforzamento dei collegamenti del settore turistico con i settori connessi nella sua filiera (ad esempio l’agricoltura, l’artigianato, i trasporti, le infrastrutture, le costruzioni) e la contestuale promozione di un approccio integrato e dell’approvvigionamento locale»@.

Altro aspetto da tenere in considerazione quando si parla di turismo sostenibile è quello delle ricadute occupazionali che potrebbe avere, ad esempio, in un continente come l’Africa, che secondo le proiezioni raggiungerà nel 2030 il miliardo e settecentomila abitanti e dove i bambini di età compresa fra 0 e 14 anni rappresentano oggi il 43% della popolazione nei paesi subsahariani, tre volte tanto rispetto ai coetanei che abitano nell’Unione europea@.

Sempre secondo le stime del Wttc, se i Paesi africani faranno riforme in materia di visti per facilitare gli spostamenti, si impegneranno per aumentare la connettività nel trasporto aereo e realizzeranno programmi efficaci di crescita, entro il 2028 il settore del turismo e dei viaggi potrebbe arrivare a generare fra i 30 e i 45 milioni di posti di lavoro.

Che cosa può fare il turista?

L’Organizzazione mondiale del turismo ha diverse raccomandazioni anche per i viaggiatori che vogliano contribuire a rendere il turismo sostenibile. Fra queste: non sprecare il cibo, dare visibilità alle iniziative interessanti – sulla promozione delle donne, o sulle risposte al cambiamento climatico – che si incontrano nel corso del soggiorno, informarsi prima di partire in modo da soggiornare in strutture che applichino pratiche sostenibili e non dannose per l’ambiente, imparare qualche parola della lingua locale per entrare in contatto con le comunità.

In aiuto del viaggiatore vengono anche i sistemi di certificazione bio e fair trade applicati alle strutture turistiche; di solito queste certificazioni sono accompagnate da un simbolo che viene esposto sia nelle strutture che nei loro siti web. Le «etichette» sono tante perché tanti sono gli enti e i metodi di certificazione e in effetti tutti questi simboli – spesso verdi e contenenti una fogliolina o qualcosa che richiama la natura – rischiano di assomigliare a una giungla. A tentare di mettere ordine sono state alcune organizzazioni tedesche, austriache e svizzere, che hanno prodotto una guida dal titolo Sostenibilità nel turismo. Una guida nella giungla di etichette@.

Per chi parla solo italiano, un buon punto di partenza anche solo per farsi un’idea di quali caratteristiche ha un viaggio improntato a principi opposti a quelli del turismo di massa, è il sito dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr), che raccoglie fra l’altro le proposte di viaggio dei soci, in Italia e all’estero@.

Chiara Giovetti