La Chiesa sul divano

Testi di Giacomo Mazzotti e Francesco Pavese, a cura di Sergio Frassetto |


È stata una fortuna (oltre che una grande gioia) per i missionari e missionarie di fondazione italiana, poter iniziare il mese di ottobre incoraggiati da papa Francesco che ha voluto incontrarli e parlare loro a cuore aperto, alla vigilia del «mese missionario straordinario». Con la schiettezza e la sobrietà di stile che lo caratterizzano, ha lasciato loro alcune «perle» che vogliamo condividere con chi ha in cuore passione e «fuoco» missionario (come diceva l’Allamano).

Ci ha colpito non poco la sua descrizione del missionario come di uno che «vive il coraggio del Vangelo senza troppi calcoli, andando anche oltre il buon senso comune, perché spinto dalla fiducia riposta esclusivamente in Gesù». Ma anche il papa è stato colpito nel sentire i missionari, nel loro saluto, ribadire senza tentennamenti: «Siamo missionari ad gentes… ad extra… ad vitam!». «Questo – ha commentato il pontefice – non lo dite come uno slogan, […] ma nella consapevolezza della crisi attuale, accolta come opportunità di discernimento, di conversione, di rinnovamento».

«La gioia del Vangelo» è una delle espressioni più care al papa, che è riuscito a infilarla in una sua «pillola» di metodologia missionaria: «Con la vostra partenza, voi continuate a dire: con Cristo non esistono noia, stanchezza e tristezza, perché Lui è la novità continua del nostro vivere. Al missionario serve la gioia del Vangelo: senza questa non si fa missione, si annuncia un vangelo che non attrae… Anche la Chiesa italiana ha bisogno di voi, della vostra testimonianza, del vostro entusiasmo e del vostro coraggio nel percorrere strade nuove per annunciare il Vangelo – ci sentiamo un po’ imbarazzati nel riportare queste parole, ma… le ha dette proprio il papa – perché la Chiesa esiste in cammino; sul divano non c’è, la Chiesa».

Last, but not least, nel suo discorso, papa Francesco ha dato spazio anche alla gratitudine verso chi ha dato vita agli istituti missionari italiani: «Prima di tutto sento il bisogno di esprimere riconoscenza ai vostri fondatori. In un’epoca storica travagliata, la fondazione delle vostre famiglie religiose, con la loro generosa apertura al mondo, è stata un segno di coraggio e di fiducia nel Signore. Quando tutto sembrava portare a conservare l’esistente, i vostri fondatori, al contrario, sono stati protagonisti di un nuovo slancio verso l’altro e il lontano; dalla conservazione, allo slancio».

E mentre queste parole risuonavano nella splendida sala Clementina, in Vaticano, beh, un fremito di commozione ha attraversato il cuore dei missionari e missionarie della Consolata presenti, facendo affiorare sulle loro labbra il nome del loro beato padre fondatore…

P. Giacomo Mazzotti


Al tramonto

Durante l’ultima malattia l’Allamano era assistito dalle suore missionarie infermiere. Il suo più grande desiderio era di celebrare ogni giorno la santa messa. Un giorno, alla suora di turno disse con tono implorante: «Prega perché possa celebrare la santa messa fino all’ultimo». E al dott. Battistini che gli aveva proibito di alzarsi: «Professore si ricordi che lei ha già sulla coscienza tre messe da me non celebrate». Ed alla suora che gli faceva notare che però aveva fatto la comunione: «Sì, è vero; ma tu non sai che cos’è celebrare una messa!».

Sul fatto di non potere celebrare la messa ritornò più volte: «Sono sacrifici questi tanto grandi, che non ho mai compiuti in vita mia». «Se comprendeste che cosa significa una santa messa in più!». «Ah! La comunione è una gran cosa, ma quale sacrificio per me, non poter celebrare la messa!».

La volontà di Dio prima di tutto

Un giorno la suora che lo assisteva si era assentata per il pranzo. Appena tornata ebbe l’impressione che l’Allamano si fosse aggravato ed esclamò allarmata: «Padre, lei mi muore». Con tranquillità egli rispose: «E tu prega perché si compia la volontà di Dio».

Negli ultimi tempi, avendogli il professore proibito il vino, intervenne tranquillamente con il dott. Battistini che cercava di rimediare: «Lasciamo, signor dottore, che la scienza applichi i suoi ritrovati; io avrò occasione di fare una piccola mortificazione, applicandoci alla sorella acqua, come la chiamava San Francesco d’Assisi, e a un poco di latte annacquato, e così ne sarà glorificato il Signore che ce ne ripagherà largamente nell’ultima cena».

Pochi giorni prima di morire, fece notare ai sacerdoti della Consolata: «Nell’altra malattia [quella del 1900] vi siete preoccupati di farmi ricevere i santi sacramenti, mentre io mi sentivo perfettamente tranquillo; in questa invece, sono io che mi preoccupo di ricevere i conforti religiosi, perché mi sento che mi avvio al termine». Fu subito accontentato con una solenne celebrazione.

L’Allamano fu ardente apostolo fino alla fine. Poche ore prima di entrare in agonia, a suor Paola Rossi che lo assisteva negli ultimi giorni e che era stata da lui incaricata a preparare al battesimo una giovane di 18 anni, con un fil di voce disse: «Mi raccomando quella ragazza!».

Diario degli ultimi giorni

Questa suora infermiera ebbe un’idea intelligente e molto utile: redasse un diario essenziale, datato 20 febbraio 1926, che inizia il 31 gennaio e termina il 16 febbraio. In questo diario descrisse in breve lo stato di salute dell’Allamano: i miglioramenti, i peggioramenti, le visite dei dottori e di tante altre persone. Riferì anche alcune parole che l’Allamano pronunciò nelle diverse situazioni. Ne riporto alcune qui di seguito, con le rispettive date, ma senza fare commenti.

  • Notte tra 8-9 febbraio, alla suora che gli porgeva da bere: «Non ho mai fatto sacrifici così grossi: non celebrare la messa e fare la comunione non digiuno… ma, tra poco diremo la messa eterna».
  • 11 febbraio, alla suora che gli domandava che cosa facesse: «Prego per te e per tutti voi, non posso far altro; e questa è la mia occupazione continua».
  • Notte tra l’11-12 febbraio, alla suora che voleva chiamare l’infermiera per porgergli qualche calmante: «No, aspetta fino alla sveglia delle 5, chissà quanti soffrono questi dolori… non solo io!».
  • Alla suora che gli fece notare come il triduo di preghiere nel Santuario otteneva un effetto positivo sulla sua salute, ripeté per tre volte: «Non questo dovete chiedere, non questo voglio, ma solo il compimento della volontà di Dio».
  • Alla superiora che gli disse che, incominciando il mese di San Giuseppe, avrebbero pregato per la sua guarigione, allargando le braccia: «La volontà di Dio, la volontà di Dio».
  • Esclamava: «Paradiso, Paradiso, Paradiso: ricordati, tre volte Paradiso». Quando gli si raccontava qualcosa di poco piacevole egli ripeteva: «Oh, in Paradiso non ci saranno più queste miserie».
  • 15 febbraio: il mattino fu visitato dal canonico Francesco Paleari della Piccola Casa del Cottolengo, che gli assicurava che faceva pregare le sue suore. Rispose: «Sì, per le cose di lassù». Insistendo il Paleari nel dire che ci sono delle catene che tirano in su, ma ce ne sono tante che tirano in giù, con la speranza di vincere: «No, no, che si faccia la volontà di Dio, non come quella gente lì (alludendo alle suore missionarie) che prega solo per le cose materiali (con ciò voleva dire che pregavamo solo per la sua guarigione)».
  • Più tardi visitato da un signore suo conoscente, il quale gli disse che pregava perché il Signore ce lo conservasse ancora molti anni: «Oh… che si faccia la volontà di Dio»; alla sorella che pure insisteva sulla stessa cosa: «Ma per l’amor del Padre, dovete desiderare che vada in Paradiso. Farò più di là che di qua».
  • Al nipote che, dopo avergli fatto indossare la nuova biancheria, gli disse che sembrava uno sposo: «Oh, sì, fra poco vado alle nozze…».

I più vicini al suo capezzale poterono cogliere ancora dalle sue labbra qualche monosillabo; poi si udì con chiarezza un «Amen» e dal movimento delle labbra si poté cogliere: «Ave Maria». Fu l’ultima parola dell’Allamano su questa terra.

P. Francesco Pavese


L’Allamano: «Mission influencer»

Si è svolto a Roma, dal 25 marzo al 7 aprile scorso, un corso per i nostri formatori Imc, organizzato dalla Direzione Generale. Sono arrivati, quindi, 25 missionari (maestri di noviziato, direttori di seminari teologi, formatori dei Caf, testimoni di situazioni missionarie particolari) provenienti da Brasile, Colombia, Venezuela, Argentina, Kenya, Tanzania, Angola, Portogallo, Italia, Corea. Le due settimane sono state un tempo prezioso di comunione, per conoscersi, condividere le varie esperienze e sentirsi «famiglia della Consolata» nel non facile compito della formazione di coloro che, in un domani non lontano, saranno i futuri missionari della Consolata, figli di Giuseppe Allamano, che potrebbe essere definito, oggi, in un linguaggio comprensibile ai giovani: «Mission influencer».

La presenza del fondatore, visibile già nel logo del corso, è stato come il filo conduttore che ha guidato e unificato temi e contenuti che, essendo la nostra Famiglia missionaria ormai multietnica e internazionale, non potevano che essere variegati e molteplici.

È stato padre Piero Trabucco, ex superiore generale ed esperto in spiritualità a presentare ai formatori la figura del beato Allamano come formatore. Da questa angolatura, padre Piero, supportato da documenti storici, è riuscito a tratteggiare i le caratteristiche di uno stile fatto di atteggiamenti e strumenti formativi, capaci di trasmettere ai missionari la sua vicinanza paterna e «il suo spirito» (come lui lo chiamava). Tutta la sua persona è stata strumento per formare all’amor di Dio e alla passione per «le anime», per fare, cioè, innamorare i missionari di Gesù e della gente: santi, per la missione.

Gli spunti della ricca e corposa relazione di padre Piero sono diventati così il punto di partenza per riflettere su chi è il fondatore per i nostri formatori e come la sua figura, il suo esempio, la sua presenza entrano nei cammini formativi della varie comunità dei giovani aspiranti alla vita missionaria. Ecco alcuni… tweets:

– L’Allamano è importante perché, se non ci fosse lui, non ci saremmo nemmeno noi; rimaniamo senza identità, perché è lui che ha ricevuto l’ispirazione di fondare l’Istituto; è quindi fonte della nostra spiritualità e del nostro carisma.

– La sua umanità (paternità) si vedeva nei rapporti personali, nell’ascolto, nell’accoglienza (aveva tempo per tutti e per ciascuno); la sua pedagogia era fatta di bontà, vedeva sempre il positivo negli altri, anche se non taceva sugli aspetti negativi e da correggere (senza troppi rimproveri).

– Alcuni suoi aspetti ci colpiscono ancora: l’attenzione che aveva per le famiglie degli alunni; l’accogliere le sfide del suo tempo e con coraggio trovare la strada per andare avanti; il suo amore appassionato per l’eucarestia e la Consolata, l’impegno e la generosità nel «fare bene il bene»…

– Lui entra concretamente nel nostro lavoro di formatori quando cerchiamo di vivere la sua spiritualità, trasmettiamo i suoi insegnamenti ai giovani, dedichiamo tempo per leggere di lui e conoscerlo sempre di più, conduciamo uno stile di missione, secondo i suoi insegnamenti…

Al termine di questi giorni, intensi e preziosi, nella messa conclusiva del 7 aprile, è stato consegnato a tutti un messaggio, nel quale tra l’altro si leggeva:

«L’ascolto della parola di Dio ci ha aiutato a rileggere e rimotivare il nostro ministero di formatori, riconoscendo come essenziale e fondamentale l’esperienza di Dio, che siamo chiamati a suscitare anche nella vita dei giovani che accompagniamo.

L’aver riscoperto il nostro fondatore Giuseppe Allamano come modello di formatore, paterno e attento con tutti, ci ha stimolato a guardare alla formazione anzitutto come capacità di accogliere, di stare vicini, di far sentire ai giovani che ci sono cari e di incoraggiarli a vivere con autenticità e generosità l’identità di missionari della Consolata.

L’esortazione di papa Francesco ai giovani, pubblicata proprio in questi giorni, offre un messaggio di speranza e un’indicazione anche a noi formatori di giovani missionari: “Lo sguardo attento di chi è stato chiamato ad essere padre, pastore e guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta. È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli. Così è lo sguardo di Dio Padre, capace di valorizzare e alimentare i germi di bene seminati nel cuore dei giovani” (Christus vivit, 67).

Ringraziamo tutti coloro che ci hanno accompagnato con la loro preghiera e chiediamo al Signore, per intercessione di Maria Consolata e del beato Giuseppe Allamano, di benedire i nostri cammini di formazione per la missione, facendo germogliare i semi di bene seminati in questo corso».

Insomma: riscoprire la «pedagogia allamaniana» per formare dei veri missionari della Consolata, orgogliosi della loro vocazione e felici di poter servire il Signore con gioia e santità di vita, in questo nostro mondo così complicato, differenziato e, spesso, pieno di tanta sofferenza… e  secondo le parole del logo del corso (scritte… in latino, per ovvi motivi di internazionalità): «Andando, annunciate il Vangelo a tutti i popoli», ma in perfetto… Allamano’s style!

p. Giacomo Mazzotti




Libri: Superare i Confini

Testp di Chiara Brivio |


Tre volumi scritti con tre stili, metodi, culture di provenienza differenti. Da una giornalista cattolica, un antropologo e un eclettico intellettuale. Tre testi che parlano di confini: quelli attraversabili dei missionari, quelli sempre in fase di assestamento delle comunità in cerca di identità, quelli che vengono di volta in volta aperti e poi ricostruiti dal tiremmolla tra il potere e la libertà.

Ci sono diversi modi di descrivere i «confini»: possono essere fisici, psicologici, emotivi, immaginari o reali. Abitualmente si tracciano per separare un fuori da un dentro, un di là da un di qua, per fermare dall’altra parte quello che non vogliamo con noi, ad esempio quelle persone che preferiamo non avere nella nostra comunità, nel nostro paese.

I tre libri di questo mese affrontano il tema dei «confini» da punti di vista diversi: da quello di una chiesa, quella missionaria, che aspira all’universalità, e per questo i confini li valica; da quello delle nuove «comunità», altrimenti dette community, che sembrano ignorare completamente i confini in un’epoca nella quale stanno rifiorendo le comunità chiuse; infine da quello di chi vede nei confini creati dal potere un ostacolo alla libertà umana e creativa.

Dove solo l’anima arriva

La giornalista Monica Mondo, conduttrice della fortunata trasmissione Soul su Tv2000, ha raccolto 15 interviste a missionari e missionarie che negli anni sono stati ospiti del suo programma. Le testimonianze sembrano convergere su una domanda chiave: «Che cosa vuol dire fare missione oggi, soprattutto in territori dove la chiesa va completamente rifondata?».

Tra essi c’è chi costruisce interi villaggi, come Pedro Paolo Opeka – vincenziano «carpentiere» che è stato visto a fianco di papa Francesco nella sua recente visita ad Antananarivo, capitale del Madagascar -; chi porta avanti una «intifada dei rosari» tra Israele e Cisgiordania, come suor Donatella Lessio; e c’è chi, come il missionario Fabio Mella, ha portato il cantautore Enzo Jannacci a visitare i boat people, persone senza diritti che vivono su imbarcazioni di fortuna nella baia infestata dai liquami di Hong Kong.

Ma ci sono anche intellettuali e teologi – dal domenicano inglese Timothy Radcliffe al neo cardinale e poeta portoghese José Tolentino Mendonça -, a testimonianza del fatto che la missione si può fare sia «stando là», anche a rischio della propria vita, sia stando «qua», cercando di instaurare un dialogo con laici, non credenti e coloro che si sono allontanati dalla chiesa.

Forse la cosa più curiosa che emerge da questi racconti, a tratti coloriti e divertenti, spesso tragici e commoventi, preceduti dalla prefazione di Paolo Ruffini, prefetto del dicastero vaticano per la Comunicazione, è il ruolo del film di Franco Zeffirelli sulla figura di Francesco d’Assisi, simbolo di povertà radicale. Molti degli intervistati hanno, infatti, dichiarato che fu proprio quella pellicola a confermare e rafforzare la loro vocazione.

Quelli raccontati da Monica Mondo sono uomini e donne che costruiscono ponti, superando ogni confine, come dice uno dei protagonisti: «Dobbiamo essere ponti e non muri. Ponti fra popoli, ponti fra chiese, ponti fra culture».

Comunità

Marco Aime è uno degli antropologi più famosi in Italia, nonché uno dei più prolifici. Questo suo breve e agile saggio, pubblicato dalla casa editrice bolognese Il Mulino, esplora il concetto di comunità dal punto di vista sociologico, antropologico e storico, spiegando come si sia passati dalle «antiche» comunità alle community online del nostro tempo.

Se la caduta del muro di Berlino nel 1989, era forse stato l’emblema della dissoluzione dei confini, oggi, con l’avvento dell’epoca dei Trump e dei Salvini con i loro «prima noi» (americani o italiani che siano), c’è stato un pericoloso ritorno alla paura del diverso, dell’altro, all’ansia generata dall’apparente disgregazione di antiche comunità, spesso puramente immaginarie (à la Benedict Anderson).

Aime fa notare che il paradosso odierno risiede proprio nel rafforzamento di quell’idea di «comunità chiuse» nell’era della globalizzazione e della rete, dove i confini sono stati virtualmente cancellati. L’antropologo ne rintraccia le cause nel passaggio dalla società contadina a quella industriale, con l’avvento del capitalismo che ha monetizzato e commodificato il tempo, fino all’arrivo delle società liquide della rete dove la tecnologia ha annullato questo concetto, rendendoci sempre reperibili e contattabili, nonché sempre più soli.

Il problema fondamentale è che non esiste più il luogo «fisico» dell’incontro, anima dell’essere umano come animale sociale, ma spesso solo quello virtuale. Quanto ha influito questo sulle relazioni sociali? Molto, secondo l’antropologo. Il quale teorizza una fine alquanto funesta per le comunità di oggi, se non saranno in grado di rimettere al centro le relazioni umane, a partire dalle famiglie stesse. «Forse sarà proprio dal nostro spirito di sopravvivenza che nasceranno nuove forme di convivenza, capaci di abbattere e superare certi confini», chiosa l’autore. Non abbiamo quindi che da sperare.

Smurare la libertà

Wole Soyinka è un intellettuale nigeriano, drammaturgo, scrittore, poeta e saggista premio Nobel per la letteratura nel 1986. Il suo volume L’uomo è morto? Smurare la libertà, edito da Jaca Book, raccoglie tre dei suoi testi scritti in diversi momenti sul tema della libertà. I primi due sono il discorso dello scrittore al Nobel del 1986 e un saggio del 1988 sul teatro nelle culture tradizionali africane. Entrambi già pubblicati negli anni ’80. Il terzo, invece, è un inedito intitolato Smurare la libertà, inizialmente scritto del 2004 e successivamente rimaneggiato.

Il filo rosso che lega le parti del libro è quello della libertà:

  • la libertà dal razzismo e dall’apartheid nel discorso di Stoccolma, dedicato a Nelson Mandela;
  • la libertà di espressione artistica scevra da ogni «colonizzazione della mente» nel secondo testo sul teatro;
  • la libertà contro il potere nel terzo testo che contiene una forte critica anche alle religioni cristiana e islamica.

In Smurare la libertà, fulcro della riflessione di Soyinka è il rapporto tra Potere e Libertà (entrambi maiuscoli nel testo): «Il Potere ama i confini. Il Potere si manifesta all’interno di confini, viene esercitato nell’ambito di territori in qualche modo delimitati». Un potere che lotta per la conquista di tutti i territori, spirituali, fisici e corporei, secondo una logica di assoggettamento e asservimento, in un chiaro richiamo all’epoca coloniale. Per il drammaturgo nigeriano ci sono state due cadute negli ultimi decenni che simboleggiano la lotta tra potere e libertà: quella del muro di Berlino nel 1989, che ha visto trionfare la libertà, e quella delle torri gemelle nel 2001, che ha visto prevalere il potere facendo ripiombare il mondo nella paura, dividendolo tra «credenti infedeli» e tra «alleati o terroristi», tra i Bin Laden e i Bush dell’epoca.

Come uscire dalla paura? Come liberarsi dal dominio del potere, esercitato con terrore e violenza? Soyinka non ha una risposta, se non quella di continuare a lottare contro il sistema che vuole «riabilitare questa mentalità fanatica […] dell’Altro violento, dell’Altro suprematista, intollerante, fascista, apocalittico».




Con Puat Subyz nella Raposa Serra do Sol

testo e foto di Dan Romeowww.iviaggididan.it


Incontro fratel Francesco Bruno, detto Cico, classe 1946 di Pinerolo (Torino), a Boa Vista, in Roraima, Brasile. Arrivato là nel ‘76, è un uomo d’altri tempi, con un umorismo contagioso e una manualità in grado di passare dalla riparazione di un carburatore alla realizzazione di chilometri di acquedotti. Lo definisco un eroe, capace di amore, dedizione, passione, tenacia e coraggio. Trascorro con lui pochi giorni alla scoperta delle missioni tra i popoli indigeni e dei progetti realizzati.

A bordo del suo camioncino Chevrolet raggiungiamo le missioni di Maturuca e Camarà. Le lunghe ore trascorse insieme mi aiutano a comprendere, attraverso i suoi racconti, le questioni che lo preoccupano maggiormente e che affliggono i territori indigeni minacciati da fazendeiros e garimpeiros (allevatori di bestiame e cercatori d’oro).

Questi ultimi stanno sfruttato da tempo le terre ancestrali occupandole abusivamente e attentando con ogni mezzo alla stessa esistenza delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingarikó e Patamona.

Per i popoli indigeni la terra è tutto, è la vita stessa. Soddisfa tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Fornisce cibo e riparo ed è il fondamento della loro identità e del loro senso di appartenenza.

Le invasioni e la situazione dei territori indigeni

L’invasione dei territori indigeni si protrae da oltre 500 anni ed è stata da sempre attuata attraverso la violenza sulle popolazioni, la distruzione degli ecosistemi, il furto delle conoscenze e la schiavitù fisica e spirituale. Una guerra che sembra non avere fine.

Il decennio che volge al termine rivela quanto il colonialismo rimanga vivo e operativo. Un’offensiva orchestrata da potenti interessi finanziari, corporazioni neo-estrattive e megaprogetti di sviluppo, continua a minacciare vite, culture e territori.

L’avanzare dei governi di destra e autoritari in Brasile rafforza la strategia di colonizzazione che va contro i diritti delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol, attraverso meccanismi istituzionali che favoriscono quelli che alcuni definiscono etnocidio ed ecocidio.

Nonostante le violenze subite, le popolazioni indigene resistono e vogliono essere soggetti del proprio destino. La causa indigena appartiene a tutti, indigeni e non. I processi come la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico rappresentano, infatti, una minaccia crescente per il mondo intero.

L’intervista

Dopo il nostro primo incontro a Raposa Serra do Sol, ho occasione di incontrare Puat Subyz, questo il nome indigeno di fratel Cico (sarebbe Chico, pronunciato scico in brasiliano, ndr), varie volte. Puat Subyz significa scimmia urlatrice, ma, come precisa lui stesso, l’origine del soprannome deriva dalla barba che all’inizio portava bella folta e fluente.

Mi racconti l’origine della tua vita da missionario in Roraima?

«Tutto è nato quando ho saputo che i missionari in Brasile avevano bisogno di un meccanico riparatore.

Quando sono arrivato a Boa Vista, nel 1976 e, più precisamente, a Calungà, dopo soli tre giorni, un missionario mi ha invitato ad andare con lui in moto in un villaggio indigeno. Un viaggio sotto la pioggia e segnato da numerose cadute nei profondi banchi di sabbia fine. Arrivati nella chiesetta del villaggio, il missionario, in abito talare bianco, durante la sua predica ha puntato il dito verso l’esterno della chiesa dicendo ai fedeli, cinque donne e sei bambini: “Voi non dovete fare questo”. Indicava gli uomini del villaggio che dormivano tra le alte erbacce dove erano caduti durante la sbornia della sera precedente.

Da quel giorno, iniziai a chiedermi come fare per evangelizzare e riparare le persone in panne (e non più solo gli automezzi)».

Quali sono state le tappe della tua lunga esperienza?

«Da quel lontano 1976, ho vissuto 14 anni a Calungà nel Centro Educativo della Consolata, insegnando e lavorando a riparare macchinari e automezzi della diocesi e della popolazione locale. Il fine settimana, partivo alla volta dei villaggi di lingua indigena Wapixana nella regione di Serra da Lua, per il lavoro di evangelizzazione e assistenza religiosa.

Dal 1991 al 1996, sono stato animatore missionario nelle scuole e nelle parrocchie di Erexim, nel Rio Grande do Sul. Ho poi trascorso 18 mesi nella missione di Catrimani nella terra yanomami, un anno alla missione parrocchiale di Alto Alegre, tre anni alla missione della Barata nella regione Taiano, sei anni all’area missionaria di Caranà a Boa Vista, un anno a Maturuca, sei anni nella missione di Camará nella regione Baixo Cotingo. Dal 2016 sono tornato a Maturuca».

Quali le maggiori difficoltà che hai incontrato in questi anni?

«In primo luogo, la malaria. I numerosi incidenti e le cadute con la mia motocicletta, i viaggi lunghi su strade e sentieri sconnessi e disseminati di pietre, crateri, pantani, torrenti da guadare; imboscate da parte di garimpeiros e fazendeiros evitate solo grazie alla protezione degli stessi indigeni; le incomprensioni e, in ultima istanza, i miei limiti personali e la poca preparazione per lavorare con popoli e culture molto differenti da me».

Quali e quante sono le etnie che hai incontrato in questi anni nella Serra do Sol?

«Nella Regione Baixo Cotingo, ho lavorato con i Macuxi e con gli Irian, due etnie con lingua simile che oggi convivono ma che in passato erano sempre in lotta tra loro. In misura minore ho anche interagito con individui di lingua Wapixana. Nella regione Serras invece, ho lavorato solo con Macuxi e poche persone di altre etnie presenti nelle nostre assemblee periodiche. In generale, i Macuxi, costituiscono la maggioranza insieme a minoranze di Ingarikó, Taurepang, Patamona, Maiongong e qualche Wapixana. Gli Irian, nella Regione Baixo Cotingo, sono al secondo posto come numerosità. Da notare che i Wapixana sono del gruppo linguistico Aruak. Tutti gli altri del gruppo linguistico Carib».

Quali sono le tue maggiori preoccupazioni legate ai problemi che da sempre affliggono le terre indigene?

«Al momento nella Regione Serras, ci sono invasioni di turisti con vari tipi di distrazioni. C’è una forte presenza di venditori ambulanti, che offrono mercanzie di ogni sorta, tra cui bevande alcoliche e droga, senza nessun controllo da parte del governo. Al contrario, il paradosso è che gli indigeni non possono portare i loro prodotti in città a causa della “mosca della Carambola” e il controllo del governo da questo punto di vista è molto severo.

Fortissime le incursioni dei politicanti che offrono di tutto, soprattutto la realizzazione di fantomatici progetti che non sono in sintonia con l’ecosistema della regione e la stessa cultura indigena. Molte le promesse mai mantenute, per fortuna degli indigeni, i quali spesso si lasciano ingannare da questi uomini in malafede e senza scrupoli.

Nella Regione Serras c’è poca vegetazione, tipica dei climi semi aridi. Gli indigeni hanno iniziato da qualche tempo a organizzare fiere di sementi e piante con relativo scambio di prodotti del territorio; stanno così crescendo gli scambi e il commercio di beni che generano lentamente un aumento della produzione alimentare locale.

La televisione è purtroppo il mezzo più distruttivo nelle comunità indigene: è comune vedere nelle capanne di legno e foglie, televisori con grandi schermi alimentati da piccoli generatori o dallo stesso generatore del villaggio, quando questo funziona.

Nella terra yanomani, sono presenti oltre ventimila invasori garimpeiros e questo comporta malattie, morte e annientamento sociale e culturale per gli indigeni.

Il furto delle conoscenze e la distruzione dell’ecosistema sono piaghe secolari.

Purtroppo sono pochi gli indigeni che si preoccupano di queste tematiche che affliggono la loro società e il loro ambiente naturale».

Esistono ancora le condizioni per il pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione delle popolazioni indigene?

«Ci sono molti indigeni e giovani impegnati che partecipano a incontri su questi temi, ma la lotta è durissima. Sono drammatici gli eventi recenti che vedono precipitare la situazione delle terre indigene e peggiorare le condizioni di vita dei popoli nativi a seguito dell’insediamento del nuovo governo di Jair Bolsonaro. Il nuovo presidente ha promesso, durante la campagna elettorale, di permettere l’estrazione dei minerali nelle riserve degli indigeni. Questo ha incoraggiato i cercatori d’oro a continuare le devastazioni per l’estrazione del prezioso metallo violando deliberatamente la legge e inquinando i fiumi.

Dal punto di vista dei diritti umani la situazione peggiora di giorno in giorno. Gli indigeni denunciano gli invasori finanziati dall’agrobusiness di violenza, terrorismo e guerriglia allo scopo di raggirare la legge, calpestando quanto affermato nella stessa Costituzione».

Credi sia possibile arrivare a una fine della violenza, della criminalizzazione e della discriminazione nei confronti delle popolazioni indigene e dei loro territori, garantendo la punizione dei responsabili?

«È il grande sogno indigeno ma anche di moltissimi brasiliani. Purtroppo, la realtà delle cose in Brasile peggiora di giorno in giorno. Impunità totale dei colpevoli ricchi e potenti, punizioni severe per gli indigeni e la povera gente».

Dan Romeo




Per decodificare il libro degli Atti

testo di Angelo Fracchia


Perché si scrive un libro? Qualcuno potrebbe rispondere «per guadagnarci», ma sappiamo che questo è sempre meno vero persino oggi, figuriamoci nell’antichità quando non esisteva il diritto d’autore. Chi scriveva un libro, al limite poteva sperare di ottenere dei benefici in conseguenza della diffusione dello scritto, perché sarebbe stato accolto in cerchie importanti, perché la sua scuola filosofica sarebbe stata più nota e quindi più frequentata… ma non sarebbe stato pagato per la scrittura.

Ieri, ancora più che oggi, quindi, si scriveva perché si aveva qualcosa da raccontare. Spesso, però, il contenuto più importante del racconto non è dichiarato esplicitamente. Manzoni scrive I promessi sposi certamente per offrire un modello di lingua italiana utilizzabile da tutti, probabilmente anche per attaccare potenze straniere che opprimono la Lombardia o l’Italia senza però citare gli austriaci, e, forse, persino per ricordare che la provvidenza agisce nel mondo. Di questi tre, però, solo l’ultimo tema è menzionato nel libro, ed esclusivamente alla fine, eppure non è difficile ammettere che tutti e tre sono presenti nell’opera.

La situazione della chiesa di Luca

Anche Luca, nello scrivere gli Atti degli Apostoli, narra alcune vicende (non tutte) della prima chiesa cristiana, ma ha in mente soprattutto una questione, quella che ovviamente è percepita come un impaccio da tanti e per questo resta quasi sempre sottintesa, anche se probabilmente è la più importante e presente di tutte (il rapporto tra ebrei e gentili).

Gesù era un ebreo a tutti gli effetti. Solo raramente si era avventurato fuori dalla Palestina, e quando l’aveva fatto si era mostrato perfino restio a fare qualcosa per i non ebrei (v. l’episodio della donna sirofenicia: Mc 7,25-30; Mc 15,21-28).

La primissima comunità cristiana non solo prosegue quel medesimo stile, ma addirittura i suoi discepoli, in gran parte galilei, non tornano nella propria regione d’origine – a parte una breve puntata (cfr. Gv 21). Si fermano a Gerusalemme e vanno ogni giorno nel tempio (cfr. At 3,1-3): si direbbe che siano diventati più realisti del re.

Però già pochissimi anni, anzi, mesi dopo, il movimento cristiano si riempie di persone provenienti dal paganesimo, peraltro senza che sia chiesto loro di farsi circoncidere.

Circoncisione sì, circoncisione no

La questione viene spesso riassunta come se il punto principale sia «circoncisione sì o circoncisione no», perché quello è il simbolo più evidente dell’adesione al popolo d’Israele (cfr. Gen 17,11-14; Es 12,43-45), un atto speciale, appunto, per certificare che qualcuno è inserito nel popolo ebraico, ne rispetta la legge per intero e viene considerato a tutti gli effetti ebreo.

Al tempo di Gesù si discuteva se per un gentile, diventare ebreo attraverso la circoncisione fosse davvero possibile. Secondo alcuni (pochi) rabbi, era del tutto lecito, in quanto c’erano già degli esempi nella Bibbia. Secondo altri, si poteva fare ma il nuovo ebreo sarebbe comunque rimasto in qualche modo un ebreo di serie B, anche se beneficiario delle promesse di Dio. Altri ancora, la maggioranza, e coloro che poi avrebbero segnato il cammino dell’ebraismo successivo, sostenevano invece che chi era affascinato dalla Bibbia e dalla religione giudaica poteva aderire ad alcuni, pochi, precetti, ma non poteva/doveva essere circonciso. Questi osservanti senza circoncisione, che facevano comunque la volontà divina ed erano amati dal Signore, venivano definiti timorati di Dio (come il Cornelio di Atti 10), mentre i non ebrei che si erano fatti circoncidere erano detti proseliti.

In questo contesto, i cristiani, all’inizio della loro storia, sembrano essere un movimento ebreo esageratamente aperto, perché ai nuovi aderenti che vengono dai pagani non solo non è richiesta la circoncisione ma non è neppure chiesto di rispettare i sette precetti di Noè, precetti che si pensava fossero stati affidati da Dio a Noè (erano il divieto 1.di essere idolatri, 2.di bestemmiare, 3.di uccidere, 4.di rubare, 5.di commettere incesto e 6.di utilizzare carne di animali vivi, oltre all’impegno a 7.darsi tribunali giusti). Potevano ancora essere detti ebrei?

I giudei del primo secolo ci mettono un po’ a fissare l’attenzione su questo nuovo gruppo (erano numerosissimi i gruppetti di ogni tipo…), ma dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C., cominciano a rendersi davvero conto che sono qualcosa di diverso, e iniziano a scacciare i cristiani dalle sinagoghe. Questo perché cominciano a rendersi conto che circa la metà, e forse di più, dei cristiani – che fino allora sembravano uno dei tanti gruppi ebraici -, non sono circoncisi. Come era successo questo stravolgimento? Chi ne era responsabile? Forse quel Paolo di Tarso che era così attivo nel propagare «la nuova via» in ogni comunità della diaspora? Era forse diventato un eretico? Come gli erano venute in mente certe idee?

Il programma di Luca

Che Paolo sia un personaggio fondamentale nella prima generazione cristiana, lo sa anche Luca: di fatto, gli dedica due terzi degli Atti degli Apostoli. Che ci sia Paolo dietro alla consapevolezza che i fratelli di Gesù non potessero restare solo ebrei, non lo nega neanche Luca. Ma il nostro autore è sicuro che non si sia trattato di un progetto umano, che dietro a tutto ciò che è accaduto si sia mosso lo Spirito di Dio. E gran parte del progetto degli Atti degli Apostoli serve esattamente a dimostrare questa tesi.

Peraltro, Luca è uno storico intelligente, e decide di replicare quello che facevano spesso gli storici di corte dell’antico Vicino Oriente. Questi, quando scrivevano delle storie, avevano due obiettivi: presentare nella migliore luce possibile la dinastia per la quale lavoravano, come forma di propaganda, ma nello stesso tempo dare degli indizi per la ricostruzione precisa di quella stessa realtà, così che gli scribi di palazzo futuri potessero servirsene con correttezza, senza farsi ingannare dalla propaganda.

Apertura ai gentili, opera di Dio

Luca fa lo stesso: da una parte racconta che l’apertura del cristianesimo al mondo dei gentili (ossia degli abitanti che venivano dalle genti, e non dal popolo ebraico) non è stata un’iniziativa di Paolo, ma di Dio. Gli Atti lo raccontano in modo chiaro, e sarà un filone che seguiremo. Ma nello stesso tempo Luca sa che Dio non interviene nella storia utilizzando gli uomini come dei burattini e il mondo come un teatro, ed è consapevole che le dinamiche storiche potrebbero anche essere spiegate in termini puramente umani, e ci dà quindi gli strumenti per ricostruire gli avvenimenti. L’uno non nega l’altro: chi pensa semplicemente che Dio muova la storia, indirizzandola sui percorsi che Lui vuole, non è lontano dal vero, benché forse sia un po’ semplicista. È più corretto dire che Dio agisce all’interno di una storia che comunque sembra seguire le sue logiche. Fuori della logica di fede si potrebbe anche dire che la storia dipende solo dal caso; ma da dentro, invece, il credente vede Dio all’opera anche nelle dinamiche della storia che non sembrano miracolose.

Anche noi, da qui in poi, proveremo a seguire entrambi i filoni. In questo numero procediamo poco nella lettura degli Atti, ma queste indicazioni ci serviranno a camminare più velocemente in futuro.

La persecuzione e l’annuncio (At 8,1-4)

Luca, utilizzando poche parole, allarga lo sguardo come a vedere un intero panorama, che il lettore astuto potrebbe già cogliere.

«Saulo approvava l’uccisione di Stefano» (8,1). È una delle storie più sorprendenti e note della prima generazione cristiana: il grande persecutore che diventa il più fervente apostolo del vangelo. Nulla di nuovo: queste storie di stravolgimento di ruoli piacciono all’umanità di ogni tempo e luogo. Tra l’altro, Luca aveva già detto che Saulo, pur non prendendo fisicamente parte al linciaggio, era presente alla morte di Stefano e dalla parte dei suoi persecutori (At 7,58). Subito dopo, ripeterà che Saulo cercava di distruggere la chiesa (8,3). Perché procedere con tanto disordine e insistenza? Non bastava dire le cose una volta sola? Non si poteva cercare di mettere tutte insieme le informazioni riguardanti Saulo? Verrebbe da pensare che Luca non sappia scrivere… o che sappia scrivere fin troppo bene.

L’inizio dell’ottavo capitolo di Atti, infatti, ci parla della persecuzione a cui partecipa anche Saulo, ma in mezzo ci infila la sepoltura di Stefano, compiuta da uomini pii. È come se nell’occhio del ciclone che investe la chiesa ci sia comunque serenità. Strage e caos ovunque, ma in mezzo c’è chi può occuparsi del cadavere di Stefano. Come dopo la morte di Gesù veniamo a sapere che, persino nel sinedrio, c’è un uomo buono che prende posizione per un condannato a morte, che non poteva più restituirgli il favore, esponendosi solo a rischi (Lc 23,50-53), così qui uomini pii, nel pieno della persecuzione di Saulo, non abbandonano la salma di Stefano.

Luca sembra quasi dirci che, sì, la persecuzione c’è, il male si sente, il caos ci travolge. Ma in realtà, al cuore delle cose, resta la serenità, perché Dio non abbandona i suoi.

Persecuzione, davvero contro tutti?

Quasi con noncuranza, poi, mentre parla della persecuzione, ci offre un’altra informazione che potrebbe sfuggirci, ma è sorprendente: «Tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria» (At 8,1). Luca, evidentemente, ci invita a trasformarci in detective e farci lettori astuti, per cogliere almeno due aspetti.

Perché mai, se scoppia una persecuzione contro la chiesa, proprio gli apostoli dovrebbero essere lasciati in pace? Che fossero loro i capi si sapeva, erano già stati convocati e rimproverati più di una volta (cfr. At 4,1-7; 5,17-18.26-41). Quindi, come è possibile che stavolta nessuno li sfiori? Evidentemente la persecuzione non è contro tutti i cristiani, ma contro quelli come Stefano: a essere attaccati sono gli ellenisti, i cristiani di lingua greca.

E se la persecuzione è violenta (At 8,1) e gli apostoli sono risparmiati, c’è da pensare, con tristezza, che i cristiani ebrei non abbiano mosso un dito o detto una parola in difesa di Stefano.

Lo avevamo già visto (At 6,1-4): le divisioni sociali che i cristiani trovano, e che dovrebbero superare, e che sanno che dovrebbero superare («Non c’è greco o giudeo…, ma Cristo è tutto in tutti», Col 3,11) in realtà contagiano anche la chiesa. C’è del male che accerchia la chiesa da fuori, ma anche qualcosa di non buono, non perfetto dentro la chiesa stessa.

Verrebbe da dire: allora come oggi, nulla di nuovo sotto il sole. Proprio per questo, però, questa parola risulta tanto preziosa per noi oggi: quella chiesa perfetta, in realtà perfetta non era, ci assomiglia, anche se resta comunque il nostro modello.

E c’è una consolazione in più: la persecuzione diventa l’occasione per disperdersi in Galilea e Samaria, dove i perseguitati non smettono di annunciare il Vangelo, facendolo diffondere. Luca svilupperà le diverse tappe di apertura al mondo non ebraico, ma lascia intendere che il tutto è stato messo in moto dalla persecuzione: prima di allora i credenti si erano radunati a Gerusalemme, quindi si disperdono ovunque. La persecuzione è un male, ma Dio riuscirà a sfruttare l’occasione per diffondere ancora di più la propria parola. Luca ci accompagnerà nell’opera dello Spirito che si muove sulle strade, a volte molto storte, della storia. E noi lo seguiremo.

Angelo Fracchia
(8. continua)

 




Grassi e zuccheri, attrazione fatale

testo di Rosanna Novara Topino


L’obesità è una condizione che favorisce varie patologie: diabete, ischemie, tumori. Evitarla è possibile con stili di vita adeguati. E una dieta con meno grassi e zuccheri, più frutta e verdure.

In alcuni paesi, ad esempio negli Stati Uniti, l’obesità è diventata un’epidemia, probabilmente il problema sanitario più pressante da risolvere, con un costo per la collettività stimato in circa 90 miliardi di dollari annui. Attualmente tre statunitensi su cinque sono in sovrappeso e uno su cinque è obeso. Questo problema riguarda tanto gli adulti che i bambini e i giovani: dal 1970 a oggi il numero di giovani americani in sovrappeso è triplicato e attualmente rappresenta un terzo del totale.

Patologie e costi sociali

All’obesità e al sovrappeso sono associate spesso malattie croniche che hanno un grave impatto sulla speranza di vita come le malattie cardiovascolari, i tumori e il diabete di tipo 2 (che un tempo veniva definito «diabete dell’adulto», ma attualmente colpisce sempre più spesso anche i giovani). Oltre a un’alimentazione scorretta, l’obesità e le patologie a essa correlate sono associate anche a una riduzione dell’attività fisica.

Secondo uno studio dell’Oms, ogni anno muoiono circa 3,4 milioni di persone al mondo per patologie correlate con l’obesità. Inoltre, sarebbero correlati all’obesità il 44% dei casi di diabete, il 23% delle malattie ischemiche del cuore e il 7-41% di alcuni tipi di cancro (esofago, pancreas, colecisti, colon-retto, mammella, endometrio, rene).

Per quanto riguarda le malattie cardiovascolari, esse rappresentano la prima causa di morte a livello mondiale con 17,5 milioni di morti all’anno allo stato attuale e una previsione per il 2030 di 23 milioni di decessi. Nel solo continente europeo queste malattie causano ogni anno circa 4,3 milioni di morti. In Italia, nel 2015 si sono verificati 240mila decessi per questa causa, cioè il 37% dei decessi totali, con un aumento dell’8,8% rispetto all’anno precedente (43% uomini, 57% donne). Negli uomini prevale come prima causa di morte la malattia ischemica coronarica, mentre nelle donne prevalgono le malattie cerebrovascolari. Inoltre, le malattie cardiovascolari rappresentano la più frequente causa di ricovero ospedaliero (14,6% del totale dei ricoveri in Italia nel 2016). Secondo l’Oms, tre quarti della mortalità cardiovascolare a livello mondiale potrebbe essere prevenuta con adeguate modifiche allo stile di vita e dell’alimentazione e con il controllo di fattori di rischio come l’ipertensione, l’ipercolesterolemia e il diabete (che da solo raddoppia la probabilità di contrarre una malattia cardiovascolare). I costi totali di queste patologie, comprendenti non solo quelli diretti (servizi ospedalieri, farmaci, assistenza domiciliare, ecc.), ma anche quelli indiretti (perdita di produttività lavorativa dovuta alla malattia o alla morte prematura dei pazienti) sono elevatissimi.

Tumori e diabete 2

Altre patologie croniche legate anche a una scorretta alimentazione e uno scorretto stile di vita sono i tumori. Secondo l’International Agency for Research on Cancer (Iarc), nel 2018 si sono verificati nel mondo 9,6 milioni di decessi per tumore.

In Italia, i tumori rappresentano la seconda causa di morte con più di 178mila decessi nel 2015 (mille casi in più dell’anno precedente) e la prima causa di perdita di anni di vita per malattia, disabilità o morte prematura, con oltre 3 milioni di anni in totale.

Anche per queste patologie i costi complessivi sono ingenti: negli Stati Uniti, nel 2018, sono stati spesi per farmaci antitumorali 133 miliardi di dollari contro i 96 del 2013.

Attualmente si parla addirittura di «tossicità finanziaria» a causa del continuo aumento dei prezzi dei farmaci oncologici, che incidono molto spesso direttamente sul bilancio economico del malato.

In Europa, nel 2018, si sono spesi 18 miliardi di euro soltanto per il cancro al polmone; in Italia, il sistema sanitario ha destinato circa 16 miliardi di euro per i pazienti oncologici.

Nel 2018 sono state formulate 373mila nuove diagnosi di cancro (mille nuove diagnosi al giorno).

Il diabete di tipo 2 è un’altra patologia strettamente associata alle abitudini alimentari e allo stile di vita, laddove vi sia familiarità per questa malattia. Ogni anno si registrano più di 7 milioni di nuovi casi al mondo e le stime per il 2025 prevedono che ci sarà il 7,1% della popolazione mondiale colpita, pari a circa 380 milioni di persone. Si tratta di una malattia altamente impattante sia per il malato, per le complicanze che può comportare, sia per gli elevati costi socio-economici. Tra le complicanze del diabete ci sono l’insufficienza renale, la retinopatia diabetica, la microangiopatia diabetica che può portare all’amputazione degli arti inferiori, neuropatie e danni al sistema nervoso e la predisposizione alle malattie cardiovascolari.

Attualmente in Italia le persone colpite da diabete 2 sono 3,4 milioni (200mila nuovi casi all’anno). Secondo l’Istat, in Italia la prevalenza del diabete 2 è passata dal 3,9% nel 2012 al 5,7% nel 2016.

La prevalenza del diabete e delle altre patologie croniche correlate all’obesità e al sovrappeso è in crescita non solo nei paesi industrializzati, ma anche in quelli in via di sviluppo e si correla a un progressivo aumento della popolazione mondiale dovuto soprattutto a un aumento della vita media, oltre che a uno stato d’indigenza, che porta ad acquistare cibo di scarsa qualità. Tutto ciò va a aggiungersi all’aumento delle malattie neurodegenerative, demenze in primis, che sono anch’esse in parte correlate a una dieta carente o scorretta. Nel siero dei pazienti di Alzheimer e di quelli affetti da demenza vascolare sono stati riscontrati bassi livelli di vitamina E, C, zinco, carotenoidi e albumina, mentre gli studi sul colesterolo e sul rapporto tra acidi grassi saturi/polinsaturi della dieta dimostrano un coinvolgimento del metabolismo dei grassi nell’insorgenza delle neurodegenerazioni, oltre che delle malattie cardiovascolari.

Una dieta carente di calcio e di vitamina D si correla a un aumentato rischio di osteoporosi nella popolazione anziana, con conseguenti possibili fratture patologiche. L’assunzione quotidiana di questi nutrienti riduce fino all’8% il rischio di fratture. Le perdite quotidiane di calcio vanno prevenute eliminando gli stili di vita scorretti, come l’eccessivo consumo di carne, di sodio (sale) e di alcolici, nonché il fumo e il sovrappeso e svolgendo una moderata attività fisica.

«Benessere» e dipendenza: come il cibo spazzatura attrae

Le patologie croniche correlate all’obesità rappresentano un grave problema socioeconomico nei paesi industrializzati, ma rischiano di diventare un problema insormontabile per i paesi in via di sviluppo, già gravati dalla presenza di altre malattie, oltre che dalla penuria di risorse economiche. Purtroppo, le popolazioni più povere spesso acquistano cibo di bassa qualità per quanto riguarda i nutrienti, ma altamente calorico, il cosiddetto cibo spazzatura. Questo è dovuto al fatto che l’industria alimentare ha reso gli alimenti a alto contenuto energetico i più economici sul mercato, se valutiamo il costo per caloria. Il costo medio di una caloria di zucchero è infatti sceso drasticamente dagli anni ’70 del secolo scorso a oggi. I poveri sono quindi portati a spendere le loro poche risorse in cibi più a buon mercato, ricchi di carboidrati e di grassi (questi ultimi derivati spesso dalla soia, dalla colza e dalla palma da olio), che risultano tuttavia molto appetibili (i cibi grassi infondono una sensazione di benessere, lo zucchero è in grado di creare dipendenza).

È chiaro che per arginare il problema delle patologie correlate ai disordini alimentari si deve agire su più fronti, a partire da un’agricoltura più diversificata e sostenibile, grazie all’impegno dei governi e della ricerca scientifica, unitamente alla preparazione di cibi più salubri da parte dell’industria alimentare, per arrivare a una mirata attività di informazione della popolazione sia da parte delle scuole, che delle aziende sanitarie. Nel contempo dovrebbero essere calmierati i prezzi di frutta e verdura di qualità, limitando la speculazione finanziaria in questo settore.

Rosanna Novara Topino
(quarta parte – fine)


Alimentazione e stati infiammatori

Nelle nostre cellule i danni subiti dal Dna vengono continuamente sistemati da meccanismi di riparazione in esse presenti e il potenziale di longevità di ciascun individuo è strettamente correlato al corretto funzionamento di questa attività riparatrice cellulare, che si esplica mediante la replicazione e sostituzione delle cellule danneggiate. La regione terminale dei cromosomi del nucleo cellulare, detta telomero, ha la funzione di evitare la perdita di informazioni (perdita di basi azotate) durante la duplicazione dei cromosomi nella replicazione cellulare. La sua lunghezza diminuisce progressivamente ad ogni duplicazione, finché viene meno la sua funzione protettiva e la cellula, non riuscendo a replicarsi ulteriormente, muore (apoptosi). La incapacità di sostituire le cellule consumate con cellule nuove nei processi riparativi determina il sopravvento di fenomeni infiammatori e degenerativi come l’aterosclerosi e le malattie neurodegenerative.

Diabete e obesità causano uno stato infiammatorio nel sangue e nei tessuti che comporta un più intenso utilizzo dei processi riparativi, determinandone un precoce esaurimento, che ha come conseguenza una riduzione dell’aspettativa di vita.

Secondo recenti studi esiste un legame tra le patologie croniche e l’infiammazione silente (senza dolore, quindi senza sintomi) provocata da abitudini alimentari scorrette, quindi anche i modelli alimentari possono influenzare positivamente o negativamente la risposta infiammatoria dell’organismo. Una dieta scorretta implica maggiori azioni di riparazione dell’organismo, quindi un maggiore coinvolgimento dei telomeri, che giungono più velocemente all’esaurimento, con conseguente infiammazione e possibile instaurazione di patologie croniche. Per contro, una dieta ricca di antiossidanti come le vitamine E e C, carotenoidi, polifenoli e antocianine (presenti in frutta e verdura) risulta altamente protettiva nei confronti dell’infiammazione.

RNT

 




Il lavoro (nell’era dei mercanti)

testo di Francesco Gesualdi


La teoria economica classica distingue tre fattori di produzione: terra, capitale e lavoro. La loro parabola è stata opposta. I primi due sono diventati sempre più rilevanti, il terzo sempre meno. Prima a causa della rivoluzione industriale, poi della globalizzazione neoliberista e oggi per la rivoluzione informatica e robotica.

Da quando l’uomo ha messo piede sulla terra ha sperimentato che, per procurarsi da vivere, non è sufficiente la sola forza muscolare. Altri due elementi sono di fondamentale importanza: gli strumenti (oggi chiamati tecnologia) e la terra (oggi, la natura e gli ecosistemi). Benché molto diversi fra loro, da quando siamo entrati nell’«era dei mercanti», questi due aspetti hanno finito per essere etichettati sotto la stessa categoria: il capitale. Tant’è che, se parla il proprietario terriero, il suo capitale è la terra; se parla l’allevatore, il suo capitale sono gli animali; se parla l’imprenditore manifatturiero, il suo capitale sono le macchine. Una scelta non casuale: il linguaggio è fra i più potenti condizionatori del pensiero.

Premesso che capitale è sinonimo di importante, fondamentale, senza accorgercene siamo cresciuti con la convinzione che gli aspetti essenziali dell’attività economica siano le macchine, i palazzi, i terreni, le miniere. In una parola, diamo valore a ciò che il mercante reclama come «suo», mentre disprezziamo tutto il resto. In particolare, lavoro e beni comuni. È il trionfo del pensiero mercantile.

Senza mezzi

Un tempo, quando l’economia ruotava attorno all’agricoltura, il capitale di riferimento era la terra. Oggi è rappresentato principalmente dalla tecnologia. Sopra all’uno e all’altro, domina il denaro che, rappresentando la chiave di accesso a qualsiasi bene, ha finito per essere il capitale per eccellenza. Tant’è che il sistema bancario e finanziario oggi è il vero dominus dell’economia.

Ma ciò che interessa notare è che, nel corso della storia, si è assistito a una separazione crescente fra capitale e lavoro. E non per rinuncia da parte dei lavoratori a possedere i  propri mezzi di produzione, ma per la prepotenza di pochi a prendersi con la forza il capitale di tutti. Non a caso, in molti paesi del Sud del mondo, i senzaterra continuano a lottare per riprendersi ciò che i latifondisti hanno accumulato con il sopruso.

Gli storici riempiono pagine per raccontarci delle scorribande organizzate dai vari sovrani per strapparsi le terre a vicenda, ma la vera guerra che si dovrebbe studiare è quella combattuta all’interno delle singole comunità da parte di pochi prepotenti per sottrarre terre ai propri conterranei. Con l’obiettivo esplicito di ridurre la popolazione in povertà e costringerla a lavorare al proprio servizio. Per un certo periodo addirittura in schiavitù. Poi, per fortuna, lo spirito si è affinato e la schiavitù (intesa come  sopraffazione dell’uomo sull’uomo attraverso la proprietà della persona) non è stata più ammessa. Ma non è cresciuta  la condanna per la povertà e a partire dal 1600 in Europa si sono intensificati i meccanismi per privare le famiglie rurali dei propri mezzi di sostentamento. In Inghilterra sono famose le leggi emanate per privatizzare  le terre comuni, l’unica fonte di sostentamento a disposizione dei nullatenenti. Improvvisamente milioni di individui si sono trovati costretti a migrare verso le città in cerca di una soluzione. Che passava  per una sola strada: la vendita del proprio lavoro, unica merce a loro disposizione. Del resto l’obiettivo era proprio questo: permettere alla nuova classe dominante, che ora si basava sul capitale industriale, di poter disporre di uno sterminato esercito di nullatenenti costretti a svendersi. Alla fine il progetto di espropriazione ha sortito i propri effetti: noi tutti siamo nullatenenti capaci di vivere solo se troviamo qualcuno disposto a comprarsi il nostro lavoro. La condizione di spossessamento è talmente diffusa che non ci facciamo neanche più caso: ci pare semplicemente normale dipendere da qualcun altro per poter vivere, anche se vendere lavoro significa vendere il proprio tempo ossia parte della nostra esistenza. Forse servirebbe qualche riflessione in più sulla liceità del lavoro salariato.

L’economia dello scarto

Dopo averci ridotto al rango di nullatenenti e averci convinti che l’unico modo per vivere è spendere al supermercato i soldi guadagnati vendendo il nostro lavoro, è successo che il sistema ci ha strappato il tappeto da sotto i piedi. Ci ha semplicemente informati che di lavoro per tutti non ce n’è, perché il capitalismo non è organizzato per creare lavoro, ma per distruggerlo. Il fatto è che per i capitalisti il lavoro è solo un costo da contenere, una merce qualsiasi da comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di mercato sancisce che il prezzo scende quando c’è più offerta che domanda, per fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti di lavoro di quanto siano i posti disponibili. Un progetto definito da papa Francesco come l’«economia dello scarto», e se fino a ieri gli scartati eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati.

Trasformato il lavoro in una variabile dipendente dall’andamento del mercato e dai calcoli di convenienza del mercante, l’umanità è sprofondata in una situazione d’insicurezza mai vista prima. Era brutta la condizione di schiavi e servi della gleba, ma – paradossalmente – fra una frustata e l’altra ci scappava anche la scodella di fagioli, perché il padrone aveva bisogno di tutti e aveva interesse a che tutti gli abili al lavoro rimanessero in vita. Oggi invece, il sistema può permettersi di dire a qualche miliardo di persone che sono in sovrappiù e può condannarli a vivere rovistando fra i  rifiuti prodotti dai pochi ammessi.

Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente lavoro a buon mercato. Ai primordi della rivoluzione industriale l’esercito di riserva venne creato – lo abbiamo ricordato – con la privatizzazione delle terre comuni. In seguito il pezzo forte è stata la tecnologia: l’introduzione di macchine sempre più veloci ed autosufficienti capaci di sostituirsi ai lavoratori. Un processo che si è intensificato con l’avvento dell’informatica come mostra l’avanzata dei robot e dell’intelligenza artificiale in ogni ambito del vivere industriale e umano. Nessuno sa ancora quanti posti di lavoro verranno distrutti dalla robotizzazione. Qualcuno sostiene che alla fine sarà un’operazione a somma zero: da una parte si perderanno posti, ma dall’altra se ne creeranno. A rimetterci saranno le mansioni meno qualificate mentre crescerà la richiesta di ingegneri, matematici, programmatori. Un ottimismo confortato dalla constatazione che, in passato, nonostante l’introduzione delle macchine, alla fine l’occupazione ha tenuto. Ma il contesto era diverso. Per cominciare c’era un’Europa da ricostruire e molta strada da fare sul piano dei consumi. Inoltre c’erano governi molto interventisti che attivavano tutti gli strumenti a propria disposizione per stimolare gli investimenti. E per finire le imprese erano molto più legate ai propri territori perché c’erano regole assai più stringenti rispetto alla circolazione internazionale dei capitali e delle merci. Ma gradatamente tutto questo è cambiato: il mercato si è saturato, il neoliberismo ha tarpato le ali agli stati, merci e capitali hanno avuto licenza di muoversi in piena libertà a livello mondiale. Le imprese, insomma, hanno assunto il mondo intero come territorio di riferimento anche da un punto di vista produttivo e tutte le carte hanno cominciato a rimescolarsi.

Disoccupati al Nord, sfruttati al Sud

Con la globalizzazione, miliardi di persone mantenute in povertà da cinquecento anni di colonialismo, sono state riscoperte dal sistema delle imprese, non come consumatori, ma come lavoratori a buon mercato. E l’intera geografia internazionale del lavoro è stata ridisegnata. Marchi storici con una solida filiera produttiva nei paesi in cui erano nati, hanno scoperto che è più conveniente sbarazzarsi della produzione che mantenerla. La soluzione è appaltarla a terzisti esterni reperiti ora in Corea del Sud, ora in Cina, ora in Bangladesh, in base alle condizioni offerte. Così il mondo delle imprese si è ristrutturato e la produzione frantumata, internazionalizzata, deflagrata: un pezzo qua, un pezzo là; un anno qui, un anno là: sempre in movimento a seconda dei calcoli di convenienza. Il risultato è più lavoro sfruttato al Sud e meno lavoro garantito al Nord. Ovunque più concorrenza fra lavoratori disposti a ridurre i propri salari e i propri diritti pur di ottenere un posto di lavoro. E i risultati si vedono: nei paesi più ricchi, fra il 1975 e il 2011, la quota di reddito nazionale andata ai salari è diminuita mediamente del 10%, passando dal 67% al 56%. In Italia, la diminuzione è stata addirittura dell’11,8%, contro il 6,2% della Francia e il 4,2% del Giappone. Una perdita a tutto vantaggio dei profitti che sono cresciuti specularmente.

Poi gli immigrati

Anche l’immigrazione è usata per alimentare la discesa dei salari e dei diritti. Ma al contrario di quello che si potrebbe pensare, non è l’apertura a favorire lo sfruttamento, bensì la chiusura. Più si chiudono le frontiere, più si creano ostacoli al rilascio dei permessi di soggiorno, più cresce l’immigrazione clandestina e irregolare che va a finire tutta fra le braccia dell’economia in nero e criminale. In Italia la politica degli ultimi governi, che ha ridotto l’accoglienza, ha abolito i permessi di soggiorno per motivi umanitari, ha reso più difficile il riconoscimento dello status di rifugiato, ha prodotto 650mila irregolari. Un esercito di braccati che non potendo svolgere un lavoro regolare finisce inevitabilmente fra le grinfie dei caporali che usano l’arma del ricatto per portali nei campi e nei cantieri edili a lavorare per due euro l’ora.

L’occupazione è citata da tutte le forze politiche come una priorità. Ma spesso è solo strumentalizzata per giustificare investimenti pubblici inutili e dispendiosi, o per avallare attività private socialmente inaccettabili e ambientalmente dannose. E si può parlare di strumentalizzazione perché nel contempo si rendono complici della costruzione di un ordine economico che dà sempre più potere ai mercanti. Che è come affidare il servizio antincendio ai piromani. La via d’uscita si può ottenere solo costruendo un altro potere economico, di tipo pubblico, parallelo a quello dei mercanti. Oggi i mercanti si sentono onnipotenti perché sanno di possedere il monopolio della produzione e del lavoro. Ma quando si renderanno conto di non essere più così determinanti, perché la gente trova altrove la soluzione ai propri problemi, allora verranno a più miti consigli. Spesso per spengere gli incendi si usano i controfuochi in modo da creare delle aree prive di vegetazione che impediscono alle fiamme di avanzare. Dovremo adottare la stessa strategia anche in ambito economico, per impedire al fuoco mercantilista di divorarsi tutto.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

 




Cooperazione e missione, gemelle diverse

testo di Chiara Giovetti


Nel mese missionario proponiamo una riflessione sulle differenze fra cooperazione e missione, ma anche sullo stimolo reciproco che hanno rappresentato l’una per l’altra nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tentiamo di fare il punto sulla situazione attuale.

Tanta parte del mio lavoro come responsabile dell’Ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus è lavoro di traduzione. Non solo e non tanto da una lingua a un’altra, ma soprattutto da un linguaggio a un altro. Si tratta cioè di tradurre nel linguaggio della cooperazione allo sviluppo concetti missionari e, in quanto missionari, profondamente e autenticamente cristiani.

Con una battuta che suscita sorrisi nei missionari più spiritosi e alzate di sopracciglia in quelli più austeri, mi trovo spesso a dire che il mio incarico più delicato è tradurre in «sviluppese» concetti espressi in «pretesco», cercando di far emergere nel modo più chiaro possibile che i nostri missionari fanno cooperazione già da molto prima della fondazione della Onlus (2001) o del riconoscimento come Ong (2007). Solo che, mentre alcuni la fanno conoscendo il «ciclo di progetto» e il suo linguaggio, altri la fanno chiamando le cose con un altro nome.

Così, progetti che arrivano sulla mia scrivania con un titolo come «Promozione della donna», vengono reindirizzati ai donatori con il titolo «Empowerment femminile». «Pace, perdono e riconciliazione» diventa «Gestione e risoluzione del conflitto», «aiuto alle mamme incinte e ai loro bambini», si riformula in «miglioramento della salute materna e infantile».

Le attività sono le stesse, ma le parole rimandano a valori non completamente sovrapponibili.

Fra il linguaggio dello sviluppo e quello della missione c’è, sì, un’ampia intersezione di concetti simili, se non identici benché detti con parole diverse, ma anche un confine di intraducibilità che non può – e nemmeno deve – essere forzato.

 

Cooperazione: una parola, due significati

Nella maggioranza dei casi, all’orecchio di un missionario cattolico la parola «cooperazione» arriva come l’abbreviazione dell’espressione «cooperazione missionaria fra le Chiese».

Per un operatore della cooperazione fuori dal mondo ecclesiale, viceversa, la stessa parola sottintende l’espressione «cooperazione allo sviluppo» o «cooperazione internazionale».

Il fatto che per un religioso la cooperazione sia prima di tutto missionaria, significa che la vede come un modo per realizzare la missione della Chiesa, che – si legge nel decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II del 1965@ -, a sua volta, è la crescita «nella storia della missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri».

L’annuncio della buona novella è l’evangelizzazione, e la cooperazione missionaria ne è uno degli strumenti, non il fine.

Già nel 1990, in una Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione fra i popoli@, emergeva una preoccupazione: «Spesso», recita la nota, «l’attenzione è assorbita dalle esigenze tecniche dei progetti a scapito dell’ispirazione cristiana che deve essere sostenuta in modo costante». Detto in modo più rozzo ma immediato, la Cei raccomanda ai laici cristiani che vanno in missione di ricordare sempre che scavare un pozzo non è il fine ultimo del loro mandato. Il pozzo è solo lo strumento. Sono stati mandati a scavare un pozzo perché la povertà dei fratelli privi di acqua grida vendetta al cospetto di Dio, e contraddice il messaggio di salvezza e liberazione che suo Figlio ha portato agli uomini a costo della sua stessa vita, un messaggio di cui è nostro dovere di cristiani farci portatori, anche – ma non solo – attraverso le opere concrete.

La stessa nota sottolinea, richiamando l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, che «gli insuccessi degli ultimi decenni negli sforzi di accrescere il benessere dei popoli mostrano che lo sviluppo non si può basare su una semplice accumulazione di beni e di servizi». Lo sviluppo autentico, per la Chiesa, è lo sviluppo integrale, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum progressio), anche della sua sfera spirituale e morale.

Se per i cristiani la cooperazione è uno degli strumenti per continuare la missione del Cristo che parte da Dio e si irradia nella relazione fra le Chiese locali; per il mondo non ecclesiale è, invece, una relazione che parte dalle comunità umane definite a partire dalla loro organizzazione statale, e che ha come obiettivo lo sviluppo, pur con tutte le declinazioni e riformulazioni che il concetto ha attraversato nell’ultimo cinquantennio.

Non potrebbe essere più chiara la direzione divergente delle spinte che muovono queste due idee di cooperazione.

Dalla teoria alla pratica: la cooperazione come punto di incontro

Queste due visioni della cooperazione sono posizioni irriducibili l’una all’altra, dal punto di vista filosofico. Ma questa irriducibilità non ha impedito che si sia trovato un punto di mediazione nel campo del fare, del trovare soluzioni a problemi condivisi.

Per realizzare il raccordo, è stato fondamentale l’incontro fra religiosi innovatori, a volte addirittura rivoluzionari, da un lato, e volontari laici, dall’altro. La parola «laico» in questo caso significa il contrario di quello che potrebbe sembrare a un lettore esterno al mondo ecclesiale: non rimanda al laicismo ma al laicato, il complesso dei fedeli che non appartiene al clero.

Un esercizio interessante per dare la misura di questo incontro è prendere la lista delle Ong riconosciute dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e scavare un po’ nella sezione Chi siamo dei rispettivi siti. Il risultato è abbastanza illuminante: su 217 organizzazioni, una su tre circa ha per fondatore, ispiratore o dirigente, un religioso, e quasi una su cinque è vicina al mondo missionario. Alcune Ong sono nate per sostenere il lavoro di uno specifico missionario, di un Istituto o di una Congregazione, altre sono emanazione di un Centro missionario diocesano, altre sono talmente missionarie di ispirazione che inseriscono la parola anche nel nome.

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati una grande incubatrice per queste realtà: erano gli anni della decolonizzazione, delle crisi in Biafra e in Congo, delle campagne di Raoul Follereau; la Chiesa affrontava il cambiamento epocale del Concilio Vaticano II e assisteva al sorgere, in America Latina, della teologia della liberazione.

In Italia erano anni drammatici, di scontri politici e sociali, di forti ineguaglianze, evidenti in particolare nelle grandi città.

Solo per citare alcune di queste realtà nelle quali missione e cooperazione allo sviluppo hanno iniziato ad andare a braccetto, ricordiamo che nel 1961 è nata la Cisv@ «al servizio dei poveri nella Torino allora meta degli immigrati dal Sud Italia». Nel 1973, raccontava qualche anno fa Stefania Garini del Cisv alla nostra rivista, la stessa organizzazione ha inviato i primi volontari in Burundi anche su stimolo dell’allora arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, «che auspicava una missione animata anche da laici, ritenuti in grado di creare maggior vicinanza con la gente»@. Nel 1964 è nata Mani Tese, nel 1966 la Lvia, che l’anno dopo ha inviato la prima volontaria in Kenya ospite dei missionari della Consolata.

La Focsiv, che federa gli organismi italiani di ispirazione cristiana (Ong e non), è nata nel 1972 e ad oggi raggruppa 86 organismi.

Negli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta l’incontro fra missione e cooperazione allo sviluppo era ormai una realtà consolidata e strutturata grazie all’impegno di tanti missionari e al coinvolgimento dei volontari laici cristiani: l’invio di questi ultimi in missione era regolare, i riconoscimenti dello status di Ong da parte del ministero degli Esteri sono cominciati ad arrivare, la disponibilità di fondi – sia pubblici che privati – ha dato un’ulteriore spinta, e le campagne di sensibilizzazione in Italia sono state numerose e molto partecipate.

Anche la nostra rivista, che parla di cooperazione e di sviluppo sin dagli anni Settanta, ha inserito per gran parte del decennio 1980 – 1989 l’argomento fra i temi fissi trattati nelle rubriche. La lettura degli articoli sulla cooperazione di quegli anni è un tuffo più nel futuro che nel passato, tanto raffinata era già l’analisi delle cause delle diseguaglianze e tanto forte era il richiamo, oggi molto di moda, al cambiamento negli stili di vita.

La nota della Cei su laici, missione e cooperazione citata sopra è arrivata nel 1990 proprio per mettere ordine in questa relazione tanto vivace e animata da rischiare di diventare caotica. La Cei infatti, oltre al richiamo a non perdere di vista l’ispirazione cristiana, insisteva sull’importanza di migliorare la preparazione sia spirituale che professionale dei volontari ed esortava a evitare permanenze troppo brevi e mal programmate. La cooperazione missionaria non è una parentesi, un periodo circoscritto nella vita dei cristiani: è una scelta di vita che continua anche al rientro dalle missioni.

Cooperazione e missione oggi

L’ultimo ventennio ha visto un’impennata nella professionalizzazione della cooperazione. È nata la figura del cooperante, sono sorti corsi di studi a livello universitario, la gestione del ciclo di progetto si è fatta più complessa, l’obbligo di trasparenza nella gestione dei fondi è oggi, giustamente, un imperativo.

Quanto questo processo sia legato, in positivo, a un bisogno di affrontare in modo rigoroso una crescente complessità del mondo o, in negativo, agli obiettivi non raggiunti – e agli errori – di cinquant’anni di cooperazione internazionale, è un dibattito aperto.

Il dato di fatto è che le organizzazioni di origine missionaria, come tutte le altre, si sono attrezzate e dotate di personale formato e contribuiscono a quella parte della missione che, per brevità, si può definire sociale.

I fondi dei donatori pubblici non costruiscono chiese né comprano Bibbie per i catechisti (ci sono donatori cattolici per questo); ma certamente possono essere un sostegno fondamentale per scavare un pozzo e dare acqua pulita a un dispensario, formare infermieri, dare assistenza a migranti in fuga da un paese sull’orlo del disastro che arrivano stremati e disperati nel paese confinante.

Da questo punto di vista, il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo continua a godere di ottima salute una volta che ci si accorda su uno spazio comune in cui una può essere funzionale alla realizzazione degli obiettivi dell’altra senza snaturarla. Si può dire, per semplificare, che la missione continua a «ospitare» la cooperazione allo sviluppo nella parte sociale della cooperazione missionaria e che la cooperazione allo sviluppo ricambia «ospitando» i missionari in tutti i suoi settori, a patto che oltre al collarino ecclesiastico indossino lo stetoscopio del medico, il casco antinfortunistico dell’ingegnere, il grembiule del maestro di scuola.

Senza avere una struttura professionalizzata che lo affianchi per gli aspetti tecnici, per il singolo missionario diventa impossibile realizzare interventi complessi come quelli previsti da un progetto di cooperazione allo sviluppo istituzionale. Il progetto, senza un aiuto adeguato, rischia di essere percepito dal missionario come un male necessario, uno strumento di cui non si può fare a meno ma che porta via tempo al resto. E per un missionario, il resto, spesso, è il grosso: «Ecco, Chiara», mi ha detto una volta il padre responsabile di una impresa sociale del settore alimentare gestita dalla Consolata in un paese africano, «con il progetto che ci aiuterai a scrivere potremo finalmente aumentare la produzione; per il resto, con i proventi delle vendite già manteniamo la biblioteca, facciamo i corsi di alfabetizzazione per i nostri lavoratori, contribuiamo all’allevamento di polli delle loro mogli. Poi, a tempo perso, diciamo messa, facciamo le confessioni, prepariamo i catecumeni… Ogni tanto riusciamo anche a stare in silenzio, pregare un po’ e dormire».

In questi anni di lavoro nell’ufficio progetti mi sono trovata spesso a scherzare con i missionari con cui lavoro sul fatto che è una lotta impari cercare di far appassionare a un quadro logico e a un cronogramma qualcuno (il missionario) che ha per logica il Verbo e per orizzonte temporale la vita eterna.

Al di là delle battute, però, probabilmente il punto è proprio questo: il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo è stato ed è proficuo proprio perché sono due attività non completamente sovrapponibili: negli anni, oltre a non capirsi mai del tutto e, a volte, a criticarsi, si sono anche ascoltate e ciascuna ha fatto a se stessa delle domande che non si sarebbe mai fatta se l’altra non l’avesse stimolata. E non smette di sorprendermi quanto le domande che i missionari della Consolata si fanno da oltre un secolo, ispirandosi al loro fondatore, Giuseppe Allamano, – «stiamo capendo i segni dei tempi? Stiamo davvero facendo uomini e non beneficiari, assistiti, bisognosi?» – somiglino alle domande che si fa il mondo dello sviluppo.

Chiara Giovetti




I Perdenti 46. Santa Tecla, isoapostola e protomartire

testo di Don Mario Bandera


Santa Tecla sin dall’antichità viene considerata la protomartire delle donne cristiane, il corrispettivo femminile di santo Stefano. La sua storia è giunta sino a noi attraverso antichi manoscritti come gli «Atti di Paolo e Tecla», il «Martirio della santa e isoapostola Tecla protomartire delle donne», la «Passione di santa Tecla vergine», e altri. Questi antichi codici riportano, seppur con qualche variante, testi e tradizioni antecedenti all’anno 200 d.C., secondo le quali Tecla fu una giovane di Iconio, città oggi conosciuta come Konya in Anatolia (Turchia), vissuta tra l’anno 30 e il 120 d.C. La sua città fu evangelizzata da Paolo nel suo primo viaggio. Tecla divenne discepola dell’apostolo dopo averlo sentito predicare sullo sconvolgente mistero della resurrezione di Cristo e la vita nuova del cristiano.

L’incontro con Gesù le cambiò completamente la vita esponendola all’odio dei potenti e anche della sua famiglia. Da quel momento il suo cammino di fede come «sposa di Cristo» non fu facile.

La tua vita ha affascinato le prime comunità cristiane dell’Asia Minore, tanto che sono
fiorite tante memorie in tuo onore.

Sono riconoscente a tutti coloro che nel terzo e quarto secolo redassero gli antichi testi che, basandosi su un testo antecedente all’anno 200 d.C., raccontano che fui una cristiana di Iconio (in Asia minore), una vergine al tempo della venuta dell’apostolo Paolo nella mia città. Quei codici mi hanno dato quattro titoli molto impegnativi: santa, isoapostola, martire e vergine. Santa, sai cosa significa. Isoapostola vuole dire «pari agli apostoli», un titolo che, a ragione, avevano già dato a Maria Maddalena, che è stata la prima testimone della risurrezione di Gesù. Questo forse perché poi sono diventata discepola di Paolo e l’ho accompagnato nei suoi viaggi. Poi ci sono i due titoli «vergine e martire». Sono due titoli importanti per me. Come sai, il primo significato di «vergine» è che ero una ragazza da sposare di circa 15-16 anni, ma poi è diventato molto di più. «Martire» vuol dire che sono stata una testimone di Gesù uccisa violentemente. In realtà tante volte hanno cercato di uccidermi, senza riuscirci, e ho vissuto fino a oltre 90 anni.

Andiamo con ordine. Se non sbaglio la tua città ricevette l’annuncio del Vangelo dallo stesso San Paolo.

Proprio così! Venne da noi durante il suo primo viaggio. Ho avuto occasione di ascoltarlo quasi per caso. Paolo era stato accolto a Iconio da Onesiforo, un nostro vicino di casa. Lì si erano radunati un po’ di amici e Paolo aveva parlato a lungo di Gesù, della sua risurrezione e della vita nuova del cristiano. Aveva anche sottolineato che accettare Gesù significava essere come una sposa casta che vive solo per il suo sposo. Io, incuriosita, lo ascoltavo dalla finestra di casa mia ed ero rimasta affascinata da quei discorsi che presentavano un modo di amare così diverso da quello a cui eravamo abituati.

Cioè?

Immagina la bellezza di donarsi a qualcuno solo per amore e in piena libertà. Tutto il contrario di quello che noi vivevamo: per noi ragazze il matrimonio era combinato dalle famiglie, senza tener conto dei nostri sentimenti. Eravamo quasi un oggetto che serviva a rafforzare i rapporti e gli affari. In più, una volta sposate, avevamo il dovere di fare figli, possibilmente maschi, perché un giorno potessero servire nell’esercito dell’imperatore. Rifiutarsi di sposarsi, come poi feci io, e scegliere una vita di castità era considerato disobbedienza civile, un reato di lesa maestà.

Anche tu eri già promessa sposa?

Sì, e il mio fidanzato Tamiri e la sua famiglia non presero bene il mio «innamoramento» per il Cristo di Paolo. Andarono dal governatore della città e accusarono Paolo di avermi plagiata e di aver interferito negli affari di famiglia. Per questo Paolo fu fustigato.

La tua famiglia ti sostenne nelle tue scelte?

Tutt’altro. Anzi, mia madre prese le parti della famiglia di Tamiri che si sentiva offesa nel suo onore e minacciata nei suoi interessi dal mio rifiuto di sposarlo. Si lasciò addirittura convincere da Teoclia, la mamma di lui, ad andare dal governatore perché mi desse una punizione esemplare che servisse da deterrente a qualsiasi ragazza con idee strane in testa. E il governatore decise che dovevo essere bruciata sul rogo, quasi come un sacrificio riparatore agli dei.

Condannata al rogo?

Proprio così. Il rogo fu preparato in piazza davanti a tutti, ma venne un’improvvisa tempesta che spense il fuoco. La gente si spaventò davanti a quello che ritenevano un segno dal cielo e io fui liberata. Così tornai da Paolo chiedendo di essere battezzata. Ma l’apostolo temporeggiò, probabilmente perché non voleva che decidessi per l’emozione degli ultimi avvenimenti.

Tornasti allora a casa tua?

Non proprio. Paolo mi invitò ad accompagnarlo nei suoi viaggi e a pazientare per fare insieme un percorso di catechesi allo scopo di conoscere e approfondire il Vangelo di Gesù. Colsi così la palla al balzo, diventando sua discepola.

Quali itinerari hai percorso con l’apostolo delle genti?

Dopo essere stato a Listra e a Derbe, Paolo doveva tornare ad Antiochia di Pisidia, da dove era venuto e dove c’era già una comunità cristiana. Andai con lui e rimasi in quella comunità.

La mia bellezza fu notata da un ricco notabile che si invaghì di me. Forte della sua posizione nella città pensò di potermi avere senza grandi difficoltà e cercò a più riprese di abbracciarmi nella pubblica piazza. Ma io rifiutai con fermezza le sue avances e, reagendo ai suoi abbracci, gli strappai di dosso il mantello di fronte a tutti. Quel bel mantello che era il segno della sua alta posizione sociale, mettendolo così in ridicolo. Lui un potente, rifiutato da una giovane sconosciuta come me.

Però lui non si diede per vinto…

Per niente! L’umiliazione pubblica aveva ferito il suo orgoglio. Alessandro, questo era il nome dell’uomo, si diede molto da fare, brigando e intrallazzando con tutti i poteri forti della città, con cui ovviamente era legato. La sua parola contro la mia. Convinse il governatore a farmi dare una punizione esemplare: essere divorata dalle belve nei giochi del circo della città. Non poteva permettere che una giovinetta forestiera mettesse in ridicolo il suo prestigio.

Però non tutti erano d’accordo con lui.

Molte donne di Antiochia protestarono contro la sentenza. La più attiva di tutte fu una ricca vedova, Trifena, che aveva appena finito di piangere la morte di sua figlia che era più o meno della mia età. Aveva avuto anche un sogno nel quale la figlia le chiedeva di accogliermi nella sua casa perché potessi pregare per lei e aiutarla a entrare in cielo. Così rimasi nella sua casa tutti i giorni precedenti all’esecuzione e lei ottenne da Alessandro di potermi stare accanto fino all’ultimo. Nella pace di quella casa mi preparai a morire per unirmi al mio sposo Gesù.

Sei poi stata sbranata dalle belve?

Mi spogliarono completamente e mi misero nell’arena. Dovevo essere l’esca per lo spettacolo delle belve, ma le belve si fecero beffe degli uomini. Una leonessa mi si avvicinò e mi leccò i piedi, difendendomi poi dagli altri animali, così io mi sedetti sulla sua groppa. Le belve si rifiutarono di uccidermi, mentre dagli spalti molte donne, insieme a Trifena, continuavano a protestare per la mia ingiusta condanna.

In quel momento sentii la mano di Dio su di me. Capii che era venuto il momento del mio battesimo. C’era lì una grande vasca con dentro delle grandi foche grigie, molto feroci. Mi ci buttai pronunciando la formula del battesimo. Morire per risorgere con Cristo. Ma anche le foche non mi fecero nulla perché un fulmine improvviso le stordì.

I presenti interpretarono quel fatto straordinario come un segno degli dei. Anzi, il governatore, sconvolto e allo stesso tempo ammirato dalla mia forza d’animo e dall’evento straordinario a cui aveva assistito, mi fece rivestire con vesti nuove e mi fece liberare.

Rivedesti ancora Paolo?

Una volta libera e ormai cristiana battezzata in tutto e per tutto, andai da Paolo nella città di Myra. Per prudenza mi vestii da uomo e mi feci accompagnare da alcuni giovani cristiani. Rimasi con lui per un po’, ma poi Paolo stesso mi invitò a tornare alla mia città per annunciarvi la buona notizia di Gesù. Così tornai a Iconio dove rividi anche mia madre che ormai aveva accettato la mia nuova vita.

Oggi si pensa che santa Tecla non sia mai esistita. Verosimilmente le storie narrate su di lei negli antichi testi sintetizzano in una persona simbolica le vite di martirio e santità di diverse giovani cristiane che hanno avuto la loro vita completamente cambiata dall’incontro con Cristo e hanno avuto il coraggio di andare contro la mentalità dominante. Molte sono le ragazze cristiane che nei secoli hanno pagato con il martirio la loro verginità donata a Cristo.

Sopravvissuta al rogo e alle belve, che ne è stato poi di lei? I manoscritti presentano finali leggermente diversi. La versione più nota racconta che Tecla si ritirò in eremitaggio in una grotta, dove aveva radunato altre donne che condividevano la sua vita. Chi era malato fisicamente o spiritualmente, avvicinandosi a quel luogo, veniva guarito. Per questo i medici della regione avevano cominciato a odiarla, avendo perso i loro clienti. Però la temevano anche, perché pensavano fosse sotto la protezione della dea Artemide, la dea cacciatrice protettrice delle vergini. Così un giorno, Tecla era già novantenne, mandarono degli uomini per farle violenza, ma ancora una volta la santa sfuggì per intervento divino, scomparendo nella roccia della grotta.

Santuari in suo onore sono sorti in tutto il mondo antico. Dipinti, statue, lapidi e affreschi sono sparsi un po’ ovunque, specie in Spagna e Germania. Tutti raffigurano momenti e simboli del suo leggendario martirio. La si vede quasi sempre con un leone al suo fianco, o vicina a una colonna con il fuoco alla base a memoria del rogo.

Santa Tecla è la patrona dei malati di cancro alle ossa.

Don Mario Bandera




Solcare gli abissi, scalare le vette

Testo editoriale di Amico di Luca Lorusso


È sabato in sinagoga. Ci sei tu tra i fedeli, ci sono erodiani e farisei, e c’è un uomo dalla mano paralizzata (Mc 3,1-6). La scena è chiara: tu da una parte, con l’uomo, i tuoi nemici dall’altra.

Per te quell’uomo è al centro. Tuo intento è risanare la sua vita.

Per gli erodiani e i farisei, quell’uomo è strumento. Loro intento è conservare se stessi cercando un pretesto per metterti a morte.

E appena lo guarisci, si accordano per condannarti.

Tu lo sai che il tuo gesto di vita costeggia la morte.
Ma se ti lasciassi guidare dalla paura, non ci sarebbe risurrezione.

Il morire, con tutti i suoi terrori, è attraversabile. Lo prendi in carico.

È con questa certezza, forse, che dalla sinagoga ti dirigi verso il mare. Le acque profonde sono simbolo del morire, di quel limite e dei
demoni che lo popolano, e tu vuoi offrire un segno a chi ti segue.

C’è una grande folla adesso attorno a te. Ti ferma in cerca dei tuoi prodigi. Spaventata dalla sofferenza, ti si getta addosso e ti schiaccia
(Mc 3,7-12). Suo intento è conservare se stessa. Fare di tutto per non morire. Trattenerti a riva per eludere il travaglio della condizione umana.

La tua strada, però, non rende immuni dalla sofferenza, l’attraversa.
E allora dici a chi è disposto a venire con te di preparare la barca.
Tuo discepolo è chi sale con te nella barca della sua esistenza. Insieme ai tuoi prendi il largo. Solchi gli abissi sostenuto dalla precarietà di un legno. Tuo intento è mostrare loro che è possibile vivere.

Dal mare, poi, passi al monte. Sono proprio gli abissi navigabili la porta che introduce all’altura.
Da lì, da quella posizione che avvicina al cielo e
riporta agli uomini, osservi il mondo intero paralizzato – come la mano dell’uomo nella sinagoga – sul bordo del mare, con la sua sete di vita e la sua paura della morte.

È lì sul monte che ora scegli i tuoi apostoli tra i discepoli,
e li costituisci missionari perché stiano con te e perché
vadano a predicare la buona notizia (Mc 3,13-19).

Il tuo intento è dare loro la vita e darla in abbondanza,
perché loro stessi, a loro volta, la ridonino con eccedenza.

Li costituisci e li mandi a mani vuote perché ricordino sempre che sei tu a scacciare i demoni tramite la loro fragilità, e non loro tramite le loro forze.

Loro forza e loro canto è rimanere in te – che li custodisci – e nel tuo amore – che li sospinge – di generazione in generazione, fino agli estremi confini della terra.

In questo mese missionario straordinario
amico ti augura di lasciarti risanare da Lui,
di attraversare i tuoi abissi con Lui,
e di stare alla sua presenza portandolo al mondo.

Luca Lorusso


Per leggere tutto il testo di Amico:




Comprendere l’Islam

testo di Chiara Brivio


Nato 14 secoli fa, l’islam presenta oggi forme diverse. Di solito facciamo l’errore di non darci il tempo per capire la sua complessità e di pensare di poterlo ridurre a pochi concetti. Ma l’islam non è una realtà monolitica, al suo interno ci sono correnti, dottrine, modi di vivere la religione diversissimi tra loro. Entrare in dialogo con i suoi fedeli è la strada maestra. Ne parliamo con il domenicano Adrien Candiard, studioso di islam residente in Egitto.

Adrien Candiard, domenicano francese, classe 1982, è una delle giovani voci più interessanti della Chiesa di oggi. Oltre a essere un apprezzato autore di spiritualità (in Francia i suoi libri hanno ottenuto numerosi riconoscimenti), è anche un esperto di teologia islamica impegnato «sul campo» nel dialogo interreligioso.

Dopo gli studi in scienze politiche alla prestigiosa Sciences Po di Parigi, entrato nello staff di Dominque Strauss-Khann per le primarie socialiste in vista delle presidenziali francesi del 2006, lo lascia in corsa a causa di posizioni divergenti sui temi etici.

In quello stesso anno entra nell’Ordine domenicano e oggi vive al Cairo dove insegna all’Ideo, l’Istituto domenicano di studi orientali.

L’abbiamo intervistato a partire da due sue recenti volumi usciti in Italia per l’Editrice missionaria italiana: Pierre e Mohamed. Algeria, due martiri dell’amicizia, titolo anche di uno spettacolo teatrale in scena in questi giorni in diverse località italiane, e Comprendere l’islam. O meglio, perché non ci capiamo niente, un breve e interessante saggio sui pregiudizi, le fake news e le nostre incomprensioni rispetto alla religione musulmana.

Il suo libro Comprendere l’islam parte da un paradosso. Lei scrive: «Più lo si spiega, meno lo si capisce». Perché è così difficile comprenderlo? È vero che non esiste un «unico islam»?

«Non lo possiamo comprendere perché l’islam è una realtà molto complessa. È una realtà sociale, intellettuale, religiosa nata 14 secoli fa in un territorio amplissimo, e che nel tempo ha preso forme diverse. Noi molto spesso non vogliamo prenderci il tempo di capire questa complessità, vorremmo poterla spiegare con pochi concetti. Infatti l’errore che di solito facciamo è quello di considerare l’islam una realtà unica, monolitica, quando invece al suo interno ci sono correnti, dottrine, modi di vivere la religione diversissimi tra loro e che vediamo manifestarsi molto bene oggi nella crisi che l’islam sta attraversando. Parte di queste difficoltà sono causate dalle divergenze tra gli stessi musulmani».

Di recente ha affermato che «prendersi il tempo di ascoltare i nostri vicini musulmani sulla loro fede è un modo per fare esperienza dell’islam». Lei pensa che nell’Europa di oggi, dove soffiano pericolosi venti nazionalisti e sovranisti, si possa superare la reticenza nell’ascoltare, comprendere e accettare chi ha una cultura, una lingua o una religione diversa?

«Nella Bibbia l’espressione “non abbiate paura” è ripetuta oltre 365 volte, forse perché per l’essere umano è normale avere paura. La paura dell’islam, dell’immigrazione, dei cambiamenti che stiamo vivendo in tutta Europa, sono normali, ma non dobbiamo disprezzare chi prova questi sentimenti, al contrario, dobbiamo prenderli sul serio. Queste paure vanno comprese, non devono però dominarci né dettare ciò che pensiamo, per questo è importantissimo incontrare persone diverse, fuori, per vedere che non sono soltanto dei musulmani, ma che hanno tante altre caratteristiche, e che alla fine sono degli esseri umani come noi. Quando si ha la possibilità di fare amicizia, e questo si può fare, non si vede solo un musulmano, si vede un’altra persona. Poi magari si scopre che le nostre paure erano un po’ troppo generiche».

Perché nel suo libro e spettacolo teatrale Pierre e Mohamed ha scelto di raccontare l’amicizia tra il vescovo di Orano in Algeria e il suo autista Mohamed, uccisi insieme nel 1996 da una bomba dei fondamentalisti islamici?

«La loro mi sembrava una bella storia che ci parla di amicizia. Secondo me l’amicizia è una virtù anche cristiana – non solo, ma anche cristiana – ed è ciò che rende possibile l’incontro tra le religioni. A questo proposito: spesso mi viene chiesto se è possibile un dialogo tra le religioni. Io rispondo di no, che il dialogo si stabilisce tra le persone, non tra le religioni. Questa storia di amicizia mi sembrava un bel simbolo da proporre in questi tempi. Ce n’è più che mai bisogno».

Riguardo alla presunta incompatibilità tra islam e democrazia, in Comprendere l’islam lei afferma che «come per ogni trasformazione di grande entità, essa ha bisogno di discussione, le cui conclusioni non possono essere scritte in anticipo». Ce lo può spiegare meglio?

«Mi viene in mente spesso una teoria che è stata popolare in Francia fino al 1945 e che riguardava i tedeschi. Si diceva che era impossibile per loro, a causa della loro germanicità, vivere in uno stato democratico. Poi si è visto che questa germanicità non impediva il processo democratico, anzi. Secondo me non esistono delle impossibilità strutturali essenziali. È ovvio che nelle culture islamiche, che tra l’altro sono diverse tra di loro, ci sono degli ostacoli nei confronti della democrazia, tuttavia questi sono ostacoli umani. Le evoluzioni sono possibili, le abbiamo viste in quasi tutti i paesi musulmani nel ‘900, quando sono nate legislazioni civili, parlamenti, anche se forse in poca democrazia. Guardiamo per esempio alla Tunisia di oggi, che si sta inventando un modello di democrazia in un paese arabo islamico, pur con tutte le difficoltà del caso. Vedremo come questo modello si evolverà».

Da dove viene il terrorismo islamista?

«Il fenomeno del terrorismo non può essere spiegato del tutto solo dalla teologia, perché non è solo un fenomeno religioso, ma anche dalla psicologia, dalla geopolitica e da altre discipline. Però dal punto di vista religioso l’islam di oggi sta attraversando una grave crisi di legittimità. Nell’islam sunnita le autorità tradizionali vengono messe in discussione da un movimento di riforma chiamato salafismo, che è nato nell’800 ma che ha trovato slancio nel secondo ‘900 e che sta creando una fortissima destabilizzazione. Il terrorismo è anche conseguenza di questo».

Il documento sulla fratellanza umana firmato da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyib, grande imam di Al-Azhar, durante il viaggio del santo padre negli Emirati Arabi Uniti, è considerato da molti un documento epocale in termini di apertura e dialogo tra cristiani e musulmani. Che valore ha questo documento e come è stato ricevuto in Egitto, dove lei risiede?

«È un documento molto importante non tanto per il suo contenuto, ma per il fatto di essere stato scritto a quattro mani da due autorità, una cristiana e una musulmana. È una cosa nuova e molto bella che ci dimostra che questo dialogo è possibile. In Egitto è stato preso molto sul serio, e il grande imam l’ha fatto leggere e studiare a tutti i suoi allievi, che rappresentano milioni di persone. Penso comunque che ci vorrà del tempo per comprendere a fondo le conseguenze e le implicazioni del documento».

Chiara Brivio


Comprendere l’islam

Dall’11 settembre l’islam è stato analizzato in centinaia di testi. I talk show ci bombardano di pareri e opinioni. Spesso la discussione pubblica viaggia sulla strada della semplificazione. E semplificare una religione che coinvolge oltre un miliardo di persone non le rende giustizia.

Adrien Candiard, che l’islam lo studia da anni abitando in terra islamica, ci consegna in queste pagine una fotografia più realistica di cosa sono e di cosa significano gli islam: quello sciita, quello sunnita e quello di altre minoranze.

Candiard smaschera tanti pregiudizi e ci apre a un dialogo intelligente insegnandoci il rispetto per la pluralità.

Il libro: Adrien Candiard, Comprendere l’islam. O meglio, perché non ci capiamo niente, Emi, Verona 2019, pp. 128, 13 Euro.

da emi.it


Pierre e Mohamed

Due amici: Pierre Claverie, un vescovo cattolico, Mohamed Bouchikhi, un giovane musulmano. Il primo ha scelto di restare in Algeria per testimoniare Cristo dentro la violenza del terrorismo. Il secondo ha deciso di diventare il suo autista. Intorno a questi due personaggi, reali come la vita e la morte, infuria la guerra civile: siamo nell’Algeria degli anni Novanta, 150mila morti ammazzati nello scontro fratricida fra integralisti islamici e militari.

Le due voci sono quelle del vescovo Pierre che resta a fianco del suo popolo come chi rimane «al capezzale di un fratello ammalato, in silenzio, stringendogli la mano». Per questo motivo oggi la chiesa lo riconosce martire. E dell’autista Mohamed, ben consapevole del rischio, che resta accanto all’amico cristiano in pericolo di vita. Fino alla fine, fino a quel drammatico 1° agosto 1996.

Il libro: Adrien Candiard, Pierre e Mohamed. Algeria, due martiri dell’amicizia, Emi, Verona 2018, pp. 88, 9,50 Euro.

Da questo libro è stata tratta una pièce teatrale replicata 1.400 volte in 7 diversi paesi del mondo. Da settembre 2019 lo spettacolo è anche in Italia.

da emi.it