Il nostro cervello e il frigo intelligente

testo di Rosanna Novara Topino |


Siamo circondati e spesso sommersi da onde elettromagnetiche. Quasi sempre nell’indifferenza, anche per mancanza d’informazioni comprensibili e affidabili. Adesso arriva la tecnologia detta del 5G e l’«internet delle cose». Quali sono le conseguenze per l’ambiente e la salute? Siamo certi che questo futuro così pubblicizzato sia una rivoluzione positiva?

Salgo su un’auto che si guida da sola, per portarmi al lavoro in un’azienda 4.0 (nel mio reparto siamo solo quattro umani, tutti gli altri sono robot) e intanto mi arriva sullo smartphone un messaggio dal mio frigorifero intelligente, che mi comunica un suo certo vuoto interiore, a cui posso porre immediato rimedio ricorrendo all’app del mio ipermercato. Con essa posso scegliere i miei prodotti preferiti e concordare l’orario per l’arrivo del drone, che me li porterà direttamente sul terrazzo di casa. Sembra fantascienza, ma invece l’«internet delle cose» è già realtà, magari a livello di prototipo, come nel caso delle auto a guida da remoto.

La tecnologia 5G

L’espansione della tecnologia wireless (senza fili) 5G (5th Generation) per le telecomunicazioni – che consente l’«internet delle cose» – è attualmente in fase sperimentale in alcune smart city italiane come Milano, l’Aquila, Matera, Prato, Bari e Torino – quest’ultima è la prima città d’Italia con la rete live 5G Edge («Edge computing» è un sistema di elaborazione delle informazioni ai margini della rete servita, che riduce i tempi di latenza dei dati, permette risposte in tempo reale e risparmio di banda) con droni connessi, utilizzabili per il monitoraggio ambientale e la sicurezza dei cittadini. Questa tecnologia migliorerà enormemente anche la telemedicina. Peccato che quest’ultima potrebbe ritrovarsi a curare proprio le patologie eventualmente indotte dalle radiofrequenze su cui è basata la tecnologia 5G. Già, perché la sua sperimentazione è partita nelle suddette città e in un centinaio di comuni italiani minori verrà effettuata nei prossimi due anni, senza minimamente mettere in conto i possibili rischi per la salute umana e animale e per l’ambiente, non essendo stati coinvolti né il ministero della Salute, né quello dell’Ambiente. Ma che tecnologia è il 5G e a quali rischi possiamo andare incontro con la sua diffusione?

Le radiazioni e le frequenze

La tecnologia 5G, come le tecnologie wireless di grado inferiore, che l’hanno preceduta e che tuttora usiamo, impiega onde elettromagnetiche, in particolare onde radio, cioè onde non ionizzanti di frequenza di gran lunga superiore a quella delle tecnologie precedenti ed è caratterizzata da lunghezze d’onda millimetriche. In particolare le bande di frequenza utilizzate per il 5G sono inizialmente comprese in tre fasce da 700 MHz,  3,4-3,8 GHz, 26 GHz (in fisica l’Hz è l’unità di misura della frequenza; 1 Hz = un impulso al secondo; 1 MHz = 1.000.000 Hz e 1 GHz = 1 miliardo Hz) e successivamente verranno utilizzate bande comprese tra 24-25 e 86 GHz (secondo l’Agcom, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Considerando le tecnologie 2G, 3G, 4G attualmente in uso (che non verranno sostituite, ma affiancate dal 5G), le loro frequenze vanno complessivamente da 800 a 2600 MHz.

Il fatto che per il 5G le radiofrequenze abbiano una lunghezza d’onda millimetrica implica che sono necessarie migliaia di stazioni radio base e un numero molto elevato di mini-antenne sul territorio, che permetteranno il collegamento tra loro di circa un milione di oggetti per chilometro quadrato, con una iperconnessione permanente e ubiquitaria e una velocità di trasferimento dati da 100 a 1.000 volte superiore, rispetto all’attuale. Per implementare l’iperconnessione, le società di telecomunicazioni (supportate dai governi) non si limiteranno all’uso di stazioni radio terrestri, ma nelle previsioni arriveranno ad utilizzare circa 20mila satelliti posizionati nella magnetosfera. L’obiettivo è quello di arrivare ad un cambiamento tecnologico su scala globale per avere case, imprese, autostrade, città di tipo «smart», cioè «intelligenti» e auto a guida autonoma. In Italia è prevista una copertura del 5G del 99,4% del territorio entro giugno 2023.

Studi e rapporti: a chi credere?

Cosa comporta tutto questo per la salute e per l’ambiente?

La risposta a questa domanda vede schierati su fronti opposti i sostenitori di questa tecnologia: da un lato solitamente fisici, informatici, ingegneri, matematici spesso legati alle società di telecomunicazione, e dall’altro medici e biologi che portano i risultati di almeno 10mila studi peer review (la procedura di selezione di articoli e progetti operata dalla comunità scientifica, ndr) i quali dimostrano effetti biologici avversi a seguito dell’esposizione a campi elettromagnetici (Cem).

La prima contestazione dei sanitari riguarda il limite, secondo loro troppo elevato, della potenza massima di trasmissione attestato in Italia sui 6 V/m (6 volt/metro misurati in una media di 6 minuti), limite stabilito dall’Icnirp (International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection), un organismo non governativo, basato in Germania e riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che si occupa di ricercare i possibili effetti nocivi sul corpo umano dell’esposizione a radiazioni non ionizzanti. Questo organismo ha elaborato linee guida, cioè delle raccomandazioni ai governi nazionali per l’adozione di limiti di esposizione per la protezione delle persone (pubblico e lavoratori). Sulla base di tali linee guida, nel 1999 l’Unione europea ha emanato una raccomandazione, affinché gli stati membri adottassero una normativa comune per la protezione del pubblico basata sui dettami dell’Icnirp e nel 2004 è seguita una direttiva per la protezione dei lavoratori. I medici contestano i valori limite dettati dall’Icnirp, perché ottenuti studiando gli effetti dei Cem su manichini riempiti di gel, i phantom, come modelli umani, senza considerare che tali modelli non possiedono le stesse proprietà dielettriche del corpo umano. Essi inoltre affermano che sono stati presi in considerazione unicamente gli effetti termici delle radiofrequenze, ma non quelli biologici, le cui conseguenze sono state dimostrate dagli studi sunnominati, che sono in parte epidemiologici ed in parte sperimentali.

Secondo il rapporto indipendente sui campi elettromagnetici e diffusione del 5G dell’Isde (International society of doctors for environment, l’Associazione dei medici per l’ambiente) pubblicato il 10 settembre 2019, la maggior parte degli studi che rassicurano sul rischio per la salute da esposizione a radiofrequenze, tra cui il progetto Interphone, sul quale si basano le posizioni dell’Oms, hanno ricevuto finanziamenti da soggetti privati, tra i quali i gestori della telefonia mobile. Per quanto riguarda l’Icnirp, la quale afferma che sotto i limiti da essa fissati per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti non vi sono rischi per la salute umana, in un’inchiesta pubblicata il 16 gennaio 2019 da il Fatto Quotidiano si legge che diversi membri di questa commissione collaborano a vario titolo con le società di telecomunicazione e da quel settore ricevono compensi.

Le patologie indotte

Nel 2015 scienziati di 41 paesi hanno informato le Nazioni Unite e l’Oms che molti studi scientifici dimostrano che i campi elettromagnetici colpiscono gli organismi viventi a livelli anche molto più bassi rispetto a quelli indicati come sicuri dalla maggior parte delle linee guida internazionali e nazionali (già da 0,6 V/m). Oltre agli effetti termici da esposizione acuta, i Cem determinano effetti biologici da esposizione cronica. Tra i principali effetti biologici, indipendenti da quelli termici, ci sono i danni alla barriera ematoencefalica, con un aumento del rischio di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, l’infertilità soprattutto maschile (lesioni strutturali e funzionali del testicolo, alterazione dei parametri dello sperma e della sua concentrazione nell’epididimo), disturbi neuro-comportamentali, danni alle cellule neuronali, danni al feto e alterazioni del neuro-sviluppo, aumento dello stress ossidativo, danni al Dna, disturbi metabolici e del sistema endocrino, alterazioni del ritmo cardiaco. In particolare l’aumento dello stress ossidativo e i danni al Dna si traducono in un aumentato rischio di tumori. A seguito di esposizione prolungata a radiofrequenze è stato osservato l’aumento dei gliomi cerebrali soprattutto ipsilaterali, dei neurinomi acustici, dei linfomi, dei tumori del pancreas, del cuore e delle ghiandole surrenali.

Nel 2011, la Iarc (International agency for research on cancer) inserì le radiofrequenze in classe 2B (possibile cancerogeno), ma, alla luce delle nuove evidenze scientifiche di numerosi studi, tra cui quelli compiuti su modelli animali da due autorevoli e indipendenti gruppi di ricerca, l’Istituto Ramazzini in Italia e il National toxicology program negli Stati Uniti, essa ha deciso di rivedere la classificazione delle radiofrequenze, che potrebbero passare in classe 2A (probabile cancerogeno) o addirittura in classe 1A (cancerogeno certo).

Accade nelle nostre scuole

Diversi studi hanno evidenziato una particolare vulnerabilità alle radiofrequenze nei bambini e nelle donne in gravidanza. In particolare uno studio svedese di Hardell et al., 2013, ha dimostrato che l’uso del cellulare prima dei 20 anni porta a un rischio di glioma ipsilaterale quattro volte superiore, rispetto ai controlli. Questo dato è particolarmente importante, se si pensa che ormai bambini e adolescenti sono costantemente immersi nei campi elettromagnetici, che tutti insieme vanno a costituire l’elettrosmog. Non solo i bambini e ragazzi ormai dispongono quasi tutti di un cellulare, pc o tablet, ma passano parecchie ore delle loro giornate in scuole sempre più connesse, per le quali il cosiddetto «Bando Wi-Fi» del luglio 2015 ha stanziato un finanziamento di circa 90 milioni di euro per la realizzazione o il miglioramento delle reti wi-fi all’interno delle scuole del I e II ciclo d’istruzione. Purtroppo, nei bambini e nei ragazzi, la capacità di assorbimento delle radiofrequenze è superiore rispetto agli adulti a causa del maggiore contenuto di acqua dei loro tessuti e del minore spessore delle ossa craniche. Questo espone i ragazzi ad un maggiore rischio di contrarre patologie importanti come il cancro.

Del resto, si può immaginare il livello di esposizione in una classe dove siano contemporaneamente presenti 25-30 cellulari (liberalizzati dalla ex ministra all’Istruzione Fedeli, che ha sostenuto il Byod, Bring your own device, «Porta il tuo dispositivo», nell’ambito del progetto Buona scuola), alcuni pc o tablet, la lavagna elettronica (detta Lim) e la connessione wi-fi della scuola.

Nel 2017 l’Isde italiana (il suo sito: www.isde.it) ha chiesto una moratoria al governo, per interrompere la sperimentazione del 5G in atto, finché non si sappia qualcosa di più circa la sua pericolosità o innocuità. Tutti i dati scientifici a disposizione si riferiscono a frequenze di gran lunga inferiori a quelle utilizzate dal 5G e di fatto ci ritroviamo a fare da cavie umane in questa sperimentazione. Sarebbe perciò doveroso applicare il principio di precauzione ed evitare di esporre la popolazione a inutili rischi, in assenza di studi mirati.

Nell’agosto 2019 l’Istituto superiore di Sanità ha emesso il rapporto Istisan 19/11, nel quale gli autori, dopo avere escluso dalla loro analisi importanti studi sia epidemiologici, che sperimentali in modo del tutto arbitrario, con motivazioni errate come la mancanza di significatività statistica o pretestuose come la non ancora avvenuta pubblicazione su riviste peer review, sono giunti a conclusioni rassicuranti sugli effetti delle radiofrequenze e sull’utilizzo dei cellulari. Addirittura essi sostengono che, alla luce dei dati attuali, l’uso comune del cellulare non sia associato all’aumento del rischio di alcun tumore cerebrale, mantenendo un certo grado d’incertezza per un uso molto intenso soprattutto dei vecchi modelli di cellulare con maggiori potenze di emissione rispetto a quelli di ultima generazione. Anch’essi inoltre affermano di non potere fare previsioni sull’impatto del 5G sulla salute. Poiché il rapporto Istisan è stato stilato a seguito di un esame incompleto della letteratura scientifica, senza la valutazione delle più recenti evidenze sperimentali, per cui esso tiene in conto solo gli effetti termici delle radiofrequenze e non quelli biologici (in linea con l’Icnirp), l’Isde italiana ha chiesto il ritiro di questo documento all’Istituto superiore di Sanità ed una sua rielaborazione più ampia.

Ne vale la pena?

Il 2 ottobre 2019 è terminata l’asta per l’assegnazione delle frequenze 5G. Le offerte per le bande messe a disposizione hanno superato i 6,5 miliardi di euro, superando la cifra minima stabilita dalla legge di bilancio. Il 5G inizialmente funzionerà con elementi emittenti nella fascia 3,5-3,6 GHz e antenne phase array, cioè a «schiera in fase». Sarà necessaria l’installazione nelle aree urbane di moltissimi micro-ripetitori, con conseguente aumento della densità espositiva, poiché i molti palazzi e piante rappresentano un ostacolo alla trasmissione lineare (in teoria le piante non dovrebbero superare i 4 m di altezza, quindi potranno verificarsi generose potature, se non addirittura eliminazioni). Quando la tecnologia 5G sarà potenziata, ogni operatore dovrà installare stazioni base ogni 100 m in ogni area urbana del mondo e ricorrerà anche a satelliti in orbita, che emetteranno onde millimetriche a fasci focalizzati e orientabili, con una potenza effettiva irradiata di 5 milioni di watt. Secondo i meteorologi, tutto ciò potrebbe interferire pesantemente sulle previsioni dei gravi eventi atmosferici, con grande rischio per le popolazioni delle aree interessate.

Siamo sicuri che valga la pena di correre tutti questi rischi per avere case, auto, industrie, oggetti «intelligenti», che probabilmente renderanno noi sempre più stupidi? Ma soprattutto, tutto questo ci rende felici o schiavi della tecnologia imperante e di chi la controlla?

Rosanna Novara Topino




Nigeria: Estremisti fulani, armati e impuniti

testo di Marta Petrosillo di ACS |


Meno noti dei terroristi di Boko Haram, uccidono più di loro. Gli islamisti fulani, nella cintura centrale del paese, fanno migliaia di vittime, anche per motivi religiosi. Nell’impunità e nell’indifferenza del mondo.

Nel 2018 la Nigeria è stato il secondo paese al mondo per numero di vittime da terrorismo: per il Global terrorism index 2019 (Gti), le vittime sono state 2.040, meno dell’Afghanistan (7.379), più dell’Iraq (1.054).

In un rapporto dello scorso settembre, la Croce rossa internazionale ha illustrato cifre da guerra: nell’ultimo decennio gli attacchi del noto gruppo islamista Boko Haram hanno provocato, soprattutto nel Nord, 27mila morti, 22mila dispersi, di cui più della metà minorenni, e più di 2 milioni di sfollati.

Delle 2mila vittime del 2018 contate dal Gti, però, ben 1.158 sono attribuite non a Boko Haram, ma agli estremisti fulani.

Se gli sforzi dell’esercito nigeriano, infatti, ottengono finalmente qualche vittoria contro Boko Haram, cresce però il pericolo dei pastori islamisti che, nella cintura centrale del paese, uccidono impuniti.

Un problema che affligge gli agricoltori cristiani almeno dal 2013, ma di cui il mondo si è accorto solo nell’aprile 2018, dopo l’attacco alla chiesa di Sant’Ignazio nel villaggio di Mbalom, nello stato di Benue. Quel giorno sono stati trucidati 17 parrocchiani e due sacerdoti.

Storia di un popolo

I Fulani sono un popolo semi nomade dedito alla pastorizia, presente in larghe parti dell’Africa occidentale, dalla Mauritania al Camerun. Dei circa 20 milioni totali, 14 milioni vivono nella sola Nigeria.

Si tratta di un’etnia con una lunga storia alle spalle: è possibile trovarne menzione già in antichi scritti arabi.

Molti di loro hanno iniziato a dedicarsi all’allevamento del bestiame tra il XIII e il XIV secolo. La tribù ha vissuto il suo momento di maggiore espansione prima del periodo coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo, assumendo il nome di califfato di Sokoto, e si ritiene che si debba a essa la diffusione dell’Islam nell’Africa occidentale. Con l’arrivo dei colonizzatori francesi e britannici, tuttavia, l’impero fulani è collassato.

Sebbene vi siano anche dei Fulani sedentari, la cultura tradizionale è stata preservata principalmente dai nomadi.

Radicalizzati e armati

I mandriani fulani in Nigeria hanno sempre fatto pascolare liberamente il loro bestiame nel Nord del paese e nella cosiddetta Middle Belt, la cintura di stati che si frappone tra il Nord a maggioranza musulmana e il Sud a maggioranza cristiana.

Alcuni attribuiscono l’escalation di violenza degli ultimi anni a fattori di tipo etnico o economico. Certamente le tensioni tra agricoltori e pastori, aggravate dalla diversa appartenenza etnica, sono sempre state presenti. È anche vero che i cambiamenti climatici e la riduzione delle terre da pascolo stanno spingendo i Fulani a spostarsi in zone nuove. Ma negli ultimi anni gli attacchi si sono fatti sistematici, più feroci e, soprattutto, con una connotazione religiosa.

Gli obiettivi, infatti, sono spesso cristiani, così come le aree sono quelle a maggioranza cristiana.

Don Polycarp Lamma, della diocesi di Jalindo, non ha dubbi sul fatto che le violenze siano religiosamente motivate: «Quando attaccano, gridano “Allah u Akbar”. Se volessero semplicemente attaccare un diverso gruppo etnico, perché gridare una simile frase? Vogliono attaccare i cristiani».

Sebbene il Gti spieghi che gli eventi attribuiti agli estremisti fulani riflettono l’uso del terrorismo come una tattica utilizzata nel conflitto tra pastori e agricoltori, e che non ci sia un vero e proprio gruppo unico e organizzato, è innegabile che molti tra di loro si sono radicalizzati e, soprattutto, si sono dotati di armi di ultima generazione che prima non possedevano.

Nigeria, Kaduna / © Aid to the Church in Need

I sospetti sul potere

«Prima i Fulani portavano le mandrie assieme alle loro famiglie e avevano con sé dei semplici bastoni – ci racconta mons. William Amove Avenya, vescovo di Gboko, nello stato a maggioranza cristiana di Benue -, oggi sono armati di fucili Ak 47. Armi costose che non possono permettersi. Chi le fornisce loro? Poi, in quelle aree ci sono check point ogni due chilometri. Perché nessuno li ferma?».

Nonostante i ripetuti massacri, nessun colpevole è stato fino a oggi indagato, arrestato o condannato.

Secondo alcuni, il principale motivo di questa assenza di misure di contrasto alla violenza, sta nell’appartenenza dell’attuale presidente Mohammed Buhari proprio all’etnia fulani.

«Vogliono colpire i cristiani, e il governo non fa nulla per fermarli, perché anche Buhari è di etnia fulani», ha dichiarato lo scorso anno ad Acs, Aiuto alla Chiesa che soffre il vescovo di Lafia, nello stato di Nassarawa, mons. Matthew Ishaya Audu.

A lui si unisce anche monsignor Peter Iornzuul Adoboh: «È triste, ma dobbiamo constatare che è come se vi fosse un ordine da parte del governo federale di non intervenire. E così i Fulani uccidono, distruggono e poi fuggono, mentre nessuno fa niente. Anzi, se la polizia trova la gente locale con le armi che cerca di difendersi, generalmente arresta questi anziché i Fulani. I mandriani si sentono forti, perché c’è un loro uomo al potere che li protegge».

Buhari è perfino il patrono della principale organizzazione di pastori fulani, la Miyatti Allah cattle breeders association of Nigeria, Macban, che, secondo alcune Ong locali, dovrebbe essere perseguita per terrorismo. E, come fa notare la Ong nigeriana International society for civil liberties & the rule of law (nota come Intersociety), l’ondata di violenze dei Fulani si è intensificata già a partire dal giugno 2015, un mese dopo l’elezione di Buhari a presidente.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Difficile da definire, chiaro nella sua gravità

Se il Gti parla di 1.158 vittime degli estremisti fulani nel 2018, e Amnesty international cita, per lo stesso anno, 2.000 morti e 182mila sfollati, Intersociety sostiene addirittura che i morti siano 2.400, a testimonianza di quanto sia ancora difficile da descrivere e monitorare il fenomeno.

Intersociety aggiunge che tra il giugno 2015 e il dicembre 2018, gli estremisti fulani hanno ucciso non meno di 6mila cristiani e incendiato o distrutto più di mille chiese. Una tendenza che purtroppo non pare invertirsi nel 2019: nei primi quattro mesi dell’anno, infatti, i fondamentalisti hanno massacrato tra i 550 e i 600 cristiani, e distrutto centinaia di abitazioni e dozzine di chiese. Un numero superiore anche alle vittime di Boko Haram che, nello stesso periodo, ha ucciso «solo» 200 cristiani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Il fattore religioso

Difficile sostenere la tesi secondo la quale quello religioso non sia almeno uno dei fattori all’origine delle violenze. Così come riteniamo sia improprio descrivere quanto accade oggi in Nigeria come un «conflitto etnico tra pastori e agricoltori».

Il numero delle vittime – che si contano anche tra i Fulani – è troppo sbilanciato da una parte.

«I mandriani arrivano di notte, mentre la gente dorme – spiega mons. Adoboh -. Le abitazioni dei contadini in genere sono isolate, perché circondate dai terreni e, dunque, gli assassini possono agire indisturbati.

Lo schema è semplice: danno fuoco alla casa costringendo gli abitanti a uscire. Poi li massacrano. Adulti, bambini, donne incinte, anziani. Sono davvero scene orribili. I contadini cristiani non hanno le armi per difendersi, mentre i fulani sono armati fino ai denti».

Sì perché a inizio 2018, mentre le violenze dei Fulani si facevano più numerose e cruente, il governo nigeriano ha disposto il sequestro o la consegna volontaria di tutte le armi da fuoco personali. Un passo mirato a rastrellare le armi in vista delle elezioni generali del febbraio 2019, e a ridurre le violenze. Un provvedimento comprensibile in un paese come la Nigeria, nella quale circola gran parte degli otto milioni di armi dell’intera Africa occidentale, e dove il 59% dei loro detentori sono civili, solo il 38% membri delle forze armate governative, il 2,8% poliziotti.

Il problema, però, è che tale misura non è applicata ai Fulani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Espansione islamista

«Viviamo nel terrore. I Fulani sono ancora qui e rifiutano di andarsene. E noi non abbiamo armi per difenderci», scriveva nel gennaio 2018 su Twitter padre Joseph Gor, ucciso poi mentre celebrava la messa assieme a padre Felix Tyolah e a 17 fedeli il 24 aprile a Mbalom.

La piccola chiesa di Sant’Ignazio a Mbalom è stata colpita mentre i vescovi della Nigeria si trovavano a Roma per la visita ad limina apostolorum. Ma anche a distanza l’episcopato si è fatto sentire attraverso un comunicato ufficiale nel quale ha apertamente messo sotto accusa la mancanza di azione da parte del governo. «Il fatto che sia stato teso un agguato ai due sacerdoti, assieme ai loro parrocchiani, proprio durante la celebrazione della santa messa di mattino presto, suggerisce che il loro omicidio sia stato accuratamente pianificato. Questo atto malvagio non può essere definito un attacco per vendetta (come spesso è stato sostenuto in questi casi). Per quale motivo sono stati attaccati? Perché nessuno è intervenuto?».

All’indomani del tragico attacco a Mbalom, mons. Wilfred Chikpa Anagbe, vescovo di Makurdi, ha dichiarato ad Acs: «C’è una chiara agenda, un piano per islamizzare tutte le aree a maggioranza cristiana della Middle Belt nigeriana».

Lo stato di Benue, tra i pochi nell’area a maggioranza cristiana è, infatti, quello più colpito dalle violenze. Tra i cristiani è forte il sospetto che vi sia un piano per espandere l’influenza islamista nella cintura centrale e nella Nigeria meridionale.

Impunità

Più volte i vescovi hanno richiamato le autorità federali al proprio dovere. Anche il 22 maggio 2018, la giornata in cui si sono celebrati i funerali delle vittime di Mbalom e si sono tenute in tutto il paese marce di protesta pacifiche per chiedere al governo di porre un freno agli attacchi. Quel giorno i vescovi hanno intimato al presidente Buhari di fare il proprio dovere. Primo fra tutti, l’allora arcivescovo di Abuja, il card. John Onaiyekan, che, in un messaggio al presidente, ha affermato: «Proteggi le nostre vite oppure fatti da parte. I nigeriani continuano a venire uccisi e molti di noi si stanno chiedendo se esiste ancora un governo nella nostra nazione».

Eppure la risposta è stata debole. La proposta di Buhari è stata semplicemente quella di creare delle aree per permettere ai Fulani di far pascolare le proprie mandrie; aree, peraltro, che dovrebbero essere sottratte ai contadini. Vi è stata perfino una campagna dal provocativo slogan: «Meglio vivi senza la terra, che morti con la terra».

© ACN / Diocesi di Makurdi

Sotto gli occhi di tutti

Intanto si aggrava di giorno in giorno il bilancio delle vittime. Nella notte del primo agosto scorso un gruppo di uomini armati ha ucciso un sacerdote, don Paul Offu, parroco di Saint James the Greater (Ugbawka) nella diocesi di Enugu. È stato il sito web della diocesi a riferire che, con tutta probabilità, è stato ucciso da mandriani fulani.

Stessa sorte era toccata precedentemente, sempre nell’area di Enugu, a padre Clement Rapuluchukwu Ugwu, parroco di San Marco. Il sacerdote, rapito nella notte del 17 marzo 2019, è stato poi trovato morto nella boscaglia dai suoi parrocchiani.

Il 15 luglio 2019 una donna incinta è stata brutalmente uccisa assieme ad altri due cristiani ad Ancha, nello stato nigeriano di Plateau. Cinque giorni dopo, il 20 luglio, nella diocesi di Jalindo nello stato di Taraba, il giovane agricoltore cristiano Solomon Yuhwam è stato ucciso nella sua abitazione da mandriani fulani. Nel marzo del 2014 era riuscito a salvarsi – fingendosi morto – da un altro attacco fulani che era invece costato la vita a suo fratello e a tanti altri cristiani del suo villaggio.

La lista è lunga, così come è elevato il numero di cristiani che fuggono dalle proprie case, spingendo le diocesi dell’area ad aprire campi di accoglienza.

Eppure sembra che nessuno possa o voglia fermare le violenze, nonostante i ripetuti appelli, anche all’Occidente, da parte dei vescovi nigeriani. «Non commettete lo stesso errore che è stato fatto con il genocidio in Ruanda – ha più volte ribadito monsignor William Amove Avenya, vescovo di Gboko -. Era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo ha fermato».

Marta Petrosillo




Qual buon «Venti»

testo di Chiara Giovetti |


Nel 2020 arrivano a scadenza o vengono lanciate diverse iniziative internazionali che riguardano lo sviluppo, l’ambiente, il clima. È anche l’anno internazionale delle piante e di un importante compleanno dell’Onu.

Nel 2020 le Nazioni unite compiranno tre quarti di secolo. L’Onu nacque infatti ufficialmente 75 anni fa, il 24 ottobre 1945, con l’entrata in vigore della «Carta delle Nazioni unite», il suo trattato fondativo.

Per celebrare la ricorrenza, ha annunciato il segretario generale António Guterres, l’Onu lancerà un dibattito che si chiamerà Un75@ e sarà «la più ampia e approfondita conversazione globale mai realizzata sulla costruzione del futuro che vogliamo». Tutti possono partecipare, si legge sul sito, in modo formale o informale, online o no.

Nel contempo saranno condotti sondaggi di opinione e analisi dei mezzi di comunicazione a livello globale, così da ottenere dati statisticamente significativi per diffonderli e portarli all’attenzione dei leader mondiali.

Fra le questioni più urgenti che il dibattito affronterà vi sono le nuove tecnologie con tutte le loro opportunità e i pericoli, il modo in cui si sono evoluti i conflitti e come affrontarli, l’aumento delle diseguaglianze e la necessità di chiudere la forbice, i cambiamenti demografici – con un pianeta che si prepara a passare dagli attuali 7,7 miliardi di abitanti ai 9,7 del 2050 – e il cambiamento climatico.

Le scadenze

Il programma che contiene in 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (in inglese Sustainable development goals, o Sdg) ha come orizzonte temporale il 2030@.

Per capirci: sarà nel 2030 che il mondo potrà fare una valutazione sul raggiungimento degli obiettivi come si fece nel 2015 per gli Mdg (Millennium development goals, obiettivi del millennio). Tuttavia, ventuno sotto obiettivi, su 169, hanno come scadenza il 2020 (vedi i due box). Di questi, dodici riguardano la biodiversità e sappiamo già che non saranno raggiunti.

Secondo un rapporto del Wwf@, questi dodici obiettivi sono cruciali per il complessivo successo degli Sdg perché riguardano il mantenimento e il ripristino di risorse naturali da cui l’umanità dipende per sopravvivere. Ogni anno, si legge nel rapporto, gli ecosistemi forniscono all’economia globale un valore pari a 125 mila miliardi – una volta e mezzo il Pil del pianeta – sotto forma di acqua potabile, cibo, aria, assorbimento del calore, suoli produttivi, foreste e oceani che assorbono anidride carbonica. Proteggere l’ambiente e ristabilire le risorse naturali, quindi è – letteralmente – una questione vitale. Il cambiamento climatico è poi un altro tema centrale del nostro tempo e promette di prendere quest’anno ancora più spazio. È vero che il mondo si è dato tempo fino al 2030 per realizzare un taglio del 45% delle emissioni di anidride carbonica, necessario per contenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo in questo secolo. Ma, fa presente Mission 2020, il gruppo di pressione guidato dalla ex segretaria esecutiva della «Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici», Christiana Figueres, se nel 2020 si riuscisse davvero a bloccare il picco delle emissioni (e cominciare quindi a ridurle) questo renderebbe il meno costosa possibile la transizione verso un’economia libera dai combustibili fossili entro il 2050@.

Sempre a proposito dell’impegno per affrontare il cambiamento climatico, alla fine di quest’anno si svolgerà a Glasgow la ventiseiesima conferenza delle parti firmatarie della «Convenzione quadro», o Cop26, che sarà probabilmente la più importante dopo quella del 2015, durante la quale 195 paesi firmarono l’«accordo di Parigi» con il suo piano di azione per mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C. Dal momento che gli impegni presi a Parigi si sono rivelati insufficienti per ottenere il risultato, scrivono gli studiosi dell’Hoffman centre, centro di ricerca della prestigiosa Chatam house, la Cop26 sarà il primo momento di revisione e l’occasione per assumersi nuovi e più ambiziosi impegni@.

L’Unione europea e Horizon 2020

Si conclude con quest’anno anche il programma Horizon 2020, il più ampio programma mai lanciato dall’Unione europea nel settore della ricerca e dell’innovazione. Realizzato negli anni dal 2014 al 2020, ha messo a disposizione circa 80 miliardi di euro «con lo scopo di assicurare che l’Europa produca scienza di livello mondiale, rimuova le barriere all’innovazione e renda più facile la collaborazione fra settore pubblico e privato nel fare innovazione».

Horizon 2020 ha avuto anche una componente legata alla cooperazione internazionale che si è rivolta a paesi in via di sviluppo. Ad esempio, l’Ue ha finanziato partner appartenenti all’Unione africana con quasi 124 milioni di euro (meno dello 0,02% del totale) e i paesi più attivi sono stati Sudafrica, Kenya, Marocco, Tunisia ed Egitto.

Un esempio concreto delle iniziative finanziate è its4land@, un programma che cerca di utilizzare la più recente tecnologia – ad esempio i droni – per la mappatura e la demarcazione delle terre, così da creare le basi per una più oggettiva definizione dei diritti fondiari (la proprietà delle terre), l’incertezza dei quali è così spesso alla base di conflitti in Africa e non solo@.

Horizon 2020 ha anche sostenuto con 6 milioni di euro gli studi clinici sul vaccino contro l’ebola. Il programma di test è guidato dal ministero della Sanità e dall’Istituto nazionale di ricerca biomedicale della Repubblica democratica del Congo e vede la collaborazione di partner internazionali fra cui la London School of Hygiene and Tropical Medicine e Médecins Sans Frontières@.

L’anno delle piante

Il 2020 è inoltre l’«Anno internazionale per la salute delle piante»@, una celebrazione che a detta delle Nazioni unite, rappresenta un’occasione unica «per accrescere la consapevolezza globale su come proteggere la salute delle piante possa aiutare a metter fine alla fame, ridurre la povertà, proteggere l’ambiente e promuovere lo sviluppo economico».

La Fao stima che gli organismi nocivi e le malattie delle piante provochino ogni anno la perdita di circa il 40% delle colture sul pianeta, lasciando milioni di persone prive di cibo e danneggiando l’agricoltura, che rimane la fonte principale di sussistenza delle comunità rurali. Il danno complessivo è stimato in 220 miliardi di dollari in perdite commerciali di prodotti agricoli. Le iniziative dell’anno internazionale si concentreranno perciò principalmente su come evitare che le malattie e i parassiti si diffondano.

Le piante producono l’80% del cibo che mangiamo e il 98% dell’ossigeno che respiriamo, si legge sul sito nella lista dei dati essenziali sulla salute delle piante. Sempre la Fao stima che la produzione agricola debba aumentare del 60% entro il 2050 per nutrire una popolazione mondiale che sarà più numerosa e generalmente più ricca.

Ma a minacciare le piante ci sono il cambiamento climatico e l’innalzamento delle temperature, che riducono la disponibilità di acqua e cambiano le relazioni fra parassiti, piante e patogeni facendo apparire organismi nocivi dove non si erano mai visti prima.

Vi sono anche insetti che risultano benefici per la salute delle piante, perché determinano l’impollinazione, tengono sotto controllo i parassiti, mantengono in salute i suoli e riciclano sostanze nutritive@. Ma l’80% della biomassa degli insetti è sparita negli ultimi 25-30 anni@. con una diminuzione del 2,5% all’anno

 

Il 2020 virtuoso della Liberia e del Gabon

A non sparire ma, al contrario, a crescere rigogliosi dovrebbero essere invece gli alberi della Liberia, che potrebbe diventare nel 2020 il primo paese africano ad essersi liberato del problema della deforestazione. In cambio di 150 milioni di dollari in aiuti allo sviluppo messi a disposizione dalla Norvegia, la Liberia ha infatti accettato nel 2014 di smettere di tagliare gli alberi e di mettere il 30% delle proprie foreste sotto vincolo ambientale. Alla fine del 2020 sarà possibile dire se l’obiettivo è stato effettivamente raggiunto@.

Nel frattempo, la Norvegia ha offerto il proprio aiuto anche al Gabon@. Si tratta sempre di 150 milioni di dollari destinati attraverso un programma delle Nazioni unite che si chiama Redd+ (Reducing emissions from deforestation and forest degradation) e che promuove iniziative in grado di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste.

Chiara Giovetti


SDG generali in scadenza

3.6 Entro il 2020, dimezzare il numero globale di morti e feriti a seguito di incidenti stradali.

4.B Espandere considerevolmente entro il 2020 a livello globale il numero di borse di studio disponibili per i paesi in via di sviluppo, specialmente nei paesi meno sviluppati, nei piccoli stati insulari e negli stati africani, per garantire l’accesso all’istruzione superiore – compresa la formazione professionale, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i programmi tecnici, ingegneristici e scientifici – sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.

8.6 Ridurre entro il 2020 la quota di giovani disoccupati e al di fuori di ogni ciclo di studio o formazione.

8.B Sviluppare e rendere operativa entro il 2020 una strategia globale per l’occupazione giovanile e implementare il Patto globale per l’occupazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

9.c  Aumentare in modo significativo l’accesso alle tecnologie di informazione e comunicazione e impegnarsi per fornire ai paesi meno sviluppati un accesso a Internet universale ed economico entro il 2020.

11.B Entro il 2020, aumentare considerevolmente il numero di città e insediamenti umani che adottano e attuano politiche integrate e piani tesi all’inclusione, all’efficienza delle risorse, alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici, alla resistenza ai disastri, e che promuovono e attuano una gestione olistica del rischio di disastri su tutti i livelli, in linea con il Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di disastri 2015-2030.

17.11 Incrementare considerevolmente le esportazioni dei paesi emergenti e, entro il 2020, raddoppiare la quota delle loro esportazioni globali.

17.18 Entro il 2020, rafforzare il sostegno allo sviluppo dei paesi emergenti, dei paesi meno avanzati e dei Piccoli stati insulari in via di sviluppo (SIDS). Incrementare la disponibilità di dati di alta qualità, immediati e affidabili andando oltre il profitto, il genere, l’età, la razza, l’etnia, lo stato migratorio, la disabilità, la posizione geografica e altre caratteristiche rilevanti nel contesto nazionale.

 


SDG ambientali in scadenza

2.5 Entro il 2020, mantenere la diversità genetica delle sementi, delle piante coltivate, degli animali da allevamento e domestici e delle specie selvatiche affini […].

6.6 Entro il 2020 proteggere e ripristinare gli ecosisstemi legati all’acqua, comprese montagne, foreste, paludi, fiumi, falde acquifere e laghi.

12.4 Entro il 2020, raggiungere la gestione eco-compatibile di sostanze chimiche e di tutti i rifiuti durante il loro intero ciclo di vita […].

13.A Rendere effettivo l’impegno […] che prevede la mobilizzazione – entro il 2020 – di 100 miliardi di dollari all’anno, […] e rendere pienamente operativo il prima possibile il Fondo verde per il clima […].

14.2  Entro il 2020, gestire in modo sostenibile e proteggere l’ecosistema marino e costiero […].

14.4 Entro il 2020, regolare in modo efficace la pesca e porre termine alla pesca eccessiva, illegale, non dichiarata e non regolamentata e ai metodi di pesca distruttivi […].

14.5 Entro il 2020, preservare almeno il 10% delle aree costiere e marine […].

14.6 Entro il 2020, vietare quelle forme di sussidi alla pesca che contribuiscono a un eccesso di capacità e alla pesca eccessiva, eliminare i sussidi che contribuiscono alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata e astenersi dal reintrodurre tali sussidi […].

15.1 Entro il 2020, garantire la conservazione, il ripristino e l’utilizzo sostenibile degli ecosistemi di acqua dolce terrestri e dell’entroterra nonché dei loro servizi, in modo particolare delle foreste, delle paludi, delle montagne e delle zone aride […].

15.2 Entro il 2020, promuovere una gestione sostenibile di tutti i tipi di foreste, arrestare la deforestazione, ripristinare le foreste degradate e aumentare ovunque, in modo significativo, la riforestazione e il rimboschimento.

15.5 Intraprendere azioni efficaci ed immediate per ridurre il degrado degli ambienti naturali, arrestare la distruzione della biodiversità e, entro il 2020, proteggere le specie a rischio di estinzione.

15.8 Entro il 2020, introdurre misure per prevenire l’introduzione di specie diverse e invasive nonché ridurre in maniera sostanziale il loro impatto sugli ecosistemi terrestri e acquatici e controllare o debellare le secie prioritarie.

15.9 Entro il 2020, integrare i principi di ecosistema e biodiversità nei progetti nazionali e locali, nei processi di sviluppo e nelle strategie e nei resoconti per la riduzione della povertà.




I perdenti 49. Mafalda di Savoia

testo di Mario Bandera |


Mafalda di Savoia, (al secolo: Mafalda, Maria, Elisabetta, Anna, Romana) secondogenita del Re d’Italia Vittorio Emanuele III e della Regina Elena del Montenegro, nasce a Roma, il 19 novembre 1902. Tra i quattro figli della coppia regale, essa spicca per il suo temperamento brillante, inoltre possiede un’indole docile ed ubbidiente. Dalla madre eredita il senso più autentico della famiglia, i valori cristiani e la passione per l’arte e la musica. Crescendo rivela una passione per la musica classica, soprattutto per le opere di Giacomo Puccini, il quale incontrandola una volta le dice che a lei dedicherà quello che poi sarà uno dei suoi capolavori: l’opera lirica Turandot.

Trascorre infanzia e giovinezza fra Roma e le varie residenze della famiglia reale. Durante la Prima guerra mondiale segue, con le sorelle Jolanda e Giovanna, la madre nelle frequenti visite negli ospedali ai soldati feriti, collaborando agli innumerevoli atti di carità verso i poveri e i sofferenti.

Conosce in seguito Filippo d’Assia (1896-1980), principe tedesco arrivato in Italia per completare gli studi di architettura. Dopo qualche anno di fidanzamento si sposano e le nozze si celebrano a Racconigi il 23 settembre 1925. Dalla loro unione nascono quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta.

Mafalda di Savoia è donna coraggiosa che non misura il rischio quando si tratta di intervenire per gli altri, così come avviene durante la Seconda guerra mondiale. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, Hitler progetta la sua vendetta ai danni della famiglia reale italiana, giudicata inaffidabile e traditrice del Patto fra Italia e Germania e come vittima da sacrificare indica proprio la consorte del principe d’Assia. Dopo la scomparsa di Boris III re di Bulgaria, morto per avvelenamento il 28 agosto 1943, Mafalda parte per Sofia per stare accanto in quei giorni terribili a sua sorella Giovanna, sposa del re.

Nei giorni in cui ti trovavi in Bulgaria non ti misero al corrente dell’armistizio dell’otto settembre intercorso tra Italia e Alleati e fosti informata soltanto a cose fatte, mentre eri già in viaggio per rientrare in Italia.

Dopo i funerali del re, iniziai il viaggio per tornare a Roma. Stavo attraversando la Romania, quando il treno fu fermato in piena notte nella stazione ferroviaria di Sinaia. Lì c’era la regina Elena di Romania, che aveva fatto fermare il treno proprio per informarmi di quanto era successo in Italia e pregarmi di non tornare a casa. Ma io volevo rivedere i miei figli e non accettai il consiglio.

Decidesti quindi di tornare ugualmente a Roma per ricongiungerti con i tuoi figli e con la tua famiglia.

Ero convinta che i nazisti mi avrebbero rispettata in quanto moglie di un ufficiale tedesco, e delle SS per di più. Raggiunsi Roma dopo un viaggio avventuroso, in treno fino a Bucarest e poi in aereo fino a Pescara. Nella capitale scoprii che il re, mio padre, insieme a mia mamma, la regina, e ai miei fratelli, si erano sottratti alla cattura da parte dei tedeschi dopo il patto di Badoglio con gli Alleati, cosa che si erano ben guardati dal dirmi, benché fossero mesi che erano in trattative. Grazie a Dio, riuscii a rivedere, per l’ultima volta, i miei figli: Enrico, Ottone ed Elisabetta (Maurizio era con il padre in Germania), accolti e protetti da monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, nel proprio appartamento in Vaticano.

Ma i tedeschi, sentendosi traditi, non avevano intenzione di mollare la presa.

Per niente! La Gestapo, sotto la regia del colonnello Herbert Kappler, per compiacere il desiderio di vendetta di Hitler, aveva organizzato l’«Operazione Abeba» per catturami e deportarmi. Ingenuamente io caddi nella trappola da loro predisposta. Fui invitata a presentarmi a Villa Wolkonski, sede dell’ambasciata tedesca a Roma, con la scusa di una telefonata da parte di mio marito dalla Germania. Ero ansiosa di parlare con lui e non sapevo che invece era già stato arrestato ed era chiuso nel campo di concentramento di Flossemburg perché sospettato di aver aiutato il suocero, mio padre, il re d’Italia, a sbarazzarsi di Mussolini. Era il 22 settembre 1943 quando mi presero, e fui subito imbarcata su un aereo con destinazione Monaco di Baviera, da dove poi fui trasferita a Berlino, città in cui mi sottoposero a estenuanti interrogatori. Infine, fui deportata nel lager di Buchenwald, dove arrivai il 18 ottobre.

Come ti hanno trattata?

Non hanno avuto riguardi per me. Quando arrivai nel campo di concentramento, possedevo solo i vestiti che avevo addosso al momento dell’arresto. Le mie richieste per avere indumenti e biancheria pulita furono sempre respinte.

Non ti permisero neppure di rivelare la tua vera identità.

Non solo, per scherno i nazisti mi chiamavano Frau Abeba. Fui rinchiusa in una baracca riservata a prigionieri particolari che non lavoravano e ricevevano il vitto delle SS, poco migliore di quello dei prigionieri comuni. Con noi c’era anche Rudolf Breitscheid, membro di spicco del partito socialdemocratico e delegato al Reichstag durante l’era della Repubblica di Weimar, e sua moglie. A me venne assegnata come compagna di stanza la signora Maria Ruhnau alla quale in segno di riconoscenza, regalai l’orologio che portavo al polso. Per caso fui notata da un prigioniero italiano che mi riconobbe, così la voce della mia presenza si diffuse tra gli altri internati.

Per una persona abituata agli agi, la realtà del campo di concentramento deve essere stata traumatica.

Era una realtà squallida e avvilente, dappertutto c’era dolore e sofferenza. Anche se il nostro era un campo di lavoro e non di sterminio, eravamo trattati con brutalità, senza pietà per nessuno, nemmeno per le numerose donne e bambini che vi erano detenuti. La dura vita del campo, il poco cibo (che dividevo con coloro che reputavo ne avessero più bisogno di me) e il glaciale freddo invernale, fecero deperire ulteriormente il mio fisico già gracile e provato.

Quali sono le cause della tua morte?

Il 24 agosto del 1944 gli anglo-americani bombardarono il lager – non si è mai capito il perché di tale azione assurda contro chi era già vittima dei nazisti – e la baracca dove ero fu distrutta. In quell’occasione riportai gravissimi danni al braccio sinistro che fu ustionato fino all’osso.

Venni ricoverata nell’infermeria improvvisata nella casa di tolleranza usata dai guardiani del lager, ma là fui intenzionalmente abbandonata per molto tempo senza assistenza, poi fui finalmente operata per fermare la cancrena dovuta alle ustioni e mi amputarono il braccio.


Ancora sotto l’effetto dei pesanti sedativi, Mafalda venne riportata nel postribolo e abbandonata, senza assistenza. Morì dissanguata il 28 agosto 1944, a 42 anni. Il dottor Fausto Pecorari, radiologo italiano anch’esso internato a Buchenwald, dichiarò che Mafalda era stata intenzionalmente operata in ritardo e la sua morte era stata il risultato di un assassinio sanitario premeditato. La salma di Mafalda di Savoia, grazie al padre boemo Joseph Tyl, monaco cattolico dell’ordine degli Agostiniani Premostratensi, non venne cremata, ma fu messa in una cassa di legno, sepolta con la dicitura: 262 eine unbekannte Frau (donna sconosciuta). Dopo alcuni mesi dei marinai italiani, reduci dai lager nazisti, trovarono la bara della principessa martire e posero una lapide identificativa.

Dallo studio della vita della principessa e della sua personalità, emerge la figura di una donna briosa e mite, intelligente e colta, sempre dedita agli altri; una sposa e una madre esemplare, di grandissima fede cattolica, sempre pronta alla carità per i più bisognosi e disagiati. Persona semplice, indulgente, benevola e amabile.

Il suo sacrificio è l’ultimo atto di una vita occupata prioritariamente dalla presenza del Vangelo. Anche nel campo di concentramento di Buchenwald non badò a se stessa, in cima ai suoi pensieri c’erano i figli, il marito, i genitori, gli internati del campo e in particolare agli italiani del lager, ai quali fece sentire tutta la sua vicinanza. Le sue ultime parole furono proprio dirette a loro: «Italiani, io muoio, ricordatemi non come una principessa ma come una vostra sorella italiana».

Il marito Federico sopravvisse all’internamento prima nel lager di Flossenburg, poi in quello di Dachau e infine a Villabassa in Val Pusteria dove fu liberato dagli Alleati.

Mafalda di Savoia riposa oggi in terra tedesca nel piccolo cimitero degli Assia a Francoforte-Höchst, frazione di Francoforte sul Meno. Innumerevoli sono vie, piazze, giardini pubblici intitolati a lei, esiste persino un comune che porta il suo nome (in provincia di Campobasso), cippi e monumenti eretti in suo onore in diverse scuole e realtà italiane sono dedicati alla sua memoria.

Figlia, madre e moglie ideale, principessa dai connotati straordinariamente umani e cristiani, Mafalda di Savoia rappresenta una vittima innocente giustiziata in una guerra dove l’odio espresse la sua faccia più turpe e la violenza il suo volto più feroce. Grazie alla sua testimonianza possiamo sperare in un futuro più giusto e fraterno.

Don Mario Bandera




Santi nella “Casa comune”


Nel Sinodo per l’Amazzonia, celebrato lo scorso ottobre e i cui echi arrivano ancora fino a noi in questo inizio d’anno, la riflessione per la preghiera di lunedì 14 ottobre, è stata proposta dall’arcivescovo di Florencia (Colombia), mons. Omar de Jesús Mejía, sul tema: «La nostra missione: essere santi».

All’inizio del suo discorso, il vescovo ha ricordato che, il 3 ottobre, visitando la tomba del beato Giuseppe Allamano, a Torino, era rimasto colpito dalla scritta: «Prima santi e poi missionari». Rientrato a Roma, era poi stato invitato a commentare la Parola di Dio: «Sii santo per me, perché Io sono santo, sono il Signore, che ti ha separato dagli altri per essere mio» (Lv 20, 26).

In quel contesto di preghiera sinodale, Mejía ha spiegato: «Siamo qui, perché vogliamo discernere l’attività missionaria della Chiesa, in Amazzonia. Chiediamo la forza dall’alto per capire che, senza la grazia di Dio, ciò che facciamo sarà inutile o innocuo, mentre la grazia è sempre edificante e salutare. Dio ci ha scelti per essere qui, in questo “momento vitale”, per essere luce e speranza oggi, in Amazzonia e, da lì, nel mondo. Come chiesa missionaria, siamo in Amazzonia non a scopo di lucro, né per devastarla e goderne le ricchezze, ma per condurre lo stile di vita di Gesù, per “guarire i cuori affranti”. È normale essere criticati, perché molte persone non capiscono la nostra missione. Come persone consacrate dobbiamo essere la terra di Dio e questo ci insegna a rifiutare la vita senza Dio. Come missionari, dobbiamo compiere la nostra opera con un senso di eternità. Non lavoriamo, non ci stanchiamo, non diamo la nostra intelligenza e volontà a Dio per essere applauditi, ma per la cura della “casa comune”, l’Amazzonia, e come “servitori inutili”. Alla Beata Vergine Maria, Madre della Speranza – ha concluso l’arcivescovo – affidiamo questa nuova settimana di discernimento nel Sinodo e ricordando: “Prima santi e poi missionari”» (Beato Giuseppe Allamano).

Che bello è stato sentir risuonare, nella variegata e poliglotta assemblea sinodale, il nome e le parole più caratteristiche del nostro beato fondatore, ricordate da un vescovo dell’Amazzonia, amico dei missionari della Consolata. Parole di augurio e di speranza, per questo anno di grazia che abbiamo appena iniziato…

Padre Giacomo Mazzotti


G. Allamano e L. Murialdo:

l’amicizia tra sacerdoti santi

L’Allamano ebbe la fortuna di vivere in un periodo in cui, nella diocesi di Torino e in altre del Piemonte, fiorirono diversi sacerdoti dei quali oggi la Chiesa  riconosce ufficialmente la santità con l’onore degli altari o la cui causa di beatificazione è già avanzata.

L’Allamano ebbe contatti, a volte vera amicizia, con molti di loro ed è interessante constatare che tutti, senza eccezione, dimostrarono una profonda stima per l’Allamano, riconoscendo in lui un vero uomo di Dio.

Stessa profonda stima era ricambiata dall’Allamano per ognuno di essi. Qualcuno disse che i santi riescono a individuarsi anche da lontano, ed è vero.

In questa rubrica, durante il 2020, riporto i giudizi o i gesti di apprezzamento reciproci tra l’Allamano e alcuni santi sacerdoti.

Leonardo Murialdo

Inizio questa carrellata con San Leonardo Murialdo (1828-1900), fondatore dei Giuseppini. Tra lui e l’Allamano c’era una buona conoscenza come pure una sincera stima, nonostante la differenza di 23 anni di età. Qualche biografo del Murialdo pone l’Allamano addirittura nell’elenco dei suoi «amici».

Il pensiero dell’Allamano sul Murialdo

Durante il Congresso Mariano (8-12 settembre 1898), celebrato a Torino, erano presenti e attivi sia il Murialdo che l’Allamano. Fa piacere sapere che, per alcuni giorni, questi due uomini di Dio, abbiano lavorato assieme per promuovere il culto di Maria SS. Forse di lì iniziò una più profonda conoscenza e un certo rapporto di stima tra i due.

Non c’è dubbio che l’Allamano ritenesse il Murialdo un santo. Ciò risulta soprattutto dal fatto che fu lui a incoraggiare i Giuseppini a iniziare la causa canonica per la beatificazione del loro fondatore, come attesta il suo secondo successore don Eugenio Reffo: «Il canonico Giuseppe Allamano confortando alcuni dei nostri confratelli nella dolorosissima perdita, espresse un suo intimo pensiero, che al teologo Murialdo si sarebbe col tempo fatto il processo ed esortò a raccogliere con diligenza tutte le memorie che si possono avere di lui, compendiando in una sola frase il suo elogio, con dire di lui quello che si disse di don Giuseppe Cafasso: era uomo straordinario nell’ordinario».

Nella prima sessione del Capitolo generale del 1906, lo stesso don Reffo, dopo avere affermato che la tomba del Murialdo era visitata dai Giuseppini, aggiunse: «Ci andarono una volta i missionari della Consolata, e ricordo con filiale orgoglio che quel venerando uomo che è il canonico Giuseppe Allamano disse a quel prode drappello di apostoli: “Un giorno questa salma uscirà da questa tomba per essere venerata!”».

Nelle sue memorie autobiografiche, don Reffo illustrò meglio l’esortazione dell’Allamano per iniziare la causa del Murialdo: «Me ne spiegò il modo, le pratiche da farsi, la facilità dell’impresa, e tanto seppe dire e farmi premure, che io compresi essere ormai volontà di Dio che ci mettessimo all’opera, e subito, tornato a casa, ne parlai col mio superiore don Giulio Costantino, che aderì pienamente, e acconsentì che si muovessero le prime pedine».

Il pensiero del Murialdo sull’Allamano

Non c’è dubbio che anche il Murialdo abbia molto apprezzato l’Allamano. Lo dimostrano alcune sue parole pronunciate in situazioni particolari. Anzitutto riguardo il giornale diocesano, che sorse a Torino nel 1876, intitolato «Unioni Operaie Cattoliche» per iniziativa di un gruppo di laici, sostenuti dal teologo Leonardo Murialdo, che di questioni operaie era molto esperto. Il giornale doveva essere il collegamento delle varie Unioni operaie cattoliche, ed essere non solo per gli operai, ma anche redatto da un operaio. Questo redattore fu il sig. Domenico Giraud (1846-1901), cattolico fervente, che era segretario della conceria del sig. Pietro De Luca. Con il tempo, però, il Giraud non fu più in grado di impegnarsi nel giornale, soprattutto per il lavoro pressante come segretario della conceria. Quando il Giraud sembrava deciso a chiudere, il Murialdo, secondo il suo biografo Armando Castellani, prima lo incoraggiò e, in seguito, come sotto una particolare ispirazione, si aggrappò ad un’ancora di salvataggio dicendo: «Perché non sentire il consiglio del canonico Allamano?». Lo stesso Castellani ne spiega così la ragione: «Era l’Allamano, rettore del santuario della Consolata, un fervido sostenitore della buona stampa, delle Associazioni operaie cattoliche. Egli godeva della più alta stima tra i cattolici torinesi», concludendo: «L’intervento dell’Allamano e l’interesse continuo e vigilante del Murialdo salvarono “in extremis” il giornale».

Questo provvidenziale intervento dell’Allamano fu così spiegato dal can. Giuseppe Cappella suo stretto collaboratore al santuario della Consolata: «Al fondatore del giornale sig. Giraud, che nel mese di novembre (1889) gli annunciava di dover egli sospendere la pubblicazione del giornale, perché soverchiamente occupato nella direzione della Conceria De Luca, l’Allamano disse di ripassare la sera del sabato seguente. Ritornò infatti il Sig. Giraud. L’Allamano intanto aveva dato convegno anche al sig. Giacomo De Luca, e quando li ebbe tutti e due insieme, disse al proprietario: “Qui il sig. Giraud si lamenta di dover cessare la pubblicazione del giornale, perché troppo occupato nella conceria; faccia così: metta un segretario per la conceria che lo aiuti nelle sue mansioni, e il sig. Giraud pubblicherà il giornale, invece che ogni quindici giorni, ogni settimana”. E così fu fatto». Il Murialdo non si sbagliò suggerendo di ricorrere all’Allamano.

padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano:

fedeltà e novità

Il 5 luglio 2019, la signora Emanuela Costamagna ha conseguito, a pieni voti, la Laurea magistrale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Torino, difendendo la tesi dal titolo: «Beato Giuseppe Allamano. Fedeltà e novità nel suo pensiero teologico e nella sua attività missionaria».

Di tesi sull’Allamano l’istituto ne possiede molte fatte da missionari o missionarie della Consolata. Questa è la prima e, per ora, l’unica presentata da una persona laica. Per di più, da una mamma che, all’inizio del lavoro della tesi, era in attesa del terzo figlio. Tenuto conto di tutto ciò, la tesi assume un significato particolare.

Per comprendere il motivo che ha spinto la signora Emanuela ad affrontare un tema di questo genere, basta ascoltare come lei stessa si è presentata alla commissione dei professori il giorno della difesa: «Questo elaborato è nato da un mio forte desiderio, coltivato negli anni, per la missione “universale”. Già nell’elaborato per la tesi triennale avevo sviluppato questo tema, concentrandomi su un piccolo aspetto del pensiero del beato Giuseppe Allamano.

Questo vivo interesse per la missione è nato in giovane età e mi ha portato a vivere esperienze nelle missioni dei missionari della Consolata. La più lunga è durata un anno e mezzo ed è stata vissuta con mio marito presso la missione di Gambo, in Etiopia, dove abbiamo avuto la gioia di vivere al fianco dei missionari e delle suore e condividere lo spirito del fondatore, sentendoci come in famiglia.

Lo scopo della mia tesi magistrale è stato provare ad analizzare come si è formato il carisma dell’Allamano e il suo pensiero teologico missionario, da quali fonti può aver attinto, a chi si è ispirato, in che modo le sue idee siano state influenzate dal contesto storico sociale da lui vissuto e in particolare come le sue idee siano state trasmesse ai suoi missionari. Questo tipo di studio non è stato ancora effettuato nell’istituto per cui rappresenta un po’ una novità.

«Non ho analizzato lo sviluppo storico del suo pensiero, ma identificato e affrontato alcune tematiche per lui importanti. Per poter fare questa attività, ho preferito utilizzare e valorizzare principalmente le fonti primarie: le conferenze ai missionari e alle suore missionarie, che sono durate dall’inizio della fondazione dei due istituti fino alla sua morte; quelle ai sacerdoti convittori, le lettere che inviava e riceveva dalle missioni e i diari che i missionari erano tenuti a scrivere e consegnare all’Allamano. Sicuramente la possibilità di utilizzare le fonti primarie mi ha permesso di andare al cuore del suo pensiero, di poter lavorare direttamente sulle sue parole, cosa che non sarebbe stato possibile utilizzando fonti secondarie, anche se non sono mancate».

La tesi, dopo l’introduzione, è divisa in quattro capitoli. Nel primo è analizzato il rapporto dell’Allamano con il magistero della Chiesa, sia con i sommi pontefici che con i suoi vescovi. Rapporto di comunione, fedeltà e obbedienza. Questa parte è stata fondamentale per conoscere la personalità dell’Allamano.

Il secondo capitolo sposta lo sguardo verso l’apertura dell’Allamano all’universalità della salvezza. Come la vita di un sacerdote diocesano, vissuto sempre all’ombra del santuario della Consolata, sia stato capace di guardare al di là dei confini della propria diocesi. Si è potuto analizzare quali fossero i punti fermi dell’Allamano sulla missione: l’annuncio del Vangelo, la formazione di chiese locali, e la promozione umana, in vista della salvezza delle anime.

Nel terzo capitolo viene precisata l’identità dei missionari secondo l’Allamano, esaminando e dando una risposta a domande come queste: qual era il suo pensiero sulla vocazione sacerdotale e vocazione missionaria? Perché considerava la vocazione missionaria come “la migliore?”. C’erano differenze tra la vocazione missionaria dei sacerdoti, delle suore, dei fratelli coadiutori? Quale identità missionaria voleva trasmettere? E come la trasmetteva? Perché dava un senso mariano all’evangelizzazione? Qual era la sua idea di santità per un missionario?

Nei primi tre capitoli, fondamentali per inquadrare storicamente e analizzare bene il suo pensiero, è anche effettuata una prima analisi teologica, ma è poi nel quarto capitolo che, sulla base dei primi tre, sono considerati alcuni degli aspetti più importanti e si sono esaminati dal punto di vista teologico. Ne emerge che l’Allamano può essere considerato «figlio del suo tempo» perché egli viveva appieno la visione teologica del suo periodo storico. Ha portato sicuramente delle sue originalità, ha insistito su alcuni particolari aspetti, pensando che il suo scopo fosse formare giovani uomini e donne che presto sarebbero stati inviati lontano con lo stesso spirito missionario. Il suo pensiero si potrebbe racchiudere nelle sue stesse parole: «Amare e farsi santi è la stessa cosa».

Fine della prima parte


Clicca sull’icona qui sotto per andare al sito dedicato al beato Giuseppe Allamano





L’«industria 4.0»: che succederà del lavoro?

testo di Francesco Gesualdi |


Dopo quelle del 1784, del 1870 e del 1970, siamo già arrivati alla quarta rivoluzione industriale, quella dell’automazione. Una rivoluzione che potrebbe far perdere il lavoro a milioni di persone: le stime vanno da un minimo di 75 a un massimo di 375 milioni di posti in meno. E pare molto difficile che i nuovi lavori possano compensare le perdite.

L’hanno battezzata «Industria 4.0» e si riferisce alla nuova frontiera tecnologica destinata a rivoluzionare non solo il settore manifatturiero, ma anche quello commerciale, finanziario, sanitario, edile, perfino agricolo. È la tecnologia del digitale e dell’intelligenza artificiale che, a differenza della vecchia robotica, capace solo di svolgere una varietà di mansioni messe in successione, è capace di prendere decisioni in base ai dati che rileva. Su di essa, ad esempio, si basa la messa a punto di veicoli capaci di viaggiare senza guidatore, o di robot medici capaci di elaborare la terapia più appropriata in base ai parametri clinici e di laboratorio. E ancora: di computer assicurativi in grado di elaborare la polizza più appropriata in base al rischio da coprire, o di calcolatori bancari capaci di stabilire le condizioni di prestito più adeguate alla situazione economica del richiedente, o di centraline agricole in grado di aprire e chiudere il rubinetto dell’irrigazione in base al tasso di umidità presente nel terreno.

Storia delle rivoluzioni industriali

Da una ricerca condotta dall’Ocse sulle prime 2mila imprese mondiali che investono in ricerca, risulta che il 40% dei brevetti collegati all’intelligenza artificiale è posseduto da imprese di computer ed elettronica, il 16% da imprese automobilistiche, il 12% da imprese di macchinari. In ordine decrescente seguono imprese del settore chimico, elettrico, farmaceutico, fino ad arrivare, in coda, al servizio dei trasporti.

L’espressione Industria 4.0 è stata usata per la prima volta alla Fiera di Hannover (Germania) nel 2011. Una terminologia non casuale con l’intento di ricordarci che si tratta della quarta rivoluzione industriale affrontata dal capitalismo.

La prima, avvenuta nel 1784, è coincidente con la macchina a vapore, l’invenzione che ha consentito alle fabbriche di avviarsi verso un processo di meccanizzazione caratterizzato da velocità e potenza. La seconda, avvenuta nel 1870, è legata all’avvento dell’elettricità e del petrolio. Grazie a questa rinnovata potenza energetica, i livelli di meccanizzazione sono cresciuti ulteriormente fino a sfociare nella catena di montaggio che inaugura l’era della produzione di massa. La terza, avvenuta nel 1970, corrisponde all’ingresso in fabbrica dell’Ict, acronimo di Information and communication technology, in pratica l’informatica e le telecomunicazioni. E, infine, la quarta rivoluzione, dei nostri giorni, riassumibile in un mix di robotica, sensoristica, connessione e programmazione informatica.

L’impatto sul lavoro

Ogni cambio tecnologico comporta grandi impatti sul lavoro, per cui molti  stanno cercando di capire quali novità porterà con se l’industria 4.0 in termini occupazionali e di trasformazioni professionali. Nel rapporto del 2017 intitolato Jobs lost, jobs gained, la società di consulenza McKinsey sostiene che, da qui al 2030, fra 75 e 375 milioni di lavoratori a livello globale potrebbero essere colpiti dall’automazione perdendo il loro lavoro attuale. Se dovesse avverarsi l’ipotesi massimale si tratterebbe del 14% di tutti gli occupati del mondo. In un’altra ricerca (Will robots really steal our jobs?), condotta nel 2018 da un’altra società di consulenza, la PricewaterhouseCoopers (PwC), si sostiene che la rivoluzione in atto si protrarrà fino al 2030 e procederà in tre ondate. La prima, fino al 2020, sarà caratterizzata dall’automazione delle funzioni contabili e riguarderà in particolar modo il settore finanziario. La seconda, fino al 2025, riguarderà non solo l’automazione di molte funzioni impiegatizie e dirigenziali, ma comprenderà anche la massiccia robotizzazione di funzioni riguardante la gestione merci, come i centri logistici. Infine la terza ondata, fino al 2030, coinvolgerà al tempo stesso l’automazione di molte attività fisiche e manuali    e l’automazione di funzioni che richiedono la capacità di risolvere problemi in corso d’opera, come nel caso dei trasporti e delle costruzioni. Secondo PwC l’ondata di maggiore automazione si avrà nella terza fase, quando potrebbe interessare il 35% dei posti di lavoro a livello globale, pur con ampie differenze fra le diverse parti del mondo.

Dall’analisi condotta su 29 nazioni di nuova e vecchia industrializzazione, emerge che i paesi a maggior rischio di automazione sarebbero quella dell’Europa dell’Est, dove si prevede un rischio di automazione, da qui ai prossimi 15 anni, del 40%. L’area meno colpita, invece, sarebbe quella comprendente i paesi con i più alti livelli di istruzione come la Corea del Sud e la Finlandia, dove si prevede un tasso di automazione del 25%. Nella fascia intermedia, si collocano i paesi dominati dai servizi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra con tassi di estromissione attorno al 35%. L’Italia si collocherebbe nella parte alta con un tasso di automazione del 38%. Quanto ai settori, ai primi posti si troverebbero quello dei trasporti e della logistica col 52% dei posti di lavoro a rischio di automazione. Seguono il manifatturiero col 45% e quello delle costruzioni col 37%. I meno esposti saranno quelli dell’istruzione e della sanità.

Venendo invece alle mansioni, la ricerca sostiene che il rischio di automazione è inversamente proporzionale al livello di studio: più alto per le mansioni a bassa scolarità (45%), più basso per le mansioni ad alta scolarità (12%). In concreto i lavoratori più esposti sarebbero gli operai addetti alle macchine e gli impiegati comuni con un rischio di automazione che è rispettivamente del 64 e del 54%.

La situazione in Italia

Volendoci concentrare sull’Italia, si può fare riferimento al rapporto dell’Istituto Ambrosetti, «Tecnologia e lavoro: governare il cambiamento», pubblicato nel 2018. L’Istituto valuta che nei prossimi 15 anni il 14,9% del totale degli occupati, pari a 3,2 milioni, potrebbe perdere il posto di lavoro a causa dell’automazione. Quanto ai settori, sarebbero a maggior rischio quello dell’agricoltura e della pesca (25%), del commercio (20%) e il manifatturiero (19%). I meno esposti quello dell’istruzione e della salute, rispettivamente al 9 e 6%. Quanto alle mansioni, i più a rischio sarebbero i lavoratori meno qualificati e non laureati, ma rischiano molto anche i tecnici matematici, i commercialisti e gli analisti di credito, che pur appartenendo a un livello di istruzione elevato svolgono mansioni facilmente sostituibili dalle macchine intelligenti.

Nonostante tutto, McKinsey getta acqua sul fuoco sostenendo che le nuove tecnologie creeranno anche posti di lavoro.  Soprattutto per ingegneri, programmatori, analisti, esperti di sicurezza informatica e di intelligenza artificiale. Ma non oltrepasserebbero i 50 milioni a livello globale, per cui si avrebbe un saldo negativo pari a 300 milioni di posti di lavoro. Uno scarto importante che però non crea sconforto nei sostenitori dell’innovazione tecnologica ad ogni costo, i quali trovano rassicurazioni nella storia. Guardando alle precedenti rivoluzioni industriali si nota che le innovazioni tecnologiche solo in un primo momento generano disoccupazione. Poi si attivano dei meccanismi di tipo economico e sociale che fanno risollevare la marea occupazionale. Ad esempio, è sempre successo che le maggiori rese produttive abbiano fatto lievitare i salari, facendo nascere nuove esigenze che hanno stimolato l’avvio di nuove attività produttive. In effetti dopo la seconda rivoluzione industriale si è assistito a uno spostamento di mano d’opera dall’agricoltura all’industria e quando anche l’industria ha subito una battuta d’arresto occupazionale, si è assistito a uno spostamento verso i servizi.

Verso quale futuro: con o senza intervento pubblico

Per il futuro, gli ottimisti ipotizzano un recupero occupazionale attraverso un’ulteriore terziarizzazione della società. Ma molti servizi sono già saturi e per giunta essi stessi subiranno un’emorragia di posti di lavoro a causa dell’industria 4.0. E allora da dove verrà il nuovo lavoro? L’idea di molti è che i bisogni sono insaziabili e che ogni epoca presenta nuove problematiche. Come esempio viene citato l’invecchiamento della popolazione che richiede il potenziamento di molti comparti: dal sanitario all’assistenziale, dal fisioterapico al formativo. Ma senza un adeguato intervento pubblico c’è il rischio che il problema venga risolto in maniera selvaggia, ciascuno in base alla propria ricchezza con la collaborazione di una massa di precari sottopagati. Tutto questo per dire che la piega che prenderà la società futura dipende molto dai valori che la animeranno. Può essere la società del trickle down, dello «sgocciolamento»: totalmente animata dal mercato con pochi protetti e ben pagati che faranno arrivare delle mance a chi sta sotto, utilizzandoli per mansioni accessorie come ricevere la pizza a casa, o accompagnare il cane a passeggio. Oppure può essere la società dell’uguaglianza, con una forte presenza pubblica che livella le posizioni e garantisce lavoro per tutti attraverso un corretto uso della leva fiscale, una sana regolamentazione dell’orario di lavoro, un grande investimento nella scuola e la creazione di servizi gratuiti per tutti. Ancora una volta la tecnologia si trasformerà in mostro o angelo a seconda se prevarrà il tornaconto personale o la solidarietà.

Francesco Gesualdi




Libri: Contro la mentalità predatoria

yesto di Chiara Brivio |


Cosa può accomunare un libro sull’Amazzonia a un altro sulla prostituzione? La denuncia di quella mentalità che considera l’ambiente, da un lato, e la donna, dall’altro, non come un dono da custodire, ma come una preda da possedere e usare a proprio piacimento. Lo sfruttamento dell’Amazzonia, come quello delle donne va fermato.

Anche quando si leggono due libri con temi apparentemente molto lontani tra loro, si possono trovare interessanti assonanze, e una certa comunanza di ideali e di visione di fondo.

Questo mese vi parliamo di due libri che portano l’attenzione sull’Amazzonia sfruttata e depredata, come le tante donne che la abitano, da una parte, e sulle tante ragazze gettate nelle nostre strade e costrette a vendersi per sopravvivere, dall’altra. Due facce di un’unica visione distorta e malata della società – come spesso ci ricorda papa Francesco -, basata sullo sfruttamento dei deboli e degli indifesi.

In questi testi si ritrovano anche esempi di lotte edificanti, di tentativi di riconoscimento e di riscatto delle donne, che offre uno scorcio di speranza, molto spesso nutrita dagli sforzi e dall’impegno della Chiesa.

Frontiera Amazzonia

«Frontiera Amazzonia. Viaggio nel cuore della terra ferita» è il racconto dei viaggi che Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, due firme del quotidiano «Avvenire», hanno compiuto nella foresta amazzonica attraverso quattro dei nove paesi che la ospitano. Pubblicato da Editrice Missionaria Italiana in occasione del Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre, il libro narra di un viaggio che vuole raccogliere l’eredità e, idealmente, continuare quello iniziato da papa Francesco a Puerto Maldonado, Perù, nel gennaio 2018.

«Frontiera Amazzonia» è un libro interessante già per il modo in cui è strutturato, perché ogni capitolo è dedicato a una particolare «ricchezza» dell’Amazzonia: oro, legname, coca, petrolio, esseri umani; tutte risorse che sono anche la sua maledizione, portando nella foresta miniere illegali, tratta di persone, disboscamento.

Il quadro che emerge da questo appassionato reportage non è affatto roseo, anzi.

A prima vista potrebbe indurre il lettore a pensare che un’inversione di tendenza per il nostro «polmone verde» non sia nemmeno immaginabile (siamo al 20% del disboscamento, gli scienziati hanno stimato che il punto di non ritorno si aggiri intorno al 40%), soprattutto nell’era del governo di Jair Bolsonaro in Brasile. Tuttavia, come spesso accade, la speranza viene dalle donne, vere protagoniste di questo libro.

Abusate e vittime di soprusi come la loro terra – «l’Amazzonia è una donna, una donna stuprata», scrivono Capuzzi e Falasca nell’introduzione -, sono impegnate nella lotta e nella difesa dei loro diritti, nonché nel mantenimento del delicato equilibrio ecologico del loro territorio. Figure fiere e forti, sono suore, contadine, leader indigene come Nemo, del popolo degli Waorani, che lotta contro i «rapinatori della terra» che inquinano il territorio con l’estrazione del petrolio. O come Marcivana Sateré Mawé, leader del Copime (Coordinação dos povos indígenas), che ci ricorda che, oltre alle multinazionali, sono in primis i pregiudizi a dover essere estirpati: «La gente non può concepire che l’indio oggi possa andare al college, che sia dottore, avvocato, insegnante. L’indio sa che cosa vuole. Vogliamo essere noi stessi e mantenere viva la nostra cultura per le generazioni future».

Sono vittime dell’estrattivismo e di quel «capitalismo rapace» e «usa e getta» che «produce scarti», come più volte denunciato da papa Francesco.

Sono rappresentanti di una condizione femminile che si rispecchia anche nel ruolo che ricoprono all’interno della chiesa locale, come suggerisce padre Enrico Uggè, missionario del Pime in Amazzonia: «Non si tratta di “supplenze”. Il futuro di una chiesa che rimane e cresce passa per il cuore di queste donne. E laggiù in Vaticano dovrebbero considerare anche loro e tenere conto del ruolo centrale che oggi svolgono nella chiesa amazzonica». Da leggere la prefazione del cardinale Cláudio Hummes, relatore speciale al Sinodo panamazzonico.

Donne crocifisse

«Qualsiasi forma di prostituzione è una riduzione in schiavitù, un atto criminale, un vizio schifoso». Pesano come macigni le parole di papa Francesco nella sua prefazione al volume di don Aldo Buonaiuto, «Donne crocifisse. La vergogna della tratta raccontata dalla strada», uscito per Rubbettino.

Buonaiuto, sacerdote, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, esorcista, da anni in prima linea contro lo sfruttamento, ha voluto raccogliere nel libro le numerose storie di quelle «sorelline» – come le chiamava il fondatore della Comunità, don Oreste Benzi – che ha incontrato sulle strade nel corso degli anni. Storie di violenza, di soprusi e di sfruttamento raccolte dalla voce delle tante, troppe, ragazze che finiscono costrette sui marciapiedi delle nostre città.

I dati che Buonaiuto cita nella prima parte del volume, un’accurata analisi del fenomeno sulla strada e online, sono impressionanti: in Italia le schiave del sesso sono circa 120mila, il 37% delle quali minorenni. Il 36% del totale proviene dalla Nigeria. Un giro d’affari che, a livello globale, si aggira sui 186 miliardi di dollari all’anno.

L’autore del libro pensa che l’unica soluzione sia una riforma della legislazione italiana, sul modello di Svezia e Francia dove viene punito il cliente invece della prostituta, producendo un capovolgimento di prospettiva che riconoscerebbe alle donne il loro status di vittime di sfruttamento e che in quei paesi ha portato a una drastica diminuzione della domanda.

Il libro è una risposta chiara a tutti coloro che vorrebbero riaprire le case chiuse, o che la pensano come il governatore di una ricca regione italiana che recentemente ha dichiarato che chi si fa complice dello sfruttamento di queste ragazze è «una persona che ha qualche necessità fisiologica».

Le vere protagoniste di questo volume sono, comunque, le testimonianze delle vittime sotto forma di lettere. Esse raccontano di un destino comune: la fuga dalla povertà, la promessa (fasulla) di un lavoro in Europa, la schiavitù – termine che ricorre spesso nel libro – per le strade.

Tra queste donne c’è Mary, «ex bambina soldato abituata a difendersi da sola e soprattutto a lottare per sopravvivere», che non sopporta il pianto dei bambini perché le ricordano sua figlia, partorita in agonia dietro un cespuglio, sotto gli occhi di tutti, e lì spirata dopo pochi istanti. C’è Stefania, bulgara, che davanti al presidente Mattarella, nonostante la sordità che la affligge per le torture subite, si è appellata a tutti i «clienti», dicendo: «Sappiano che stanno sbagliando». C’è Blessing, nigeriana, che, alla richiesta di don Buonaiuto di mostrarle il braccio nascosto sotto la giacca intrisa di sangue, raccontò che un cliente «dopo averla pagata le bloccò il braccio incastrandole la mano nella portiera per riprendersi il denaro e scappare».

Leggendo questo libro viene da chiedersi perché ancora ci siano così tanti uomini nel nostro paese (le stime parlano di tre milioni di clienti) che desiderano di abusare di queste donne, obbedendo a quella «mentalità patologica» a cui fa riferimento papa Francesco nella sua prefazione.

Sarebbe necessaria una «conversione» da parte loro, una conversione che li spinga, come faceva don Benzi, a domandare: non «quanto vuoi?», ma «quanto soffri?».




Il sapore dell’amore di Dio


L’inserto di questo numero è completamente dedicato alla cara memoria di padre Gottardo Pasqualetti, scomparso il 20 ottobre scorso, postulatore delle cause di beatificazione di Giuseppe Allamano e Irene Stefani. È un piccolo segno di gratitudine a un missionario che, con Sapienza e passione, ha arricchito la nostra conoscenza e il nostro amore per il nostro beato fondatore. Come abbiamo fatto già altre volte in passato, anche in questo numero ospitiamo alcune
sue parole.

Il sapore dell’amore di Dio

Per Giuseppe Allamano, la dolcezza e la mansuetudine sono virtù indispensabili per tutti coloro che devono trattare con il prossimo; e vi ritorna spesso nelle sue lettere ed esortazioni ai missionari e missionarie. Così, tra i ricordi ai partenti, raccomandava sempre la «mansuetudine», unica virtù di cui Gesù dice specificamente di imitarlo, invitando a farne un proposito da rinnovare ogni mattina. Per lui, la dolcezza e la mansuetudine sono indispensabili per tutti coloro che operano con la gente, soprattutto con i poveri, i piccoli, i «diversi». Questo ha poi una ricaduta nell’attività apostolica, perché quella del missionario è una spiritualità di presenza, con rapporti personali e attenzione all’altro, in totale disponibilità e spirito di condivisione.

Alle missionarie diceva che dovevano avere «un cuore largo verso i fratelli», «cuore magnanimo per ogni miseria umana», «cuore pieno di amore per Dio». Ad alcune, in partenza per l’Africa, raccomandava: «Lasciate il sapore dell’amore di Dio dovunque andrete, ma ancor più del prossimo».

È anche una delle caratteristiche della beata suor Irene, e mirabile è la sua dedizione caritatevole verso tutti, soprattutto i più bisognosi, dedicandosi agli altri con affetto materno, con bei modi, rispetto, delicatezza, dolcezza e affabilità, senza fare distinzioni.

I missionari e missionarie cresciuti a fianco dell’Allamano, hanno conservato scolpito nel cuore il suo ricordo, perché avevano viva coscienza di aver trovato in lui «un vero padre, tutto amore per i figli», «un amato, amatissimo padre», così da avere per lui stima, confidenza piena, totale apertura di cuore, fiducia incondizionata, ritenendo la sua parola espressione della volontà di Dio.

Ma per riassumere «in pillole» tutto ciò, occorre ricordare almeno tre must (come si chiamerebbero oggi), da lui indicati: «Sincerità e confidenza; dolcezza e bontà; contatti personali». Mentre per l’impegno personale di ognuno, vi è un’altra sintesi, stilata da suor Irene: «Spirito di carità operosa, di pietà e di dolcezza. Ecco tutto!».

Un tutto che è il «nostro distintivo», «lo stampo».

padre Gottardo Pasqualetti


«Speciale, frizzante, libero»

Aveva 84 anni, padre Gottardo Pasqualetti, quando ci ha lasciati, il 20 ottobre scorso. Diventato missionario della Consolata con la prima professione religiosa nel 1957, fu ordinato sacerdote il 22 dicembre 1962.

Realizzò la sua vocazione missionaria sempre in Italia e quasi sempre a Roma, dove fu membro della Congregazione vaticana per il Culto Divino, insegnante di liturgia, per 40 anni, alla pontificia Università urbaniana, segretario generale dell’Istituto, formatore e superiore delle nostre comunità in Italia.

Ma fu soprattutto postulatore per le cause di beatificazione di Giuseppe Allamano e Irene Stefani.

La sua vita e il suo intenso lavoro lasciano una traccia profonda nella comprensione del carisma missionario dei nostri due Istituti, con un dilatarsi di «conoscenza e riconoscenza» verso colui che ci è padre e maestro di vita.

Frammenti di una vita

Prof. Erich Schmid,
decano della Facoltà di Teologia

Roma, 1° maggio 1992Reverendissimo Superiore Generale, sto cercando un nuovo docente per la liturgia latina. Avendo scoperto che p. Gottardo Pasqualetti, membro del Suo benemerito istituto missionario, ha le qualifiche necessarie per poter insegnare in una facoltà teologica S. Liturgia, vorrei oggi rivolgermi fiduciosamente a Lei e chiederLe di aiutarci, permettendo al suddetto padre di far parte del corpo docente della nostra facoltà. Siccome padre Pasqualetti ha studiato alla Puu e sta già insegnando nel Corso di aggiornamento alla medesima università, e conosce quindi già bene il nostro ambiente «urbaniano» che accoglie studenti da tutte le parti del mondo, ed essendo membro di un Istituto missionario, il Rettore magnifico, p. Daniele Acharuparambil, e il sottoscritto lo riterrebbero proprio adatto per tale incarico…


padre Gottardo Pasqualetti

Carissimi missionari della Regione Italia, giunto al termine del mio mandato, pensavo di chiudere in silenzio, cosa che più si avvicina all’atteggiamento di Maria. Ma da Lei apprendo pure che occorre avere cuore riconoscente. Ed è uno dei sentimenti che mi accompagnano in questi giorni. Con semplicità, ma sincerità, desidero esprimere il mio ringraziamento. Anzitutto, per l’accoglienza.

Sono venuto nella Regione nove anni fa, in modo assolutamente inaspettato e per me sorprendente, senza conoscere direttamente la situazione, e forse con qualche preconcetto e, pure per questo, con tremore. Ho incontrato subito una fiducia che mi ha rincuorato e continuo a conservarne un grato ricordo, anche se soltanto ora lo esprimo.

Il contatto più diretto con la realtà viva dell’Istituto ha fatto crescere in me la convinzione sul valore e l’attualità dei principi ispiratori e degli insegnamenti del nostro Padre Allamano. Capisco quanto sia pertinente la sua intuizione carismatica di un Istituto che abbia per principio la «unità di intenti» e quanto sia vero che si lavora invano se si va per conto proprio, costruendo sé stessi, più che un progetto di Istituto e di Missione. È il mio augurio e la mia preghiera.


Alessandro e Orazio
(parrocchia di Onigo -Tv) per i 40 anni di vita sacerdotale

Nell’itinerario della vita di padre Gottardo, emerge con forza e da sempre la sua grinta gioviale, vivace, profonda e intensa… Il suo pensiero teologico e pastorale ha la profondità e la ricchezza dei grandi Padri. Professore di materie liturgiche nelle facoltà pontificie di Roma, non ha fatto di questa sapienza l’unico centro di una vita, ma ha saputo andare oltre, immergendosi nelle più svariate competenze di pastore, superiore, formatore, postulatore con la propria famiglia religiosa e non solo; senza mai staccarsi dall’impegno e nella donazione verso i fratelli con una solida e costante preghiera. Con tutto questo sa costruire il braccio orizzontale della sua croce nel servizio missionario, quel saper fare organizzativo che serve a fare il bene… bene! Come il suo maestro il beato Giuseppe Allamano ha tramandato.

La capacità di p. Gottardo è quella di saper dosare e usare con particolare armonia ed equilibrio voluminosi libri, calici preziosi, preghiere profonde, uniti ad una capacità insolita di ascoltare e farsi ascoltare, con la saggezza di un «vero maestro di vita». Questo modo di essere lo rende un personaggio speciale, frizzante, libero, con la battuta sempre pronta e soprattutto sempre disponibile in ogni emergenza, sapendo donare fiducia e facendo aumentare la speranza nell’ambiente in cui si trova, in un vero abbandono alla grazia e alla volontà di Dio, senza riserve.

Auguri P. Gottardo, ti siamo tutti vicini con il cuore e la preghiera.


padre Piero Demaria
(ai funerali del 23 ottobre 2020)

Nel ricordo, nel pensiero, nell’affetto, chi è già partito per l’aldilà continua a vivere. Mi dicevano che p. Gottardo, quando celebrava qui, nel suo paese, la sua voce tuonava in chiesa ed era bello ascoltarlo, perché sapeva andare all’essenziale. Il nostro fondatore era solito dire, parlando ai giovani in formazione, battendo quattro dita sulla fronte: «datemi questo!». I più lo interpretavano come: «Datemi la vostra volontà e accettate l’obbedienza», ma qualcuno, più acuto, interpretava quel gesto come: «Datemi la vostra intelligenza, cioè mettete la vostra testa a servizio della missione, non usatela per diventare ricchi e potenti, ma mettetela a servizio dei popoli del mondo»… E questo, p. Gottardo lo ha fatto. È stato un grande missionario perché ha saputo amare le persone e il suo lavoro. Normalmente, siamo abituati ad associare alla parola «missione» la partenza per terre lontane, la condivisione della vita con i popoli; p. Gottardo è vissuto quasi sempre in Italia; eppure la sua attività, la sua passione, il suo insegnamento hanno lasciato un segno. Giovane studente all’università Urbaniana, era stato chiamato per lavorare alla riforma liturgica, dopo il Concilio, e aveva sostenuto la necessità di tradurre i testi liturgici, in modo che la gente potesse ascoltare il Vangelo nella propria lingua. Ma tutto ciò non era scontato, anzi, molti si erano anche opposti, eppure, p. Gottardo e gli altri che lavoravano con lui sono andati avanti, senza paura. Per 40 anni ha insegnato all’università Urbaniana a studenti provenienti dai cinque Continenti. Con il suo impegno, senza lasciare l’Italia, ha fatto del bene a tutti…

«Influencer» di santità

E così, anche padre Gottardo Pasqualetti ci ha lasciati improvvisamente in questo infelice tempo del coronavirus che ci aveva portato via, pochi mesi fa, un altro «esperto» dell’Allamano, padre Francesco Pavese (che abbiamo salutato proprio da queste pagine). Se ne è andato in punta di piedi, lasciando col cuore gonfio di tristezza la famiglia dei missionari e missionarie della Consolata, che ne rimpiangono l’intensa vita, tutta dedicata alla Liturgia e all’insegnamento, ma soprattutto alla postulazione della causa del nostro padre fondatore e della nostra sorella Irene Stefani.

E, avendo celebrato, proprio il 7 ottobre scorso, il trentesimo anniversario della beatificazione dell’Allamano, sfogliando l’album di quella festa di famiglia del 1990, non possiamo, ora, non soffermarci, con nostalgia, su una immagine nella quale padre Gottardo, proprio in veste di postulatore, salutava e ringraziava, a nome nostro, il santo papa Giovanni Paolo II.

Postulatore, o meglio, «Influencer»

Brillante nella sua intelligenza, padre Pasqualetti (Dino, per gli amici) era riuscito a svolgere numerosi e importanti incarichi di responsabilità, che sembravano ritagliati su misura proprio per lui; incarichi che lui caratterizzò con la sua straordinaria capacità di lavoro e da doti non comuni: professore di vasta e profonda cultura liturgica; oratore capace di incantare con la sua travolgente parola; «segretario» o presidente di assemblee, che riusciva a disincagliare dalle secche della discussione con la sua capacità di sintesi, «colorata» da un’ironia furba e mirata; missionario (ahimè, solo in patria) dallo sguardo lungimirante e realista al tempo stesso…

Doti e doni profusi soprattutto nel suo incarico di «Postulatore generale», anche se pochi, forse, sanno chi sia e cosa faccia un postulatore. Per usare, allora, un termine più alla moda (in inglese, come sempre!), potremmo definire padre Pasqualetti come «Influencer» (!), cioè «un professionista dotato di carisma, autorevolezza, competenza, capace di “influenzare” e convincere il suo pubblico» (così si legge nel dizionario delle «nuove professioni»). Per capirci: il giovane Carlo Acutis, beatificato pochi mesi fa, ad Assisi, è stato definito, in alcuni titoli di giornale, «L’influencer di Dio».

E chi, meglio di padre Pasqualetti, con tutto il suo bagaglio di straordinarie doti potrebbe essere ricordato come «influencer di santità»? Colui che ha saputo «scaldare il cuore» di tanti, in un settore di cui era diventato specialista: quello della santità, o meglio, di «santi e beati» concreti, come l’Allamano, Irene Stefani, o gli altri quattro «servi di Dio», candidati alla gloria degli altari e di cui seguiva la causa.

Trasformato… dai santi

Fu, dunque, postulatore in due differenti periodi (1989-2002 e 2014-2016), quando riuscì a offrire ai missionari e missionarie della Consolata l’immensa gioia della beatificazione del loro fondatore, che egli non solo ammirava con amore appassionato, ma di cui aveva talmente assorbito le sfumature di santità, da saperle trasfondere agli altri, raccontando e scrivendo di lui in mille modi e nelle occasioni più diverse. Un discepolo, trasformato e arricchito dalla frequentazione quotidiana di colui che aveva scelto come maestro e padre.

La stessa cosa avvenne con l’avvicinamento, la scoperta e lo studio di suor Irene Stefani (beatificata in Kenya, il 23 maggio 2015), come ci ha raccontato madre Simona, superiora generale delle missionarie della Consolata, alla notizia della scomparsa di padre Pasqualetti: «Aveva svolto questo compito di postulatore non solo con competenza, precisione, attenzione, costanza e dedizione, ma con vero amore, passione e tanta, tanta fraternità. Ha aiutato i due istituti a riscoprire e valorizzare la figura di Irene e l’espressione del nostro carisma in lei, con tratti così propri e originali. Ha non solo studiato Irene, ma ha camminato con lei, l’ha incontrata e da lei si è lasciato trasformare. Era evidente la relazione di autentica prossimità tra padre Pasqualetti e suor Irene: quando lui la nominava, si illuminava, si appassionava e non avrebbe mai finito di parlarne. La fede, la tenacia, la convinzione di padre Pasqualetti hanno contribuito grandemente e in modo decisivo al riconoscimento sia delle virtù eroiche della beata Irene, sia dell’autenticità del miracolo di Nipepe, che ha aperto la porta alla sua beatificazione. Lo abbiamo visto, padre Pasqualetti, durante la beatificazione, a Nyeri: felice, radioso, commosso, grato… contagiava gioia a chi lo incontrava!

Quando già la malattia faceva sentire i suoi effetti, ricordo un incontro con lui in Casa generalizia Imc a Roma: al nominargli suor Irene, padre Gottardo si animava tutto, cominciava a parlarne, a ricordarne le parole, i gesti, l’evento della beatificazione… e lo faceva con viva partecipazione e gioia: Irene era nel suo cuore e lui, certamente, nel cuore di Irene!».

Il traguardo

È bello, allora, continuare a ricordare padre Pasqualetti che, affascinato dalla santità di Giuseppe Allamano e di suor Irene, ne fu così trasformato, da diventarne un vero influencer, presentandoli come un grande dono che Dio ha fatto alla sua Chiesa, alla missione e ai popoli del mondo.

E ora che i suoi occhi hanno cominciato a scoprire, senza più bisogno di meticolose ricerche o processi canonici, il volto sorridente dell’Allamano, non mancherà, senz’altro, di chiedergli una piccola spinta, «un aiutino», perché dalla «penultima tappa» del suo lungo e sofferto cammino verso la santità, possiamo presto arrivare all’ultima, al traguardo, perché lui, il nostro amato Fondatore, possa entrare nella gloria (ufficialmente riconosciuta) dei santi del cielo.

padre Giacomo Mazzotti

 




Da Saulo di Tarso a Paolo apostolo


Nel nostro cammino di rilettura degli Atti degli Apostoli siamo giunti al colpo di scena che imprimerà agli Atti un percorso nuovo. Entra in scena Saulo di Tarso, incontrato solo di sfuggita in At 7,58; 8,1, prima della sua conversione.

Ci si potrebbe aspettare che con lui finalmente l’azione si allontani da Gerusalemme, si apra al mondo intorno. In effetti sarà così, ma con un percorso meno lineare di quanto potremmo immaginare. Da una parte, l’apertura al mondo non ebraico è già iniziata, sia pure in modo sfumato, con il battesimo di samaritani ed eunuchi (At 8), che non facevano parte del popolo ebraico e anzi erano spesso visti come persone da evitare a qualunque costo (i samaritani), ma che, agli occhi di un non ebreo, erano probabilmente difficili da distinguere. Dall’altra, il primo a battezzare un pagano sarà Pietro (At 10,48). Ma anche il racconto della conversione di Paolo non è un semplice colpo di scena: aggiunge ricchezza, profondità e raffinatezza al discorso.

Tre racconti

Per questo brano ci troviamo davanti a tre versioni del medesimo avvenimento. Sono dei «doppioni» secondo uno stile che talora si trova già nell’Antico Testamento e, più diffusamente, nei vangeli sinottici. È ben raro, però, che si trovino all’interno dello stesso libro, e quando succede è per ragioni ben precise. Saranno queste ragioni, quindi, che indagheremo, anche perché il procedere di Luca è tanto preciso e puntuale che fa sembrare strane queste ripetizioni.

  • Il primo racconto in cui si narra del cambiamento di Saulo è l’unico che è narrato dall’esterno, come da un osservatore, e che è posto al momento cronologico esatto in cui è accaduto (At 9). Saulo sta andando a Damasco per perseguitare i cristiani quando splende una luce, parrebbe soltanto per lui, e si sente una voce che però i compagni di viaggio di Saulo non riescono a comprendere. Diventato cieco, Paolo è accompagnato in città, dove incontra Anania, un cristiano affidabile la cui resistenza è vinta a fatica da Dio, che lo guida a guarire e lo battezza.
  • Il secondo racconto è al capitolo 22. Paolo (non più Saulo) è giunto a Gerusalemme per portare la colletta raccolta nelle chiese del Mediterraneo orientale, ma viene attaccato nel tempio e accusato di blasfemia, creando un tale subbuglio che la pattuglia romana interviene e lo porta via, probabilmente con l’intenzione di flagellarlo e interrogarlo. Paolo, a questo punto, si svela come personaggio cosmopolita e importante, che parla in greco al centurione e poi racconta la propria vicenda alla folla «in lingua ebraica» (At 21,40: in realtà doveva trattarsi di aramaico, ma la confusione tra le lingue era comunissima). In questa versione – narrata dallo stesso Paolo – coloro che camminano con lui vedono la luce ma non sentono la voce, e Anania sembra decisissimo nella propria missione, lo guarisce senza toccarlo e gli spiega nei dettagli ciò che compirà nella chiesa.
  • Il terzo racconto è al capitolo 26. Paolo, arrestato e in attesa di essere inviato a Roma, perché si è appellato alla possibilità di essere giudicato da un tribunale per cittadini romani, viene convocato quasi per svago dal procuratore Festo e parla anche davanti a Erode Agrippa II, esperto di questioni ebraiche. A lui Paolo presenta la propria vicenda con tanta passione da spingere il re alla battuta: «Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!» (At 26,28). In questo racconto pare che tutti vedano la luce, la voce che gli parla cita la scrittura (a differenza che negli altri due testi) e non c’è traccia di Anania, ma è la voce udita sulla strada per Damasco a spiegargli anche la sua missione futura.

Perché queste differenze?

Un brano ripetuto più volte serve normalmente a ribadirne l’importanza. Inoltre ripeterlo più volte può anche aiutare a suggerire al lettore quali dati siano davvero centrali. Se in un passo Paolo vede una luce e gli altri no e in un altro tutti la vedono, se in uno sentono la voce e nell’altro no, significa che questi particolari non sono decisivi. Se Anania compare in due versioni, se ne ricava che è importante ma non essenziale.

A tornare in tutti e tre i brani sono soltanto tre elementi (non sempre nella stessa forma): l’intenzione bellicosa di Paolo nell’andare verso Damasco, l’apparizione di Gesù e soprattutto la sua parola con la quale si identifica con la Chiesa, e la missione futura di Paolo.

Il primo di questi elementi può essere più immediatamente intuito anche da noi. Paolo rivendica il fatto di non essersi inventato tutto, perché, anzi, era tanto lontano dal diventare cristiano che piuttosto stava perseguitando i credenti.

Incontrare Gesù nella Chiesa

Sulla strada, però, gli accade qualcosa di straordinario. Un inciampo nel percorso, che lo costringe a fermarsi e a ripartire con un’altra consapevolezza. Al centro dell’inciampo uno sconosciuto che gli parla con voce severa: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4; 22,7; 26,14). La domanda sembra richiamare quella con cui Dio aveva chiamato un giovanissimo Samuele, ignorante di Dio ma destinato a essere un sacerdote e profeta importantissimo, che avrebbe unto re prima Saul e poi Davide (1 Sam 3,10). E il verbo «perseguitare», ripetuto anche al versetto dopo, con insistenza, potrebbe anche significare «inseguire, perseguire». Sembra quasi che Luca si diverta a dire che colui che sembrava voler cancellare dalla faccia della terra il nome cristiano, in realtà stesse faticosamente e insistentemente cercando l’incontro con Gesù.

L’antichità non indulge facilmente alle ricostruzioni psicologiche, ma pare veramente che qui Luca sia in piena sintonia con sant’Agostino che, tre secoli più tardi, scriverà la prima vera autobiografia spirituale di un cristiano spiegando in questo modo il suo tentativo di tenersi lontano da Dio: «Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha squarciato la mia sordità. Hai mandato un baleno, e il tuo splendore ha dissipato la mia cecità» (Confessioni, 10,27.38).

Per la prima volta insicuro e spiazzato, Paolo chiede alla voce di identificarsi: «Io sono Gesù, che tu perseguiti». Si potrebbe obiettare che Paolo non perseguitava Gesù: lo considerava anzi già morto. Ma il cuore dell’incontro è proprio lì: in qualche modo (in quale modo non ci importa, Luca ci invita a non fermarci sui particolari) Paolo intuisce, su quella strada, che Gesù si identifica appieno con i suoi fedeli, che è presente in mezzo a loro, in loro, e che perseguitare loro significa perseguitare lui. Ma se Gesù, dopo la morte, è presente in mezzo a loro, è dunque Signore della morte, l’ha vinta. E solo Dio può vincere la morte, non evitandola (come gli antichi immaginavano che facessero gli dèi greci) ma attraversandola.

E a questo punto il Signore che si è identificato con la sua Chiesa si ritira nuovamente, o per meglio dire, ritorna alla sua presenza più nascosta. È intervenuto in modo grandioso, «da Dio», per bloccare Saulo, ma non completa la sua opera. Dovrà essere un cristiano, vincendo anche la propria paura (At 9,13-15), ad andare da Saulo, a decidere di fidarsi di questa conversione, ad annunciargli ciò che dovrà patire e fare per Gesù, a guarirlo. E dovrà essere la comunità cristiana di Damasco, a sua volta, a dover decidere di fidarsi e poi a salvarlo facendolo scappare di nascosto dalla città e dalle insidie dei nemici che Saulo si è di nuovo suscitato (At 9,19-25). E dovrà poi essere la comunità cristiana di Gerusalemme a decidere di fidarsi di quello che un tempo la perseguitava, e un cristiano, Barnaba, a fare discernimento decidendo di introdurlo nelle riunioni dei fratelli (At 9,26-28).

Luca pare dirci che Gesù è presente nella sua comunità, si identifica con essa. E può persino decidere di assisterla in modo prodigioso, intervenendo con un miracolo stravolgente. Ma è un’eccezione, non la norma: subito dopo torna a «nascondersi», a offrirsi nella comunità, che a volte agisce in modo compatto e quasi anonimo, a volte tramite alcuni rappresentanti individuali (Anania, Barnaba), ma sempre porta avanti l’opera di Gesù, che può dire: «Io sono loro, loro sono me».

Debolezza e continuità

Forse c’è anche altro che Luca intende suggerirci con i tre, insistiti, racconti del cambiamento di mentalità di Paolo (è questo il significato più autenticamente biblico del vocabolo «conversione»).

Nel primo racconto, al cap. 9, freme strage, è incaricato dal sinedrio con lettere ufficiali ed è accompagnato da una scorta, è insomma un uomo nel pieno possesso delle proprie forze. Negli altri due, ai capitoli 22 e 26, Paolo è imprigionato ma si difende con sicurezza e orgoglio. Eppure l’incontro con Gesù lo svuota di ogni pretesa, lo lascia ammutolito e cieco, costretto a farsi prendere per mano per lasciarsi accompagnare alla meta. E poi, ancora, l’incontro con Gesù lo risanerà e gli darà la forza di riprendere a parlare e a predicare con grinta.

Ma la sua fragilità non è dimenticata per sempre: da Damasco deve scappare di nascosto, a Gerusalemme di nuovo la sua attività gli attira ostilità tali che i fratelli decidono di rispedirlo a Tarso (At 9,30). E siccome Luca ci ha già fatto intuire che la comunità cristiana non è immune da divisioni interne (At 6,1 e tutto ciò che segue), non sembra impossibile qui vedere un’attività paolina che suscita fastidio anche in alcuni cristiani, perché troppo lontana da quella politica di appianamento delle tensioni che sembra valere per i cristiani galilei che si sono fermati nella capitale, che stanno vicino al tempio, che lo frequentano ogni giorno (At 2,46; 3,3; 5,42).

Questa avversione che Paolo suscita la ritroveremo anche più avanti, quando diventerà il grande missionario delle genti. Perché Paolo è persona decisa, travolgente, che di solito non si ferma a mediare ma va diritto verso la meta che intuisce. E l’incontro con Gesù non lo cambia, semplicemente gli dà una nuova direzione.

Mentre parla della Chiesa, Luca sembra aggiungere informazioni riguardo alla vita cristiana, che è incontro personale con Gesù ma sempre comunque mediato e perfezionato dalla Chiesa, anche se le modalità sono diverse per ognuno. Un incontro nel quale la nostra identità non viene stravolta, ma semmai compiuta, perfezionata e orientata verso l’obiettivo che non rende i nostri sforzi vani. E in questo ri-orientamento siamo perfezionati e accolti come siamo veramente, nella nostra autenticità e fragilità, con le nostre doti e difetti. Fa parte di questa chiamata la capacità di sopportare anche tempi che umanamente dovremmo definire di fallimento. Saulo, ad esempio, partito per Gerusalemme a studiare per diventare un grande rabbino, dopo aver acquisito potere e autorevolezza davanti al sinedrio, era entrato nella comunità che perseguitava, ma non è riuscito a mantenere il proprio ruolo, e se ne è tornato, mortificato, nella propria patria. Sarà chiamato a grandi cose che già sono state promesse, perché Dio guarda lontano, ma nulla di tutto ciò si vede ancora. La promessa di Dio, però, non cade invano.

Angelo Fracchia
(10 – continua)




Quantitative easing (il mondo alla rovescia)

Testo di Francesco Gesualdi


Può sembrare noiosa e incomprensibile, ma l’economia condiziona le nostre vite e l’integrità dell’ambiente. Anche su tematiche complesse come quelle monetarie noi cittadini dovremmo essere più attenti e preparati. Per non lasciare che vincano sempre il mercato e gli speculatori. Come sta accadendo.

Le questioni monetarie continuano a perseguitarci e sono piuttosto noiose perché non hanno come obiettivo la nostra felicità, ma la sopravvivenza del mercato. Tuttavia, siamo costretti ad occuparcene prima di tutto per una questione di democrazia. Il sistema vorrebbe tanto che considerassimo l’economia così noiosa e incomprensibile da gettare la spugna. Ma, se lo facessimo, finiremmo per diventare dei pupazzi totalmente  nelle mani dei mercanti, che a seconda dei loro calcoli di guadagno, ora ci metterebbero in scena, ora ci getterebbero nella pattumiera come stracci vecchi. È proprio il fatto che l’economia condiziona così tanto la nostra vita e l’integrità del Creato, la seconda ragione per cui dobbiamo non solo vigilare, ma pretendere di assumerne il comando.

Le banche centrali e la moneta in circolazione

Questa volta l’espressione da esaminare è quantitative easing, due parole così enigmatiche da indurre alla fuga ancor prima di qualsiasi tentativo di decriptazione. Per capire, invece di andare dritti sul coperchio della pentola per vedere cosa c’è dentro, partiamo dall’apparecchiatura. Di scena sono le banche centrali, le istituzioni che stanno al vertice delle monete in circolazione, eccezion fatta per le criptovalute che al momento conviene lasciare da parte. Nel caso del dollaro, la Banca centrale è la Fed, abbreviazione di Federal Reserve. Per l’euro è la Bce, la Banca centrale europea (già più volte protagonista di questa nostra rubrica). Quando avevamo la lira era la Banca d’Italia.

Una delle principali funzioni delle banche centrali è la gestione della massa monetaria, una questione piuttosto delicata perché la quantità di moneta in circolazione oltre ad avere ricadute sul livello dei prezzi, riduce o favorisce consumi e investimenti e quindi la crescita o il rallentamento dell’intero sistema produttivo. Per capire come la disponibilità di denaro freni o attivi consumi e investimenti, basta pensare a noi stessi: se inaspettatamente troviamo dei soldi lasciati nel cassetto da uno zio morto possiamo fare acquisti a cui non avevamo mai pensato. Se al contrario perdiamo il portafogli, siamo costretti a cancellare spese anche molto importanti. Con ripercussioni sulle aziende produttrici: positive se ci ritroviamo con più soldi in tasca, negativi se ne perdiamo. Di qui la regola generale: si espande la moneta quando si svuole stimolare l’economia, si restringe quando si vuole raffreddarla.

Va anche precisato che l’espansione o la restrizione della massa monetaria non passa necessariamente attraverso la creazione o la distruzione di moneta, ma più semplicemente attraverso operazioni di sequestro e di rilascio di moneta attraverso un polmone monetario costituito presso la  Banca centrale. Al bisogno, però, si può attivare l’espansione anche attraverso la creazione di nuova moneta.

Politiche monetarie: creditizie e fiscali

I canali a disposizione della Banca centrale per immettere o ritirare moneta dal circuito economico sono tre: il sistema bancario, la borsa valori, il governo della nazione. Le strategie utilizzate nei confronti del sistema bancario riguardano le riserve e il tasso di interesse. Le riserve si riferiscono all’obbligo imposto alle banche ordinarie di accantonare presso la Banca centrale una quota delle loro disponibilità. Il tasso di interesse si riferisce al prezzo richiesto per i rapporti di debito credito intercorrenti fra Banca centrale e banche ordinarie. Prezzo che poi si ripercuote a catena anche sui rapporti che le banche hanno con i propri clienti. L’innalzamento delle riserve riduce le disponibilità delle banche che quindi si traduce in una riduzione della massa monetaria. Al contrario, una riduzione delle riserve si traduce in una maggiore disponibilità delle banche e quindi in una crescita della massa monetaria. Anche l’aumento del tasso di interesse fa da freno alla massa monetaria in circolazione perché, se il credito costa di più, si riduce il numero di coloro che lo richiedono. L’operazione contraria ovviamente conduce all’effetto opposto.

Il rapporto con la Borsa consiste in operazioni di acquisto e vendita di titoli da parte della Banca Centrale. Se acquista titoli immette moneta nel sistema, se vende titoli rastrella denaro. Il terzo canale è il rapporto col governo e funziona praticamente in una sola direzione, che è quello di immettere denaro nel sistema economico. Lo fa finanziando spese a deficit, ossia non coperte dal gettito fiscale.

Per riassumere, dunque, le vie classiche di gestione della massa monetaria comprendono il canale privato e il canale pubblico. Il canale privato basato sul costo del denaro e su meccanismi di sequestro e rilascio del denaro circolante. Il canale pubblico basato sull’immissione di nuova moneta. E, da un punto di vista lessicale, gli interventi tramite il canale privato sono definiti «politiche monetarie creditizie», articolate in regolazione delle riserve, regolazione del tasso di interesse, operazioni di mercato aperto (operazioni di Borsa). Gli interventi tramite il canale pubblico sono definite «politiche monetarie fiscali» e consistono essenzialmente nel finanziamento di spese tramite emissione di nuova moneta.

Dal pubblico al privato

Questa era l’impostazione classica in vigore nel secolo scorso. Ma gradatamente, già sul finire del secolo, si è assistito ad un ridimensionamento del canale pubblico e un potenziamento di quello privato. Spostamento non casuale, ma figlio del cambio ideologico in atto in tutto il mondo, a sua volta figlio del cambio dei rapporti di potere avvenuto fra sfera pubblica e sfera privata. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, le imprese si sono fatte sempre più agguerrite fino ad imporre il trionfo assoluto del mercato. Quanto alla sfera pubblica è stata relegata al ruolo di garzone, il giovane di bottega che deve limitarsi a fare le leggi gradite al mercato e a gestire i servizi indivisibili come l’ordine pubblico, la giustizia (rapida per permettere ai mercanti di risolvere rapidamente i loro contenziosi), la difesa dei confini, facendo ben attenzione a non occuparsi mai di servizi che il mercato vuole per sé come sanità, scuola, acqua, strade. Un disegno che ha avuto la sua massima espressione nell’Unione europea, allorché ha affidato la gestione della moneta unica a una Banca centrale autorizzata ad interagire unicamente col settore privato. Il divieto imposto alla Banca centrale europea di prestare ai governi anche un solo centesimo, è stata la mazzata finale data ai governi per svuotarli di qualsiasi possibilità di intervento in campo economico e ridurli alla stregua di gelidi amministratori di condominio che, se si azzardano a prevedere una pur minima spesa straordinaria, non hanno altra possibilità di finanziarla se non indebitandosi con le banche private in cambio di lauti tassi di interesse.

Altrove non si è osato altrettanto. In Giappone, Stati Uniti, Gran Bretagna, le banche centrali continuano ad avere fra i propri scopi il sostegno ai governi per il raggiungimento della piena occupazione e dello sviluppo sociale. Ma, nella pratica quotidiana, anche in questi paesi si sono affievoliti gli interventi tramite i governi mentre si son potenziati quelli tramite il canale privato. Addirittura, si è consentito al canale privato di godere di prerogative che, in passato, erano riservate all’ambito pubblico. Stiamo parlando di interventi realizzati con moneta creata ex-novo. Ed è proprio questo il «quantitative easing» che alla lettera significa «allentamento quantitativo»: l’acquisto di titoli presso le banche e la borsa valori con moneta coniata di fresco con lo scopo di aumentare la base monetaria circolante nel sistema.

Se i benefici sono ipotetici

Un cambio di strategia apparentemente innocuo, in realtà gravido di conseguenze sia in termini politici che pratici. Sul piano politico è la proclamazione del mercato a gestore principe dell’economia. Sul piano pratico è l’anteposizione dell’interesse degli speculatori su quello dei cittadini. Quando la creazione di nuova moneta era al servizio dello stato per permettergli di finanziare nuovi servizi e creare posti di lavoro, i beneficiari diretti erano i cittadini e i disoccupati. Oggi che è al servizio di banche e Borsa, i beneficiari diretti sono gli speculatori. Certo della maggior disponibilità di denaro possono approfittare anche gli imprenditori per effettuare nuovi investimenti e quindi creare posti di lavoro. Però la disponibilità di credito è condizione necessaria ma non sufficiente per nuovi investimenti. Parallelamente servono sbocchi di mercato che il quantitative easing non garantisce. Diverso è per lo stato che producendo gratuitamente per i propri cittadini, non ha mai il problema di doversi procacciare i clienti. Per questo l’uso dello stato come canale di immissione di nuova moneta procura alla cittadinanza benefici certi, mentre il quantitative easing ne procura solo di ipotetici.

Il primo paese a sperimentare il quantitative easing fu il Giappone nel 2001: l’economia ristagnava e, avendo portato i tassi di interessi già a zero, senza ottenere risultati, si illuse di poter spingere gli imprenditori a nuovi investimenti inondando il canale finanziario di denaro. Ma, nonostante una crescita del 60% della base monetaria, le cose non andarono molto meglio. Nel 2008 fu la volta degli Stati Uniti che, nel 2018, registravano una base monetaria 5 volte più alta rispetto a dieci anni prima (4mila miliardi di dollari contro 800). Nel 2015 anche la Banca centrale europea si lancia nell’acquisto di titoli con nuova moneta al ritmo di 60-80 miliardi di euro al mese. Ha continuato fino ai nostri giorni per un totale di oltre 2.500 miliardi di euro.

Un sistema prigioniero del mercato

Concludiamo parlando dei risultati concreti. Che sono discutibili sul piano del rilancio economico, vista la situazione di recessione all’orizzonte a livello mondiale. Di sicuro, è stato sostenuto il sistema bancario che, dopo la crisi del 2007, traballava sulle due sponde dell’Atlantico.

Così come è stato sostenuto il valore di molti titoli di borsa visti gli acquisti massicci delle banche centrali. Una mossa che oltre ad avere favorito i detentori di titoli, ha favorito anche i governi perché li ha messi al riparo da attacchi speculativi al ribasso che avrebbero fatto aumentare i loro tassi di interesse. Un risultato senz’altro positivo per la collettività, ma la collettività ci avrebbe guadagnato molto di più se quella stessa massa monetaria fosse stata utilizzata per liberare i governi dai loro debiti nei confronti delle banche.

In più c’è da dire che l’inondazione del sistema con denaro fresco ha reso il mondo più insicuro da un punto di vista finanziario. Infatti, l’alta disponibilità di credito a buon mercato ha indotto molti fondi d’investimento a procurarsi in Occidente denaro a basso costo per prestarlo a interesse molto più alto a entità africane, asiatiche, latino americane. Tanto che, se nel 1995 il debito dei paesi emergenti rappresentava il 10% del debito complessivo mondiale, oggi è al 28%. Una situazione pericolosa che potrebbe rappresentare la prossima miccia d’innesco di una nuova crisi mondiale perché può bastare un brusco aumento dei tassi di interessi per mettere le realtà del Sud del mondo nella condizione di non poter pagare.

E si sa, quando i debitori non pagano i problemi non sono loro, ma dei creditori che rimangono col cerino in mano. Triste orizzonte per un sistema che avendo perso totalmente di vista le persone è diventato ostaggio delle follie del mercato.

Francesco Gesualdi